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di yesterday
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.00: Drunk ***
Capitolo 2: *** 1.11: War - first part ***
Capitolo 3: *** 1.12: War - second part ***
Capitolo 4: *** 1.21: Jewels - first part ***
Capitolo 5: *** 1.22: Jewels - second part ***
Capitolo 6: *** 1.31: Breathless - first part ***
Capitolo 7: *** 1.32: Breathless - second part ***
Capitolo 8: *** 1.41: Chain - first part ***
Capitolo 9: *** 1.42: Chain - second part ***
Capitolo 10: *** 1.51: Wall - first part ***
Capitolo 11: *** 1.52: Wall - second part ***
Capitolo 12: *** 1.61: Decode - first part ***
Capitolo 13: *** 1.62: Decode - second part ***
Capitolo 14: *** 2.00: Constant ***
Capitolo 15: *** 2.11: Home - first part ***
Capitolo 16: *** 2.12: Home - second part ***
Capitolo 17: *** 2.21: Centimetre - first part ***
Capitolo 18: *** 2.22: Centimetre - second part ***
Capitolo 19: *** 3.00: Heart ***



Capitolo 1
*** 1.00: Drunk ***





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1.00: Drunk: someone who's drunk so much alcohol that he/she cannot behave sensibly.




C'è stato un momento in cui pensavo persino che quest'idea non fosse poi così folle, che magari era quel che serviva a tutti, per placare gli animi e vivere serenamente, così bene come non stavamo da un po'.
Beh, probabilmente ero ubriaca, ubriaca come quando accettai questo suicidio di affittare un appartamento assieme a quei tre.
Innanzitutto, dato che sono passati quasi cinque anni dall'ultima volta che mi avete sentita nominare, mi presento di nuovo: sono Sana Kurata, ho diciotto anni – soltanto perchè sono nata in marzo, ma questa è una vecchia storia, eh? - diplomata alla Jimbo e iscritta alla facoltà di Scienze della Comunicazione di Osaka. Tutto perchè sono una tipa comunicativa, dicono.
Inoltre ho da secoli un mio programma alla radio, che registro insieme ad una delle mie migliori amiche, Fuka Matsui, col cui aiuto cerco di capire, o magari risolvere, i problemi dei nostri ascoltatori.
Per arrotondare i miei introiti mensili, quando possibile, poso per qualche pubblicità... Ma solo di quelle che poi finiscono nei cartelloni giganti ai piani alti dei grattacieli metropolitani. Non perchè mi consideri bella, non rientro assolutamente nei canoni tipici di bellezza giapponese – e i miei capelli rossicci ne sono la prova lampante – semplicemente perchè con la televisione ho smesso, eccezion fatta per qualche breve intervista o comparsa. Mi stressa troppo, in realtà non capisco davvero come facessi quand'ero un' idol, da bambina, con tutti quei programmi, quegli orari impossibili, quei trucchi pesanti e tutti quei riflettori.

In quel preciso istante ero seduta sul sedile posteriore dell'auto di Rei, schiacciata tra il finestrino ed Aya che tentava di calmare un agitato Tsuyoshi – apprensivo tanto quanto il mio manager che, lasciati a casa moglie e pargoletto (sì, si era davvero sposato, ed era davvero diventato papà di un bellissimo bambino), era venuto a controllare di persona, per, testuali parole, “impedirmi di fare qualsiasi tipo di pazzia”.
Avevamo visto circa sette appartamenti, e per ognuno aveva trovato qualcosa da ridire, e secondo Mama aveva pure ragione.
Il pensiero di lasciare mia madre a casa da sola mi riempiva di tristezza, anche se sapevo benissimo che in realtà se la sarebbe spassata come una quindicenne. S'era messa in testa di cucinare, e la signora Shimura controllava che non facesse esplodere la casa con uno dei suoi esperimenti di “cucina innovativa”. Inoltre riusciva quasi a rispettare le scadenze per la consegna dei suoi manoscritti, senza più la preoccupazione di una figlia adolescente che perde le espressioni e l'ansia per la ricaduta della malattia.

Comodamente seduto sul sedile del passeggero c'era quello che un tempo era stato il centro del mio mondo – andiamo, ragazzo era troppo riduttivo – ossia Akito Hayama. Non che ora non lo fosse più, ammettiamolo, ma la nostra relazione era degenerata fino al punto di lasciarci.
Finito l'incubo della mia depressione e del problema alla sua mano, argomenti entrambi chiusi a lucchetto, tabù, vietati, relegati in un cassetto e dimenticati, pensavo che niente sarebbe mai più stato in grado di separarci.
Insomma, eravamo Sana e Akito, la ragazza S. ed il ragazzo A. , mica una cosa da niente.
Credevo sarebbe stato l'amore di tutta la vita, quello che ci si aspetta di leggere tra le pagine di un libro o di vedere rappresentato in un'opera di Shakespeare, quello che ti fa sinceramente ed innocentemente sperare nei “per sempre”.
Dopo il suo ritorno dall'America, la nostra storia era proseguita senza intoppi, nemmeno la minima indecisione, fino ad un anno fa. E non mi ricordo nemmeno bene come è terminata.
Probabilmente un pomeriggio, uno dei nostri ultimi soffocanti pomeriggi insieme. Col tempo, com'è naturale che sia, eravamo maturati. E dentro di noi era maturata, passo dopo passo, anche stavolta contemporaneamente, la convinzione che continuare a stare insieme non ci avrebbe portati da nessuna parte. Entrambi volevamo i nostri spazi, le nostre esperienze... Non che il sentimento fosse scemato, c'era stato, c'era tuttora e probabilmente ci sarebbe stato sempre, ma quando stai con una persona fin da bambino arriva il momento in cui ti viene il dubbio che l'altro sia tutto solo perchè il resto non l'hai mai provato.
Così avevamo deciso di dividere le strade, anche se poi non le avevamo materialmente mai divise, perchè era impossibile. Un dolore quasi fisico, e credo per lui fosse la stessa cosa.
Io sarei sempre stata, in fondo, la sua Sana, e lui il mio Akito, senza bene un perchè.
Ma d'altro canto, quella decisione era stata l'inizio della fine.
Il nostro rapporto era profondamente cambiato ( “gli ormoni” alzava gli occhi al cielo Mama, convinta che un giorno ci avrebbe rivisti di nuovo insieme ) ...eravamo lontanissimi, anche se vicini quasi da poterci sfiorare.
E' un concetto difficile da spiegare. Si tratta di una sensazione ambigua, che ti spinge più verso l'altro ma al contempo ti ci allontana radicalmente.
Ci sopportavamo a malapena, ma eravamo gelosissimi l'un dell'altra e parlavamo raramente senza finire col litigare.
Anche se nel momento del bisogno c'eravamo sempre, come ai vecchi tempi, in fondo appunto io sarei sempre stata un po' sua e lui un po' mio, non c'era niente da fare.
Magari era davvero l'età, e tutte le esperienze condivise insieme.

In caso ve lo chiedeste, ovviamente Tsu ed Aya stavano ancora insieme. Anche la relazione tra Fuka e Takaishi era resistita nel tempo, nonostante la lontananza. Ironia della sorte. Ma dopotutto, ero felice per tutti e quattro.

« Arrivati! » decretò in quel momento Rei, facendomi tirare un sospiro di sollievo. Un'altra manciata di secondi in quell'auto e sarei impazzita, tra Tsuyoshi che si sperticava nell'elenco di pro e contro dell'appartamento che avremmo visto, le moine di Aya, il fischiettare allegro dei mio manager e il solito gelido silenzio di Akito Hayama.
Aprii la portiera distrattamente e guardai il condominio. All'esterno era un edificio molto semplice, molto vicino al centrocittà e il quartiere sembrava tranquillo. Ma anche se non lo fosse stato, dubito che gli schiamazzi notturni mi avrebbero svegliata. Avevo il sonno pesante, io.
Seguendo le indicazioni dell'annuncio arrivammo al quarto piano, dove con una stretta di mano ci accolse l'agente immobliare. L'interno dell'appartamento sembrò conquistarci tutti e quattro – io, Aya, Tsuyoshi e Rei, ovviamente, Akito restava rintanato nel suo mutismo.
Era chiaro e spazioso quanto bastava. Era sviluppato su un unico piano, ma stranamente la cosa non mi dispiaceva affatto. Si trattava di uno spazio singolo, abbastanza ampio, che fungeva da salotto e cucina, delimitato ad est e ad ovest da due porte al momento chiuse, che in realtà conducevano ciasciuna ad una camera e ad un bagno.
« Che ne pensi, Rei? » chiesi sottovoce, aspettandomi l'ennesimo no.
« Ti dirò, Sana, a me questo piace davvero. E per l'affitto che dovreste pagare, mi sembra anche un buon affare! » sentenziò.
Mi cadde quasi la mascella.
« Davvero? » esclamarono in coro Tsuyoshi ed Aya.
Lui si limitò ad annuire.
Colsi al volo l'occasione, voltandomi di scatto verso l'agente che mi sorrideva tranquillo.
Prima di un possibile ripensamento di Rei...
« Lo prendiamo! » urlai quasi.
Akito fece capolino dalla porta a sinistra. « Io e Tsuyoshi occupiamo quest'ala, mettiamo le cose in chiaro » sbottò seccato.
Mi limitai ad alzare un sopracciglio, preparandomi a rispondere a tono, secca e tagliente come costantemente ero con lui. « Tranquillo, per me ed Aya fa lo stesso, tanto le camere sono arredate nello stesso modo »
Dopo aver firmato il contratto, il signor Mokori – l'agente immobiliare – si congedò, e Rei ci lasciò soli, uscendo a urlare la buona novella a quanta più gente poteva contattare dal suo cellulare.
Guardai le chiavi dell'appartamento penzolare dal mio indice, e dopo un'altra breve perlustrazione, raggiungemmo il mio manager per tornare a casa.
Ancora non ci credevo.

Due giorni dopo avevamo praticamente terminato il trasloco. Il salotto era sommerso di scatoloni, non sapevamo nemmeno più dove mettere i piedi.
Cercavo distrattamente il caricabatterie del cellulare, eppure mi sembrava di averlo messo proprio accanto alla macchina fotografica..
« Ho bisogno di dirvi una cosa » si schiarì la voce Tsuyoshi.
Alzai la testa, e mi accorsi che era teso; si torturava l'orlo della camicia. Aya comparve subito dietro di lui, la stessa aria leggermente colpevole. Hayama li fissava dall'altro lato della stanza, spaesato almeno quanto dovevo sembrare io.
« Beh, insomma.. » proseguì timidamente, dietro gli spessi occhiali tondi le guance erano di un rosso acceso.
Aya lo fermò con un gesto secco della mano. « Ho capito » prese aria « non sei capace di dirlo. Allora lo faccio io. »
Fissò accigliata prima me e poi Akito. « La realtà è che io e Tsuyoshi non abbiamo la minima intenzione di vivere nella stessa casa e di dormire in camere separate » sputò il rospo.
Inarcai un sopracciglio, leggermente sorpresa. La nostra Aya si era finalmente data da fare. Beh, era una bella cosa.
« Lo so quanto vi costa, lo so che non andate così d'accordo ma...fatelo per noi! » continuava, aveva perso il suo tono audace ed ora rasentava la supplica.
La guardai corrucciata. Sinceramente non capivo.
« Sana, Akito... » proseguì Tsuyoshi.
Solo a sentir pronunciare i nostri nomi insieme capii dove volevano andare a parare.
No che non era una bella cosa, che si fosse finalmente data da fare, non lo era affatto!
« Ma stiamo scherzando? » s'intromise, per fortuna, Hayama. A quanto pareva, non ero l'unica a cui la notizia non piaceva per niente.
« Andiamo » Tsuyoshi si voltò verso di lui con le mani strette a pugno lungo i fianchi, urlando come faceva da bambino, prima che il pudore gli serrasse in gola le parole « non mi dire che credevi che avremmo dormito io e te, e la mia fidanzata in un'altra stanza con Sana! » alzò il tono di due ottave, dando enfasi alle parole “mia fidanzata”.
No, calmi. Ragioniamo.
« Tsuyoshi, io non condivido il letto con quello lì » indicai il mio bersaglio con l'indice della mano destra, assolutamente calma. Era fuori discussione.
Dividere uno spazio di quattro metri per quattro con il tuo ex non è mai il massimo, soprattutto se il tuo ex è Akito Hayama.
« Pensiamo a tutto io e Aya. Non dovrete dormire insieme. Domani troverete due letti singoli. Si tratta solo di condividere lo spazio. E non provate a dirmi che siete imbarazzati dalla situazione. Perchè... Accidenti, stavate insieme! Vedervi in biancheria non vi scandalizzerà di certo » concluse la sua breve filippica osservando il pavimento di casa nostra.
Ma mi sembrò di sentire sottovoce un finale simile a “tanto vi siete visti anche senza”.
Strabuzzai gli occhi.
Oh, bene.
« EHI, NO! » urlai, esasperata.
No, no, e ancora no! Piantai i piedi a terra e incrociai le braccia al petto, come fanno le bambine capricciose.
Seguì un imbarazzato silezio.
Akito scosse la testa e poi lo ruppe, stranamente per lui.
« Ti scaldi per niente » era appoggiato alla porta e mi guardava con aria di sufficienza « a me questa proposta non fa nessun effetto, a ben pensarci. Ed io al contrario tuo non sono così egoista. Stanno insieme, è una cosa normale che vogliano dormire insieme
Detestavo lui ed il suo tono di voce, il suo essere così logico, il suo essere così simile alla statua di un dio greco rubata ad un museo e piazzata accanto al muro orientale del nostro salotto.
« Sana, ti prego » Aya mi guardava con due occhi da cerbiatto.
Alzai gli occhi al cielo.
Non sopportavo l'idea di dover vivere in uno spazio così piccolo con lui. Se fossero stati altri tempi e fossimo andati d'accordo poteva anche essere, ma...
« Allora siamo d'accordo » azzardò a mezza voce Tsuyoshi.
Rimasi impalata per un attimo, al centro dell'attenzione.
No, che non eravamo d'accordo. Per niente.
« Sana, io per te l'avrei fatto » Aya si stringeva nella sua felpa azzurra.
Mi sentii orribilmente in colpa, e senza quasi rendermene conto firmai la mia condanna a morte.
« Oh, e va bene... » mormorai sconfitta.
Avevo per caso detto che quella di affittare un appartamento tutti insieme mi era parsa per un momento una buona idea? Ero estremamente ubriaca.





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Capitolo 2
*** 1.11: War - first part ***


1.11 War: period of fighting or conflict between countries or states. (part one)

 

 

« Kurata »

« Mmmh »

« Kurata! »

Mi acciambellai ancor di più contro il materasso, lottando contro il freddo pungente fuori dalla coperta che qualcuno stava amorevolmente tirando nella direzione opposta alla mia.
Ma anche da addormentata non avevo dubbi su chi potesse essere così delicato. Oltretutto, la sua voce seccata e seccante era per me incofondibile. Anche da semi addormentata.
Sbuffai, cercando a tentoni l'orlo del lenzuolo, fermamente convinta di essere in grado di afferrarlo con la forza necessaria da riuscire a coprirmi fino al naso.

« Mi hai già stancato, e ti ho davanti da soli tre minuti » sentenziò la voce, in avvicinamento.
Un attimo dopo mi sentii mancare la terra – cioè, il letto – sotto ai piedi.
Tra l'altro avevo anche freddo, ma probabilmente era dovuto al fatto che le coperte mi erano state strappate di dosso senza tanti complimenti.
Lui  camminò con me in braccio per un tempo che mi sembrò interminabile.
Mi imposi di tenere gli occhi ben serrati e di non collaborare, ma al sentire l'acqua ghiacciata scivolarmi dai capelli alla fronte, poi giù per la schiena, non riuscii a non urlare.
E spalancai gli occhi.

Akito mi guardava da una ventina di centimetri, le mani appoggiate alle pareti della doccia, a sbarrare ogni via d'uscita. Non meno importante, la vena divertita negli occhi ambrati c'era, c'era eccome.
Inspirai profondamente, mentre cominciavo, inevitabilmente, a tremare di freddo.
« Io ti detesto! » mi lanciai con tutta la forza che avevo nella sua direzione.
Di certo non ero in grado di spostarlo, ma i miei vestiti ormai fradici rappresentavano un'arma.
Si scostò un istante prima che riuscissi a raggiungerlo, con il risultato che dovetti ancorarmi al lavabo per non scivolare.
« Cosa accidenti ti passa per la testa? » lo guardai furente.
 Tratteneva a stento le risate; « Non volevi alzarti da quel dannatissimo letto » disse, ironico « così ho usato i miei metodi »
Staccai gli occhi dal mio pigiama blu che ormai sembrava diventato nero e sollevai entrambe le sopracciglia.
« Comunque buongiorno » continuò tranquillo.
Gli riservai una delle mie peggiori occhiatacce, ma la mia rabbia non doveva fare poi così tanta scena, dal momento che cominciò a ridere senza controllo.

Dopo essermi asciugata e cambiata – inutile dire che avevo starnutito la bellezza di quindici volte, e altrettanto inutile aggiungere che i miei capelli erano in uno stato pietoso – mi diressi verso la cucina, per la colazione.
Akito guardava la tv, stravaccato senza alcun ritegno sul divano; sembrava interessato: probabilmente seguiva un programma sportivo.
Recuperai una confezione di biscotti e cominciai a rimpinzarmi, fissando le pareti color panna della cucina.

« Tu » quasi non mi accorsi che si era voltato e aveva spento la tv.
 Ah, ora ero diventata addirittura tu?
Alzai un indice e deglutii. « Ho un nome, sai »
Mi guardò come se non avessi aperto bocca.
 « Tu » sottolineò ghignando « muoviti »
Era odioso. Davvero.
« Tu » e lo indicai « va' a farti un giro »
« Per mia sfortuna dovremo andarci insieme, dopo » e con un cenno del viso puntò la lavagnetta appesa al frigorifero, su cui Aya e Tsuyoshi avevano fermato con la calamita un biglietto.
Mi avvicinai a leggerlo.
« Vado a farla da sola la spesa, saresti inutile, Hayama » conclusi, sfilando la lista. La piegai tre volte e la misi nella tasca posteriore dei jeans.
Sapevo che Aya e Tsuyoshi non erano in casa, e che qualcuno, quella mattina, sarebbe di certo dovuto uscire a comprare qualcosa da mettere sotto ai denti; non potevamo mangiare biscotti per sempre. Ma speravo che, appunto, se ne sarebbero occupati loro due.
 Aya era all'università, era stata ammessa ad infermieristica – ed il suo fidanzato era orgoglioso di lei in una maniera assolutamente invidiabile. Tsuyoshi frequentava Legge, ma quella mattina era in ufficio. Aveva trovato lavoro dal padre di Aya, avvocato.
Akito non studiava più, ma insegnava Karate; era diventato la spalla destra del suo Sensei, e oltretutto suo socio.
 Per quanto riguardava me, invece, ero agli sgoccioli: i corsi sarebbero cominciati di lì ad una settimana, motivo per cui svegliarmi alle nove mi sembrava un insulto al concetto di vacanza.
 « Probabilmente devi ancora leggere il post scriptum » aggiunse Hayama.
Recuperai il foglio e lo aprii, leggermente confusa. Perchè non..?
 Osservai il P.S. e mi lasciai andare ad una smorfia indignata.
« Sbrigati, e risparmiati quel sorrisino da idiota che hai » scossi la testa, legando i capelli in una coda.
Trovai la borsa al suo posto sull'attaccapanni, accanto alla giacca. Probabilmente le aveva sistemate la sera prima Aya.

P.S. Akito, accompagnala. Non sarebbe la prima volta che Sana si perde al supermercato.


***


Dopo esserci scannati per il pane, la marca del latte, la carne e il numero di veli della carta igienica, verso le undici riuscimmo a rinfilare la chiave nella toppa e ritornare a casa.
Arrabbiati certo, ma perlomeno illesi.
« Non riesco a trovare un paragone » ammise a denti stretti, appoggiando le borse della spesa sul tavolo circolare.
 « Guarda, nemmeno io. Mi chiedo come sia riuscita a stare con te così tanto, anni fa » alzai gli occhi al cielo.
Non ricordavo che fare la spesa con lui fosse così snervante.
 « Me lo chiedo spesso anche io, fidati. » rispose a tono, prima di aprire la porta d'ingresso in modo che potessero entrare gli operai, che avevamo intercettato per strada, coi letti che avrebbero sostituito quella cosa che troneggiava in mezzo alla nostra stanza.

 Nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, quella notte io e Hayama non avevamo assolutamente dormito insieme. Seppur brontolando, aveva preso cuscino e coperta e si era accampato sul divano.
O il divano o il pavimento, delle due l'una.


***


« Ferma dove sei » mi squadrò, serissimo, non appena chiusi la porta alle mie spalle.
Mi paralizzai sul posto.
Il pomeriggio era scivolato via tranquillo, nonostante fosse il suo giorno libero e che quindi, purtoppo, avessi dovuto sopportare lui, la sua espressione accigliata e le sue continue critiche fare avanti e indietro per la casa, mentre io ed Aya sistemavamo le ultime cianfrusaglie del trasloco.
E la pizza per cena – gentile omaggio di Tsuyoshi, che si era fermato a comprarne quattro prima di rincasare – aveva contribuito positivamente al miglioramento del mio umore.
« Mettiamo le cose in chiaro » annuì scocciato, mentre incrociava le braccia dopo aver lanciato una maglia scura sul suo letto.
Ecco, avevo azzeccato il termine. Lo era sempre – scocciato – con me.
E a dirla tutta, spesso e volentieri lo ero anche io nei suoi confronti.
Ma la cosa più singolare, al momento, era che Hayama volesse “mettere le cose in chiaro”. Beh, non era di certo da lui. Ma non mi riferivo alla timida infanzia delle scuole elementari e del primo anno delle medie ( l'unico passato assieme, anche se in sezioni diverse, dopodichè si era trasferito in America, ma questa ormai è storia... ) tempi che l'avevano dipinto come un bambino schivo ed impacciato. Tempi in cui, almeno per quanto riguardava il rapporto con me, di cose da chiarire ce n'erano state a bizzeffe.
Lui, crescendo, era rimasto lo stesso di sempre. A parte per l' “impacciato” ed il “timido”, aggettivi che ormai erano lontani anni luce da lui.
Mi riferivo al fatto che Akito, l'indifferente Akito, non aveva più avuto bisogno di chiarire le cose. Perchè le cose accadevano, e nella sua vita trovavano subito posto. Tac, semplice. Lui non muoveva un dito, ma tutto si ordinava e sistemava lo stesso. La sua vita era estremamente semplice, ed io gliela invidiavo da matti.
Anche se non l'avrei mai ammesso.
« Ma mi stai ascoltando? »
« Sì » asserii, in realtà non avevo sentito una beneamata cippa del suo illuminante discorso, ma poco male.
 « Dicevo » alzò gli occhi al soffitto, purtroppo se mentivo lui lo capiva « che dovremo decidere delle serate. Perchè ognuno possa avere i suoi spazi. »
Oh sì, avevo azzeccato pure questo termine: illuminante. Era uno dei discorsi illuminanti alla Akito Hayama.
Tradotto per i comuni mortali: parlava di donne.
Dal momento della nostra rottura, Hayama non aveva più avuto storie. E non ditemi “beh, devi esserne felice, vuol dire che per lui sei stata davvero importante” perchè potrei smontare quest'affermazione grazie ad almeno quattro tesi.
 Punto primo. Non era presunzione, ma sapevo di essere stata importante per lui. Nemmeno durante i nostri più violenti litigi avrebbe mai detto che non significavo nulla. E, mio malgrado, nemmeno io avrei mai potuto dirlo.
Punto secondo: lui amava dire che ne aveva abbastanza, delle storie, per ilsemplice motivo che quella con me gli era bastata per una vita e mezza. Adorabile, no?
Punto terzo: la cosa non mi riguardava più. Il gioire del fatto che non si fosse ancora innamorato di nuovo a mio avviso significava provare ancora qualcosa per lui. Ed il più delle volte, io detestavo Akito Hayama. Assolutamente. Quindi, non poteva proprio essere.
Punto quarto: certo, Hayama non aveva più avuto storie. Ma ciò non significava che lui non avesse più avuto ragazze.
Era diventato un fottuto donnaiolo. Ed io lo odiavo anche per questo.
Alt! Mica ero gelosa! No, no.
Okay, un pochino.
Ma donnaiolo non rende il concetto. Perchè Akito non le cercava di sua iniziativa, le ragazze. Erano loro a cercare lui, incessantemente.
E lui, beh, trovava maleducato rifiutare.

« Quando raggiungi di nuovo la Terra, batti un colpo » il suo sarcasmo mi riportò alla realtà, e mi maledii ventitrè volte per aver rotto tempo prima il mio amatissimo Piko.
« Hayama, rapido ed indolore. Dì quello che devi dire e lasciami dormire »
Sorrisi della mia stessa risposta.
 « Trova qualche impegno per venerdì sera. Per ogni venerdì sera »
Il sorriso mi si spense di colpo.
« Come, scusa? » mormorai incredula.
« Cos'è, sei anche sorda adesso? »
 « Ci sento benissimo. Perchè me ne dovrei andare? Invece di far venire loro qui, vai via tu. Così tra le altre cose, fai felice anche me »
Sospirò.
Mi infilai sotto le coperte, in attesa di una risposta.
« Trovati un impegno per il venerdì. Vai a trovare Fuka »
 « Per lasciare campo libero a te? »
 Cercavo di convincermi che stesse scherzando. Non poteva buttarmi fuori da camera mia per quelle, quelle...
Bene. Davvero, ottimo.
« Una domanda »
« Veloce »
 « Come glielo spieghi, alle tue...er, amiche, che dividi la stanza con me? »
« Non glielo spiego. » Ah, un classico. L'uomo dei misteri.
« Oh »
« Allora? » mi fissò spazientito.
Lasciai cadere lo sguardo sulle lenzuola chiare del mio nuovo letto.
« Quanto sei lenta a pensare »
Mi prendeva pure in giro? Di bene in meglio.
Sentii la rabbia lasciar posto allo stupore – perchè sì, ero stupita. Non credevo sarebbe arrivato a chiedermi tanto.
Scossi la testa, incredula.
 « Certo, Hayama » annuii convinta « allora cerca anche tu qualcosa da fare, per i sabato sera che verranno. Ah, precisiamo, per tutti i sabato sera a venire. »
L'ultima cosa che registrai prima di spegnere le luci fu un'occhiata glaciale dall'altro capo della stanza.
In fondo, voleva la guerra?
E guerra avrebbe avuto.







 

 

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Capitolo 3
*** 1.12: War - second part ***


No, non è un pesce d'Aprile: sto veramente aggiornando. Sono un po' in anticipo sulla tabella di marcia, lo so. Ma preferisco postare ora che magari ritrovarmi con l'acqua alla gola durante il week-end di Pasqua (e Pasquetta, più ritorno a scuola), che già lo so, sarà tremendo. Con l'occasione auguro a tutti di passare un fantastico week-end pasquale.

E tra le righe il messaggio: se riesco a scrivere i capitoli così in fretta il motivo c'è. Siete voi. <3

 

 

1.12 War: a period of fighting or conflict between countries or states. (part two)

 

 

Il buio, a dir la verità, non mi era mai piaciuto.
E Akito lo sapeva bene. Anzi, lo sapeva benissimo, ed io ci avrei scommesso qualsiasi cosa che dietro a quei respiri calmi e regolari se la stava ridendo, silenziosamente, come un perfetto bastardo.
Non che avessi paura del buio... semplicemente, mi intimoriva. E per quanto un tempo fosse bastato il semplice respiro di Akito a tranquillizzarmi, le cose ormai erano inevitabilmente cambiate.
Mi rigirai un paio di volte nel letto, sbuffando.
Oltre a ciò, il nervosismo post dichiarazione di guerra non conciliava affatto il sonno. Come diavolo si era permesso di chiedermi un favore del genere? Beh, non favore... Quella era un'imposizione bella e buona!
« Sana, cortesemente, la smetti di rigirarti nel letto? Io ho tutta l'intenzione di dormire. »
Soffocai un ringhio. Lo detestavo, lo detestavo, lo detestavo!
« Scusa » masticai, voltando le spalle alla sua parte di stanza, quasi a voler far calare un pesante sipario.
Era odioso, tremendamente odioso. In tutto quel che faceva.
Andiamo! A quale persona con un cervello mediamente funzionante sarebbe mai saltato in mente di chiedere alla propria ex fidanzata di alzare le tende perchè il signorino aveva, diciamo, da fare?
Non...non è normale!
Mi girai sull'altro fianco. Non avevo nemmeno la consolazione di un misero display di sveglia, dato che il principino, al contrario di me, amava il buio più completo.
« Kurata » mi rimproverò.
« E che diamine! Colpa tua e del tuo adorato buio pesto! Lo sai, no? »
« Che a diciott'anni hai ancora paura del buio? Sì, lo so »
« Non ridere! » perchè era palese, che stava ridendo sotto ai baffi. Glielo sentivo nella voce. Maledetto. « Ne ho quasi diciannove. E poi non ho paura »
« Ah, certo che no. Ho giusto un paio di esempi... » non proseguì oltre.
Eppure mi era bastata quell'allusione, per ricordare a cosa si riferisse.
Ad anni di abbracci possessivi nel cuore della notte, ad esempio. O magari a quella stupida stellina fluorescente che avevo attaccato sul soffitto di camera sua, a Tokyo – e che, non meno importante, lui aveva accettato di appendere. O forse ad entrambe le cose insieme.
Valutai lentamente quante cose fossero cambiate, e non riuscii a risparmiarmi un sorriso amaro. Strinsi il cuscino.
Io ci avevo creduto veramente.
Ma nonostante la dedizione e la speranza... mi ritrovavo chiusa in una camera troppo piccola per tutto l'imbarazzo che conteneva, e per quei due letti singoli che rappresentavano più che mai la fine, sincera e senza via di scampo.
Ma forse era meglio così. Il destino aveva programmi diversi per entrambi. Però, che peccato.
E per di più, avrei dovuto davvero trovarmi un impegno fisso per il venerdì sera.
Ci pensai su. La palestra, magari.
Scartai a priori l'idea. Non ne ero certa, ma mi sembrava alquanto improbabile che le palestre fossero aperte fino a, che so, l'una di notte.
Magari avrei davvero potuto andare da Fuka.
O magari avrei semplicemente fatto prima a cercarmi un fidanzato.
Al contrario di Akito, la mia vita sentimentale aveva smesso di ingranare nella maniera più assoluta. Il mio problema – non prendiamoci in giro, era un mio problema – era che mi stancavo troppo presto. Orribilmente troppo presto, quasi il mio cuore non avesse esaurito l'amore.
Sana, che melodrammatica. Lanciai nell'oscurità un'occhiataccia verso quello lì.
Sapere che l'amore si era estinto a causa sua rendeva il fatto più spiacevole di quanto già non fosse.
Mi consolai pensando che avevo avuto, almeno, la mia piccola rivincita dopo soli dodici secondi e mezzo: la sua espressione alla mia richiesta era stata davvero impagabile, non era riuscito a spiccicar parola e, cosa positiva, aveva le mani assolutamente legate. Se io dovevo togliere il disturbo avrebbe dovuto farlo anche lui, volente o nolente. Ah ah!
Tesi le orecchie: respirava ancora tranquillo. Che si fosse addormentato? Beato lui.
Provai sinceramente a tranquillizzarmi, optando per quell'esercizio che avevo letto in una rivista; bastava rilassare ad uno ad uno i muscoli del corpo, e prima o poi sarebbe dovuta arrivare la tanto attesa perdita di coscienza. Cominciai dalle gambe, ma ahimè, l'operazione si rivelò più ardua del previsto, così ci rinunciai.
Con calcolata lentezza scesi dal letto e, pregando i Kami che la moquette non scricchiolasse sotto ai miei piedi, riuscii a raggiungere la porta, che mi chiusi velocemente alle spalle.
E fui esageratamente felice di trovare le luci ancora accese.
Presi un bicchiere dal tavolo e lo riempii d'acqua fino all'orlo.
« Sana, sei tu! » Sugita era sul divano con un pesante libro davanti; non l'avevo notata.
« Sì, avevo sete »
Mi fissava interrogativa dallo schienale del divano in pelle.
« E' davvero così tanto difficile, questa situazione? » calcò volutamentela parola.
Trangugiai l'acqua in un solo sorso e mi preparai a spiegare, anche una tarda come me aveva capito a cosa si riferisse con “questa situazione”.
« Beh » cominciai « Non è  di certo una passeggiata. E il più delle volte è anche imbarazzante, che tu e Tsuyoshi ci crediate o meno »
La raggiunsi sul sofà, sedendomi all'altro capo.
Lei chiuse il libro, sospirando. « Mi dispiace. Dovevamo cercare qualcosa di più grande »
Ma nella mia testa più spazio significava affitto più alto, e di certo non ce lo potevamo permettere: per quanto fossimo stati tutti così fortunati da trovare anche un lavoro, l'università costava parecchio.
Le sfiorai una spalla, coperta da un pesante maglione rosa. Il suo pigiamone preferito. E provai l'irrefrenabile bisogno di rassicurare la mia piccola Sugita.
« Non dire scemenze. Una casa più grande costa di più. E tanto io e Akito avremmo trovato comunque il modo per litigare, stanne certa » terminai in una smorfia.
Ed era la verità. Per quanto mi costasse ammetterlo, la stanza in comune era solo la goccia, dietro c'era un vaso intero colmo d'acqua. Tanto per restare in tema, osservai guardando il bicchiere ormai vuoto che tenevo tra le mani.
« Certo che siete due teste dure »
Mi finsi colpita dall'affermazione. « Ehi! Offendi lui e basta, grazie! »
E scoppiammo a ridere, abbracciandoci.
« Oltretutto » tornai seria « stamane mi ha svegliata con una doccia ghiacciata. Come se non fosse già abbastanza gelido di suo »
Aya alzò gli occhi al soffitto e appoggiò il mento sulle ginocchia, senza guardarmi. « Non cambierete mai »
Ero d'accordo.
« Sana, posso dirti una cosa? » azzardò, guardandomi di scorcio. Era imbarazzata.
Annuii.
« Non ti nascondo che in parte io e Tsuyoshi speravamo che questa convivenza forzata vi avrebbe riavvicinati. E mi dispiace che non sia così »
Fu il mio turno di evitare il suo sguardo indagatore.
Lo sapevo, che ci avevano sperato, per quanto sia io che Hayama da un anno continuassimo a ripetere che non saremmo mai più tornati insieme.
« Siamo troppo testardi per tornare indietro, e poi è meglio così. »
Ci pensò per un attimo. « Ma lo dici perchè  sei abituata a dirtelo, o perchè lo pensi realmente? » mi si avvicinò, curiosa.

« Aya, vieni a dormire? » ci interruppe,  per fortuna, Tsuyoshi.
« Dai, a nanna! Continueremo il discorso un'altra volta » mi congedai rapidamente io, alzandomi dal divano.
Appoggiai il bicchiere sul tavolo e augurai ad entrambi la buonanotte.
Ero sinceramente tentata di dormire sul divano, il led rosso del televisore e una possibile lampada accesa erano davvero allettanti, ma mi costrinsi a ritornare in camera.
Chiusi piano la porta, regolando il mio respiro su quello calmo di Akito e sempre con la massima cautela arrancai a tentoni fino al mio letto.
Mi strinsi nelle coperte e chiusi ermeticamente gli occhi.
Ero davvero grata a Tsuyoshi per averci interrotte, a quella domanda non avrei proprio saputo cosa rispondere.
Non sapevo effettivamente perchè fosse “meglio così”. Era e basta.
Ah, Aya si faceva troppe domande e troppi problemi.
Affondai la testa nel cuscino. Dannazione, non riuscivo a dormire, e l'indomani sarei dovuta andare alla radio con Fuka, motivo per il quale non potevo permettermi di certo un atteggiamento da sonnambula. Dovevamo aiutare le persone, per la miseria! Una conduttrice semi addormentata non era il massimo.
E fu proprio nel cuore della notte, chissà quando, che mi disfai delle coperte e con attenzione raggiunsi il letto di Hayama, facendomi un po' di spazio.
Mi infilai meglio sotto alle sue lenzuola e mi resi conto di non essere per niente imbarazzata, quando le sue braccia mi accolsero involontariamente, stringendomi a lui.
Dopotutto, lui dormiva, ed io ero lì solo perchè avevo la  necessità di almeno quattro ore di riposo.
Sospirai più tranquilla. Quel  fottuto donnaiolo con cui ero in guerra mi conciliava il sonno, decisamente.

 

***


« Kami! Non ci credo che ti abbia chiesto una cosa del genere! » sbottò la mattina successiva Fuka, dopo che le ebbi raccontato le vicende.
Fuka viveva con il suo ragazzo – Takaishi – in un appartamento dall'altra parte della città. La distanza mi dispiaceva, ma la potevo tranquillamente raggiungere in tram e in ogni caso l'avrei rivista un giorno sì e un giorno no allo studio di registrazione. Lei non studiava più, e aveva tutta l'intenzione di aprire un locale, motivo per cui, oltre al nostro programma, ne registrava un altro paio di tipo musicale – una top 20 e un non ricordo assolutamente cosa.
« Sì » ingoiai l'irritazione insieme ad uno snack che avevo preso cinque minuti prima alle macchinette automatiche « ma l'ho ripagato con la stessa moneta! »
« Cosa gli hai detto? » strabuzzò quasi gli occhi, in preda alla curiosità.
Mi dondolai sulla sedia girevole e con aria di sufficienza spiegai: « L'ho gentilmente costretto a levarsi dai piedi il sabato sera »
Mi strinsi nelle spalle, e lei sorrise.
« Nuova fiamma, Kurata? » ammiccò.
« Oh, no davvero. Ma lasciamogli credere che sarò impegnata a fare chissà che, mentre in realtà mi gusterò un bel film e una porzione maxi di popcorn! »
« Ben gli sta! Così vede che s'è fatto scappare! »
La mia amica, al contrario di Tsuyoshi ed Aya, non  sperava più che io ed Akito tornassimo insieme. Era invece fermamente convinta che ci fossimo lasciati per colpa sua, e non perdeva occasione per rifilarmi frasi del genere, quasi fossero una consolazione per il mio – del tutto ipoteticamente – cuore spezzato.
E detto fra noi, non sapevo quale reazione fosse peggiore, tra le due. Come si suol dire, stavo tra  l'incudine e il martello.
In più, il giorno successivo si prospettava come un fantastico...  venerdì.
« Comunque » proseguì, nel tempo nemmeno lei era cambiata, la parlantina di certo non l'aveva persa « domani se vuoi puoi venire a trovarmi. Obbligherò Takaishi ad uscire con i suoi amici »
« Ma no » mi sentii colpevole « Non serve. Troverò qualcosa da fare, sta tranquilla... »
« Kurata, diamine, ci vivo insieme! Se passiamo una sera divisi non c'è davvero nessun problema! Così mi dici anche che te ne pare dell'appartamento »
Sospirai. « Oh, e va bene. Ma sicura che non sia un distubo? »
Mi sentivo un po' un peso, ma davvero non vedevo alternative.
Fuka sbuffò sonoramente. « Sana, eddai! Ho detto che va bene, anzi, ti ho invitata io... non farti problemi, assolutamente » e sorrise.
Alzai le braccia in segno di sconfitta. « Okay, okay, domani sera alle otto e tre quarti sono da te »
« Ma Kurata, non mi hai detto... come ha reagito stamattina quando ti ha trovata nel suo letto? » continuò il suo interrogatorio profondamente divertita.
Arrossii al ricordo. Era stata una scena davvero imbarazzante. Non solo perchè mi trovavo nel suo letto, ma soprattutto perchè si era svegliato prima di me e mi aveva trovata nel suo letto.
E si era solo limitato a dire “Kurata, hai dieci secondi per allontanarti di minimo tre metri”.
Sì, per la seconda mattina consecutiva ero proprio stata svegliata con dolcezza.
Che fortuna.

 





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Capitolo 4
*** 1.21: Jewels - first part ***


1.21 Jewels: precious stones used to decorate valuable things. PART ONE

 

 

Aprii gli occhi, sconvolta. Si prospettava una fantastica giornata, dato lo splendido - nuovamente - risveglio.
Nonostante avessi voglia di ringhiare, a distanza di esattamente tre secondi e mezzo dall’accogliente mondo dei sogni, riuscii quasi a ridere.
Un sorriso colmo di sarcasmo, per inciso, ma pur sempre un sorriso. Doveva pur essere un passo in avanti anche quello, nonostante nessuno tra i Kami lo considerasse tale.. Dato che di giorno in giorno, da quando mi ero trasferita, la modalità di risveglio non era mai stata naturale. Prima o poi mi avrebbero dato tregua, sia i Kami che il mio aguzzino, era solo questione di tempo. Ma la mia pazienza - che non era mai stata tanta - si sarebbe esaurita prima senza dubbio alcuno.
Respirai profondamente. Questi giri di parole minacciavano seriamente di procurarmi una bella emicrania. Ed io non la volevo, oh no.
Cercai di calmarmi. In fondo erano tutte piccolezze, in fondo non era necessario prendersela così, in fondo potevo capire. In fondo potevo fare la mia parte ed evitare.
Certo.
La. Prossima. Volta.
« Ma che diamine hai dentro quella testa? » inveii, lanciando il cuscino davanti a me.
« Oh, mi scusi, sua maestà, se per trovare i miei vestiti un questo caos di spazzatura vostra ho bisogno della luce accesa »
Hayama di mattina era una spina nel fianco.
Non che durante le altre ore del giorno non lo fosse, ma il suo sarcasmo unito al mio sonno era un cocktail fatale.
Senza degnarlo di una risposta sollevai le coperte fino alla testata del letto, così da essere completamente al calduccio e al buio – di cui per una volta non avevo affatto timore.
Se qualche giorno prima avevo considerato un insulto al termine "vacanza" svegliarsi alle nove, l'unica considerazione che riuscii a fare in quel momento fu che svegliarsi alle sette per colpa di Akito e della sua maledettissima luce ne era il suicidio stesso.
Mi voltai sul fianco destro, alla ricerca di una posizione comoda; ricerca che fallì miseramente quando realizzai che, dopo averglielo lanciato (forse) addosso, ero rimasta senza cuscino. Sbuffai.
« Tra le altre cose, riordina questo schifo, ti ricordo che stasera la camera è mia »
« Ovviamente. Ridammi il cuscino adesso, e poi lasciami dormire. » mugugnai, alzando un braccio verso l'alto, in modo da afferrare il cuscino dopo un possibile – anzi, direi alquanto probabile – lancio da parte del mio coinquilino.
Lancio che tardò ad arrivare, ma tanto stordita dal sonno com'ero, non me ne resi conto in tempo.
Improvvisamente mi ritrovai senza coperte – di nuovo, come un paio di mattini prima – e, senza nemmeno il tempo di pensare ad un'offesa in particolare, il cuscino mi venne scagliato con forza in faccia.
Non che facesse male, in fondo era solo un cuscino, ma lì per lì mi ritrovai a considerare quante possibilità avessi di venire assolta con formula piena nel caso in cui Akito Hayama fosse stato rinvenuto morto – a pezzi, macinato, tritato, frullato! - in camera mia. Cioè, nostra.
Insomma, era difficile capire che fino a mezzogiorno Sana Kurata non esisteva per nessuno?
« Tante grazie » bofonchiai, aprendo gli occhi mio malgrado per recuperare le lenzuola.
« Ma ti pare »



***


Ore dieci e trenta, cucina dell'appartamento Hayama, Kurata, Sasaki, Sugita.
Ammettiamolo: già solo al dirlo così era tutto un programma.
Irritata più del dovuto, più del lecito anzi, afferrai con violenza una povera tazza arancione e l'appoggiai sul tavolo, riempiendola di latte fino al bordo; poco importava se cinque secondi dopo, all'aggiungerci i cereali, avrebbe inevitabilmente strabordato.
Così fu, e non ci badai, immergendo il cucchiaio con un'espressione praticamente omicida dipinta in volto.
« Buongiorno, Sana. Scappo di già, sono in ritardissimo » mi salutò Tsuyoshi, beato nei suoi cinque minuti dopo il risveglio, afferrando al volo un toast appositamente preparato da una fedele Aya prima che uscisse per andare a lezione.
Ecco, i cinque minuti di sacra tranquillità. Che per un motivo o per l'altro Hayama mi rovinava sempre.
« Ciao » mormorai affranta, nemmeno l’ombra di quella tanto agognata pace post-bella-dormita che lui emanava da ogni poro.
« Sana, che ti è successo? » mi squadrò da capo a piedi mentre sistemava la camicia abbottonata male.
Gli bastò l’occhiata che scoccai come risposta per uscirsene con un sospiro, un “Oh, Akito” e il toast a penzoloni in bocca.
Bene, piazza pulita.
« Che dire.. Casa dolce casa » guardai le quattro mura vuote della stanza.
Nemmeno stare in casa da sola mi piaceva; mi dava un leggero senso di claustrofobia, senza contare il nodo in gola, residuo di quel periodo in cui la solitudine del cuore mi aveva scavato un enorme buco nel petto. (*)
Mi accanii contro un malcapitato cereale di dimensioni più grandi rispetto ai suoi simili: il colore mi ricordava gli occhi di Hayama. E non era una bella cosa.
Terminata la colazione sparecchiai, sbadigliando sonoramente. Con una veloce occhiata al calendario mi resi conto che quello era il mio terzultimo giorno di vacanza, nonostante parte del mio cervello le considerasse già irrimediabilmente terminate in coincidenza con la data di acquisto dell’appartamento. Il che significava, in poche parole: lunedì università. Avvertivo una leggera ansia - l’ansia dell’ignoto - ma ero soprattutto curiosa di sapere come sarebbe stato. In fondo era una novità, niente a che vedere col liceo.
Rientrai in camera, decisa a trovare quel dannato vestito bianco senza spalline che avevo tutta l’intenzione di indossare per andare a trovare Fuka, e dovetti ammettere che era in uno stato pietoso.
Cercai di giustificare così il mancato ritrovamento del suddetto reperto numero uno - alias vestito bianco - ma riconobbi che, quasi sicuramente, dovevo averlo lanciato all’aria ancora dentro la busta del negozio, con le etichette appese e lo scontrino sul fondo della borsa. L’ordine, forse, non era il mio forte.
Provai sinceramente a sistemare quella baraonda, lo giuro. Ci provai davvero.
Ma come accadeva circa nove volte e mezza su dieci, mi stancai prima che il risultato fosse accettabile. Raccolsi distrattamente quanti più indumenti trovai a terra – ma accidenti, qualcuno per forza doveva essere anche suo! – aprii un paio di cassetti e riversai tutto al loro interno, senza guardare.
In fondo sembrava ordine, no? Era già un passo avanti.

 

***



« Kurata, quale parte del discorso di stamattina non hai compreso? » urlò Akito dalla nostra stanza.
Tentai di ignorarlo completamente: come i cinque minuti dopo il risveglio, anche i pasti erano sacri, per me, in particolar modo la cena.
A dirla tutta, non c'era momento della giornata in cui avrei permesso ad Hayama di disturbarmi ma ciò, comunque, sarebbe rimasto solo un pensiero.
Dopo una riflessione lunga un pomeriggio ero arrivata all'idea di tentare, in qualche modo, di stabilire una sorta di tregua, basata sulla teoria del vacuo e placido ignorarlo. Piuttosto semplice.
Addentai quel che restava della mia porzione di sushi: avevo già rimosso la conversazione mattiniera.
« Kurata, parla. » e suonò leggermente minaccioso.
Deglutii. « In realtà non ci ho capito niente, temo: non ti ho proprio ascoltato »
Sollevai entrambe le sopracciglia, soddisfatta della mia risposta.
Tregua saltata.
Aya, seduta a tavola di fronte a me, scosse impercettibilmente la testa.
« Siete peggio di due bambini » commentò invece Tsuyoshi, osservando il suo piatto ormai vuoto.
Hayama entrò di gran carriera in cucina, nascondendo qualcosa dietro la schiena.
« Ti avevo chiesto » iniziò « di sistemare la stanza »
« Oh, no » sorrisi sarcastica « tu non chiedi mai »
Rimase lì a fissarmi, con l'espressione tipica di chi vuole intendere "tanto aspetto qui fino a che non la finisci".
Cambiai tattica. « Ho riordinato, non te ne sei accorto? »
Strabuzzò gli occhi. « Certamente. In tal caso – cioè, credevo tu lo sapessi ma a quanto pare no – ti informo che io non sono solito indossare questi » mi lanciò in mano un indumento prettamente femminile, dall’aria nuova, che in un’altra epoca avrebbe certamente gradito addosso a me. Non che m’importasse, eh.
Osservai seria quello che sembrava a tutti gli effetti essere un abito. Dovevo concederglielo, a meno che non nascondesse una vita notturna in minigonna dietro il nome Reika, non era di certo il suo abbigliamento tipo.
Lo osservai meglio. Era il vestito bianco, quello senza spalline.. Esattamente quello che avevo cercato tutto il pomeriggio. “Tutto” si fa per dire.
Prima di riuscire a capire che forse - forse! - i cassetti in cui avevo riversato il disordine di camera Hayama Kurata erano…
Bloccai tutti i muscoli del corpo.
Oh, no no no no.
Come avevo anche solo potuto pensare le parole “camera Hayama Kurata”? Sembrava.. Sembrava..
Manca qualcosa: stanza che Sana Kurata era evidentemente costretta a dividere con un troglodita per un buffo - e odioso - scherzo del destino, sia chiaro!
« Non ho finito. » annunciò, l’ombra di un ghigno minaccioso sul viso, distraendomi così da quella pericolosa via che era “Sana e Akito, istruzioni per l’uso” (nessuna istruzione, nessun uso, nessun Sana e Akito!) « come se ciò non bastasse, io non porto una seconda » pose davanti a sé anche il braccio sinistro. Dalla sua mano penzolava una spallina. Attaccata ad un reggiseno color crema, stampato a formiche. Indubbiamente mio. « in realtà questi non li porto nella maniera più assoluta, ma probabilmente non hai fatto caso a questo piccolo particolare »
Aya scoppiò a ridere, non riuscendo a contenersi, mentre Tsuyoshi si appoggiò al frigorifero, coprendosi la bocca con entrambe le mani. Io invece ero basita.
Non c’era più spazio per i dubbi: i cassetti dovevano proprio essere stati i suoi. Merda.
« Quanto la fai lunga » mi strinsi nelle spalle, cercando di sviare « lasciami recuperare la borsa e me ne vado, almeno non ti avrò tra i piedi tutta la sera »
Detto ciò mi incamminai a grandi falcate verso la stanza.
E ritornai anche indietro, rossa di vergogna, sotto lo sguardo rassegnato dei miei tre co-affittuari.
Mi schiarii la voce: « Ehm. Non è che qualcuno ha visto la mia borsa? »
Okay, lo ammetto: ero un po' disordinata.
Senza dire una parola, Aya mi prese la mano e mi condusse nell'ala di appartamento che condividevo con Akito.
Aprì la porta del bagno, e in quel momento pensai che fosse stata una scelta del tutto casuale dettata da un improvviso bisogno di privacy. Magari doveva dirmi qualcosa di importante...
Accese le luci, e capii che non si trattava di un segreto: la mia borsa faceva bella mostra di sé accanto al beauty case.
Anche se era del tutto inutile, mi indicò l'oggetto incriminato con l'indice.
« E come accidenti è arrivata fino a lì? » sbottai.
L'unico idiota a cui sarebbe mai saltato in mente uno scherzo del genere non poteva essere che Hayama.
Prima che giungessi alla conclusione di ritornare in cucina per fargli una sfuriata – andiamo, non eravamo più alle elementari, inoltre dovevo ancora digerire l'obbligo di uscire quella sera perché era un venerdì  e i venerdì erano di sua proprietà, e le migliaia di altre cose per le quali , avevo tutto il diritto di fargli una bella sfuriata – me lo ritrovai davanti, appoggiato allo stipite della porta aperta.
Una parte del mio cervello realizzò che si appoggiava alle porte un po' troppo spesso, ma ci avrei rimuginato su poi.
« Felice di informarti, Kurata, che la borsa l'hai messa lì tu, ieri sera »
« Cambierai mai? » proseguì divertito, la situazione era imbarazzante e lui se ne stava approfittando fin troppo.
Per la seconda volta in una giornata, fui tentata di fargli del male.
E dire che non ero una tipa violenta.
Vidi il problema – Hayama, che bellamente se la stava ridendo – e un istante dopo, proprio accanto a lui, la soluzione: la doccia.
Scansai Aya con poca eleganza, afferrai un braccio di Hayama con la mano destra e lo spinsi dentro la cabina: non se l'aspettava, quindi non reagì subito. Ed era proprio sull'effetto sorpresa che io contavo.
Sorrisi, e un istante dopo aprii il getto dell'acqua. Bollente.
« Ma sei scema? » scattò, armeggiando con la manopola, senza rendersi conto che girando in senso orario il getto non avrebbe fatto altro che aumentare.
« Non scaldarti, Akito » ammiccai, ridendo del mio gioco di parole « è un ringraziamento per il bel risveglio di qualche giorno fa »
Aya mi diede di gomito, complice.
« Che cattiva, Sana » non tratteneva le risate, in mezzo al vapore e di fronte ad un Akito imprecante che, incredibile, doveva ancora chiudere la manopola - fortuna poi che quella ottusa ero io.
Mi strinsi nelle spalle, poi rincarai la dose: « Hayama, ancora sotto la doccia? La tua bella sarà qui a momenti, sbrigati! »
Presi la borsa, salutai con la mano il povero Akito che – finalmente – era riuscito ad uscire dalla doccia e si frizionava i capelli biondi con un asciugamano (tra l'altro, forse era il mio asciugamano, ma preferii soprassedere, onde evitare altre imprecazioni capaci di far cadere i Kami uno per uno) e insieme ad Aya uscii dal piccolo bagno, chiudendomi la porta alle spalle con forza.
Tsuyoshi si era già infilato il cappotto e teneva tra le mani quello della sua ragazza.
L'idea era di uscire tutti e tre insieme: mi avrebbero accompagnata fino alla fermata del tram – con il quale avrei raggiunto Fuka – e poi avrebbero proseguito per una passeggiata in centro. Sperai per loro che fosse una lunga passeggiata per il centro, io personalmente tutto avrei desiderato tranne trovarmi in casa con quello lì il venerdì sera. Rabbrividii.
« Posso ripeterlo per la milionesima volta? » chiese retorico Tsuyoshi, l'ombra di un sorriso dipinta in volto « Siete peggio di due bambini » e porse la giacca ad Aya.
Recuperai la mia sull'attaccapanni, mentre borbottavo un « Capita » molto poco maturo.
« Pronta! » esclamai un secondo dopo, infilando l'ultimo bottone scuro nell'asola.
Tsuyoshi aprì bocca, gli potevo già leggere sulle labbra la parola "andiamo", ma fu preceduto dal campanello.
Mi immobilizzai dov'ero, e altrettanto fecero i miei due amici.
Sentii improvvisamente che sarei potuta soffocare da un momento all'altro, immaginando chi ci poteva essere all‘ingresso, l‘indice premuto contro il pulsante sopra alla targhetta coi nostri quattro nomi.
Il campanello suonò nuovamente. Kami, qualcuno sul pianerottolo era proprio insistente.
« Vado io » asserii seria.
« Sana, forse è meglio se non.. »
Stavo già togliendo la sicura della porta d'ingresso.
Espirai ed aprii.
Probabilmente, in un altro contesto, non avrei trovato la ragazza che mi stava di fronte così spiacevole. Certo, forse era un po' troppo truccata e poco vestita, ma..
Oh, era orrenda!
La classica maggiorata, che oltretutto sapeva d'esserlo e tentava in tutti i modi possibili di mostrare al mondo i gioielli di famiglia. Aveva nascosto il viso sotto chili di fondotinta, e masticava una chewing-gum senza il minimo ritegno né la minima educazione.
Era una vecchia conoscenza scolastica: aveva palesato un certo interesse nei confronti di Akito già all'epoca in cui era il mio ragazzo, ma poi si era fidanzata con l'ex presidente del Comitato degli Studenti. Non che lui le avesse mai dato corda, comunque.
Doveva chiamarsi Keiko, o qualcosa di simile; un nome odioso, senza dubbio.
Probabilmente mi riconobbe anche lei, poiché piegò gli angoli della bocca verso il basso, in un gesto istintivo.
« Ciao » l'accolsi, sfruttando le mie doti di attrice « chi cerchi? »
Rimase impalata sul pianerottolo, in totale imbarazzo. Almeno quello.
« A-Akito » balbettò, in soggezione.
« Certo, te lo chiamo subito » mi voltai verso Aya e Tsu, completamente atterriti di fronte a quella visione « Chiamate Akito? E' arrivata una a ritirare il premio settimanale »
Mi voltai di nuovo verso Keiko, mentre ripescavo nella memoria il nome dell'ex presidente del Comitato Studentesco. Le sue guance avevano preso fuoco.
« Come sta Ryuke? » chiesi come se nulla fosse.
« N-non lo so. Ci siamo lasciati » fu la risposta secca di lei.

Per quanto Aya avesse colto dietro il tono di voce e lo sguardo abbassato tutto il dolore di quella separazione – me lo confermò appena uscimmo di casa, condito con un bel "poverina, mi è sembrato avesse il cuore spezzato" e simili – in quel momento non riuscii affatto a compatire quella ragazza.
Chissà perché.








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(*) La malattia della bambola, volumi 9 - 10 Kodomo no Omocha.

 

 

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Capitolo 5
*** 1.22: Jewels - second part ***


A Giulia, il mio coraggio.
A Martina, la mia coscienza.



1.22 Jewels: precious stones used to decorate valuable things. PART TWO

 


Le mie priorità erano radicalmente cambiate; incredibile quanto mezz’ora di viaggio fosse in grado di far sbollire la rabbia e far crescere imponente l’insoddisfazione.
Forse era merito della progressiva lontananza tra me ed Hayama, veloce tanto quanto quella corsia preferenziale che faceva aspettare un‘interminabile coda di automobilisti, o forse quell’inversa proporzionalità che legava me, all’aumentare dei chilometri di distanza, a quella sempre più vivida immagine della ragazzina che aveva osato suonare alla mia porta.
In tutta onestà, se non fossi stata tanto certa che il distacco tra me ed il mio ex ragazzo era permanente e definitivo, mi sarei quasi definita gelosa. Ma no, che assurdità.
Controllai maniacalmente l’orologio che portavo al polso. Prima considerazione: ero in ritardo, Fuka probabilmente me l’avrebbe fatto notare, come me lo faceva notare sempre. Era nella sua indole.
Seconda considerazione: erano passati ventotto minuti e quattordici (quindici, sedici, diciassette) secondi da quando avevo lasciato a casa Hayama e quella. Chissà se erano già arrivati al dunque, o comunque chissà che stavano facendo.
Scossi la testa. No, no.
Per quanto mi facesse evidentemente schifo sapere del mio ex ragazzo a casa mia da solo con una mia vecchia conoscenza, non era la rabbia, il sentimento dominante. O almeno, non più.
Onestamente? Non desideravo altro che lamentarmi. Nel senso pieno, petulante e lagnoso del termine.
Lamentarmi, punto e basta. Poi dormirci sopra, evitare di rodermi il fegato di rabbia (perché al rivederlo sarebbe riaffiorata, oh sì), possibilmente, ma il bisogno primario era esattamente quello: una lamentela in piena regola.
Le porte del tram sfilarono di fronte a me; non appena calcolai che lo spazio fosse sufficiente per permettermi di scendere, scattai verso il marciapiede.
E non m'importava nemmeno della folla di gente che passeggiava per le vie di Osaka ovest, delle vetrine allettanti e neanche di un grande cartellone che ritraeva me posare per un'alquanto nota e costosa marca d'abbigliamento. Avevo bisogno di vedere Fuka, bere un tè – ecco, il tè e la compagnia di Mama sarebbero stati il massimo, ma era un discorso fuori dalla mia portata, Mama e il suo tè erano a Tokyo – e cominciare a – sì, di nuovo, indovinato – lamentarmi.
« Sana, fermati! »
Mi voltai di sfuggita, non ancora consapevole di chi fosse il proprietario della voce, anche se avrei dovuto immaginarlo.
Fuka si sbracciava dall'altro lato della strada, sorridendo.
Tutto ciò che riuscii a regalarle, di risposta, fu una breve smorfia, che in comune con un sorriso altro non aveva che gli angoli della bocca curvi verso l'alto.
Attraversò la strada e mi raggiunse, e io quasi non me ne accorsi.
« Sana, hai una faccia » constatò, dopo avermi stampato un bacio sulla guancia destra.
Mi strinsi nelle spalle.
Camminammo velocemente per la via principale e scese quel silenzio, quello denso di sottintesi e quello del "capisco, ne parliamo arrivate a casa".
E, arrivata a casa, non avrei avuto scampo: o parlare o parlare, nessun'altra possibilità.
Si fermò di fronte ad un grande palazzo, e solo allora mi guardai intorno: inutile dirlo, Fuka aveva scelto un quartiere davvero carino, non molto lontano dalla baia.
Con un gesto della mano mi invitò ad entrare, e schiacciò il pulsante 5 dell'ascensore.
Riuscì a stupirmi: stare in silenzio così a lungo non era da lei, e mi preparai psicologicamente alla raffica di domande a cui mi avrebbe sottoposta, non appena entrata in casa. Almeno, con lei, mi sarei di certo potuta lamentare.
Infilate le chiavi nella serratura, quest'ultima scattò e la porta si aprì.
Entrai in quello che senza il minimo dubbio doveva essere il salotto, chiaro, sui toni dell'azzurro, limpido. Proprio come Fuka. Non che Fuka fosse azzurra, ma volendo era il colore che le avrei affibbiato con più probabilità.
« Diciamo che la casa la vedrai dopo » con un moto circolare della sinistra indicò l'ambiente « prima dimmi che è successo »
Il tono, ovviamente, non ammetteva repliche.

 


***



« Non ci posso credere, quel ragazzo è.. »
« Già » confermai, sicura del fatto che qualsiasi aggettivo a cui la mia amica stava pensando fosse meno offensivo di quelli a cui ero ricorsa io durante il tragitto in tram.
Le mie aspettative non erano state deluse: Fuka aveva cominciato subito con le domande, una dopo l'altra, tanto che per la prima mezz'ora ebbi l'impressione di trovarmi in uno di quei programmi televisivi in cui si rispondeva con la prima parola che veniva in mente.
E poi riuscii a sfogare tutto il mio malumore.
« Sana, ho un dubbio che mi devi assolutamente chiarire. Ma sappi che sarò schietta » mise le mani avanti.
Al che riuscii addirittura a sorridere: « E quando mai non lo sei? »
Puntò per un attimo gli occhi al soffitto, poi si ricompose.
« Capisco che la situazione che ti sei trovata davanti non fosse esattamente la migliore, ma... questa tua reazione, a cosa è dovuta? » si abbandonò ad una leggera smorfia, timorosa di non essersi spiegata bene « Voglio dire, non è che provi ancora qualcosa per lui? »
Era sempre la solita, sempre lei e la sua convinzione che Akito mi avesse spezzato il cuore...
« Non ci pensare proprio. Non sto male, sono furiosa. Come diamine ha anche solo pensato ad una cosa del genere? Voglio dire, siamo stati insieme così tanto tempo, è ovvio che non avrebbe dovuto! Se lui ora è per la teoria "una botta e via, in amicizia, magari un bis in futuro" buon per lui – cosa vuoi che ti dica – ma almeno la decenza di non farmele incontrare! » esplosi.
Mi guardò, scettica. Ancora non l'avevo convinta.
 « Fuka, è una questione di rispetto. E lui non ne ha » conclusi, lapidaria.
« Non metto in dubbio la sua mancanza di tatto, sia chiaro. E' solo che ti vedo sconvolta, e non capisco bene dove finisce la rabbia e dove inizia la gelosia, sempre se di gelosia si tratta »
Sbuffai, di quel passo sarei tornata a casa così tardi che persino Akito si sarebbe preoccupato - il che era veramente tutto dire - la cosa migliore era dire tutto, e dirlo immediatamente.
« Per quanto tu creda nella tua teoria del ragazzo gelido e della ragazza col cuore a brandelli, proverò a spiegartelo lo stesso. Non sono ipocrita; dopo tutto quello che abbiamo passato insieme » tentai di minimizzare, ma in quel momento Sana l’attrice non era presente « è normale che sia una persona importante per me. Per quanto sia statisticamente provato che il novantanove virgola nove percento del tempo lo passo a pensare a quanto sia diventato un detestabile mulo, è stata la storia più importante della mia vita. Almeno, fin ora. »
Potevo quasi vederla annuire, certa di aver appena ottenuto una confessione in piena regola da allegare alla sua meravigliosa teoria, nel modo orgoglioso in cui si allega al curriculum vitae una foto in cui si è usciti benissimo; mi affrettai ad aggiungere: « Ed è proprio quando fai quella faccia, Fuka, che ti sbagli. Non è quel tipo di gelosia. Non è affatto gelosia! E‘ solo strano vedere qualcuno che un tempo definivi tuo rifarsi una vita più velocemente di te.. Oltre al fatto che lo fa in maniera irrispettosa ed odiosa, e.. »
Mi bloccai.
Evidentemente mi dovevo essere addormentata sul divano, e il sogno in cui ero incappata altro non poteva essere che una sorta di parodia perversa della mia vita. Tanto per cominciare, quando mai era successo che io parlavo ininterrottamente per - altra occhiataccia da maniaca all’orologio, seconda considerazione sempre presente in quell’angolino del mio cervello - ..la fenomenale bellezza di sette minuti, e Fuka stava zitta ad ascoltare, senza interrompermi come al solito?
La osservai, era stranamente calma. Tentai con un esempio, se non era un sogno con quello l‘avrei sicuramente fatta scatenare. E vedere Fuka programmare minuziosamente qualcosa di losco è paragonabile alla visita a La Mecca per un musulmano: da fare almeno una volta nella vita.
 « Ora, facciamo finta che tu e Takaishi non stiate più insieme – per carità, spero resterete insieme ancora a lungo, ma entra in quest'ottica » mi fermai per darle il tempo di immaginare « e che viviate ancora qui, sotto questo tetto. Dimmi Fuka, come reagiresti se ti trovassi di fronte le sue, umh, amiche? »
Attesi, e Fuka non mi deluse nemmeno stavolta.
Chiuse a pugno la mano che teneva poggiata sul tavolo, e gli occhi per un momento le arsero. Era entrata nella parte.
« Come prima cosa, gli staccherei i gioielli! » e capii, soffocando una risata per l'espressione con cui aveva scelto di esprimersi, che eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. Cominciai a rilassarmi, per potermi godere meglio la scena.
« Poi credo che gli righerei la macchina, poi forse gli brucerei l'armadio. E assumerei qualcuno per gonfiarlo di botte... Anche se per me è più facile, il massimo di Takaishi è una corsa per il quartiere una volta al mese, Akito invece è cintura nera di Karate » si perse per un istante nei meandri del suo cervello che, ci avrei scommesso, erano molto più interessanti dei miei.
Dopo il suo bruciante discorso ero arrivata ad una definizione precisa: Fuka era il mio coraggio. O per meglio dire, il coraggio che mi mancava.
Lo era sempre stata, sin dai tempi delle medie. Entrambe avevamo sempre parlato molto, ma con una sostanziale differenza: io mantenevo un quarto dei propositi, raggiungevo solo un quarto degli obiettivi. Ero deludente, sotto quest’aspetto.
Se Fuka fosse stata al posto mio, invece, la macchina sicuramente l’avrebbe mortalmente sfigurata, l’armadio ridotto a cenere, il povero Takaishi pestato a sangue.. E senza gioielli. Entrambi.
« In definitiva » ammise, calmandosi « sei stata anche troppo gentile »
Aya e Tsuyoshi non erano dello stesso parere, invece.
Mentre aspettavano che prendessi il tram, non avevano fatto segreto del fatto che l'allusione al "premio settimanale" fosse stata un po' esagerata, a loro avviso. Ma poco male, era questione di punti di vista.
Fosse stata la reazione di Fuka, allora che l'aggettivo "esagerata" avrebbe calzato alla perfezione. Mi sentii rincuorata, e continuai a snocciolare tutti i dettagli dell'incontro.
Dopo la mia brillante richiesta di informazioni sulla situazione sentimentale della giovane donzella alla porta, Akito era ricomparso, l'aveva invitata ad entrare e, molto gentilmente, aveva congedato il resto dei presenti con un bel "Ma voi non dovevate uscire?". Sempre il solito galantuomo.
« Come pensi di comportarti, quando tornerai a casa? » sviò un po' l'argomento.
Appoggiai il mento sulla superficie del tavolo, assorta. « Non lo so » confessai « credo che ci penserò durante il ritorno in tram. Ho scoperto che il tragitto mi facilita in qualche modo il flusso dei pensieri »
« Cioè? »
 Sorrisi. « Cioè non credevo che il mio vocabolario di offese circa il signor Akito Hayama fosse così vasto »

 


***

 

Ore undici e quarantasette, palazzo qualsiasi di Osaka centro. Direzione: appartamento Sana.
Dopo aver bazzicato per circa venti minuti (fermata del tram – entrata del palazzo, entrata del palazzo – fermata del tram, fermata del tram – entrata del palazzo) decisi che era un orario accettabile per rincasare.
E se anche non lo fosse stato, chi se ne importava.
In realtà avevo scoperto che il tram mi facilitava solo la scoperta di nuovi e sorprendenti aggettivi per Akito Hayama, ad esempio "puerile". Chi mai avrebbe immaginato che la mia testa avrebbe potuto partorire un simile attributo? Akito era un immaturo. Era decisamente puerile.
Annuii.
In soldoni: non avevo minimamente pensato a come comportarmi, e non avevo nemmeno vagliato le possibili reazioni di lui.
Perchè nonostante avessi tutte le ragioni del mondo, si trattava di Hayama, e il suo cervello non molto perspicace (ero addirittura arrivata al punto di ricamarci sopra figure retoriche quali la litote, che ero fermamente convinta di aver rimosso un minuto e quarantadue secondi dopo averla sentita nominare in classe, ma mai sottovalutare i benefici di un viaggio in tram) avrebbe anche potuto convincersi di avere qualche strana sorta di...ragione.
Mi massaggiai le tempie – queste elucubrazioni mentali non da me erano piuttosto snervanti – e optai per le scale piuttosto che per l'ascensore. Improvvisa claustrofobia?
In ogni caso fu una pessima idea, arrivata al pianerottolo del quarto piano ero semplicemente stremata.
Contrassi tutti i muscoli del corpo quando mi ritrovai di fronte alla porta, e cercai di non pensare che circa tre ore prima in quel punto aveva poggiato i piedini la cara Keiko.
Trovai con facilità le chiavi ed aprii la porta, tesa.
Aya e Tsuyoshi erano seduti sul divano, guardavano una sit-com in seconda serata sul primo canale. Spensero la televisione e mi invitarono ad avvicinarmi, ma rimasi al mio posto, impalata accanto alla porta spalancata, pronta ad uscire.
« E' ancora qui? » chiesi guardinga, indicando la mia stanza.
« No. Siamo tornati un quarto d'ora fa ed era già andata via » si strinse nelle spalle il mio amico.
Tanto meglio.
Tirai un sospiro di sollievo, chiusi la porta e, dopo essermi liberata di cappotto e borsa e sotto due paia d'occhi apprensivi all'inverosimile, abbassai la maniglia della porta che conduceva al campo minato con mano fin troppo tremante.
La stanza era in ordine - a parte per i vestiti che avevo accatastato nel cassetto di Akito quel pomeriggio, e che lui molto gentilmente aveva usato per sommergere il mio letto - lui era seduto sul suo letto, intento ad inviare una mail con il cellulare. (*)
Cercai di non guardarlo, o sicuramente la nausea mi avrebbe vinta.
Non parlò, non parlai. Piegai diligentemente ogni capo abbandonato sul mio letto e lo sistemai nella mia parte di armadio; mi pizzicavano gli occhi dalla rabbia e dallo schifo, e mi ringraziai mentalmente per non aver riordinato durante la giornata. Era il genere di mansione che teneva le mani occupate e gli occhi bassi, proprio l’ideale.
Recuperai il pigiama e lasciai la stanza, ma prima di arrivare al bagno una mano mi bloccò per un braccio.
« Sana! » quasi sobbalzai, voltandomi. Per fortuna era solo Aya.
Scossi la testa: chi credevo fosse?
« Non abbiamo sentito volare una mosca, dal salotto, e ci siamo preoccupati. Sarebbe stato molto più ragionevole e molto più da voi sentirvi urlare dal piano terra » sorrise gentilmente, mentre vedevo alla fine del breve corridoio Tsuyoshi che armeggiava con il lettore DVD.
Mi sentii nascere un nodo in gola. Sarebbe stato proprio da noi, in effetti.
Mi strinsi nelle spalle, recuperando l’autocontrollo sufficiente per parlare.
« Meglio così, no? » espirai « Niente schiamazzi notturni »
Tentò di accarezzarmi i capelli, come a consolarmi, ma glielo impedii scuotendo la testa. « C‘è già Fuka che crede che io stia qui a piangere col cuore a pezzi, e lei basta e avanza » avevo la voce rotta, e onestamente, a sentirmi parlare, avrei detto anche io che ero la classica adolescente alla prima delusione amorosa « prima che sia tu che Tsu arriviate alla stessa conclusione, sto così » indicai con un gesto la gola, mirando alla mia voce tremante, prova che in quel momento lei considerava schiacciante  « perché è una situazione che non mi piace. Mi fa schifo dormire nella stessa stanza con lui, stasera. E‘ umano, no? »
Annuì.
« Ciò non significa però che lo ami ancora. Non è così. L‘ho detto anche a Fuka, è una questione di rispetto » conclusi.
Abbassò lo sguardo, torturando il polsino del suo cardigan scuro. Non riusciva a guardarmi.
« Che c‘è? » la incitai, ero di fretta. Volevo cambiarmi, andare sotto alle coperte, sperimentare se il mio letto sortiva gli stessi affetti del tram e dormire. Magari, se possibile, anche dimenticare l’argomento.
« Sì » piantò gli occhi castani nei miei, finalmente decisa « è giusto quel che dici. Ma sei tanto arrabbiata con lui, e non capisco se.. »
« Alt » la fermai con la mano destra alzata, quel discorso l’avevo già sentito « Ci devo solo fare l‘abitudine. Non ho mai avuto modo di rendermi conto da vicino di come sia diventata la vita di Hayama da quando ci siamo lasciati. Sono solo sorpresa »
Scosse di nuovo la testa, stavolta in segno di resa. « Va bene, lasciamo stare. Ne riparleremo. Ci vediamo domani, sogni d‘oro. »
Ricambiai, ed entrai in bagno.
Se qualche ora prima avevo definito Fuka il mio coraggio, Aya senz’altro era la mia coscienza. Quella vocina piccola nel cervello che con le sue domande faceva vacillare tutte le mie convinzioni, tranne una. Perché quella sera non avevo dubbi: come potevo ancora amare uno come Hayama? Era..fuori discussione, soprattutto alla luce dei nuovi fatti.
Mi sentii improvvisamente stupida per essermi preoccupata di una possibile reazione di Akito. Lui non aveva reazioni, mai.
Scossi la testa, ed indossai il pigiama.
Al mio rientro trovai estremamente interessante il pavimento; sembrava tutto immobile, sentii solo il rumore leggero dei tasti premuti da Hayama per la sua dannatissima mail.
Sempre in religioso silenzio mi strinsi nelle coperte, allungai un braccio e spensi la luce.
« Chi ti ha detto di spegnere »
Kami, che malumore. Ma di solito la gente non dovrebbe essere allegra, dopo una seratina come la sua?
Era il pensiero sbagliato, l'irritazione risalì frenetica a galla e soffocai l'ennesimo ringhio.
« Non mi interessa. » lo apostrofai secca, e valse come un "buonanotte".
Siamo sinceri: valse proprio come un "vaffanculo".



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(*) in Giappone non si mandano SMS bensì mail.

 

 

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Capitolo 6
*** 1.31: Breathless - first part ***




1.31: Breathless: to have difficulty in breathing properly. PART ONE.



Sbadigliai sonoramente, del tutto sorpresa: era sabato, nessuno lavorava né studiava, quindi Aya, Tsuyoshi e anche Hayama dovevano per forza essere a casa.
Beh, ero orgogliosa di me stessa: per quanto fosse una deduzione puramente logica e ovviamente elementare, ero sveglia da una manciata di secondi, e per me pensieri del genere in occasioni simili sfioravano persino il filosofico.
Ma non era tutto così facile. Mi sfuggiva un dettaglio: visti i miei precedenti risvegli, come mai Akito non mi aveva ancora amorevolmente buttata giù dal letto con uno dei "suoi metodi"? Non che la cosa mi dispiacesse, era solo piuttosto strano.
Mi strinsi nelle spalle e raggiunsi il tavolo in cucina, su cui Tsuyoshi ed Aya avevano appena appoggiato le borse della spesa.
« Buongiorno dormigliona! » fu il benvenuto di Aya in quella giornata, come se avesse dimenticato il discorso della sera precedente.
Biascicai un "orno" molto poco convinto prima di abbandonarmi su una delle quattro sedie spaiate.
Mi guardai intorno, e notai con piacere che mancava proprio chi non avevo voglia di vedere.
« Dov'è andato quell'altro? » masticai insieme ad un boccone di brioche.
Bloccai le allusioni a qualsiasi interesse di tipo anche solo vagamente romantico con un'occhiataccia ad entrambi i miei interlocutori.
« Maratona » spiegò Aya, con un risolino.
Beh, era da Akito. Mi alzai, pulendomi gli angoli della bocca, e sparecchiai.
« Sai che è il suo modo di smaltire il malumore » aggiunse Tsu.
Mi fermai accanto al lavabo. Oh, ecco qualcosa di strano.
Per meglio dire, anche quella sarebbe stata una reazione puramente nel suo stile, peccato non avesse motivi per essere di cattivo umore. Soprattutto dopo un venerdì sera.
Deglutii. Pensieri sbagliati, pensieri sbagliati, cattiva Sana.
Un interrogativo non meno inquietante era che non mi avesse svegliata in malo modo, soprattutto se, come dicevano gli altri, il suo umore era tanto nero.
Hayama marciava su queste cose: se era arrabbiato per un motivo, se la prendeva con tutto il resto.
« E come mai tanto arrabbiato? In fondo ieri era venerdì » azzardai, sperando che i miei amici non traviassero il senso della domanda.
Cioè ci scovassero un interesse prettamente amoroso, come loro solito.
Fu Tsuyoshi a ridere, stavolta. « Appunto, era ieri »
Rimasi ghiacciata nella mia posizione, interdetta, e qualcos’altro di certo non tornava.
Provai davvero a connettere risolini, arrabbiature, maratone e ieri, ma non riuscii a scovare alcun punto di incontro.
« Potete smetterla di parlare per enigmi? » sbottai dopo che non riuscii a cavarci un ragno dal buco.
« Nessun enigma, Sana. Ad Akito semplicemente non piace l'idea che dopo il venerdì ci sia il sabato, tutto qui »
Annuii, per niente convinta, ma decisa a far credere di non essere così ritardata da non capire. Probabilmente non mi credettero, ma se non altro lasciarono cadere l'argomento.
Quindi, io ero stupida. Non c'erano altri significati. Ma voi, voi, provate a dirmi cos'avreste capito da un "ad Akito non piace l'idea che dopo il venerdì ci sia il sabato". Perchè io onestamente non ci avevo capito un granché, se non che le mie capacità cognitive si erano pesantemente abbassate.
O forse non erano proprio mai state presenti.

 

***


"Ad Akito non piace che dopo il venerdì ci sia il sabato" poteva voler dire un sacco di cose, in effetti.
Ma quali?
Pigiai distrattamente un tasto del telecomando.
Avevo passato tutto il pomeriggio in "stato catatonico di fronte alla tv", a detta di Tsuyoshi e fidanzata, e davvero non lo potevo negare.
Ma se nelle loro teste vorticava l'idea che il motivo fosse qualsiasi genere di preoccupazione per la prolungata assenza di Akito Hayama (che non si era fatto vedere nemmeno per pranzo), la realtà era ben più umiliante: avevo cercato in tutti i modi di capire a cosa alludessero con la loro ultima frecciatina, sinceramente curiosa come mio solito di sapere il motivo del malumore del mio ex ragazzo nonché attuale croce personale. Fosse anche solo per riderci un po' su.
Ma non avevo ottenuto grandi risultati, purtroppo.
Inarcai un sopracciglio, avvertivo un fastidio dentro alla testa - sorrisi, sapevo di cosa si trattava. (oh, mi capitava spesso. Probabilmente al resto del mondo non prude il cervello quando quest‘ultimo esala un‘idea, ma a me sì.)
Lampadina nel cervello a ore dodici, l'afferrai mentalmente: oh, che idiota.
Ad Akito sarebbe piaciuto avere la proprietà della nostra stanza anche al sabato. Come avevo fatto a non arrivarci prima?
Quasi sorrisi della banalità della risposta, e dire che ci avevo passato sopra tutto quel tempo.
In ogni caso, se lo poteva scordare.
Avevamo pattuito una specie di accordo - ideato peraltro da lui stesso - e l'avrebbe rispettato, volente o nolente.
Venerdì di Akito, sabato di Sana, domenica cena tutti insieme. Erano i pilastri dell'appartamento numero undici, le tre leggi.
Spensi il televisore, e accaddero due cose contemporaneamente: il display del mio cellulare cominciò a illuminarsi ad intermittenza e qualcuno girò la chiave nella serratura.
Dato che la componente fidanzata dei miei coinquilini era uscita da poco meno di un'ora, dubitavo si trattasse di loro, così afferrai il cellulare e, dopo aver accettato la chiamata, lo portai accanto all'orecchio.
Mi nascosi sul piccolo terrazzo oltre la portafinestra della cucina, magari l'altro coinquilino non mi avrebbe notata subito.
Un po' ci speravo; strani malumori o no, non mi era ancora passata la nausea da troppi brutti pensieri della sera prima. E non volevo alimentarla vedendolo.
« Sì? » risposi, appuntando mentalmente che il vizio di guardare chi mi stava chiamando non era dannoso alla salute, anzi tutt'altro.
« Sana! Come stai? » i muscoli facciali si sciolsero in un sorriso, quell'entusiasmo l'avrei riconosciuto ovunque.
« Nao! Accidenti quanto tempo! »
E vidi spuntare una testa alquanto bionda e spettinata dall'angolo della cucina.
Argh, il tempismo di Hayama.
Mimò un "oh, salutamelo" che non capii in che percentuale fosse da ritenersi puramente sarcastico, data la persona e dato il suo umore.
Dimenticavo: in primis, Naozumi era diventato un attore di fama mondiale, si era guadagnato la stima di grandi registi e la sua carriera era decisamente decollata, motivo per il quale soggiornava spesso, terribilmente spesso all'estero.
Non avevamo mai smesso di tenerci in contatto ma, ovviamente, visti tutti i suoi impegni rintracciarlo era assolutamente complicato.
In secundis ma non troppo, il rapporto tra il mio migliore amico e il mio ex ragazzo era senz'altro teso a causa di un diverbio risalente a - mese più mese in meno - un anno prima, in coincidenza con la mia rottura con il secondo.
Kamura era più o meno del partito di Fuka, non aveva mai perdonato ad Akito di “avermi lasciata”, come diceva lui, per quanto in un anno gli avessi ripetuto circa una sessantina di volte che la decisione era stata presa in due, manina sul cuore e manina sulla coscienza.
« Puoi dirlo! Come vanno le cose? »
E così iniziai a raccontare, senza curarmi che quell’altro sentisse i taglienti commenti nei suoi confronti.
Scoprii che Nao sarebbe tornato in Giappone di lì a una decina di giorni per una campagna benefica e, spinta dalla voglia di rivederlo, gli avevo rifilato il nuovo indirizzo così da poterci incontrare in tutta tranquillità.
Chiusi la chiamata con un sorrisino ancora stampato in faccia.
« Quindi ecco chi ti viene a trovare stasera » spuntò dal nulla Hayama, intento a rimirare il sushi che, con tutta probabilità, sarebbe stato la sua cena di quella sera come delle precedenti quattro.
Capii in quell’istante che era totalmente privo di doti recitative: il tono che voleva sembrare disinteressato e un po’ ironico stonava con l’espressione del viso, un chiaro specchio del suo livello di arrabbiatura.
Sempre il solito musone.
Se non altro non aveva origliato la telefonata, dato che “stasera” e “tra una decina di giorni” non erano concetti così simili, né in quel contesto né in nessun altro.
« Non ti riguarda » asserii tranquilla, mentre chiudevo la porta a vetri dietro di me.
« Non che mi interessi, chiedevo e basta. » ma aveva tutta l’aria di chi non molla la presa fino a quando non ottiene una risposta.
Il mio programma per la serata, a dir la verità, era decisamente deprimente: nient’altro che un DVD e una coperta calda.
« Allora? » riprovò, appoggiando entrambe le mani sul tavolo.
Così sembrava molto poliziesco, un interrogatorio.
Alzai gli occhi al cielo.
« No » ammisi, ma non appena le pieghe di una probabile preoccupazione sparirono dalla sua fronte, mi affrettai ad aggiungere « non lui »
Le pieghe ricomparvero, e mi infastidii. Era forse il momento di fare l’apprensivo?
« Ah » lasciò cadere il discorso allo stesso modo in cui io lasciai vagare lo sguardo sul suo abbigliamento: per niente convinto.
La tuta da ginnastica aveva lasciato il posto ad un paio di jeans ed una camicia nera. Ridussi gli occhi a due fessure. Akito in camicia significava serata pseudo-importante.
« Tu invece stasera che fai? » mi lasciai vincere dalla curiosità, le parole uscirono di bocca senza poterle fermare.
« Non credo ti riguardi » rigirò la frittata, lui in queste cose era proprio un genio, bisognava ammetterlo.
Mimai delle virgolette con le dita. « “Non che mi interessi, chiedevo e basta” » ripetei le parole che mi ero sentita dire poco prima.
Spostò lo sguardo sul frigorifero, e allungò una mano per aprirlo.
Strinsi un pugno fino a sbiancarmi completamente le nocche.
Al diavolo!
« Allora? » continuai.
Si voltò, leggermente scocciato - come sempre quando non era arrabbiato.
« Al cinema » concluse, quasi in un sussurro.
Sollevai entrambe le sopracciglia. Akito detestava il cinema.
« Con Keiko? » buttai lì, sicura che comunque non l’avrei mai più rivista, come tutte le altre. Avrebbe ovviamente risposto di no.
Sembrò pensarci un po’ su.
Mi innervosii.
« Può darsi. »

« Hayama, tu odi il cinema » commentai freddamente « e Keiko non parla, starnazza. Inoltre non ha un minimo di decenza, o sbaglio? » marcai bene le parole con cui l’aveva descritta all’epoca.



***


« Sarò sincera: ti deve star lontana di almeno dieci metri. Non mezzo centimetro in meno » mi abbandonai sull’erba fresca del giardino del liceo Jimbo, al nostro solito posto, sbuffando scontenta.
« Come siamo gelosi, oggi » commentò compiaciuto lui, al mio fianco.
Mi voltai di scatto.
« Hayama? Io. Non. Sono. Gelosa. » sillabai concentratissima sulle sue reazioni.
Riuscii quasi a farlo ridere.
« Ovvio che no » ammise ironico « sei tutto tranne gelosa. E per essere precisi sei anche una ragazza gentile, femminile, silenziosa, ordinata e puntuale » sorrise sornione, mentre si stendeva sull’erba, le mani dietro la nuca.
Contai mentalmente fino a dieci per evitare una risposta a tono che evidenziasse quanto
non fossi una ragazza gentile.
Arrivata al nove mi convinsi di prolungare fino al
ventinove, non si poteva mai sapere.
Mi interruppe sul tredici.
« E non è un segreto che sei tutto fuorché gentile, femminile, silenziosa, ordinata e puntuale » mi scoccò un’occhiata dorata piuttosto eloquente
« ..sei gelosa. Ammettilo. »
Corrugai la fronte.
« Stai scherzando spero »
Scosse la testa in senso di diniego, poi osservò verso il cortile gremito di studenti.
Seguii il suo sguardo, e non riuscii a non sbottare vedendola fare avanti e indietro per il viale con lo sguardo fisso su di noi - su di lui.
« Ma guarda questa! E‘ insopportabile! » alzai leggermente entrambe le braccia, andando poi a stendermi accanto a lui.
Voltò il viso verso di me, e il cuore nel petto sembrò scoppiarmi. Akito avrebbe mai smesso di farmi quell’effetto?
« You. Are. Anything. But. Jealous. » sillabò piano divertito, e dovetti ammettere di aver del tutto cancellato la brillante risposta che volevo rifilargli: guardare le sue labbra che si incontravano per pronunciare quel “but” mi distraeva, decisamente.
Non eravamo il genere di coppia fissata con le date, non avremmo materialmente potuto trovare il giorno in cui era nato tutto - troppo tempo addietro - ma di certo erano passati anni interi.
Anni, e ancora mi mancava il respiro al sentirlo vicino a me, allo stringerli una mano, o anche solo a restare lì a guardarlo.
Spostai lo sguardo verso qualcosa che non fosse lui - impresa difficile, lui era ovunque per me - per riprendere lucidità.
(*) « Sei in Giappone, parla in giapponese » continuai piccata, facendogli notare per l’ennesima volta il vizio preso durante il suo troppo prolungato soggiorno americano.
« E tu ammetti di essere gelosa? » mi costrinse a tornare a guardarlo girandomi il viso verso di lui; scatenando su di me l’irresistibile forza dei suoi occhi. Che era veramente di proporzioni colossali, considerando il fatto che quando mi abbacinava a quel modo avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa e alla fine non sarei mai riuscita a dirgli di no.
« Oh » scansai la sua mano da sotto il mio mento, fissando il cielo « e va bene, mi
infastidisce » badai a non usare nessun verbo simile ad “ingelosire” « vedere una certa persona fare le vasche lungo il cortile per guardarti. E per farsi guardare » incrociai le braccia sotto al seno.
« Non la stavo guardando » soggiunse tranquillo, ma ormai avevo imparato a trovare quella nota di emozione nella sua voce quando ammettevo nei più svariati modi quanto tenessi a lui. E anche stavolta c’era.
Cosa dia..?
Facendo leva sulle braccia mi rimisi a sedere, squadrandolo dall’alto.
« Sì che l‘hai guardata, Akito! » quasi urlai, offesa.
Mi mentiva anche?
Soffocò una risata e mi imitò, sedendosi accanto a me.
« Guardala » la indicò discretamente, e lo assecondai.
Si era fermata a circa otto metri da noi, lì impalata ed intenta a ridere con un paio di altre ragazze. Ogni sette secondi lanciava un’occhiatina furtiva e piuttosto interessata verso dove stavamo noi. E mi mandava in bestia.
“Impossibile, ahahah!” disse in quel momento alle altre, e doveva aver proprio urlato, perché riuscissi a sentirla tanto bene da quella distanza.
Possibilissimo, invece. Sciò, vattene.
Guardai nuovamente Akito. « Sei anche riuscita ad ascoltarla, bene. Hai notato che non parla, ma starnazza? » commentò, totalmente di buon’umore.
Boccheggiai. Non era da lui lasciarsi andare a commenti poco carini su altre ragazze, in anni ed anni non l’aveva mai fatto.
« E poi » proseguì « non mi sembra tanto affidabile. E‘ svestita.. E siamo a scuola. Se dovessi invitarla ad uscire, come si concerebbe? »
Si strinse nelle spalle, minimizzando, ed io non riuscii a non sorridere: con due frasi Akito riusciva a confortarmi, divertirmi, a far sì che lo amassi ancor di più - quasi all’inverosimile - se fosse mai stato possibile amare
di più.
Sollevai un sopracciglio, orgogliosa a tal punto da non volere che si accorgesse di come le sue parole erano state in grado di sciogliermi «     In ogni caso non credo avrai possibilità di vedere come si vestirebbe per uscire con te, sai » ammiccai « io lo impedirò in qualunque modo. Non avrai scampo. » gli puntai l’indice contro, seria al mille per mille.
« Che minaccia » finse di rabbrividire « Beh, si da il caso che comunque l‘idea che tu me lo impedisca non mi dispiaccia affatto. Non dovrai lasciarmi neanche un secondo di tregua però, temo »
Finse anche di pensarci su, assorto.
Quante volte l’avevo sentito ripetere “non mi dispiace affatto”? Quell’espressione era un’abitudine che si trascinava dietro sin dalle elementari. E, dovevo proprio ammetterlo.. Per dirlo alla Hayama, non dispiaceva neanche a me.
Mi abbandonai ad una sonora risata, spingendolo indietro con un braccio.
« Vuoi anche prendermi a botte adesso, eh? » si indicò la spalla che gli avevo appena urtato.
Scossi la testa. « No, Akito. Ho detto
dieci metri, e ormai siamo a malapena a otto » allusi alla ragazzina in cortile « ti stavo spostando »
« Oh. Agli ordini » alzò le mani in segno di resa.
Mi aiutò ad alzarmi e, tra le risa, ci sedemmo un paio di metri più in là.

 


***



« Sana, col tempo si cambia idea. Le persone stesse cambiano » mi riportò bruscamente alla realtà che non era il prato verde della Jimbo, né tantomeno la certezza che non sarebbe mai finita.
Guardai fuori dal vetro. « Lo so, genio » lo provocai.
Sembrava proprio che la conversazione fosse terminata; aprì il frigorifero e scelse una bottiglia di Pepsi, ne riempì un bicchiere.
« Kurata, dimmi con chi esci » alzò gli occhi su di me dopo un solo sorso, trafiggendomi nel vero senso della parola.
E notai mio malgrado che quegli occhi non erano cambiati mai.
Cercai una risposta adatta ma il mio cervello non connetteva più, come un modem rotto.
« Senti..preparati la cena. Io vado a cambiarmi » buttai lì scappando letteralmente dalla cucina.
Cosa, come.. perché non si faceva i fatti suoi, una buona volta?
Che rabbia.
Aprii la porta della nostra stanza solo per maledirmi mentalmente e ritornare in cucina.
Era rimasto nella stessa posizione, quasi sapesse che sarei tornata indietro.
Mi accolse sollevando entrambe le sopracciglia.
« E comunque, non ti riguarda »
Suonai ripetitiva.
« Sana, sei ripetitiva »
Ecco, appunto.
« E’ così difficile da capire la frase sono-affaracci-miei? »
Nascose un sorriso, come ai vecchi tempi.
« Eddai, dimmi con chi esci. » continuò imperterrito, esattamente come faceva anni addietro, quando mi faceva collassare il cuore con le domande gelose senza logica.
Ma era un altro tempo, quello, altri noi. Così sbuffai in preda alla tensione, e non riuscii a rifilargli altro se non un:
« Hayama, chi è il ripetitivo poi? »

 

 

 

 

 

_______________________________________________________________


(*) “sei in Giappone, parla giapponese” ripresa dall’ultimo volume di Kodocha.




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Capitolo 7
*** 1.32: Breathless - second part ***


1.32: Breathless: to have difficulty in breathing properly. PART TWO.


Schiacciai il pulsante verde, su cui troneggiava la parola “play”, nella tranquillità della mia stanza.
Una persona colta li avrebbe chiamati “interessi diversi ed inconciliabili”, io avevo solo perso la pazienza: volevo vedere quel maledetto film in santa pace, mentre Aya e Tsuyoshi erano di tutt’altro avviso.
Loro volevano parlare.
Così avevo spostato di peso - sapevo essere molto poco femminile, su questo non potevo dare tutti i torti ad Hayama - la televisione - che non pesava poi molto, a dir la verità - e se loro volevano parlare, il divano ed il salotto intero erano a completa disposizione.
In fondo, per parlare non era necessaria la presenza di tre persone: due erano più che sufficienti.
E talvolta si poteva parlare persino da soli..
Oltretutto, non vedevo perché avessero dovuto rinunciare alla loro uscita per tenere compagnia a me - insomma, avevo quasi diciannove anni, stare in casa da sola non era poi una tragedia.
Se non altro avevano giurato di tenere all’oscuro Hayama di questo particolare; Akito perciò mi credeva intenta a fare chissà che con chissà chi mentre lui stesso faceva chissà che con un soggetto ben definito.
Allegro.
Quindi gli storici fidanzatini avrebbero passato la serata a parlare tra di loro dei miei presunti problemi con Hayama, a scervellarsi per risolverli - quando né a me né tantomeno a lui sembravano interessare - ed io mi sarei gustata la visione di “Make me believe”.
Spensi la luce e mi accoccolai sotto alle coperte; i titoli iniziali cominciarono a scorrere velocemente.

“La realtà, avevo sempre tentato di nasconderlo, era che non avevo la più pallida idea di cosa stavo per fare. Io ero certa di fare la cosa giusta. E quella maledetta cosa giusta, quell’istante di debolezza, di dubbio, è stato l’inizio della fine”.

La voce fuori campo terminò la sue breve introduzione, e lo schermo passò dal nero al grigio scuro.
E il grigio scuro si trasformò in un parco. Un parco con una panchina.
Sulla panchina sedeva un ragazzo, che aveva tutta l’aria di aspettare qualcuno, teso.

 

« Scusa il ritardo! »


Una ragazza lo raggiunse, trafelata - la voce era la stessa che aveva pronunciato le parole fuori campo - sedendosi accanto a lui.
Imbarazzati i due si spostarono l’uno vero l’altro, a chiedere con gli occhi quel che, ne ero certa, erano soliti scambiarsi.
Aggrottarono entrambi le sopracciglia, tesi; si scambiarono un veloce bacio sulle labbra e ritornarono ai loro posti, dritti come fusi.
Quella scena portava con sé la fastidiosa sensazione di ricordo già vissuto sulla mia stessa pelle.


« Quindi.. Dobbiamo parlare, dicevi »


Il ragazzo espirò parole e fiato, lei annuì.
Ebbi come l’impressione che entrambi già sapessero cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
Tutto di loro sembrava mostrarlo: la postura, le mani tremanti, gli occhi bassi.
E aumentava la spiacevole sensazione, e aumentava l’interesse per quel film che sembrava raccontare tutto al contrario, dalla fine e non dal principio.


« Sì. Michael, io.. Io non lo so più»
« Non- Non sai cosa? »
« Non so cosa voglio. Non so se è giusto. Non so se è quello che voglio.»
« Ci siamo, eh? »


Mi ritrovai io stessa con le mani tremanti, nervosa, a guardare - sentire, leggere - quell’addio che non mi apparteneva.
O forse sì?
La frase di lui, la frase di lui.
Come avevo potuto dimenticare?
“Ci siamo, eh?” le aveva dette anche Hayama, quelle parole.
Una delle tante cose che credevo di aver rimosso - come del resto l’intera giornata della fine - e che invece era rimaste lì, latenti.
Un brandello di conversazione.
Hayama che sorrideva quasi.
Il fatidico momento.
Al contrario.


« Non mi piace, detto così »
« Come vorresti dirlo? »


Lui se l’aspettava.
Lei, le sopracciglia sollevate, si sciolse un po’ alla vista di quell‘atteggiamento preparato, rassicurata.
Se credeva che così sarebbe stato più facile, era totalmente in errore.
Garantivo io per lei.


« Il problema è che io non so se voglio davvero dirlo.
Io non so più nulla, Michael.. Io..»
« Ehi » le prese il viso con una mano, obbligandola a guardarlo « non succede niente. Se siamo qui, e avevi qualcosa da dirmi, è giusto che tu me la dica. »

 

Gli occhi arrossati di lei tradivano la paura, un coraggio che non aveva.
Sorrisi, un altro piccolo ricordo che tornava al suo posto, il fatidico momento, al contrario.
La scena che avevo vissuto in prima persona vedeva due persone che sorridevano lievemente.
Era forse una decisione presa di comune accordo? O l’ennesimo malinteso?
Fuka, quando venne a sapere che io ed Akito ci eravamo lasciati - non avevo ancora trovato il coraggio di dirglielo, come la protagonista del film - disse che eravamo solo degli stupidi orgogliosi pieni di paura.
Poi traviò il senso delle mie inevitabili lacrime e comprese - sbagliando - che c’erano un aguzzino ed una vittima. Un omicida ed una ferita quasi mortale all’altezza del cuore.



« Io voglio tempo. Io voglio tempo per riflettere. »


Lo schermo tornò ad essere nero, ma per causa mia.
Osservai l’indice che quasi meccanicamente aveva spento il televisore dal bottone rosso.
In fondo era solo uno stupido film.
Il trailer garantiva un film a lieto fine - a lieto fine, diamine! - non volevo di certo sorbirmi un addio.
E il paradosso di una storia che iniziava dalla fine per far trionfare l’amore, tra l’altro.
Dove altro potevo trovarlo, se non in un film?
Osservai con dispiacere lo schermo del cellulare che segnava solo le dieci, e sbuffando mi stesi sul letto, la luce ancora accesa, nel petto qualcosa che batteva forte contro le costole minacciando di uscire.


***

Scivolai velocemente nel dormiveglia, a pancia in giù, abbracciata al cuscino come facevo sempre.
In quel (maledetto) dormiveglia mi passò davanti il momento - al contrario, nuovamente, visto da un’inquadratura esterna, come fosse stato quel film che iniziava dalla fine, esterna e reale come non avrei mai potuto viverla - che nella veglia non avevo mai il coraggio di ricordare o la forza di rimuovere e superare, e liquidavo sempre con “uno dei nostri ultimi soffocanti pomeriggi insieme”. (*)
E fu proprio in quell’istante (maledetto), che riassaporai sulla pelle ogni singolo istante, che mi accorsi di ricordare perfettamente data, giorno, ora, tempo atmosferico, temperatura del cuore e parole.
E, inevitabilmente, iniziai a tremare.
Ma era qualcosa di normale, vero?
Quando due stanno insieme così tanto.. O meglio, quando la ragazza S. ed il ragazzo A. ripensano a quando le ore - i giorni, le settimane, i mesi, gli anni, i respiri - erano soltanto loro, è normale tremare.
Sì. (?)


***

Quattro aprile, pomeriggio.
Temperatura esterna: circa quindici gradi.
Temperatura interna: ebollizione causa Hayama. Tutto nella norma, insomma.


Pensare alla mia storia con Akito, avevo sempre creduto, portava inevitabilmente ad un gazebo.
Un gazebo a cui forse,
forse, potevamo attribuire l’inizio - una serata di febbre e una madre per due minuti - o meglio l’ammissione di un sentimento contrastante, sconosciuto, che per la maggior parte del tempo avevamo preferito ignorare. (**)
Un sentimento di certo ingombrante, per due bambini, a volte anche pericoloso - pericoloso forse come un oceano e un tarlo che consuma i sorrisi? - ma
costante. (***)
Non c’era stato un momento, da quella serata al gazebo, in cui quel sentimento ancora senza nome avesse abbandonato le cellule che componevano il corpo - e i sospiri che componevano l’anima - di quei due bambini tanto simili quanto diversi, forti ma vulnerabili che eravamo sempre stati io e lui.
E non c’era proprio modo per liberarmi da quella convinzione. Non c’era mai stato, neppure quel giorno.
Ma non era quello, il dubbio.
« Ciao » mi salutò dopo che salii gli scalini che portavano al gazebo rialzato.
« Ciao » rimasi impalata, la borsetta stretta tra le mani, sorpresa di trovarlo lì.
Eravamo arrivati al punto in cui non sprecavamo nemmeno più telefonate per dirci quando e dove incontrarci, ci incontravamo lì, ogni giorno. E basta.
Lui si alzò, venendomi incontro, sfiorandomi una mano ed appoggiando le sue labbra sulle mie per un istante soltanto.
Ma un istante era sufficiente, per far crollare la borsetta a terra e troncarmi il respiro.
Sbuffai.
« Mi chiedo quando la smetterai di farmi
questo »
« Spero non tanto presto » raccolse la borsa al posto mio, un’ombra divertita dentro le iridi dorate.
« Dimmi, che si fa oggi? »
Accolse l’invito di un intero pomeriggio insieme alzando gli occhi al cielo.
Sapeva che proporgli di scegliere significava bisticciare, come ogni volta dal nostro primo appuntamento - un cimitero. Certo
per lui era una cosa importante, ma alle volte ancora ridevo. (****)
« Diciamo che per evitare problemi decidi tu, eh? »
« Vorresti forse dire che sono una ragazza problematica e troppo esigente? »
Si strinse nelle spalle, leggermente esasperato. « Non potrei mai »

E in effetti, era stato un pomeriggio come gli altri. Un pomeriggio dei nostri, niente di tanto particolare eppure così speciale.
Passato tra occhiate esasperate - le sue - all’aggiungersi di borsette su borsette, accumulate durante la passeggiata per il centro e l’inevitabile shopping.

« Dici che mi dona? » ci scherzai su, girandomi come una trottola per mostrare un vestito che per la prima volta era stato
lui a volermi comprare.
Si strinse nelle spalle. « Non mi dispiace, ma meglio senza »
Mi fermai, trattenendo a stento una risata.
Inarcai un sopracciglio. « Hayama, ti offenderesti se ti dicessi che non sei proprio in grado di fare battute alla Gomi? »
Gomi, giusto per aggiornare, era diventato il libertino del gruppo. Ovviamente sempre insieme alla sua Hisae, ma era
esattamente il tipo di ragazzo in grado di creare l’imbarazzo con qualche frase fin troppo maliziosa. Amichevole certo, ma maliziosa.
Incrociò le braccia al petto, guardandomi di sbieco. « Le può fare solo Gomi, scusa? »
Scossi la testa. « No, dico solo che tu non ne sei capace »
Mi afferrò per gli avambracci, costringendomi ad avvicinarmi a lui.
« Tu, Sana, dovresti staccarti da questi preconcetti » sembrava anche serio, ma con me ormai non prendeva più.
Era soltanto
terribilmente di buonumore, niente più e niente meno.
« Certo, certo. Quindi » mi allontanai, scivolando controvoglia dalla sua presa « mi dona »
Indicai il vestito.
Si strinse di nuovo nelle spalle.
« Ecco, questa è una reazione
da te »
« Significa forse che non parlo? »
« Solo un po’ » risi.


« Tu ci hai mai pensato? » la sera stessa, ancora abbracciati sul divano.
Io appoggiata sul suo petto, lui a giocare con un ciuffo dei miei capelli.
Mi ero sorpresa io stessa della domanda che gli avevo posto - ancor di più del pensiero che l’aveva preceduta. Non aveva filo logico, qualcosa di materiale a cui mi fossi ispirata, aggrappata, il quesito era nato così.
« A cosa, di preciso? » si rigirò i miei capelli tra le dita.
« A come sarebbe.. Se un giorno non stessimo più insieme »
Silenzio dall’altra parte.
La ciocca immobile di capelli tra le sue dita.
« No. Tu te lo sei chiesta? » un sussurro.
« Non seriamente. Ma pensa se fosse tutto diverso. Se noi non fossimo più qui così » accoccolati uno all’altra, volevo aggiungere, ma non ero così tanto romantica « se.. Ci fosse qualcun altro per me, qualcun’altra destinata a te » lasciai la frase in sospeso.
« Insomma.. Come farei a stare con uno che non fossi tu, per intenderci »
Il mio ciuffo di capelli riprese ad attorcigliarsi tra le sue dita.
« Non potresti farlo, andiamo »
Mi sollevai per guardarlo negli occhi. « Stai diventando uno spaccone, lo sai? »
Non rispose, guardando il soffitto anziché me.
« Ma non potrei nemmeno io » disse con la timidezza che, quando si trattava di ammettere e parlare, non aveva vinto mai.
Picchiai piano un pugno contro il suo petto. « Direi bene! »
Mi guardò, facendomi morire l’ironia in gola, assieme al respiro.
« Certo che noi smontiamo le frasi romantiche con una facilità estrema. » commentò scuotendo la testa e concentrandosi sui miei capelli con cui aveva ricominciato a giocare già da un po’.
Mi limitai ad annuire prima di rifugiarmi nel suo abbraccio.
« E Sana, sei manesca. Passi le giornate a picchiarmi. »
« Non dirmi che ti ho fatto male, Karateka da quattro soldi! » lo schernii, chiudendo gli occhi.
« Come passare dal sentimentalismo alle offese in » alzò il braccio per guardare l’orologio « otto secondi netti »

 

***


Dodici aprile, pomeriggio.
Temperatura esterna: sedici gradi - grado più, grado meno.
Temperatura interna: da una massima di trenta gradi (il cervello, che scoppiava) ad una minima di meno dieci (il cuore, che congelava).


Quegli otto giorni - numero in comune ai secondi necessari per passare dalle dichiarazioni ufficiali alle scherzose offese - mi avevano
frastornata.
Era come se mi fossi svegliata da un coma, avessi tolto tappi dalle orecchie e come se i miei sensi avessero cominciato a percepire il doppio.
Tutto insieme.
Possibile che solo otto giorni - partendo da una conversazione ipotetica e del tutto campata per aria - fossero in grado di stravolgere le cose
per entrambi?
Come la prima boccata d’aria dopo un lungo periodo di apnea.
Bruciava.
Bruciava di gioia per aver ritrovato l’ossigeno o di mancanza di quel torpore del fondale?
Io avevo concluso che la motivazione fosse la
prima: gioia per il ritrovato ossigeno.
E probabilmente doveva pensarla così anche lui, Hayama, dato che gli era calata di nuovo addosso quella cappa che mi impediva di capire completamente cosa gli passava per la testa.

« Dimmi a cosa stai pensando » aveva cominciato lui a parlare, lasciandomi sorpresa e senza fiato.
Un po’ al contrario, visto che quella col vizio di conversare ero io.
Ci eravamo seduti l’uno di fronte all’altra, al
nostro gazebo, senza darci appuntamento né dirci “dobbiamo parlare”.
Cercai aria bruciante. « Io.. Non lo so. »
« Vediamo se siamo sulla stessa lunghezza d’onda. » iniziò a parlare, svelto, e non era da lui.
Al contrario.
Si soffermò un attimo sul mio abbigliamento - un vestito, niente di che - ma per lui fu abbastanza da fargli scuotere la testa e sorridere amaramente.
« Ti ascolto. »
« Tu.. Tu ed io, poco più di una settimana fa, avevamo fatto un discorso, chiamiamolo così. »
Annuii.
« E poi io ho cominciato a pensarci seriamente »
« .. Anche io, Hayama. »
« E » la voce gli vibrò, mentre si apprestava a dire quelle cinque parole pesanti come macigni, che potevano dire tutto e potevano dire niente « a che conclusioni sei arrivata? »
Akito che parlava ed io che non sapevo cosa rispondere?
Inspirai, e mi decisi a rendere quel momento
un po’ meno al contrario.
« Ho pensato che io
non so come potrei stare senza di te. Perché sto con te da così tanto che pensare a come sarebbe senza non mi è mai passato per la mente »
Sorridemmo entrambi dello sciocco gioco di parole.
« Ci siamo, eh? »
Non avevo capito che lui aveva già tirato le somme di quella conversazione.
Avevo tradotto quell’uscita come un “anche io la penso così, siamo d’accordo”.
E annuii.
« E cominciando a valutare “il resto” che non ti era mai passato per la mente.. »
« .. Ho perso la sicurezza » conclusi io al posto suo.
Ma era un “
abbiamo perso la sicurezza”. Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, no?
« Sana » espirò, chiudendo gli occhi « forse è meglio se ci »
Se ci cosa?
Avevamo saltato i convenevoli a piè pari, e non ero assolutamente pronta ad ascoltare quella frase.
Deglutii. « Non dirlo così, ti prego »
Che scena, dall’esterno - proprio al contrario : due idioti che si dicevano addio sorridendo sotto un gazebo che aveva fatto loro da culla per
almeno sei anni.
Tremavo, anche in quel momento.
Lui sorrise, tirato. « volevo dire che è meglio se ci pensiamo un po’ »
« Se
ci prendiamo un po’ di tempo per pensare? »
« Qualcosa del genere »
« Che poi è esattamente quello che non volevo sentire. Perché sarà un tempo infinito » lasciai sciogliere la tensione accumulata, quella stessa tensione che mi faceva tremare le mani ed il cuore, ghiacciati, che mi faceva stare dritta come un fuso e tenere gli occhi incollati alle piastrelle del pavimento.
Sollevai lo sguardo e trovai i suoi, di occhi, a fissarmi.
Il cuore perse un battito, ed i polmoni un secondo d’aria, quando compresi che dentro a quegli occhi che conoscevo meglio di me stessa qualcosa si era cristallizzato.
Spezzato.
Erano tornati ad essere gli occhi duri - duri, non cattivi - del bambino che all’inizio tanto detestavo, alle elementari.
E come potevo leggerla?
Hayama aveva preso la sua decisione.
« perché io ti conosco e tu conosci me. Non torneremo indietro. » mi affrettai ad aggiungere.
Non sarei mai stata in grado di tornare da lui, tantomeno lui da me. Non per due persone fedeli alla regola, seppur in modi apparentemente diversi, di andare sempre e
solo avanti.
Annuì.
« E quindi ci siamo, eh? » ripetei la stessa frase di poco prima - al contrario perché la dicevo io e non lui - mentre dentro me la dicevo come un mantra.
Distese le labbra, gesto che stonava con l’espressione, e quello strano cipiglio fece sorridere anche me.
Ci siamo.
« Non l’avrei mai detto »
Annuii.
Nemmeno io.
« Perciò buona fortuna » risolse solamente, dopotutto lui non amava conversare.
Sentii gli occhi pizzicarmi e solo allora mi accorsi dei lacrimoni che scendevano sulle guance. Li asciugai col dorso della mano.
« Non devi piangere » Hayama aveva qualche difficoltà, a conosolarmi,
da quando non stavamo più insieme.
Fu la mia prima considerazione.
« Intendo dire che per ogni cosa sono ancora qui »
Era forse una promessa?
Annuii, cercando un conforto che in effetti non trovavo.
« Anche io sarò sempre qui, per qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno. »
Qui, senza respiro, sotto al nostro gazebo.
Suonava come una promessa.
Che nessuno di noi due - ed era passato il tempo necessario per parlarne a posteriori, vista dall’esterno non più come un film ma come un ricordo, quella scena al contrario - avrebbe mantenuto.


 

 

 

 

___________________

(*) ripresa da 1.00 : Drunk.
(**) Beh, penso sia una scena che tutti ricordano, quando Sana finge di essere la madre di Akito.
(***) allusione alla partenza di Akito e alla malattia di Sana.
(****) Kodocha, volume nove.

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Capitolo 8
*** 1.41: Chain - first part ***


 

1.41 : Chain: metal rings connected together in a line. PART ONE

 

 

 

 

 

« Sono state quelle - esattamente - le parole? » chiuse di scatto con la mano sinistra un’anta aperta della mia parte di armadio - perché no, non bastava dover dividere l’ambiente, era necessario condividere anche l’armadio e, come se non bastasse, il bagno. Ma almeno per quello avevamo previsto dei turni piuttosto ferrati, in effetti.
Mi voltai lentamente verso di lui. « Per la milionesima volta.. Sì, Tsuyoshi. »
Parliamoci chiaro, ero irritata. Ed era una novità - no che non era una novità, ma la fonte del mio abituale malumore aveva varcato la soglia di casa per andare a correre e fatto sparire pantaloni di tuta, maglietta, capelli biondi e spettinati ed occhi di miele dalla mia vista - perché Tsuyoshi, di norma, non mi irritava.
Tsuyoshi era un ragazzo equilibrato. Serio, con la testa sulle spalle, forse un po’ impacciato ma con un’idea di futuro già plasmata nel suo cervello. Idea che senza dubbio includeva Aya, che aveva tentato invano di non farlo entrare in camera mia con diversi “calmo” risuonati a vuoto nell’aria, un matrimonio, una toga d’avvocato e un numero non ancora definito di bebè al seguito.
Non avrei dovuto prendermela con Tsuyoshi, lui era un ragazzo dolce, innamorato, ragionevole ed - ancora - equilibrato.
« Ne sei sicura? »
Ma io continuavo ad essere infastidita. Anzi, mi irritavo sempre di più.
« Ho detto di sì circa milleduecentoventiquattro volte -Argh, ma come mi sono lasciata sfuggire - ..milleduecentoventicinque » sospirai piccata. Sarcastica e piccata.
E dire che il mio sarcasmo, quello pungente, lo riservavo alla - come l’avevo chiamato? - fonte del mio abituale malumore. Che aveva varcato la soglia insieme ai pantaloni della tuta, i capelli biondi spettinati eccetera.
E su di lui riversavo anche la mia irritazione. Su di lui, non su Tsuyoshi.
Il dolce, innamorato, ragionevole ed equilibrato Tsuyoshi.
« Io non ti credo »
Riuscii quasi a sentire gli occhi schizzarmi fuori dalle orbite, ed ero tentata di poggiarmi una mano sul viso per provare l’ebbrezza di sentire i bulbi oculari vuoti - idea che mi aveva sempre affascinata; forse mi sarei dovuta iscrivere a Medicina, a ben pensarci - ma non mi parve proprio il caso; mi limitai ad una breve richiesta di spiegazioni.
« Perché » spiegò « sembrava furioso. Ed Hayama ha i suoi motivi per essere furioso »
Di tutta la questione potevamo ricavare una regola generale piuttosto logica: all’interno della stessa specie - se nella suddetta specie vige la parità dei sessi - le femmine sviluppano un senso di protezione verso le loro simili. Qualcosa che nel gergo comune si può tradurre in svariati modi: tenerezza, affetto.
Ma, e c’è un ma come in ogni caso nella vita, anche i maschi.
Il che è tutto dire, considerata l’idea dell’uomo forte ed autosufficiente.
Forse è un meccanismo di autodifesa del cromosoma Y. Forse un tentativo di conservazione del cromosoma stesso. Forse un richiamo - Cromosoma Y Hayama chiama Cromosoma Y Tsuyoshi, mayday, mayday, intervenire prego - sconosciuto alle povere detentrici di quel paio di cromosomi X che vengono nominati così poche volte rispetto a quello-che-determina-il-sesso-del-nascituro.
E nella fattispecie , ero irritata. Per colpa di Tsuyoshi - andiamo! Anche per colpa di Hayama (dopotutto, lui era la causa di tutto, persino della mia notte popolata di ricordi) - che non era affatto la persona dolce, sensibile, premurosa, comprensiva, innamorata, ragionevole e dannatamente equilibrata.
Perché nella specie umana anche gli uomini si difendono - ed ecco il motivo per cui aveva perso in quell’esatto istante tutto il malloppo di complimenti che ero solita donargli - perché Tsuyoshi difendeva Hayama.
Mi appoggiai stancamente all’altra anta dell’armadio, che ormai mi ero rassegnata a chiudere.
Inspirai.
Era Tsuyoshi, non meritava di essere trattato male.
Convinciti, Sana.
« Tsuyoshi, davvero. Non puoi cercare altri indizi perché davvero, davvero non ce ne sono »
« Quindi tu vorresti dirmi che Akito, dopo che ti sei vestita e vi siete scambiati un “buon divertimento” zeppo di sarcasmo reciproco, è uscito. Stanotte non l’hai sentito rientrare perché stavi già dormendo, e stamane quando si è alzato per la maratona ti dovevi ancora svegliare. Per ovvi motivi non vi siete rivolti la parola, e lui era furioso così, tanto per provare qualcosa di nuovo, a caso »
Ero seriamente tentata di rifilargli un bel “sono innocente, Vostro Onore!”, ma mi obbligai a restare dove mi trovavo.
Non volevo comportarmi da maleducata con lui. Non se lo meritava.
Tsuyoshi era una persona equilibrata sempre.
A parte in tre casi. Se veniva infranta - volutamente o meno - una delle tre irrinunciabili regole, beh, i problemi che ne conseguivano erano piuttosto evidenti.
“Non svegliar can che dorme”, dicono. Non che Tsu dormisse, insomma non molto più del resto della popolazione maschile mondiale, ma l’infrazione di una di quelle regole lo faceva esattamente svegliare.
Primo. Non offendere Aya. In nessun modo, in nessun luogo e per nessun motivo. Pena un qualsiasi componente della mobilia scagliato contro - ed era il genere di fardello che si trascinava dietro dalle elementari, dal momento stesso in cui aveva confessato di avere una cotta per la nostra piccola e timida compagna di classe. Ma allora la sua corporatura di bambino gli permetteva di alzare un banco, al massimo, mentre ora - vuoi rabbia o vuoi maggior prestanza fisica - forse sarebbe addirittura arrivato a sollevare il mio - nostro - armadio.
Perché Aya era il suo tutto e mai nessuno avrebbe potuto ferirla.
« Se n‘è accorta anche Aya, che era furente. »
Ecco.
Il secondo caso riguardava la famiglia. E qui si riconosceva la grandezza d’animo del mio amico Tsuyoshi.
« Se ne sarebbe accorta persino mia sorella. Insomma, il malumore era lampante. »
La terza cosa che nessuno doveva permettersi di sfiorare, la medesima cosa che gli faceva perdere così tanto le staffe, che lo faceva parlare a ruota libera senza inciampare in imbarazzi e parole strascicate, la stessa fottutissima cosa che gli sortiva gli stessi effetti dei miei beneamati viaggi in tram - sinonimi sempre nuovi e paroloni difficili, o forse chissà lui aveva realmente un vocabolario mentale piuttosto esteso - era la sua amicizia con Akito.
E, quindi, il mayday lanciato da un cromosoma Y all’altro.
« Conosco Hayama come le mie tasche. Devi aver detto - o fatto - qualcosa di sbagliato, Sana »
Che, per inciso, era ciò che in quei quarantasette secondi e mezzo mi stava irritando a morte.
Provai a spiegargli anche la nostra precedente “conversazione”, e dovette ammettere che in effetti, dal mio racconto, non risultava nulla di così particolarmente noioso, cattivo o volgare da urtare i nervi del povero Hayama.
Che già di loro erano, tra le altre cose, piuttosto instabili.
« A meno che tu non abbia omesso qualche particolare »
Bene.
La fiducia sta alla base di tutto.


***

Posizionai i bicchieri sulla tavola ormai preparata.
Tsuyoshi, seduto ad un paio di metri da me, spostava lo sguardo dall’orologio a muro piazzato al centro della parete all’ingresso ogni dodici secondi, personalmente contati. Maniacale, no?
Aya, invece, si dava da fare ai fornelli. Ogni tanto si voltava verso il suo ragazzo e scuoteva la testa.
Osservai l’orologio che Tsu rischiava di consumare a forza di occhiate: segnava le diciannove e cinquantotto.
Akito aveva due minuti per arrivare in tempo alla cena del’appartamento numero undici.
E se non fosse arrivato in fretta, probabilmente l’altro uomo di casa sarebbe andato a prenderlo, tanto determinato era il suo sguardo.
Cinquantanove.
Alzai gli occhi al soffitto.
Per quanto non potessi saperlo, dato che stavo dormendo sia quando era rincasato che quando era uscito, non avevo dubbi sul fatto che Hayama non fosse di buonumore.
Non perché l’avesse ipotizzato Tsuyoshi, quanto per il fatto che, quel giorno, la sua maratona si era protratta per - mi dedicai ad un piccolo calcolo matematico - ..quasi dieci ore.
Mi strinsi nelle spalle; improbabile che avesse passato tutte quel tempo a mettere un piede davanti all’altro. Sicuramente aveva pranzato con del sushi, ci avrei messo la mano sul fuoco. E magari il pomeriggio lo aveva trascorso con qualche amica. Magari con Keiko stessa.
La porta si spalancò.
« ‘no tornato » biascicò Akito, già nell’atto di sgusciare in camera nostra. Ma non “nostra” in quel senso.
Osservai Tsuyoshi, perfettamente calmo e composto sulla sua sedia.
« Fermo dove sei, Akito » lo freddò.
Hayama rimase interdetto, stupito leggermente dal tono lapidario che aveva usato.
Aya addentò uno spaghetto - ricetta all’italiana, per la nostra cena di quella domenica - e poi mi si avvicinò con uno strano sorrisino dipinto in volto; aprii la bocca per chiederle spiegazioni, ma lei mi precedette:
« Sana, tu lo sapevi che gli avvocati divorzisti provano prima a fare da pacieri? »
Inarcai un sopracciglio e mi accostai al suo orecchio.
« Cosa? »
Si strinse nelle spalle, prima di voltarsi nuovamente verso la pentola sul fuoco.
« Il mio Tsu è già un fantastico avvocato divorzista » la sentii sussurrare.
Delirava?
Forse avrei dovuto fingere un mal di pancia tremendo e saltare la cena, se la pasta produceva quegli effetti.


***


Mi morsi il labbro pur di non ridere: la situazione era patetica.
La tavola si era trasformata in una sorta di silenzioso campo di battaglia; alla mia sinistra Tsuyoshi era immobile nella sua richiesta di spiegazioni, di fronte a me Hayama era altrettanto immobile nella convinzione di non fornirne alcuna.
Aya, al suo fianco, mangiava silenziosamente la pasta sospetta.
Mi costrinsi ad abbassare lo sguardo, arrotolando gli spaghetti attorno alla forchetta - cosa che peraltro non mi riusciva molto bene: perché usare quegli arnesi, quando esistevano le comodissime bacchette?
Ma forse era un discorso di parte, gli italiani, di fronte al Colosseo o al Canal Grande, sicuramente maledivano i nostri insoliti - per loro - utensili da cucina.
Addentai un boccone complimentandomi con me stessa per il pensiero intercontinentale, mentre in quel momento Tsu richiamava per la quarta volta l’attenzione del mio biondo ex ragazzo.
« Akito, mi vuoi rispondere? »
Di risposta ottenne un cenno millimetrico in sua direzione.
Lo sentii innervosirsi al mio fianco.
« Aya, complimenti per la pasta. E’ ottima. » cercai di stemperare la tensione, senza riuscirci.
Calò nuovamente il silenzio.
Akito non era un idiota, nemmeno da arrabbiato. Stava accuratamente evitando di rispondere, poiché al terminare la sua frase Tsuyoshi gli avrebbe rifilato la domanda reale.
Apparentemente era un “dove sei stato tutto il giorno?” ma nascondeva un ben più spinoso “dimmi cos’hai”.
Mi allungai per afferrare la bottiglia d’acqua; nello stesso istante Akito imitò il mio stesso gesto.
Sfiorò un secondo il mio indice, prima di ritirare la mano e spostare la sua attenzione altrove.
Espirai. Da quando era rientrato altro non aveva fatto che evitarmi. Evitava persino di guardarmi.
« Akito? » provò Tsuyoshi per la quinta volta.
« Tsu, non sei mio padre. Non ti devo spiegazioni » si sentì rispondere, telegrafico.
« Va bene » annuì, sistemandosi gli occhiali sul naso « vogliamo fare i bambini? E allora comportiamoci di conseguenza. »
Seguii con lo sguardo ogni scrupoloso gesto che seguì: Tsuyoshi svitò il tappo della bottiglia d’acqua al centro del tavolo e lo mostrò a tutti noi, tenendolo tra indice e medio.
« Facciamo un gioco » annunciò « ..si chiama “reazione a catena”. »
Sollevai un sopracciglio.
« Aya, cominciamo noi, così i due bambini imparano le regole » la sua ragazza soffocò un risolino.
Appoggiai la forchetta sul bordo del piatto.
Il sospetto non era più tanto sospetto.
Osservai la pasta: di sicuro lì dentro c’era qualcosa che non andava.
Probabilmente un pensiero simile aveva fatto breccia anche nel cervello di Hayama: mi lanciò un veloce sguardo allarmato prima di continuare ad ignorarmi.
E oltretutto, perché dovevo rientrare anche io nella categoria “bambini”?
« E’ molto semplice: chi ha il tappo in mano deve dire una parola, poi lanciarlo ad un’altra persona - e quella persona deve rispondere con la prima parola che la precedente suscita. Poi lanciare di nuovo il tappo, e così via »
Hayama scosse la testa: « Non ho la benché mini- »
« Akito, non ti ho chiesto se ti va di giocare. Tu. Giocherai. » e il tono non ammetteva repliche.
« Aya.. La parola è: Akito. »
Osservai il breve volo del tappo blu, che atterrò tra le mani della mia amica.
Lei scoccò un’occhiata piuttosto eloquente. « ..malumore. »
Lanciò il disco in mia direzione.
L’afferrai maldestramente, mentre con la destra mi grattavo la testa, sovrappensiero.
Malumore, eh?
La prima cosa che potevo associarci altro non era che la mancanza di..
« rispetto » proferii.
Gli occhi di Hayama, fissi sull’oggetto che tenevo sulla sinistra, s’illuminarono.
Mio malgrado lo lanciai a lui; era l’unico a non aver ancora..giocato.
Si schiarì la gola. « Vestito. » annuì.
Il mio sguardo crollò sulla pasta, che ora m’insospettiva all’inverosimile.
Spaghetti allucinogeni, non c’erano alternative. Che diamine significava vestito?
Osservai il resto degli abitanti dell’appartamento e notai che perlomeno anche loro erano stupiti.
Arrivò il turno di Aya. « Ehm.. Shopping. »
Tsuyoshi non sembrava particolarmente felice dell’improvviso cambio di rotta preso dal gioco. Attese che Aya gli lanciasse il tappo.
« Maratona » disse secco.
Annuii; all’epoca i pomeriggi dedicati allo shopping erano stati ribattezzati “maratona” da un’insofferente Hayama ed un paziente Sasaki.
Toccò ad Akito.
Aprì la bocca, poi la richiuse.
Nascose un ghigno. « Keiko. »
Annaspai, girando il viso verso la finestra.
Ottimo. Se voleva provocarmi ci stava riuscendo, e tra le tante cose aveva dato piena ragione alle mie supposizioni: aveva passato il pomeriggio con quella.
Ebbe anche la faccia tosta di dare a me la parola.
Proprio senza vergogna.
Inspirai. « Bassezza »
Reclamò il tappo con un moto della mano destra. Restituii.
« Gelosia? » ammiccò, formulandola come fosse una domanda.
Non aspettai nemmeno di ricevere l’oggetto.
« Rispetto » ribadii, alzando di due ottave il tono di voce.
Si strinse nelle spalle, mentre accanto a lui Aya sembrava piuttosto confusa.
« ..Vestito. » ripeté, prima di spostare indietro la sedia ed andarsene.



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Capitolo 9
*** 1.42: Chain - second part ***


 

1.42: Chain: metal rings connected together in a line.

PART TWO.

 

 

« Io l’ho sempre saputo che eri ottusa » espirò, aggiungendoci probabilmente anche qualcosa di simile a “non capisco come io riesca ancora a stupirmene”.
Ma non ne ero sicura, ero troppo nervosa e non avrei saputo cosa ribattere, quindi ignorai completamente quella seconda parte.
Campo Di Battaglia, dopocena della prima domenica nell’appartamento numero undici.
Inarcai un sopracciglio, le mani piazzate sui fianchi e la bocca semiaperta dallo stupore.
Le considerazioni di Hayama sulla mia scarsa capacità di recezione - assolutamente presunta, terrei a specificare - stavano facendo saltare i miei nervi, i miei neuroni, la mia pazienza e tutto il resto.
« ..Ottusa? » ripetei incredula.
D’altronde, se chiedi al tuo ex ragazzo delucidazioni circa parole sconnesse dette-per-gioco-ma-seriamente che ti fanno altrettanto seriamente pensare al suo equilibrio mentale - presunto anche questo - è ovvio che tu sia ottusa.
Almeno secondo Akito Hayama.
« O sei distratta o sei proprio sorda, allora. »
Avrei tanto voluto una terza opzione: o io ti strozzo con le mie stesse mani, ma in genere erano pochi i miei desideri che s’avveravano, quindi ressi perfettamente alla delusione.
Inspirai profondamente, imponendomi una calma che in quel momento mi mancava nel modo più assoluto, ed invocai i Kami uno ad uno - in effetti l’operazione richiedeva un lasso di tempo indubbiamente lungo, dato che i Kami sono otto milioni (*) -  per pregare loro di donarmi il sangue freddo necessario; ero arrivata a duecentocinquantasei quando..
« Né una né l’altra, alla luce dei nuovi elementi. Stai dormendo in piedi, e devo dire che capita spesso » ironizzò, sistemandosi sul suo letto.
Cercai di modulare la voce in modo da apparire perfettamente calma, e con mio sommo stupore ci riuscii. « Prima che io ti mandi a quel paese, Hayama, vorrei sapere perché sono ottusa »
Non mi calcolò nemmeno.
Con esagerata lentezza mi avvicinai al bordo del suo letto, ben decisa a non lasciar perdere.
« Rispondimi » lo sfidai.
Le iridi, fino a quel momento nascoste dalle palpebre abbassate, mi trapassarono in un sol colpo.
Trattenni il fiato.
« Vuoi sapere perché?» era maledettamente serio.
Annuii, deglutendo.
Spostò lo sguardo, fissando probabilmente un punto indefinito - e sicuramente interessante - tra l’armadio e la porta.
Espirò di nuovo, strinse i pugni, tornò a guardare me.
« Esattamente per questo »
..
Oh.
Mi sforzai di non ridere.
« Ora è tutto assolutamente più chiaro Hayama. Molte grazie. »
« Fai anche del sarcasmo, Kurata? »
« Io il sarcasmo, tu il sottotesto » lo apostrofai, zittendolo definitivamente.
Okay, momentaneamente.
Dopo un paio di secondi le trattative pre-belliche ricominciarono:
« Sottotesto, hai detto? » si mise a sedere di scatto, colpito.
« Non negarlo »
Si alzò ad una velocità impensabile, restando ad una decina di centimetri da me. Mi afferrò le spalle con entrambe le mani e mi scosse un paio di volte.
« Nemmeno te ne accorgi del perché! Tu vedi solo gli errori degli altri, non prendi nemmeno in considerazione che gli sbagli ci siano da entrambi i lati, ecco il tuo problema! » esalò con rabbia.
Co.. Cosa?
Ma andiamo.
Staccai con stizza le sue dita dalle mie braccia, sbuffando.
Avrei faticato ad accettare quel discorso assolutamente campato in aria da un perfetto autocritico e razionale, figuriamoci da un perfetto stronzo e musone.
« Non sono qui per farmi dire da te quali siano o meno i miei presunti errori. Io ti ho fatto una domanda: cosa significa “vestito”? Stiamo litigando da mezz’ora ma ancora non hai trovato il coraggio di dirmelo » lo provocai, sicura che avrebbe reagito - dopotutto minare il suo orgoglio era un metodo infallibile, in questi casi.
Sollevò un sopracciglio, senza scansarsi di un millimetro.
Strinsi le braccia al petto, contando i secondi col piede destro. Quanto ci avrebbe impiegato? Forse dodici, tredici secondi.
« Non ho ancora avuto il coraggio, hai detto? » schiamazzi notturni dopo quattro secondi « Credo proprio che non lo troverò mai, allora. Sono un tale codardo.. »
« Non ironizzare, fammi il piacere » sorrisi amara, alludendo ad un passato sconveniente, ad un tempo in cui l’orgoglio ed il poco coraggio ci avevano fatto soffrire entrambi, anche se eravamo solo dei bambini « non vorrei dover rivangare eventi passati. »
Annuì, tornando relativamente calmo.
I pugni stretti lungo i suoi fianchi si rilassarono.
« Fai come vuoi, dico davvero. Tutto questo sottotesto e la mia mancanza di coraggio sono chiari segnali che la risposta, stavolta, te la cercherai da sola. »
Chiusi gli occhi e trattenni l’ennesimo sorriso sarcastico.
« Certo, sono una veggente, sarà un gioco da ragazzi entrare nella tua testa e scoprire cosa c’è dietro »
« Sei ottusa, non c‘è speranza. Non serve entrare nella mia testa per scoprirlo, bastava un minimo di attenzione ai dettagli in più. »
Boccheggiai. « Vorresti dire che io »
« Sì, voglio dire. Prova col gioco che ha intavolato stasera a cena Tsuyoshi, magari risolvi qualcosa. Anche se conoscendoti ne dubito. Non che mi interessi, comunque. »
Le ultime cinque parole, proferite con la calma ed il disinteresse più assolute, riuscirono a mandarmi letteralmente in bestia.
Riaprii gli occhi e presi a gesticolare convulsamente.
« Certo, certo, secondo te dovrei passare la serata a mettere in fila parole collegate tra di loro pur di riuscire a capire quello che ti passa per la testa. Non sei il centro del mio mondo, Hayama, non capisco come tu possa anche solo pensare simili sciocchezze » buttai fuori tutto il rancore accumulato, terminando la breve scenata con l’immancabile occhiata al soffitto.
Rimasi a guardarlo, mentre con una lentezza impossibile ed un’espressione illeggibile in viso componeva un qualsiasi tipo di risposta.
« Forse.. Forse devi ancora capire che quello che fai, quello che pensi, le persone che frequenti non mi riguardano. Fai come ti pare, Sana, dico sul serio. Stiamo sfiorando il ridicolo. Tutta questa storia della stanza » indicò le quattro mura « è ridicola. Fai le tue scelte, continua a fare l’egoista, dai a me la colpa dei tuoi mali. Non mi sfiora minimamente. »


***


In fondo gli avevo soltanto chiesto cosa significava “vestito”. Non mi sembrava di aver commesso nessun tipo di reato, e la sua reazione era stata oltremodo esagerata.
Aveva tirato in ballo troppe cose, alcune delle quali non rasentavano neanche lontanamente l’argomento - vedi: “le persone che frequenti”, vedi “sei ottusa”; ma volendo ci si potevano leggere miriadi di altre allusioni non espresse, buttate lì come si lancia il sasso e subito dopo si nasconde la mano dietro alla schiena.
E poi - spezzai nuovamente la barretta - non ero come lui mi aveva descritta.
Io non vedevo soltanto gli errori degli altri, insomma, avevo fatto degli sbagli colossali nell’arco della mia alquanto relativamente breve vita, ma li avevo ammessi. Tutti.
Forse un po’ in ritardo, ma era perché non me n’ero accorta prima: un discorso totalmente diverso da quello a cui aveva accennato lui.
“Il mio problema”, che aveva così gentilmente nominato, era una distrazione inconsapevole, non la cattiveria e quel certo lato di premeditazione - nell’occultare i propri errori - che lui aveva insinuato.
Presi tra pollice ed indice un pezzo di cioccolato. Al latte, il mio preferito.
Mi guardai intorno, furtiva.
Sperai ardentemente che nessuno si azzardasse a mettere piede in cucina: trovarmi rannicchiata in un angolo, con addosso una vecchia felpa ed i capelli raccolti alla bell’e meglio, a rimpinzarmi di cioccolato e rimuginare sulle urla della stanza ad est - intuivo che me lo si doveva proprio leggere in faccia - avrebbe dato conferma alla teoria - errata - di Aya e Tsu, e fin troppa soddisfazione a quell’altro.
Soffocai la rabbia in un altro rettangolino di cioccolato.
E poi, diamine, la sua reazione non era stata normale. Il momento in cui avrebbe dato di matto l’avevo previsto, ma la calma e la risolutezza della seconda parte del litigio proprio no. Ed era stato proprio il momento in cui la conversazione aveva preso quella piega strana, quella piega insolita.
Avevo sempre pensato che io ed Akito - l’avevo pensato persino quando capii che era finita, l’avevo pensato soprattutto in quell’istante - non ci saremmo mai trovati a rivangare il passato, le mancanze l’un dell’altro; eppure l’avevamo fatto esattamente un’ora prima.
Ero convinta anche del fatto che due persone come noi avessero imparato come interagire correttamente. C’eravamo riusciti per cinque anni, doveva essere qualcosa di simile al concetto di “bicicletta”, no? Una volta imparato non lo scordi più.
Avevo sbagliato anche in quel caso. Era come se quell’anno passato ci avesse cambiati in modo profondamente diseguale, creando una sproporzione tale da impedirci di instaurare persino la più banale conversazione.
Uno dei due dava per scontato qualcosa che l’altro non coglieva. Malintesi su malintesi su malintesi. Non sembravamo nemmeno più gli stessi Sana ed Akito.
Che fine avevano fatto la ragazza S. ed il ragazzo A.?
Credevo fosse una di quelle sicurezze che non avrei perso mai.
Sbagliavo anche in quello.
Ma in fondo - altro pezzo di cioccolato - non era colpa mia se Hayama era stato un codardo.
L’avevo messo alle strette, avrebbe potuto parlare.
Quindi era un suo problema, un suo fottutissimo problema.
E di certo non mi sarei scervellata per capire come era arrivata a funzionare la sua testa, era una battaglia già persa in partenza.
Non l’avrei fatto, tantomeno con quello stupido giochetto.

 

***

 

Oh. In fondo mai nessuno l’avrebbe saputo.
Potevo concedermi una debolezza simile, potevo giustificarla almeno in due modi. Era notte fonda e non riuscivo a chiudere occhio, e quella stessa mattina avrei dovuto affrontare l’ignoto: l’università. E se mi avesse conciliato il sonno? Sarebbe stato un peccato non fare un tentativo.
Abbracciai più stretta il cuscino.
Decisi che come prima parola poteva andar bene quella decisa da Tsuyoshi a cena: Akito.


Cinque lettere che mi facevano pensare a dei capelli biondi, un tono di voce diventato ormai detestabile, una montagna di ricordi che iniziavano in sesta elementare e si spingevano fino a quella stanza, riempita dei suoi respiri calmi.
Anche ad un gazebo, effettivamente. Anche al Karate.
Ma soprattutto - ed inevitabilmente - con “Akito” rivedevo le sue iridi dorate che mi scrutavano.


Quindi occhi, giusto?

Presi a morsi il labbro inferiore.
Pessima idea, quella di giocare. Mi riempiva la testa di ricordi e risultava praticamente impossibile addormentarsi.

 
Quella parola mi riportava indietro nel tempo.
Quando i suoi occhi saggiarono ogni lembo di pelle del mio corpo, e mi sentii dannatamente felice di fare l’amore con lui.
Quando io ci annegai dentro, a quegli occhi, e mi ci persi definitivamente con quel « Non devi avere paura » soffiato sul mio collo.
E capii di non averne davvero.
 

 

Mi disfai delle coperte, improvvisamente troppo pesanti. Aprii gli occhi nell’oscurità e non fu la mossa migliore.Io di norma avevo leggermente paura del buio.
E fu così anche in quel preciso istante.

 
La paura più devastante la provai quando si trasferì in America.
Da un lato avvertivo la certezza incrollabile che sarebbe tornato, dall’altro il folle terrore che quell’oceano fosse davvero troppo grande per riuscire a non perderci.
La fiducia, anche se le telefonate divenivano sempre più rade, era ancorata in quei sorrisi, che un po’ amari però lo erano.


Ero ufficialmente in iperventilazione. Mi portai una mano all’altezza del cuore, che batteva all’impazzata.
Avrei dovuto pensare a vendicarmi - accidenti, rischiavo di arrivare all’università più addormentata che sveglia, e anche se indirettamente era colpa di Hayama - sì, decisamente.
Ma posticipai, lasciandomi scappare proprio un sorriso amaro.
A che livelli saremmo arrivati?


Solo uno. Quel breve istante prima della fine, al gazebo.
Mi guardò, e si lasciò sfuggire un sorriso amaro. Non avevo mai capito il perché.
Ma in quel momento l’inquadratura sembrò allargarsi, nella mia mente, e mi rividi col vestito blu.
“Un vestito, niente di che - ma per lui fu abbastanza da fargli scuotere la testa e sorridere amaramente.” (**)

 


E tornavamo al punto di partenza: vestito.
Sbuffai sonoramente, alzandomi dal letto.
No, così non andava bene.
Cercai di controllare respiro e battiti; probabilmente la cosa migliore era una capatina al bagno.
Tesi le orecchie, se Hayama dormiva avrei potuto tranquillamente accendere la luce - più che altro al buio in quelle condizioni non avrei raggiunto la porta prima di rompermi una gamba.
Respirava tranquillamente, ed io azzardai.
Spinsi l’interruttore trattenendo il respiro, che rilasciai solo dopo aver constatato l’assenza di urla, imprecazioni, varie ed eventuali.
Scivolai velocemente lungo il corridoio e mi chiusi alle spalle la porta del bagno.
Osservai la mia immagine riflessa e stentai a riconoscermi: le guance arrossate e la fronte velata di sudore. Gli occhi lucidi, il labbro inferiore morso quasi a sangue.
Sembrava il classico risveglio dopo un incubo.
Girai la manopola e l’acqua iniziò a scorrere.
Mi rinfrescai il viso un paio di volte e mi appoggiai con entrambe le mani al bordo del lavabo.
Espirai.
In definitiva, mi ero consapevolmente minata in modo irreparabile l’umore, avevo perso mezz’ora di sonno ed inoltre non ero nemmeno riuscita a capire il significato di “vestito”.
Non c’era proprio niente da aggiungere, era una giornata da cancellare totalmente.
« Al diavolo » imprecai a mezza voce, tamponandomi il viso con l’asciugamano.
Il mattino successivo sarebbe stato un disastro, ormai ne ero sicura.

Per raggiungere il letto, dieci minuti dopo in camera, andai a sbattere contro la sedia. E dire che la luce era rimasta accesa.
Mi morsi la lingua per non fiatare, e massaggiando il piede dolorante raccolsi gli indumenti che avevo fatto cadere.
Strabuzzai gli occhi mentre tenevo in mano l’ultimo vestito, che avevo abbandonato alla rinfusa proprio sabato notte, prima di dormire.
Deglutii.


« Quindi tu vorresti dirmi che Akito, dopo che ti sei vestita e vi siete scambiati un “buon divertimento” zeppo di sarcasmo reciproco, è uscito. […] Per ovvi motivi non vi siete rivolti la parola, e lui era furioso così, tanto per provare qualcosa di nuovo, a caso » parole di Tsuyoshi, prima di pranzo.
Dopo che ti sei vestita”..


Lanciai un’occhiata preoccupata - più colpevole che preoccupata, va bene - alla massa scomposta di capelli che sbucavano dalle coperte dell’altro letto.
A notte fonda, in piedi - in bilico - al centro di quella stanza troppo stretta per le cose non dette e soprattutto per quelle non comprese, capii che per una volta eravamo pari.
Che, come da mesi ripetevo a Fuka, non c’erano un aguzzino ed una vittima.
Un coltello ed una ferita.
Ci facevamo male entrambi, io ed Hayama, continuamente, senza dar peso a parole e gesti che potevano sembrare tutt’altro rispetto alle intenzioni originarie.
Trovai un senso per ogni allusione che non avevo capito, come quell’attenzione ai dettagli, gli errori degli altri, lo stesso “ottusa” che tanto mi aveva innervosita.
Perché aveva ragione, almeno per una volta. Avrei reagito male anch’io, se i ruoli fossero stati invertiti.
Non avevo fatto caso al mio vestito,la sera precedente - lui invece l’aveva riconosciuto immediatamente, il vestito che mi aveva regalato, il vestito che l'aveva fatto sorridere amaramente (e sinceri o tristi, i suoi sorrisi erano rari.. Chi lo sapeva meglio di me?) - e non avevo rispettato quel pezzo ingombrante di passato.
O meglio, non l’avrei rispettato se veramente avessi passato la serata nel modo in cui Akito credeva.
Ma in fondo lui, per l’appunto, lo credeva.
Eravamo sulla stessa barca, ma non troppo: il mio sabato era stato popolato da un semplice film e una sequenza di ricordi - ma questo Akito non lo poteva sapere per ovvi motivi.
Strinsi i pugni, e reclamando la mia parte di ragione aggirai il mio letto, snobbandolo. Mi fermai accanto al suo.
« Sei stupido »
Avevo una voglia tremenda di offenderlo. Anche di prenderlo a schiaffi, se solo avessi potuto.
Alzai le coperte e mi sistemai accanto a lui.
Solo perché avevo un disperato bisogno di dormire, ovviamente.
Non aveva molto senso infilarsi nel suo letto - nel senso pacifico del concetto - finchè lui dormiva, ma qualcosa doveva pur significare. Se non altro stavo già facendo un passo, anche se lui non l’avrebbe saputo mai.
Ma, per inciso, sapevo di avere relativamente ragione. Quindi non era un vero passo. E quindi l’indomani le ostilità si sarebbero riaperte con estrema naturalezza - però l’indomani, appunto.
(Appuntai mentalmente, afferrando il telefono e programmando la sveglia, che non avrei potuto reggere una seconda scena imbarazzante simile a quella della settimana precedente. Niente Akito che trovava Sana addormentata nel suo letto. Per niente al mondo.)
« “Anche se conoscendoti ne dubito” » sbottai, ripetendo le sue parole - alla fine invece avevo capito davvero, con l’aiuto di mezza giornata.
Partiva troppo prevenuto nei miei confronti.
« Comunque ne usi davvero troppo di sottotesto, lasciatelo dire. »
Dopotutto non stavo parlando da sola. Lui era lì, anche se incosciente.


Capita di non farcela.
E di essere il coltello.
E insieme la ferita.


___________________________



(*) Espressione di uso comune in Giappone, ad indicare l’esagerazione nel numero dei Kami. Fonte: Wikipedia.
(**) ripresa da 1.32: Breathless: to have difficulty in breathing properly. PART TWO.

Le ultime tre frasi, in centro, non appartengono a me, bensì agli Afterhours. E’ una citazione che amo tantissimo.

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Capitolo 10
*** 1.51: Wall - first part ***


1.51: Wall: one of the vertical sides of a building or room.

PART ONE.

 

 

 

Di certo stavo sognando. Non poteva essere altrimenti.
Se fosse stata la realtà, quella, avrei iniziato la giornata imprecando contro una sveglia puntata troppo presto ma sicuramente troppo tardi per arrivare in orario all’università, nel letto di qualcuno che avrebbe spalancato gli occhi e mi avrebbe fatta a pezzi nel giro di quattro secondi mediante una specialissima mossa di karate sconosciuta ai più.
Invece nella dimensione parallela in cui mi trovavo non c’erano sveglie - o meglio sì, ma silenti -, ritardi - ma in realtà dovevo ancora accertarmene -, e qualcuno che mi avrebbe affettuosamente buttata giù dal letto con qualche frase poco carina.
Frase che io avrei accettato lo stesso di buon grado perché, e qui non c’era spazio per i dubbi, il senso di colpa doveva ancora estinguersi.
Ed ero ancora troppo addormentata per pensare di avere anche ragione, che Hayama fosse un idiota completo e che.. quando dormiva era proprio un angelo.
Rimasi rannicchiata al suo fianco a osservare.
Non fraintendiamo - come fraintendevano continuamente Tsuyoshi, Aya, Fuka, probabilmente anche Mama, Rei e famigliola - era solo una considerazione oggettiva: Akito era bello.
Di quel bello che, a suo tempo, mi faceva mozzare il fiato e invece, da un anno a quella parte, mi imbestialiva.
Esattamente. Lui e le sue donne mi infastidivano. E lui aveva una quantità industriale di donne a portata di mano perché era evidentemente ed innegabilmente bello. Punto.
Poi che appena aprisse bocca lo detestassi era un’altra cosa.
Provai l’impulso irrefrenabile di tirargli un pugno in testa, allungai una mano fino ai suoi capelli. Tanto bello quanto stupido.
Invece di colpirlo cominciai a percorrere il suo profilo con l’indice, partendo dalla base dei crini biondi - e senza pensare nemmeno lontanamente che si sarebbe svegliato. Non l’avrebbe fatto. (Punto.)
Stupido.
Scivolai sulla linea dritta del naso.
E complicato.
Mi spostai a destra, lieve sulla guancia.
E spaccone - quando voleva.
Ritornai al punto di prima e sfiorai leggera le sue labbra, che al passaggio del mio indice si schiusero. Mi bloccai.
Continuava a dormire, doveva per forza essere stato un movimento involontario.
Proseguii con la corsa delle mie dita fino al mento, e anche con gli insulti..
E paranoico. E incomprensibile.
E una lista infinta di cose poco belle, per l’appunto, da sentirsi dire.
Persi completamente la cognizione del tempo, consolandomi al pensiero che - la sveglia ero certa d’averla puntata - quella di sicuro non era la realtà, quindi potevo permettermi il lusso di restare a guardare Akito che dormiva e passare il tempo a riempirlo di insulti - mentali - meritati e veritieri.
Almeno fino a quando non sentii il primo leggero bip del cellulare, che avrebbe progressivamente aumentato di volume.
Spalancai gli occhi agitata, notando solo in quel momento quanto ci fossimo avvinghiati nel sonno - solo per poterlo maledire ancora un po’, come diavolo sarei riuscita ad afferrare il telefono prima che il rumore lo svegliasse, eh? - e mi spinsi con tutte le mie forze verso il comò.
Niente da fare, il suo abbraccio era come una gabbia.
« Pure quando dormi mi devi complicare la vita? » bofonchiai, mentre mi scioglievo dall’intrico di braccia e gambe con difficoltà.
Ce l’avevo quasi fatta, giuro. Avevo spento la suoneria della sveglia, mi ero ancorata a terra con un piede ed avevo entrambe le braccia libere.
Mancava all’appello solo la gamba sinistra, ed io non vidi altra soluzione che tirare.
Ma dosare la forza di prima mattina - e per una volta avevo seriamente tutte le motivazioni per poterla definite tale - si prospettava come qualcosa di largamente superiore alle mie possibilità.
Avrei potuto immaginarlo, effettivamente, ma era un ragionamento troppo complesso da fare mentre tutto il mio corpo si lamentava per l’improvviso gelo post-risveglio. Così tirai, e tirai forte.
Liberai la gamba, ma finì all’aria insieme alla destra. Il mio fondoschiena spalmato sul pavimento e le coperte di Akito alla mia destra.
E qualcun altro, in quel momento, iniziò a lamentarsi per il freddo.
Merda.
« Mmmh » mugugnò, rigirandosi.
Mi alzai velocemente, gli buttai le coperte addosso ed uscii, recuperando qualcosa dall’armadio.
Sperai con tutto il cuore di aver azzeccato l’anta giusta. Seguire il discorso di presentazione seduta nelle prime file vestita da uomo non mi avrebbe fatto una gran bella pubblicità, decisamente.

« Già sveglia? »
« Buongiorno, Aya » salutai appena raggiunta la cucina « sì. E addirittura prima che suonasse la sveglia. Da non crederci. »
Mi guardò maliziosa per un secondo, prima di concentrarsi sulla sua colazione.
« Sarà la tensione » risolse soltanto.
Di risposta mi strinsi nelle spalle, mentre recuperavo una tazza e procacciavo del latte.
« Oh, non riesco a non dirtelo. » scosse leggermente la testa.
Appoggiai il tutto sul tavolo con sguardo interrogativo.
Aya mi guardava dritta negli occhi, uno strano luccichio nelle iridi scure ed un sorrisetto compiaciuto trattenuto a stento tra le labbra.
Preoccupante. Molto preoccupante.
Inspirò.
Inspirai.
« Dimmelo allora » esalai dopo un silenzio che parve interminabile.
« Eravate.. Eravate così carini, prima » intrecciò le dita e portò le mani di lato al viso, in faccia un’espressione estatica.
Se le mie guance avessero potuto prendere fuoco nel senso letterale del termine - fuoco, braci, fumo compresi nel prezzo, intendo - probabilmente l’avrebbero fatto.
Aya era entrata in camera.
Aya aveva visto.
Aya avrebbe frainteso - e, per dire, già l’aveva fatto.
Mi massaggiai le tempie, mentre l’immancabile sopracciglio delle situazioni sconvenienti scattava verso l’alto.
« Ero convinta di doverti svegliare » si affrettò ad aggiungere, mentre io mi sedevo accanto a lei evitando accuratamente di guardarla in volto « cioè, che avresti spento la sveglia e continuato a dormire » possibile « e saresti arrivata in ritardo all’università »
Degnai di uno sguardo l’orologio, e capii che quell’ultima parte era comunque probabile.
« Intanto chiariamo una cosa, Aya » puntai gli occhi nei suoi « quello che hai visto in camera non è quello che sembra. Te lo spiegherò poi, sono in ritardo » fuggii dalla stanza mentre lei mormorava un “oh, certo, aspetto le spiegazioni allora” e correvo a darmi una sistemata.
Ritornai sui miei passi solo per comunicarle che avevo risolto il mistero del vestito, e alla sua richiesta di dettagli mi strinsi nelle spalle, rimandando al pomeriggio.


***


Il primo giorno passò in fretta, e per fortuna.
La frase del giorno era assolutamente “ma tu sei Sana Kurata, quella di Kodocha?” ed io, occhi al cielo, dalle dieci e mezza del mattino in poi ero stata in grado di leggerla nei visi dei miei interlocutori prim’ancora che aprissero bocca.
E mi ero sentita dannatamente perspicace.
I vestiti erano da donna, fortunatamente, un paio di jeans ed una felpa nera; eccezion fatta per la maglia a maniche corte, molto verosimilmente di Akito.
E che altrettanto verosimilmente dovevo avergli comprato proprio io.
Poco male, avevo avuto buongusto in quell’occasione, così girai per i lunghissimi corridoi dell’edificio in maglia verde di qualche taglia di più grande.
Del discorso iniziale non capii un granché, ma riuscii comunque a fare la mia bella figura entrando in ritardo, arrossendo, inciampando, e rallegrando l’intero auditorio a metà presentazione con un sonoro bip, che avvisava me - e gli altri trecento nella sala - di una nuova mail.
Mail inviata da un ormai poco paziente Tsu, che recitava:


“Sana, Akito dice che gli hai rubato degli indumenti. Forse suonerà un po’ come già detto, ma quando la finirete di comportarvi da bambini?
E’ andato a correre, di nuovo.
La prossima volta sbrigatevela voi, sempre colpa dei vestiti eh?”



Così capii che il mio biondo coinquilino doveva aver condiviso i suoi viaggi mentali circa il celeberrimo vestito, inoltre che era assolutamente odioso - io non rubavo indumenti. Era uno solo il caso, e comunque si trattava di un prestito - e che Tsuyoshi doveva concretamente ancora afferrare il concetto che conoscere il timetable di Akito non era la mia priorità.
Se voleva passare le sue giornate correndo, poteva benissimo farlo.
Poteva anche correre per andare a trovare le sue amiche, volendo: non mi interessava.


***


« No, Sana. Ripeti tutto daccapo. C’è qualcosa che non va »
Fuka Matsui mi stava interrogando telefonicamente, l’ordine del giorno era tutto tranne che originale: sviluppi sulla questione Hayama.
Spiegai nuovamente “vestito”, litigio e tutto il resto - forse per la quinta volta.
« No, non ci siamo. Dice di non volerne sapere nulla di te e poi se la prende per un fottutissimo vestito? » sbraitò dall’altro lato.
« … »
« … »
« … »
« Sana, ci sei? »
Recuperai l’uso della voce solo per confermare la mia presenza.
Io a quel particolare proprio non ci avevo pensato.


***


Rincasai nel primo pomeriggio, e avevo le idee ben chiare.
Abbandonai borsa e scarpe all’entrata e mi fiondai alla ricerca del mio coinquilino.
« Tu. » indicai la chioma biondiccia di Hayama.
Non che intendessi parlare esattamente con quella - effettivamente l’avrei anche potuto fare, e altrettanto effettivamente non sarebbe stata in grado, per ovvi motivi, di irritarmi a morte con qualche rispostaccia. Il tutto perché, oggettivamente, i capelli non hanno vita propria (a parte in rari casi) e nemmeno capacità di parola (nessun raro caso).
« Come disse un tempo qualcuno.. “io ho un nome” » riprese un nostro vecchio discorso, senza nemmeno degnarsi di voltare il viso nella mia direzione. Continuò a osservare l’interno del nostro frigorifero, cercando qualcosa.
Sbuffando lo chiuse, prendendo semplicemente una mela.
Espirai, preparandomi psicologicamente a perdere almeno mezz’ora prima di riuscire a instaurare uno scambio propriamente detto.
« E va bene » tentai, richiamando alla memoria le parole dette da Fuka subito dopo avermi condotta alla conclusione che il comportamento di Hayama era stato decisamente contraddittorio. Diritti d’autore permettendo, potevo benissimo riutilizzarle. I discorsi alla Matsui facevano sempre un gran bell’effetto.
« Continua pure a tenere il broncio, evitami e prenditela per ogni sciocchezza, davvero »
Pausa strategica: in ogni battaglia che si rispetti arriva il momento in cui si aspetta la mossa dell’avversario per elaborare un contrattacco efficace.
(Mi sarei dovuta dare alla carriera militare. Visti i presupposti, avrei probabilmente fatto strada.)
Riuscii a centrare la questione, ottenendo tutta - quasi - l’attenzione di Hayama.
Espirai; parte seconda.
« Puoi farlo, ed io non ti disturberò. »
Mi sentivo i suoi occhi puntati addosso.
« Quale sarebbe la condizione per un po’ di pace? Perché una condizione ci dev’essere. » constatò, ed io mi maledii per essere diventata così prevedibile ai suoi occhi.
Mi grattai nervosamente la testa, spostando lo sguardo.
« Una risposta. »
Inarcò un sopracciglio, iniziando a far rimbalzare la mela che teneva in mano, mimando una nonchalance che in quel momento di sicuro non possedeva.
« Spara »
Decisi di prenderla alla lontana: « L’altra sera.. L’altra sera mi hai detto che di quel che faccio non t’importa nulla, sbaglio? »
Annuì, vago.
« Mi chiedevo »
« Te lo chiedevi tu o qualche anima pia - che so, Fuka, Aya, qualche nuovo conoscente universitario - ti ha messo la pulce nell’orecchio? » mi provocò a mezza voce.
Mi morsi il labbro inferiore, concentrandomi sulle venature della porta.
« Non sviare e non interrompermi »
Trattenni il respiro, sicura di averlo fatto arrabbiare; lui scosse la testa, quasi fosse una muta risposta.
« Dicevo » perché mi tremava la voce? « se veramente non ti interessa, perché prendersela così tanto per un gesto che io ho fatto senza cattiveria? Voglio dire - non me ne sono mica accorta, che era quel vestito »
« Beh, Sana » sempre la strana nonchalance non da lui « quello è perché tu sei ottusa »
Spostai nuovamente lo sguardo su di lui. Ed era uno sguardo per ovvi motivi allucinato. Mi morsi la lingua per non rispondere alla provocazione - era quel che voleva, oh sì. Sviare il discorso.
Ed io non gliel’avrei mai permesso.
Picchiettai col piede sul pavimento, in attesa.
Capì che non sarebbe riuscito a sfuggirmi, e smise di giocare col frutto, che ripose sul tavolo.
Espirò, curvando leggermente le spalle - e sembrò che insieme espirasse tutto l’Hayama detestabile che era stato fino a quell’istante.
Uno a zero per Sana: avevo abbattuto il muro.
« Come siamo arrivati a questo punto? »
E rimasi a bocca aperta, scoprendo che parte dei miei quesiti erano perfettamente condivisi.
Mi sentii punta nel vivo, ma preferii non dare soddisfazioni - orgoglio - e mi ancorai al mio precedente discorso.
« Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda » recitai come una bimba di cinque anni « e comunque.. Non lo so, come siamo arrivati qui. »
Scosse la testa.
« Vedi? Riusciamo a comportarci come due persone civili troppo raramente » ammise con una punta d’amarezza.
Sorrisi.
« E’ perché mi irriti a morte, Hayama »
« Non che tu mi renda la vita molto più facile, Kurata » roteò gli occhi, esasperato.
Mi rilassai.
Stavamo dialogando come due persone normali, era un evento da segnare sul calendario.
Oltretutto, stavamo addirittura scherzando.
Mi avvicinai, spostando la sedia e rubandogli la mela.
Annuì, fingendosi offeso.
« Tu rubi, Kurata » e ovviamente colsi l’allusione anche alla maglia che indossavo « Non si fa »
Scossi la testa. « Prendo in prestito, è una cosa fondamentalmente differente »
Morsi di proposito la mela, restituendogliela come prova « e comunque questo » indicai la t-shirt verde « è stato un incidente »
Stavo per scoppiare a ridere. Riavvolsi mentalmente il nastro del discorso per intero, e notai che parlavamo più per allusioni che per altro.
« Ah, certo. Anche qui avrei due paroline da dire »
Uno a uno, palla al centro.
Secondo morso alla mela rotonda.
Stavolta suo.
Allungò il braccio, offrendomela.
Accettai di buon grado - se una mela da mordere era un modo per parlare senza litigare, allora avrei anche potuto comprarne un’intera piantagione.
Lo guardai stranita.
Sapeva dell’incidente? Aya gliene aveva parlato?
Aya non sarebbe sopravvissuta - in caso.
« Del tipo? » richiesta di informazioni celata dietro nonchalance. Era il mio turno.
« “Del tipo” » mi schernì - si allungò per mordere il frutto ancora tra le mie mani « che dormi un po’ troppo spesso nel mio letto. »
Argh. Sapeva.
Spostai lo sguardo, abbandonando la mela sul tavolo e arrossendo vistosamente.
Cercai di mascherare la cosa alla bell’e meglio.
« Mi serviva » chiarii « te l’ha detto Aya? »
Tanto per sapere quanti minuti di vita le restavano.
Scosse la testa.
« No, lo so perché mi hai fatto passare la notte in bianco. E oltretutto, bella caduta, stamattina »
Chiusi gli occhi, avvampando all’inverosimile.
Mi passarono davanti agli occhi quei momenti in cui credevo di sognare - ed invece ero sveglia - e rannicchiata ero rimasta a fissare Akito che.. Che fingeva di dormire!
Imbarazzo. E oltre all‘imbarazzo, qualcosa che non era ancora chiaro.
Perché avrebbe dovuto passare la notte in bianco a causa mia? Balbettante, glielo chiesi.
« Semplice » si strinse nelle spalle, quasi fosse davvero la considerazione più facile al mondo « sei l’esatta definizione di "persona che parla sempre". Anche nel sonno. » ammiccò.
Ed io sprofondai, sgranando gli occhi.
Era.. Doveva.. Di sicuro..
Okay. Rimettiamo in moto le funzioni vitali e contiamo.
Uno: non me l’aveva mai detto, mentre stavamo insieme. Quindi di sicuro non parlavo nel sonno già allora.
Due: successivamente avevo sempre dormito da sola, nella mia stanza. E ovviamente nessuno mi avrebbe mai potuta avvisare di una cosa simile..
Tre: chi.. Chi diavolo avrebbe mai pensato di preoccuparsi di un’eventualità così remota? Io e Hayama dividere la stessa camera, chi l’avrebbe mai detto? E invece, fortuna volle, come si suol dire.
Quattro: Oh. Kami.
« Che.. Che cosa avrei detto? »
Si strinse per l’ennesima volta nelle spalle, dissimulando.
Ma io non avevo la minima intenzione di lasciar correre.
« Me lo dirai? »
Soffocò una risata. « Promesso »
E sembrava vagamente divertito.
Sospirai, rassegnata.
Avevo incamerato abbastanza informazioni per passarci almeno una decina di notti in bianco.
Il nuovo Akito - quello che mi stava di fronte, con cui ero riuscita a scherzare (per quanto uno del genere potesse scherzare) e divertirmi, almeno per quest’assurdo vizio di chiamarci per cognome - mi riportò terribilmente indietro negli anni.
E non riuscii a trattenere nel cervello un paragone, che quando compresi - compresi in parte, a dir la verità - mi fece avvampare come una tredicenne e scoppiare il cuore: bastava osservare i suoi occhi.
Com’era sempre bastato.
Uno dei primi ricordi che avevo di Akito erano esattamente i suoi occhi.
Quegli occhi così freddi e distaccati del bambino che in sesta elementare altro non sapeva fare che rendere la vita difficile, a scuola.
E uno dei ricordi più importanti della mia infanzia - forse anche della mia vita intera - era il momento in cui quegli occhi si riscaldarono.
Solo un po’.
E quel momento coincideva con la definizione del “mio” Akito.
Allora non era cambiato, in quell’anno - non era diventato un universo lontanissimo.
Da qualche altra parte forse avrei potuto trovarci anche tutto il resto.
Da qualche parte.
..Se non altro un passo in avanti già l’avevo fatto, scoprendo (per caso, certo, ma c’è qualcosa che non succeda per caso, in realtà?) dove si nascondeva l’Akito civile, il “mio” Akito. L’Akito senza muro intorno.
Volendo, ormai sarebb-
« Kurata » interruppe i miei pensieri - già il tono non andava, ma non me ne accorsi « ..ti sta squillando il cellulare »

 

 

 

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Capitolo 11
*** 1.52: Wall - second part ***


1.52: : Wall: one of the vertical sides of a building or room. PART TWO.



Abbassai lo sguardo sul cellulare, che avevo appoggiato sul tavolo nel momento in cui avevo intavolato la mia edificante - e per una volta lo era davvero - conversazione con Hayama.
Il nome “Nao” faceva bella mostra di sé nel display.
« Scusa.. » asserii atona, afferrando l’apparecchio e sgusciando in camera mia - nostra - mentre lui restava seduto a terminare la sua mela.
Non disse nulla.
« Ciao Nao! » lo accolsi allegra.
La sua telefonata significava che ci saremmo visti davvero, e la cosa non poteva farmi che un immenso piacere.
Tra le tante domande - Come stai? Come procede la convivenza forzata? - mi comunicò che i suoi impegni erano stati posticipati, e che non sarebbe arrivato in città prima di una decina di giorni. Che, sommati a quelli già trascorsi dalla sua precedente telefonata, erano purtroppo dodici.
Non lo vedevo da secoli, accidenti!
Mi morsi il labbro inferiore.
Ma il ventisei - aveva già parlato con il suo agente - non ci sarebbe stato per nessuno, se non per la sottoscritta.
Sorrisi.
Peccato che qualcuno, in cucina, di certo non ne sarebbe stato felice.
Anzi.
Quello fu esattamente, come si suol dire, l’inizio della fine.

Cena. Appartamento di Sana, Akito, Aya, Tsuyoshi.
Hayama non aveva fatto che evitarmi per tutto il pomeriggio, ed io sbuffando l’avevo dovuto accettare di buon grado. Da un lato, ma solo da un lato, potevo anche capirlo: se veramente detestava Kamura - e alla luce dei fatti era una cosa ormai chiara - trovarselo un bel pomeriggio a casa nostra non doveva essere piacevole.
Ma d’altronde, erano problemi suoi: poteva essere civile con la gente un po’ più spesso.
Sì.
« Nao quando viene a trovarti? » Akito ruppe il chiacchiericcio di Aya e Tsu.
Lo guardai soltanto: aveva una faccia da schiaffi, lui col suo sorrisino da presa in giro stampato in faccia, non sembrava nemmeno lo stesso con cui avevo parlato poche ore prima.
« Tra dieci giorni » risposi meccanicamente, concentrandomi sul piatto.
« Evviva » gonfiò la parola come se veramente ne fosse felice.
Sentii la rabbia invadermi. Lo trafissi con un’occhiataccia.
« Se non ti va bene.. »
« Ragazzi, cercate di non litigare, almeno a tavola. » ma Aya in risposta ricevette soltanto due sopracciglia sollevate.
« Se non mi va bene? » mi sfidò Akito, finto controllato dietro al suo muro.
« Oh, va al diavolo. »

***

Alzai un muro anch’io, dentro la mia testa, per evitare di pensarci. Camminavo per il corridoio che mi avrebbe condotta alla mia prima lezione da universitaria, il mattino successivo, in faccia due occhiaie da paura e sulle spalle il malumore dettato da una notte insonne, l’ennesima.
Mi infastidiva. Mi infastidiva tanto.
Per la verità - pensai aprendo la porta dell’aula, ignorando gli sguardi degli sconosciuti e sedendomi in terza fila - c’erano fin troppe cose che mi infastidivano.
Prima tra tutte: l’altro Hayama. Quello dietro il muro, quello con cui dividevo la stanza. Perché, parliamoci chiaro, in sette giorni di convivenza forzata il novantotto percento del tempo avevamo litigato. Ma quella mattina il fastidio era più pungente: il due percento delle giornate passate insieme le avevo trascorse con il mio Akito.
Sapere che in fondo c’era ancora ma si faceva vedere tanto di rado, mi imbestialiva.
Non capivo il motivo di una fuga continua, come ormai mi era chiaro essere la sua.
L’altra parte di fastidio era data dall’avversione di Hayama verso Naozumi.
Avversione reciproca, ma almeno Nao la mascherava meglio - per forza, in effetti lui era un attore.
Ma comunque.
Una domanda retorica, un discorso puramente infantile, certo, ma la questione che mi frullava in testa era solo una: perché diavolo non potevamo andare tutti - tutti! - d’accordo?
Alzai gli occhi verso la grande cattedra, e mi resi conto che un uomo sulla cinquantina vi si era già seduto.
E stava parlando.
Ed io non avevo ascoltato nemmeno una sillaba.
Ottimo, no?
« Io insegno Sociologia della Comunicazione. (*) Forse dovrei dirvi tecnicamente di cosa si tratta, ma non lo farò. »
Oh, io e quell’uomo saremmo di certo andati d’accordo.
« Lo scoprirete da soli. »
Okay, forse non così tanto d’accordo..
« Avete dieci giorni, a partire da questo momento, per analizzare il modo in cui comunicate con la persona con cui avete più difficoltà ad interagire. Può essere un vostro coetaneo che vorreste conoscere, un ex fidanzato, un genitore. A voi la scelta. » e sorrise, inarcando i baffi grigi.
Io mi ero fermata alle parole “un ex fidanzato”. Perché era Hayama la persona con cui comunicavo nel peggiore dei modi, non c’era il minimo dubbio. E “analizzarlo” suonava proprio male, in particolar modo se lui passava le sue giornate ad ignorarmi, o peggio a prendermi per i fondelli.
Lanciai un’occhiata al resto degli studenti, che erano corrucciati almeno quanto lo ero io.
Una ragazza alzò la mano, seconda fila.
Il professor - cercai nella borsa il foglietto in cui avevo appuntato i nomi, doveva esserci, doveva! - ..Saitou le diede parola con un cenno del mento.
« Mi scusi, ma io credevo che qui studiassimo gli effetti della comunicazione di massa sui vari gruppi di individui » affermò sicura.
Ed io compresi solo allora cosa fosse, quella Socioqualcosa.
Saitou-sama annuì. E sorrise enigmatico.
Diavolo, quell’uomo sembrava un rebus vivente.
« Esatto. Ma voi avete imparato a correre in bicicletta prima di camminare? »
Beh, se per lui un compito simile era camminare..

***

Osservai sconsolata la prima pagina del mio quaderno, durante l’ora di pausa.
Le prime tre righe, occupate dalla mia grafia disordinata, citavano la richiesta del tizio di Sociologia della Comunicazione - e dovevo ancora capire se io e quell’uomo saremmo andati d’accordo o meno. Anche quello, probabilmente, sarebbe rimasto un enigma.
« Sei Sana Kurata, vero? »
Alzai il viso verso il proprietario di quella voce.
Ed ero assolutamente allucinata: speravo che la frase “sei Sana Kurata, vero?” fosse stata un’esclusiva del primo giorno.
Mi ritrovai davanti a due ragazzi ed una ragazza.
Lei era piccola, minuta, molto carina. I capelli innaturalmente biondi raccolti in una treccia a lato della testa. Accanto a lei c’era un ragazzo abbastanza alto, che di sicuro aveva un paio d’anni più di me - e di lei, che a occhio e croce doveva essere una mia coetanea - capelli ed occhi neri come la pece. Il classico giapponese.
L’altro era leggermente spostato dai due, e sorrideva. Sembrava un tipo simpatico, ma la prima cosa che saltava agli occhi erano i suoi, di occhi: azzurri.
Mi resi conto dalle loro occhiate di essere rimasta in silenzio un po’ troppo a lungo. Scoppiai a ridere, imbarazzata.
« Scusatemi. Sì, sono io! »
Si rilassarono anche loro.
Il ragazzo con gli occhi azzurri parlò: « Piacere. Lei è Sayuki, lui è il suo ragazzo, Sota » indicò la coppia « io invece sono Den. »
« Piacere mio » li salutai con un cenno del capo.
Rimasero impalati di fronte a me.
Il ragazzo che si chiamava Den si grattò la testa.
« Diciamo tanti saluti ai convenevoli: vorremmo che tu fossi la nostra ricerca di Sociologia. »

Il primo giorno, perché la conversazione non fosse solamente univoca, parlammo tutti e tre di noi, in generale.
Scoprii che Den, come il nome e gli occhi suggerivano, era giapponese solo a metà; sua madre era di Helsinki.
Sayuki e Sota stavano insieme da secoli, e quando me lo comunicarono non riuscii a non paragonarli, osservando il pavimento, a me ed Akito. Con una grossa - e palese - differenza.
Scrivevano un sacco di appunti, sembravano quasi giornalisti a caccia di gossip; anche qui una differenza: loro non erano affatto fastidiosi.
Alle due li salutai, promettendo loro che ci saremmo rivisti il giorno successivo - tra le tante cose seguivamo circa le stesse lezioni, quindi sarebbe stato facile ritrovarci tra la marea di studenti - e schizzai alla velocità della luce verso la mia ultima lezione di quel giorno.
Ero in ritardo, ma almeno niente magliette da uomo - e iniziai a pensare che davvero, davvero a casa avevo una bella gatta da pelare.

« Hayama? »
« Che vuoi? »
« Devo fare un compito per Sociologia della Comunicazione. »
« E per quale assurdo motivo chiedi a me? »
Mi strinsi innocentemente nelle spalle. « Dovrei analizzarti. »
Riuscii a farlo scoppiare a ridere.

Sota sognava di diventare un giornalista, di scrivere articoli e diventare famoso.
Sayuki, invece, aveva finito per iscriversi a Scienze della Comunicazione solamente perché si era piazzata bene in graduatoria. Avrebbe deciso poi, diceva.
Io e Den eravamo in alto mare riguardo al futuro, invece. Ci guardammo negli occhi esasperati e passammo alla domanda successiva.

« Kurata, te lo devo ancora ripetere che non voglio casino in camera mia? »
« Hayama, te lo devo ancora ripetere che quella è anche camera mia? Non ti scaldare, non è mica venerdì. »
« Sposta le tue cose nella tua metà di stanza, la mia la voglio libera dalle tue schifezze. »
Mi trascinai in camera, abbandonando l’allettante confezione di pasticcini.
« Hayama, tu ce l’hai un sogno? » chiesi, le braccia imbrattate di vestiti.

Sayuki e Sota si erano conosciuti in prima media, e non si erano più lasciati.
Den era fin troppo libertino, ma fondamentalmente capii che aveva il terrore di perdere la testa per qualcuna tanto da non controllarsi più. Den aveva la paura folle di soffrire. Anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura.
Io, dal canto mio, risposi dicendo di essere single ma convivente col mio ex ragazzo.
Non sto qui a dirvi le loro reazioni.

« Dove hai buttato la mia camicia, Kurata? »
« Non ne ho la più pallida idea, se tu lasci in giro le tue cose e non le trovi, non darmene la colpa, Hayama! »
« Senti da che pulpito viene la predica! »
Aprii la mia anta di armadio e ripescai la sua camicia. Sì, gliel’avevo nascosta io.
Faceva parte del piano.
« Oh, quanto si vede che sei uno sciocco single alla deriva.. » dissi porgendogliela, citando la frase di un vecchio film.

Sayuki adorava cucinare - ed era molto brava.
Sota, di conseguenza, adorava mangiare. E, fortunato lui, non ingrassava.
Den dipingeva. Assurdo, io non l’avrei davvero mai detto.
Io non sapevo cosa rispondere, e Sayuki commentò al posto mio che, dato il programma alla radio che registravo con Fuka, di certo a me piaceva aiutare le persone.

« Non provare a negarlo, Hayama! »
« Non sono stato io! »
« Certo, certo. Un giornale di Karate appoggiato sul tavolo e la mia porzione di sushi scomparsa: sei stato tu, è palese! »
Ghignò, ma smise di infastidirmi. Non poteva arrampicarsi sugli specchi, sapevo meglio di lui cosa adorava.

La paura più grande di Sayuki erano i ragni. Li detestava.
Sota era claustrofobico, e Den aveva paura di finire le tempere proprio quando aveva l’ispirazione per un nuovo disegno.
Io avevo paura di restare sola.

E avevo paura del buio, in effetti; rincasò dal suo meraviglioso venerdì - era uscito lui, chissà perché - e il fascio di luce, invece di irritarmi a morte, mi rassicurò.
Mantenendomi in modalità arrabbiata - era pur sempre un venerdì - mi liberai delle coperte e, grazie al sonno, riuscii addirittura a sembrare ingenua, nel chiederglielo.
« Hai ancora paura delle altezze, Hayama? »
Finse di non sentirmi, e continuò ad ignorarmi.

Al sabato niente università, ma avevamo preparato le domande già il giorno prima.
Sayuki non avrebbe mai fatto un tatuaggio. La sola idea la terrorizzava.
Sota, per ovvi motivi, non sarebbe mai entrato in un sottomarino. Nemmeno a pagarlo, diceva.
Den non avrebbe mai e poi mai comprato un criceto. Li considerava inutili.
Io non avrei mai smesso di sorridere.

Lo aspettai sveglia. Lui, e le sue convinzioni riguardo ai miei sabato sera. Lui, le sue convinzioni e la sua odiosa simpatia.
Aprì la porta.
« Vorrei un paio di scarpe, Hayama »
Nemmeno mi guardò.
Lo seguii, mentre apriva lo sgabuzzino. E quasi mi crollò la mandibola vedendo dove aveva nascosto tutte le mie scarpe.
« Senza scarpe acceleri i tempi. Nessuno te le deve togliere. Dovresti ringraziarmi, Kurata. »
« La smetterai mai coi tuoi infantili dispetti? »

Avevamo preparato anche quelle per la domenica.
Il ricordo più triste di Sayuki era la morte del padre.
Per Sota, invece, il trasferimento.
Per Den quando perse un lavoro a cui teneva parecchio.
Per me la malattia.

Aprii distrattamente l’armadio, alla ricerca di qualcosa da indossare per la cena coi miei amici più Akito.
Afferrai il primo indumento disponibile ma lo riposi subito: niente più vestito blu.
E capii, anche senza chiederglielo, quale fosse uno tra i ricordi più tristi di Hayama.

Il regalo più bello che avessero mai fatto a Sota era una vacanza a Londra, città che amava.
A Sayuki il giocattolo che desiderava, a circa due anni. Ricordava ancora la felicità esorbitante.
A Den la possibilità di andare a trovare la madre ad Helsinki durante le vacanze estive di ogni anno, dopo la separazione dei genitori.
Quando risposi “Mama”, rimasero sorpresi. E gli spiegai che era stato davvero un regalo, per me, aver ricevuto come madre proprio lei. (**)

Lo scoprii frugando tra le sue cose, l’ennesimo pomeriggio in cui - odiosamente - mi impose di limitare la confusione alla “mia parte di stanza”. Come se poi ci fosse stato per davvero, il confine tra lui e me, mio e suo. Che cosa stupida.
Aprii uno scatolone e ci trovai dentro un modellino di dinosauro.

Il decimo giorno tirarono le somme. E, mio malgrado, mi resi conto che avevano recepito molto meglio della sottoscritta come dovesse essere svolto quel compito.
Mi chiesero di ripetere tutto quel che mi ricordavo di loro. Sorprendentemente ricordai correttamente quasi tutto.
Mi applaudirono fino a spellarsi le mani, poi, tra risate e caffè alla mano, brindammo alla nostra ottima comunicazione.

Mi ignorava più del solito, e il suo malumore era alle stelle.
Era anche pronto a scappare a correre non appena Nao fosse entrato in casa.
Proprio detestabile, come sempre.
Una piccola parte di cervello considerò che gran parte dei dialoghi li ricordavo correttamente anche per quanto ricordava me e lui, ma di certo la nostra comunicazione era pessima.
Una il sarcasmo, l’altro il sottotesto. (***)
« Sarai emozionata, no? » Hayama, paradossalmente, mi aveva appena sfilato di mano quel “una il sarcasmo”.
« Sarai un idiota, no? » lo fulminai con lo sguardo.
« Te lo concedo, questa era proprio bella. »
Sentivo la tensione nella sua voce.
Hayama stava fingendo, aveva di nuovo attorno il suo fedele muro.
« Tante grazie. »
E la cosa non mi rendeva felice.






 

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(*) Sociologia della Comunicazione, branca della sociologia che studia nel dettaglio le implicazioni socio-culturali generate dalla mediazione simbolica. Essa studia in particolare i mezzi di comunicazione di massa, esaminando come lo stesso messaggio mediatico abbia, a seconda del contesto culturale, economico e sociale in cui viene ricevuto, conseguenze differenti sui gruppi sociali. Fonte: Wikipedia e l'infinitamente paziente Valentina. <3
(**) La storia di Sana. Visto che è presente anche nella versione Anime non è spoiler dire che Misako ha trovato Sana.
(***) da 1.42, Chain.


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Capitolo 12
*** 1.61: Decode - first part ***


1.61 : Decode: to understand the meaning or the implications of something not obvious.

PART ONE.

 


Piani di evacuazione in casa Hayama, Kurata, Sasaki, Sugita: Akito, il mio tanto aitante quanto deficiente ex fidanzato, era indeciso se uscire dalla porta d’ingresso prima o dopo l’arrivo di Naozumi.
E la sua faccia la diceva piuttosto lunga: sempre il solito muro - sempre il solito mulo, sempre il solito muso - reso stavolta decifrabile dall’enorme dicitura “non so come potrei reagire”.
E, per una volta, lungi da me il contraddirlo.
La sua teoria - che ovviamente non intendeva comunicarmi (troppo avvilente, un uomo non si abbassa a condividere i suoi dubbi, oh no - sarcasmo stava diventando il mio secondo nome) - aveva come obiettivo il non-vedere-Kamura.
Prima opzione: uscire prima. Rischio: possibilità di incontro sul pianerottolo di uno dei quattro piani che ci elevavano da terra.
Rabbrividii alla prospettiva.
Seconda - ed ultima - opzione: rintanarsi in camera ed uscire successivamente all’arrivo del mio amico. Possibilmente - assolutamente! - una volta terminati i convenevoli e passati alla fase caffè. Con possibilità di non-incontro all’ingresso.
Tamburellai con le dita sul mio avambraccio sinistro, mordendomi un labbro per soffocare una risata.
Già non mi parlava, se l’avessi preso in giro avrei rischiato una morte precoce e vagamente dolorosa.
(Rabbrividii nuovamente, ma l’istinto di ridere non si placò.)
Vedere Akito Hayama impalato di fronte alla porta, a crogiolarsi nella ricerca del male minore (la possibilità “meno-peggio“) non aveva prezzo.
E l’impagabile stava nell’intuire che nel suo cervello il dubbio si prospettasse come un “gli spacco la testa ora, o gliela spacco dopo?”.
Megalomania.
Il tutto camuffato in un’apparente tranquillità.
Tremendamente orgoglioso - ah, fatti tutti con lo stampino, gli uomini. (*)
« Ne hai ancora per molto? » mormorai divertita.
Si girò di scatto, fulminandomi.
« E se volessi salutare Nao? ». Detto in tono disinteressato e monocorde.
Sbuffai. « E’ già la seconda volta che mi prendi in giro, direi che è ora di trovare un diversivo » tergiversai, alludendo a quel suo patetico accenno di confidenza dovuto al “Nao”.
« Non ti prendo in giro »
« Ah, certo che no » scossi la testa.
Lui continuò ad ignorarmi - peraltro era ciò che meglio gli riusciva. Ed era irritante.
Aprì la porta.
« Dubiti di me? Sono Nao, io. » (**)
E sparì.
Akito non è mai stato un tipo loquace, né ironico. Di certo gliela doveva aver suggerita Gomi, questa.
E - ci avrei scommesso tutto - se la rigirava in testa già da chissà quanti mesi.

 

***


« Entra pure » sorrisi a trentadue denti, constatando con gioia che nessun livido addobbava il volto di Naozumi - ergo non aveva incrociato Akito, salendo.
Per fortuna.
Ci scambiammo un bacio sulla guancia.
« Accidenti, vedo che ti sei sistemata alla grande! » iniziò ad aggirarsi per il piccolo salotto, sorpreso.
Stava bene, Kamura. Era dimagrito, probabilmente a causa del perenne stress a cui era sottoposto, ma per il resto lo ricordavo esattamente così.
« Grazie » pigolai, leggermente sorpresa.
Dal suo punto di vista, abituato com’era al lusso del suo successo, di sicuro non era una “buona sistemazione”, la mia, ma apprezzai comunque.
Mi prese le mani. « Vestiti e usciamo, che ho una sorpresa per te. »

« Da quanto non lavoriamo insieme, eh? » mi abbracciò stretta dopo che l’undicesimo flash - li avevo personalmente contati - ci accecò.
Alzai gli occhi al cielo, facendogli una linguaccia.
Lui rise - dodicesimo flash.
« Secoli! » esclamai.
Dopo essermi cambiata in fretta e furia, Kamura mi aveva trascinata agli studi.
Aveva programmato tutto nei minimi dettagli con Rei, e una parte del mio cervello registrò che ormai non ci si poteva fidare più nemmeno del proprio agente.
Mi era stato offerto di fare da testimonial per la campagna di un’emergente marca d’abbigliamento - ma stavolta insieme a Naozumi.
E l’avevo scoperto all’ultimo, cioè dodici foto prima.
« Sai, ancora non mi spiego il perché » tredicesimo sorriso di entrambi, tredicesimo flash.
Mi voltai verso di lui; sembrava perfettamente tranquillo, anche se nascondeva negli occhi una punta di amarezza.
« Di cosa? » incalzai.
« del tuo ritiro dalle scene. Credevo saresti tornata, dopo.. Dopo.. »
« dopo la malattia? » lo anticipai.
Annuì, mi lasciai abbracciare, quattordicesimo scatto.
In effetti era una delle tante spiegazioni che gli dovevo.
« In realtà lo credevo anche io » mi abbandonai sulla panchina piazzata sul set giusto per la scenografia, ed il fotografo sembrò gradire l’idea « ma dopo il primo periodo di ripresa ho totalmente cambiato idea. Troppo stress, ci avevo perso la mano »
Mi strinsi nelle spalle.
Nao scosse la testa, sedendosi accanto a me.
Mi scostò un ciuffo di capelli dagli occhi, sistemandolo dietro l’orecchio. (Quindicesima foto.)
« Non credo nemmeno ad una parola » confessò col solito sorriso ad adornargli il volto « E’ per lui, vero? Perché era tornato dall’America. »
« Oh, no no! » mi affrettai a negare. « Avrei potuto gestire entrambi - lavoro e Hayama - lo stesso. Non ho abbandonato la mia carriera per lui, voglio che ti sia ben chiaro »
Sembrò pensarci su.
In realtà, con la malattia le mie priorità si erano nettamente modificate. Il mondo dello spettacolo - per quanto l’avessi amato e continuassi a farlo - aveva preso il retrogusto dell’allontanamento dalla vita reale e dai reali affetti.
Vivere come viveva Naozumi - in giro per il mondo, dietro la fama ed il successo, senza un luogo che sapesse di casa per più di tre mesi - mi avrebbe sicuramente traumatizzata, e altrettanto certamente sarei ricaduta nel baratro.
L’avevo già ampiamente ammessa a me stessa, in quegli anni, la debolezza.
Mi terrorizzava la solitudine, punto. Ero debole anche io, per quanto mi fossi sempre sforzata d’essere forte.
« La vita è fatta di scelte, Nao. Io non ce la farei più a vivere sotto le luci della ribalta, ho bisogno d’altro »
« Okay, okay » e chissà quanti altri flash ci avevano sorpresi, continuavo a fissare l’obiettivo ma avevo perso il conto « ma non credevo avresti mai rinunciato al mondo dello spettacolo. »
Sospirai. « Infatti non ci ho rinunciato. E’ troppo importante, per me. Il programma alla radio, le pubblicità, qualche intervista.. Sono sempre Sana Kurata. Mi sono solo data una regolata. »


***


« Fa come se fossi a casa tua » aprii la porta d’ingresso con un cenno teatrale della mano.
Appoggiai la borsa sul tavolo e mi liberai delle scarpe; non sentivo il rumori dei passi di Nao.
Mi voltai: restava guardingo sull’uscio, le braccia incrociate e l’espressione seria.
Sospirai. « Non c’è nessuno in casa »
Sembrò rilassarsi, si accomodò sul divano.
Lo raggiunsi. « Insomma, non credevo che Tsuyoshi ti terrorizzasse! »
Sollevò entrambe le sopracciglia. « Non è per Tsuyoshi. E non si tratta di terrore »
No, non aveva voglia di scherzare.
Raccolsi i capelli in una coda alta, alzandomi per recuperare un elastico in bagno.
« Ce l’hai ancora con Akito? » puntai al nocciolo della questione.
La sua voce arrivò ovattata dalla distanza: « Esattamente. Ma è una cosa reciproca, credo. »
Sorrisi tra me e me. « Oh, puoi dirlo. »
« Non lo perdonerò mai per quello che ti ha fatto »
Dopo una breve occhiata allo specchio decisi di ritornare in salotto, e mi sedetti accanto a lui.
Osservava deciso il muro di fronte a noi. Sembrava arrabbiato.
« Parli come se mi avesse rovinato l’esistenza. » sbuffai « ci siamo lasciati, Nao. Lasciati. E l’abbiamo deciso insieme »
« Me la ripeti da un anno, questa frase »
« Perché è vera. »
Alzò le mani in segno di resa, sciogliendo la tensione. « Okay, okay, tralasciamo. Piuttosto, come va la convivenza? »
Spostai lo sguardo verso la porta chiusa, che nascondeva la stanza che dividevo con Hayama. « E’.. difficile. Non riusciamo a parlare civilmente, poi con questa storia dei venerdì-Akito e dei sabato-Sana.. » lasciai la frase a mezz’aria.
Mi guardava confuso, e mi affrettai a precisare.
« Ma sì, te l’avevo spiegato per telefono. Il venerdì devo lasciargli la stanza, il sabato l’ho obbligato a fare lo stesso.. E poi il suo malumore sfocia nelle cene domenicali. E’ insopportabile »
« Ed io che ero convinto che la settimana scorsa, al telefono, mi avresti detto qualcosa simile a “io ed Hayama stiamo di nuovo insieme”. Pensavo che questa vicinanza forzata avrebbe portato inevitabilmente a.. »
« Kami » mi coprii la fronte con il palmo destro « allora era proprio quello che speravate tutti »
Avevo già sentito quel discorso fin troppe volte - Fuka, Aya e Tsuyoshi, probabilmente anche Mama la pensava così - e non era rassicurante.
« Alt. Io non lo spero affatto, ma è lecito pensarlo. » confessò.
« Non so più in che lingua dirlo, sia a te che agli altri.. Noi non torneremo mai più insieme. Non c‘è più spazio per un “Sana e Akito”, in un anno sono cambiate troppe cose » cercai di spiegarmi.
M’infastidiva che le persone a me più vicine fossero sicure che bastassero una stanza ed una ventina di giorni per farmi tornare insieme ad Hayama.
Perché era chiaro a tutti che non sarebbe mai potuto succedere.
No, decisamente.
« Il vecchio saggio dice che se una sola cosa non è cambiata un anno può valere un’ora »
E non c’erano dubbi su quale fosse la cosa rimasta invariata, a detta di Nao: l’amore.
« Invece è cambiata anche quella » liquidai, incrociando le gambe.
« Se lo dici tu » alzò i palmi, ennesima resa.
Mi guardai intorno, mentre calava il classico silenzio imbarazzante.
« E tu, Kamura, con le ragazze? » lo punzecchiai, dandogli di gomito e beandomi della mia innata capacità di cambiare discorso, regalo dei Kami lassù.
Si strinse nelle spalle, e con una sincerità disarmante me lo disse.
« In realtà da sempre me ne piace una, ma mi sono più o meno rassegnato, e ci sto lavorando per considerarla una specie di sorella. »
Mi maledii in tutte le lingue che conoscevo. Forse non era stata una così buona idea cambiare discorso.
« Comunque » continuò, ed io trasalii « lei sa che, se mi vorrà, io ci sarò. Ci sarò se mi desidera come fratello, come amico, come collega o come ipotetico fidanzato. »
Puntò gli occhi chiari nei miei. « Quella ragazza ti ringrazia, sono sicura. »
Altro breve silenzio interrotto solo dalle lancette dell’orologio a muro.
Mi schiarii la gola, cercando di allontanare il vago senso di colpa che mi assaliva ogni volta che Naozumi esternava i suoi sentimenti per me.
« Che maleducata! Non ti ho nemmeno chiesto se vuoi qualcosa da bere » mi allontanai dal divano, dirigendomi verso il frigorifero.
« La casa in questo preciso istante offre.. » lo aprii, nascondendo la testa dietro l’anta « Mmh. Acqua, limonata, coca cola. Oppure se preferisci ti preparo un sakè, o magari un caffè »
« Un bicchiere di limonata, grazie » annunciò.
Presi un bicchiere e lo riempii fino all’orlo.
Richiusi il frigorifero e, bibita in bilico sulla sinistra, mi diressi nuovamente in salotto.
« La prossima volta mi procurerò una bottiglia di champagne » lo presi in giro.
« Ecco, ora ragioniamo » finse di darsi un tono, rassettandosi la camicia.
Probabilmente non mi fu mai tanto chiaro come in quell’esatto istante: io ero goffa. Talmente goffa da inciampare sulle mie stesse scarpe, riposte - lanciate - accanto al tappeto appena rincasata, talmente goffa da ritrovarmi col bicchiere sì ancora in mano, ma vuoto.
Abbastanza goffa da aver appena sporcato la camicia di Naozumi con una fantastica macchia di limonata.
« Accidenti » cercai un fazzolettino, avvicinandomi con l’intento di sistemare il sistemabile - o forse di pulire il pulibile, o forse solo di sentirmi meno in colpa « sono una scema. Guarda che casino ho combinato »
« Tranquilla, non è successo nulla » ci avrei rimuginato su sol successivamente, al momento non ci badai, ma probabilmente fu quella frase a nascondere un altro suono.
La chiave che girava nella toppa.
« E poi lui la bacia » commentò Akito, la porta ancora aperta, i pugni convulsamente stretti lungo i fianchi « Bella idea, Kamura. Ci ho provato anch’io, e ci sono pure riuscito. Ma ero in sesta elementare. »




__________________________________


(*) cit. Ale. A lei i diritti di questa frase che mi ha così tanto ispirata. Grazie *w*
(**) alla Obana, sì. Presente che sul manga ci sono quei giochi di parole, tra una battuta e l’altra, che rendono solo in giapponese? Ho voluto provarne uno io - e ci ho passato sopra circa quattro giorni. Ovviamente in italiano vale molto poco. “Nao”, appunto il diminutivo di Naozumi, significa “Onesto”, “sincero“. E’ quello su cui gioca Hayama, dicendo qualcosa di simile a “sono come Nao” ma intendendo “sono sincero”.

 

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Capitolo 13
*** 1.62: Decode - second part ***


1.62: Decode: to understand the meaning or the implications of something not obvious.

PART TWO.



« Kami. E dopo, cos’ha fatto? Ha picchiato il tuo amico? »
Università, ora di pausa. Panchina ovest: Sana, Den, Sayuki, Sota.
Racconti dell’orrore. Ehm, racconti del pomeriggio precedente.
Strabuzzai gli occhi: « Certo che no! Anche se da lui me lo sarei aspettato. Insomma, credo ci abbia fatto un pensierino »
« Diamine, peccato! Un bel litigio epocale, eddai Sana dì la verità: ti sarebbe piaciuto » Sota era in preda ad una sorta di delirio.
Dopo il compito di Sociologia avevamo continuato a vederci, noi quattro, ed ero abbastanza convinta che la conoscenza si potesse trasformare presto in una bella amicizia.
Oltretutto mi facevano morir dal ridere, soprattutto quando parlavamo di Akito.
E di Akito parlavamo spesso, per un motivo o per l’altro.
« No, non desidero assistere a spargimenti di sangue, soprattutto in casa mia. Sono una pacifista, io » scossi la testa, convinta.
« Sana, si stavano per battere per te! Non è romantico? » questa era Sayuki. Per inciso, la personificazione del concetto di romanticismo.
Sota la guardò, cercò di darsi un tono e chiese: « Vuoi che faccia a botte per te? Dimmi chi devo far fuori e io lo faccio. »
Scoppiammo a ridere. Ah, l’amore.
« Quindi non sono arrivati alle mani. E allora cos’è successo? » Den appoggiò il mento sui palmi.
« Ha detto “E poi lui la bacia. Bella mossa, Nao. Ci ho pensato anche io, ma eravamo in sesta elementare”, ha scosso la testa e si è fiondato in camera. L’ha chiusa a chiave, ’sto imbecille. Ho dovuto dormire sul divano » mi sfiorai la schiena indolenzita.
I tre erano rimasti interdetti.
« Oh, oh già. In sesta elementare gli ho versato addosso della limonata, mi sono avvicinata per sistemargli la maglia e lui mi ha baciata » chiarii guardando il cielo terso, guastato all‘orizzonte qualche nuvola.
Entro sera avrebbe piovuto.
« Quindi è come se avesse rivisto la scena, in un certo modo » anche Den alzò lo sguardo. Osservammo entrambi un aereo, chissà quanto in alto, che tagliava in due l’azzurro nella nostra visuale.
Alzai un indice.
« Con una differenza: Naozumi non mi ha baciata, e non intendeva affatto farlo. Non ci aveva nemmeno lontanamente pensato, ne sono certa. »
« Umh. »
« Non lo so, Sana, è una situazione un po’ strana. Cioè.. Non avete un equilibrio, tu ed Akito, a quanto mi par di capire » Sota si accese una sigaretta, tutto perso nel suo momento di filosofia.
Sayuki lo guardò malissimo.
Sota spense subito la sigaretta.
« Dicevo.. Prima ce l’avevate, quest’equilibrio. Da quando vi siete lasciati l’avete perso, e ci può stare finché non siete a stretto contatto. Ma ora vivete insieme, ed è necessario che lo ritroviate »
Sayuki boccheggiò. « Kami, non sapevo di avere un fidanzato intelligente! »
Io soffocai una risata, Den mi seguì a ruota e Sota.. Beh, Sota inarcò un sopracciglio.
« A parte che convivere col proprio ex fidanzato è una follia » commentò Den, osservando un punto indefinito fuori dal cancello « Ricordo ancora le parole che hai usato per dircelo. “Sono single, ma convivo col mio ex ragazzo e una coppia di amici”. Oddio, da brivido »
« Oltretutto » continuò, in assenza di reazioni « a me sembra che non vi sia ancora passata. A nessuno dei due »
Sota annuì, io corrugai la fronte, confusa.
« Sono d’accordo » disse « insomma.. Bambinate a parte siete troppo gelosi l’un dell’altra. E’ come se cercaste di camuffare il sentimento dietro all’odio »
« Oh. Oh. Per la seconda volta: ho un fidanzato ogni tanto intelligente! »
« ’Yu, io sono sempre intelligente  »
Annuimmo tutti e tre, poco convinti.
« Tornerete insieme » decretò Den, ed io gli tirai un pugno sulla spalla « Lo sai anche tu » si massaggiò l’arto dolorante.

« Sana.. Toglimi una curiosità »
Sollevai gli occhi dal telefono, dieci minuti dopo. Ero concentratissima a scrivere una mail a Fuka, nel tentativo di programmare un’uscita di shopping per l’indomani.
« Mh? » verso non identificato verso Den.
Sota e Sayuki erano andati a prendere qualcosa al bar, per cui eravamo rimasti io, lui, il mio cellulare e la panchina.
« Ma il tuo ragazzo è biondo? » se ne uscì dal nulla, restando sul vago.
Sospirai pesantemente. « Ex ragazzo, Den. Ex. Comunque sì, perché me lo chiedi? »
« E magari va pure a correre, il tuo ragazzo » eluse la domanda con una constatazione.
Cominciai ad innervosirmi per la prolungata assenza del prefisso “ex”.
« Ex ragazzo, Den. Ex. Sì, va spesso a correre. Non te l’avevo già detto? »
Annuì.
« A-ha. E nel suo armadio ci sono pantaloni della tuta neri, scarpe a-quanto-pare nere e maglietta bianca? »
Ero tentata di chiedergli il motivo di quell’ “a-quanto-pare”, ma il primo istinto fu di rispondergli per le rime e decisi di assecondarlo.
« Oddio, Den, è il mio ex ragazzo. Non bado al suo guardaroba »
Mi scoccò un’occhiata piuttosto chiara.
« Okay, sì, sì. Mi pare di sì » sbuffai.
Sorrise.
« Ma.. Come lo sai? » ipotizzai, la voce che tremava nel vedere il mio amico assumere un’espressione compiaciuta.
« Alza gli occhi, Sana » m’intimò « osserva il modo in cui ti guarda e capirai perché mi ostino a ripetere “ragazzo” senza quel fastidioso “ex” che ti piace tanto »
Invece di eseguire gli ordini rimasi intontita a fissarlo, la bocca semiaperta dallo stupore e gli occhi sbarrati.
Oh, okay. Quindi se Den mi chiedeva di alzare gli occhi per vedere Akito, Akito doveva pur esserci. Giusto?
Incredibilmente, scoppiai a ridere. Arrivai al punto di dovermi tenere la pancia.
Den mi fissava sconvolto.
« Certo, certo. Perché adesso io alzo gli occhi e c’è Akito. Sì, sì, convintissima! » tornai seria in un battibaleno « ti starai sbagliando. Sai quanti biondi girano per Osaka in pantaloni di tuta, scarpe nere e maglia bianca? »
Mi fissò per un minuto interminabile.
« Un sacco » ammise « ma dubito che ti guardino tutti così »
Al che io guardai inevitabilmente in avanti.
La mail a Fuka l’avrei mandata dopo, decisamente.
Aprii la bocca, poi la richiusi.
La riaprii.
« Oh »
Era davvero Akito.

***


« Che ci fai qui? » optai per il tono monocorde, appoggiandomi alla ringhiera.
« Correvo » fu la risposta secca.
« E come mai dovevi fermarti esattamente.. qui? »
« E’ suolo pubblico, Kurata, non rompere. »

Morale della favola, saltai le due lezioni pomeridiane.
Quando tornai da Den per riprendermi la borsa, mi dedicò uno sguardo talmente divertito da risultare persino fastidioso.
Mi rimbombarono in testa le parole che aveva detto.
« Non torneremo insieme. No. » annuii convinta.
Annuì anche lui, ma sembrava un po’ una presa in giro.
Sia chiaro che saltavo le lezioni soltanto per pietà. Aya e Tsu erano fuori tutto il giorno - a pranzo-e-cena dai genitori di lei - ed Akito aveva dovuto fare i conti col frigo perennemente vuoto.
Quindi io, magnanima Sana Kurata, avevo colto la palla al balzo per farmi odiare un po’ di meno - intimamente mi sentivo ancora toccata da quello scherzo di cattivo gusto che era stata la coincidenza della limonata sulla camicia di Nao.
Non era nelle mie intenzioni riappacificarmi con lui, eh. Era giusto per rendere la convivenza vagamente civile, nient‘altro.
Akito aveva deciso di non collaborare. Non parlava - ma quella non era una novità.
« Perché non hai pensato ad andare a prendere qualcosa al bar? Di solito dici che come cuoca faccio schifo » mi lasciai sfuggire.
« Come cuoca fai schifo. » precisò, ed io mormorai un “grazie” zeppo di sarcasmo « ma ho pensato che sarebbe stato meglio andare a fare la spesa. E non avevo voglia di portare tutte le borse da solo »
Smisi di camminare.
« Cosa? »
Si strinse nelle spalle.
Ricominciai a camminare.
« Aya ieri sera ha preparato la lista » frugò nelle tasche dei pantaloni alla ricerca del biglietto « dovrei avercela qui. »
Attesi, ed osservai in alto. Ottimo. Il cielo terso sembrava averci definitivamente abbandonati, sostituito da un paio di non promettenti nuvoloni neri.
« Ecco. » mi porse un rettangolo stropicciato.
Oh, Kami, sembrava dovessimo comprare intere scorte di guerra.
« Va bene. Prima tappa supermercato » decisi, fingendomi estasiata.
Mi seguì senza dire nulla.

***


Dovevo ammettere che l’università mi faceva bene. Oltretutto imparavo seriamente qualcosa, il che per me era tutto dire.
Ad esempio, il meccanismo di decodifica.
Ogni messaggio nasconde un altro messaggio, a volte.
Il messaggio nascosto è quello reale; può essere definito “allusione”, ma io per altri motivi lo chiamavo “sottotesto”.
Si possono intrattenere conversazioni basate interamente sul messaggio-nel-messaggio, e quando avviene è decisamente snervante.
Per quanto mi riguardava, accadeva con una sola persona.
« Hai degli amici, all’università » Hayama spezzò il silenzio - stranamente - quando mi allungai a prendere il sushi.
Decodifica: ti ho vista con Den.
« Sì, sai com’è, succede. Io parlo. »
« Touchè » (*) mi concesse, strappandomi di mano il sushi e andando a sostituirlo con un’altra marca.
Per il bene comune decisi di soprassedere, onde evitare un litigio in pubblico - e litigare per la marca del sushi non era il massimo.
Mi preparai alla ricomparsa del silenzio.
Sbarrai la scritta “sushi” sul foglietto con la matita, ascoltando il rumore della pioggia contro il tetto del supermercato. Diluviava.
« Vedo che vai d’accordo, con questi amici » proseguì, con fare elusivo.
Decodifica: vi ho visti scherzare.
« Già. »
« Allora probabilmente rivedrò quel tuo amico anche un sabato sera, no? »
Decodifica: siete solo amici?
Inarcai un sopracciglio, afferrando la scatola di cioccolatini che Akito aveva preso dallo scaffale più alto.
« Voglio quelli al latte, cambiali. Comunque per quanto riguarda Den » marcai bene sul nome « non credo siano affari tuoi. »
« Cambiali da sola » proferì « e comunque è affar mio »
« Non ci arrivo » porsi la confezione.
Lui sghignazzò, ma provvide a cambiarli.
« E.. Da quando ti riguarderebbe? »
« E’ affar mio chi entra in casa mia ed in camera mia. » poggiò i cioccolatini nel carrello.
Decodifica: voglio sapere con chi esci.
« Sì, interessante. » tagliai corto.
« Comunque complimenti, bella scenetta ieri pomeriggio » continuò a provocarmi.
Decodifica: me ne ricorderò la prossima volta, caro Nao.
« Non so a cosa tu ti stia riferendo »
« Certo. Tarda. » ma lo sussurrò soltanto. O forse l'avevo immaginato.

***


« Fantastico, Kurata. Semplicemente fantastico » attenzione: ironia in quantità industriali sul pianerottolo del quarto piano, di fronte alla porta dell’appartamento numero undici.
Porta irrimediabilmente ed irreversibilmente chiusa.
« Potrei dirti la stessa cosa, Hayama. Siamo in due ad essere senza chiavi » precisai, incrociando le braccia ed iniziando a tremare di freddo.
Come se già non fosse abbastanza - la casa, la camera condivisa, il venerdì sera, la gelosia - all’uscita dal supermercato avevamo realizzato di essere senza ombrello.
E Akito - il temerario Akito - si era stretto nelle spalle, aveva sussurrato « Che lagna, Kurata. Per un paio di gocce! » e si era incamminato sotto la pioggia.
No, non è corretto: si era incamminato sotto il diluvio universale.
Probabilmente i Kami si stavano divertendo così tanto, di fronte a quella scena, da piangere dal ridere e, considerata la loro quantità non indifferente - okay. Ero completamente fradicia.
Ma - e c’è l’ennesimo ma - non era ancora finita.
Di fronte alla porta chiusa di casa nostra avevamo scoperto di essere senza chiavi.
« Io le ho lasciate a casa volutamente. Pensavo le avessi prese tu prima di andare da Den all’università. » si accomodò sull’ultimo gradino, accanto alle buste della spesa.
Ennesima scoccata.
« Si dà il caso che io invece stamattina le abbia dimenticate » sorvolai sul capitolo Den « siamo pari. »
Sbuffò.
« Non c’è una chiave di riserva sotto allo zerbino? » valutai « è sempre così nei film »
Mi dedicò un’occhiata alla svegliati-la-vita-non-è-un-film.
« Dicevo tanto per dire » mi sedetti accanto a lui.
Silenzio.
Sembravano passate ore, poi finalmente trovai qualcos’altro da dire.
« Vuoi mangiare qualcosa? I sacchetti della spesa sono qui »
Di risposta iniziò a trafficare con le buste. Avrei scommesso qualsiasi cosa sul sushi, ma quella volta avrei sbagliato. Aprì la confezione di cioccolatini e ne mangiò uno.
Me la porse.
« Ti ricordi quella volta in cui hai tentato di prepararmi il pranzo? Terza, forse quarta superiore » osservò la scala.
Risi. « Sì. La signora Shimura era disperata. In effetti hai ragione, sono una pessima cuoca »
La tensione tra noi sembrava essersi momentaneamente smorzata.
E non mi lamentavo affatto.
« Non proprio pessima, dai » ammise, continuando a tenere lo sguardo lontano da me.
Nuovamente silenzio.
Presi un cioccolatino.
« Era comodo il divano, stanotte? » azzardò.
Appoggiò la testa sul poggiamano e mi guardò di sbieco. L’ombra di un sorriso.
Gonfiai le guance, irritata. « Vai a quel paese, Hayama.. »
Poi mi tornò in mente una cosa.
« Akito, tu mi devi una spiegazione »
Lo vidi irrigidirsi, la parola spiegazione non gli era mai piaciuta.
« Cos’ho detto nel sonno? »
« Non lo vuoi sapere » mi rispose serio.
Mi preoccupai, ed inevitabilmente arrossii.
Potevo aver detto di tutto - e non era confortante, diamine.
« E se io volessi saperlo? »
« Non te lo direi. »
Fu il mio turno di sbuffare.
« Come ti pare, Hayama. »
Altra dose di silenzio, spezzato dal rumore di cioccolatini scartati.
« Domani è venerdì » osservai, più per me stessa che per lui. Avrei dovuto trovare un impegno per la sera.
« E dopodomani è sabato » lo sentii ribattere « Den o Kamura, Kamura o Den? Questo è il dilemma »
Con quei due nomi la tensione ritornò a farsi sentire, quasi insostenibile.
Mi morsi un labbro per non proferir parola ma, ovviamente, non ci riuscii.
« Già. Tu invece con Keiko vai sempre sul sicuro, no? » mi lasciai sfuggire.
Fece cenno di sì con la testa.
« Ma non è carino, Sana, tenere due poveri ragazzi in ballo » provocò.
Quel giorno non faceva altro che provocare, e io non ressi.
« Sinceramente, Hayama, che ne sai? Non sai niente » mi alzai in piedi di scatto.
Per la foga urtai col piede la scatola dei cioccolatini, che scese un paio di gradini delle scale prima di aprirsi e riversare il suo contenuto per terra.
Mi sentii afferrare un polso e tirare all’indietro.
« Non so niente, eh? A me sembra che quella tarda che non capisce sia tu » di nuovo, gli occhi di Akito erano cattivi. Dalla misera distanza che ci separava riuscii a notarlo, e rabbrividii.
Strattonai il braccio per liberarmi, ma non mi scansai.
« Ancora con questa storia? Io so da che parte stare. Tu no! Non puoi permetterti il lusso di essere geloso, non puoi più »
Si massaggiò una tempia con due dita, nel tentativo di riacquisire il suo tanto fantomatico autocontrollo.
Mi resi conto, tutto in un momento, del motivo per cui Den, Aya, Tsu e anche Fuka fossero convinti, sebbene con diverse teorie, che la storia tra me e Hayama non fosse completamente conclusa.
Non c’era una fine netta, esattamente nel modo in cui non c’era stato un inizio preciso, all’epoca.
Eravamo sempre stati due universi tanto vicini da potersi sfiorare. Qualcosa come dei coinquilini di galassia, ecco. Una volta terminata la nostra storia avevamo cercato di creare un confine, un modo per cui i due pianeti non potessero più sfiorarsi.
Anzi no, non avevamo cercato nulla. Avevamo lasciato che le cose degenerassero a loro piacimento, fregandocene altamente perché, in fondo, nessuno dei due avrebbe mai nemmeno lontanamente ipotizzato di andare a vivere insieme all’altro - anche se non in quel senso.
I due pianeti avevano dovuto ricominciare a sfiorarsi per forza, al momento del trasferimento ad Osaka, e il confine venuto a crearsi generava attrito.
Puro e semplice attrito.
E c’era l’ostacolo - quel dannato ostacolo - di mezzo. Dovevamo superare quel confine o non sarebbe finita mai.
Ovviamente, identificare l’ostacolo era quanto di più complesso avessi mai dovuto fare.
Non mi ero accorta che nel frattempo si era alzato anche lui, restando un paio di scalini più in basso perché fossimo alla stessa altezza.
« Io geloso? Kurata, tu vaneggi » era furioso - perché era stato punto nel vivo?
Mi concessi una smorfia eloquente.
« Non sono geloso! Della tua vita puoi fare quel che ti pare. Vuoi instaurare un
ménage à trois (**) con i tuoi due nuovi amici? No problems! »
Okay Sana, sta’ tranquilla. Akito è un idiota, punto. Non sta dicendo seriamente, davvero.
« Evita i discorsi da poliglotta, Hayama. E, a proposito, bella battuta. Non sai niente e, a quanto pare, non sai niente di me. O almeno, non più. »
Per me la discussione era decisamente conclusa. Picchiettai un paio di volte col piede destro sul gradino, pregando che qualcuno lassù inviasse un aiuto nelle sembianze Aya e Tsu, magari. O forse una telefonata al momento giusto, ecco.
O anche solo un cambio d’abiti asciutto.
Starnutii.
« Sana » tono insolitamente calmo « puoi.. Puoi ripetere l’ultima frase, per cortesia? »
Ecco. Quel “per cortesia” era decisamente agghiacciante. Arretrai istintivamente, pronta a sentirlo esplodere.
Deglutii. « Ho detto che ormai non sai nulla nemmeno per quanto riguarda me »
In fondo lo pensavo davvero.

« Oh, questa è bella. Sana, dove vivi? » volevo quasi tapparmi le orecchie, tant’era alto il suo tono. Seriamente, rischiavo di dire addio ai miei timpani.
Sentimmo un rumore provenire dall’appartamento accanto.
« Io so.. » inspirò, abbassando la voce « io so tutto »
Come no. Mi coprii la bocca con la destra per non ridergli in faccia.
« Allora sono tutta orecchi »

E Akito perse definitivamente le staffe - e Akito parlò talmente tanto che.. colmò quelle due settimane di quasi perenne mutismo.
« Hai paura del buio. Adori il blu. Vorresti chiamare tua figlia Aiko»
Mi strinsi nelle spalle. « Queste cose le sanno anche i miei fan »
« Sicuro. Ma fammi finire. Vorrei passare ad una dettagliata descrizione fisica, ma credo non sia cosa da dirsi in un pianerottolo, dato che chiunque potrebbe sentirci, e inoltre tu mi diresti “spaccone”. L’hai sempre detto. So che il primo giorno dopo la mia partenza per l’America non hai pianto. Hai pianto il secondo, il terzo, il quarto. Ma il primo no, perché eri felice per me e per la possibilità che recuperassi l’uso della mano. Tra i dettagli più recenti so anche cosa dici mentre dormi - che, per inciso, altro non è che “Akito” ripetuto sette volte. Potrei andare avanti all’infinito. Chi non conosce chi, Sana? »
Cercai di ricordare come si respirasse. Ah sì, giusto: inspira, espira.
Inspira. Espira.
« Bravo » riuscii solo a dirgli « questo però non cambia le cose. »
« Sì invece. Tu, tu mi conosci? »
Alzai entrambe le mani. « Se non ti conosco io.. »
« Allora rispondi, sinceramente, ad un paio di domande: lo sapevi che quella tanto fantomatica vita da donnaiolo te la sei immaginata tu da sola? Keiko è venuta da me solo per chiedermi notizie riguardo a Ryuke. E come Keiko tutto il resto. »
Aprii la bocca, ma non riuscii ad emettere alcun suono.
Ero frastornata. Tutte le congetture, tutta l’irritazione, tutto.. Per niente?
Ero tentata di applaudirmi da sola, ma non sarebbe stata una bella scena.
« E ancora.. »
« Okay! Io sono scema e non ho capito niente. Va bene. Ma tu » gli puntai un dito contro, avvicinandomi « tu sei geloso. »
« Non sono geloso, Sana! La nostra storia è morta e sepolta da un anno! »
Mi sporsi ancor di più verso di lui. « Almeno sulla seconda parte siamo d’accordo! »
In quel momento - quando la distanza si ridusse ai minimi termini storici - capii finalmente quale fosse l’ostacolo.
E capii che avevo sbagliato, in parte, nella mia illuminante filippica sul pianeta Akito ed il pianeta Sana.
I due pianeti non potevano sfiorarsi per forza. Erano capaci di sfiorarsi solo in un modo.
Capii anche che Sota aveva ragione.
Lasciandoci avevamo perso l’equilibrio - l’unico modo in cui i pianeti sapevano sfiorarsi.
Non saremmo mai andati d’accordo, io ed Hayama, da amici. Mai.
Non l’avremmo mai trovato, quell’equilibrio.
L’ostacolo? La distanza.
Distanza minima uguale minimo raziocinio.
Sembrava quasi una formula matematica - e le formule sono il genere di messaggio che non serve decodificare.
Sarà stato quello, il motivo (di preciso ancora non lo so) per cui provai l’irrefrenabile impulso di prenderlo a testate. O comunque di fargli molto male.
Perché era un cretino.
E poi di baciarlo.
Perché era un cretino.
Il primo istinto era piuttosto sanguinolento, e sicuramente, in caso di morte da caduta dal quarto piano sarei stata l’unica indiziata - senza scampo.
Il secondo, invece, era stato deciso prima dal corpo che dalla mente.
Davvero, me ne resi conto dopo, che la mia bocca aveva colmato la distanza, che le mie mani stringevano dei capelli biondi.
E che le sue mani si facevano largo sulla mia schiena, sopra alla maglietta zuppa di pioggia, attirandomi a sé.
E dello sfiorarsi dei pianeti altro non restava che le mie labbra a sfiorare le sue, piano.
E le sue a sfiorare le mie, altrettanto piano, quasi con la paura che quell’equilibrio non riuscisse a ricomporsi.
Ma era l’unico sfiorarsi possibile dei due pianeti, l’unico equilibrio, quello, e le bocche riacquistarono sicurezza, addentrandosi più a fondo, e le mani a stringersi, freneticamente.
Come se un anno fosse passato per nulla.
Ritornai coi piedi per terra - riacciuffai il mio raziocinio momentaneamente in ferie - solo quando ci scostammo.
« Tu.. Mi hai baciato? » era sconvolto almeno quanto lo ero io.
Blocca tutto. E respira, Sana.
« Non lo so » ammisi, sinceramente stordita « secondo te? »
Degnò il soffitto di un’occhiata; lo faceva sempre.
Baciarmi. Cioè.. No, alzare gli occhi al cielo. Sì.
« Comunque sia preferisco la vecchia tradizione » e il nuovo bacio, stavolta, partì da lui, come ai vecchi tempi.

 

 

 


______________________________________________________________________________


In questo capitolo entrambe le note sono francesi :D
(*) touchè è letteralmente “colpito”. Nel linguaggio parlato assomiglia un po’ al nostro “colpito e affondato”, credo.
(**)
ménage à trois è il rapporto a tre persone :°D

Per le traduzioni, dato che il francese purtroppo non lo studio, si ringrazia Veronica <3


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Capitolo 14
*** 2.00: Constant ***


2.00: Constant: thing or value that always stays the same



Akito Hayama e Sana Kurata, l’uno addosso all’altra sul pianerottolo qualsiasi di un condominio qualsiasi in centro ad Osaka.
Un anno dopo.
Come introduzione potrebbe anche sembrare avvincente, non fosse per un piccolo, minuscolo, tralasciabile dettaglio: Sana Kurata sono io.
La stessa che ha passato un anno dietro le sue folli convinzioni di “separazione da ambedue le parti agognata”, varie ed eventuali.
Non idee - convinzioni.
Ero convinta che un anno fosse un lasso di tempo sufficientemente lungo da permettermi di stabilire dei paletti - cioè, di instaurare una convivenza civile basata su un innegabile affetto reciproco. Ben nascosto, ma fondamentalmente presente.
Ecco, affetto. Non qualcos’ altro.
Ero convinta che gli amori non tornassero - Fuka me lo diceva sempre, mai innamorarsi due volte della stessa persona.
Che poi, non sapevo nemmeno se lo fossi, innamorata intendo. Akito era lì, io ero lì, ci eravamo appena urlati addosso quanto la nostra storia fosse ormai un lontano ricordo, e.. l’avevo baciato. Mi aveva baciata.
Ci stavamo baciando probabilmente da ore - non che avessi controllato, orologio alla mano. La mia attenzione verteva altrove.
E, ciliegina sulla torta, non avevamo alcuna intenzione di smettere.
Dopo equivaleva ad una scelta forse scomoda. Dopo equivaleva ad una definizione - cos’era successo durante quelle ore, su quel pianerottolo, accanto alle buste della spesa? - che entrambi avevamo paura di affrontare.
« Oh » e noi eravamo tanto concentrati a perderci uno nelle labbra dell’altra da non accorgerci nemmeno di quell’esclamazione estranea.
« Oh! » il tono era indubbiamente più alto, ma momentaneamente l’udito - come gli altri sensi - era fuori uso. Troppo impegnativo usarlo.
« Tsu-Tsuyoshi.. » un respiro « ..voglio un pizzicotto. Qui, sul braccio. » pausa, altro respiro « O almeno, dimmi che stai vedendo anche tu quello che vedo io. »
In quel preciso istante riaprii gli occhi e indietreggiai, basita: accanto a me torreggiavano un’Aya e un Tsuyoshi alquanto scioccati.
« Sana?! » sputò tra le labbra tremanti, come a confermare che non si trattasse di uno scherzo.
Perché Sana, la sua Sana, predicava da un anno quanto le divergenze con Hayama non fossero superabili.
E Sana, la sua Sana, in normali condizioni non sarebbe mai stata a fare quel che senz’ombra di dubbio stava facendo quell’altra Sana.
Mi limitai ad annuire, più a me stessa che a lei.
Chiuse gli occhi ed inspirò forte.
« Noi entriamo.. Vero, Akito? » prese parola Tsu, visibilmente scombussolato. Si sobbarcò il non indifferente peso dei sacchetti della spesa, gli caddero le chiavi, le prese di nuovo - le mani gli tremavano leggermente.
Aprì con difficoltà la porta e si schiarì la gola.
Solo in quel momento Akito comprese l’antifona e, in un all-inclusive di faccino confuso e una mano tra i capelli - al posto mio - raggiunse l’inseparabile amico e si chiuse la porta alle spalle.
Espirai.
Aya si sedette sul primo gradino, gli occhi appena riaperti e l’espressione di vacua attesa.
« Sana » ripeté « ti prego. »
Cercai la voce, persa chissà quante ore prima assieme al respiro.
« C-Cosa? » mi accomodai accanto a lei, eliminando dalla memoria il vivido ricordo di chi si fosse seduto al posto suo giusto qualche ora prima.
E soprattutto di cosa fosse accaduto dopo.
« Ti prego, dimmi che non ho le allucinazioni. Dimmi che quello che ho visto poco fa è vero. Dimmelo. » suonava quasi disperato.
« A-ehm, diciamo che.. » iniziai, ma Aya era tanto sconvolta da decidere di saltare i convenevoli, interrompendomi.
« E’ successo davvero? »
Deglutii. « ..Sì. »
Chiuse gli occhi - io mi chiesi distrattamente quale dovesse essere la mia espressione, di nuovo. Magari sembravo una perfetta cretina - ero una perfetta cretina - o magari una cretina beota, meglio ancora.
Lo shock si tramutò presto in qualcos’altro: guardai nuovamente verso Aya e non riuscii a non notare il sorriso che si era allargato sul suo viso.
« Oh, Sana, te l’avevo detto! » urlò quasi, battendo le mani, ed immaginai che non stesse saltellando solo per non destare sospetti ai vicini circa la nostra sanità mentale.
« Ho come l’impressione che me la sentirò ripetere spesso, questa frase. » scossi la testa, disegnando dei cerchietti immaginari sul gradino.
« Mmh. »
Sperai che la conversazione si chiudesse lì - ma ovviamente sbagliavo.
« Sana? »
Cominciavo a perdere la pazienza, lei e le sue dannate domande di rito!
“Senti, sono ancora sotto shock pure io, okay? Non è.. Non l’avevo messo in conto, quindi lasciami abituare all’idea, chiaro?” le avrei volentieri riversato addosso, se solo ne fossi stata in grado. Ma di certo non lo ero, così mi limitai a ripetere: « Sì? »
« Kami, io.. Io non me l’aspettavo. Cioè, ci credevo all’inizio, ma ormai avevo anche perso le speranze. Cosa farai adesso? »
Eccola, la domanda più difficile.
Ricordo che spesso definivo Aya la mia coscienza. E il motivo era sempre più palese.
« Non ne ho la più pallida idea. »
« Sana! » mi rimproverò « come puoi dirmi una cosa del genere? Quello è Akito, accidenti »
Gli occhioni dolci avevano lasciato posto ad un’espressione indignata.
Aggrottai le sopracciglia, in richiesta di spiegazioni.
Aprì bocca - ma la richiuse subito dopo. Scosse la testa.
Seguivo come un automa i suoi gesti secchi dettati dalla sorpresa.
« Una parola soltanto » espirò.
« Quale? »
« Mi chiedo spesso come fai a non arrivarci » le sue spalle crollarono.
Mi sentii punta nel vivo: non era la prima a ripetermi che scaltra non era l’aggettivo che più mi si addiceva.
« Me lo chiedo anche io » buttai lì, tergiversando.
Aya però non aveva smetto di sorridere. Mi pose una mano sulla spalla e con l’espressione più beata in viso mi confessò uno dei suoi desideri più grandi: « Sogno di dirti questa frase da secoli. Riprenditelo, Sana. Riprenditelo. »


***

 

Aya fu tanto gentile da invitare Fuka a cena, ovviamente. Sperava che la buona novella equivalesse ad un qualsiasi tipo di ricongiungimento serio, o forse voleva soltanto godersi la scena: inutile dirlo, nascondere qualcosa a Matsui era matematicamente impossibile.
Non sapevo ancora come, ma lei l’avrebbe scoperto.
Se non altro, comunque, riuscii ad evitare Akito per tutto il tempo. Era una situazione assurda, a ben pensarci, mi sentivo terribilmente inadeguata.
E probabilmente Hayama condivideva tutte le mie sensazioni, dal momento che si isolò in camera - io badai bene ad evitare quell’ala della casa.
Ed immaginai che anche lui sapesse a cosa stavamo andando incontro, con quella cena. Deglutii.
Mi accomodai a tavola e notai solo allora che Tsuyoshi, pesantemente ironico causa buonumore, aveva preparato il piatto di Akito accanto al mio.
Takaishi alla mia sinistra, Tsu alla destra di Akito - rispettivamente ai due estremi. E le fidanzate di fronte a noi - giusto perché Aya potesse osservare maniacalmente ogni dettaglio della cena. E magari anche Fuka.
Sospirai.
« Grazie per l’invito » Matsui entrò in scena in versione tornado, fidanzato al seguito - e a dirla tutta ero tanto distratta da non aver sentito nemmeno il campanello.
Era l’inizio dei giochi.
« Sana, accidenti che faccia » constatò, avanzando verso il tavolo.
Un fantastico inizio dei giochi.


« E quindi mi sono detta.. Perché non accettare? Insomma, sarà un programma un po’ noioso ma comunque ben pagato. Non che me ne intenda di calcio, ma se non altro mi impegna solo due ore al giorno. Sana, tu che ne pensi? »
Fuka era un vero mito. Voglio dire, doveva aver qualcosa di strano nel patrimonio genetico, altrimenti non si poteva spiegare come riuscisse a dire così tante cose in così poco tempo. Da emicrania, veramente.
« Sana, ma mi ascolti? » ripeté.
Non le badai, continuando a fissare il mio piatto.
« Kurata » quella voce, invece, era impossibile da escludere - inoltre il sarcasmo di cui era intrisa avrebbe svegliato chiunque « la terra ti chiama. Rispondi. »
Non riuscii a bloccare il sopracciglio destro, che scattò verso l’alto. Mi voltai stizzita - soprattutto perché, nonostante le ore sul pianerottolo, il suo detestabile tono non era cambiato di una virgola - e decisi di rispondere per le rime.
« Hayama, ma vai a qu- »
« Oh, siete sempre i soliti! » mi interruppe Fuka, poggiando le bacchette sopra al tovagliolo.
Deglutii vistosamente - e di sicuro anche qualcun altro doveva aver colto una nuova interpretazione a quell’esclamazione.
Mi versai un bicchiere d’acqua per autoconvincermi a non rispondere “Oh Fuka, oggi non sai quanto hai ragione”.
« Dicevi? » presi le redini del discorso, fingendo interesse, dopo aver bevuto un sorso. Ma Fuka già non mi guardava più.
« Akito » si sporse un po’ verso di lui « certo che anche tu hai una faccia parecchio strana oggi »
« Mi starò ammalando » e si fiondò sull’ennesima porzione di sushi.
Sospirai. Si prospettava una cena estremamente lunga.


Prestai attenzione, ci provai davvero. E, per quanto una parte del mio cervello rielaborasse tutte le possibili implicazioni dell’ormai definito “caso-pianerottolo”, ci riuscii.
Almeno fino al momento del dolce.
Avevo sempre adorato i Taiyaki, (*) soprattutto quelli al cioccolato. Era di certo una valanga di chilocalorie concentrata in uno stampo a forma di pesce, ma non ero il tipo da stupide paranoie per il cibo.
Il Taiyaki che stavo mangiando quella sera, però, mi sembrò tremendamente insipido a confronto della mano sinistra di Hayama che, discretamente, si allungò a sfiorare - lo sfiorare giusto, l’unico possibile - le mie dita, sotto al tavolo.
Rabbrividii e lo guardai con la coda dell’occhio - incredibile quanto quel semplice tocco riuscisse quasi ad essere elettrico, ed un istante dopo tremendamente naturale.
Perché la verità - era innegabile - le sue dita erano state intrecciate alle mie per tanti anni da essere divenute una sorta di costante della mia vita.
Qualcosa che per tanto tempo era stato essenziale - il dove, il quando e il chi erano superflui. Bastava quel suo gesto a rendermi sicura.
E incredibile quanto allo stesso tempo lui fosse imperscrutabile sotto la facciata di ventenne interessato al discorso sul marketing aperto da Takaishi.
Avrebbe potuto fare l’attore, se solo avesse voluto - andiamo, non gliel’avrei mai permesso.
Il suo indice sfiorò il dorso della mia mano.
Lo sfiorò di nuovo.
« Sana, non è che mi passeresti l’acqua? »
Ancora una volta.
« Kami, questa ragazza è sorda »
Risposi al contatto, con la coda dell’occhio controllai Akito - fremeva - e nel campo visivo notai anche una Fuka borbottante sporgersi verso la fantomatica bottiglia d’acqua e fermarsi.
« Questa.. Questa poi » solo la voce spezzata attirò la mia attenzione.
Fuka, ancora allungata sul tavolo, guardava sbigottita l’acqua di fronte a sé.
« Cioè. »
Sorrise - la quiete prima della tempesta. Ma io ancora non ne avevo idea.
Con la mano libera mi grattai la testa, confusa. « Fuka » iniziai « toglimi una curiosità: che c’è di sconvolgente in una bottiglia d’acqua? »
Boccheggiò, balbettò e si strinse nelle spalle contemporaneamente. E non era affatto da lei.
Valutai in quanti secondi sarebbe tornata in sé - e avrebbe ricominciato a parlare a raffica, quindi -; mi decisi per tre.
E ci azzeccai.
« Sa-Sana » poi ritrovò la lucidità « l’acqua è trasparente. Ci vedi attraverso, lo sai no? »
“Fino a prova contraria” volevo risponderle, ma non mi lasciò tempo.
« ..e io ci ho visto attraverso. Pensa che ho visto l’ultima cosa che credevo di vedere, la cosa per cui adesso tutti i presenti eccetto noi due lasceranno momentaneamente questa stanza! »
Il resto della combriccola era tanto interdetto quanto me.
Calò un imbarazzante silenzio - come unica costante la mano di Akito nella mia.
« allora? Siete tutti sordi stasera? » Fuka aveva incrociato le braccia al petto.
Gesto tipico, che qualora abbinato al tono autoritario poteva significare solo l’assenza di qualsiasi altro tipo di possibilità.
Aya, Tsu e Takaishi e alzarono subito, Akito allontanò la mano dalla mia e li seguì.
« Tu » e mi indicò con l’indice.
Mi ravvivai i capelli, sempre più confusa - ma anche leggermente nervosa.
« Io? »
« Oh, Sana. Potrei mettermi ad urlare. Forse è meglio che raggiunga il terrazzo quanto prima. Mi sto trattenendo un sacco. » gli occhi le brillavano sinistramente.
Okay, io non ero di certo scaltra. Ma lei non era di certo chiara.
« Puoi.. Puoi parlare in modo normale? » azzardai, mentre lei si allontanava verso il suddetto terrazzo.
Sembrava accaldata.
Bloccò tutti i muscoli del corpo. « Sana, io ho visto. Ho visto le vostre mani, capisci? Kami. Non hai qualcosa di forte? Un liquore, che so. Mi devo riprendere » e, se possibile, diventai esattamente come il muro: bianco e freddo.
Poi arrossii. « No.. Non cominciare, ti prego. »
Mi morsi il labbro inferiore Mi si era chiuso lo stomaco dalla vergogna - addio Taiyaki avanzato.
« Sana, ho già visualizzato i tuoi prossimi tre anni con Akito »
La guardai nuovamente, la fiammella viva nei suoi occhi determinati. E dire che aveva bevuto solo un paio di bicchieri d’acqua.
« Fuka, frena! » ero preoccupata. Decisamente preoccupata.
Il cantiere-Fuka era di nuovo in piena attività, e viste le circostanze avrebbe persino potuto organizzare un matrimonio a sorpresa. Io, invece, non sapevo nemmeno che situazione avrei dovuto affrontare un paio di ore dopo, in camera con Hayama.
« Sembrava di essere tornati ai tempi delle medie » si sciolse nel suo miglior sorriso, che smorzò la tensione e sciolse anche me.
« Beh, almeno ti sei risparmiata la scena del pianerottolo. » alzai le mani, esasperata « Aya e Tsuyoshi devono ancora riprendersi. »
La sua occhiata eloquente mi fece capire che il mattino successivo, prima di registrare alla radio, sarei stata decisamente occupata a raccontare ogni minimo dettaglio. (Fantastico, ennesimo pensiero da trasformare in insonnia. Perché non me n’ero stata zitta?)
« E adesso sbatti fuori casa quell’oca dei venerdì. A calci in culo, possibilmente » (**) Fuka era e restava il mio coraggio, era ormai risaputo. O per meglio dire il coraggio che a me mancava.
« Fammi bere qualcosa di forte, Sana » si massaggiò le tempie con le dita « E poi vedi di riprendertelo. »

Forse, inconsciamente, lo decisi in quel momento - anche se ovviamente mi resi conto della direzione intrapresa solo quando ormai c’ero dentro fino al collo.
Coscienza e coraggio urlavano la stessa, unica parola.
E quando coscienza - testa - e coraggio - cuore - sono dello stesso avviso..
Mi ritrovai a sorridere all’affermazione di Fuka, cercando quel “qualcosa di forte” che in casa non avevo.
E poi annuii.


 

 

__________________________________________________________
(*) QUESTI sono dei Taiyaki.

 (**) Fuka non è ancora a conoscenza delle “novità” sul fronte Keiko.

 

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Capitolo 15
*** 2.11: Home - first part ***


2.11 : Home: Where your heart is.

PART ONE.

 

 

Mi sentivo una bambina.
Oh, non solo: mi sentivo una bambina, avevo le mani che tremavano e il cuore che mi batteva furiosamente in gola. Non sapevo cos’aspettarmi né con cosa avrei dovuto fare i conti, una volta aperta la porta e incrociato lo sguardo del mio coinquilino. Così tergiversavo, aiutando Tsuyoshi a sistemare.
Aya era sotto la doccia, nel frattempo, ed Akito recluso nella nostra stanza. Ovviamente.
Dopo l’uscita di scena di Fuka - assolutamente non in sordina - l’imbarazzo si era quasi moltiplicato, se possibile.
Il primo quarto d’ora era stato riempito dagli interrogatori: che ti ha detto Fuka? Che cos’ha visto? E’ successo qualcosa?
Una frase dopo l’altra, insomma, sparata da due mitra (che per l’occasione erano le bocche di Tsuyoshi e della sua ragazza.)
Hayama arrossendo - ma non ne ero sicura - si era defilato, io mi ero cucita la bocca dopo aver sparato la balla del secolo. “Oh. Doveva parlarmi di Nao, ha visto.. Ha visto un certo articolo sul giornale..”.
Di certo non mi avevano creduto, ma non ci avevo fatto caso - ero troppo occupata con la mia dose quotidiana di paranoie: altri cinque minuti se n’erano andati sperando con tutto il cuore che Akito non avesse ascoltato la mia uscita su Kamura.
Si sarebbe arrabbiato. E per inciso, già non era una passeggiata parlarci quando verteva in condizioni normali - mutismo, allusioni e tutto il resto -  figuriamoci quando era anche irritato.

« Vai pure, faccio io » la voce gentile di Tsuyoshi mi risvegliò dal marasma di pensieri che mi era esploso in testa.
Solo in quel momento mi resi conto di quanto dovessi apparire assorta: ero lì, accanto a lui che si dava da fare nel lavaggio dei piatti e... Stavo asciugando la stessa stoviglia da chissà quanti minuti ormai.
« No, no, figurati » scossi la testa. Attraversare il corridoio ed affrontare l’ignoto era il mio ultimo desiderio.
Si voltò, sorridente.
« Sai, non ho ancora avuto occasione di dirtelo. Sono davvero contento » e mi spiazzò.
Tsu era buono - lo confermai in quel momento.
Appoggiai lo straccio sul piano, leggermente a disagio. Quel suo modo semplice e sincero di dire le cose - e dirle davvero, senza troppi fronzoli che rischiavano soltanto di creare attrito - riusciva a lasciarmi a bocca aperta anno dopo anno. O, per la precisione, giorno dopo giorno.
Non finivo mai di stupirmene: Tsuyoshi, l’impacciato, timido e costante Tsuyoshi, pur patteggiando a volte per l’ala y (*), era un vero amico.
Sentii gli occhi bruciare per un secondo; ripresi lo straccio e continuai ad asciugare.
« Beh.. Grazie. Ma non so nemmeno io cos’abbia significato quella.. Quella.. » sospirai, incapace di dare un nome alla scena del pianerottolo « cosa che avete visto. Non ne abbiamo parlato »
Annuì. « Lo so. Ma prima o poi arriverà il momento del confronto, no? E’ il motivo per cui te lo ripeto: vai di là, Sana. Finisco io qui. »
« Ma » notai che la voce mi tremava da matti, così abbassai il tono fino a bisbigliare, quasi, nel tentativo di camuffarla « è esattamente quello il problema. Io.. Non so cosa aspettarmi. »
Mi sentii improvvisamente più leggera. Avevo condiviso i miei timori con una persona che - ne ero certa - li avrebbe presi seriamente in considerazione, e non derisi come magari, scherzando, spesso capitava con Fuka.
Fuka che comunque li prendeva in considerazione, non c’era dubbio. Solo dopo aver detto la sua, però.
Erano due generi di amici diversi tra loro, eppure entrambi essenziali per farmi sentire sempre a posto, a casa, anche quando non c’ero.
Poi sorrise. « Beh, siete in due. »
Mi morsi il labbro, stringendo forte la stoffa tra le dita. Mi sentii per un attimo terribilmente egoista: in fondo tutte le mie insicurezze le stava vivendo anche Hayama, chiuso in camera nel buio della sua testa, conoscendolo.
« E.. » stavolta fu il turno di Tsu: abbassò il tono ma notai distintamente il timbro tremante nella sua voce « Credimi, » - non l’avrei mai messo in dubbio comunque - « perché Akito quell’espressione l’ha avuta in faccia solo tre volte. »

***


Se all’inizio l’agitazione si era palesata solo attraverso quel leggero tremolio delle dita, quando abbassai la maniglia imponendomi di fare il minor rumore possibile stavo tremando come una foglia. Letteralmente - da testa a piedi.
Ed era assurdo da dire, ma la sensazione che mi pungeva dritta lo stomaco, senza pietà, era esattamente quella che avevo provato il giorno in cui io ed Hayama ci eravamo lasciati.
Il... Sapere che ci sarebbe stato, ma il non sapere come.
Di certo, non più come prima.
All’epoca era stato un allontanamento, in quel preciso istante era la possibilità che i centimetri di distanza si accorciassero fino a diventare millimetri. O fino a non esistere davvero più.
Incerta sul da farsi, mi schiarii la gola, ed Akito alzò gli occhi verso di me.
Era proprio come l’avevo immaginato: seduto sul letto con la schiena appoggiata alla testiera, gli occhi aperti ma assenti. E la maglia col logo della palestra in cui lavorava - che aveva preso il vizio di usare esclusivamente come pigiama.
« Sei... Sei rimasto sveglio » chiusi la porta dietro di me.
« Già » monosillabico, lapidario, teso.
Cercai di sorridere.
« E allora ci siamo, eh? » cominciai.
Spalancò le iridi ambrate, e tentò subito dopo di ricomporsi. « Kurata. Non questa frase. » (**)
Mi morsi la lingua - non sarei cambiata mai, mai, mai - e mentre cercavo una qualsiasi scusa mi resi conto di quanto quella frase, invece, s’intonasse col mio stato d’animo.
Così optai per la verità, senza fronzoli. Pura, semplice e disarmante verità. Come Tsu.
« Invece è la più adatta per come mi sento ora »
Continuava a fissarmi, immobile, e mi fece una tenerezza tremenda. Incredibile come le parole di Tsuyoshi mi stessero condizionando la serata - e me la stessero condizionando in meglio.


« Vedi » aveva detto Tsu « non ci vuole molto per capire Akito. E’ come se avesse una corazza, intorno. Con quella lui si è sempre difeso. Quella corazza ha sempre escluso il resto dal suo mondo. Quello sicuro, quello essenziale. Poi, Sana, sei arrivata tu. E gliel’hai strappata di dosso, quella corazza, quasi fino a farlo sanguinare. Più lui cercava di allontanarti più tu non ti davi per vinta. Te l’hanno sempre detto tutti che eri una bambina piuttosto testarda, no? Ecco. Ma piuttosto, considera la corazza come una parte di lui. Rende meglio il concetto, perché Akito di quella muraglia non si libererà mai. Tu sei riuscita ad entrare nel suo mondo, quello sicuro, quello essenziale. Il resto è rimasto fuori, ma tu c‘eri Sana, e si vedeva. Era più tranquillo - era più felice. Quando.. » e la voce gli era vibrata, gli era vibrata terribilmente.
E a me era vibrato il cuore, perché sapevo cosa stava per arrivare.
« La prima volta che ha fatto
quella faccia è stato quando ti sei ammalata. Ecco, era l’espressione che ha chi si ritrova improvvisamente senza la terra sotto ai piedi. Tu eri debole, non riuscivi a badare a lui com’eri solita fare. Era come se gli avessi strappato di nuovo a sangue la corazza per uscire dal suo mondo. »
« Il mio sentimento per lui era amore adolescenziale e amore materno; con.. Con la malattia ho perso quella maternità e sviluppato unicamente il desiderio di essere sostenuta a mia volta » avevo ripetuto, quasi in trance, un passo del libro del dottor Iwasaki che per ovvi motivi non avrei dimenticato mai. (***)
« Esattamente. Nel momento in cui tu ti sei sentita completamente spiazzata ti sei ammalata. E lui.. Lui ha fatto quella faccia. Sono modi di reagire. »
« E la seconda? » mi aspettavo dicesse “quando vi siete lasciati”.
« All’aeroporto, un attimo prima di partire. Era sereno, tu eri guarita, ma.. Come puoi chiedere a un ragazzino di tredici anni di “essere forte” di fronte alla prospettiva di tre anni in America? Di fronte all’ottanta percento di possibilità che al suo ritorno sia tutto irrimediabilmente cambiato? E’ umanamente impossibile. » aveva alzato di più la voce, sicuro.
Ero sorpresa. « Non è cambiato niente, in quel periodo. Quando è tornato le cose erano rimaste esattamente come tre anni prima. »
« E’ il motivo per cui sono contento per voi. Perché vedi, anche prima.. Per voi passa il tempo ma è come se non passasse mai. Ogni separazione.. Poi non conta più » si era guardato le mani per un istante « Non so come spiegartelo. E’ come se voi foste
legati. A prescindere dal tempo, dallo spazio.. E’ una cosa bellissima »
« E' come se restasse comunque nella mia orbita » (****)
Aveva sorriso. « Sì. »
Mi ero sentita improvvisamente un macigno sul cuore. Erano parole importanti, quelle, erano parole
vere.
Probabilmente erano anche concetti a cui sarei potuta arrivare da sola, se solo avessi abbandonato quella folle paura che mi attanagliava lo stomaco.
Paura di rimettersi in gioco e poi accorgersi che non esiste più, quel gioco.
Poi avevo ripreso lucidità, curiosa.
« Ma allora “quella faccia” » avevo mimato malamente due virgolette « l’ha fatta per quattro volte. Non tre. »
Tsuyoshi aveva scosso la testa, convinto. Aveva già capito a cosa stavo mirando.
« Te l’ho appena detto. Voi siete
legati. Non bastano né una separazione di tre anni per motivi di salute né una di un anno perché.. Perché vi condizioniate l’un l’altra credendo di non essere abbastanza a tal punto da farvi lasciare »
« No » l’avevo interrotto, convinta « noi
ci siamo lasciati »
« Se vi foste lasciati dubito che vi avrei beccati sul pianerottolo a- »
« Vai avanti » ero arrossita, inducendolo a tralasciare.
Cominciava a divertirsi.
« Voglio dire, è come se foste rimasti in stand-by, più o meno. Adesso avete fatto il passo, no? »
« Direi »
« E quell’anno passato.. Uno nell’orbita dell’altro, come dici tu, ma non come prima, è quello che fa tremare te e stampa in faccia a lui quell’espressione. Perché a dispetto di tutto avete vissuto in stand-by, ma avete
vissuto. Non è una cosa da poco. Vi è servito a capire che la strada giusta era riavvicinarvi, e se adesso.. Se adesso siete tanto stupidi da buttare tutto all’aria, è la volta che vi lasciate sul serio. »
Tsuyoshi aveva ragione. Non c’era altro da aggiungere.
« E immagino che a tutto questo tu ci sia arrivato da solo » avevo sorriso, sollevata dall’idea che i discorsi importanti fossero finiti. Avevo un disperato bisogno di riflettere, ma non ne avevo materialmente tempo.
« Immagini correttamente »
Altro sorriso.
« Ma » e mi ero sentita in colpa. Non avrei dovuto chiedere a Tsuyoshi, ma ad Akito.
« Sì? »
« Quando sono rimasta fuori con Aya, lui.. Lui che ti ha detto? »
Ma tanto Hayama non me l’avrebbe confessato mai.
« Gli ho chiesto cosa significasse quel bacio, e.. »
« E? » pendevo dalle sue labbra. Sapere quei dettagli rendeva l’imminente futuro un po’ meno spaventoso ed incerto.
Fortunatamente per me non considerava quelle notizie come un piccolo tradimento, e mi aveva risposto ridendo: « Dimmi una reazione da Akito »
Oh. Di lì le cose si sarebbero certamente messe male, ne ero certa.
« Una frase tipica » incalzava, allegro.
« Le frasi tipiche di Hayama sono l’assenza ingiustificata di parole o il suo “non mi dispiace” »
« “Non lo so, ma comunque non mi dispiace”. » e mi aveva lasciata da sola in cucina, andando a raggiungere Aya.



« Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo » confessai, tornando al presente e stringendomi nelle spalle « di un anno, per l’esattezza. Il giorno in cui entrambi sapevamo cosa ci stavamo lasciando alle spalle ma non cosa avremmo dovuto affrontare »
« Solo che stavolta si presume che la frase abbia una connotazione positiva » incrociò le braccia.
Evitai di rispondere e mi morsi un labbro. Ascoltare Hayama esprimersi con frasi complesse mi aveva sempre causato incontrollabili attacchi di risa. Così, all’improvviso.
E risi ancora.
In fondo non era la prima volta che mi capitava: quante pessime figure, accumulate in diciannove anni, quante risate fuori luogo giusto per il gusto di ridere.
Sembrò offendersi, ed io mi tappai la bocca per non scocciarlo ancor di più.
« Adesso riprendiamo anche con le vecchie abitudini » commentò ironico, concedendosi una lieve smorfia.
Ringraziai mentalmente i Kami per aver smorzato la tensione.
« Scusa. Sai che quando articoli certe frasi.. »
« Articolate?! » suggerì, esasperato.
« ..esattamente, scoppio a ridere. E’ sempre stato così »
Le stesse vecchie abitudini, come se un anno fosse passato per niente. Proprio come diceva Tsu.
« Ricordo. Ma non è di questo che sentivo la mancanza » si lasciò sfuggire, lanciando una frase volutamente allusiva.
« Hayama, dalla tua precedente frase si evince che avvertivi la mancanza di qualcosa. Ebbene, posso sapere cosa? » cercai di darmi un tono, mentre gesticolavo scenograficamente.
Strano come mi riuscisse naturale scherzare. Stavamo parlando di cose serie, per la miseria!
Sì coprì la fronte con una mano. « Devo dire a Tsuyoshi di fare attenzione alla concorrenza. Questa faceva molto da avvocato »
« Guardi troppi film » lo apostrofai, ben sapendo di averla appena sparata grossa.
« Sicuramente » annuì sarcastico « questo dimostra quanto poco mi conosci »
E la provocazione colpì in pieno.
Il sorriso mi si spense nelle labbra. Avanzai fino al mio letto, mi ci stesi ed abbracciai il cuscino.
« Non è vero » commentai secca, guardandolo dritto in faccia.
Calò il silenzio.
« Lo so »
Spostai lo sguardo sulla piega del lenzuolo.
« Hayama? »
« Che c’è? »
Inspirai e presi coraggio: « Penso che dovremmo parlarne. »
Sospirò. « Va bene »
Fui travolta da un’ondata d’irritazione. Dannazione, era impossibile. Era un muro, quel ragazzo era un muro - anche un mulo, con quel suo solito muso...
A qualsiasi velocità avessi guidato, non sarei mai riuscita a sfondare la parete. Era cemento armato, o addirittura qualcosa di più resistente, forse.
« Sempre collaborativo, mi raccomando » inveii, liberandomi del cuscino per tirarglielo in faccia.
« Già. In realtà ti conosco talmente bene da sapere persino quali sono le frasi che ti fanno perdere le staffe. E Sana, la tua espressione ogni volta che te le dico è impagabile. » commentò, afferrando il cuscino che gli avevo prontamente tirato addosso.
Mi alzai in piedi, sperando che grazie alla tanto rinomata forza di gravità la rabbia potesse in qualche modo scendere ed impossessarsi del corpo dell’inquilino dell’appartamento sottostante. Non era possibile.
L’aveva sempre fatto apposta.
« Razza di c- »
« Ricominciamo con le offese, Kurata? » si alzò anche lui, sempre il mio cuscino tra le mani, venti inutili centimetri a dividerci.
Boccheggiai, alla ricerca di una buona risposta.
Risposta che non trovai, così mi affidai al repertorio, concludendo, nel dettaglio, anche la frase precedentemente interrotta: « Cretino »
Lo sibilai apertamente, socchiudendo gli occhi.
Mi porse il cuscino, lapidario - ed iniziai a preoccuparmi, in fondo. Magari si era offeso sul serio.
« Un cretino gentile » chiarì, mentre si allungava per prendere il suo guanciale « A cui piacciono le battaglie ad armi pari »
E poi mi colpì.
Non per dire, ma essere presa a cuscinate da Akito Hayama non rientrava nelle mie priorità. Vivevo benissimo senza, oltretutto considerando che rischiava di diventare un vizio. Già la seconda volta solo nell’arco di tempo trascorso ad Osaka - soprassedendo le innumerevoli cuscinate all’epoca in cui stavamo insieme. Ma quelle volendo potevano essere scalate dalla lista, dato che i motivi erano certamente ed unicamente scherzosi.
Spalancai la bocca - lui nel frattempo aspettava la mia prossima mossa, col cuscino appoggiato sulla spalla quasi fosse un fucile.
Mirava dritto al cuore?
E contrattaccai, continuando a riempirlo di insulti - forse anche quello stava diventando un vizio.
In breve tempo ci ritrovammo coperti di piume e ansanti, lui appoggiato alla pediera del mio letto ed io comodamente stesa al contrario.
In definitiva, i discorsoni erano andati a quel paese e la camera sembrava un pollaio.
« Domani lo ripulisci tu questo schifo » sillabai, concentrando la poca forza rimastami per allungare il braccio ed indicare i quattro metri per quattro zeppi di caos.
Lo sentii avanzare di qualche passo e poi scansarmi più in là - quasi caddi dall’altro lato.
Si stese sul mio letto, di fianco a me.
Pelle contro pelle.
« Scordatelo » incrociò le braccia dietro la testa.
« Hai cominciato tu. Pulirai tu, e non voglio storie »
« Contaci » e sull’angolo destro della sua bocca spuntò un ghigno.
Continuai a guardarlo - e a convincermi che no, non lo volevo assolutamente mordere, quel ghigno lì a destra.
Aprì soltanto un occhio, senza ombra di dubbio per accertarsi del mio livello di arrabbiatura.
« Questa era una di quelle che ti facevano incazzare, se non sbaglio »
« E’ la tua strafottenza in genere, Hayama, di esempi ne puoi trovare a palate »
Il ghigno si estese a metà bocca.
« Pensavo dicessi a “bizzeffe” e poi scoppiassi a ridere da sola. »
Strabuzzai gli occhi, continuando a fissare il soffitto, il suo respiro accanto.
Cercando di arrabbiarmi come avrei fatto in normali condizioni.
« Rido quando sei tu a parlare strano, non quando lo faccio io » chiarii.
« Oh, saresti perfettamente in grado anche di ridere da sola. Ti conosco. »
Strinsi i pugni. Il mio cervello era diviso a metà. La parte a sinistra, quella più lontana da lui, mi consigliava di mantenere la calma. Ma la destra - oh, la destra - moriva dalla voglia di tirargli un pugno.
Stargli accanto mi rendeva violenta, era un problema da risolvere.
Inspirai, e lesse la mia indecisione interiore come un’arrabbiatura.
« Anche questa rientra nella categoria dei “preparati per incazzatura” , a quanto vedo »
E il ghignò prese la sua forma piena, contagiando anche l’angolo sinistro e spezzandomi il fiato.
« Ne parli come se fosse un precotto da comprare al supermercato. Di grazia, li trovo al banco frigo? » commentai, decidendo di voltargli le spalle, girandomi di lato.
Nemmeno rispose.
Passò un tempo interminabile, a mio avviso.
E il silenzio - stranamente - lo ruppe lui.
« Dormi? »
« No »
« Perché ne ho un’altra, di frase cattiva. Ma sarò buono, è soltanto una parola. »
Sbuffai. « Dilla. »
« Solo all’orecchio. »
Mi obbligò a ritornare con la schiena contro il materasso facendo presa sul mio fianco destro - la mia pelle leggermente scoperta era bollente o erano le sue mani ad essere ghiacciate? - e un attimo dopo era quasi completamente steso su di me, le mani ai lati della mia testa per non gravare col suo peso.
Gli occhi dritti nei miei - miele dentro cioccolato.
Probabilmente scollegai il cervello arrivati a quel punto.
Non vedevo alternative, dal momento che pensare si sarebbe comunque rivelato impossibile, in quelle condizioni.
Lo vidi solo abbassarsi sul mio orecchio destro - e la sua sinistra scivolava tra i miei capelli?
Il respiro caldo.
« Gallina »
E prima che potessi reagire, offendermi, urlare, prima che potessi anche solo avvicinarmi alla più vicina presa per ricollegare il cervello (ma la nostra stanza forse ne era sprovvista) mi ritrovai una delle tremila piume che invadevano l’ambiente davanti agli occhi.
Fluttuava in aria, scendendo pianissimo, fino ad adagiarsi sul mio collo.
Solo questione di secondi, comunque, prima che le labbra di Hayama la sostituissero - e notai che non c’era poi tanta differenza, il tocco era meravigliosamente simile.
Iniziò la sua scalata, piano, risalendo il mento fino ad incrociare le mie labbra inermi che, poco ma sicuro, non si sarebbero mai e poi mai sottratte a quel contatto.
Chiusi gli occhi ma appuntai mentalmente: chiarire al più presto se la gallina, come diceva lui, poteva svolazzare liberamente o aveva un'aia recintata dal suo proprietario.

 

 

 

 

 

____________________________________________

(*) da 1.41 Chain, first part.
(**) da 1.32 Breathless, second part.
(***) ho scritto “Iwasaki” poiché non riesco a trovare il carattere della prima lettera del nome del dottore che curò Sana e scrisse un libro sul suo rapporto con Hayama nel manga 10. In caso qualcuno l’avesse per chissà quale motivo tra le mani, se riuscisse a scrivermelo in modo che io lo possa copia-incollare mi farebbe davvero un gran favore.
(****) da 1.62 Decode, second part
.

 

 

 

 


SPOILER 2.12: Home, second part.


« Sana. Sarò sincero: ti infili troppo spesso nel mio letto »
« Continui a ripeterlo »
« Ma tu continui a farlo! »
[…]
« Hayama! Se proprio la cosa ti disturba, diamo un taglio originale alla faccenda e vieni tu a dormire da me »


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Capitolo 16
*** 2.12: Home - second part ***


2.12: Home: Where your heart is. SECOND PART.





Il fatto che avessi prontamente scollegato il cervello non stava di certo ad indicare che io avessi smesso di sentire. Affatto, la pelle d’oca sulle braccia ne era la prova lampante.
Sorrisi tra me; se solo se ne fosse accorto, Akito avrebbe ribadito quella faccenda della “gallina” che, mi ripromisi, avrei vendicato non appena mi si fosse presentata davanti l’occasione propizia.
Certo la suddetta occasione propizia, volendo, la stavo vivendo in quel momento: la faccia di Hayama nel caso in cui l’avessi preso per le spalle e allontanato sarebbe certamente andata a braccetto col termine impagabile.
Ma, come già detto, avevo scollegato il cervello e, detto tra noi, staccarmi dai suoi baci sarebbe stato un autentico peccato.
Se non altro mi presi una piccola anticipazione di rivincita mordendogli il labbro inferiore.
« Dannata » inveì, tastandosi la bocca per controllare la presenza - l’ovvia assenza - di sangue.
« Questo era per “gallina” » risposi risoluta.
« Oh, te lo concedo. »
Rimase in attesa.
« Ne ho un’altra » confessò, spostandosi nuovamente alla mia destra.
« Sempre di quelle che mi fanno arrabbiare? Spara. »
Giocherellò con un mio ciuffo di capelli, poi alzò gli occhi.
« Mi hai proprio beccato »
Ora, ero seriamente indecisa se mollargli un ceffone o scoppiare a ridere per la lucidità mentale. Io, in quelle condizioni, di allusioni proprio non sarei riuscita a farne nemmeno mezza.
« Ah, Hayama » risolsi infine « Ma quanto sei di buonumore oggi? »
E mi voltai a guardarlo - Kami, non poteva permettersi di negare un dato di fatto simile.
« Mmh » si abbandonò ad una leggera smorfia, ed io inarcai l’ormai famoso sopracciglio destro: quello delle grandi occasioni.
« Tu » gli puntai un dito in fronte, nel tentativo di allontanarlo maggiormente - in modo da riuscire a guardarlo bene in faccia -  e anche di costringerlo a un qualsiasi tipo di confessione.
Forse era quello il nostro modo di parlarne seriamente.
« ..ammettilo. » conclusi.
Salvo poi rendermi conto della temperatura della sua fronte, sostituire prontamente la punta dell’indice all’intero palmo sinistro e spalancare gli occhi, allarmata.
« Hayama » biascicai « tu… Scotti! »

Dopo aver constatato che la sua temperatura corporea era pari alla bellezza di trentotto gradi e due, mi chiesi ripetutamente chi me l’avesse fatto fare.
Penso ormai siano ben noti sia il mio equilibrio che la fondamentalmente assente capacità di stare in piedi sugli arti inferiori (cosa che agli altri cinque miliardi novecentonovantanove milioni novecentonovantanove mila novecento novantanove abitanti del pianeta Terra risulta assolutamente automatica ma a me causa non poche difficoltà), quindi non mi dilungherò a raccontarvi quanto impervio mi sia parso il tragitto dalla nostra - ehm - camera allo scaffale-medicine del bagno, vi chiedo solo di sommare il fattore oscurità.
Credo che la vostra immagine mentale corrisponda almeno in parte alla realtà dei fatti.
« Mi è morto un fianco accanto al lavandino! » oltrepassai la coltre di piume massaggiandomi la suddetta zona menomata - entro tre ore sarebbe comparso un livido. Fantastico.
« Ne hai un altro » ad Akito, invece, l’avere bisogno della crocerossina causava malumore.
Non che io mi vedessi in quelle vesti, sia chiaro, ero semplicemente la persona più a portata di mano. E con persino due fianchi da immolare alla causa, in caso.
Versai il contenuto della bustina nel bicchier d’acqua, valutando come solo poche settimane prima sarei stata allettata dall’idea di sostituire il medicinale con una buona dose di cianuro. E la bocca parlò senza il mio comando.
« Akito, lo sai che giusto qualche settimana fa avrei approfittato di quest’occasione per avvelenarti? » porsi il bicchiere.
Non lo prese subito: rimase lì a guardarlo, probabilmente ponderando la possibilità che un qualche tipo di veleno l’avessi comunque versato.
Deglutì.
« E’ veramente confortante, Kurata, veramente » afferrò il bicchiere e mandò giù tutto d’un sorso.
Si alzò barcollante dal mio letto - forse avrei dovuto chiedergli di restare fermo dov’era - e si trascinò fino al suo.
Ricordò l’assenza del cuscino con un grugnito rivolto alle piume sul pavimento e si stese, faticando per una buona ventina di minuti a trovare la posizione per dormire bene - io guardavo esterrefatta il display del cellulare, che segnava in alto a destra un alquanto preoccupante 04:16 AM.
Pur non essendo propriamente ferrata in matematica non ci impiegai tanto a capirlo: il mattino dopo - sveglia alle sette e trenta per registrare il programma con Fuka - sarebbe stato tragico.
« Buonanotte » comunicò Hayama, l’indice sull’interruttore, pronto a spegnere la luce.
« Buonanotte, e cerca di dormire » con un sonoro click ci ritrovammo al buio.

***

« Sana. Sarò sincero: ti infili troppo spesso nel mio letto » borbottò quando alzai le coperte per sistemarmi accanto a lui.
« Continui a ripeterlo »
« Ma tu continui a farlo! »
Nella mezz’ora precedente avevo pian piano acquisito la lucidità necessaria a rendermi conto che dormire sarebbe stato sicuramente fuori dalle mie possibilità.
Come farlo, se nell’esatto istante in cui abbassavo le palpebre mi scorrevano davanti agli occhi quelle-dannate-immagini?
Lo sfiorarsi delle mani sotto al tavolo.
La battaglia dei cuscini.
Il ghigno che gli avrei volentieri tolto dalla faccia.
Il suo respiro sul collo.
Siamo sinceri: sarei anche potuta impazzire.
« Hayama! Se proprio la cosa ti disturba, diamo un taglio originale alla faccenda e vieni tu a dormire da me » replicai esasperata.
E seguì l’ennesimo imbarazzato silenzio - necessario a me per rendermi conto della frase appena pronunciata e a lui per assimilarla.
« Sei sicura di non avere la febbre anche tu? »
Gli tirai un pizzicotto sul braccio. « No, idiota! Sono sull’orlo di una crisi di nervi » decisi inconsciamente di non badare al suo sarcastico “mi pare di averlo notato, sì.” « ..sono le cinque ed io sono ancora sveglia perché qualcuno qui adora correre come un imbecille sotto la pioggia! »
« Ricordo » obiettò « che gli imbecilli l’ultima volta erano due »
Stargli accanto mi rendeva decisamente violenta. Soffocai un ringhio.
« Non adoro propriamente correre sotto la pioggia. E l’imbecille con un febbrone da cavallo non credo d’essere io »
« Certo, certo » e le sue braccia mi avvolsero.
L’intenzione era quella di divincolarmi, ovviamente, ma un po’ per la stretta ferrea e un po’ per la temperatura febbricitante vi rinunciai, chiudendo gli occhi.
Il cuore impazzito contro le costole era deciso a non calmarsi.

« Accidenti ».
Spalancai gli occhi nel buio più completo, timorosa che la febbre fosse salita ancora.
« Cosa succede, Hayama? »
Sospirò. « Digli di darsi una calmata. »
« A chi? »
« ..Al cuore, dannazione! Rischi di perforarmi una spalla così! »
Oh.
Oh.
Mi ritrassi dal suo abbraccio per quanto mi era possibile, mordendomi il labbro inferiore. Era vero, il mio cuore continuava a battere come un forsennato - e la faccenda si stava rivelando non poco imbarazzante, a dir la verità.
« Hai… Hai la febbre » balbettai, poco sicura « farnetichi. E comunque lo nego con tutta me stessa. »
« Andiamo, lo senti? E’ un dato di fatto! » le braccia mi strinsero.
Sentivo le guance bollenti - e dentro ribollivo, possibile che non avesse ancora smesso di farmi quell’effetto?
« Hayama? » azzardai.
« Che altro vuoi? Ho la febbre, lasciami riposare. »
« Scusa. Volevo solo mandarti a quel paese. Ora puoi riposare. » sferzai, allontanandomi un po’.
« Adesso ti riconosco » ed avvertii un lieve incurvarsi di labbra appoggiate al mio mento.
I rari e nascosti sorrisi di Hayama.

***

« No… » mormorai girandomi dall’altro lato, per quanto possibile « non può essere già ora di alzarsi. »
A tastoni cercai la mia sveglia sul comodino di Hayama - che avevo spostato prima di dormire - e spensi l’allarme.
Mi voltai nuovamente verso.. Verso chi definiremo colui-con-cui-avevo-diviso-il-letto, ma solo per dormire, soltanto per rendermi conto che l’insistente BIP che mi aveva fracassato i timpani fino ad un paio di secondi prima non l’aveva minimamente scosso.
Dormiva beato.
Mi puntellai coi gomiti sul materasso, pronta a svegliarlo.
« Hayama, alzati. Misurati la febbre »
Niente.
Espirai.
« Hayama, devi controllare la febbre » alzai di poco il tono di voce. Si mosse leggermente, ma le palpebre continuavano a restare chiuse.
« Hayama! » stavolta lo urlai davvero.
« Mmm. E’ tremila volte peggio di quando mi svegliava Natsumi » commentò bisbigliando.
Il suo braccio destro mi avvolse la vita e mi trascinò addosso a lui.
« Dormi, Kurata. E non rompere. »

Morale della favola, l’unica cosa che riuscii a fare prima di riaddormentarmi fu mandare una misera mail a Fuka comunicandole che non sarei arrivata in tempo.
“Tranquilla” mi rispose “ci vedremo domani. Sempre colpa di Akito, eh?” e non riuscii a non arrossire immaginando cos’avesse pensato.
Se non altro Hayama si era ri-misurato la febbre, e fortunatamente questa era scesa al molto più rassicurante trentasette e sei. Certo nel mentre mi aveva inveito contro ottantatré volte per averlo svegliato dal suo sonno, ma perlomeno mi aveva dato ascolto.
In quel momento - mezzogiorno e dieci - piluccavo un po’ di sushi in cucina.
Ero in condizioni pietose: maglietta sbrindellata, profonde occhiaie e capelli raccolti in una coda alta. Non solo, a dir la verità: raccolti in una coda alta e zeppi di piume.
« Dammi da mangiare » e il piattino che avevo sotto al naso scomparve.
Alzai gli occhi al soffitto.
« Buongiorno a te, Akito. Sì, tutto bene. Sì, mi fa piacere che la febbre sia scesa e sì, se vuoi mangiare non farti troppi problemi. Chiedi pure. » commentai sarcastica.
« Sono malato, vedi di non essere logorroica » rispose mentre già si ingozzava.
« Altrimenti ci saranno ripercussioni sulla tua salute? » Kami, io, io… lo detestavo.
Insomma no, ovviamente non lo detestavo, ma il suo modo di parlare mi faceva saltare i nervi.
« Sulla mia salute no, sui miei nervi sì »
Senza troppe sorprese, ero completamente ricambiata.
Andai a recuperare del ramen istantaneo. Non che ne andassi pazza, ma la fame chiamava e dato che qualcuno mi aveva appena privata della mia razione quotidiana di cibo non avevo scelta.
«  Programmi per la giornata? » chiesi, tanto per coprire il silenzio.
E poi era un venerdì.
« Tu ed il tuo vizio di conversare, non l’ho mai sopportato. »
Alzai gli occhi al cielo. « Ti ricordavo meno esasperante, da ammalato. »
Gli occhi dorati si alzarono per un secondo dal piattino già vuoto. « Ricordavi male. In effetti non hai mai avuto una gran memoria. »
« Beh, fortuna che stasera » mimai due goffe virgolette con le dita « “quella con poca memoria” leva le tende. E’ venerdì, questo me lo ricordo. »
Akito si alzò dal tavolo in due secondi, piazzandosi proprio di fronte a me. Sembrava quasi confuso.
« Ma io sono ammalato. »
Sorrisi. « Ed io non sono la tua infermiera. »
Si grattò la testa, indicò la stanza. « Alla luce degli ultimi avvenimenti fino a qualche ora fa lo eri. »
Nascosi il sorrisino divertito - vederlo imbarazzato mi faceva sempre reagire in quel modo - ed assunsi l’aria più tragica che riuscii.
« Mi dispiace, ho smesso. »
Mi diressi in camera, decisa a prendermi un cambio per poi fare una doccia - e dire addio ai residui di gallina tra i miei capelli prima che Hayama ne sparasse un’altra delle sue, non sarei umanamente riuscita a reggerla - e dalla porta chiusa sentii mormorare “sbaglio o mi hai appena paragonato al vizio del fumo, in un certo senso?”
« In un certo senso sì, sei un vizio. Peccato che non sappia come riuscire a smettere. » bofonchiai, stando attenta a non farmi sentire.
Ormai era innegabile.

***

« Ma quanto siete carini! » Sayuki non riusciva a trattenere l’entusiasmo.
Aveva ascoltato adorante il mio sommario racconto della serata - nottata, mattinata - ed era sul punto di dichiararci marito e moglie, ne ero certa.
« La febbre gli ha giocato un brutto scherzo. Più che altro il tuo spirito da crocerossina, Sana. Scommetto che aveva altri piani per la serata. Povero ragazzo. » Sota scosse la testa, melodrammatico.
« Ahia! Ma che diam- »
« Sei fissato, Sota, sei fissato. » scoppiai a ridere alla constatazione di Sayuki, che scuoteva la testa rassegnata - Sota si massaggiava la spalla che lei gli aveva appena pizzicato.
« Per me ha ragione Sota » s’intromise Den, la matita in bilico sul naso.
« Vedi, amore? Vanno così le cose. » al che Sayuki inarcò un sopracciglio.
« Per tutti i Kami. Sei incorreggibile. » scosse la testa.
Espirai.
Sì, ci voleva.
Era stata una fortuna averli trovati tutti e tre lì - avevo bisogno della lista dei libri consigliati, e li avevo incontrati per puro caso nella biblioteca dell’Università - stare con Sayuki, Sota e Den mi faceva evadere da quel gran casino che era l’appartamento numero undici, sentimenti strani compresi.

« Io dico che dovete parlarne seriamente » non riuscii a distinguere chi tra i due ragazzi avesse parlato.
« Io invece dico che stasera esci con noi e lo lasci solo soletto in casa » senza il minimo dubbio Den.
« Io invece dico che dovresti stare con lui. »
« Ma no, tesoro. Non capisci? Ora è fondamentale che lei non gliele dia tutte vinte. Deve farsi rincorrere almeno un po’. »
« Sota ha ragione. Qualcosa del tipo “l’attesa aumenta il desiderio”, già. »
E due dei libri consigliati di certo avevano guadagnato quell’aggettivo per la facilità con cui volli stamparli uno in faccia a Sota e l’altro a Den, sotto lo sguardo altrettanto imbarazzato della povera Sayuki.

Non mi sarei dovuta sentire in dovere di accontentare nessuno, ma alla fine il piano - che piano non era - si rivelò consistere in una veloce cena a base di onigiri (*) coi miei tre amici sulla via di casa mia.
Avevo avvisato Aya per telefono, comunicandole che sarei arrivata in compagnia.
Era un buon compromesso: in un certo senso sarei “uscita” con loro, come desideravano Den e Sota, ma sarei anche rimasta a casa con Akito, come aveva proposto Sa’.     Inoltre i miei amici di sempre avrebbero finalmente conosciuto i miei nuovi amici.
Il bello del “piano”, senz’altro, era che mi aveva occupato interamente il cervello. Impedendomi così di massacrarmi mentalmente circa l’argomento Akito.

« Eccoci » sorrisi quasi al punto di rischiare una paralisi mentre sferragliavo di fronte alla porta di casa.
Che stupida. Solo al momento di percorrere gli ultimi dieci metri necessari a raggiungere lo stabile realizzai che anche Akito avrebbe conosciuto Sayuki, Sota e Den. Chissà perché la prospettiva di immaginare i miei due amici maschi - solo Den, a dir la verità, dopotutto Sota era fidanzato - ed Akito nella stessa stanza non mi piaceva.
Scrollai le spalle, liberandomi del pensiero - era in ogni caso troppo tardi per farci i conti -, ed aprii la porta.
« Benvenuti a casa mia - cioè, nostra » con un cenno del capo indicai Aya e Tsu, seduti sul divano.
Di Akito nemmeno l’ombra, sicuramente era ancora in modalità ammalato petulante nella nostra stanza. Il che, detto tra noi, non era completamente un male.
Tsu si spettinò i capelli e, con un po’ di imbarazzo, diede il via alle presentazioni.
« Ma non ne manca uno? » ammiccò Sayuki, scatenando le risa degli altri quattro.
Alzai gli occhi al soffitto. « Oh, andate già d’amore e d’accordo voi, eh? »
« Se intendi Akito, è ancora sotto le coperte. Va da un estremo all’altro, quel ragazzo. » risolse Aya.
Annuii nella sua direzione, ricordando come da bambino la febbre non fosse mai riuscita a fermarlo. In particolare a fermare le sue maratone.
« Direi che comunque potresti tirarlo giù dal letto e portarlo qui, Sana. Ragazzi, vi va un torneo di Mahjong? Un classico. » propose Tsu. (**)
I miei tre nuovi amici reagirono con entusiasmo, io mi avviai nel corridoio che portava alla mia stanza.
La porta si aprì prim’ancora che sfiorassi la maniglia.
« Oh, allora ci sei. » constatai, ritrovandomi Akito in camicia leggera e jeans di fronte a me.
« Ho sentito delle voci. »
« Già, i miei amici. Vieni, te li presento. La febbre? » mi morsi un labbro, leggermente tesa.
Mi seguì senza rispondere fino al salotto, e constatai che non era mai stato di grande aiuto quando si trattava di smorzare la tensione.
Strinse i pugni e squadrò Den, il quale ricambiò trattenendo un sorriso e osservando me, poi tentò con Sota allo stesso modo, ma non appena lo sguardo cadde sulla sua mano intrecciata a quella di Sa’ i pugni si rilassarono.
Morivo dalla voglia di obbligarlo ad ammettere una qualche forma di gelosia, ma mi morsi la lingua.
« Il famoso Akito! » Sota sorrise apertamente, Hayama corrugò la fronte ed io, immancabilmente, arrossii.
La situazione si stava facendo imbarazzante.
« Poi me la spieghi, eh? » commentò Akito. Sota annuì.
« Io direi che non ce n’è bisogno, ragazzi » scoccai un’occhiataccia generale « Giochiamo e basta. »
« Ma se Akito vuole sapere, Sana.. » si oppose Den.
« Simpatici, i tuoi amici » Hayama ci stava prendendo fin troppo gusto, così gli tirai una gomitata sulle costole.
Col solo risultato di massacrarmi un gomito.
« State zitti e giocate, okay? » queste alleanze erano ignobili. Ignobili!

Fu una partita piacevole, per certi versi. Ovviamente persi clamorosamente, scatenando le incontrollabili risate di Sota e beccandomi un “pivellina” da parte di Akito.
Inutile dire che stavo già programmando vendetta.
Stavo trangugiando un bicchiere d’acqua, Tsu e Den parlavano di lavoro, Sota ed Akito di qualcosa che sinceramente non volevo sapere, Sayuki ed Aya di un programma televisivo, fuori diluviava. Suonò il campanello e nessuno a parte me parve accorgersene.
A compiere quei pochi passi che mi distanziavano dalla porta d’ingresso mi sentii invadere da un assurdo senso di déjà-vu - come se mi ritrovassi dentro ad un film, quasi.
Il campanello suonò di nuovo, insistentemente, guadagnandosi anche le attenzioni degli altri.
« Fuka ha sentito il richiamo del Mahjong e ha trascinato il suo ragazzo qui, ci scommetto » alzai entrambe le mani, esasperata.
Sarebbe stato da Fuka, probabilmente: il vizio di eccellere in qualunque campo non l’aveva perso mai. O forse era lì solo per ripetermi che ero una pivellina.
In realtà era tutta colpa delle tessere numeriche. I numeri ed io eravamo due universi opposti. (***)
Girai la chiave nella toppa ed aprii velocemente, piazzandomi in viso un’espressione esasperata.
« Oh. » fu l’unica cosa che riuscii a dire.



_____________________________________________________
(*) QUESTO è l’onigiri.
(**) Mahjong, gioco cinese molto diffuso in Giappone. QUI tutto quel che c’è da sapere. Grazie Ellie ;D
(***) Il Mahjong è un gioco formato da diverse tessere, alcune numeriche ed altre letterali, che vanno abbinate secondo degli schemi. Sana e la matematica. C’è bisogno d’aggiungere altro? xD

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Capitolo 17
*** 2.21: Centimetre - first part ***


2.21:     Centimetre: unit of lenght equal to 0.01 of a metre.
PART ONE.





« Non… Non è detto che sia- »
« Può essere quel che vuole » mi strinsi nelle spalle, fuggendo gli sguardi apprensivi dei miei amici.
Mi pulsava una vena sulla tempia destra, e sperai con tutto il cuore che, se proprio doveva trattarsi di qualche genere di sintomo, preannunciasse una morte imminente ed indolore. Meglio quella che un’orribile fine in gattabuia per aver assassinato Akito Hayama. E probabilmente anche la sua amica Keiko, sempre che amicizia fosse, la loro.
« Kurata, primo indizio »
Chiusi gli occhi. « Alt, alt, alt. Ho fatto un certo pensierino sul togliere di mezzo qualcuno, quindi non parlarmi di indizi o li assocerò veramente ad un omicidio. »
Cercai di sorridere « Mi ci vedete nei panni della pluriomicida? »
Non ero divertente, e soprattutto non mi stavo divertendo per niente. Scoccai un’occhiata che, ne ero certa, avrebbe infiammato la schiena di Hayama fuori dalla porta, sul pianerottolo. E magari anche certi airbag.
« Oh, Kami. Sono patetica » mormorai infine, abbandonandomi sulla prima sedia vuota.
E valutai se aggiungere alla black-list anche Den, la cui espressione ilare mi dava assolutamente sui nervi.
Sollevai entrambe le sopracciglia.
« Scusa, scusa » pose le mani avanti a sé « è che sei incredibile. Ci sei dentro fino al collo, Sana, ma ti è mai passata questa… Questa cosa che provi per lui? Comunque l’assassinio è il delitto passionale per antonomasia. »
Sota rise. « Non so se sperare che rientri in fretta o meno. Ora come ora potresti veramente fargli del male, Sana, quindi non è consigliabile. Ma aspettare fuori potrebbe persino farti infuriare di più. Non è una situazione carina. »
« Ma dai, Sota? Non l’avrei mai detto. » sbuffai.
Viva il sarcasmo.
Notai con la coda dell’occhio Tsu riempire un bicchiere d’acqua; me lo porse. « Cerca di stare calma e valutali tutti, gli indizi, prima di far danni. »
Accettai di buon grado l’offerta ed ingurgitai qualche sorso, prima di incrociare le braccia, pronta ad ascoltarlo. « Sono tutta orecchi. »
« Partiamo dall’inizio: non so se hai notato la sua espressione, ma era sorpreso come tutti noi di vedere Keiko alla porta. Quindi di certo non sapeva nulla del suo arrivo. »
Oh, almeno questo.
« E poi dubito fortemente » calcò volutamente la parola « che metterebbe a rischio ciò che sta ricostruendo con te per… Lei. »
Mi sentivo un’idiota - un passo avanti e dieci indietro.
« Il tuo amico avvocato ha ragione. » Den annuì.
Osservai l’ingresso. « Molto spesso è l’avvocato del diavolo, nel vero senso della parola. »
« Sana » mi sentii afferrare dolcemente una spalla.
Mi voltai. « Di certo non ne so quanto Tsuyoshi ed Aya, in fondo ci conosciamo da molto poco. Ma cerca di essere meno insicura. Si vede lontano un miglio che ha occhi solo per te, anche se cerca in tutti i modi di camuffarlo. Rilassati. »
Sayuki mi guardava dall’alto, gli occhioni sgranati e il sorriso tranquillo. Notai solo in quel momento quanto la sua natura, infondo, fosse simile a quella di Aya.
Espirai.
« Io vado a fare una doccia. Voi… Parlate, ecco. » mi grattai la testa « ma niente discorsi imbarazzanti.»
« Veramente è meglio se andiamo. Siamo tutti stanchissimi, guarda Sota che faccia si ritrova. » Sayu’ si sistemò la borsa sulla spalla.
« Ma non sono stanco, e la faccia è la stessa di ieri! »
« Ecco, appunto. »
« E nessuno che pensa alle mie, di esigenze! » Den lo urlò quasi, in faccia il finto sdegno per essere appena stato escluso dai discorsi, con l’unico risultato di far scoppiare tutti a ridere.
Riuscii solo a sollevare gli angoli della bocca.
Rimasi sulla porta che dava al corridoio ovest quando, dopo saluti e ringraziamenti, aprirono il portone d’ingresso per uscire.
Sota mimò un “ti telefono per raccontarti cosa vedo”, Sayuki gli tirò uno scappellotto.
« Parleranno tra poco, non ti intromettere » lo apostrofò.
Ecco, se non altro avrei parlato con lui. Volente o nolente.


***


Nemmeno la doccia calda e lo shampoo alla pesca riuscirono a farmi rilassare - lo constatai quando, abbassando la maniglia per entrare in camera, avvertii la totale tensione di ogni singolo muscolo.
La luce era accesa - Akito era rientrato.
Mi sistemai sul letto - il mio letto, ovviamente, dandogli le spalle, ovviamente - ed iniziai a frizionare i capelli gocciolanti con un asciugamano; il silenzio o forse il gesto stesso mi irritarono, così lasciai perdere.
Sentii sospirare dietro la mia schiena.
« Arrabbiata. »
Deglutii.
« Molto acuto, mi congratulo. »
« Ammetterai che anche tu da incazzata spari certe frase frasi ad effetto che- »
« Sta’ zitto » lo interruppi « e non azzardarti a ridere. »
« Ai suoi ordini. Quando ti passa avverti. »
Annuii tra me e me, piegai maniacalmente l’asciugamano e borbottai qualche insulto - non erano mai abbastanza -, il tutto contemporaneamente.
« Sana? »
Non risposi.
« Kurata. » e da domanda si era trasformata in affermazione.
Fantastico.
« C’è qualcosa nel mio mutismo che ti giustifichi a pensare che io abbia voglia di parlarne? »
Seguì il silenzio. « Adesso ammetterai che parli strano. »
Strinsi spasmodicamente i pugni per trattenermi dal picchiarlo, o almeno provarci.
Mi voltai al rallentatore e mi limitai a fulminarlo con lo sguardo. « Buonanotte a te ed alla tua ironia fuori luogo. »
L’intenzione, senza dubbio, era di alzare le coperte e nascondermici sotto, ponendo fine a battute varie non richieste, ma all’ultimo non riuscii a resistere: gli scoccai una nuova occhiataccia.
E lo ritrovai lì, nella stessa posa che nella mia mente ero sicura avrebbe assunto, con stampata in faccia la medesima espressione che gli avevo immaginato addosso.
La realtà mi colpì come uno schiaffo in pieno viso - un meritatissimo schiaffo in pieno viso, tra l’altro. Non serviva a niente scappare, tanto di lui non mi sarei liberata mai.
Probabilmente la sua funzione altro non era che restarsene per tutto l’arco della mia vita a fissarmi e, soprattutto, a farmi saltare i nervi.
Nessuno c’era mai riuscito tanto bene quanto lui.
Valutai se dirglielo o meno, ma decisi di lasciar correre. O di posticipare.
…E forse era una questione di presenza - di centimetri, mai abbastanza da permettermi di voltare pagina.
Lui restava sempre e comunque nella mia orbita, l’avevo ampiamente appurato.
Come se non bastasse, magari nella mia vita non ce n’erano nemmeno, di pagine da scrivere, voltare e strappare in mille pezzi. Ce n’era una, unica ed infinita, e sopra - ci avrei scommesso tutto - qualche gran genio ci aveva scritto il suo nome. In rosso, a caratteri cubitali.
Ogni sforzo sarebbe stato vano.
Oh, perfetto.
« Mi stai ascoltando? »
Merda. Oltretutto stava pure parlando.
Cercai di darmi un tono, nella speranza di sembrare anche solo in minima parte presente. « A-ha. »
« Sempre la solita. »
Ripresi coscienza e lo guardai, interrogativa. Hayama voleva parlare?
Lui era il tipo di persona che lasciava che si creassero i malintesi, che faceva cadere i discorsi e si rintanava nel suo mutismo.
Sgranai gli occhi e lui annuì, come se fosse arrivato alla mia stessa conclusione.
« Sì, stasera sembra che la Terra giri al contrario: io sto parlando e tu te ne resti zitta. »
Seppur d’accordo con lui, inarcai un sopracciglio. « Sarà che io ho i miei buoni motivi per non volerti parlare e tu sei sommerso dai sensi di colpa perché, ed è evidente ormai, hai qualcosa da nascondere? »
« Io non ho nulla da nascondere! »
« E Keiko è venuta a chiederti il sale, immagino. » bofonchiai.
« Kurata, non è che se- »
« Non devi spiegarmi nulla. Non m’intere- »
« Adesso basta interrompermi. Non hai fatto altro da quando sei entrata qui. »
« Ti interrompo perché non mi va di ascoltarti. Voglio dormire, Hayama, cosa c’è di tanto difficile da capire? » urlai, sbattendo i pugni sulle ginocchia.
Non mi andava. Era di certo un comportamento infantile ed abbastanza sciocco, ma non c’era altro da dire: per quanto mi ronzassero in testa le rassicurazioni di Sayuki, Tsuyoshi e gli altri, la sensazione di essere soltanto un’illusa si ostinava a restarmi appiccicata alla pelle.
« Ti stai comportando come una bambina! » e le danze iniziarono esattamente in quel momento, quando anche Akito prese ad urlare.
Ridussi gli occhi a due fessure. « Sarà perché forse il mondo gira al contrario, quindi per stasera mi comporto come di solito fai tu? Spero tu riesca finalmente a capire quant’è irritante il tuo mutismo. »
Invece di rispondermi per le rime si strinse nelle spalle: « Va bene, te lo concedo: sono irritante, e per di più mi diverto ad irritarti. » …e mi spiazzò.
Forse per merito della sua sfacciata sincerità o del tono tranquillo con cui aveva proferito parola, allentai la stretta dei pugni e cercai di recuperare la calma.
Comportarsi da idioti non serviva a nulla - tanto non me ne sarei liberata mai in nessun caso. Troppo tardi, ormai.
« Lo so bene. » e, se non altro, sperai che trovasse presto un sostituto a “gallina”, che ormai aveva raggiunto un certo livello di anzianità.
Si grattò la testa, alla ricerca delle parole adatte. Tornando un po’ più lui e un po’ meno me.
« Sana… Te la sei presa per nulla. »
« Oh, immagino. »
« Vedi di essere collaborativa, per piacere. Non sono bravo a dare spiegazioni, e non dire “lo so”. Potrebbe infastidirmi a morte. » ammonì.
« Ma io lo so, Hayama. »
« E sai anche di essere terribilmente gelosa, di aver frainteso tutto e, che so, altre sedici cose poco carine sul tuo modo di fare? »
Lasciai a mezz’aria il lembo di coperta che avevo afferrato solo qualche istante prima, interdetta: « Quali altre sedici cose? »
Si strinse nuovamente nelle spalle, si alzò e mi raggiunse sul letto. A debita distanza.
Fissò il pavimento per mezzo minuto buono, poi espirò.
« Primo, sei disordinata. Ne ho abbastanza di trovare le tue magliette sotto al mio letto o i tuoi reggiseni nei miei cassetti. »
Non potevo sentirmi offesa da una semplice constatazione: io ero disordinata, poco da aggiungere.
« Uh, forse ricordo qualcosa. » mi finsi pensierosa.
Gli occhi dorati entrarono nella mia visuale. « Io ricordo le formiche. » (*)
« Ecco cos’erano. Se permetti mi metto comoda, mancano altre quindici… Come le avevi chiamate? Sì, cose poco carine. » e incrociai le gambe sul materasso, schiacciando la schiena sul poggiatesta.
Eravamo praticamente una di fronte all’altro, e non avevo nemmeno un misero cuscino a difendermi: li avevamo distrutti entrambi la sera precedente.
« Numero due: sei una ficcanaso. »
« Non è assolutamente vero, sono solo curiosa! » obiettai.
« Ficcanaso rende meglio. Sei testarda, smemorata, logorroica, inaffidabile, combini un sacco di casini, e soprattutto non sei in grado di sistemarli. »
Che cafone. Più la lista si allungava, più mi sentivo vibrare di rabbia. O era forse umiliazione? L’unica cosa poco carina era servire su un piatto d’argento tutti i miei difetti. Non potevo di certo negarli, ma questo non gli permetteva di elencarli come se stesse stilando una lista della spesa.
Abbassai lo sguardo.
« Nove: sei insicura. Hai anche paure infantili, già. »
L’umiliazione spodestò del tutto la rabbia, e le mie guance s’infiammarono prima e bagnarono subito dopo.
« Piangi? » il suo tono era tranquillo, assolutamente calmo.
Come se stessimo intrattenendo una conversazione qualsiasi.
« Al diavolo, Hayama! » mi alzai di scatto, nascondendo il viso. Oltre al danno la beffa? « Non starò qui a far- »
« Ferma! Lasciami finire. » mi bloccò il polso sinistro, un gesto che mi riportò indietro di parecchi anni.
« Vivi nell’illusione che della gente ci si possa fidare, sei una gran credulona, nel novantanove percento dei casi parli senza riflettere e non riesci a fare un discorso lineare perché divaghi un sacco. Nello stesso novantanove percento dei casi poi fai divagare anche me. »
Cercai con tutte le forze di fermare il flusso di lacrime, per non dargli anche quella soddisfazione. Senza riuscirci.
« Se-Sei a quindici. Dato che ci siamo, perché non umiliarmi un altro po’, svelando questo sedicesimo difetto? », tirai su col naso « ..Visto che ci siamo. »
« Sei paranoica. Bé, deriva dal fatto che sei insicura - anche se non lo ammetterai mai. Potrei metterci la mano sul fuoco, Sana, un secondo dopo aver visto Keiko alla porta il tuo cervello aveva già tratto tutte le conclusioni possibili, e forse ha stilato pure una serie di discorsi ipotetici che non avverranno mai. »
Liberai il polso, stringendo nuovamente i pugni e dandogli definitivamente le spalle. « An-Anche se fosse? »
« Hai sbagliato tutto! » mi sentii scuotere per le spalle, ma non mi mossi di un millimetro.
« Non lo capisci? Ti fai solo male. Sei entrata qui e non volevi nemmeno parlare perché convinta di sapere già tutto. In realtà non ne hai capito niente, Sana! E non perché tu non mi conosca come le tue tasche, solo perché sei dannatamente paranoica ed insicura! »
« Allora cercatene una che sia sicura di sé! » mi voltai.
E del trucco sfatto e dei capelli appiccicati dalle lacrime e di cosa mi avrebbe visto degli occhi non m’importava niente.
« Ma non la voglio! » Akito parlava solo urlando.
Se avesse avuto mezze misure - se fosse riuscito a parlare con calma - le parole gli si sarebbero appiccicate in gola prima di trovare l’aria. Forse l’avevo sempre saputo.
Perché, pur essendo paranoica ed insicura, lo conoscevo come le mie tasche.
Se non meglio.
« Non… Non la voglio. Mi va bene trovare un giorno sì e l’altro pure i tuoi calzini spaiati nel cassetto delle mie magliette, mi va benissimo doverti accompagnare al supermercato perché hai il senso dell’orientamento di una confezione di sushi, doverti spiegare che non è oro tutto quello che luccica e cercare di tirare le conclusioni di un discorso prima che tu inizi a parlare di criceti. Sono disposto anche a ripulire la cucina dopo uno dei tuoi disastri culinari, ma non… Non lascerò che i tuoi filmini mentali rovinino tutto di nuovo. »
Respira, e non tremare così.
« Perché è successo anche quando ci siamo lasciati, no? Tu sapevi già tutto. Tu ne eri già convinta, che quel punto morto fosse insuperabile, eri sicura che fossimo sulla stessa lunghezza d’onda. E ho fatto anche io la mia parte, da bravo stupido me ne sono rimasto zitto, pensando che la convinzione che ti leggevo in faccia fosse abbastanza da convincere anche me. Perché siamo due idioti, Kurata, perché io l’ho capito dopo che non ne eri sicura nemmeno tu, che dietro a quella bella facciata che ti sei montata per fare l’attrice c’è ancora la bambina che ha perso le espressioni dal terrore di essere abbandonata. Io. L’ho capito dopo. »
L’ultima cosa che sentii, prima di chiudere gli occhi e ricominciare a piangere, fu il suo abbraccio.
Come quando eravamo bambini.
Come quando eravamo scappati, credendo di poter diventare adulti comportandoci come loro.
Come se il mondo stesse davvero girando al contrario.
« Non voglio ripetere lo stesso errore. E scusa per averti fatta piangere. » anche la sua voce era rotta.






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(*) ripresa da 1.21. Una seconda color crema con stampa a formiche.


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Capitolo 18
*** 2.22: Centimetre - second part ***


 
2.21:     Centimetre: unit of lenght equal to 0.01 of a metre.
PART TWO.




 
 
La comunicazione può avvenire su diversi livelli e, al contrario di quanto la maggior parte della gente pensi, la comunicazione verbale ne rappresenta solo l’ultima scaglia.
E’ il tipo non-verbale a dettare legge in materia: migliaia di parole od un ragionamento chilometrico e cervellotico nulla possono contro un semplice gesto che ne affermi l’esatto contrario.
S’intende che un’affermazione verbale, abbellita da un tono adeguato e convinto, seguita da un semplice gesto solitamente noto come “negazione del corpo”, equivalga ad una bugia.
La comunicazione è tutto quando è sincera, solo in quel caso il messaggio giunge pulito da mittente a destinatario, senza alcuna sorta di rumore; in aggiunta nasce la consapevolezza che la voce sia un mezzo comunicativo relativamente veritiero.
Al contrario, il corpo non mente mai. Persino quando sforziamo il suo controllo lanciamo dei segnali, tutti involontari — sia allungare i polpastrelli verso qualcuno da cui ci teniamo a debita distanza ma che vorremmo sfiorare, sia stringerci nelle spalle ad indicare il poco interesse verso una questione che in realtà ci tocca, siano altri tremila dettagli —, che fungono da vero e proprio allarme naturale: i lapsus gestuali.
“Chissà perché ho l’impressione che mi abbia detto una bugia” è la frase random del caso.
Ma, probabilmente, non a tutti possiamo mentire.
Akito è sempre stato un buon osservatore, per quanto cocciuto, testardo ed orgoglioso, ma dubito conoscesse — e conosca tuttora — i principi della comunicazione. Quella non è mai stata il suo forte. …Comunque, dicevo, lui non ne era a conoscenza, quindi ammesso e non concesso che mi fossi stretta nelle spalle ed avessi allungato i polpastrelli — o altri tremila dettagli —, rientrava fuori da ogni dubbio nella categoria di persone in grado di leggermi e basta, accantonando per un attimo la sequela di parole disordinate che si disperdono costantemente dalla mia bocca all’aria circostante.
Quando ce n’è — di aria, intendo.
Non mi resi conto immediatamente che avevamo smesso di abbracciarci, mi ci volle qualche secondo.
A dirla tutta non sapevo nemmeno se le lacrime che mi rigavano le guance fino ad un numero imprecisato di attimi prima si fossero asciugate da sole o le avesse baciate via Hayama, una ad una.
Semplicemente ad un certo punto mi trovai partecipe di un delizioso bacio che prometteva sicuri scompensi cardiaci. E non solo alla sottoscritta — ormai mi ero già rassegnata che la vicinanza del pianeta-Akito mi avrebbe fatta implodere, solo questione di tempo —, a giudicare da un altro cuore che mi sentivo battere all'impazzata contro il petto. Il suo.
Quasi inciampai contro un paio di scarpe che avevo abbandonato sul pavimento — distratta, una di sedici cose poco carine che tutto sommato avrei pure sopportato di farmi ripetere — quando Akito mi spinse gentilmente all'indietro nella speranza di riuscire a centrare il letto, ma la traiettoria era del tutto errata e finimmo per sbattere contro un'anta dell'armadio, provocando un tonfo sordo. Come se mi trovassi tra un polo e l'Equatore, alle mie spalle la superficie fredda, dall'altro lato la pelle bollente di Akito; riuscivo a sentirlo anche se eravamo separati dai nostri vestiti.
Impedimento non da poco al quale decisi che avrei posto rimedio quanto prima. Con le mani incredibilmente malferme mi dedicai con cura ad ogni bottone della sua camicia, sfilandolo dall'asola con religiosa dedizione e soffermandomi coi polpastrelli sui centimetri di pelle che scoprivo gesto dopo gesto. Un bottone sfilato, un centimetro in più di pelle che potevo saggiare sotto le dita, un sospiro che Akito neanche si sforzava di trattenere, soffiandomi sul collo, a cui era passato a dedicarsi. Ogni suo sospiro diventava un mio sospiro e brividi incessanti lungo ogni centimetro della mia spina dorsale.
In quell'istante mi sentii catapultata nel passato, rividi lo stesso tremore nelle mani di una me stessa di non ricordavo neanche più quanti anni addietro, mentre sfilava dalle asole quelli che sembravano essere diventati centinaia di bottoni della divisa scolastica di un Akito molto più ragazzino di quello che ora stava sfregando i fianchi contro ai miei. Sorrisi del fatto che quella sensazione di déjà-vu mi riportasse indietro proprio al giorno in cui io ed Hayama avevamo fatto l'amore per la prima volta.
In fondo, non si trattava forse di una nostra prima volta di nuovo?
Akito era sempre stato mio, in quel momento mi sembrò più chiaro che mai. Ma avevo passato un anno intero — lui nella mia orbita, ma a distanza — credendo che avesse smesso di esserlo, ed era abbastanza da farmi sorridere incredula accarezzandogli le spalle, a farmi spalancare gli occhi ed accorgermi di tutto. Smettendo di essere ottusa soltanto per un po’.
Sembrava nuovo anche il ritrovare quelle che riconobbi come vecchie abitudini — riconoscere la consistenza dei suoi capelli che mi sfioravano la clavicola (quanto bene si può arrivare a conoscere una persona?) mentre scendeva fino allo sterno a lasciarmi una scia di baci che sembrava scottarmi, provare il tocco delle sue mani sui miei fianchi — li stringeva tanto che sarebbe potuto affondare persino sotto la mia pelle.
« Stavamo litigando » proferii sottovoce non appena sfilai anche l'ultimo bottone — una camicia intera, ecco il tempo che mi ci volle per riacquistare l'uso della parola —, e le sue dita smisero immediatamente di sfiorarmi.
Mi pentii subito di aver aperto bocca. Accidenti al mio vizio di conversare.
Staccò le mani dal mio corpo e le appoggiò all'anta dell'armadio alle mie spalle, coi palmi aperti, all'altezza delle mie orecchie. Prima la destra, subito dopo la sinistra, poi alzò la testa e finalmente piantò gli occhi nei miei.
Mi morsi l'interno della bocca. Ecco, brava Sana. Complimenti.
Si avvicinò con un movimento talmente lento che all'inizio mi parve impercettibile, bloccandosi ad un millimetro dalle mie labbra, gli occhi sempre fissi nei miei — non avevo la più pallida idea di cosa potesse leggerci dentro, i suoi erano indecifrabili.
« Vuoi continuare a conversare? »  ed aggrottò appena le sopracciglia.
Tra le tante cose che Hayama non aveva capito, nei lunghi anni trascorsi dall'inizio della nostra relazione, di sicuro svettavano alte in classifica le reazioni che la sua vicinanza mi provocava, o forse sperava davvero che io riuscissi a mantenere una certa lucidità con la sua bocca così vicina alla mia e quelle iridi tanto limpide da sembrare capaci di sondarmi l'anima? E se anche — ma era un se piuttosto grande — ci fossi riuscita, credeva potessi sopravvivere ad una tortura simile?
Sono una donna, certo che voglio continuare a litigare.
Ma invece gli afferrai il colletto della camicia e colmai quel misero ed ingiusto millimetro che ci separava attirandolo a me e mugugnando un « Litighiamo dopo », prima che le mie labbra fossero troppo impegnate con le sue, rendendomi conto però di quel sorriso quasi impercettibile che vi trovai disteso sopra nel momento in cui ci scontrammo.
Era un bacio che sapeva di giusto, di quella confidenza tanto nostra che non sarebbero bastate cinque vite — e di sicuro non uno stupido anno — a cambiare.
Certe relazioni non ammettono passi indietro.
Akito mi sfilò la mia maglia con una lentezza estenuante, posandomi le mani sulla schiena, percorrendo ogni vertebra dal basso verso l'alto mano a mano che alzava centimetro dopo centimetro l'indumento nello stesso momento in cui io lo liberavo della camicia sfilandola dalle braccia col movimento opposto, dall'alto al basso, un centimetro alla volta; inoltre lui fu molto più veloce a lanciarsi alle spalle la mia gonna di quanto ci impiegai io ad armeggiare con cintura e bottoni dei pantaloni, che proprio non volevano collaborare, tanto che avrei scommesso ogni centesimo dei miei miseri risparmi che, nel momento in cui scansò le mie mani per liberarsene da solo, stava sicuramente alzando gli occhi al cielo.
Una piccola parte del mio cervello si chiedeva che cosa stessi indossando in quel momento, se un reggiseno con animaletti stampati o qualcosa di leggermente più femminile. Sperai con tutto il cuore che fosse qualcosa di appartenente alla seconda categoria, ma non ci impiegò molto a sparire, per cui immaginai che Akito non ci avesse nemmeno fatto caso.
Quando, pochi istanti dopo, mi sentii prendere in braccio di peso prima e avvertii le sue labbra chiudersi su un seno poi, capii che non potevo aspettare oltre; protestai muovendo leggermente le gambe che tenevo legate alla sua vita fino a quando mi fece scendere e mi bastò una leggera spinta a palmo aperto sul suo sterno a farlo indietreggiare fino a raggiungere il suo letto, su cui si sedette trascinando anche me a cavalcioni — facendo scontrare i nostri bacini in un contatto che sembrava quasi fare male e bene insieme.
L'urgenza che mi lesse in faccia fu probabilmente la stessa che riconobbi in faccia a lui perché arpionò l'ultimo misero pezzo di stoffa che mi era rimasto addosso nello stesso istante in cui io arpionai l'elastico dei suoi boxer; non appena riuscimmo a liberarcene le sue dita iniziarono la loro lenta tortura dentro di me e dovetti appellarmi a quel minimo di raziocinio rimastomi per non mettermi ad urlare cose indecenti.
M'imposi di dare e non solo ricevere — i suoi sospiri sul mio orecchio perdevano piano piano il controllo — mentre l'altra mia mano vagava sulle sue spalle, sfiorando non lembi ma superfici di pelle. Riconobbi ogni suo neo, baciai quelli che riuscivo a raggiungere, erano tutti al loro posto — non ne avrei spostato uno.
Avvertii il materasso sotto la mia schiena ed i suoi occhi addosso, lungo ogni centimetro del mio corpo; ci lessi dentro un'adorazione che mi tolse il fiato per qualche attimo: un altro déjà-vu della nostra prima volta, di quanto quello sguardo mi avesse tolto ogni paura — di certi sguardi non si deve dubitare mai —, di quanto mi fossi sentita felice di avere qualcuno che mi guardava come se fossi la cosa più desiderabile del mondo. Di quanto mi fossi sentita felice di avere lui.
« Come mi guardi » mormorai a voce talmente bassa che pensai non riuscisse nemmeno a sentirmi — quando il suo sguardo sembrò tanto intenso da diventare insostenibile.
E le gambe intrecciate, un leggero morso sulla sua spalla, il fiato sul collo, un bacio sull’ombelico. Mi disegnava le gambe con le dita. E seguire con l’indice, centimetro dopo centimetro, il segno della cicatrice sul suo braccio destro e sorriderci addosso, nemmeno quella era riuscita a farci a pezzi. Nemmeno quella, nemmeno tre anni, nemmeno i chilometri, nemmeno la paura.
Akito sembrava quasi nascondersi tra i miei capelli quando mi rispose.
« Non ho mai smesso, Kurata »
Il tono scocciato e la scelta di chiamarmi per cognome mi fecero scoppiare a ridere, ma non ebbi il minimo dubbio che quella a cui aveva appena dato voce fosse una delle nostre grandi verità.
Probabilmente decisi di baciarlo nello stesso momento in cui lui pensò di baciare me; ci incontrammo a metà strada, gli occhi spalancati, senza niente da nasconderci.
E sfiorargli la punta del naso col mio, una mano sulla mia coscia, l'altra che cercava la mia, e i capelli biondi, il suo sollevarmi il bacino, il volerlo sorprendere, rotolarsi tra le lenzuola fino a riuscire a farlo stendere di schiena, abbassarsi piano, che fa male da quant'è piano, e le mani ovunque, le bocche che non si staccano, i fianchi che si scontrano...

Nessuno dei due aveva mai smesso.

 

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Capitolo 19
*** 3.00: Heart ***


Questa storia, chi la ricorda lo sa, era destinata ad avere più capitoli. Nonostante l'ultimo funga un po' da chiusura, volendo, vuoi il tempo che era passato e vuoi le cose che erano cambiate, non era esattamente quello che avevo immaginato.
E dato che tuttora ricevo recensioni e messaggi a riguardo - siete meravigliose, sono passati cinque anni e mezzo da quando ho scritto l'1.00 e ancora mi leggete, ancora mi pensate -, mi sembrava giusto darle e darvi la scena finale che avevo pensato sin dall'inizio, in un capitolo meno narrato del solito e più a scene, piccoli slices of life sullo stile sia del prologo (1.00 - Drunk) sia dell'intrermezzo (2.00 - Costant).
Il capitolo doveva essere più consistente, volevo inserire anche i nuovi amici di Sana, ma era tutto legato ad una serie di altri capitoli e... Alla fine niente, ho pensato di chiudere proprio con l'ultima scena, senza tanti fronzoli, solo con loro due.
 L'epilogo si chiama Heart, un po' perché lo ritroverete nel testo, un po' perché riguarda il grazie che mi sento di dirvi: di cuore.
C.
 
3.00 Heart: the centre of something




« Io dico che queste con le stelline sono carine »
« Kurata, sono perfette... Per un bambino di cinque anni »
« Allora le prendiamo, perché sono perfette per te! », gli concessi un sorrisone, beccandomi di risposta un pizzicotto sul fianco.
« Abbiamo finito? Odio i negozi e... Indovina? Detesto andare a negozi con te. »
« Andiamo Hayama, non ti crede nessuno. Adori passare il tempo con la tua ragazza, in qualsiasi modo lo si impieghi »
Akito accennò un ghigno e mi bloccò un braccio, interrompendo la nostra maratona nel grande magazzino.
« A tal proposito, c'è un modo che, diciamo, non mi dispiacerebbe » sollevò entrambe le sopracciglia, indicando un punto alle mie spalle. « ...Camerino? »
Mi voltai come un'imbecille e mi ci volle un minuto buono per capire cosa intendesse. Strinsi con forza i miei acquisti contro il petto.
« Akito Hayama. » espirai « Passi il pomeriggio col muso lungo, come se accompagnarmi a fare compere fosse come accompagnarmi al patibolo, e poi hai anche la faccia tosta di chiedermi di farlo in un camerino? »
Quando incrociai di nuovo il suo sguardo non si preoccupò nemmeno di rispondere. Aveva assunto l'aria più angelica che gli avessi visto addosso nell'ultimo non so quanto. Con tanto di ciuffetto biondo spettinato.
Era quello che mi fregava sempre.
« Se qualcuno ci scopre dirò che era un'aggressione e non ero affatto consenziente » gli puntai un dito sullo sterno, spingendolo leggermente.
Mi afferrò la mano ed improvvisò un occhiolino che era così poco da lui da rendere la situazione ancor più esilarante.
« Sana, non ci crederebbe nessuno » e mi trascinò in fretta con sé.

 
****



« Kurata, dopo lo facciamo? »
Quasi mi strozzai col riso al curry che avevo in bocca, e molto poco elegantemente cominciai a tossire a tavola, i polmoni che reclamavano la loro dose di aria.
Ma era impazzito? Lo fulminai con lo sguardo, di risposta ottenni solo una fronte corrucciata e una nonchalance indecente.
Aya rimase impassibile e composta, si pulì gli angoli della bocca prima di proferir parola. Accanto a lei, Tsu era abbastanza imbarazzato.
« Ragazzi, io sono molto felice che abbiate risolto i vostri problemi e nelle ultime settimane abbiate, come dire... Ritrovato l'affiatamento. Ma non finché stiamo cenando, per cortesia. »
Ero sconcertata quanto lei, solitamente Hayama manteneva un minimo di contegno... In pubblico. Lui rimase lì a braccia conserte, poi poggiò i gomiti sul tavolo.
« Come se voi due non lo faceste » scoccò con naturalezza, « comunque non intendevo quello. Io e Kurata dobbiamo fare una cosa e mi chiedevo se l'avremmo fatta stasera. Una cosa vestiti. Poi, nello spirito celebrativo della cosa vestiti potremmo fare anche la cosa senza i vestiti, ma quella non l'avrei chiesta a tavola. »

 
****



Quando aprii la busta del negozio, una buona mezz'ora dopo, ed estrassi la stoffa, mi investì un'ondata di consapevolezza.
Dietro di me Akito Hayama, ex fidanzato ormai a tutti gli effetti fidanzato e basta, ex novo, terminava di sistemare la testiera del letto. Ed ero certa, tanto da non aver nemmeno bisogno di chiedere, che condivideva il mio stesso stato d'animo.
La parte più melodrammatica di me guardava tutto a posteriori: Osaka, l'università, tutte le scelte che avevo fatto, anche quelle che non riguardavano lui - soprattutto quelle - in qualche modo mi avevano riportata a lui. E non in qualche modo, bensì nello stesso modo assurdo in cui, ogni volta che lo perdevo - i tre anni in America, la scelta di lasciarci l'anno prima -, lo ritrovavo più vicino di prima.
Non mi ero mai sbilanciata in materia di destino, se esistesse o meno era una domanda che mi ero posta spesso e su cui avevo congetturato abbastanza, senza mai trarre una vera conclusione, ma in quel momento preciso compresi che non era altro che un semplice atto di fede. Si trattava di credere in qualcosa di cui non avrei mai avuto la certezza. Quella sera decisi di crederci. Decisi di credere che c'erano forze maggiori che cospiravano contro di me - o a mio favore, dipende sempre dai punti di vista. Volente o nolente, Akito Hayama era destinato ad essere una costante nei capitoli della mia vita. O per meglio dire il cuore di essi.
« Mi aiuti? » gli porsi due estremità e ci avvicinammo al letto.
Osservarlo mentre si impegnava con gli angoli delle lenzuola che avevamo comprato il pomeriggio stesso - che per inciso detestava ed aveva acconsentito a comprare solo per far piacere a me -, mentre cercava di fare una piega il più perfetta possibile, mi riempì il cuore di felicità.
« Sai, Akito, in questo momento stiamo facendo esattamente l'ultima cosa che mi sarei aspettata di fare quando ho deciso di trasferirmi qui » confessai mentre infilavo il mio cuscino nella federa.
Sollevò la testa di capelli biondi. « Anche io, sai quanto odio fare il letto »
Sollevai gli occhi al soffitto. « Grazie Hayama, per fortuna ci sei tu che capisci sempre cosa intendo... »
Di risposta mi lanciò il cuscino in faccia e ci invase la stessa sensazione di déjà-vu.
« Non ti azzardare a darmi di nuovo della gallina » lo apostrofai.
Non mi badò e si stese sul letto cosparso di stelle, le braccia dietro la nuca.
Non gliel'avrei mai confessato, ma la scelta delle lenzuola non era stata casuale; generalmente avrei optato per qualcosa di più semplice, ma nel momento in cui le avevo viste non avevo potuto fare a meno di pensare ad una giornata ricca di pensieri circa orbite e pianeti, pioggia e pianerottoli.
Lo raggiunsi e mi abbracciò.
« Non siamo mai stati lontani » commentò infine, « di sicuro d'ora in avanti sarà impossibile esserlo »
A testimoniarlo anche i nostri due letti, ormai uniti in uno solo.

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