Bénédiction

di Love_in_idleness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***
Capitolo 19: *** IX ***



Capitolo 1
*** I ***


Love – in – idleness

Ciao a tutti ^ ^.

Questa è la presentazione del primo capitolo di Bénédiction sotto riportato, e siccome so che finirò per parlare molto vi do il permesso di saltarla, nel caso voleste.

Ma la presentazione va fatta. Vorrei darvi un paio di ragguagli per capire meglio la storia.

Qualcuno ha avuto la malaugurata idea di regalarmi Les fleurs du mal per Natale, che ispira in maniera diretta la suddetta ficcy. Infatti il titolo è spudoratamente copiato da una poesia contenuta in tale raccolta.

La storia è nata come una one-shot, e come tutte le mie one-shot finisce per arrivare a 38 pagine e 21 capitoli. Non capisco dove sbaglio…

Mi scuso dell’inconveniente che è quello di non poterla leggere tutta di seguito come credo sia giusto: infatti i primi venti capitoli hanno luogo dalle nove di sera del 21 Luglio a mezzogiorno del dì seguente. È un flusso continuativo…

A parte questo particolare troverete parecchie citazioni in lingua –specialmente francese-. Molti di voi conoscono il greco, io purtroppo no, a parte quelle due parole che imparo studiando filosofia ^///^. Se trovate errori potete avvertirmi gentilmente.

Parlo davvero tanto…

Detto questo, FINE DELL’INTRODUZIONE (Ta-dan ta-dan).

 

Bénédiction.

 

I.

 

Pluviôse, irrité contre la ville entière,

De son urne à grands flots verse un froid ténébreux

Aux pâles habitants du voisin cimitière

Et la mortalité sur les faubourgs brumeux

 

Mon chat sur le carreau cherchant d’une litière

Agite sans repos son corps maigre et galeux ;

L’âme d’un vieux poète erre dans la gouttière

Avec la triste voix d’un fantôme frileux.

 

Le bourdon se lamente, et la boûche enfumée

Accompagne en fausset la pendule enrhumée,

Cependant qu’en un jeu plein de sales parfums,

 

Héritages fatal d’une vieille hydropique

Le beau valet de cœur et la dame de pique

Causent sinistrement de leurs amours défunts.

 

C. Baudelaire, LXXV Spleen.

 

(Piovoso, irritato contro l’intera città,

rovescia a fiotti dall’urna un freddo tenebroso

sui pallidi abitanti del vicino cimitero

e la mortalità sui sobborghi avvolti nella nebbia.

 

Il mio gatto, cercando un giaciglio sopra il pavimento,

agita senza posa il corpo scabbioso e magro;

l’anima di un vecchio poeta vaga dentro la grondaia

con la triste voce d’un fantasma freddoloso.

 

La campana si lamenta e il ceppo affumicato

Accompagna in falsetto la pendola infreddata ,

mentre in un mazzo di carte dai lerci profumi,

 

fatale eredità di una vecchia idropica,

il bel fante di cuori e la donna di picche

chiacchierano sinistri di defunti amori.)

 

‘Piove.’ Mi disse semplicemente entrando nell’appartamento che avevamo affittato.

Era terribilmente zuppo d’acqua. Sembrava avesse fatto un bagno in mare tanto i suoi vestiti erano fradici e i suoi lunghi capelli mori, sempre perfettamente pettinati, scompigliati e sgocciolanti.

Mi fece una profonda tristezza.

Lo vedevo tremare. Lui non doveva tremare!

Di cosa stava tremando, poi?  Di freddo?

Non avrei mai dovuto lasciarlo tremare in quel modo.

‘Lo vedo.’ Asserii ammiccando nella sua direzione.

Anche se, sottolineo con particolare devozione, mi fece subito l’effetto di uno che non era stato sorpreso dalla pioggia, ma era stato piuttosto gettato in acqua.

Il fatto è che fui talmente stupido, così affogato nei miei perversi meccanismi celebrali e ancora totalmente immerso nel pesante ripasso dell’ultimo minuto che aveva una qualche labile parvenza di utilità ai miei occhi di studente poco puntiglioso, da non accorgermi, o non sforzarmi di accorgermi, del suo sguardo ferito, e di tutte quelle piccole espressioni quasi intangibili, leggere inclinazioni delle perfette curve del suo volto, delle quali dopo tutti quegli anni avevo imparato a menadito la fisionomia come fossero cose importanti -in effetti lo erano-, dal loro significato tutto speciale, velato e catastrofico.

Non ho mai imparato a stare attento alle piccole cose.

Mi accontentavo, allora più che mai, di dettagli grossolani che potevano indurmi in qualche modo alla risoluzione pressappochista del caso, senza pretese elevate o profondamente intrise di spiritualità, concetti elati o semplicemente un po’ di filosofia spiccia, insomma, quello di cui la gente ha bisogno per trascendere un po’ alla banale quotidianità e rozzezza di costumi.

Seguitemi bene: fu proprio questo mio “pressappochismo” a condurci alla disperata ricerca di quella notte che non ho la voglia, il coraggio, né la crudeltà di dimenticare.

‘No. Non hai capito. Piove.’ Ripeté con quel suo tono piatto e molto basso, quello che usa sempre quando è sopraffatto da correnti gelide nel cuore che nemmeno lui, con tutta la sua buona volontà e la sua spiccata intelligenza, riesce ad arginare.

Non riusciva nemmeno più a nasconderlo al sottoscritto. Avevo acquisito una stupefacente conoscenza del significato mascherato in ogni suo gesto, ogni suo sguardo ed ogni sua parola, e l’avevo fatto assorbendo tutto ciò per abitudine, soltanto perché lo vedevo infinitamente riprodotto ogni benedettissimo giorno che trascorrevo in sua compagnia. Era come se il mio cervello elaborasse automaticamente questi elementi, ed automaticamente mi fornisse le indicazioni del caso e i suggerimenti sul come trattare con guanti di velluto la sua anima così fragile da potersi spezzare ed andare in mille frantumi se solo non avessi avuto l’accortezza di essere gentile e fargli percepire tutto il mio calore e il mio sostegno affettuoso.

Avevamo un bisogno quasi fisico.

Mentre rientravo dal bagno con un grande asciugamano pulito mi accorsi che non pioveva affatto.

Fu una consapevolezza che mi colpì nettamente e con una sconcertante fitta nello stomaco, come se questo avesse fatto una capovolta nella mia pancia che sobbalzava.

Perché, se non pioveva, lui era così bagnato, fino al midollo?

Rientrando in camera aprii la bocca per chiedere una qualsivoglia spiegazione sensata al fatto che lui fosse entrato sgocciolando sulla moquette azzurra di casa quando era una bellissima serata di fine Luglio, le stelle splendevano nel cielo terso, e non c’era nemmeno una nuvola a minacciar tempesta.

E finalmente, quando lui si avvicinò col suo passo felpato e sensuale posandomi l’indice della sua mano destra sul labbro per pregarmi di tacere –è già doloroso abbastanza, sentivo vibrare nell’aria il suo monito disperato- io vidi il rossore dei suoi occhi gonfi e quanto erano profondamente intrisi della tristezza indicibile che l’aveva sempre sovrastato.

‘Devi fare un bagno…’ Sussurrai. La sua mano era sempre accostata alla mia bocca.

‘No, ho davvero bisogno di parlarti.’

‘Su. Ci metti cinque minuti.’ Paradossalmente la mia voce tremava più della sua. Era spaventosa, a sentirsi, o così mi appariva. Faceva trapelare quella sottile debolezza che era sempre stata mia propria, ed era l’incapacità di reagire, di spronarmi, il momento in cui le disgrazie mi piombavano addosso con tutta la loro invereconda pesantezza di macigni.

Che poi ci fosse lui a darmi l’incipit era un altro discorso.

Alla fine era tutto riconducibile alla stessa snervante realtà, al fatto che io senza di lui non andavo da nessuna parte, e lui senza di me non avrebbe resistito all’irrefrenabile desiderio di farla finita.

Oh, sì, era un passionale! Affrontava la vita con una veemenza, con un interesse così vivo e pulsante, inestinguibile nel bene e nel male.

Quello che faceva, lo faceva mettendoci l’anima. Ed era chiaro come il sole che non poteva reggere a lungo il momento in cui le cose gli sfuggivano di mano e l’anima razionale veniva bruscamente surclassata dalla sua parte desiderante, l’epithymetikòn come ce lo descrive brillantemente Platone, lasciandolo in completa balia delle proprie emozioni e dei propri istinti distruttivi.

In fondo è di questo che si parla.

Degli istinti di autolesionismo così sfacciatamente spiccati in Giulio.

Avete presente quel mito poetico dell’auriga, sempre di Platone? Per me Platone è il filosofo più poetico, con le sue idee, che la storia ricordi. Ma non sta a me farvi un excursus sulla teoria dell’intelligibile. Quello che vi voglio dire è che, tracciando le fila dell’orientamento animistico del mio caro Giulio, il suo carro allegoricamente figura dell’anima, tende paurosamente verso il basso mondo dei sensi.

Io non arriverò mai a capire quanto spropositatamente amplificate lui avverta le cose che lo scalfiscono anche in maniera superficiale, ma di certo non è il modo umanamente codificato.

Non è un bene.

Non lo è affatto.

E’ la sua sciagura, se me lo concedete, perché vuol dire che sarà sempre costantemente incatenato alla miriade di sensazioni prorompenti come un fiume in piena che lo distruggono. Io credo nel potere delle sensazioni, e vedere Giulio immerso completamente nel suo stato di trance onirica, di spaventoso abbandono -come se la sua mente abbia costretto il suo corpo a subire una sincope per il dolore che, avvelenandogli il cuore, è diventato troppo grande persino per la sua ragione acuta e penetrante- è una cosa spaventosa e mi ferisce ogni volta come non mai.

Perché, alla fine, è come ammettere che non mi sono dedicato abbastanza alla sua salvezza interiore.

‘Henka…’ Mi ridestò dalle mie amare congetture con la voce di chi era contento.

Non mi fidavo della sua proverbiale arte recitatoria. Mi stava semplicemente imbrogliando, lo sapevo bene, glielo leggevo negli occhi chiari e stanchi.

Mi rialzai dal letto sul quale mi ero sdraiato nel tentativo di concentrami su quello stupido libro di filologia germanica. Non è giusto dover dare degli esami ad Agosto. Oltre che essere moralmente scorretto è anche straziante per il povero studente che vede bruciata la sua rosea prospettiva di vacanza per ritrovarsi chino su volumi enciclopedici di vasta cultura altisonante.

D’accordo, sto esagerando. Io e Giulio, in effetti, eravamo in vacanza, libri alla mano. Saremmo dovuti tornare il giorno seguente.

 

 

--- Piaciuto il primo capitolo? Beh, da solo non dice molto. Spero continuerete a seguire la storia per potermi dire che la trovate interessante (ah ah! Sono molto vanitosa…)

Henka è un diminutivo che sta per Henrik. Lui è finlandese (ho rubato il nome al tastierista dei Sonata Arctica ^ ^)

Sapete, rileggendo il tutto mi sono accorta di aver commesso un errore madornale: ho lasciato che fosse Henka a narrare in prima persona, ma come fa un finlandese a parlare così bene l’italiano (mi faccio i complimenti da sola)? Boh… forse è un genio. Comunque non potevo riscrivere tutto da capo. Fate finta di nulla, per favore. (io sono anche giustificata in caso di errori: mi immedesimo nel Finlandese…)

Vorrei andare in Finlandia.

La verità è che sono molto insicura di questa storia per un mio piccolo problema tecnico ^///^: non sono un ragazzo… <-- vergognoso, non trovate? Per questo chiedo ai fanciulli sostegno morale.

Il prossimo capitolo è veramente breve e insipido, ma mi serve come introduzione, per spiegare qualche dettaglio della storia. Prometto che ci saranno capitoli più interessanti (spero).

E se a qualcuno interessasse conto di postare un capitolo ogni sabato, avvertendo preventivamente quando non sarà possibile. Mi impegnerò con serietà se me ne darete il motivo ^ ^.

A sabato, e grazie.

 

Love_in_idleness.

 

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Capitolo 2
*** II ***


Love – in – idleness

II.

L’appartamento che avevamo affittato al mare per due splendide soleggiate settimane di Luglio si trovava al primo piano di un alto edificio tipico della riviera ligure. La parte anteriore dava su una di quelle strette e maleodoranti ma tanto romantiche viuzze per le quali anche Byron soleva passeggiare immerso nei suoi delicati pensieri di poeta. La parte posteriore si rivolgeva verso un orto rigoglioso, il quale ci regalava magnifiche, abbaglianti suggestioni di Eden in quella stagione tanto torrida. E io ero immensamente grato al giardino, perché era refrigerante.

Forse avevamo davvero trovato il paradiso terrestre e ce ne stavamo in casa a ripassare filologia germanica.

Pazzi.

Pazzi suicidi.

A questo giardino vi si poteva accedere soltanto passando direttamente dalla casa. Era contornato da un semplice muro di ardesia e tra una pietra e l’altra crescevano delle brutte erbacce rinsecchite o delle pianticelle di campanule e ginestre.

Non era per niente esteso, anzi, occupava a malapena cinque metri quadrati; eppure era rigoglioso e profumato coi suoi cespugli di camelie e azalee, zinnie e giacinti, begonie dai più sgargianti colori, glicini. In un angolo soleggiato si stagliava una bella agave dalle foglie aculeate e un fico d’india, ai quali non mi avvicinavo mai. La magnolia dal tronco esile e contorto, che avrei tanto voluto veder fiorita, si manteneva all’ombra del grande oleandro dai fiori rosa pastello. Dicono che i suoi petali siano tossici.

E poi, su tutta la composizione, troneggiava il limone carico di frutti maturi.

La casa aveva una deliziosa colorazione tipicissima di uno sgargiante rosso mattone. Io adoravo le finestre strette dal davanzale di porfido chiaro, sulle quali la padrona gentile coltivava dei bei gerani bianchi in rigogliose cascate.

Certo, non era nulla rispetto alla buganvillea violetta così florida arrampicata sulla parete retrostante, o l’edera verde le cui foglie lucide e croccanti sembravano quasi di plastica, o il gelsomino odoroso, le piante di fichi, agrumi, i cespugli di mirto lussureggianti.

Ma era pur sempre l’ingresso, no?

Capisco perfettamente che fosse più spirituale il giardino, anche se devo dire che la peculiarità del carruggio, che si trasformava in normalità nel contesto in cui era inserito -ma per me, che sono un vichingo, rimaneva una ambientazione strana- mi affascinava con quello charme che possiedono tutte le cose esotiche e che ogni abitante autoctone non riesce proprio a capire del suo paese.

Tuttavia l’entrata è sempre l’entrata. Non il retro.

Se avessi voluto immergermi in un floreale universo alternativo mi sarei semplicemente seduto all’ombra, sotto una pianta. Lui no.

Giulio doveva anche entrare dal retro. E non dalla porticina sul retro, che come già detto non esisteva. Si divertiva come un bambino incosciente ad arrampicarsi sul muretto e a scavalcarlo lasciandosi scivolare sul praticello o su uno dei rami nodosi e robusti del limone, appoggiando delicatamente i piedi sull’erba.

Quello era uno dei suoi tanti modi per marcare un’ irrazionale voglia di autonomia e isolamento che certe volte lo sospingevano fino ai limiti della alienazione totale. Mi chiedeva educatamente di farmi da parte, lasciarlo stare.

Non lo capivo affatto. Non capivo il suo bisogno costante di estraniarsi dalla realtà ed immergersi nei suoi personalissimi silenzi introspettivi, permettendo alla mente di elaborare un flusso di pensieri incoerenti e sconnessi, spesso deleteri per il fisico.

Era una prospettiva stupida che sfuggiva alla mia acerba comprensione.

Ad ogni modo non si era ancora completamente dichiarato. Non è che non capissi per insensibilità. Mi mancavano un sacco di ragguagli fondamentali per sciogliere l’intricato mistero della sua anima, e ciò mi faceva rabbia. Avvertivo acuirsi il desiderio bruciante e spasmodico di potermi rendere utile, di rivelarmi ai suoi occhi come una persona sensibile e gentile, alla quale affidarsi con una fede cieca.

Potete considerarla una volontà del tutto egoistica, forse, ma mi sentivo male ogni volta che gli ripetevo col mio accento secco: ‘Tu hai un problema.’, e lui scrollava le spalle.

Probabilmente mi feriva il fatto che non mi rendesse partecipe dei suoi intimi turbamenti nonostante sapessi alla perfezione che quella era, per sperimentazione diretta, una fallimentare autodifesa nonché il suo modo di porsi nei confronti di tutto il resto del mondo.

Non mi andava di far banalmente parte di “tutto il resto del mondo”, mi sembrava un’evidenza insopportabile e negavo la realtà, che era molto più semplicemente la sua insicurezza, la sua ricerca di un momento idoneo e perfetto, la sua volontà di avvicinarsi a me e solo a me attraverso quella serie di attenzioni che mi riservava, cercando disperatamente di ignorare la sua immensa paura di bruciarsi.

Ovviamente quella sera era passato per l’orto.

Penso che se la signora che ci affittava con dolcezza materna il piccolo appartamento l’avesse visto gli avrebbe chiesto di smetterla, adducendo come scusa il pericolo che i rami di una delle sue preziose piante si sarebbero potuti spezzare sotto il dolce peso di Giulio. Ma io so che l’avrebbe fatto per puro istinto di protezione.

Le vecchiette, specialmente quelle con la crocchia canuta che allevano trentaquattro gatti maculati, sono teneramente protettive nei confronti dei giovani.

 

 

--- Vi avevo preannunciato che sarebbe stato un capitolo breve ed insipido. Prendetelo come un’introduzione, un’anticamera al resto del racconto che riprenderà a partire dal prossimo capitolo.

L’intento era farvi una descrizione dell’ambiente, capisco che non sia così interessante… poi ho divagato.

^ ^ sono stata ispirata dal mio tè alla ciliegia (si chiama “ciliegi in fiore”…) ^ ^. Ho trovato un negozietto, a Milano, che vende tè particolari e sfogliando il catalogo mi sono venute alla mente queste ambientazioni (collegamenti strani…). Ci sono un sacco di tè interessanti… pare che il tè sia oggetto di filosofia, in oriente. Se Aristotele avesse parlato di tè la mia vita avrebbe preso una piega diversa.

Perché vi parlo di questo? Per occupare spazio? Perché blatero cose insensate con costanza? Sono cautamente felice (tradotto: prossimamente verifica di tedesco).

Dite che mi sono ripetuta troppo? Ho come avuto questa impressione. Credo sia tutto un po’ confuso: @_____@.

 

Invader, rispondo qui, visto che ci sono (risposte a singhiozzo. V___V sono una casinista). Ovviamente non potevo permettermi di non rispondere, sarebbe stato decisamente scortese… 

Sono veramente felice che TU abbia apprezzato. Mi spiego? (leggasi: tuuuuuuuuu, con particolare accento sulla u). Ho avuto una mezza crisi respiratoria quando ho letto entrambi i commenti. Spero con tutto il cuore di continuare sulla stessa linea (sarebbe troppo…), ti prego, dimmi dove sbaglio (ammesso che io sbagli. Ah-ah < -- il mio lato mitomane).

Naturalmente è un invito riferito a tutti.

Devo solo dire che i miei gentilissimi commentatori mi ha fatto passare la concentrazione per quella maledetta verifica di tedesco (di per sé già praticamente inesistente). Non mi resta che pregare. Pregate un po’ per me, per favore.

Di nuovo grazie mille, a sabato prossimo ^ ^.

 

Love_in_idleness.

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Capitolo 3
*** III ***


Love – in – idleness

Qualcuno di voi ha veramente detto una preghierina per me… il mio prof di tedesco sarà in convalescenza per una ventina di giorni ^ ^

Povero… gli manderò un salame.

Sono stata salvata in extremis. Grazie a tutti coloro che hanno pregato per me.

 

III.

 

(…) Comme tu me plasirait, ô nuit ! Sans ces étoiles

Dont la lumière parle un language connu !

Car je cherche la vie, et le noir, et le nu!

 

Mais les ténèbres sont elle-même des toiles

Où vivent, jailissant de mon œil par miliers,

Des êtres disparu aux regardes familiers.

 

C. Baudelaire, LXXIX. Obsession.

 

(Come ti amerei, o notte, senza queste stelle,

il cui lume parla una lingua nota!

Poiché io cerco il vuoto, il buio, il nudo!

 

Ma le tenebre stesse sono tele

Dove vivono, sprizzando a migliaia dai miei occhi,

esseri scomparsi dagli sguardi famigliari)

 

Mi spiegò con la voce che non tradiva alcuna emozione, nemmeno la più banale.

Forse avvertivo un leggero tremito quasi impercettibile, ma avrei anche potuto ricondurlo al fatto che avesse preso tanto freddo.

Teneva i suoi begli occhi bassi fissi al pavimento.

Lo notavo perché mi stavo sforzando, anche se lui non mi guardava direttamente in faccia perché impegnato a rivestirsi.

Lo vidi indossare i pantaloni neri che gli fasciavano le gambe da modello. La maglietta leggera di cotone era decorata nella parte anteriore da un grottesco suonatore di cetra -una cetra contorta come sono gli strumenti del diavolo- che doveva essere il “Sandman”. Sapete, gli omini della sabbia. Lanciano un pugnetto di sabbia negli occhi dei bambini per farli addormentare.

Non ditemi che nessuno v’ha mai raccontato degli omini della sabbia.

Anche quella era una maglia dei Blind Guardian, e per inciso portava sul retro la scritta:

 

“Agony is the script for my Requiem”

 

Poi Giulio prese la spazzola e cominciò a sistemarsi quasi furiosamente i suoi lucidi capelli neri con colpi secchi, precisi, violenti.

‘E’ stato un caso disperato, Henka. A volerne discutere sinceramente, oltre che a esser stato imbarazzante, mi è sembrato assurdo. Così assurdo che vale la pena parlartene. Così assurdo che vale la pena ripensarci con una certa quasi inavvertibile punta di amarezza in bocca.’

‘Grazie per la considerazione…’

‘Ho incontrato mio padre.’

‘Ah.’

‘Con la mia matrigna. O quella che vorrebbe essere la mia matrigna. Mai vista prima di stasera. Mi ha detto che avrei dovuto tagliare i capelli, capisci? Una donna che pretende di insinuarsi nella intricata e già di per sé intasata trama della mia misera vita. Così, come se fosse una cosa dovuta.’ Sembrava sdegnato.

Cominciavo a capire la sottilissima linea tragicomica che l’aveva condotto alla pioggia.

Perché, se lo conoscevo almeno un po’, quello era solo un pretesto. Sì.

Giulio era fatto in maniera particolare. Non che il dolore lo ferisse più di tanto, in sé stesso. Non che le situazioni dolorose lo avvelenassero.

Quello era solo il punto di partenza che dava il via ad uno spaventoso, snaturato e crudelissimo flusso di pensieri allucinatori che lo portavano progressivamente ad erigere un pressoché insormontabile muro tra lui e la realtà. Le sue emozioni atroci non potevano che rimbalzare contro il muro e ripiombargli addosso con una pesantezza umanamente insopportabile.

Chissà qual’era stato il suo delirio, quella volta.

Mi avvicinai a lui, sedendomi sul suo letto.

Nonostante tutto era una persona piuttosto ordinata, e la sua parte di camera presentava a discapito della mia opera devastatrice una certa parvenza di dignità.

La stanza da letto all’interno era assolutamente moderna, col suo intonaco bianco, i suoi due letti comodi e morbidi da una piazza e mezza ciascuno, la grande televisione con lettore Dvd e impianto hi-fi, l’aria condizionata e le suppellettili graziose. La scrivania era una sola, ma avevamo un comodino a testa e due luminosissime lampade da comò in stile liberty, come quelle di Tiffany.

Le adoravo.

Dovrò comprare una lampada Tiffany per dormire tranquillo a casa mia.

Poi c’erano molti libri, e quadri a olio di richiamo romantico coi loro paesaggi suggestivi e malinconici. C’era una sola tela in camera, “The snow storm”, che conoscevo molto bene e che mi era rimasta impressa per la sentita forza e la mirabile resa della furia imperversante degli elementi che rappresentava.

La parete libera dalla libreria, dalle testate dei letti, dalla scrivania e dalle finestre era occupata da un armadio a quattro ante con una bella specchiera, uno di quegli armadi capienti e di buonissima fattura che avevano in casa le nonne di quelli della mia generazione.

I miei abiti e quelli di Giulio si trovavano là dentro –e sul pavimento e in ogni altro angolo della casa, soprattutto quelli del sottososcritto- tutti mescolati insieme.

Dunque mi sedetti sul suo letto –in realtà la questione dei letti era ancora tutta da chiarire- gli presi la spazzola dalle mani e cominciai a pettinarlo dolcemente.

Aveva la malsana abitudine di sfogarsi fisicamente delle sue frustrazioni, almeno un poco: quello che doveva fare, nei momenti di precaria lucidità, lo faceva con una rabbia ed un’avventatezza pericolosa, quasi come se il dolore fisico potesse per un momento coprire quello dell’anima.

E cosi si spazzolava i capelli che tanto gli invidiavo con foga brutale. Non potevo permettere che se li rovinasse, era necessario che facessi qualcosa.

Stette in silenzio mentre i miei colpi leggeri fendevano la superficie serica della sua chioma scura con tanto amore e devozione.

Poi mi chiese: ‘C’è la festa di paese oggi, vero?’

E io gli risposi di sì, e che, se non gli fosse dispiaciuto, avrei voluto andare a vedere le persone che facevano scivolare con patos carnevalesca i lumini in mare, fino a che essi non avessero formato una scia di puntini luminosissimi sulla superficie buia dell’acqua e del cielo, ed avessi constato coi miei occhi come le anime si possano effettivamente allontanare dal mondo nella maniera più commovente possibile.

Quand’ebbi finito la mia opera magistrale lasciai che si accucciasse contro il mio petto in cerca di un calore che aveva perduto da troppo tempo, e che cominciasse disperatamente parlare.

 

 

--- Secondo me è una parte noiosa. Sarà così per tre o quattro capitoli: poca storia e molte considerazioni. D’altronde dicasi introspettivo il genere che introspettisce. Geniale, eh? Mi spiace, perché leggete tre righe per volta e potreste stufarvi della monotonia dei primi capitoli. Andrebbe letta tutta d’un fiato, questa fic, anche perché non posso permettermi di eliminare queste parti. Ci sono troppi piccoli particolari che si ricollegano in fondo. Ma, forse, con tutti questi intervalli finite per dimenticarli.

I capitoli dal 3 al 6 non mi piacciono per niente. Non vedo l’ora di superarli. Sono una morte…

Rivedendo il tutto mi sono accorta che qui in Italia non esiste la favola dell’omino della sabbia. È molto diffusa nei paesi anglosassoni. Qui, invece, le mamme tormentano i bambini con le storie sui Ba-bau.

La maglia di Giulio esiste davvero, ce l’ho su un catalogo. Mi piaceva da morire, ma la cedola da compilare era tutta scritta in tedesco (T___T capisco nulla…) e le taglie partivano dalla XXXXXL. Sempre così. Ho ancora la taglia dei bambini v___v.

Ah, il vero nome del quadro citato è (ce la posso fare a scriverlo tutto… dai Marto…):

“Steam-Boat off a Harbour’s Mouth Making Signals in Shallow Water, and Going by the Lead. The Author was in this Storm on the Night the Ariel Left Harwich”

Che fantasia, ‘sto Turner… Non è tra i miei quadri preferiti, ma ce lo vedevo bene nella stanza. Se lo si guarda attentamente sembra di trovarsi davvero in una tempesta. Brrr…

 

Adesso che ho ricevuto delle recensioni positivissime (per la serie meglio di così non si può) ho paura di calare. Mi dispiacerebbe tremendamente, anche perché i giudizi vengono da persone autorevoli –che si sono persino prodigate a pubblicizzarmi T___T. Non vorrei far fare brutte figure. VI STO FACENDO FARE BRUTTE FIGURE?-. Vi ho risposto nella pagina delle recensioni, nel caso non aveste notato.

Mi sembra il minimo. Quando diventerò una persona SERIA e potente vi offrirò un caffè… una cena… un atollo polinesiano per la vostra luna di miele…

Ringrazio di cuore anche Sara che recensisce sempre. Grazie davvero, Sara. Spero che tutti i prossimi capitoli ti soddisfino. Ti prego di resistere fino al settimo.

 

Ho parlato un sacco…

A Sabato ^ ^

 

Love_in_idleness

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Capitolo 4
*** IV ***


Love – in – idleness

IV.

 

Je sais que ton cœur, qui regorge

De vieux amours déracinés,

Flamboie encor comme une forge,

Et que tu couves sous ta gorge

Un peu de l’orgueil des damnés(…)

 

So che il tuo cuore, che trabocca

Di vecchi amori sradicati,

Fiammeggia ancora come una fucina,

e che covi in gola

un po’ dell’orgoglio dei dannati.

(V, Madrigal triste II)

 

‘Volevo che tu mi capissi, Henka. È strano. È tutto tremendamente sbagliato. Il mondo non può scintillare come il paradiso e bruciarti atrocemente come l’inferno nel medesimo istante. Lo sapevi, Henka?’

Continuava a ripetere il mio nome e io continuavo a stringerlo a me.

Una folata di vento fresco notturno fece tremare le fronde degli alberi e scosse le bianche tende di voile della porta finestra lasciata aperta, riempiendo l’appartamento di gradevoli profumi di fiori e aromi mediterranei.

‘Sì.’ Gli risposi.

‘E come riesci a sopportarlo?’

Domande di un’ingenuità toccante. A volte cadeva nel paradossale.

Scrollai le spalle. ‘Io non sono così attento ai dettagli. Forse non ho semplicemente la voglia di ricercare la causa della tua sfortuna, così lascio perdere con passività. È nella mia natura, non posso farci nulla. Prendo le cose per come vengono senza crucciarmi o combattere la mia personalissima crociata contro Dio o contro l’ordine del mondo per poterne depurare le sue tragiche ed evidentissime imperfezioni. Perché è una cosa impossibile anche per te e i tuoi limiti umanamente prefissati. Non è una novità.

E poi io mi preoccupo quando c’è un vero problema.’

‘Non ci credo.’

‘No. Tu non capisci dove sbagli quotidianamente.’

‘Nonostante tu mi metta di fronte all’evidenza dei miei errori?’

‘In un certo senso, sì.’

‘Sai, ci sono sensazioni che mi coinvolgono nel profondo, e causano nella loro banalità uno sconvolgimento così radicale nella mia anima da lasciarmi spiazzato, in balia di me stesso. Ignorale è come sopprimere quella parte di me.

Stasera, per esempio… vedere mio padre mi ha veramente turbato.’

‘Perché?’

Scosse la testa. ‘Comunque non è normale.’

‘Non ne sono convinto.’ Non ne voleva parlare? Cosa mi nascondeva?

Sconfortato com’era non avevo il coraggio di fare pressione su di lui, mi sembrava crudele.

‘Potrebbe sembralo, se te ne parlo in maniera così superficiale. Credo che tutti gli uomini che abbiano un po’ di buonsenso e provino amore verso ciò che li circonda si nutrano delle loro sensazioni cercando in esse un antidoto alla crudele selvatichezza del mondo in cui sono costretti ad abitare. Per così dire, in questo senso, guardano il lato positivo.’

‘Sì.’

‘Quello di cui ti faccio partecipe è un altro paio di maniche. Se fosse una lezione di filosofia ti direi che è lo stesso concetto appurato e studiato sotto due punti di vista formali assolutamente differenti.

Non è che si discostino l’uno dall’altro in maniera così netta. C’è una leggera sfumatura di significato tra la mia visione del mondo e quella di ogni altro uomo.’

‘Vorrei ascoltarla.’

‘E’ come se ogni percezione sensoriale recepita dal mio cervello, l’idea, diciamo, collegata all’oggetto materiale in sé e per sé, tracciasse nella mia anima un solco più o meno profondo.

Le cose mi feriscono per la loro avvenenza semplice, per la maniera in cui sembrano raggiungere la perfezione così lungi dalla mia anima.

È una morte dolce.

Ed in quel momento mi sembra tutto bellissimo. Tutto. Ogni dettaglio puramente fisico, sensibile, materiale, come lo vuoi chiamare, ha un suo scopo, una sua rilevanza, ma soprattutto una sua bellezza intrinseca ed indimenticabile.

È un discorso che non comprende deliberatamente le persone.

Se vengo ferito dalle persone, ed è quotidiano, non posso che lasciarmi andare a pensieri di logoramento: c’è il bene e c’è il male, che non capisco perfettamente. Il male è intossicante. Vorrei evitarlo perché nessuno si augura le disgrazie. Eppure esso lentamente avvelena tutte le cose belle e splendide delle quali mi sono innamorato, e lentamente le consuma.

Ciò mi distrugge. Io non sono crudele al punto di augurare il male che ho in corpo alle altre persone. Alle cose. Persino alle cose.’

‘Sei fondamentalmente degno di salvezza, allora. Non ti dovresti lamentare.’

‘Ma è scomodo. Mi fa rabbia il dover mettere la mia vita nelle mani di qualcun altro, o qualcosa.’

‘Ah-ah…’ Mi mordicchiai il labbro inferiore. ‘Vuoi cambiare vita? Vuoi cambiare corpo, cervello, mentalità, sensibilità, per smettere di pensare? Vuoi essere stupidamente Dio? Se smettessi di pensare alle tue sciagure, ma decidessi per tutti secondo il tuo libero arbitrio, non avresti questo genere di problemi. Beh, non si può. Avresti dovuto già abituarti a tutto questo delirio insensato, e a trovare un qualcosa che ti addolcisca la pillola. Accontentati. Non puoi sceglierti un pensiero felice che ti consoli?’

‘Ma ti sei arrabbiato?’

Forse avevo parlato con un tono seccato. Chinai il capo imbarazzato, vergognandomi della mia stupidità. ‘No. Mi sembrava un discorso inutile, e non mi va di aggiustare quello che non è rotto. Ma probabilmente è così solo per me. Ti fai molti problemi.’ Dissi timidamente.

‘Impressionante…’

Un gatto miagolava sul nostro balcone privato. Non volevo farlo entrare per accarezzarlo, coccolarlo e godere delle sue fusa come al solito. Ero gelosissimo e non avevo la minima intenzione di dividere quell’intimità con nessuno.

Nemmeno con un gatto.

Rimasi in silenzio per qualche istante per provare almeno a strutturare superficialmente il discorso che volevo arrivare a toccare con lui. Per lui.

‘Mi è successo di provare a decifrarti mentre ascoltavo musica di gruppi differenti.

Credo che tu, che sei un passionale, viva la vita come un musicista che scrive canzoni a partire dalle parole; mentre chi ha un approccio più freddo e distaccato, ma curato nei minimi dettagli, ed è quasi più ammirato per l’eccellenza, come un musicista che scrive le note di una canzone e deve poi riempire pagine bianche con le prime parole che gli vengono in mente per poter completare l’opera, si ponga verso la realtà con più distacco.’

‘Io traccerei le emozioni?’

‘Sì, esatto. Tu tracci emozioni, poi dipingi i contorni. Vuol dire che sei fondamentalmente fantasioso. In senso negativo, intendo.’

‘E tu, Henka?’

‘Io sono eclettico.’

Silenzio.

‘Non so cosa ti sia successo, stanotte, ma si è originato tutto dalla vista di tuo padre.’

‘Vuoi sapere perché?’

‘Certo. Ma mi basterebbe capire se è la verità. Ci vuole un po’ di tatto per consolare le persone, sai?’

‘Che scemo. La virtù sta nel mezzo. Sempre.’ Si batté la fronte alta col palmo della mano.

‘Te ne ricorderai, d’ora in avanti?’

Inclinò la testa per guardarmi negli occhi e io vidi nei suoi una punta di incerto divertimento. Aveva dei bellissimi occhi verdi, sottili e sempre rattristati da qualche evenienza spaventosa. Forse stava proprio in quello il loro incanto.

‘Ti insegno io a stare al mondo!’ Gli urlai.

 

--- Ragionamenti contorti che mi sono venuti in mente ascoltando Shamandalie (ma che centra?). Mi stupisco di me stessa *___*.

Questo è uno dei capitoli che mi piace di meno. Tutto dialogo… Tanto ho capito come andrà a finire: i capitoli che non mi piacciono vi sembreranno ben fatti, poi arrivano i capitoli belli e mi direte che preferivate i primi…

Secondo voi è tossico l’inchiostro dei pennarelli che si usano per scrivere sui cd? Perché mi hanno scritto “atarassia” sul braccio. Bello nero, che non viene via. Adesso ho una brutta chiazza rossa che prude da morire. Forse ha fatto reazione col profumo, forse è un inchiostro velenoso e volevano eliminarmi, forse sono allergica e sto per avere uno shock anafilattico… In ogni caso credo che morirò.

E poi con tutto questi caldo la mia cioccolata si scioglie. Tristezza incommensurabile V___V.

à ACHTUNG ACHTUNG: Qui viene fuori uno dei tanti motivi per cui ho scelto un personaggio finlandese. I Finlandesi sono gente molto alla buona, che non si preoccupa dei fronzoli. Ho avuto traumatiche esperienze con alcuni finlandesi. Sono persone che ti fanno domandare: “come mai io mi faccio certe pare mentali?” Vivono nei boschi, loro. Al gelo. Mangiano le renne, fanno docce fredde, conducono una vita sana all’insegna del benessere, cose così…

È perché vedono poco il sole –non ridete, è scientificamente provato!-

Parlo sempre di più…

^ ^ ciao, a Mercoledì ^ ^

 

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Capitolo 6
*** V ***


Love – in – idleness

--- Capitolo un po’ insipido. Comunque, siccome questo week-end sono al mare (nel paesino che vi ho descritto, per intenderci) è probabile che posti già venerdì. Speriamo ci sia bel tempo.

 

V.

Elle ravale ainsi l’écume de sa haine,

et, ne comprenant pas les desseins éternels,

elle-même prépare au fond de la Gheenne

les boucher consacré aux crimes maternels.

Pourtant, sous la tutelle invisible d’un Ange,

L’Enfant déshérité s’enivre de soleil,

Et dans tout ce qu’il boit et dans tout ce qu’il mange

Retrouve l’ambroise et le nectar vermeil.

‘Il tuo Baudelaire ?’

‘Sì. Sì, adoro Baudelaire. In fondo mi sento piuttosto affine al suo spirito tagliente e alla sua poesia di inquietante profetica sventura. Mi ha sempre reso l’idea del “poeta del genere umano”, che con la sua lirica tormentata meglio testimonia, senza censure, intendo, l’intero dramma.

Sai come ha cominciato i suoi “Fleurs du Mal”?’

‘No.’

‘Beh, non lo ricordo a memoria, ma –‘ Si alzò dal letto sul quale eravamo distesi e afferrò la borsa  dei libri che usava per andare in università. Portava sempre con sé una copia dei Fiori del Male.

Era piuttosto logico, a pensarci: in effetti la natura contorta e maledetta di quella raccolta, dello Spleen di Baudelaire per intero, era qualcosa che –mi aveva sempre garantito- gli si insinuava nell’anima e nel corpo, penetrando con dolore e sofferenza come sottili e gelidi aghi acuminati che buchino la carne.

Ho sempre avuto l’impressione che lui e Baudelaire si trovassero sulla stessa lunghezza d’onda, e, probabilmente, se fossero vissuti nella stessa epoca, se lui fosse stato il compagno di camera di Giulio al posto mio, avrebbero colto una infinita e crudele simmetria di fondo che senza possibilità di controbilanciamento –in fondo quello era il mio ruolo- li avrebbe entrambi condotti all’alcol e alla droga, al suicidio, alla dannazione.

Baudelaire non deve aver avuto la fortuna di essere affiancato da un amico come me.

‘Baudelaire ha una ruvidità che gratta l’anima del lettore.’ Rise mentre cercava il libro giusto tra la grande quantità che aveva deciso di trasferire in vacanza. ‘Ecco…’ Me lo lesse in italiano: ‘Al poeta impeccabile

Al perfetto mago delle lettere francesi

Al mio carissimo e veneratissimo

Maestro e amico

Théophile Gautier

Con i sentimenti

Della più profonda umiltà

Dedico

Questi fiori malaticci.

‘Divertente.’ Aggiunsi sorridendo in riferimento ai “fiori malaticci”.

Richiuse il libro con delicatezza, come faceva per tutte le cose che per lui avevano una certa importanza, ma mi accorsi che non lo ritirò come soleva fare, accarezzandolo quasi.

Lo posò sulla scrivania mentre si versava un bicchiere d’acqua, poi lo riprese in mano e ritornò sui suoi passi, a sdraiarsi sul letto nella posizione che teneva quando mi aveva abbandonato.

Lasciai che si accomodasse come più preferiva, permettendo alle sue mani gentili di insinuarsi tra i miei lunghi, indisciplinati capelli ricci.

‘Ci sarebbe molto e poco da dire su Baudelaire.’

‘Come di tutte le cose.’

‘Come del caffè.’

‘Scusa?’

‘Non è che sia una situazione diversa. Voglio dire: le sensazioni che mi suscita una poesia di Baudelaire e una tazza di caffè sono ben differenti, di diversa natura e corrente. Una è benigna, l’altra profondamente dissacrante. Ma entrambe mi riempiono nell’anima. Sai quanto adoro il caffè.’

‘E che altro c’è?’

‘In che senso, Henka?’

‘Tu non mi dici tutto.’

‘Potremmo portare avanti una politica dei piccoli passi? Ti prego. Sono esausto.’

Sospirai sonoramente appoggiandomi meglio contro la tastiera del letto.

Dedussi che non sarebbe mai precipitato abbastanza nel cupo vortice tempestoso e sempiterno della sua sconfinata sofferenza, e da un lato lo ammiravo per il suo acume, dall’altro lo compativo per l’impossibilità materiale di sortire dal circolo vizioso di tristezza nel quale era totalmente immerso.

L’ironia, se me lo concedete, è che fu lui stesso ad erigere le mura del suo inferno contro le quali la bufera lo scaraventa costantemente.

La sua era una posizione sconveniente, quella di chi sa troppo e capisce troppo, perciò soffre degli sbagli che identifica attraverso l’occhio indagatore.

Ed è sardonico, tremendamente veritiero, testato, beffardo, ingiusto, pensare che, dopo secoli di intellettualismo etico e ricerca della felicità tramite la conoscenza filosofica del mondo, si scopra che, banalmente, chi meno sa meno è scontento, e che più si va nel profondo, più vengono a manifestarsi nodi gordiani insolubili nella loro complessità. 

Quindi, per forza di cose, Giulio era destinato a trascinarsi di malavoglia in una vita di sofferenze e lacerazioni interiori, come se la sua anima fosse un complesso sistema di ragnatele, fili sottili e resistentissimi, che filtrando nel sangue circolavano in corpo e ciclicamente venivano tesi fino a portarlo allo spasimo.

 

(Così inghiotte la schiuma del suo odio,

e lei, che non comprende i disegni eterni,

lei stessa prepara in fondo alla Geenna,

i roghi consacrati ai crimini materni.

 

Pure, sotto la tutela invisibile d’un Angelo,

s’inebria di sole quel figlio ripudiato,

e in tutto ciò che beve e mangia

ritrova l’ambrosia e il nettare vermiglio.

 

Bénédiction 17-24, C. Baudelaire.)

 

--- Eh-ehm. Devo dire un sacco di cose… Ecco svelato il mistero del titolo della ficcia. Mi piaceva particolarmente ‘Bénédiction’. È la prima della raccolta. Volevo farvi notare che anche se Baudelaire si riferisce alla madre, qui Giulio pensa risentito a suo padre per una serie di motivi che verranno chiariti man mano.

Il caffè si rifaceva ad un capitolo che ho eliminato perché mi sembrava troppo noioso e perché, a furia di taglia e cuci, finiva per diventare incoerente col resto della storia. Spero non vi sembri insensato e non si noti un buco grossolano. Sarebbe imbarazzante. ^ ^

Dovevo parlare almeno un pochino di Baudelaire… un tributo a Baudelaire…

Vlad, non hai ancora visto la mia super tinta!!! Sono più scura di prima… CATARIFRANGENTE. Un rosso così rosso che sotto la luce sembra viola enné. Stupendo… devi tornare in fretta prima che sbiadisca e diventi rossiccio (o il lillà dello zaino della Franscia… Immaginati i miei boccoli tutti rosa… brrr…)

Ti sei persa pure Garlando coi dread (sembra più viscido di quanto sia in realtà, il che è tutto dire, perché è già molto viscido di suo).

Ma posso fare queste cose? Non sapevo più come contattarti ß disperata. Spero tu abbia rimediato un computer in quei paradisi tropicali dove ti cuoci al sole mentre io compilo pile di Hausaufgaben e Bilde Setze per le verifiche formative. 

Ti fischiano le orecchie? ^ ^ divertiti. Ecco cosa si prova a non dormire per giorni interi! Ah ah!

 

Perché non riesco mai una volta a rispondere a tutti insieme? T___T

1) Ho rimediato una nuova lettrice ^ ^ che bello! Grazie-grazie-grazie, Galadwen. Spero tu abbia capito tutto. Ho visto anche l’altro commento, ti do ragione. Sono la coppia più paciarotta del mondo.

2) Inv, mi dispiace molto che tu sia stanco. Ti capisco profondamente: io soffro di insonnia, per cui sono sempre stanca. Hai la mia solidarietà… Comunque sono orgogliosa anche dei commenti concisi ^ ^. (Tu perlomeno commenti)

3) Per Sara e Zero… avevo già risposto nello spazio recensioni T___T. Avrete notato…

La verità è che non so niente di filosofia moderna (come mi sento ignorante. Magari ne parliamo tra un paio anni ^ ^’’’)

Ho fatto tutto? Allora vi lascio stare…

 

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Capitolo 7
*** VI ***


--- Ora scopriamo una peculiarità di Henka che influenza tutto il suo pensiero positivo ^ ^

--- Ora scopriamo una peculiarità di Henka che influenza tutto il suo pensiero positivo ^ ^.

In verità sto postando di nascosto dall’ufficio di mio padre –non si potrebbe fare, ma siccome vi voglio bene…

Spero di riuscire ad attaccarmi a qualche presa telefonica ^ ^

 

VI.

‘Sai cosa mi piace, molto?’ Lo interruppi per una volta.

‘Un sacco di cose.’

‘Una sensazione che amo è quella di trovarmi in una chiesa vuota e buia, un freddo giorno di dicembre quando c’è la neve e il riscaldamento è rotto, bisogna stringersi nei cappotti mentre ci si inginocchia davanti all’altare imponente allegoricamente indice della grazia e della magnificenza di Dio.

Le chiese sono belle in un modo tutto suggestivo.

Ho visitato un sacco di chiese belle: Notre-Dame, Canterbury, Westminster Catherdral, Amiens, e poi in Italia il Duomo di Milano, il Campo dei Miracoli, la Basilica di San Francesco. E naturalmente la Basilica di San Pietro.

Seppur separate dalla differenza degli stili e del gusto decorativo in tutte ho ritrovato un filo conduttore, un elemento comune, se così si può dire: l’aria. Quando entro in una chiesa consacrata il clima di rispetto e pudore è talmente elevato, percepibile, che permea l’aria stessa, quasi come questa fosse etere, diventasse veramente Spirito Santo respirabile dai nostri mortali polmoni intossicati dai fumi e dai veleni della società moderna.

Il mio stile preferito è il gotico, per quella serie di fattori convergenti che si avvicinano più a un’anima tormentata: le vetrate scure, la luce rarefatta e spirituale, il silenzio e la dilatazione quasi magica delle navate, l’eleganza austera della pietra e la verticalizzazione trascendentale degli elementi architettonici, tutte qualità che ogni chiesa dovrebbe possedere per accentuare la sua aura di placida spiritualità.

Però c’è una cosa che ho sempre afferrato, ma mai capito.

La chiesa del mio paese era piccola, poco adorna, robusta e tozza, in mattoni a vista. Una tipica chiesa romanica senza nessuna bellezza artistica da ammirare alla luce della gloria di Dio.

Eppure mi piaceva, il pomeriggio del ventiquattro dicembre, mi piace ancora perché ci torno tutti gli anni, andare a confessarmi nel silenzio più totale e rinfrancante, poi sedermi su una qualsiasi delle panche di legno laccato, ammirare il ciborio e le volte affrescate con la vita dei santi e scene del giudizio universale, genuflettermi e far ammenda chiedendo umilmente venia in penitenza.

Mi trasmette un certo senso di intimità con Dio, ed una visione della religione del tutto amorevole, di un Dio gentile ed affettuoso, ma sempre e comunque giustamente severo.

E’ una prospettiva interessante. Credo che le persone che non hanno una gran Fede, o proprio non ne possiedono, non abbiano mai provato un’esperienza dolce e coinvolgente come quella.

E’ come se l’aria fredda ti pulisse la pelle, te la lavasse, poi ti smacchiasse l’anima fino a rendertela candida e pura –cosa necessaria per la missione evangelica-, e quando esci al gelo del pomeriggio già profondamente buio dell’inverno ti senti finalmente liberato da ogni sensazione malvagia o turbativa.’

 

--- Onde evitare spiacevoli travisamenti vorrei chiedervi gentilmente di non offendervi, signori atei. Ho solo descritto una peculiarità del carattere di Henka indispensabile per la riuscita del suo pensiero positivista. Era necessario per strutturare bene il personaggio. Henka è molto religioso e certe cose in lui sono influenzate dalla sua Fede.

Il capitolo prevedeva un dialogo molto conciso tra Giulio ed Henka, tema: religione.

Ho pensato che poteva offendere qualcuno e che, comunque, esponevo troppo direttamente mie idee personali. Non è il luogo, questo, e non me la sento di buttare ai quattro venti i miei credo. Ci vuole un minimo di discrezione. Quindi il capitolo è solo a metà.

Tanto oramai sono un genio del taglia e cuci. Quando ho postato questa storia i primi sette capitoli erano molto diversi. Sono i più ostici. Non vedevo l’ora di togliermeli.

È difficilissimo capire cosa volete. ^ ^ spero di non deludervi.

Personalmente mi piace molto questo capitolo. Parla solo di chiese…

Vabbè… V___V

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Capitolo 7
*** VII ***


Love – in – idleness

--- Mi sono proprio dimenticata di farvi gli auguri. Scusate. Spero abbiate passato una Pasqua più calda della mia.

Stavo camminando (leggasi inerpicandomi per sentieri sconosciuti sulle montagne della costa ligure) tutta sola… ha cominciato a piovere. Diluviare. Credo di non aver mai preso tanta acqua in vita mia. Brrr…

 

VII.

 

‘Pensavo che fosse la musica la sensazione che più di tutte ti suscita sconvolgimenti nell’animo e ti può cambiare l’umore’

‘Sì, anche. Forse è quella che manifesto con meno vergogna.’

‘Perché dovresti vergognarti di ciò che senti?’

‘Perché sono pensieri personalissimi, ed il motivo per cui sono quasi in imbarazzo a mostrarli agli altri è lo stesso che fa scattare il riserbo per i segreti più profondi e che più ci sfiorano nell’anima.’

‘Allora perché ti stai raccontando a me?’

Rise brevemente. ‘Sei come la mia coscienza coscienziosa, ed ho un disperato bisogno di essere capito, almeno da te. Ci tengo.’

‘Mm. Le allusioni si sprecano, qui.’

Il silenzio era rotto dal gattino che miagolava. Era entrato dalla finestra aperta che dalla cucina dava sull’orto grazioso e ben tenuto della nostra cara, gentile vecchietta.

Giulio si sporse un po’ dal materasso facendo ciondolare il braccio destro nel vuoto: guardò nella direzione del gatto e giurai che stesse sorridendo di quel suo solito sorriso dolce così triste, rivelato dagli occhi. I suoi occhi non sorridevano mai rassicuranti come le sue labbra.

Il micino tutto nero, quello che avevamo adottato col nome di Utrecht, come la Pace di Utrecht, e che veniva sempre ruffianamente a farsi coccolare da noi e si era affezionato alle nostre carezze più di ogni altro, si stava alacremente leccando la zampina acciambellato sul divanetto damascato.

Questo mi ricordò in primis che avevo molta fame, e per secondo che, alla fine, era riuscito a spezzare quell’incantesimo di profonda intimità e comunione che io e Giulio avevamo faticosamente creato.

Gli chiesi se volesse mangiare qualcosa e lui rispose che, sì, era una buona idea perché non avevamo ancora cenato.

‘Allora dovresti alzarti da me.’

Si spostò sbuffando e scomparve alla mia vista infilandosi nel vano della cucina.

Sentii che trafficava con le pentole e le ante di compensato degli armadietti.

Mi soffermai per un istante ad ammirare la liscia e candida compattezza del soffitto intonacato e la carta da pareti azzurra sui muri puliti, vergognandomi e al contempo godendo della situazione di confessore nella quale mi trovavo. Mi dava una sensazione di eccezionale eccitazione, mi faceva sentire, una volta tanto, utile.

Ero soddisfatto e al contempo amareggiato perché quella mia particolare sensazione di appagamento era il frutto di uno sfogo suo dovuto all’infelicità. Cosa che non avrei mai e poi mai dovuto augurare a Giulio.

Mi alzai anch’io dal mio morbido giaciglio profumato di bagnoschiuma quando avvertii lo schiocco del fornello a gas che veniva acceso.

Cominciai a preparare la tavola per due mentre Giulio si premurava di domandarmi quale qualità di pasta avrei preferito mangiare e io gli rispondevo senza pensarci su che mi era assolutamente indifferente, bastava che si sbrigasse perché erano quasi le dieci e il mio stomaco cominciava a brontolare.

‘Riprendiamo il nostro discorso, piuttosto!’

‘Ah, sì. Tocca a te apparecchiare, non aspettarti che ti dia una mano.’ Si sedette sulla sedia richiamando Utrecht ad accoccolarsi sulle sue gambe lunghe e snelle.

‘Di che si stava parlando?’

‘Musica.’

‘Oh.’

‘Ho una buonissima memoria, vero?’

‘Hai una buonissima memoria a breve termine.’

Non rimbeccai perché avrebbe comunque trovato mille ottime ragioni per farmi notare quanto fosse nel giusto.

‘Henka… quando andiamo ai concerti, tu… te lo ricordi? L’ultimo concerto, il mese scorso?’

Annuii col capo perché avevo la bocca piena di pane. Non riuscivo più a bloccare le contrazioni dello stomaco, visto che ormai mi ero ricordato di avere fame.

Finii di posare i bicchieri rovesciati sulle tovagliette blu in pendant coi portatovaglioli che avevamo trovato nei cassetti sotto il cucinino e mi diressi al frigorifero emergendone due lucide, fresche bottiglie di birra che bevute a Luglio, quando fa troppo caldo e la gola è arsa e ha sempre, sempre sete, sono la sensazione più felice del mondo.

‘Anche questa annoveri fra le tue?’ Gli domandai stappandole. Gliene porsi una.

Mi sedetti sul tavolo davanti a lui. Naturalmente si può fare su un tavolo da quattro apparecchiato per due, non che posassi il mio bel sederino sulla tovaglia pulita.

‘Ovvio. A chi non piace la birra?’

‘Non a noi!’ Risi. Si avvicinò di più con la sedia quando il gatto gli sfuggì dalle ginocchia.

‘L’ultimo concerto, per riprendere il discorso in medias res, è stato l’immagine più vivida di quello che vorrei farti capire: un’ondata inarrestabile di note, e queste note sono qualcosa di palpabile, di percepibile. Scivolano addosso fino a quando non riescono a penetrare.

Non ti capita mai, quando ascolti una canzone molto accuratamente, stando attento ai dettagli, alle sfumature cromatiche, ai cambiamenti di ritmo più suggestivi, alle melodie più impressive o ai testi più delicati, di tremare dalla colonna vertebrale? E non ti capita mai di associare delle canzoni a dei ricordi, come riesci coi profumi o con un vestito o una parola?

È fisiologico.

Intendo, nonostante facciamo di tutto per annientarlo, il nostro cervello che è proprio disgraziato, funziona con una precisione sconcertante nei collegamenti sinapsici. Sì, anche il tuo, Henka.

È una cosa che mi affascina. È quello che affascina di tutto il nostro discorso: la mia mente e la mia razionalità galleggiano su un mare di sensazioni in perpetuo inarrestabile movimento.

Come si può pretendere di trovare un equilibrio stabile?’

‘Non si può? Non si può davvero?’

Aveva staccato l’etichetta dal vetro. Si scollano sempre quando la bottiglia è umidiccia. Che mi ricordi aveva sempre avuto il vizio di staccare etichette, anche dalle bottiglie d’acqua, per poi giochicchiarci fino a ridurle in brandelli lacerati.

‘Se si potesse, non saprei come arrivarci. Se si fosse potuto non staremmo qui a darci pena.’

‘Tu ti stai dando pena!’

‘L’acqua bolle. Butta gli spaghetti.’

 

 

--- Sono un po’ depressa. Nessuno ha commentato… perché nessuno commenta più? T___T Vi prego di commentare… su… Vi sto annoiando? Dove siete finiti? ( ß disperazione… mi sento come una particella di sodio)

Forse il capitolo sei è stato un po’ azzardato. Ma ditemi qualcosa! Sto perdendo audience. Uff…

Cooooooomunque, il micio non si chiama Utrecht per una mia morbosa passione storiografica… Beh, studiavo giusto della Lega di Utrecht nei giorni che ho scritto questo capitolo, e mi è venuto in mente il piccolo tenero pipistrello che avevamo a scuola, un giorno (non chiedetemi cosa ci facesse un pipistrello a scuola…). Comunque l’avevamo chiamato Utrecht, è partito tutto da lì. Non potevo mica inserire nella storia un pipistrello d’appartamento, così ho ripiegato sul gatto.

Sono così eleganti, i gatti… c’è sempre un gatto nero, in mezzo. ^ ^ piccolo Utrecht –il pipistrello- Chissà se l’hanno ammazzato…

Mi era venuta in mente una cosa che non vi ho detto prima perché avevo già occupato troppo spazio: avete presente Valo, il cantante degli HIM? Quell’uomo bellissimo con due occhi verdi… Mm… -guardacaso è finlandese- Beh, senza farlo apposta –lo giuro- mi sembra davvero molto simile alla mia immagine di Giulio. Prendetelo dal video di Join me in death –quello tutto ghiacciato, non la versione psichedelico-stroboscopica-  e allungategli un po’ i capelli di una, due, tre spanne, come preferite… voilà! Giulio è molto molto bello. Non sono una grande fan degli Him, ma hanno davvero un cantante stupendo. Se qualcuno di voi fosse come Valo o conoscesse qualcuno che gli somiglia è pregato gentilmente di farmelo sapere.

Grazie ^ ^

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Capitolo 8
*** VIII ***


Love – in – idleness

--- Non ho mica capito perché io ho due capitoli sette e neanche un cinque. Comunque penso siate abbastanza furbi da andare in ordine cronologico ^ ^. Come li aggiusto?

 

VII.

‘Questa?’

‘Troppo pesante.’

‘Quest’altra?’

‘Mm. E’ un nero diverso.’

‘Il nero è sempre nero!’

‘No. Non è vero. Io non sono mica un faccio – buono – tutto come te, Henka.’

‘Già. Perché non ci pensi prima? Perché i vestiti te li scegli appena prima di uscire, così da arrivare col cospicuo ritardo di ore e ore?’

‘Anche tu arrivi in ritardo agli appuntamenti.’

‘Io arrivo in ritardo perché mi addormento, non perché devo scegliere i vestiti. Sei peggio di una primadonna!’

‘Eccola!’

Indossò alla svelta la camicia di seta nera, quella che lo faceva sembrare ancora più bello di quanto fosse, donandogli quel tocco di eleganza che ho sempre apprezzato in lui; e mi intimò di sbrigarmi a infilare il cellulare nella tasca dei pantaloni perché avevamo già perso troppo tempo.

Come se fosse colpa mia.

Scendendo come furie per la scala incrociammo la signora del secondo piano –c’erano tre appartamenti su tre piani diversi, nel palazzo- che ci salutò con garbo.

Le urlammo un ‘Buonasera’ dal pianerottolo sul quale ci eravamo quasi gettati e ci preparammo spiritualmente per una lunga corsa in salita.

La fretta di Giulio era motivata: stavamo davvero per perdere l’autobus, ed era l’ultimo della serata, fino a mezzanotte.

Quando arrivammo alla fermata la trovammo pullulante di una folla che discuteva a gran voce dei fatti propri. Ho sempre ritenuto odioso il modo in cui le persone hanno conversazioni private in pubblico, pensando che gli altri possano trovarle in qualche modo interessanti, piuttosto che inopportune. Forse sarà parte dei miei geni nordici, ma io parlo sottovoce anche al cellulare per non farmi sentire da chi mi circonda.

Se mai andaste a cenare in un ristorante dalle mie parti sentireste solo bisbigli. Per gli italiani è una concezione quasi paradossale, incomprensibile.

Naturalmente il viaggio fu scomodo, in piedi, aggrappati alle sbarre metalliche scivolosissime, sballottati senza pietà a destra e a sinistra ad ognuna delle curve a gomito di cui le stradine della costa ligure sono tristemente ricche.

E faceva caldo. Le bottiglie di birra scolate pre – durante – dopo la tarda cena cominciavano a fare il loro effetto. Avevamo bisogno di altra birra.

Giulio era schiacciato tra me ed un’altra mezza dozzina di persone.

‘Cos’hai da ridere, Henka?’ Mi urlò nell’orecchio per sovrastare il chiacchiericcio monotono.

‘Ti rovinerai la camicia! Perché ti sei vestito così?’

Mi guardò con dolcezza e si limitò a sorridere.

‘Oh! Come sei indisponente! Ti odio quando fai così!’

E intanto mi scivolava sempre più addosso, schiacciato dall’inarrestabile mandria di passeggeri.

‘Non ti piaccio?’

‘No, no.’ Non riuscivo più a guardarlo in faccia, perché si era spostato. Dovevo alzare la voce per farmi sentire e questo mi metteva a disagio. La verità è che, tra le altre cose, ho sempre avuto i complessi per il mio accento. ‘Solo non era il caso.’

Immaginai che quel tentativo di districarsi fosse una puramente teorica alzata di spalle.

‘Noi scendiamo alla prossima?’ Mi chiese.

‘Non lo so.’

Ma vedendo che tutti scendevano “alla prossima” ci defilammo anche noi.

Quella era una cittadina più grande del paese dove noi ci godevamo in tranquillità e lontano dalla caotica vita notturna cittadina nella quale eravamo immersi per tutto l’anno le due settimane di vacanza dedicate al relax più estremo.

‘Immagino che ci siano i fuochi d’artificio come in tutte le feste di paese.’

‘Sì. Ma quelli non ci interessano. Rintaniamoci in un pub fino alle undici.’

E così fu. “Fino alle undici” era un tempo sufficiente per ubriacarsi con leggerezza d’animo.

Mentre le bottiglie di vetro verde traslucido si accumulavano sul nostro tavolo io mi sporsi verso Giulio e con voce troppo alta gli chiesi: ‘Perché abbiamo fatto quel discorso? Tutto… che senso ha avuto riepilogare un paio di sensazioni che ti suscitano emozioni a livello inconscio, se poi non mi sveli il motivo portante di tanta patetica tristezza?’

‘Nessuno. Volevo solo fartene partecipe.’

‘Ti sembrava importante?’

‘Sì.’

‘E non ti senti un po’ meglio dopo tutto questo sproloquio e tutta questa birra?’

‘No’

‘Perché!’

‘Non ho pensieri rassicuranti. Solo una visione tragicamente pessimista.’

‘E’ un tableau tipicamente giuliesco.’

‘Non esiste la parola “giuliesco”.’

‘Beh, un giorno avrai un gran numero di discepoli entusiasti di apprendere dalle tue sagge labbra la “filosofia giuliesca”. Giuliea. Giulica. Come vuoi. Ma sempre di Giulio. Poi camminerai intorno ad un cortile, blaterando teorie di insensata devastazione. E tutti penderanno dalle tue labbra.’

‘Pazzo. E’ ora di andare.’

Pagammo il conto e uscimmo barcollando un po’.

Sul vialetto Giulio sentì delle voci –io non ero molto in vena- che si riferivano a noi. ‘E’ lui quello dall’accento strano!’

‘Ce l’ha con te.’ Mi sussurrò.

Io mi voltai impacciato verso la ragazzina dalla maglietta scollata.

‘E’ finlandese.’ Sorrise Giulio. Un sorriso che avrebbe steso qualsiasi donna con un po’ di buonsenso.

Se ne andarono.

‘Maleducate!’ Inveii Giulio, lasciando la presa del mio braccio. ‘Ochette sgraziate.’

E in quel momento caddi riverso sul marciapiede.

 

--- Abbandoniamo Henka spalmato sul cemento. I soliti finlandesi che trinken und trinken. Magari vodka. Non ho mai visto una foto del vero Henka (tastierista dei sonata) senza una bottiglia di vodka nei pressi.

Ok, non è un gran capitolo, ma ‘sti due dovevano pur arrivare a destinazione!

Oh, che periodo deprimente. Meno male che qualcuno mi ha commentata…

Ah, Zero. Che bello vedere di nuovo il tuo commento, non hai idea T___T (siccome ero veramente depressissima, altro che atarassia, questo mi ha veramente tirata su di morale). Da buona pettegola mi domandavo dove fossi finito… (dove fossero finiti tutti, in fact). Magari posso ricucire quel discorso se me lo chiederai un altro paio di volte. Però l’ho già detto, forse è troppo personale. Non so se me la sento, visto che non siamo nel forum. Non si può ribattere, qui. Ah ah. Comunque sto andando avanti bene? È che ho preso un votaccio nel tema e sono entrata in una specie di crisi mistica. [anche se le motivazioni di suddetta valutazione scarsa erano: 1) stile contorto (buttiamo via tutta la letteratura fino a Manzoni e oltre, allora, prof)  2) operato consequenziale (se preferisce due stupidate buttate lì a caso, prof)  3) QUESTA è BELLA: troppe rielaborazioni personali nell’ultima parte (la domanda era: ‘Rielabora personalmente i dati forniti.’, prof). Ci mancava solo che mi desse dell’analfabeta]

Sensei… mi ero dimenticata di dirti di non firmarti sensei, altrimenti tutti avrebbero pensato che sei una sensei, invece sei solo la MIA sensei (o coscienza coscienziosa, blink-blink). E ti prego di non parlare di Viale e delle sue paresi facciali qui, è già abbastanza problematico vederlo tutti i giorni. Ho paura, l’avresti anche tu se un uomo peloso affetto da paresi facciale ti invitasse a cambiarti in classe (con lui in classe).

Hai mica il mio libretto? Credo di averlo perso di nuovo. Quante migliaia di libretti ho perso in tre anni di liceo? Perdo sempre tutto… sono una disgrazia (e non ridere, che sei stata una di quelle che m’hanno scritto atarassia sul braccio! E non chiamarmi Marto, non ha senso!!!)

 

Mi raccomando commentate in tanti che devo uscire dalla crisi mistica e conquistare il mondo (sennò ciao atollo per coloro ai quali era stato promesso… ß schifoso e bassissimo ricatto morale che verrà ignorato)

 

Ah… il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti. Preparatevi spiritualmente a paginate di descrizioni ^ ^. Lo posto subito… filate a leggere!!!

 

Marto_per_una_volta_nella_sua_vita_in_crisi_mistico/depressiva

Veramente… T____________________________T sconsolatissimaaaaaaa…

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Capitolo 9
*** IX ***


Love – in – idleness

--- ACHTUNG: la prima parte può sembrare sconnessa. Ricordatevi che Henka è un po’ alticcio…

 

IX.

Repentini fulgidi abbagli di cieli in tempesta dai colori così brillanti, cupi, malinconici, da sembrare essere usciti da un quadro romantico di Friederich nella sua ora più infausta, danzavano palpitanti in giravolte di vorticoso delirio innanzi ai miei occhi offuscati ed appesantiti.

Le nuvole disegnavano contorni aggraziati che scemavano via via nell’azzurro, nel blu e nel violetto della laguna malferma del cielo, e come cavalcanti orde di schiumose onde soffici si riversavano nel loro delicato, gentile e soave balletto per quella distesa ora placida ora tormentata di stelle cangianti in tutto e per tutto simili ad un buio e scintillante prato di incantevoli e magici fiori luminosissimi

Appariva come una serie sovrastante ed ineffabile nella sua leggerezza di immagini irreali e giochi di luci e rifrazioni, nella mia mente annebbiata, ma talora di una nitiditezza acuta al punto da ferirmi gli occhi, altrimenti scialbi, scoloriti, annacquati tanto da farmene dispiacere.

Scivolavano gli uni sugli altri rimestandosi in una miscela sempre pura di tinte e sfumature cromatiche tenebrose, lugubri e tristi.

Il mare, che avvertivo vicinissimo risuonarmi nel suo perpetuo e leggero sciabordio con una calma e una pacatezza così infelicemente inumane, mi lambiva i sensi come ovattato da una coltre sottile di seta dolcissima al tatto sopraffino. Leccava la terra con costanza nel suo gioco acquatico tanto ben calibrato di luci e ombre, di caloroso e freddo, di forza e saggezza.

Io non vedevo il mare, potevo solo udirne il rollio delle onde che si infrangevano sulla spiaggia e contro gli scogli aguzzi e taglienti come la lama di un rasoio.

Ma vedevo il cielo così magistralmente tinteggiato, e, lo giuro, me lo ricorderò per sempre, le sue leggere sfumature di colore che spaziavano dal blu più penetrante dell’oceano al rosso Magenta, a tutti i colori tipici della tempesta –il bleu manganese, il cobalto, l’antracite, il petrolio o la pervinca- fondersi con grazia e drammaticità oscura in una serie infinita di piccole sfumature eclatanti, traslucide e smaltate che nessun genio pittorico, per quanto sensibile ed impeccabile, avrebbe mai potuto lontanamente imitare e raggiungere in splendore e maestà.

Però i quadri degli impressionisti avevano un’analogia di fondo con quel paesaggio tanto surrealmente impregnato di misticismo ed escatologia: penso di non aver ritrovato nemmeno una macchia di vero nero.

Penetrante ed incisivo.

I granellini ruvidi della sabbia cominciarono ad insinuarsi sotto la maglietta leggera di cotone e a graffiarmi la pelle tenera e tanto candida.

Penso di aver riso di fronte all’evidenza netta dello spettacolo che mi si stava offrendo.

‘E questo?’ Ammiccai indicando la volta d’Atlante. Lui si che doveva aver toccato con mano il Capolavoro.

‘Henka, alzati. Davvero.’

Non c’era nessuno attorno a noi, e pensai fosse strano data l’evenienza. Ma Giulio mi spiegò con semplicità e una certa nota di stanchezza nella voce che mi aveva quasi trascinato seco per uno stretto sentierino nascosto tra gli scogli ed una rada ed arida vegetazione di macchia mediterranea fino ad una piccolissima, graziosa caletta che condividevamo solo noi due e i nostri discorsi di muta comprensione reciproca.

Lui l’aveva scoperta per caso.

Sospirai mentre facevo leva sulle braccia robuste e mi sollevai dalla sabbia ancora tiepida. Mi guardai intorno e osservai con più circospezione ed un’ammirazione quasi tangibile la sinfonia accurata del paesaggio che si snodava progressivamente davanti ai miei occhi sbalorditi.

Eravamo quasi chiusi tra due pareti di roccia molto alte dalle quali si dipanava una sottile lingua di scalee scavate direttamente nella pietra –eccolo, il sentiero per il quale ero stato tanto faticosamente trascinato-. Dietro di noi si ergeva con imponenza e pomposità orgogliose una parete a strapiombo alta almeno una ventina di metri, sulla quale cresceva un boschetto refrigerante di pini marittimi.

La spiaggia, come tutte le spiagge della Liguria, non era ampia fino alla battigia, piuttosto una lingua sottile, e non correvano più di quattro metri dal dirupo contro il quale ci eravamo accoccolati al bagnasciuga.

In lontananza scorgevo tre isole il cui profilo era illuminato dalle luci della luna e dai puntini indistinti e tremolanti delle abitazioni. Un faro, sulla più piccola di queste, illuminava costantemente ad intervalli regolari la costa nella nostra direzione.

Ma il vero spettacolo era il mare, così fastidiosamente simile in tutto e per tutto al cielo opaco nelle  sfumature, se non per il moto ondoso aritmico e quella tragicamente toccante scia luminosa che lo attraversava con caparbietà.

Allora doveva essere trascorsa la mezzanotte perché la cerimonia tradizionale era già stata effettuata: ogni anno, alla fine di Luglio, venivano lasciati scivolare in mare dei semplici lumini bianchi, un perlaceo distillato di lucentezza, in piccole miniature di imbarcazioni che dovevano permetterne la traversata.

I lumini viaggiavano fino ad essere sopraffatti dalle onde in una processione che mi incupiva l’animo.

Giulio mi stava accarezzando i lunghi riccioli biondi per ripulirli dalla sabbia.

Mi sdraiai di nuovo appoggiandogli la testa in grembo, mentre lui continuava la sua opera meticolosa, e mi sfuggì un sospiro di profonda tristezza.

‘Capisci cosa voglio dire? Quest’atmosfera… nient’altro che un’insieme di percezioni sensoriali, è in grado di condizionarti, seppur in minima parte, l’animo.’

‘Sì. Sono un po’ triste.’

‘Lo sospettavo Henka.’

‘E tu non lo sei?’

‘Lo sono sempre.’

‘Mm. Dimenticavo quanto sconfinate fossero la tua autocommiserazione e la tua perenne depressione.’

Fece un verso che significava di tacere –avevo imparato anche a decifrare la sua lingua fatta di espressioni facciali e smorfie-.

‘Ma io non voglio essere costantemente influenzato nella mia personalità!’

‘Eh, ma è così dall’inizio del modo! Sono situazioni che scattano a livello inconscio.

L’uomo, per forza di cose, percepisce il mondo che lo circonda, e ne è vincolato. Il giorno che ci dimenticheremmo della nostra anima, allora saremmo finalmente felici. Ma a quel punto non avrà più alcuna importanza.’

 

--- Mi vergognavo a darvi solo quel capitolettino-ino-ino… e poi mi porto avanti, perché tra un po’ di päivä (giorno. Il plurale non lo so fare. Chissà quando arriva la grammatica finlandese che ho ordinato). Dicevo che tra un po’ di giorni (e non mi ricordo di preciso quando, tanto per cambiare) vado in gita (ah ah). Sto via una settimana, quindi devo anticipare due chappy prima o dopo. Sennò non finiamo più… vero che siete contenti? Eh?

Come sono magnanima.

Mah, mi sento depressa. Sensei, un’altra mail! Sto per morire! T___T non sono abituata a questo schifo… uffa…

Lo sai che… ho rivisto i mitici bigliettini di mate e credo di aver copiato da te… nel senso… aver copiato proprio la tua verifica, il che non sarebbe grave se non fosse per il piccolo particolare che erano due verifiche diverse. Come ho potuto? T___T. Ho anche rotto la busta del biglietto del compleanno di Winnie… quella con scritto “auguri per i tuoi 4 anni”. La conservavo da un sacco di tempo. Sigh.

 

A Pasqua sono andata a Tellaro e ho cominciato a vagare sconsolata per tutti i posti che vi ho descritto (la maggior parte non sono inventati). Mi ricordavo piuttosto bene. Strano. Io non ho una buona memoria. Qualcuno dice che non ho una memoria.

Comincio a credere di essere pazza, a furia di sentirmelo ripetere, ripetere, ripetere…

 

Scusate i miei piccoli sfoghi… Vorrei assolutamente recensioni per questo capitolo, perché è uno dei miei preferiti. Vi prego, mettetevi d’impegno. Sniff… solo due minutini… dai…

=D ß fiduciosa della vostra buona volontà.

 

Love_in_idleness

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Capitolo 10
*** X ***


Love – in – idleness

--- vorrei gentilmente farvi sapere, nel caso a qualcuno interessasse, che siamo giunti proprio a metà del racconto ^ ^

 

X. (capitolo kymmenen)

Non sempre si riesce a penetrare nel profondo con la stessa sensibilità spiccata e toccante che possiedono i poeti, fino a districare i recessi impenetrabili e mirabilmente sfaccettati dell’animo affranto.

È una qualità che troppe volte sfugge, una humanitas terribilmente difficile raggiungere in quanto stimolata da pensieri e dottrine troppo sofisticate ed impegnative nei confronti del diritto naturale dell’uomo.

Ciò mi mortificava. Veramente. Perché per quanto fossero sconfinatamene vibranti le passioni di Giulio, e per quanto io mi avvicinassi con cautela ad esse con comprensione, non riuscivo mai ad arrivare ad afferrarle fino in fondo, ed il muro che si ergeva tra lui ed il resto del mondo, tra lui e me, sempre lo stesso che già rivelai essersi costruito da solo, e contro il quale rimbalzavano i suoi dolori ritornandogli addosso, non veniva mai nemmeno scalfito nella sua massiccia evidenza di impermeabilità.

E se il muro non veniva abbattuto Giulio rimaneva isolato nel suo pessimismo. E se Giulio non poteva essere raggiunto, se io non potevo raggiungerlo, nessuno sarebbe mai riuscito a consolarlo.

E se nessuno l’avesse mai consolato la sua tristezza non avrebbe fatto altro che acuirsi.

Il che, intendo tutto questo ragionamento maldestramente strutturato, mi faceva pensare di essergli fondamentalmente inutile ed indifferente. I miei tentativi di redenzione non lo raggiungevano per i motivi più sbagliati. A cosa gli servivo, nel profondo? Non mi riteneva forse alla stregua di tutte quelle persone che lo avvicinavano così superficialmente nel corso della giornata per il suo bel faccino?     

Avrei tanto voluto dimostrargli di essere qualcosa di più, e di volergli bene al punto di essere disposto di entrare in una sorta di simbiosi empatica che aveva come prerogativa il raggiungimento di effetti almeno lontanamente terapeutici per i pezzettini sparsi e scheggiati del suo cuoricino sensibile infranto.

Avrei preferito che mi prendesse così, almeno.

E, invece, anche quella notte, il luccichio fievole e distante della sua anima era lontano quanto il faro che ripetutamente ci abbagliava, quanto quei commoventi lumini che si allontanavano dalla costa sospinti da onde impietose, e, uno dopo l’altro, ne venivano sopraffatti.

Ah, sì, i lumini.

Giulio mi accarezzava i capelli, continuava lentamente con la stessa nota di dolcezza che imprimeva nella voce quando pronunciava il mio nome. E ultimamente lo faceva piuttosto spesso.

‘Henka, Henka!’ Mi chiamava, nel modo strano e non volutamente sbagliato in cui gli italiani, gli stranieri in generale, parlano il finlandese. Anche solo un nome.

Lo stesso problema che ho io nei confronti di questa lingua complessa, comunque.

Giulio ripeteva spesso che il mio accento secco e piuttosto gutturale, quella maniera ingenua in cui mi esprimevo talvolta sbagliando a coniugare un congiuntivo, cimentandomi nella pronuncia di una lingua che avevo dovuto faticosamente imparare dalle basi, gli faceva una certa tenerezza.

Per conto mio avevo disperatamente cercato di insegnargli un paio di parole in quella “allucinante accozzaglia di strani suoni senza senso”, immaginando che per un linguista come lui, uno che si appassiona nella lettura di spessi tomi riguardanti le rotazioni consonantiche e vocaliche che dall’ Althochdeutsch modificavano nell’Old English delle prime popolazioni di schietta germanica a popolare la Britannia, potesse risultare in qualche misura interessante lo studio di un’ulteriore lingua straniera.

Non si era mai impegnato, non gli interessava, non voleva ampliare la confusione linguistica che già aveva in testa; così io mi tenevo il finlandese e lui la sua buffa inflessione meneghina, vivendo in pace con l’anima nostra, e amen.

Ma questo discorso non ci interessa.

Volevo ritornare ai lumini, all’episodio in sé e per sé, che è più impressivo della poco precisa fotografia che potrei dipingervi di un luogo tanto ineffabile.

Certe cose bisogna vederle e toccarle con mano.

‘Henka…’ Lo stava dicendo ancora. ‘…Henka, non dormire!’

‘Mm?’ Che risposta furba gli diedi!

‘Oh, troppa grazia.’

‘Taci, seccatore!’

‘A che pensavi?’

‘A molte cose insieme. Scomodo, vero?’

Alzò le spalle. ‘Scomodo, sì, e non ce la faccio.’

‘Non ce la fai? Ma dai, non ci credo.’

‘No, non ce la faccio più. Henka, mi fa male la schiena. Ti prego, ti prego, alzati! Ho una protuberanza calcificata e molto ruvida piantata tra due vertebre.’

‘Scemo. Mi riferivo al flusso di coscienza.’

‘Quello non è scomodo. È odioso, irrazionale ed irrefrenabile. Questa posizione è scomoda. Possiamo cambiarla?’

Gli concessi di risollevarsi dalla sua scomoda posizione e lo abbracciai ancora più strettamente di prima, facendo scorrere le mie mani sulla seta fine e delicata della sua camicia.

Si lasciò avvicinare le labbra e lo baciai. Davvero. Senza nemmeno sapere cosa mi prendeva, avvertendo solo la forte scarica d’adrenalina che mi invadeva il corpo, permisi alla sua lingua di sfiorare la mia.

E mi piaceva.

 

--- che vergogna ^///^. Lo so che ci ho impiegato mezza storia per farli dichiarare… ma… non so se vi va bene o no. A me così piuttosto luuuuuuunga…

Il liso m’ha detto che secondo lei scrivo troppo complesso. Per me il problema vero è che mi sento troppo ripetitiva. 

Ehi, unico lettore? Your opinion? Mm? No, non tu, sensei… come? Ci sei solo tu? Oh… che bella notizia. Noooo… mi ero tanto impegnata a sistemare tutto T___T anche quella cosa dei riferimenti filosofici…

Ma su… A volte si da, a volte si prende. V___V (sono proprio savia)

 

Dolce far niente. Che bello, dopo che si passa l’interrogazione di letteratura inglese su milioni di pagine la vita sembra più semplice. Sono quattro giorni che non faccio NULLA.

MA E’ ARRIVATA LA GRAMMATICA FINLANDESE AHAHAHAHAH!!!

Nessuno m’aveva detto che il finlandese ha 15 casi, 6 coniugazioni verbali, persino 8 vocali e più eccezioni che strutture che seguono le infinite regole grammaticali…

Minä itken (Piango). Credo. Perché non ho capito molto bene la storia della rotazione consonantica nel tema vocalico debole/forte dei verbi del primo gruppo.

E qualcuno sa cosa siano i casi abessivo, illativo, allativo, adesivo…?

Sono contentissima. Immaginavo mi arrivasse un bel vichingo biondo con gli occhi azzurri che mi diceva “salve, Marto, sono la tua grammatica Finlandese”. Mi è arrivato solo un libro vero. Pazienza V___V.
Io devo imparare il Finlandese. Devodevodevodevo! DEVO leggere il Kalevala in Finlandese, è il mio unico desiderio da quando lessi il LotR (a parte conquistare il mondo e un’altra decina di migliaia di bazzecole). Ora la parte difficile non è imparare il Finlandese (ahah. E pensavo che il tedesco fosse complesso) ma trovare un’edizione finlandese del Kalevala entro i confini della provincia di Pavia o giù di lì.

OPISKELEN SUOMEA!!! AHAHAHAH!!!

La potrei comprare in Finlandia (proprio sotto casa…)

Sensei, ti informo che porterò la mia grammatichina su in gita, se mai trovassi un posto in valigia, visto che tutto lo spazio non destinato al vestiario è stato occupato da biscotti e un bidone da dodici chili di Nutella. Roba da contrabbando…

 

Oh, sì, ve lo dico: io parto ^ ^ (felicità… fiori e maiali che cantano… ho degli sbalzi d’umore incredibili ♪ ♪ ♪)

I go in the schooltrip for a week ^ ^.

Ciao ^ ^

 

Marto_quasi_in_gita

(sensei, ma perché Marto, poi? Che vuol dire? Sono anni che me lo chiedo…)

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Capitolo 11
*** XI ***


Love – in – idleness

--- COMINCIA UFFICIALMENTE L’EPOPEA DA PROFUGA DELLA MARTO. A TRINO VERCELLESE, LA ‘ZATTERA GALLEGGIANTE IN MEZZO ALLE RISAIE’. SE TRA VOI C’è UN TRINESE… O Giù DI Lì… MORANO… ‘STI PAESELLI PIEMONTESI… VI SONO VICINA SPIRITUALMENTE.

 

XI.

Insomma, cosa ci rimaneva, alla fine?

Giulio aveva preso miracolosamente a tacere. E, forse, avrei dovuto preoccuparmene.

Non era afflitto dalla sua esulcerante melanconia?

Vi giuro che a volte non lo sopportavo. A volte avrei voluto afferrarlo per le sue spalle esili e scrollarlo con violenza, gridargli di smettere, che non c’era solo male, e buio, ed una patetica epitome delle orribili pene dell’inferno.

‘Sai, secondo me tu non sei davvero così insensibile.’

Sapevo che il suoi sovraumani silenzi e la sua profondissima quiete non sarebbero durati. O meglio, avrei dovuto aspettarmelo.

Una nuova sensibilità? Probabilmente il mio carattere stava leggermente modificandosi per la troppa vicinanza con un bell’essere della forgia del mio coinquilino.

‘Sto dicendo che devi lentamente riscoprire quel lato occultato del tuo carattere. Andare a fondo.’

‘Andare a fondo?’

‘Scavare.’

‘Faccio un buco…’

‘Idiota.’

Respirò profondamente. ‘Senti… mi parli un po’ di casa tua? Non mi hai mai detto nulla.’

‘Della Finlandia?’

‘Sì. Del tuo paese… della tua vita prima di trasferirti da me…’

‘Io vengo da una zona sotto la Lapponia molto vicina al confine russo di Murmansk. Hai una vaga idea di dove si trovi Kemi?’

‘Più o meno.’

‘Ho un ricordo molto vivido della casa di mia nonna, che era tipicissima, dal tetto basso, in legno, tutta in legno, come voi nemmeno ve la immaginate, e le pareti esterne pitturate in rosso con pigmenti che preservano dal freddo atroce e pungente dell’inverno artico. Lì le case sono tutte separate le une dalle altre dal loro giardinetto di erba verde, e non è lo stesso verde che avete a qui in Italia.’

‘Che verde è?’

‘E’… più verde. Come faccio a spiegarti com’è un colore?

Vivevo quasi sulla linea del circolo polare artico.’

‘Oh. Ma d’inverno fa freddo.’

‘Cadono altissimi, impenetrabili cumuli di neve bianca. Sono paesaggi che lasciano un gran calore, comunque, sono stupendi e bellissimi.

A qualche chilometro da casa mia si vede l’aurora boreale.’

‘Non credo che riuscirei a sopportare delle temperature del genere.’

‘Perché non ci sei abituato.’

‘Ma che clima c’è, d’estate?’

‘E’ un po’ come la vostra primavera. Fa abbastanza caldo. La Finlandia è piena di boschi e laghetti dove l’acqua, al tramonto, si tinge di viola. E intendo che d’estate il sole tramonta tardi, dove tramonta.

Ho una lunghissima serie di immagini fotografiche nitidamente stampate nella mia testa, davanti agli occhi. Ogni tanto le riguardo, e mi sembrano meravigliose e pervase di quella trascendentale perfezione divina.’

‘Uao. Devono essere davvero posti incantevoli. Mi piacerebbe che tu un giorno mi portassi con te e me li mostrassi.’

‘Cicero pro domo sua.’

‘Sì. Te ne prego.’

‘Ti giuro che faremo quel viaggio insieme, se ancora lo vorrai. E ti farò visitare tutta la penisola Scandinava, ci metteremo un mese almeno. Potremmo andare in moto, e fermarci a dormire nei campeggi, in tenda. Perché ci sono dei campeggi davvero enormi, immersi nel verde, in tutte quelle zone.’

‘Mi stai prendendo in giro, Henka?’

‘No! Promesso!’

‘Davvero, promesso?’

‘Promesso!’

Lanciò un sassolino lontano, nell’acqua cupa e torbida del mare poco mosso della notte.

Detti una veloce occhiata all’orologio. ‘Dobbiamo muoverci, Giulio, altrimenti perderemo l’ultimo autobus.’

‘A proposito, posso farti una domanda?’

‘Forse sì e forse no.’

‘Non preferiresti tornare in Finlandia, se è davvero così bella e vivibile?’

‘Non così profondamente.’

‘E come mai?’

‘Ho i miei motivi… devo finire l’università… tu… adesso alzati.’

 

--- Morte in vacanza atto secondo/Marto: in realtà sembra un capitolo inutile, ma ha un suo senso fondamentale ^_^. Però a me sembra noioso…

Morte in vacanza atto primo/Vlad: scrivi ‘senso considerevole’ [fitta di Divina Giustizia colpisce Vlad al fianco]

Marto: i tuoi cinque minuti di gloria…

Vlad: O__O [non capisce]

Marto: commento sul mio lavoro? Mm?

Vlad: belloooooooooooooooooooooooo!!!  [non me lo sto inventando!!!]

Marto: posso farmi pubblicità?

Vlad: prego.

 

*** dal testo di Metropolis al jingle del detersivo tantantantan ***

Filate tutti a leggere l’altra mia one-shottina che ha un titolo suomi il quale, al momento, mi sfugge… Olenko valon edes- non mi ricordo come si dice ‘davanti’. Maledetto finlandese con venti declinazioni T___T.

*** fine reclame pubblicitaria ***

(Vlad il tuo gatto mi sta uccidendo)

 

Allora, buon 25 aprile a tutti, io lo trascorrerò da Vladimira (ehi, è già il secondo giorno a casa tua!) a vedere il Corvo (siccome non l’ho mai visto e mi hanno detto che ricordo molto ‘il corvo’. Non nel senso che sembro un uomo, eh…).

Lasciate un commentino, se leggete ^_^

E poi ho risposto nella pagina recensioni, se non aveste notato. Filate a leggere l’altra fic. Siete OBBLIGATI. Schnell! à

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Capitolo 12
*** XII ***


--- L’insonnia colpisce ancora

--- L’insonnia colpisce ancora.

Sono le tre del mattino e non riesco a prendere sonno.

In the end è un capitolo pesante…  ^ ^’’’

 

XII.

Alla fine si fa sempre come vuole Giulio.

Non che ci metta particolare impegno persuasivo nel tentare di convincermi della giustezza delle sue idee o proposte. Basta che mi guardi con aria supplichevole ed io accondiscendo, perché mi faccio intenerire da quei sottili occhi verdi e da quella boccuccia di rosa dispiaciuta.

Così, nonostante ce l’avessi messa tutta a portarlo con me, dopo esserci staccati con remore da quel paesaggio metafisico per risalire il sentierino serpeggiante scavato nella roccia, camminammo a rapidi passi fino alla fermata dell’autobus dove lui, mostrandomi un volto implorante e disperato mi fece notare che erano già arrivati tre supporti e che comunque la calca rimaneva asfissiante. Finii per adeguarmi al suo capriccio.

‘Va bene…’ Sospirai con tono di rimessa rassegnazione, ritornando sui miei passi.

Non mi stava seguendo.

Si voltò verso di me, che già mi trovavo ad alcuni passi di distanza dalla sua posizione –se ne stava con la schiena dritta impuntato su quel marciapiede sporco- e mi disse candidamente, sorridendo: ‘Di lì tagli tutto il pezzo di scalinata, Henka. Accorci la strada.’

‘No.’ Scossi la testa riccioluta. ‘Non – se – ne – parla.’

‘Beh.’ Scrollò le spalle sottili. ‘Io la strada la conosco. Puoi tornare da solo se non ti da fastidio.’

‘Lo stai facendo di nuovo!’ Urlai dall’altra parte della strada, prima di avvicinarmi.

‘Cosa?’

‘Mi ricatti moralmente, come fanno i bambini piccoli.’

‘Ma se funziona…’ Si rabbuiò un istante. ‘Anche tu lo stai facendo di nuovo.’

‘Di che stai parlando?’

‘Hai ricominciato a trotterellare al mio fianco.’

‘Io non trotterello!’

‘Ah… invece sì. Per esempio, adesso, in questo momento, tu stai trotterellando.’

‘No! Sto ciondolando da una parte all’altra di questa viuzza strettissima per fare in modo che tu mi guardi in faccia, ma questo non ha nulla a che vedere col trottolare.’

‘Trotterellare.’

‘Sì. Quello.’

Giulio fece spallucce. ‘Forse non sai nemmeno di cosa sto parlando.’

‘Invece –‘

Si mise a canticchiare a bassa voce una canzone che non avevo mai sentito, ma lui mi assicurò che, all’epoca dei suoi genitori, era famosissima, un vero pezzo da hit parade.

Non è che Giulio fosse particolarmente stonato, lui aveva una voce che grattava, e molto bassa. Quello non era certo il suo genere di canzone. Diceva: ‘Magari ti chiamerò trottolino amoroso dudu e dàdàdààà… il tuo nome sarà il nome di ogni cittààà…’

Sul momento mi fece ridere molto. Ancora se ci ripenso, se ripenso a tutta quella notte e a come mi sembra impossibile che potesse essere trascorso un lasso di tempo così breve per un discorso così ampio che, avrei giurato, avrebbe richiesto una vita mortale per poter essere degnamente concluso, sorrido tra me e me. 

‘Immagino di non poterti chiamare trottolino amoroso.’

‘No. Anche se non so cosa sia un trottolino.’

‘E’ una cosa simpatica.’

‘Non ci credo.’

‘Allora sei un uomo di poca fede.’

Camminando lentamente col suo portamento aggraziato, le braccia incrociate dietro la schiena ritta mentre si voltava a destra o a sinistra per guardare il porticciolo, un giardino particolarmente fiorito di buganvillee ed edera verde che si arrampicava sulla cancellata di una casa coloniale, uno scorcio caratteristico sul mare che sarebbe potuto fuoriuscire dalla tela di un pittore puntinista, la luna che era stranamente rossa, piena e più grande di quanto fossi stato abituato a riconoscere, procedette fino ad uscire dal centro del paese e dalla piazza su cui dava la chiesa dalla facciata massiccia a capanna, circondata da aiuole rinsecchite e grossi vasi di terracotta riempiti solo da terriccio riarso dal solleone, e si infilò in una viuzza laterale, chiusa da alte costruzioni intonacate in rosso o giallo, quei lunghi vicoli confusi e sempre in salita che contraddistinguono la zona e che, a parere di Giulio, avrebbero dovuto essere ripuliti per poter riconquistare l’alone di fascino che era giusto possedessero luoghi tanto incantevoli.

Ma c’erano un sacco di cose che avrebbero dovuto “essere ripulite” per lui.

Giulio non metteva mai le mani in tasca, per lo stesso motivo per cui camminava dritto come un fuso. Gli sembrava poco elegante.

Gli avevo più volte ricordato quanto questa sua ostinazione di dimostrarsi sempre impeccabile –di fronte a tutti tranne che al sottoscritto- potesse essere percepita dalle persone come una mancanza di naturalezza.

Naturalmente lui non smetteva di muoversi lentamente e con una certa grazia di movimenti, come se ogni suo gesto fosse calcolato per intensità e durata, e i suoi passi dovessero essere gentili sulla terra cosparsa di teneri petali di fiori.

Io sapevo che lo faceva per un puro desiderio estetico e perché era stato bacchettato sulle nocche fin da bambino, e questo, a ben vedere, gli bastava.

Mi guidò per alcune vie buie e maleodoranti finché non giungemmo ad una scalinata in cotto più ampia, almeno un metro e mezzo di larghezza. Non potevo distinguere quanto fosse lunga perché svoltava improvvisamente con una curva a gomito dietro ad un angolo.

Proseguimmo in silenzio contro il muretto di pietra viva che si alzava di un metro dal suolo e sul quale un giardino terrazzato era separato dal vuoto da una rete metallica. Alcuni gradini portavano al cancelletto che vi immetteva. Dall’altra parte la strada proseguiva, per mia profonda gioia, in piano.

Continuammo nella direzione della costa –sì, mi sembrava proprio che stessimo tornando indietro- per alcuni minuti, incontrando un gran numero di giardini fioriti, finché non sbucammo di nuovo nella scalinata di cotto.

Fino a quel momento avevamo proseguito nel buio, e finalmente la luce di un lampione lontano ci illuminava la via tortuosa ed impervia.

Giulio si sedette su un basso gradino per aspettarmi, e vidi che osservava l’orologio. Scorgendo di sottecchi il quadrante mi accorsi che mezzanotte era già passata da ventitré minuti.

Volevo sedermi anch’io.

Mi sorprese come una tempesta nel deserto.

‘Mi sono buttato.’ Disse semplicemente con quella sua usuale voce calma e ben calibrata.

‘Scusa?’

‘Mi sono buttato.’ Ripeté annuendo, come se stesso parlando di un argomento conosciutissimo ed io avessi avuto la possibilità, il dovere, di capire a cosa si stava riferendo.

Improvvisamente alzò lo sguardo e mi squadrò coi suoi occhietti verdi sempre disperati aggiungendo un sottile: ‘Stasera. Prima di cena.’

‘Ah.’

Mi accovacciai accanto a lui che subito si adagiò appoggiando la testa sulle mie gambe e distendendosi per quanto permetteva l’angusto passaggio e i suoi centonovantatre centimetri di superba altezza.

Aveva staccato un rametto dall’oleandro che ci sovrastava e ora stava giocando coi petali rosa dei fiori teneri e le foglie lanceolate.

‘Questi si chiamano “corimbi”.’

Indicò i fiori che erano disposti tutti allo stesso livello.

‘Corimbo…’ Ripetei addolcendo la “r”. Se c’era una lettera che facevo fatica a pronunciare era la “r”.

‘E il motivo è molto semplice. Delirante.’ Mi interruppe dagli infausti pensieri sui miei problemi di fonetica, precipitando di nuovo nel discorso che fino a quel momento aveva taciuto. ‘Ero così disperato che avevo bisogno di sentirmi male anche fisicamente. Allora mi sono gettato vestito nell’acqua gelida.

Dimmi, Henka, non ti viene mai la straordinaria ed irresistibile voglia di annullarti, di annientarti?’

 

--- non prendetemi per una pazza deviata (a parte per la parte sul trottolino amoroso… per quella posso darvi ragione), io non mi sono mai buttata in mare!!!

Chiariamo… perché Vlad quando ha letto ha fatto una faccia tipo: 0___0. Ha pensato che Giulio avesse voluto suicidarsi. Ma no, voleva solo stare un po’ male fisicamente… niente suicidio.

 

3° giorno di profuga della Marto: diario di bordo.

Vlad: non abbiamo fatto NULLA!!! Solo cazzeggiato!!!

Ore 2.35: ricerca su Gooooooooooooooooooooooogle col mio piccy di un’immy dei sonata da inserire nel mio profilo (andate a vedere com’è bella!!! C’ho messo anni a trovarne una che si intonasse col layout del sito ^_^ ß maniaca)

Ore 2.57: Vlad smettila di parlare di devianze psichiche.

Ore 3.02 Svegliate la sensei!!! Dolce Sensei!!! Dovete farmi tutti compagnia nelle mie lunghe notti insonni…

Ore 3.07: potremmo andare su e giù in ascensore… ß vlad’s idea.

 

Sapete, l’ispirazione per questa storia mi è venuta dal mio ex fisioterapista Marino. Lui voleva uccidermi per motivi che mi sono sempre rimasti oscuri… una volta m’ha messo il tens a manetta, mentre mi ero addormentata sul lettino… a momenti muoio… Marino ti ricordi come stavamo bene insieme, io, tu e la mia schiena distrutta? E cantavi: ‘Meravillllllllosa… caduta dalle nuvole (ß non è così)…’ e io’Aaaaaaaaah! Bastardo m’hai tirato un secchio d’acqua in faccia!!!’

Ho malissimo alla schiena. Non riesco a dormire dal mal di schiena…

 

Rinnovo gli auguri di buon 25 aprile.

 

Marto_ che_non_riesce_ad_addormentarsi_e_non_sa_che_fare…

 

 

Martona ei puhu suomea… T___T

ore 4.08: un'ora spesa a capire come inserire immy nella fic. Mi sembra il minimo che ora ve le guardiate anche voi...

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Capitolo 13
*** XIII ***


Love – in –idleness

--- ^_______^ HO TROVATO 70 EURO IN UN LIBRO!!!! me li ero dimenticati lì tre anni fa...

 

XIII.

 

Il en était d’eux

comme du chèvrefeuille

qui s’attachiat au coudrier :

lorsque il s’est enlacé

autour de la branche,

ils peuvent bien vivre ensemble,

mais si on voulait le séparer,

le coudrier mourait bientôt

et le chèvrefeuille mourait égalment.

« Belle amie, il en est ainsi de nous :

ni vous sans moi, ni moi sans vous ! »

 

Per loro era

Come il caprifoglio

Che si stringe al nocciolo:

dopo che si è avvinghiato

attorno al ramo,

essi possono vivere felicemente insieme,

ma se li si vuole separare,

il nocciolo morirebbe presto

e così il caprifoglio.

“ Bella amica, in questo modo è anche per noi:

ne voi senza di me, ne io senza di voi! ”

 

 Lai du Chèvrefeuille.

 

 

Turbini infuocati di meditazioni senza senso convogliavano nella mia anima pensante ubriacandomi di assurdità ed accostamenti immotivati di parole accuratamente selezionate da meccanismi inconsci semplicemente per il loro suono mirabile.

Questo è quello che chiamo flusso di pensieri senza nesso logico. E non so perché ogni tanto ne sono affascinato e soggiogato.

Forse avrei dovuto cominciare a scrivere delle poesie. Magari un diario.

Aveva una certa perversione quella realtà che mi appariva così efficacemente distorta.

Non vi saprei spiegare il motivo logico. Non vi saprei spiegare un motivo e basta.

Avevo cominciato a pensare ai cristalli.

Ricordai che un giorno sfogliavo il mio infallibile vocabolario monolingua, fedele compagno di nottate di studio all’insegna di questo sofisticato idioma: IL GRANDE DIZIONARIO GARZANTI della lingua italiana.

Ero ancora uno studente delle superiori assolutamente convinto della sua scelta di studiare l’italiano e completamente immerso nella dolcissima felicità di aver vinto una borsa di studio per frequentare un’Università italiana.

Avevo dovuto attraversare mezza Finlandia per trovare un vocabolario monolingua del genere: duemilatrecentodue pagine di suoni melodiosi e articolati che non aspettavano altro che essere appresi.

Inutile che vi dica quanto ami la lingua italiana, la sua complessità e le sue costruzioni perifrastiche che, ad impararle da fuori, fanno veramente venire il mal di testa.

Non vorrei mai andarmene dall’Italia!

Beh, quella notte buia, come possono essere le notti d’inverno a latitudini elevate, io cercavo guidato dal caso parole che non conoscevo e le trascrivevo per poterle imparare meglio a mente lucida.

Sono convinto che non molte persone sappiano che cosa sia l’ epitassia, ovvero quel fenomeno in cui due cristalli di specie diversa si associano in modo che la struttura cristallina dell’uno costituisca il supporto per la struttura cristallina dell’altro.

Così io e Giulio saremmo stati come due cristalli epitassici –notare come l’aggettivo non sia contemplato nella mia bibbia-, e questo è per ritornare al precedente discorso che verteva sciaguratamente sul fatto che ci sorreggevamo a vicenda colmando ognuno i difetti dell’altro.

Mi viene in mente un paragone moto meno scientifico, datato, annoverato nella gentile letteratura cortese della Francia Medievale, nel poema di Tristan et Iseut.

Sulle loro tombe, amanti disperati, la leggenda vuole che fossero cresciuti nottetempo un arboscello di caprifoglio dalla parte di lei, ed un arbusto di nocciolo dalla parte di lui; ovvero due piante che secondo la tradizione popolare non possono vivere l’una senza il sostegno dell’altra e perciò non esistono se non insieme.

E Giulio sarebbe sicuramente stato un aggraziato caprifoglio rampicante dai profumatissimi fiori bianchi e candidi, e sofficissimi.

Questa poetica analogia cullava nel profondo del mio cuore, nei recessi della mia anima, una sorta di arrière-pensée che non avevo osato ammettere esplicitamente nemmeno all’io razionale di me stesso, ovvero la tacita soddisfazione che traevo nel considerarmi a ragion veduta il supporto morale e spirituale di Giulio, della sua vita intesa nei periodi di quiete.

Forse ero solo un grande egoista.

Ma lo amavo da morire.

 

--- Capitolo piccino piccino ma che a me piace tanto ^_^ perché adoro la letteratura francese e il mio vocabolario di italiano.

Bleah, sto diventando melensa. Una volta ero tutta suicidi e degenerazioni e devianze psichiche… dov’è finito il mio sadismo?

Perso? Anche quello? Ho perso anche il sadismo? È possibile perdere proprio tutto?

V___V sono un disastro.

Guardate, questo chap è regolarmente postato di pomeriggio, così non ci trovate più commentini idioti scaturiti dalla stanchezza opprimente (però era proprio bella l’immy, eh? Gli Altaria sono la seconda finnish band dove suona il mio marito n.21 Jani Liimateinen. Ho dovuto scorrere ventitré pagine di cronologia alle quattro del mattino per beccarla, perché avevo perso il collegamento T___T. nessuno mi dice: ‘brava Mirtho?’ ß Come il mirto della Valeria).

Il mio orologio biologico è uscito devastato dall’esperienza Trinese. Pranzare alle quattro non è cosa da tutti i giorni, soprattutto se ti sei alzata da tempi relativamente brevi e la prima cosa che hai fatto nella tua giornata vegetativa è stata leggerti un trattato sulla ‘filosofia del viaggio nel tempo’ per poter capire almeno vagamente di che cavolo parlasse il film che hai visto –da inguaribile stordita- giusto poche ore prima… Credo di essere una delle poche persone che hanno avuto l’onore di arrivare alla comprensione di Donnie Darko. Ma che bel film! ^_^. Un film che comincia dalla fine non può che sembrarmi una genialata ß scelto dalla sottoscritta, obviously…

Ieri facevo un check-up delle recensioni… ho perso ben tre recensori per strada. Molto male malissimo. Mm… pazienza. Crisi mistiche. Mi deprimo un po’…

Grazie Zero ^_^ senza di te…

Che casino… basta, vado a farmi una doccia fredda (comunque ho notato che ti piacciono i finali un po’ disfattisti. Ho spezzato il discorso V___V. non l’ho fatto apposta!)

Fatto questo piccolo sfogo vi lascio a più furbe letture.

 

Adieu!!!

 

La Marto vi augura una buona settimanaaaaaaaaaa, io finirò in galera per tentato triplice omicidio. Venitemi a trovare ^_^…

☼☼☼

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Capitolo 14
*** XIV ***


Love – in – idleness

--- Ehm ehm. Siccome è un capitolo quasi interamente riscritto, ricucito ecc ecc ecc e soprattutto siccome a mio modesto parere non è riuscito un granché… ehm… vorrei giusto sapere qualcosina… mi sembra quasi… forse ho calcato troppo la mano, e se me ne accorgo io… ß stordimento colossale.

E’ anche un po’ più lungo del solito.                        

Parliamo di funerali.

 

XIV.

 

Que m’importe que tu sois sage?

Sois belle ! et sois triste ! les pleurs

Ajoutent un charme au visage,

Comme le fleuve au paysage ;

L’orage rajeunit les fleures.

 

Le mattonelle di cotto sulle quali procedevamo camminando lentamente, immersi in silenzi più infiniti di quanto le nostre capacità ci permettessero di sopportare, non erano perfettamente livellate né squadrate in modo da eguagliarsi l’una con l’altra. Separate da delle leggere lingue di cemento o calce, così rosse e ancora calde per il sole battente che di giorno le colpisce senza risparmiare nulla negli stretti punti in cui le ombre delle alte abitazioni non gettano un minimo di respiro e rinfranco, arrancavano serpeggiando per il basso monte semiarido che lambisce quella punta di costa. Immaginai che un gomitolo intricato di scalinate come quella lo percorresse per intero.

Giulio faceva scorrere la mano sui muri delle case dal ruvido intonaco rosa pesca, arancione e rosso.

Di tanto in tanto una fronda carica di foglie e di frutti, limoni, arance o susine, si protendeva verso i nostri volti, nell’incavo della scalea.

Giulio ne staccò un rametto e prese a giocherellarci come aveva fatto poco prima con l’oleandro.

L’aria, stranamente, non profumava di nulla, se non di vuoto e vacuo silenzio -così dolce e gentile nello scorrere sulle mie stanche membra-, le stelle palpitavano, vibranti, come fiammelle di piccole candele scosse da infiniti soffi di brezza d’ Espero, e la luna maestosa, ingigantita nei suoi riflessi rubino dalle percezioni della mia anima turbata ci sovrastava nella sua gigantesca mole rubiconda e ci avvolgeva nel suo calore evanescente coi sentimenti benigni di una madre.

In quel luogo dimenticato da ogni essere umano, sul quale Dio aveva magnanimamente deciso di stendere un velo di fine grazia ed imperturbabile quiescenza, non mi sentivo a mio agio.

Era come se lo avvertissi nella temperatura innaturalmente fredda. Forse avevo soltanto capito che la tempesta stava per sopraggiungere di nuovo, e violenta.

Era l’una passata, ormai.

Camminavamo senza una meta.

Credo che Giulio sapesse benissimo dove stavamo andando e dove voleva andare era esattamente il più lontano possibile da dove avrebbe dovuto portarmi. Sceglieva tutti gli angusti passaggi scavati tra le murature per proseguire il cammino. Forse lo faceva perché in quel modo, avanzando uno dietro l’altro, non potevo guardarlo in faccia.

Poi si fermò.

‘Henka…’ Mi richiamò a sé con la sua voce più sottile.

Quella volta fu atrocemente vicino al pianto, nonostante ce la mettesse tutta per reprimere le lacrime. Mi accorsi della sua voce incrinata pericolosamente ed ebbi paura e vergogna.

Lui tirò su col naso e scrollò le spalle, voltandosi verso di me.

‘Ci sono cose che mi sfuggono…’ Mi disse.

Si sedette su un gradino basso prendendosi la testa tra le mani delicate. Sentii distintamente i suoi singhiozzi.

Non sapevo cosa fare, cosa dire, come comportarmi.

Non l’avevo mai visto stare così male.

Mi sedetti accanto a lui e lo cinsi con le braccia.

Mi sentii sinceramente sollevato, come se solo ad offrirgli quel contatto ingenuo potessi arrivare a rincuorarlo più in profondità che con mille parole pronunciate male.

Le sue braccia si strinsero attorno al mio torace avvolgendomi con un calore appassionato che mi fece rabbrividire dal piacere, la mano destra stringeva fortemente un lembo della maglietta, la sinistra si insinuava tra i miei lunghi e folti capelli ricci. Appoggiò il volto nell’incavo delle mie spalle.

Potevo sentire il suo respiro irregolare che cercava di carpire l’aria, e le lacrime che continuavano a scendere copiose dai suoi occhi smeraldini, le sue labbra umide increspate in una smorfia di disperazione premere contro la pelle vellutata del mio collo.

‘Non sarebbe dovuta andare così…’ Sussurrò tra i gemiti.

Sensi di colpa.

Atroci, miserevoli, crudeli, feroci, riprovevoli, esulceranti sensi di colpa.

Ecco cosa lo affliggeva.

La vista di suo padre e della sua compagna, l’amarezza suscitata nel suo cuore fragile da ricordi tanto deprecabili. E non mi era nemmeno venuto in mente.

Lo stavano dilaniando, lo laceravano quei maledetti sensi di colpa.

Li odiavo.

Odiavo tutti, e tutto il mondo, perché l’avevano portato all’esasperazione. E odiavo anche me per non essere stato abbastanza sensibile ed attento.

Tutto era squallidamente corrotto e macchiato dall’imperfezione, e lui, che era l’unica persona che avessi mai conosciuto ad essere rimasta immune dalla tragedia, stava sfiorendo per l’unica sua colpa di aver tentato di continuare a combattere.

Era una follia.

Bisognava apporvi la parola fine.

Gli accarezzai i capelli con delicatezza e gentilezza.

Lasciate che vi spieghi alcuni particolari fondamentali della vita di Giulio ed un episodio che lo segnò in maniera irrimediabile: la morte della sua vera madre.

Conosco molto bene la faccenda per intero perché ero già in Italia quando accadde, e vivevamo insieme. Era successo una domenica sera, ed era stato per suicidio. Lei aveva ingerito più antidepressivi di quanti il suo organismo avrebbe potuto sopportare.

Posso giurarvi come gli fosse crollato il mondo addosso, assieme a tutto il suo insopportabile ed opprimente peso, e per dei giorni smise di essere il mio Giulio per diventare la brutta copia melanconica ed apatica di Giulio, solo letto e cimitero.

Ho sempre sospettato che il trauma non gli fosse mai passato.

‘… non l’avevo fatto apposta.’ Non stava cercando di convincere me, che ci credevo più di quanto lui stesso facesse. Tu non hai idea di come mi senta responsabile… tutte le volte che cerco di figurarmi mia madre nel momento del suo massimo splendore e della sua bellezza mi si insinua il ricordo di lei nel feretro, i lineamenti devastati.

Cosa vuol dire? Sai, in quel momento l’unico mio pensiero, nella camera ardente piena di fiori colorati che stonavano miseramente col mio lutto, è stato che per me la Morte avrebbe sempre avuto quel volto sciupato, quegli stessi occhi infossati, quelle labbra screpolate, quella pelle solcata da mille rughe… mia madre è il mio simulacro della Morte, perché non l’avevo mai vista, e non vedrò mai più nulla che le si avvicinerà tanto!

E poi c’erano quelle persone che mi facevano le condoglianze, e magari non mi avevano mai visto. Ipocriti! Io li odiavo, tutti quanti. Non avevano rispetto per le singole tragedie umane che si consumavano sotto i loro occhi, perché non erano in grado di viverle. Non era vero che si addoloravano e si dispiacevano. Volevo stare solo nel mio dolore e loro mi assicuravano di condividerlo. Li avrei uccisi tutti uno dopo l’altro e avrei finalmente potuto celebrare un sobrio funerale solo con la mia profonda angoscia dilaniante. Avrei preso le loro teste e le avrei fracassate tutte violentemente, sbattendole una con l’altra, perché mi faceva schifo la loro compassione, mi disgustavano quei maledetti sorrisi di circostanza, o quello sguardo prontamente abbassato, la voce debole con cui mi parlavano, come se lei stesse semplicemente dormendo nella sua comoda bara foderata in seta rossa!

E quei medici che me l’avevano accudita di nascosto?

La medicina è inutile, profondamente. A volte non serve. Servirebbe Dio. A cosa servono i medici se non possono curare né il corpo né l’anima dei loro pazienti?

Serve solo Dio, e l’aiuto di Dio, di tutti i suoi angeli confortatori, ma in momenti come quelli non si crede a niente.

La medicina non serve.’

‘Avresti avuto un’aspettativa di vita molto più bassa, Giulio. Ci pensi? Tua madre avrebbe perso molto tempo.’

‘Gli ultimi giorni non era cosciente. Il coma mi impediva di parlarle.

Sai cosa significhi pregare Dio di uccidere una persona che ami perché non sopporti di vederla spegnersi lentamente e tra atroci sofferenze giorno dopo giorno, e presentarti davanti a lei, che forse sente tutto e ti ascolta con patetica rassegnazione perché nemmeno riesce a parlare mentre tu la conforti? Vedere la sua pelle fresca e tonica incresparsi in mille rughe e la malattia deformarla, ed ognuna di quelle sue sciagure rappresentare un dolore patito per una causa persa? È questo che mi ricordo! Il suo corpo morto che continuava a conservare la sua splendida anima, e l’anima recitare la sua preghiera silenziosa affinché qualcuno ponesse fine a tutto quel delirio, affinché la lasciassero morire in pace e le permettessero di guadagnarsi il suo tranquillo Paradiso indolore!’

‘Hai sperato davvero che morisse?’

‘Cosa mi restava da fare? Meglio morire subito che –‘

Appoggiai la mia guancia contro la sua fronte calda.

‘Immagino sia umano. Naturale. Una sorta di difesa immunitaria non-specifica. Lo farebbero tutti. In fondo hai pensato a lei, non a te, che te ne saresti rimasto qui, col rimorso e la patetica nostalgia del lutto. Ma sono solo frasi fatte. La verità è che vorrei entrare dentro al tuo bel corpo e strapparti quel tumore che ti divora, anche facendoti male. Lo vorrei davvero. Ognuna delle metastasi che ti arreca danno.

Ti stai facendo diventare il sangue amaro.’

‘Sono sanissimo. Questa mi è sempre sembrata una beffa. Anche mio padre è sanissimo e  un sacco di persone che meriterebbero la morte più di lei.’

‘Se aspetti la giustizia, allora hai molta strada da fare. La Giustizia divina non è per i mortali, unicamente per le anime dell’oltretomba.’

‘E questo dovrebbe rincuorami?’

Scrollai le spalle. ‘Dovrebbe farti credere che se ti impegni per raggiungerla hai ancora la possibilità di arrivare ad un punto di ricongiunzione con tutte le persone che hai mai amato e ti hanno abbandonato per seguire i progetti del destino.’

‘Parli così perché non hai mai sperimentato di persona una perdita vera.’

‘No, hai ragione.’

‘Henka mi è venuto freddo…’ In effetti stava rabbrividendo, così strinsi ancora di più l’abbraccio appoggiando il mio mento appuntito contro la sua schiena dritta.

Mi sembrava un contatto magnifico, diverso da tutti quelli che avevamo mai avuto, più sentito e sincero.

Lui si era spostato sedendosi sulle mie gambe e ora mi stava accarezzando la schiena.

Lo adoravo.

Gli chiesi se voleva andarsene.

‘No. No, rimaniamo qui ancora un po’.’ Mi rispose.

E così lasciai che continuasse a scorrere le sue mani tra i miei capelli, come se la soddisfazione di un semplice gesto che aveva in sé qualcosa di puro e perverso insieme lo potesse sollevare o distrarre da tutti i suoi innumerevoli pensieri catastrofici.

In realtà mi piaceva.

Credo potessero essere trascorse delle ore, seduti su quel gradino.

‘Non me lo spiego. Secondo te perché io non riesco ad adattarmi al flusso della corrente, e mi attacco in maniera morbosa a te?‘

‘Non ha importanza. Forse ti ci vorranno cent’anni per capirlo.‘

Le sue dita mi arricciavano una ciocca di capelli. Doveva sempre muovere le mani quando era agitato o in imbarazzo, e in quel momento, lo intuivo, avrebbe tanto desiderato farsi un altro veloce bagno in mare.

 

 

--- Mm… che brutta bestia. Ormai il trauma è passato (credo). Non guardate mai nelle bare, ragazzi, altrimenti finite per ridurvi come me.  Voi lettori siete come delle palline anti-stress, posso spremervi e sfogarmi V___V. Sorry. Detto così sembra davvero pessimo…

Zero, se vogliamo dirla tutta la mia crociata per il vocabolario (umiliato, sottostimato, bistrattato)  è qualcosa che mi pervade nel cuoricino. Perché devi sapere che nella nostra caserma-scuola per quindici e passa classi abbiamo UN solo vocabolario risalente al primo conflitto mondiale, più o meno. E allora non dovrei farne un caso politico? Mi batto per i vocabolari. Non ci vuole tutta la tua innata filosofia (che vedo proprio da lontano) per capire che non si può pretendere di imparare l’italiano senza un vocabolario. E l’italiano è la lingua più bella del mondo. E poi… Perché il fatto che io studi finlandese sembra a tutti una cosa stupida, inutile, scellerata (però nessuno aveva ancora detto: “masochista”)? Ma nel caso andassi in Finlandia dovrò pur sapere il finlandese, no? Altrimenti come faccio a farmi capire? Il finlandese mi ricorda l’elfico. È una lingua meravigliosamente musicale che per me vale assolutamente la pena imparare. Mica sono l’unica pazza, qui ^_^, Invader ha addirittura scritto una poesia in giapu… io non arrivo a tanto per ora. Non riesco nemmeno a fare la costruzione possessiva T___T ci vuole l’adessivo, … sigh… i finlandesi non hanno il verbo avere!!! Aaaaaaaaaargh!!!

Comunque: EINE TRAGODIE… (FAUST, URFAUST der tragödie zweiter teil. No, scherzo, non prendetemi sul serio)

Ho scoperto che lo scritto d’inglese comincerà esattamente il giorno e l’ora in cui apriranno i cancelli del Gods of Metal. dio, che tristezza. Mi sento veramente così trissssssssssste… sniff… se c’è un bolognese tra voi vada al Gods per me, per favore. Bologna=Gods= due giorni di full immersion nel puro metal= quest’anno ci saranno pure gli Iron… e invece… esame della British. Queste coincidenze mi fanno pensare che il destino avverso e ingrato mi stia simpaticamente prendendo in giro ^___^’’’. Voglio andare al Gooooooooooooods…

 

Al prossimo chap postato sempre più puntualmente. ^_^

 

Die schwarzen Witwe.

 

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Capitolo 15
*** XV ***


Love – in –idleness

- 10!!! Non dieci capitoli, eh! Mancano dieci giorni di scuola. ^_^

I restanti capitoli sono “da quattro in giù, dipende da quanto sventro la storia”.

 

XV.

‘Guarda, guarda, a quanto pare abbiamo trovato un lampione!’ Gridai in mezzo alla strada molto fiero di me stesso.

Era almeno mezz’ora che camminavamo sull’asfalto duro completamente immersi nel buio, quindi vedere una luce lontana, un barlume iridescente ed intermittente che ci attirava come le api col miele, era una specie di benedizione, un sortilegio divino che ci precipitava nella realtà dalla quale ci eravamo drasticamente distaccati per tutta quella strana serata fuori dal comune.

La situazione mi faceva sorridere e contemporaneamente ripensare a quella ridda sconsiderata di episodi malaugurati o felici, vi lascio a giudicare, con una certa punta di amaro in bocca.

Volevo ascoltarlo di nuovo.

Mi lasciava una sensazione di solletico nello stomaco.

Mi chiedevo come potesse essere che la volontà delle persone fosse quella di ricercare il distacco, senza minimamente curarsi dell’impossibilità di non cadere nella tribolazione.

Pensare che sarebbe bastato imparare a sopportare il dolore!

La mano di Giulio era calda, stringendola riuscivo quasi a percepire le propagazioni del suo corpo, le sentite vibrazioni della sua anima, come se avessimo allacciato legami indissolubili che portavano il mio sangue ad unirsi al suo, e il suo a scorrere copioso nelle vene del mio polso.

In effetti un certo piacere si dipanava dall’unione delle nostre mani, dalle dita intrecciate.

Avevo sempre desiderato toccargli le mani.

Era stato più facile del previsto, era bastato semplicemente sfiorarlo e domandarglielo gentilmente. Lui aveva acconsentito sorridendo.

Mi domando con una certa perplessità perché non ci avessi mai tentato prima, come se fosse peccato, come se stessi chiedendo qualcosa di illecito, scandaloso, immorale. Non era mia intenzione andare contro la morale.

Quel contatto intimo e personale rientrava a meraviglia nei dilatati schemi della mia moralità.

Non è forse la moralità un momento di riflessione individuale nel quale si decidono un’infinità di limiti preposti?

Ho sempre avuto una certa reticenza a fare quello che gli altri mi chiedevano.

La mia morale si distacca dalla morale della società, questo perché le mie esperienze e le mie concezioni sempre impregnate di teologia ottimista mi hanno arricchito di modelli di vita e desideri che forse le persone normali, dal punto di vista di una morale sancita da radici ferme e solide derivate una mentalità cristiana da stato d’assedio, non riescono ad accettare.

Ma è mai possibile? La moralità non è una bolla di sapone che scoppia non appena la si sfiora con un dito. Ed è un pensiero assurdo ed insopportabile il fatto che questa moralità sia stata rettificata per guidare un popolo di uomini in preda al totale piacere e abbandono lussurioso dei sensi.

Ognuno dovrebbe possedere un metro di giudizio, e Dio il suo, supremo e giustissimo. Gli uomini non hanno il dovere di creare una loro moralità, e non ne hanno le capacità pratiche. Per questo il mondo è tutto sbagliato. Che siamo fondamentalmente sbagliati non è la novità del giorno.

Se Dio ci ha fornito una sacra Bibbia sulla quale studiare i precetti per una vita moralmente retta, all’insegna di un sacrosanto percorso di rinnovamento spirituale volto alla trascendenza e alla redenzione, non vedo perché gli uomini si arroghino il diritto di ampliarne il contesto.

Tutto ciò che viene quotidianamente propinato agli agnelli immolati sull’altare di Dio è un’interpretazione catastrofica di libri benedetti che come universale messaggio lanciano: speranza e amore nel nome di Dio, tutto quello che vi chiediamo dai seggi alti dell’Empireo.

Che limite ci poniamo, allora?

L’amore è sempre amore. In ogni direzione.

E le persone non hanno né l’autorità, né l’abilità per stabilire il confine tra morale e immorale, o la punizione per gli immorali, perché ciò dovrebbe prevedere lo studio di ogni caso particolare e una riflessione accurata su di esso.

La moralità non deve essere confusa con l’etica, la decenza e il rispetto volto ad una convivenza civile.

Non sto giustificando il male, capitemi bene.

Eppure il male è intrinseco della natura dell’uomo che continua a caderci, per cui tutti i ragionevoli riferimenti di rigida moralità non sono comunque rispettati. Il castello di carte creato dall’uomo per la sua preservazione crolla miseramente di fronte al riflesso di sé stesso nello specchio.

E poi, qualsiasi sia il sentimento benigno che lega me e Giulio, di certo non è immorale. Nessuno che lo vivesse sulla sua pelle potrebbe definirlo tale.

Così mi arrabbio quando le persone distolgono lo sguardo al nostro passaggio, e lo faccio a ragion veduta, perché il mondo è pieno di gente che si adegua alle norme della società borghese senza pensare a realizzare le proprie aspirazioni. Perché poi sono tragicamente immorali.

Per cui tenevo per mano Giulio senza vederci nulla di male. Lo abbracciavo appoggiando la testa sulla sua spalla –è lui il più altro tra i due- e mi facevo guidare tra paesaggi desolati alla luce soave e allo sguardo materno della luna rossa e tonda, e fertile.

Chissà poi cosa ne pensava lei, che ha visto copie di innamorati per secoli e secoli, e forse ha imparato qualcosa dall’esperienza che l’uomo non potrà mai vantare come giustificazione al cospetto di Dio e dei suoi lucenti arcangeli.

 

--- O_O mi sono lanciata nel discorsone… e magari ho detto un sacco di sciocchezze ^///^. Martona e serio sono due termini antitetici.

Ehi è un sacco di tempo che non aggiorno! ^_^ chiedo perdono, ho avuto da fare parecchio… ma vi è piaciuto il chap? Sì? No? Forse? Mm…

Io non sopporto il contatto fisico, specialmente non sopporto quando qualcuno mi sfiora le mani –non è normale…-. E così Giulio e Henka dovevano prendersi per mano.

Ho passato l’interrogazione di filosofia quindi posso vivere fino ad ottobre. Sono stati giorni drammatici, erano settimane che studiavo e ieri quando ho ripreso il libro mi sembrava di non sapere più niente. Mi veniva da piangere. Giuro che se qualcuno mi parlerà di nominalismo nei prossimi tre mesi gli farò una fattura potentissima con le bamboline dalla cinturina rossa (Ah, non potete vedere il mio sguardo invasato!). E brucerò Il nome della rosa. Io non so… chi fa la maturità… ma come ci riesce? Studiare a giugno? Non riuscirò a dare la maturità, sarò troppo devastata…

Beh, mi lasciate un commentino, per favore? Qualcuno mi fa le faccine: *____* che mi piacevano tanto? Tiratemi su di morale. Sono veramente tristissima. Poi ho letto che Inv se ne va, mi è dispiaciuto molto e tutta la tristezza repressa è sfociata in un pianto come non mi succedeva da secoli. Ma dei lacrimoni che se mi vede qualcuno pensa che mi sia morto il fratello. Boh… T______________________T ß voglio altri kleenex!!!

Mi bruciano gli occhi…

 

Love-in-idleness

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Capitolo 16
*** XVI ***


Love – in –idleness

XVI.

 

« Le dieu d’Amour qui, l’arc tendu, s’était appliqué à me poursuivre et à m’épier, était alors appuyé contre un figuier, et quand il se fut rendu compte que j’avais ainsi choisi ce bouton, qui me plasait plus que nul autre, il à pris aussitôt une flèche et il a tiré sur moi de telle façon qu’à travers de l’œil il m’a planté la flèche toute raide dans le cœur ; un froid me pénétra alors, dont j’ai ressenti depuis maint frisson sous ma chaude pelisse.

Quand j’eus été atteint de la sorte, je suis tombé par terre, à la renverse : le cœur défaille, et je restai longtemps sur place, évanoui. »

 

Il dio d’Amore che, l’arco teso, si era sforzato di seguirmi e di spiarmi, si era allora posato contro un fico, e rendendosi conto che avevo così scelto quel bocciolo –la rosa più bella-, che mi piaceva più di qualsiasi altra, prese subito una freccia e la scagliò su di me in maniera tale che attraverso l’occhio me la piantò nel cuore bruscamente; mi penetrò allora un freddo del quale risentii in molti tremiti sotto la mia calda pelliccia.

Dopo esser stato oltraggiato dalla sorte, caddi a terra, riverso: il cuore venne meno e restai lungamente sul posto, svenuto.

 

Guillame de Lorris, le Roman de la Rose

 

Non c’è, a mio avviso, un luogo che, osservato in contemplazione estatica come in preghiera modesta, possa veramente rendere l’idea di fiaba.

Fu un certo Kafka a dire che non esistono fiabe non cruente. Tutte le fiabe provengono dalla profondità del sangue e dall’angoscia. È con le fiabe che si attira l’attenzione degli uomini sulla verità.

Non voglio trascinarvi in discorsi sulle atrocità del pensiero raziocinante dell’uomo. Voglio che per voi la fiaba assuma le connotazioni dello zucchero filato e quelle piacevoli tinte pastello che hanno i castelli delle belle principesse nell’immaginario fervido dei bambini candidamente ingenui.

Ascoltatemi: forse siamo giunti all’epilogo di questa storia torbida, che non avrebbe dovuto occupare più di quattro pagine del vostro tempo.

C’è un castello, nella punta più bassa della Germania, e si chiama Neunschwestein, che viene sempre utilizzato per le pubblicità. Il castello delle fiabe fatto costruire dal re Ludwig in mezzo ai boschi fitti e alle aspre montagne della vecchia Baviera ha i torrioni alti dai tetti cuspidati in tegole di ardesia blu, e le pareti nivee che d’inverno riflettono in modo speculare la neve caduta copiosa.

Perché poi vi parlo di quel castello?

Il re Ludwig venne deposto dal trono, dovette abdicare, sì, perché era stato tacciato di pazzia. Eppure, dal baratro profondo della sua ipotetica infermità mentale aveva permesso la creazione di un capolavoro architettonico così suggestivo da indurmi a descrivere le maestose pareti affrescate con scene della ”Cavalcata delle Valchirie” del suo adorato Wagner in questo tragicamente lungo quodlibet –presuntuoso-.

Io e Giulio eravamo finalmente arrivati a casa, dopo lunghe peripezie e sconsiderate deviazioni dal percorso originario che avevo accettato nella speranza di risollevare il suo pessimo umore, visto che dicono della camminata come di un metodo efficace per scaricare la tensione; e finalmente ci ritrovavamo sul retro della nostra palazzina, davanti al muricciolo che sottendeva un piccolo ritaglio di fiaba.

Non so perché mi fosse tornato in mente quel castello romantico, ma l’immagine era nitida nella mia mente.

- Non permettere al muro che ti sei costruito di imprigionarti in una solitudine sempiterna che non è in grado di regalarti quel miraggio di preservazione nel quale credi! -

‘Non permettere al muro di nasconderti dai miei sguardi amorevoli.’

‘Cosa?’ Giulio si voltò verso di me. Era già cavalcioni sul muretto. Gli avevo fatto notare come in pochi passi si fosse potuto raggiungere l’ingresso, e io stavo precisamente svoltando l’angolo verso la facciata anteriore per attraversare il piccolo patio e raggiungerlo nell’orto, sotto il limone.

‘Non sparire. Non celarmi la tua anima! Ti voglio vedere rifulgere! Lascia cadere il muro!’

‘Ci vorranno dieci secondi, Henka, e… non fare i capricci!’

‘Non hai capito. Non parlo di questo muro fisico.’

‘Ah, no?’

‘No.’

Mi guardò divertito, sospeso su quella costruzione massiccia di pietra viva.

‘Non c’è nessun muro, Henka.’

‘Oh, invece sì. Io voglio entrare!’

‘Prova a passare dalla porta.’ Sorrise e si lasciò scivolare nel giardino.

‘Allora è chiusa a chiave!’ Gli urlai.

‘Vuoi la chiave?’ Rispose ridendo.

‘Certo! Stupido!’

Così non ci pensai due volte a scavalcare il muretto, nonostante non vantassi la sua agilità e la sua esperienza in materia.

‘Bentornato.’

‘Ma se non ci siamo visti che per pochissimi secondi.’

Mi aspettava in piedi davanti alle fronde nodose del limone le cui foglie verdi erano così brillanti da sembrare finte, o ricoperte di cera.

‘Guarda…’ Si arrampicò senza difficoltà sul ramo più basso e ne ridiscese con un balzo qualche secondo dopo stringendo un grosso limone nella mano destra. Avvertii i suoi piedi posarsi con dolcezza sul terriccio inumidito dall’irrigazione.

‘Cosa te ne fai?’

‘Ah… lo mangio!’

‘Un limone? È… aspro… brrr…’

‘Non hai mai mangiato un limone?’

‘No. Non mi piacciono.’

‘Dovresti assaggiarli.’

Mi tirò improvvisamente per la maglietta sottile e mi fece cenno con la testa di salire in casa. Erano quasi le quattro di mattina e il buio cominciava a scemare lievemente, a rischiararsi con lentezza. Avrei desiderato che quella notte, la più lunga della mia vita, non terminasse mai.

‘Non ti arrampichi come una scimmia fin sul balcone, Giulio?’

‘No. La porta è chiusa. Non mi va di aspettare. Non trovi che abbiamo aspettato abbastanza?’

‘Sì…’ Annuii, facendo ciondolare la testa di lato. Mi sfiorò il mento appuntito col pollice e mi sfilò le chiavi dalle mani mentre mi invitava col pensiero a seguirlo attraverso la porta d’ingresso, per le scale.

Quando la serratura di casa scattò, noi entrammo e ci richiudemmo la porta alle spalle, fu come se al mio cuore calasse un battito. Credo che la prospettiva di rimanere solo con Giulio, per la prima volta nella mia vita, mi conturbasse.

Mi infilai nel bagno per fare una doccia fredda, e non perché noi Finlandesi amiamo particolarmente questo genere di cose che forgiano il corpo e temprano lo spirito, quanto per frenare i miei bollenti spiriti.

Non servì a niente.

Quando uscii una nuvola di vapore si sprigionò dalla doccia invadendo il piccolo bagno dalle piastrelle azzurrine e lucide di ceramica. I vetri e lo specchio erano completamente appannati, come le pareti scorrevoli del box doccia.

Mi piacevano le docce con pareti scorrevoli, mi divertivo a disegnare e scrivere su di esse tra un getto d’acqua e l’altro.

Mi asciugai velocemente e mi rivestii. Aprii un poco la finestra per permettere all’umidità di uscire e lasciarmi respirare. Col braccio dipanai la coltre di vapore acqueo che si era depositata sullo specchio e mi osservai con tenerezza accarezzandomi il viso dalla pelle liscia e diafana. Mi soffermai sulle labbra morbide e piene, rosse, a forma di cuore. Labbra molto baciabili. Mi erano sempre piaciute le mie labbra.

Forse erano piaciute anche a Giulio.

Cercavo di non pensare, magari fischiettare una canzone, mentre mi rivestivo e uscivo diretto in cucina. Ma lì mi aspettava solo Utrecht.

Dove diavolo era finito Giulio? Forse era scappato. Forse mi aveva guardato negli occhi con più precisione di quanto io avessi mai fatto con lui.

Accarezzai Utrecht senza prestare troppa attenzione al suo morbido e lucido pelo nerissimo e corsi nella camera da letto.

Giulio non era veramente addormentato: avevo l’impressione che tenesse chiusi gli occhi solo per farmi innervosire.

Sul comodino vedevo il piatto dove il limone era stato tagliato a fettine sottili con la sua proverbiale cura da maniaco, e il coltello ancora sporco del succo trasparente che tutti usano da bambini per inviare messaggi criptati agli amici e che qui chiamate comunemente –buffamente- “inchiostro simpatico”. Il limone è troppo acre per i miei gusti.

Vidi il suo braccio muoversi in direzione del piattino e portare poi la fetta di limone alla bocca. Ne succhiò la polpa un paio di volte prima di rivolgersi a me, che l’avevo ridestato maldestramente dalla sua degustazione.

‘Perché hai mangiato il limone?’

‘Perché mi piacciono i limoni?’

Gli versai un bicchier d’acqua e glielo porsi.

Sinceramente non capivo perché stesse ridendo. Non c’era nulla di comico in quella situazione tanto ambigua.

Lui finì il suo limone senza curarsi del mio sguardo indispettito. ‘Che ne sai che magari ti piace!’ Mi diceva come se stessimo parlando del tempo atmosferico e non di limoni, che potrebbero sembrare argomento stupido se non fossero inseriti in un contesto per nulla candido come quello.

‘Ti ho detto di no!’

Com’era scemo. Stava perdendo tempo.

Mi alzai imbronciato dal letto e ricevetti in tutta risposta una cuscinata in piena faccia.

Gli occhi mi pizzicavano per il nervoso.

 

--- Mm… limoni *ç* … io rubavo i limoni, da piccola ^_^ (cioè, anche quest’estate ruberò i limoni, sono tanto aspri e buoni u___u).

Mi piace la prima parte sulle fiabe. Non c’entra davvero nulla, ma mi è uscita così, e per una volta rimane senza essere bellamente tagliuzzata via.

Che vi dico aujourd’hui? Comincio a soffrire veramente il caldo asfissiante e l’afa. Questo week-end sono andata al mare. Mi piace il mare, solo fino a Maggio. Ho passato due giorni a strisciare contro i muri e a saltare in ogni minimo spazio d’ombra fresca. >__< sto male…

Ah, sì, sì, vi rendo ufficialmente noto che è il quartultimo capitolo. Finisco prima di andare in vacanza, a costo di lavorare di giorno!!! ß io scrivo di notte per chi si fosse sintonizzato or ora (ma esiste qualcuno che legge una storia dal capitolo 16? Io lo faccio coi manga, ma lì ti mettono il riassuntino…).

Buone vacanze a tutti quelli che già partono –o partiranno-. Io me ne vado al fresco… non ho più voglia di far nulla.

Commentate ^_________^ –Vlad sono in lutto per il tuo computer. Quando puoi, commenta. Anche se leggerete questa storia tra cinquant’anni commentatela lo stesso, tanto il mio spirito aleggerà ancora qui in zona…-

Domani esce octavariuuuuum… *me balla la danza della felicità*

^_^

 

Love-in-idleness

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Capitolo 17
*** XVII ***


Love – in – idleness

ULTIMO CAPITOLO DI PARE MENTALI, PROMESSO!!! ^,^

-2 alla fine ♥♥♥

 

XVII.

 

Mi afferrò con le braccia cogliendomi di sorpresa, me ne stavo andando irritato per la sua reticenza.

Mi sentivo profondamente preso in giro e ferito nell’orgoglio.

‘Stupido…’ Gli dissi prima di voltarmi e lui rise buttando la testa all’indietro e facendo ondeggiare la sua chioma corvina, lucida e perfettamente spazzolata. L’avevo rianimato fin troppo con le mie attenzioni. ‘Non c’è niente da ridere. Proprio niente.’

‘Cosa volevi fare, Henka?’

Pronunciò il mio nome come fosse una parola sinuosa, muovendo sensualmente le sue morbide labbra e facendo schioccare la lingua.

‘Niente.’

‘Niente?’

‘Niente per cui io sia ancora in vena!’

Guardò il pavimento come dispiaciuto. La moquette azzurra avrebbe davvero meritato l’ennesima passata d’aspirapolvere.

Poi alzò i suoi sconfinati occhi verdi su di me lanciandomi delle occhiate così ambigue che non riuscii a reprimere un brivido per la schiena. Davvero. Se voleva agitarmi e confondermi ancora più di quanto già non fossi –agitato e confuso-, ci stava riuscendo magistralmente.

‘Peccato.’ Disse scrollando le spalle.

‘Come peccato?’

‘Io non ho detto nulla. Hai fatto tutto tu.’

‘Sei indisponente!’

‘E tu troppo impetuoso.’

‘Stai cercando di sedurmi?’

‘Hai cercato di essere sedotto da me!’

Sgranai gli occhi, incredulo. L’aveva detto veramente. L’aveva pensato veramente.

L’avevo pensato anch’io.

Giulio mi stava ancora fissando a mezzo metro di distanza con quello sguardo provocante.

‘Sei troppo bello per me. E troppo bello perché io non mi innamori. Questo è un problema.’

‘Credi che il fatto che io sia bello generi un problema? Un vero problema? Forse questo è solo il risultato di una tua insicurezza, Henrik.’

‘No, non è vero. Ma siccome sei piacente, in ogni persona, ogni persona, nasce spontaneo un desiderio nei tuoi confronti per il semplice fatto che tutte le tue diverse caratteristiche fisiche e spirituali confluiscono in una sensazione unica e comprensiva che si chiama bellezza, ed essendo l’amore avido di bellezza, ed essendo ogni uomo avido della bellezza che non possiede o non sa vedere dentro di sé, allora è perfettamente naturale desiderare di raggiungere quella forma di bellezza –cioè tu- in qualunque situazione materiale si collochi! E questo, sì, è un problema per me, lo capisci? La mia morale si discosta dal mio diritto naturale, e quello che desidero non è precisamente quello che ho e devo avere, che posso avere senza provare rimorso per il peccato compiuto.’

‘No.’

‘No? Io non posso permettermi di desiderare la tua bellezza!’

‘Perché?’

‘Perché è sbagliato!’

‘Dove è sbagliato? Io sono sbagliato?’

‘Sì. Sei tu. Sono la tua forma e il tuo contenuto che possiedono qualità illecite. Sei tu, sei tu!’

‘E allora dimmi, cosa dovrei fare se anch’io cercassi di raggiungere la bellezza? Perché è questo il mio e il tuo scopo, alla fine, non è vero? Non è vero? È il motivo banalissimo per cui si ama. E io ti amo. Non capisci, Henka? Ci vediamo l’un l’altro come attraverso uno specchio.’

‘Non ti credo.’

‘E se io in te vedessi un’immagine migliore di me stesso? Come la prenderesti?’

‘Ti direi che è lo stesso per me.’

‘Allora dove sta il problema?’ Avevo come l’impressione che ognuna delle parole che pronunciavo lo innervosisse, e, d’altronde, potevo benissimo vedere gli effetti di quel discorso: lui si era alzato dal letto, aveva cominciato a camminare avanti e indietro, attorno alla sedia sulla quale sedevo, stringeva fermamente i pugni, deformava il viso incurvando le sopracciglia e arricciando il naso in una maschera di rabbia convulsa.

‘E’ contro natura!’ Glielo sbattei in faccia senza ritegno né pieta.

‘Ma ti accorgi di quello che dici? Tutte le tue idee di una individualità indispensabile sono miseramente gettate al vento, ora!’ Era come se quelle poche frasi fossero un veleno che doveva assolutamente estrarsi dal petto e sputare via per non soffocarsi.

‘Non è vero.’ Mi calmai sedendomi sconsolato sulla scrivania e sospirando profondamente. ‘E’ solo che mi sento investito da un’irrefrenabile corrente di eventi e devo ancora capire come gestire questa nuova e “diversa” competenza. Queste volontà che non conoscevo.’

‘Oh, già, fa pure con comodo. Tanto io non mi sto arrabbiando. No, no.’

‘Smettila! Smettila, sto cercando di chiarirmi con la mia coscienza! Sta zitto un minuto!’

‘Forse’ Pronunciò quel forse in un sibilo cattivo, ‘Forse faresti meglio a chiarirti con me.’

‘Forse - ci stavo provando, prima della tua aggressione. Stavo arrivando al punto.’

‘Come, c’è ancora qualcosa? Devi aggiungere altre considerazioni insensate, altri fiumi di parole inutili e ustionanti?’

‘Ma se rimane la parte più importante!’

Si sedette sul bordo del letto e scrollò le spalle.

‘Vedi, la mia reticenza è influenzata da un tema a me molto caro.’ Addolcii il tono. Parlavo quasi sottovoce, spaventato dalle mille idee che mi colsero improvvisamente sul cosa avrebbe potuto capire e come l’avrebbe presa. ‘Mi sento davvero piccolo nei confronti di Dio. Mi chiedo perché non ci abbia dotati di più autocontrollo se vuole preservarci dal peccato. È incoerente. Per quanto ne so avrebbe potuto crearci tutti angeli o santi, e nessuno avrebbe mai dovuto implorare umilmente venia chinato su un rigido inginocchiatoio da flagellazioni medievali. Mi chiedo perché Dio ci abbia donato un’anima che possa percepire ed apprezzare sentimenti che sono stati dichiarati - sbagliati.’

‘E il tuo Dio che chiede l’amore come può condannare l’amore?’

‘Ci ho pensato. Sul serio. Ma io non mi sento abbastanza puro per disobbedire ai precetti della Fede in cui credo.’

Giulio si avvicinò guardandomi con dolcezza, le labbra distese in un sorriso, e io mi lasciai sfilare la maglia con accondiscendenza, senza lamentarmi o oppormi, come sarebbe stato lecito e logico fare.

‘Dimenticati. Smettila di ipercontrollarti, o finirai per distruggerti con le tue repressioni, finirai per chiuderti in una gabbia asfissiante, senza più riuscire a trovare le chiavi dell’uscita. E magari sii egoista nei confronti di Dio. Davvero. In un certo senso anche lui è egoista e geloso del nostro amore incondizionato per lui.’ Mi disse quello e mi convinse definitivamente.

Lascialo fare – lascialo fare – Hän on oikeassa*

Cosa mi viene in mente, ora? Ricordi e pensieri dal ritmo sincopato. La gestualità, magari. L’espressione di tonalità imprevedibili e sfumature armoniche di note appassionate.

Non capivo, continuo a non capire, cosa mi avesse condotto ad un distacco ossessivo dalla mia mente. Forse per percepire il corpo con maggior affidabilità non mi sarebbe servita.

Eppure vedevo come si può vedere attraverso le vetrate policrome delle chiese gotiche, e contemporaneamente era tutto appannato, avvolto ed accarezzato da soffici cuscini di nebbia fitta e perlacea.

Adoravo il suono melodioso di quella musica. Adoravo scivolare nel mio baratro di perdizione senza bisogno di provare rimorsi verso Dio. Adoravo esservi trascinato da lui e con lui, Giulio, e basta, e sentirlo con una completezza bruciante su di me, essere alla sua completa mercede.

Mi ritrovai ad osservare intensamente fuori dalla finestra quel sottile riverbero di luce scarlatta, un filo iridescente di una purezza cristallina, distillato dei benigni raggi solari, snodarsi al di sotto delle nuvole pesanti e dipinte in mille rifrazioni tormentate. Quasi l’aurora. Magari era quella la mia ora più silenziosa.

Quella immagine mi ispirava un fuoco lontano, mi sentivo morire di caldo. Gli dicevo, baciandogli i capelli: ‘Tiedän, minä tarvitan sinua ja että en voi ellää ilman sinua. Näetko sinä? Oli kamalan kylmä mutta sinä olet tullut ystävällinen; kuin auringon maanni yllä lämmenen*’

‘Cosa hai detto?’

Rakastan sinua*. Questo lo capisci, no?’

Non mi ascoltava. Lo odiavo.

Mi addormentai pensando di odiarlo davvero cordialmente.

 

---

[LEZIONE DI FINLANDESE ^_^]

Le tre frasucce in finnico non hanno nessuna pretesa di essere grammaticalmente corrette, essendo state elucubrate da me, il cui finlandese invece che migliorare peggiora. Ma:

1)     Non credo che tra i miei due lettori ci sia qualcuno che parla il finlandese

2)     Se ci fosse magari mi darebbe una mano, che ne ho un disperato bisogno? ^_^

Ma Henka è finlandese, quindi mi sembrava carino farlo parlare in quella lingua tanto bella. Magari inserirò un’altra frase, prima o poi –come se ci fosse ancora tanto spazio a disposizione-

* Cooomunqe, la prima vuol dire: “So di aver bisogno di te e che non posso vivere senza di te. Non vedi? Faceva terribilmente freddo, ma sei arrivato gentilmente, mi riscaldi come il sole con la sua terra” (cioè, l’intenzione era quella), la seconda, semplicemente “ti amo”. Di questa son sicura: Minä rakastan sinua, rakastan sinua, minä rakastan sua… ora sapete dire ‘ti amo’ in suomi. Utile, neh?

[FINE DELLA LEZIONE DI FINLANDESE]

- 2 alla fine (tanto il più l’avete passato… ora che siete stati temprati nello spirito potreste affrontare orde di barbari mongoli con il solo ausilio di un mestolo da cucina. Garantito al limone ^,^). Sono tornata dal mare apposta per postare. Cosa non faccio per voi. Ieri ero sdraiata su un’amaca a mangiare gnocco fritto e Nutella (diecimila kcal per centimetro quadrato), poi è arrivato il mio fratellaccio e mi ha fatto cadere, cattivo T___T. Domani parto per Firenze. Oh, quest’estate giro come una trottola. Vabbè, commentate, così quando torno ho qualcosa da leggere O.O ß occhietti sperluccicosi. Vipregovipregoviprego…

 

Marto // Love-in-idleness

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Capitolo 18
*** XVIII ***


Love – in – idleness

Ehm… devo dedicare assolutamente questo capitolo alla mia betuccia Vladimira, perché… ho… come dire… scordato che compiva gli anni. Scena:

Vlad: Grazie per il libro

Me: o.O che libro? Vlad! Straparli!

Vlad: Il tuo regalo

Me –sempre più perplessa-: Eh?

Vlad: Marto… il compleanno Y___Y

Me: Ooooooooooooooooooh, già ^///^

Scusa ancora, Vale. L’anno prossimo me lo ricorderò. Promesso.

 

TERMINATO IL CONTO ALLA ROVESCIA: QUESTO è IL –1 (=___=)

 

XVIII.

 

Immagino che la sveglia potesse essere veramente suonata e che noi, profondamente addormentati, non l’avessimo sentita trillare col suo fastidiosissimo rumore. Ma é più comodo scaricare la colpa sulla sveglia, aggeggio infernale che tanto fomenta il mio odio e la mia avversione profonda nei confronti della mattina.

Il risveglio alle sette è qualcosa di traumatico, soprattutto se ti addormenti alle sei e mezza.

Comunque sia, penso che se anche ci fossimo malauguratamente svegliati, ci saremmo girati dall’altra parte.

Giulio mi abbracciava, stretto a sé, quasi a volermi proteggere col suo corpo da minacce sconosciute. Ma forse era una mia impressione. Ero io, in fondo, il suo angelo custode.

‘Spegnila –‘ Biascicai dal mio rifugio caldo e confortevole.

Lui allungò un braccio nell’aria fredda del mattino e scostando le coperte lasciò che la luce di mezzogiorno ci investisse, perché nell’urgenza bruciante di poche ore prima non avevamo pensato a chiudere le imposte delle finestre. Poco male.

‘E’ il telefono.’ Si tirò a sedere. Mi dispiacque molto sciogliere quell’abbraccio accogliente.

Giulio parlava con qualcuno che ci aspettava in Stazione Centrale da minuti e che non ci aveva visti arrivare col treno che avremmo dovuto prendere.

‘Ma che ore sono?’ Aveva chiesto Giulio. Lo vidi fare una smorfia di incredulità, cercare a tentoni l’orologio nella confusione che regnava sovrana sul comodino, alzare un sopracciglio e rimettere tutto “a posto”.

Chiese educatamente scusa e riattaccò.

‘Abbiamo perso il treno, mi sa.’

‘Fammi indovinare: dovremmo già essere arrivati?’

‘Sì.’

‘Qui si sta meglio. Prenderemo un altro treno. Ci sarà un altro treno!’

Lui scrollò le spalle. ‘Ci penseremo tra un’oretta, ora voglio rimanere qui a riposare.’

‘E’ mezzogiorno?’

‘Sì.’

Mezzogiorno. Data teoretica. Il sole raggiungeva lo zenit in uno dei giorni più caldi dell’anno, l’edera rampicante luccicava sotto i raggi benigni, il gatto miagolava.

Sarebbe bastato un banale pensiero ricorrente perché tutti i tasselli del nostro mosaico riacquistassero il loro posto consueto, ordinario, noi ci rivestissimo e in completo e pacifico accordo facessimo finta di ignorare vicendevolmente quello che era successo.

Bisogna avere in sé ancora il caos per partorire una stella danzante Pensai.

Strana meditazione percorribile nel disegno ignoto che veniva finemente tessuto come il filato di un ragno, ed aveva carattere trascendentale, mistico nella cura e nella perfezione commuovente dei ricami adamantini che ne costituivano sia la trama complessa e tesa al limite della rottura, sia la brodérie accuratissima e sofisticata, precisa come i minuscoli meccanismi di un orologio, come la tela di un virtuoso pittore rinascimentale.

In un barlume evanescente di coscienza coscienziosa e di inequivocabile incertezza, come se il piedistallo stabilissimo sul quale mi ero adagiato da perfetto anacoreta fosse stato ribaltato in una folata di vento gelido e tagliente, devastante nella sua potenza e velocità, mi accorsi da lontano di quanto il movimento violento che avevo impresso al mio personalissimo cosmo, innaturale e del tutto sconosciuto, stava muovendo le sfere concentriche della mia anima in direzioni che non avrei mai e poi mai immaginato e che stranamente non facevano attrito. Suonavano deliziosamente e non sapevo più cosa ne originasse il moto. In fondo, speravo potesse essere perpetuo.

Sì, sfiorai la mia piccola luce interiore con la punta delle dita, e fu un attimo di contemplazione estatica ma solenne.

Poi decisi che per una volta nella mia vita era il caso di smettere di pensare e così feci, anche se non potei fare a meno di pregare affinché l’arazzo tessuto del mio destino, che avevo avuto il coraggio di esporre alla consunzione, non si disfacesse in un unico tocco diabolico.

 

--- Capitolo brevino. Ma è il penultimo, e fa da anticamera alla conclusione ^_^

Oh, beh, sto rivedendo il finale. Non sono brava nei finali Y___Y datemi sostegno morale. E meno male che pensavo di finire Bénédiction entro Maggio. Ho avuto parecchi contrattempi. Che giorno è? Il 10 Luglio? Ho ancora, esattamente, un giorno per postare la fine, che sarebbe il 27, la vigilia della mia depature verso lidi lontani – e freddi.

Ieri ho fatto un Sudoku. Ero al bar a fare colazione e leggevo il giornale. Non ci son riuscita, così sono scesa a comprare lo stesso giornale del bar, nonostante ne avevo già comprato uno (Marto! Cos’è che adesso compriamo due quotidiani al giorno! ß My mum  Su, che fa bene, leggere i giornali ß io) Morale: ho speso così tutto il mio pomeriggio. Era diventata una questione di principio, una guerra tra me e il Sudoku… quando ho finito mi sono accorta di averci impiegato la bellezza di tre ore e mi sono sentita stupida come non mai T___T. Voi in quanto lo fate il Sudoku? Tra l’altro persino i miei genitori hanno attaccato a correggere il mio misero difetto di pronuncia (al posto di ‘ti’, tipo: ‘ti dico, ti porto’, dico una cosa strana che è una via di mezzo tra ‘ci’ e ‘tzi’) Ma mi sento veramente mongola, non ne avete idea.

Domani parto per Londra, speriamo di non esplodere in metropolitana. Fatemi gli auguri. Buone vacanze a chi parte ^_^ io sono più stressata di prima >:-P

 

Marto

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Capitolo 19
*** IX ***


Love – in – idleness

ULTIMO CAPITOLO!!!

Ditemi che siete tutti contenti ^_^

XIV.

 

È successo tutto con una rapidità ed una veemenza sconcertante.

Vi siete accorti che ho cambiato il tempo verbale? Vi sto dedicando questa complessa e confusa sinfonia di parole e sentimenti, una commistione che potrebbe rendere lo scritto non scorrevole, ma accidentale, aspro e incisivo –invidio davvero coloro che hanno questa trasparenza emotiva dai tratti surreali, io sono molto più narratore asettico di eventi-, e lo sto facendo in tempo reale.

Questo perché ho la profonda e radicata paura di dimenticare ciò che è successo due notti fa, tutti i bei discorsi che sono stati affrontati e dei quali potrò vantarmi per l’eternità, senza remore; e perché bisogna sempre riflettere sui postumi di una sbornia.

Mi capite?

Non è stata davvero una sbornia –oddio, per me c’è stata anche quella-. Andate a fondo.

Mi sono quasi perso in un teatrino di ombre cinesi, nell’allegorico giardino dell’Amore, ed è stato un miraggio dalle caratteristiche così irrazionali ed oniriche che mi viene spontaneo il paragone con una solenne ubriacatura.

Scrivere è la maniera più precisa per affondare nelle profondità inesplorate di quel vasto inconscio che con la sua mole oscura di Heros e Thantos, vita e morte, occupa i nove decimi della nostra psiche.

Una sorta di fruttuosa psicoanalisi condotta su noi stessi, insomma.

Questo è l’avviso di un uomo ignorante in psicologia e profondamente devoto alle lettere.

E anche un gran bugiardo.

La causa principale che mi spinge a metter tutta la faccenda per iscritto è di poter attestare vita natural durante che quanto ho detto a Giulio, quanto gli dirò per i prossimi cent’anni, non è il risultato di una mia politica opportunista, ma la concretizzazione dei pensieri più devoti mai sgorgati dalla mia anima pressappochista; oltre che una specie di nodo al fazzoletto che mi dimostri con la brillantezza e l’indiscutibilità di un teorema di geometria euclidea il perché e il per come io abbia condotto la mia scelta di unirmi a lui.

Bisognerebbe davvero scrivere la biografia della propria vita, sempre e in ogni caso, per sé stessi, per capirsi e continuare a farlo fino alla fine, perché siamo così complessi, mutevoli nella forma e nel contenuto, che a lungo termine ci scordiamo il significato tutto speciale delle cose, e le lasciamo decadere e marcire nonostante queste ci possano aver condotto a toccare gli apici di tutta un’esperienza di umana felicità.

Ed è questa la tragedia: con la dimenticanza, che più si acuisce con lo scorrere del tempo, si perdono le percezioni delle piccole cose come i bicchierini di vodka vuoti e scintillanti, il caffè, la morbidezza di una camicia di seta sulla pelle nuda o l’amore verso il proprio coinquilino finlandese.

Dunque vi dirò alla spicciola che io e Giulio abbiamo dovuto aspettare le sette di sera per un treno che da La Spezia ci portasse diretti fino a Milano, causa la pigrizia di non voler affrontare continui cambi.

Giulio è tristemente convinto che il sistema ferroviario italiano non permetta ai passeggeri di nutrire la speranza di prendere in orario un treno dalla coincidenza immediata. Pessimista.

Ma io ho preso pochi treni, qui.

Così abbiamo fatto a malincuore le valigie ed abbiamo salutato la signora gentile che ci ha ospitati per due settimane –e un giorno in più di quel che avevam pagato- la quale ci ha chiesto con cortesia di decidere se volevamo tenerci Utrecht, visto che il micio si era affezionato a noi e lei ne aveva altri trentatré.

Abbiamo impacchettato anche Utrecht nella sua gabbietta. Mi dispiaceva da morire vederlo imprigionato in quella barbara maniera, coi suoi occhioni gialli ferini che ci ammonivano severi.

Dicono che gli occhi dei gatti siano gli occhi del diavolo.

Utrecht, ti libereremo presto!

Adesso siamo quasi in diritura d’arrivo. E’ notte inoltrata.

Sì, lo so che siamo partiti alle sette di sera, e mal che vada la tratta La Spezia – Milano non dovrebbe impiegare più di tre ore.

Ma noi stiamo andando a Berlino.

Quando siamo arrivati in Stazione Centrale, la notte immediatamente trascorsa, a Giulio è sopravvenuto come un flash, un attimo di profetico abbaglio.

Mi ha chiesto: ‘Sei arrivato in Italia col treno?’

E io gli ho risposto che, no, ero venuto in aereo, ma si poteva benissimo viaggiare da Kemi fino a Goteborg, da Goteborg fino a Copenaghen, da Copenaghen fino a Berlino, da Berlino fino a Milano, o per altre mille deviazioni.

‘E in Finlandia i treni sono buoni?’

‘Certo. C’è un ottimo servizio ferroviario.’

Ricordo come ha taciuto, assorto, per qualche istante prima di domandarmi se potessi rinviare la sessione dell’esame di filologia germanica di almeno un mese.

Ho guardato anch’io nella direzione del tabellone delle partenze sul quale posava lo sguardo da un minuto intero, e ho capito dove voleva arrivare a parare.

Così abbiamo ripulito il primo Bancomat che abbiamo trovato e abbiamo comprato i biglietti per l’Eurostar.

I sedili di questo treno sono veramente comodi in confronto all’Interregionale. E non sono particolarmente imbrattati di scritte oscene, firme artistiche ed anonime dichiarazioni d’amore.

Da sezzo, Giulio dorme placidamente –gli auguro i sogni più felici del mondo- appoggiato contro di me, e io batto silenziosamente sulla tastiera da tre ore consecutive questa storia insensata, pensando alla piega imprevista e dolce che ha preso la mia vita in così poco tempo.

Davvero.

Mi auguro mille di queste ultime notti e tanta di qusta fortuna. Anche a voi.

Una – Benedizione

 

LOPPU

(The end)

 

--- Non è vero che ci ho messo tre ore T____T ci ho messo mesi a scrivere tutto!!! Ed è stato stressante da non credere!

Io però ve l’avevo detto che non sono brava coi finali, non mi piacciono e non riesco a trovarne uno che mi soddisfi abbastanza. L’idea di un finale così aperto era la meno peggio. E poi >:-) io almeno ho finito ahahahah (ß risata sadica). Non vedevo l’ora. E domani – vado – in – FINLANDIA. Sono piacevolmente agitata. Questo è un piccolo sogno che si realizza. Pieni uni (ß piccolo sogno).

Mi farà piacere se commenterete, solo, a meno che non facciate entro la fine della giornata, non potrò rispondervi e ringraziarvi fino a – Settembre. Oddio mi vien male. (E’ perché sono una ragazza educata ^_^). Ringrazio anticipatamente chi commenta. Nel caso ci sia qualcuno che ha letto fino alla fine. Non avete idea di quanto mi faccia happy.

E pensare che ieri mi son svegliata e vedevo il Tamigi. Oggi la roggia. Ho anche comprato HP in tempo record e l’ho letto notte e giorno. Che brutta fine… tanto saprete già tutto, no? Oh, io vi lascio. Devo rifare i bagagli per l’ennesima volta.

RINGRAZIO DAVVERO TUTTI COLORO CHE ABBIANO MAI COMMENTATO E CHE COMMENTERANNO MAI. THANKS A LOT, INDEED.

 

 

 

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