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Astrea sedeva sul primo dei due carretti che procedevano lentamente
verso la città di Forum Lepidi, era proprio accanto al coc
Astrea sedeva sul primo dei due carretti che
procedevano lentamente verso la città di Forum Lepidi, era proprio accanto al
cocchiere, voleva vedere a modo il paesaggio: un’immensa e sconfinata bionda campagna
tagliata da qualche rigagnolo stagnante, di tanto in tanto qualche albero si stagliava
carico di frutti verso l’azzurro cielo limpido, non v’era neppure una nuvola. C’erano
decine di mezzadri che mietevano con le loro falci, altrove si vedevano
ragazzini che tenevano dietro al bestiame; talvolta si scorgevano i poderi e i casali
dove le donne davano il becchime al pollame che ruspava nell’aia, oppure
filavano la lana, tessevano od erano dedite a molte altre attività. La ragazza
osservava tutto pensando tra sé e sé a quanto quel mondo le fosse
estraneo, era così diversa la vita di campagna da quella di città…
Ella aveva avuto la fortuna di
essere nata in una famiglia benestante che risiedeva dentro le mura, i beni di
prima necessità come gli abiti e il cibo li aveva sempre potuti comprare nei
negozi e non aveva mai avuto bisogno di coltivare o allevare. Non apparteneva
certo all’alta-borghesia, certo la sua famiglia viveva più che dignitosamente;
la giovane non faceva parte della gente bene, benché avesse molte volte
sfiorato quel mondo di apparenze, illusioni, vanità ed
ipocrisia. Sì, lei aveva avuto a che fare con diverse persone di quell’ambiente, che aveva più volte sfiorato, più volte vi
aveva dato una sbirciata, ma mai vi era davvero entrata.
Tutto era iniziato nove anni
prima, quando aveva iniziato a frequentare le scuole superiori, si era
iscritta al liceo più prestigioso, quello umanistico, in cui si dedicavano allo
studio o gli amanti della cultura, o i rampolli delle famiglie più prestigiose
della città. Il primo anno Astrea non conosceva praticamente
nessuno in quell’istituto, eccetto Eduardo, un suo
compagno del corso di teatro, più grande di lei di un anno. Egli era l’assai
eccentrico figlio di un avvocato, si professava discendente dei Marchesi di un
paese non molto lontano, ma da quando la monarchia era decaduta, i titoli
nobiliari interessavano solamente a chi li aveva persi e a pochi altri. Eduardo
aveva una ristretta cerchia di amici, da molti
definita la Corte, infatti ad ognuno di essi aveva dato un tipico ruolo delle
corti regali, ovviamente lui era l’imperatore, poi vi erano il cancelliere, il
ciambellano, il capo delle guardie, l’aedo, lo storico etc…etc… Tutti quei ragazzi facevano parte dell’alta società, tutti
tranne Astrea che si chiedeva come avesse fatto ad entrare i quel circolo tanto
esclusivo. In particolare la giovane si era legata ai tre fratelli Aristidei: Agakrathos, Halkemidos e Timao; essi forse erano
gli unici veri amici di Eduardo, infatti ci litigavano
un giorno sì e uno no, ma alla fine erano sempre uniti. Il maggiore era
coetaneo di Astrea, alto, corporatura robusta, aveva
capelli ricci e neri, occhi intensi, sguardo altero, labbra carnose, il suo
volto, il suo portamento, il suo comportamento, tutto in lui era assai
aristocratico, era il più chiuso ed altero del gruppo; il secondo, invece,
aveva i capelli lisci color del miele, gli occhi nocciola brillavano di una
strana luce, anche lui era robusto, ma più alto e snello del fratello, pure lui
era circondato da una forte aura di nobiltà, inoltre era molto desiderato da
quasi tutte le ragazze; il più piccolo, che aveva solo due anni in meno
rispetto al primo, aveva i capelli di un biondo misto rossiccio, riccioli,
aveva il viso molto simile a quello di Halkemidos, ma
meno affilato, non era affatto alto, anzi molti alle sue spalle ridevano della
sua scarsa statura, egli era il più vivace ed estroverso, non si faceva
problemi ed era amico anche di quella che dai suoi fratelli veniva definita “plebaglia”,
l’unica cosa che nell’aspetto lo legava all’ambiente aristocratico erano gli
eleganti vestiti.
Astrea, dunque, era entrata in contatto con questa
gente, per tre anni aveva mantenuto dei buoni rapporti, ma poi le cose erano
cambiate: da una parte aveva litigato con Eduardo, dall’altra tramite il
proprio migliore amico, Duccio, aveva conosciuto un gruppo di ragazzi davvero
meravigliosi a cui si era molto legata. Gli ultimi anni nella sua città natale
li aveva dunque trascorsi in compagnia di mezzi pazzi, mezzi artistie a scuola con l’amicizia
di Duccio e Timao. Già, l’ultimo degli Aristidei, quello che in principio aveva più ignorato, era
l’unico di quella cerchia che continuava ancora a frequentare, anzi, era
diventato un suo carissimo amico. Quando s’era accorta
di avere perso i contatti con Agakrathos e Halkemidos, aveva provato a rinsaldare i legami con loro,
ma erano diversi. I due in pubblico la ignoravano, le concedevano unicamente il
saluto, quando invece si incontravano casualmente per
strada, senza che vi fossero altri compagni di scuola, le parlavano a lungo e
la trattavano con affabilità e cordialità…. Una cortesia che Astrea percepiva
carica di ipocrisia, avvertiva come se tra di loro vi
fosse una lastra di vetro e, quindi, che per quanto potessero essere vicini,
non si sarebbero mai toccati.
Dopo il diploma, la giovane aveva lasciato la
propria città per andare a studiare altrove teatro, era stata via qualche anno
perdendo totalmente i contatti con tutti se non con Duccio che l’aveva
raggiunta poco tempo dopo. Adesso, ventitreenne, faceva finalmente ritorno alla sua Forum Lepidi. Sapeva che molte cose erano
cambiate: infatti poco meno di un lustro prima era
scoppiata una guerra civile in tutta la nazione, il conflitto s’era concluso
con la restaurazione della monarchia. Forum Lepidi era
diventata un ducato, ma Astrea era talmente furiosa e in collera che non volle
mai sapere chi avesse assunto il titolo di duca, ma presto lo avrebbe scoperto.
Ora che stava tornando assieme alla sua compagnia di teatro per portare i
propri spettacoli per le piazza, ora lo avrebbe
scoperto.
La piccola comitiva di teatranti era giunta alle porte di Forum Lepidi
in tarda serata
La piccola comitiva di teatranti era giunta alle
porte di Forum Lepidi in tarda serata. Il Sole era già tramontato, il cielo
pareva un morbido velo di velluto nero teso sopra alle teste degli uomini, le
stelle brillavano di una fredda luce metallica. L’unica luce calda era quella
delle torce, appese lungo la cinta. Le mura e i bastioni della città erano alti e possenti, i mattoni non erano rossi ma di quel
chiaro marroncino tipico dei castelli medievali e dei coevi palazzi comunali.
Quelle fortificazioni toglievano il fiato, così massicce e imponenti, parevano inscalfibili e gettavano nelle persone un senso di nullità:
che cos’era un piccolo uomo, destinato alla morte, a confronto di quelle solide
pareti millenarie? Qualcuno tra gli attori lo domandò, più per celia che per
filosofia, tuttavia Astrea rispose:
“Le persone, caduche e destinate all’oblio,
valgono molto più di qualsiasi edificio mozzafiato, se vivono davvero. L’uomo è
emozione, passione, sentimento; se non si pone freni, se si lascia trasportare
da sé stesso, se non si cura dell’apparenza e di ciò che vuole il maledetto
senso comune, allora davvero vive. Se, invece, ha
paura, se si lascia condizionare, se cerca disperatamente l’approvazione
altrui, allora non fa altro che far sopravvivere il proprio corpo. L’uomo
libero è infinitamente superiore a queste mura e a qualsiasi altra cosa di
questo mondo materiale; l’uomo timoroso ne è schiavo.”
Alcuni degli attori scossero la testa: era sempre la
solita filosofa; altri invece annuirono approvando tali parole e iniziando
discussioni impegnate tra di loro.
Entrarono in città, si fermarono coi carri in uno spiazzo vicino ai giardini pubblici, si
sistemarono un poco, accesero un fuoco per scaldarsi e cucinare; stanchi per il
viaggio e in vista della loro prima esibizione a Forum Lepidi, si coricarono
tutti quanti abbastanza presto. Prima di mettersi a dormire, tuttavia, Astrea
guardò il teatro più importante della città, il terzo più
bello della nazione, era stato eretto poco più di due secoli prima, proprio
accanto al parco. Lo guardò e tra sé e sé si chiese se i suoi pieni avrebbero
mai calcato quel palcoscenico; al momento doveva accontentarsi dei ciottoli
delle strade, ma infondo forse era meglio così, in questo modo poteva far
emozionare molta più gente ed era ciò che più voleva.
La mattina seguente, di buon ora,
gli artisti si recarono in Piazza Alta, montarono alcune tende affinché
fungessero da quinte e camerini, poi fu la volta della modesta scenografia; si
misero in costume, si truccarono e si prepararono ad entrare in scena. Il più giovane dei teatranti, un ragazzino di sedici anni, pieno di
vita e allegria, mascherato da giullare, inizio a suonare la tromba e a
richiamare l’attenzione dei passanti con battute di spirito, giochetti di
prestigio e altre facezie; quando si fu radunato un pubblico alquanto
consistente, ecco che l’attore iniziò a pronunciare il prologo, il sipario si
aprì e lo spettacolo ebbe inizio. La folla guardava entusiasta e si
lasciava trasportare dalla scena, rideva, piangeva, applaudiva.
D’improvviso, però, giunsero soldati in armi che a
gran voce intimavano: “Largo, largo! Sgomberate il passaggio, sta per giungere sua eccellenza il
Duca Agakrathos e i suoi fratelli, le loro grazie Halkemidos e Timao. Presto,
presto, cedete il passo, fate spazio!” Tutta la gente
iniziò a farsi da parte, si accalcò da un lato o l’altro della piazza, aprendo
così un ampio corridoio tramite cui sarebbe passato il piccolo corteo. Soltanto
gli attori non si erano mossi, pur occupando un tratto della strada, anzi
continuavano la loro rappresentazione senza esitare, senza batter ciglio, come
se nulla fosse. Irritati, i soldati fecero irruzione sulla scena, ribadirono l’ordine e scaraventarono a terra qualche
teatrante che, tuttavia, per un poco rimasero calati nella parte ed
improvvisarono. Le guardie erano terribili e irremovibili e si fecero ancor più
tremende quando giunsero le tre portantine che
trasportavano il Duca e i suoi fratelli e che si dovettero arrestare poiché
l’improvvisato palco intralciava il loro tragitto. Halkemidos,
seduto alla destra del signore di Forum Lepidi, con calma e freddezza domandò
al capo delle guardie che cosa stette succedendo, ma non ottenne da quello una
risposta, ci pensò Astrea. La giovane, infatti, camminando impetuosa, con
grandi falcate si pose davanti alla portantina centrale e, senza neppure
riconoscere i vecchi amici, da quanto era furiosa non aveva
neppure fatto caso ai nomi che i soldati avevano annunciato, iniziò a
dire: “Non si spezza un’emozione. Non si infrange un
sogno. Non si rompe una magia. Avete interrotto uno spettacolo teatrale: che
grande errore!” Fissò dritto negli occhi il Duca che aveva assunto
un’espressione arcigna e di disgusto, quelle folte ciglia aggrottate, quell’indignato sguardo altezzoso
le ricordavano qualcuno e finalmente lo riconobbe. Guardò rapidamente gli altri
due e il proprio stupore crebbe a tal punto che non
poté fare a meno di esclamare: “Voi? Tu…. Tu sei diventato Duca?” Agakrathos era sbalordito da così tanta spavalderia e da
modi così liberi ed irrispettosi, per cui, con la voce
vagamente segnata dall’ira, ma pur sempre calma, calda e distaccata, domandò:
“Come osi rivolgerti a me in questo modo? Anzi come osi rivolgerti a me?! Tu non dovresti neppure guardarci: abbassa gli occhi, non
sei degna.” Astrea si lasciò andare a
una fragorosa risata e ribatté: “Ma come? Così mi tratti, dopo tutte le volte
che abbiamo cenato assieme?”
Agakrathos stentava a credere alle
proprie orecchie: non poteva tollerare che una popolana, anzi, ancor meno, una
nomade, si permettesse di rivolgersi a lui in quella maniera e che affermasse
certe cose per di più! Egli, il Duca, che sempre s’era accompagnato
esclusivamente con la creme
de la creme,a cena con una del volgo? Impossibile! Che affronto tale insinuazione! Tuttavia c’era qualcosa che
non lo convinceva, in effetti quella voce non glie era
nuova… e quei lineamenti morbidi e decisi, quei profondi occhi ardenti come
tizzoni, quei capelli castano scuri e rosso fiamma, lunghi e boccolosi…… Tutto questo gli ricordava qualcuno, eppure
nella mente non gli riaffiorava alcuna memoria ben definita.
Halkemidos era stato gettato nel
medesimo stato d’animo del Duca, anche lui era convinto di aver già conosciuto quell’impertinente attrice, questa certezza gli era data non
tanto dall’aspetto fisico, ma dall’atteggiamento sprezzante e risoluto.
Solo Timao l’aveva
riconosciuta, solo lui la ricordava, ma non ne era
sicuro, erano passati ben quattro anni, ella comunque era un po’ cambiata
esteriormente; egli sperava in cuor proprio che quella fosse la sua vecchia
amica, ma il timore di essersi sbagliato, di essersi illuso, lo tratteneva dall’esclamare
il nome di Astrea.
Tutti questi pensieri attraversarono la mente dei
tre fratelli in un lampo e nessuno di loro ebbe il tempo di dir nulla per
replicare, infatti la teatrante s’era d’improvviso
ricordata di un’importantissima questione, per cui s’affrettò a dire: “Uh,
scusate un attimo, devo prendere una cosa prima di dimenticarmene, torno
subito, attendete un secondo, non di più.” La giovane si infilò
dentro a una delle tende e ne uscì recando con sé una busta che porse a Timao annunciando: “Da parte di un carissimo amico comune.”
Il nobile lesse rapidamente l’intestazione: A
TimaoAristidei, da Duccio.
Ora aveva la conferma che quella ragazza era quella ch’ei
credeva; si alzò in piedi tutto contento esclamando: “Ma allora sei tu!” Con un
balzo che poco si addiceva alla propria posizione sociale, saltò giù dalla
portantina dicendo gioioso con la sua profonda voce: “Astrea, Astra! Quanto
tempo! Perché non mi hai mai scritto?” La ragazza
ricambiò i saluto lietamente.
Nel mentre gli altri due Aristidei si scambiarono un’occhiata che in parte era
preoccupata: conoscevano bene il carattere della vecchia semi-amica. Agakrathos
iniziò a ricordare tutte le discussioni che avevano avuto, l’astio, tutti i
contrasti che erano nati tra loro: monarchia vs
democrazia, società piramidale vs uguaglianza sociale,
pugno di ferro vs tolleranza e così via. Il Duca
sapeva bene che Astrea non lo avrebbe lasciato in pace, sapeva che lei era d’indole
ribelle e sediziosa, sapeva che in lei pulsava uno spirito libero, non disposto
ad essere domato, che non si sarebbe piegato a lui, che non lo avrebbe mai ossequiato.
La soluzione migliore e più razionale era certamente quella di prevenire ogni
altra alzata di testa facendola arrestare e fustigare, così come aveva già
compiuto con altri soggetti ostili. Tuttavia c’era qualcosa che lo tratteneva,
qualcosa che stranamente non era dettato dalla formalità o l’apparenza, bensì
da un benevolo sentimento sincero, generato dalla memoria di altri
momenti del tempo che fu: era vero, avevano avuto molti animati dibattiti, ma
mai veri e propri litigi e spesso avevano anche dialogato serenamente sia di
cultura, sia dei reciproci problemi personali. Agakrathos,
che era sempre stato intransigente circa il rispetto che gli si doveva
tributare, che mai s’era fatto scrupolinel punire chi si mostrava indocile,
che ormai era noto a tutti per la propria durezza, non riusciva, in nome di quell’antico e debole legame, ad ordinare di mettere ai
ferri quella giovane. come agire, dunque? Doveva trovare
un modo per evitare a lei la galera e a sé stesso di rovinarsi la reputazione.
Intanto, sapendo anch’egli che doveva dare l’impressione
al popolo che quella giovane indisponente, si comportasse
in un modo così libero, non per ribellione, ma perché legata a loro, Halkemidos fece cenno di abbassare la propria portantina,
si levò in piedi e col capo alto e l’incedere del passo elegante e distinto,
che quasi parea brillare di luce propria, avanzò e
raggiunse Astrea e, mostrando un sorriso luminoso ma ipocrita, le strinse la
mano cordialmente dicendo: “Carissima, che piacere rincontrarti dopo così tanto
tempo. Come stai?”
“Benissimo, non posso certo lamentarmi. Voi,
invece? Non mi pare ve la passiate male…”
“Non ce la
passiamo male? Mio fratello è Duca! Oserei dire che la nostra vita sia
ottima.”
“Convinto tu…” replicò Astrea lasciando intendere
che assai dubitava che un uomo di governo potesse
esser lieto. Prima che si potesse aggiungere altro o cadere
in un imbarazzante silenzio, Agakrathos, dall’altro
del proprio trono, annunciò: “Oggi, sarai nostra ospite a pranzo, così potremo
parlare a lungo; adesso non possiamo trattenerci oltre, abbiamo questioni
importanti da sbrigare. A più tardi.”
I due Aristidei minori
risalirono sulle loro portantine, il corteo era pronto per ripartire, quando il
capo delle guardie osservò: “Ma il paesaggio è ancora ingombrato da questi
attori….”Halkemidos, sapendo
che insistere per liberare la strada avrebbe causato soltanto problemi inutili,
con finta naturalezzarispose:
“Non essere ridicolo, questi teatranti dovrebbero smontare tutto, perderemmo un
sacco di tempo. Se tu ci avessi informati prima
avremmo variato fin da subito il nostro tragitto, infondo noi siamo promotori
dell’arte e ci dispiace aver interrotto uno spettacolo, lascia che lo
riprendano e noi avviamoci per una strada più corta.”
Le campane avevano appena cominciato a scandire i
tredici rintocchi che annunciavano l’orario, erano quelle del campanile del
duomo, massiccio edificio romanico che tuttavia presentava alcuni elementi
gotici, ad esempio il rosone e altissime trifore decorate con vetrate
variopinte che narravano le vite di molti santi. La basilica si trovava nella
piazza centrale di Forum Lepidi, che era anche quella del mercato.
DON.
Nella parte più a Nord del centro della città si
ergeva il palazzo Ducale, non era una fortezza, bensì un elegante edificio
neoclassico, con molte marmoree colonne ioniche con capitelli corinzi lungo la
facciata azzurra su cui si aprivano finestre dai molti bianchi stucchi.
DON.
Davanti ad esso si apriva una vastissima piazza
priva di monumenti o fontane, in essa spesso sfilavano i militari, per questo
era chiamata piazza d’armi.
DON.
Dietro, invece, cresceva rigogliosamente un
immenso parco, attraversato da vialetti di candida ghiaia e solcato da un ruscelletto che formava pure un piccolo laghetto: un vero
paradiso.
DON.
Astrea era in piedi, ferma immobile, dal lato
opposto della piazza ed esitava ad attraversarla. Da una parte aveva voglia di
rivedere gli Aristidei, passare del tempo con loro immergersi
nuovamente, per un poco, in un ambiente aristocratico, acculturato, ma falso;
dall’altra tremava, non sapeva perché, forse per il fatto che i tre fratelli
non fossero più quelli che aveva conosciuto, o forse era solo l’emozione, ma
tremava.
DON.
Si decise ad andare. Attraversò la piazza, incerta,
molti ricordi si susseguivano rapidamente nella giovane mente: le cene da
Eduardo, le chiacchierate, i concerti di musica classica dei tre fratelli che
rispettivamente suonavano il pianoforte, l’oboe e il violoncello.
DON.
Era davanti al portale a sesto acuto, retto da due
telamoni scolpiti in maniera estremamente realistica, precisi nel dettaglio: muscolatura
perfettamente definita, un morbido panneggio increspato nei veli che li
avvolgevano, la barba e i baffi scompigliati, lo sguardo e l’espressione di chi
fatica a reggere un grande peso.
DON.
Davanti all’ingresso vi era un drappello di sei
soldati, indossavano una divisa blu notte con bottoni color dell’oro. Erano armati
di tutto punto con spade, pugnali, mazzafrusti e lì accanto, pronti ad essere
impugnati, si trovavano archi, balestre e fionde.
DON.
Astrea allungò la mano, l’appoggiò sul pomello d’ottone
e ancora indugiò: e se le avessero fatto del male? Ricordò quando, pochi mesi
prima di finire il liceo, durante la gita scolastica, esasperata perché la
ignorava, lei aveva chiesto ad Agakrathos: “Ma ti sto
antipatica?”
“No…… Sono stanco.”
“Non è questione di adesso, è in generale. Capisco
che, forse, ti possa essere sembrata assillante ultimamente, ma è solo perché,
comunque, una volta avevamo un buon rapporto, ora invece non ci parliamo più e
a me piacerebbe rinsaldare quel legame.” Egli aveva ascoltato tutto quanto
impassibilmente, la osservò imperturbabile per un istante, poi fece il segno
della croce dicendo: “Ti do la benedizione papale.”
DON.
No, non avrebbe potuto farle più male d’allora.
Astrea avrebbe preferito mille volte che l’Aristideo,
in quell’occasione, le avesse detto di odiarla,
infondo l’odio era comunque una forma di rispetto e di considerazione. L’indifferenza
faceva male più di ogni altra cosa.
DON.
No, non l’avrebbero ferita, sarebbero stati soli,
non c’erano altre persone, non dovevano mantenere un prestigio davanti ad altri
amici, erano solamente loro quattro… Inoltre erano passati alcuni anni, anche
gli Aristidei erano cresciuti e se ciò non li aveva
fatti maturare, almeno erano diventati i signori della città e non dovevano
rispondere a nessuno delle proprie azioni e delle proprie frequentazioni.
DON.
Astrea varcò la porta e attraversò un lungo
corridoio decorato in stile barocco: l’oro si sprecava! Un maggiordomo, esageratamente
elegante per il proprio ruolo, la scortava e le mostrava la strada da
percorrere per raggiungere la sala da pranzo. Ovunque ci erano quadri,
sculture, arazzi e specchi.
DON.
La porta della sala da pranzo si aprì, erano già
seduti Halkemidos e Timao. Il
posto di capotavola era libero, riservato per il Duca, quello alla sua destra
era appunto occupato dal fratello mediano, quello a sinistra era stato
destinato all’ospite che aveva accanto anche il più piccolo dei nobili.
Astrea salutò cordialmente, gli Aristidei ricambiarono, ella si sedette
nel posto che le era stato assegnato e iniziò a guarda
Astrea salutò cordialmente, gli Aristidei ricambiarono, ella si
sedette nel posto che le era stato assegnato e iniziò a guardarsi attorno. La
stanza era molto luminosa, infatti si apriva una larga
ed alta finestra dietro al posto del capotavola, essendo la sala al terzo piano
non si temevano attentati, per cui il Duca non temeva a dar le spalle alla
vetrata. Da quella finestra, dunque, la luce estiva entrava ed inondava la
stanza facendo così brillare la maggior parte degli oggetti presenti: dalle
posate d’argento, ai calici di cristallo, dalla tovaglia di raso, al lampadario
a gocce di vetro e poi i due specchi in cornici d’oro, i vetri dei raffinati
mobili in mogano decorati con intarsi che narravano chissà quali miti od
eventi. Tutto luccicava. La ragazza era messa di buon umore dall’infrangersi
della luce che colpiva quell’ambiente, ma ne era anche infastidita, quell’intensa
luminosità le bruciava gli occhi. Gli scranni su cui sedevano erano imbottiti
come poltroncine ed avevano decori rococò, erano tutti foderati di damasco blu,
tutti tranne quello del Duca che, oltre ad essere più elaborato, era del nobile
color porpora. La tovaglia era gialla e i tovaglioli bianchi; davanti a ciascun
commensale vi erano tre bicchieri, un piatto sormontato da uno
fondo che, a sua volta, era coperto da un piattino, alla destra vi erano le
forchette a quattro denti, alla sinistra un coltello e davanti un cucchiaino.
Su tutte le stoviglie era impresso o dipinto lo stemma
degli Aristidei. Le pareti erano rivestite di seta azzurro, abbellite da geometrici più scuri; il
soffitto era affrescato con immagini grottesche su sfondo bianco. Astrea si
sentiva un po’ fuori luogo, era la prima volta, dopo molto tempo, che si
ritrovava in un luogo così raffinato;negli ultimi anni aveva sempre
mangiato qualsiasi cibo nella mediamo scodella, avendo per posate un arnese che
da un lato aveva la concava del cucchiaio, e dall’altro i tre denti della
forchetta e un coltellaccio che usava in molte altre occasioni.
Un improvviso squillo di tromba, che annunciava
l’arrivo del Duca, ridestò l’attenzione della ragazza, assopita nel contemplare
la sala. Agakrathos fece il proprio ingresso: varcò
la soglia, i suoi fratelli si alzarono in piedi in segno di rispetto e saluto,
invece Astrea restò seduta, il Duca lo notò e quando si fu accomodato (e quindi
anche gli altri due si rimisero a sedere) rivolto a lei, osservò con
disappunto: “Tu non rispetti il mio essere nobile.”Ella rispose rivolgendosi non solo a lui ma a tutti e tre:
“No, hai ragione. Io vi rispetto come persone ed è quanto di più si possa desiderare. Io non rispetto il vostro titolo, io non
rispetto il vostro sangue, io non rispetto il vostro
potere. Io rispetto voi.”In quelle
parole non vi era alcuna arroganza, per cui gli Aristidei rimasero stupiti, ma non lo dimostrarono, i loro
volti non furono solcati da alcuna emozione mantennero quella maschera di
sereno distacco che non abbandonavano mai, neppure quando ridevano, neppure col
riso che è la cosa più spontanea dell’uomo, sembravano sinceri. Dopo pochi e
brevi istanti di silenzio, Agakrathos suonò la
campanella che era appoggiata accanto ai sui calici e
subito, da una porticina mimetizzata dalla tappezzeria, uscirono due camerieri,
uno portava un vassoio con gli antipasti, l’altro li serviva nei piattini. Il
Duca fissò un attimo l’ospite, poi chiese: “Raccontaci, ti abbiamo lasciata quand’eri un’aspirante attrice piena di speranze,
cos’è accaduto? Come sei finita a recitare per le strade? Non hai avuto fortuna?”
“Entrare in una compagnia stabile è assai difficile, bisogna prima fare molta gavetta in altri
ambienti. Viaggiare è molto interessante, per esempio…” cominciò a raccontare
alcuni episodi che aveva vissuto, da lì presero a nascerealtri dialoghi. Parlavano, parlavano e
parlavano, vi erano già stati alcuni screzi, ma senza che alcuno se ne avesse a male. Il secondo
stava per essere servito, quando entrò il maggiordomo annunciando: “C’è il
Maggiore Ponte che vi chiede udienza d’urgenza, poiché sostiene di aver
catturato un rivoltoso. Cosa devo rispondergli?” Agakrathos,
pur essendo seccato dentro di sé, acconsentì con la solita calma: “Conducilo
qui.” Astrea, guardandolo, domandò adHalkemidos: “Dicevi che la vostra vita è felice? Non
vi permettono neppure di desinare in pace…”
“Queste sono questioni di massima importanza! Ne va
della nostra vita!”
“Appunto, siete potenti, però vivete
sempre con la paura di essere insidiati, no?”
“Che esagerazione! Non
abbiamo ansia, non siamo vinti dal timore; affrontiamo questi intralci con
lucidità e prendiamo le giuste precauzioni. Siamo al sicuro come Dionigi, ma
senza la sua apprensione. Siamo tranquilli.”
Fece il proprio ingresso il maggiore Ponte, nella
sinistra teneva una catena che legava i polsi del prigioniero che rimase in
piedi, mentre il soldato si inchinava al cospetto del
Duca, salutava e iniziava a spiegare: “Abbiamo, io e i miei uomini, colto in
flagrante costui che, in un’osteria, parlava di rivolta e sedizione.” Il Duca meditò un attimo, poi sentenziò: “Imprigionalo
e fustigalo con venti frustate al giorno per un mese,
poi mozzagli le orecchie e vendilo come schiavo in un'altra città.”
Astrea ridacchiò. La giovane aveva riconosciuto
all’istante il prigioniero: sei trattava di Carlo Cacio.
Egli aveva due anni in più di lei, aveva frequentato la medesima scuola, i suoi
lunghi e lisci capelli castano scuro, la sua barba da re persiano, i suoi occhi
scuri impenetrabili e penetranti, che parevano poter scrutare dentro ogni cosa,
che parevano poter vedere altri piani dimensionali
negati ai comuni mortali, che parevano bastioni che proteggevano la sua anima, avevano
affascinato fin da subito Astrea che per lungo tempo era stata innamorata di
lui. Per i primi due anni, vedendosi solo a scuola, Carlo era stato scostante,
in un primo momento era stato disponibile, poi aveva iniziato ad evitarla, ma
di rado le rivolgeva la parola, anzi rispondeva vagamente alle domande che ella gli poneva. Quand’egli si era diplomato ed Astrea era
convinta che non lo avrebbe mai più rivisto, ecco che subito la situazione
mutò; infatti Duccio le aveva fatto conoscere il
proprio insegnante di teatro, Nibbio, che le era stato simpatico fin da subito,
iniziò a frequentare quella casa e le molte persone che andavano e venivano da
lì, tra esse vi era anche Carlo. Si era formato un vivacissimo gruppetto di giovani,
che forse non tutti si frequentavano spesso, tuttavia era affiatato e avevano
dato vita a molti eventi. Astrea e Carlo, dunque, si vedevano più di prima,
condividevano molti momenti di vita, per cui si creò
una forte amicizia, ma nulla di più. Ella, infine,
aveva accettato l’idea di non poter mai essere la morosa del suo amato, oramai
erano anni che non era più innamorata di lui, sebbene in sua presenza
continuasse a provare uno strano sentimento. La giovane, quindi, non poteva
permettere che il suo amico andasse incontro all’orribile sorte predisposta da Agakrathos, per cui pensò
rapidamente a una scusa e le sovvenne alla mente la triste reputazione di cui godeva
Carlo a scuola…
Rise. “Che ti prende?” domandò
Halkemidos, brusco solo interiormente. “Non lo
riconoscete” domandò lei “Non è diventato lo scemo del
villaggio? Lo zimbello del paese? Dai non ditemi che non vi ricordate di Cacio…”
“Il matto della scuola, è vero!” aggiunse Timao, che continuò: “Sì, sì, è vero… È quello che s’aggirava
pei corridoi parlando della morte e altre corbellerie!”
i fratelli fecero cenno di aver inteso. “Io stesso, l’altro giorno” proseguì il
piccolo “L’ho sentito che parlava di insorgere, ma nessuno lo stava ad
ascoltare, anzi la gente rideva di lui e gli lanciava contro verdura marcia. È innocuo.”
“Se le cose stanno così” dichiarò
il Duca “Commuto la pena in una notte in cella e una decina di frustate al
rilascio. Te ne occuperai tu, Timao,
domattina.”
“Va bene.” acconsentì il
più giovane degli Aristidei. Il maggiore Ponte portò
via il prigioniero, intanto Agakrathos proseguì
rivolto al fratello minore: “Inoltre, oggi pomeriggio, se non hai incombenze
urgenti, farai compagnia alla nostra ospite.” Astrea si
stupì, sgranò gli occhi e affermò: “Io, veramente, pensavo di togliere il
disturbo dopo pranzo, i miei compagni attori mi aspettano e…”
“Abbiamo già provveduto ad
informarli che ti tratterrai qui da noi per un po’ di tempo.”
“Questo, però, non è vero…”
“Come?” disse con finto stupore il Duca e con quel
velato tono di chi ha preso una decisione e non ha intenzione di revocarla “Non
vuoi soggiornare da noi per qualche mese? Certo che lo
vuoi… e poi un’ospitalità simile non la si può
rifiutare.”
Astrea capì: era prigioniera. Fingendo di ignorare
quest’amara verità, cordialmente rispose: “Hai
ragione, un’offerta simile non posso declinarla.”
Poiché era una bella giornata, Timao propose ad Astrea di fare assieme
una passeggiata nel parco del palazzo
Poiché era una bella giornata, Timao propose ad Astrea di fare assieme una passeggiata nel
parco del palazzo. Dunque uscirono sul retro, un prato
lungo duecento metri si apriva davanti a loro, al centro passava un largo
sentiero di ghiaia bianca, che si restringeva sul fondo, poco prima di entrare
in quello che pareva un boschetto. Vi erano anche vialetti laterali e altri
trasversali, quest’ultimi dividevano le aiuole, in
ognuna delle quali erano coltivate varietà diverse di una stessa specie di
fiori, disposte in modo tale da formare variopinti disegni. Le stradine,
inoltre, erano state abbellite con statue di gesso che rappresentavano divinità
pagane e altri personaggi mitologici. Il nobile e l’ospite attraversarono tutto
il viale principale ed entrarono nel presunto boschetto, che in realtà era il
parco vero e proprio, molto ben curato ove crescevano alberi secolari, per lo più querce, faggi e pioppi. Dopo una lunga camminata,
decisero di fare una sosta e sì sedettero in una piccola rotonda di marmo,
eretta tra le piante, per cui era all’ombra delle
folte chiome e lì il Sole non picchiava e non stancava col suo calore. Era
calato il silenzio da qualche minuto, quando Astrea riuscì a chiedere: “Per
favore, domattina potresti non frustare Cacio…?”
“Non era mia intenzione farlo.”
“Oh, grazie! Lui è una persona molto importante
per me e non volevo che gli capitasse qualcosa di male.”
“Grazie a te per aver iniziato a difenderlo oggi a
pranzo, mi hai dato un ottimo spunto per tirarlo fuori dai
guai, non so se altrimenti ci sarei riuscito.”
“Prego, però è stato indispensabile che tu
intervenissi a darmi man forte… Ma perché l’hai fatto? Non capisco… Lo conosci,
forse?” Timao si alzò in piedi, si guardò intorno per
esser certo che non ci fosse nessuno, quando fu certo che fossero soli, si
avvicinò alla ragazza e sottovoce le domandò: “Tu sai il mio segreto, ricordi?
Lo confidai a te e a Duccio.” Astrea ricordò, tornò con la mente a cinque o sei anni prima…
Quel giorno c’era
l’assemblea d’istituto a scuola; lei, il suo migliore amico e il giovane Aristideo l’avevano disertata, s’erano chiusi dentro a un’aula, se erano seduti a terra per non essere visti
dalle finestre. Parlavano, giocavano a carte, ridevano e scherzavano, ma ad un
tratto, senza un apparente motivo, Timao si era fatto
serio in volto e gravemente aveva dichiarato: “Ragazzi, io vi devo confidare un
segreto.”
“Dicci.”
“Non è
facile per me dirlo, perché nessuno se lo aspetterebbe, però è la verità…”
“Cosa?”
“Voi siete i
primi a cui lo rivelo, dovete promettermi che non lo direte a nessuno.”
“Tranquillo,
non sveleremo nulla, giuriamo.”
“I miei
fratelli non lo devono assolutamente sapere, perché se lo scoprono, per me è la
fine.”
“Dicci.”
“Io non sono
monarchico come loro!”
Astrea annuì, Timao
prese a spiegare sussurrando: “Tu forse non ci crederai, ma è così: io sono uno
dei promotori, organizzatori e finanziatori della rivolta.”
La ragazza era rimasta senza parole per lo stupore, il giovane continuò: “Le
azioni dei miei fratelli dono deprecabili, sono insensatamente aspri e devono
essere ostacolati. È meglio, però, non parlarne qui, adesso, domattina ti
mostrerò molte cose, così capirai maggiormente quel che accade e quel che facciamo noi. Cacio è uno
dei nostri più abili uomini, dovevo assolutamente difenderlo, ma, ti ripeto,
tra meno di ventiquattro ore, ne saprai di più.”
Rimasero nuovamente in silenzio, Astrea spostava
lo sguardo trai rami degli alberi, vedeva il vento che
faceva danzare le verdi foglie, scorse più in là un nido ove tre piccoli di
gazza stridevano affamati, placandosi solo una volta che la madre aveva portato
da mangiare, stretto tra gli artigli, un coniglietto di un paio di settimane.
Gli esili colli si allungavano e i becchi strappavano brani di carne al piccolo
roditore ancora vivo, che s’agitava inutilmente finché, squarciato il ventre,
non spirò. Dura realtà.
“Quanto dovrò rimanere qui?” chiese Astrea.
“Dovrai? Potrai, intendi dire… Comunque quanto ti
pare.”
“Suvvia non fingere. Per quanto mi riguarda, me ne andrei volentieri anche ora, ma dubito che Agakrathos me lo conceda, non è così?” Timao
non rispose, ma il suo sguardo era, stranamente, molto eloquente; la ragazza
continuò: “Si può sapere, almeno, perché mi vuole tenere prigioniera? Non ho
fatto nulla.”
“È per quel che potresti fare. È una precauzione
che hanno voluto prendere i miei fratelli, ho provato
a dissuaderli, ma non ho potuto essere troppo insistente, altrimenti avrebbero
potuto sospettare qualcosa…” Iniziò a raccontare…
Poco dopo
aver lasciato piazza Alta, quella mattina, il Duca
aveva dato ordine di essere condotto a palazzo dove si era chiuso in una stanza
coi suoi germani per pensare al da farsi. “Non possiamo permettere le sue idee
libertarie in pubblico!” aveva esordito Agakrathos
“Quanto odio i popolani che hanno un pensiero indipendente! Perché
esistono? Non possono adeguarsi tutti al pensiero comune ed essere placidi e
manipolabili? No! Devono fare gli originali, avere una propria opinione ed
intralciarci. Ah, ma sono i problemi di inizio
governo, quando c’è ancora qualche residuo di plebaglia istruita. Noi, però,
impediremo il proliferarsi di questo cancro: le scuole di un certo livello
saranno esclusivamente per gli aristocratici, al volgo lasciamo il minimo…” Halkemidos aveva dato un colpo di tosse e aveva richiamato
il fratello a focalizzarsi sul punto principale. “Ah, sì, giusto, giusto Astea…. Dobbiamo impedirle di tenere serti atteggiamenti
nei nostri confronti, specie quando c’è gente e di
divulgare le sue opinioni che potrebbero far germogliare il seme della rivolta
in seno alla plebe. Avete qualche proposta? Niente di violento, però, non voglio farle del male, almeno finché non causerà seri
problemi.” Timao aveva detto: “Basterebbe esortarla a
ripartire al più presto con la sua compagnia.”
“No” dissentì il Duca “Andrebbe altrove a cercar di destare gli
animi…. Bisogna tenerla imbavagliata e sottocontrollo.”
“Io un’idea
l’avrei” avanzò Halkemidos “Tratteniamola nel nostro
palazzo, la ‘coccoleremo’ con il lusso, i privilegi, onori e altro in modo da
mitigare sempre più i suoi spiriti ribelli fino a
spegnerli completamente. Dopo di ché le ritaglieremo
un posto nell’alta-società, così se ne rimarrà tranquilla e noi potremo sempre
sorvegliarla.”
“Mi piace
come piano, vada per questo, più avanti, magari,
riusciremo anche a rendercela utile… Perfetto, allora è deciso: rimarrà qua e l’addomesticheremo.”
“Che cosa?!” rimase
esterrefatta Astrea “Ah, ma si illudono. Non ricordano ch’io
sono un’attrice? Fingerò e appena potrò fuggirò da qui e riprenderò la mia
strada.”
“Non vuoi aiutare la ribellione?”
“Non so… è un affanno tale… Io son
sempre stata conteso dalla mia anima politica che segue il senso di giustizia e
quella filosofica che ambisce alla pace interiore. Darmi da fare per queste
vicende umane è spesso vano e non mi eleva, per cui
che ci pensi chi è legato a questo mondo, a battersi per esso, io ho qualcosa
di più grande da seguire. Comprendi?”
“No, lo trovo un ragionamento egoistico, ma fa lo
stesso, non ti voglio imporre alcunché, se cambierai idea
sai a chi rivolgerti.”
“Una mano, se posso, ve la darò comunque
volentieri.”
Il mattino seguente Astrea si destò di buon ora, com’era abituata nella
compagnia teatrale, quasi si stupì di ritrovarsi in qu
Il mattino seguente Astrea si destò di buon ora, com’era abituata nella compagnia teatrale,
quasi si stupì di ritrovarsi in quella stanza, poi ricordò di essere nel
palazzo ducale. Aveva dormito molto bene, da diversi mesi non si sdraiava su un
letto o aveva un soffice cuscino sotto la testa o era avvolta da lenzuola; infatti quando viaggiava sui carri, dormiva nei prati, per
terra, in tenda, dentro al sacco a pelo, senza neppure usare il pigiama;
quand’erano fortunati venivano ospitati in qualche casa parrocchiale e allora
potevano sdraiarsi su materassi duri, bucati, ammuffiti, con coperte ruvide e
rigide. Quella camera, dunque, era un vero lusso per la ragazza: letto a una piazza e mezzo, molto alto, bianche lenzuola di cotone
ben lavorato, il copriletto di seta verde con ricami floreali. Si alzò e appoggio i piedi nudi su un morbido tappeto, li infilò in un
paio di pantofole azzurre con sopra ricamate due grandi margherite, le aveva
scelte la sera prima tra le molte paia mostratele dai servitori degli Aristidei. Andò dall’altra parte della stanza e aprì gli
scuri delle alte finestre da cui si aveva una visuale del parco; si volse poi
verso l’armadio che oltre con i pochi suoi, era stato riempito con numerosi
abiti eleganti, li osservò, poi optò per i propri pinocchietto azzurri e una camicia rossa priva di maniche.
Si lavò a modo nel bagno attiguo ove su un treppiede di bronzo era stato posto
un catino di ceramica, colmo di acqua fresca; quasi
non era più abituata a lavarsi se non in un fiume o in un lago. Una volta
pronta andò nella sala da pranzo per la colazione.
Vi era soltanto Halkemidos,
col volto assonnato, indossava una camicia celeste, sul tavolo aveva appoggiato
una cravatta blu scuro a righe sottili azzurrine, stava imburrando una fetta di
pane tostato e teneva vicino un barattolo di marmellata di albicocche
fatta in casa. “Buongiorno!” salutò il nobile con quella sua voce cordiale e
solenne. Astrea sorrise e ricambiò sussurrando, si accomodò e presto giunse una
cameriera a portarle la colazione che aveva ordinato la sera precedente. “Hai
dormito bene?”
“Sì, indubbiamente, si sta bene qui.”
“Neson
lieto, auspico vorrai farci compagnia a lungo.” dichiarò
con falsa ospitalità nel tono.
Fece il suo ingresso Agakrathos,
senza squilli di trombe: detestava i rumori e i suoni acuti appena svegliato;
il fratello si levò comunque in piedi, Astrea alzò
appena lo sguardo e continuò a girare il proprio cucchiaio nella tazza di
cioccolata. Al duca furono immantinente serviti il suo
caffè e la sua brioche alla crema. La conversazione fu molto formale, con frasi
di circostanza; poco prima di alzarsi da tavola, il maggiore degli Aristidei annunciò alla giovane: “Questa mattina ti lascio
nuovamente in compagnia di Timao, ma nel pomeriggio mi intratterrò io con te.” Astrea sorrise, forse un po’
forzatamente, non sapeva cosa dire, per cui si limitò
ad un semplice: “Volentieri.”
Pochi minuti dopo anche Halkemidos
se ne andò per occuparsi delle proprie mansioni; la
ragazza rimase seduta ad aspettare il più giovane dei tre fratelli che non
tardò molto ad arrivare. Timao fece colazione con
estrema calma e Astrea iniziava ad annoiarsi, si alzò in piedi, vagò per la
stanza, si affacciò a una finestra. “Sei nervosa?”
“No, ma non sono abituata all’ozio, non mi piace
stare senza far nulla.”
“Sei irrequieta. Tra poco usciremo.”
Terminata la colazione, Timao
invitò la ragazza a seguirlo; scesero diverse rampe di scale fino a giungere
nei sotterranei, dove si trovavano le segrete del palazzo; il nobile si fece
indicare la cella di Cacio e vi entrò da solo,
impugnando una frusta. Trascorsero dieci minuti durante i quali si udirono
schiocchi e grida.
La porta si aprì e Cacio
uscì con espressione vagamente dolorante e la maglia bianca macchiata di rosso
sulla schiena, spintonato in malo modo da Timao che
inveiva contro di lui. il nobile ordinò a due guardie
di scaraventare il poveraccio per strada; poi, facendosi seguire dalla ragazza,
andò nei propri appartamenti, dando ordine di non essere disturbato per alcun
motivo durante le successive tre ore. Una volta soli, Timao
invitò l’ospite a sedersi, poi si chinò a terra, sollevò un tappeto svelando
così una botola, l’aprì e fu chiaro che si trattava di
un armadio a pavimento, da l’ tirò fuori
due mantelli di rozza tela leggera di colore beige, due tricorni veneziani, una
parrucca. Timao indossò la falsa capigliatura, si
avvolse in uno dei mantelli e si calcò in testa uno dei cappelli, esortando la
ragazza a fare altrettanto; successivamente il nobile
andò vicino a una statua che abbelliva la sua stanza, toccò il basamento ove vi
era un grande quadrato, formato da molti altri quadretti colorati e numerati,
li spostò, formò una speciale questione ed ecco che si aprì un passaggio
segreto. “Presto, seguimi.” Entrò nel cunicolo,
accese una torcia e iniziò a scendere un scalinata. Astrea
era rimasta esterrefatta, ma s’affrettò a star dietro
all’amico. “Dove andiamo? Dove porta
questo passaggio?”
“Conduce da molte parti, più avanti vedrai che la
strada si dirama, quindi stammi vicina o ti perderai. Ogni via sbuca poco
lontano da uno dei punti di ritrovo dei rivoltosi, il
collegamento non è diretto per evitare che, se disgraziatamente fossi scoperto,
i miei fratelli possano inviare i loro soldati per una sortita. Adesso ci
rechiamo in un posto tranquillo, è una specie di locanda solo per i rivoltosi,
dove ci si trova in modo informale, si parla, si scambiano idee o semplicemente
ci si diverte.” Dopo circa un quarto d’ora tornarono all’aria aperta, percorsero una viuzza, poi ne
imboccarono un’altra che li condusse in un quartiere degradato, si fermarono
vicino a una bettola con i vetri delle finestre a specchio. Timao
bussò con un particolare ritmo, poi iniziò a recitare due versi di una parola d’ordine,
dall’altra parte della porta una voce la continuò e infine il nobile la concluse. L’uscio si aprì e i due amici entrarono. Astrea si
guardò intorno e si meravigliò nel notare come quel locale fosse
ben tenuto, certo era semplice, rustico, con tavoli in legno grezzo, tuttavia
era pulito, accogliente e caloroso. Sedeva ad un tavolo, con un buon boccale di
birra posto davanti a sé, Carlo. L’Aristideo si diresse immediatamente da lui, si accomodò allo stesso desco
assieme alla giovane. “Allora cos’è andato storto? Com’è che sei
stato arrestato?”
“Il palo non m’ha
avvertito.”
“Tutto qui? Semplicemente un idiota non ha fatto
il suo dovere? Voglio il suo nome, subito, così controlleremo se è stato un
errore più o meno volontario!”
“Ettore Canedi, nome in
codice: Tasso Fiorito.”
“Bene. Giacché vi conoscete, ti lascio in
compagnia della nostra comune amica, io devo parlare con alcune persone.”detto ciò si alzò da tavola e
cominciò a girare da un gruppo di gente all’altro. Carlo e Astrea rimasero in silenzio per un poco, poi lei domandò: “Come fai
ad essere appoggiato allo schienale? Non ti hanno frustato?” il ragazzo indicò
le macchie rosse e bofonchiò: “Pomodoro.”Cacio era sempre stato di poche parole e la sua loquela era
estremamente lenta, il viso era inespressivo, mai nessuna emozione lo
attraversava; soltanto in un’occasione Astrea aveva capito che egli fosse
furioso, non perché il volto fosse deformato dalla rabbia, ma per una strana
fiamma che gli aveva travolto gli occhi, altrimenti solitamente atoni. Un’altra
cosa che lo rendeva umano era il riso, quando rideva si sentiva che era
spontaneo, la risata pareva innaturale, ma non come se fosse forzata, ma come
se non venisse usata da tanto tempo. Astrea, per la
prima volta, pensò alle somiglianze e alle differenze circa l’impressione che facevano Carlo e gli Aristidei.
Entrambi sembravano distaccati, entrambi apparivano
con un volto sempre uguale, intonso da emozioni; tuttavia il primo pareva completamente
estraniato, alienato, gli altri invece erano presenti. Difficile era a dirsi chi sembrasse più irreale.
Il silenzio trai due
rimaneva, la ragazza si decise a parlare e domandò: “Ma qui cosa fate? Come si
è formata la ribellione e perché?”
“Il Duca è molto aspro, repressivo, autoritario…
La sera c’è il coprifuoco: totale per la plebe, parziale per i borghesi perché
possono chiedere dei permessi, inesistente per i nobili. In ambito giudiziario
si riducono a torture, mutilazioni, morte, schiavitù. Dispotismo,
ecco quello che c’è. Fin da subito io, Duccio, Tetano, Biagio, Ivan e
tutti gli altri del gruppo di Nibbio ci siamo
organizzati; all’inizio protestavamo e basta, non causavamo troppi problemi, ma
poi Timao ci ha contattati, in un primo momento non
ci siamo fidati, ma poi si è mostrato leale e così abbiamo creato questa società
segreta. Non facciamo nulla di attivo, il Duca non
sospetta nulla, per ora cerchiamo di far proseliti e di conceder spazi liberi
alle persone.”
Timao e Astrea tornarono a palazzo per l’ora di pranzo, fingendo di non
essere mai usciti
Timao e Astrea tornarono a
palazzo per l’ora di pranzo, fingendo di non essere mai usciti. Come
preannunciato, quel pomeriggio, fu l’Aristideo
maggiore a godere della compagnia della giovane;
anch’egli la condusse nel grande giardino, però preferì addentrarsi fin nel
cuore di esso dove si trovava un prato privo di alberi al cui centro era stato
eretto un gazebo ornato con motivi orientali: dragoni e tigri d’oro
s’arrampicavano tra le navi color del mare. Lì sotto erano poste delle
poltroncine basse, imbottite, della medesima fantasia del chiosco e un tavolino
treppiede di marmo, non tozzo, ma slanciato e si
atteneva allo stile del loco. Vi era un solo ingresso, poiché gli altri lati
erano completamente chiusi da roseti dai molti colori. Il Duca invitò la
giovane ad accomodarsi, girò intorno nel gazebo osservando scrupolosamente i
fiori, infine ne trovò uno che lo soddisfacesse, lo
recise con delle cesoie che erano lì e lo porse: una rosa corallo. Astrea
poggiò il naso trai petali e inspirò profondamente,
lasciando che il profumo le penetrasse le narici e le invadesse i polmoni: che
dolce odore, intenso, ma che trasmetteva un senso di leggerezza e di vago, le
fece tornare in mente il giorno in cui lei, Carlo e Nibbio erano andati a
passeggio in un boschetto segreto.
Era un tardo
pomeriggio di fine gennaio, avevano camminato a lungo per stradine di campagna
ove non passava nessuno, infine erano giunti vicino a
un torrentello che scorreva in un piccolo angolo di
foresta, che era tutto ciò che rimaneva della folta vegetazione dopo i continui
roncaggi operati nei secoli per allargare i campi
coltivati. Una recinzione separava quel mondo dalla strada, i tre l’avevano
scavalcata senza problemi, avevano poi attraversato tutto quel minuscolo spazio
di selvaggio e incontaminato, un’atmosfera semplice e magica; infine erano
tornati sui propri passi e, levando gli occhi al cielo, tra i rami neri,
avevano visto Venere che corteggiava una sottile falce di Luna.
Sorrise, ringraziò e si mise il fiore trai capelli, altrimenti non avrebbe potuto fare a meno di
annusarlo ad ogni istante. “Sei molto cambiato.” notò
ella “Non sei mai stato così gentile.”
“Io sono una persona cortese, loson sempre stato e sempre lo sarò.”
“Non mi hai trattata
bene, l’ultimo anno di liceo…”
“Davvero? No, no, senz’altro ti stai confondendo.”
“Affatto. Ricordo molto bene, a scuola non mi
tenevi minimamente in considerazione, per di più negli ultimi mesi hai
addirittura smesso di salutarmi. Io avevo fatto di tutto per rinsaldare i
legami con voi, cercavo occasioni di dialogo, vi invitavo
quando organizzavo feste a casa mia, vi ho fatto regali per i compleanni e
Natale! Con Timao non ci sono mai stati problemi, Halkemidos mi ascoltava e chiacchieravamo
quando ce n’era l’occasione. Tu, invece, non mi prestavi orecchio,
quando c’era altra gente del liceo mi ignoravi
completamente, se provavo a dirti una parola, tu te ne andavi; se però ci
incrociavamo per caso per strada, senz’altri conoscenti,ecco che eri cordiale e disponibile. Non ho
mai capito se ti vergognassi di mostrare che mi dessi confidenza, oppure se
proprio non mi sopportassi e quando mi parlavi era
solo perché non avevi altre vie di fuga. Io ti voglio bene e mi dispiaceva recarti tedio e non capivo
il perché del tuo agire e mi rammaricavo pensando: se solo fosse sincero e
spiegasse ciò che vuole… Non stavo bene, ero triste, volevo solo esserti amica
e tu eri troppo ambiguo.”
Agakrathos non rispose, si alzò,
fece un paio di giri del gazebo, senza neppure sembrare pensieroso, poi si
rimise a sedere, tirò fuori la pipa, la caricò, l’accese
e iniziò a fumare, diede qualche boccata, infine puntò i propri occhi su Astrea
e cominciò a dire: “Ti dirò, non m’ero mai accorto di trattarti male, finché
non hai osato colpirmi…”
“Era una scoppola amichevole e non ti aveva
neppure fatto male. Non hai detto nemmeno Ahaia, ma
semplicemente: Mi hai toccato…! Come osi?
Con un tono terribile, privo di rabbia, senza enfasi, ma
carico di sdegno...”
“Era il minimo. Di te mi infastidiva
proprio il fatto che non vedessi la distanza che c’era tra noi, ch’io fossi a
un livello più elevato. La gente che mi circondava sapeva bene che eravamo su
piani differenti, invece tu ti prendevi la libertà di considerarti mia pari,
non eri mite e sottomessa come avresti dovuto, ma ti permettevi di criticarmi.
Eri sempre sicura ed irruente, un atteggiamento che non mi piaceva perché non
riconosceva la mia superiorità.”
“Lo faccio tutt’ora e non smetterò, a mio parere si è tutti uguali; non è
però un mancarti di rispetto, anzi, come ti dicevo ieri, è un rispetto
maggiore: potresti essere più di un duca, o un uomo comune o anche un
vagabondo, ch’io ti vorrei bene lo stesso e ti tratterei nel medesimo modo.” Agakrathos ignorò quest’ultima
interruzione, o almeno finse, proseguì dicendo: “Agivo, dunque, come mi pareva
più consono per evidenziare il mio rango, credevo di impartirti una lezione,
non che tu soffrissi… è per questo che asserii che non
era vero che ti trattassi male, quando me ne chiedesti la ragione, tuttavia
tale quesito mi fece riflettere e compresi che forse ti avevo arrecato dolore,
quindi…” Non volle terminare la frase. “Quindi?” lo
incalzò la ragazza. “Quindi” riprese egli controvoglia, ma senza che il proprio
tono fosse intaccato “Mi vergognai, un poco, mi dispiaceva che tu fossi stata
triste a causa mia.”
“Ed era una buona ragione
per smettere di parlarmi e quasi togliermi il saluto?”
“Non devo rendere conto a te delle mie azioni!”
dichiarò con forza il Duca, la sua voce non era stata deformata dall’ira, il
timbro era più profondo e cupo, il volume alto, il tono carico d’impetuosità e
forse un po’ minaccioso, pareva quasi aggredire. Astrea tremò un poco dentro di
sé, non era abituata a simili reazioni da parte degli Aristidei,
certo si ricordava che spesso e volentieri, in mezzo alla loro tipica
posatezza, avevano brevi scatti di euforia, oppure di
vicendevole collera, tuttavia anche in quest’ultimo
caso tuonavano con cipiglio aristocratico e distaccato. Il tono del Duca,
questa volta, era invece carico di astio e minaccioso,
insolito per l’Agakrathos che conosceva l’attrice che
mai si sarebbe aspettata da lui una simile furia, resa ancor più terribile perché
trasmessa solo in parte dalla voce, ma soprattutto dallo sguardo, da un
bagliore negli occhi, da un energia che proveniva da chissà dove. Astrea, comunque, non si lasciò intimorire, non abbassò la testa,
non distolse le pupille dal viso del nobile; fece un paio di respiri profondi e
placò il ribollire che le agitava l’animo, cacciò l’offesa del tempo passato;
sorrise e disse: “Suvvia, ho sbagliato a rivangare quegli anni, non importa
quel che è stato, ma solo quel che è ora, per cui propongo di abbandonare,
entrambi, i dissapori che ci sono stati e goderci l’adesso. Perché
avvelenarci lo spirito e stare inquieti per frivolezze?”
“Concordo.” si limitò a
rispondere Agakrathos, poi tornò il silenzio. Trascorse qualche minuto, poi la ragazza osservò: “Eduardo
deve essere tremendamente invidioso della vostra posizione. Ricordo bene che
voleva sempre essere al centro dell’attenzione, voleva
comandare e ora, invece, al potere ci siete voi, gli avete almeno affidato un
buon compito?”
“L’ho nominato barone di una zona di provincia, al
confine con Mutina, non me ne curo più di tanto
finché rimane buono e tranquillo.”
“Gli conviene… a tutti conviene.”
“Come?” domandò con un ché
di stupito l’Aristideo maggiore.
“Sei il Duca, non è saggio mettersi contro di te;
tu sei il detentore del potere, tu decidi, tu comandi… per li
altri l’obbedienza è d’obbligo.” Astrea aveva iniziato a
recitare, il suo tono era a metà tra il seducente e l’adulatorio. Agakrathos era compiaciuto, dichiarò: “Avevo inteso, ma
stentavo a credere che fossero parole tue. Non eri tu, forse, che proclamavi la
libertà e la rivolta contro gli oppressori?”
“Oh, certo, una volta ero così, ma poi ho
compreso: il volgo è troppo stolto per accorgersi
delle catene che lo opprimono, non vuole essere affrancato…, dunque perché
dovrei spendermi per chi non vuole essere aiutato? Miro, adesso, esclusivamente
alla mia libertà, a una pace interiore, a una volta
contemporaneamente stoica ed epicurea. Voglio migliorare e perfezionare me
stessa, solo allora, forse, sarò degna d’occuparmi del mondo,
mason certa che una volta trovata la
serenità, non mi interesseranno più queste sciocche vincendole terrene.”
“Mascheri così la tua rassegnazione?”
“Non è una maschera: ammetto di essere stata
delusa e di aver intrapreso un’altra strada.”
“Ne sono lieto, così non avremo da scontrarci e
potremo restare amici.” Astrea sorrise forzatamente,
doveva fingere di credere a quella falsa amicizia; fremeva, sapeva che quella
gentilezza era dettata da necessità, sapeva che ad Agakrathos
nulla importava di lei, per cui si ripeté per
l’ennesima volta che non doveva lasciarsi abbindolare, che non doveva
illudersi, bensì doveva essere lei ad abbindolare e ad illudere per poter
tornare al più presto alla libertà. La giovane si alzò dalla sedia e si
avvicinò al duca dicendo: “Suppongo che tu sia oberato d’impegni, sempre dietro
a badare al governo, sarai stressato…” si mise dietro al nobile, appoggiò le
proprie mani sulle sue spalle. Il Duca era perplesso dentro di sé e, forse,
anche un poco allarmato, ma la ragazza lo rassicurò: “Rilassati e lascio ch’io ti massaggi un poco, ne hai bisogno.” L’Aristideo rimase per un poco rigido, ma poi decise di
fidarsi e si lascio andare al rilassamento, dando di
tanto in tanto qualche boccata di pipa. “Neanch’io ti
credevo così gentile, se sempre stata un maschiaccio, non
credevo che…”
“Potessi essere così
dolce?”
“Esatte. Cosa ti è successo?”
“Nulla, ero così pure prima, soltanto non ci sono
state occasioni, in passato, in cui potessi mostrarti
la mia tenerezza. Sono molto dolce con chi se lo merita e quando non c’è altra
gente… infondo anch’io ho la mia immagine, quella di donna sicura, forte e
indipendente, da difendere.”
“Questa, spero lo ammetterai, è una maschera.”
“No, io sono di carattere risoluto e deciso, ma ho
lati che preferisco mostrare solamente a chi so che non vuole farmi del male, a
chi non userà la mia tenerezza contro di me.”
“Ti fidi di me?”
“No, ma penso che esser cortese non mi danneggerà.”
Agakrathos, con la sinistra,
accarezzò la mano destra della ragazza, come in segno di ringraziamento. Il Duca era soddisfatto, forse si era sbagliato, forse Astrea non
era così pericolosa, è vero a livello pubblico poteva causare problemi: non si
sarebbe mai inchinata al suo cospetto, non sarebbe mai stata una suddita
obbediente, la sua irrispettosità avrebbe potuto
agitare la plebe; tuttavia era così piacevole averla lì accanto a sé… Ecco
aveva due motivi per tenerla stretta a corte: impedire che il volgo potesse
imitare il suo atteggiamento e godere egli stesso della sua presenza.
Iniziò a formarsi nella nobile mente un proposito…:
non avrebbe lasciato che Astrea abbandonasse il palazzo, neppure se si fosse
mostrata docile e sottomessa… almeno finché non si sarebbe stancato di lei.
Ogni fine settimana, salvo importanti faccende di governo, gli Aristidei
andavano a rilassarsi nella loro magione di campagna
Ogni fine settimana, salvo importanti faccende di
governo, gli Aristidei andavano a rilassarsi nella
loro magione di campagna e sempre invitavano i loro amici a raggiungerli. Come
d’abitudine, anche quel sabato, il Duca e i suoi fratelli si recarono fuori dalle mura e portarono con sé l’ospite. Erano partiti
su una grande carrozza bianca, scoperta, dalle forme
rotondeggianti, con decorazioni e particolari in oro zecchino, trainata da sei
cavalli, se bai; all’interno era spaziosa, aveva comodi sedili imbottiti,
rivestiti di damasco rosso. Mentre la carrozza e la piccola scorta di soldati
passavano per le vie, la gente si accalcava per le strade, salutando
animatamente e urlando ovazioni: era necessario comportarsi così, altrimenti
avrebbero rischiato di contrariare il Duca e questo certo non lo volevano: sarebbe stato assai spiacevole. Astrea scrutava la
folla e si domandava se davvero quelle persone fossero liete; Halkemidos e Timao, di tanto in
tanto, degnavano di qualche occhiata, sorriso o cenno
di saluto la torma, invece Agakrathos non posava gli
occhi su suoi sudditi, fissava in modo altero un punto perso nell’orizzonte,
aveva uno sguardo ieratico. Quando ormai erano usciti dalla
città, il mediano si appoggiò mollemente allo schienale, sbuffò e bofonchiò:
“Plebe…!” Ironica, Astrea domandò: “Non ti piace sentirti lodato? Tutta
quella massa informe di uomini e donne accalcati per
le vie agitavano braccia, fazzoletti, cappelli… Non è salutare per il tuo ego?”
“Oh certo, non mi infastidiscono
i complimenti, è il dovermi mostrare cortese col volgo per dargli un contentino
che mi secca.”
“Pagando le tasse ti mantiene, grazie al suo
sudore puoi vivere in un sontuoso palazzo e avere tutto ciò che potresti
desiderare; un falso sorriso quando passi è una ben magra ricompensa, per cui non dovresti lamentarti.”
“Ma che vai dicendo?” ribatté Halkemidos
con un tono calmo, ma macchiato di incredulità
tediata, proseguì esponendo dottamente il proprio punto di vista: “Tu parti da
un presupposto erroneo, ti spiegherò chiaramente una volta per tutte così forse
capirai: noi siamo superiori a voi del popolino, è nostro compito governarvi e
ricercare il piacere, mentre vostro dovere è obbedire e onorarci e dovreste
esserci riconoscenti se vi concediamo qualche attenzione. Tu, però, questo non
lo comprendi neppure ti rendi conto di quanto dovresti esserci grata per il
fatto di concederti di essere nostra ospite…”
Timao guardava gli alberi e si
tratteneva a stendere dal contraddire il fratello, a
malincuore doveva sopportare quelle parole, ma infondo era abituato fin da
piccolo o fingere di condividere i valori e gli ideali dei suoi germani. Agakrathos ascoltava senza dar alcun cenno di consenso o
dissenso, era impassibile, in realtà era pienamente d’accordo con Halkemidos, tranne per un
particolare: Astrea faceva davvero parte della torma degli inferiori, oppure…?
No, no, che si stava dicendo? Certo ce ne faceva parte, certo.
Astrea era disgustata e irritata da quelle parole,
guardò con astio l’Aristideo di mezzo, si alzò in
piedi e, poiché la velocità non era elevata si gettò giù dalla carrozza e con
calma camminò verso i boschetti adiacenti. Agakrathos
si scosse d’improvviso e ordinò a due guardie di recuperarla e di condurla alla
meta, poi guardò Halkemidos severamente e gli disse:
“Non dobbiamo lasciarla fuggire finché non l’avremo asservita a noi!” era molto
aspro, quando erano solo tra loro tre lasciavano che si manifestassero “Cosa
t’è saltato in mente di dirle certe cose?”
“Ma è la verità, non
dirmi che ti fai delle remore per lei! Bisogna mettere le cose in chiaro, farle
capire che vi sono dei paletti che non deve azzardarsi a superare! Ai tempi
della scuola mi veniva a parlare come se nulla fosse, come se io avessi del
tempo da sprecare… Bhe, sì, è
vero in realtà quel che mi infastidiva non era che mi parlasse, ma come lo
faceva: in scioltezza e tranquillità… A quel tempo non le si poteva dir nulla,
ma ora tu sei Duca e noi abbiamo potere, per cui deve comportarsi com’è più
consono: da subordinata.”
“Deve piegarsi a noi senza accorgersene. Deve
rendersi conto che noi siamo più di lei lentamente, con i fatti e non devi
insegnarglielo tu con certi toni, altrimenti sarà ancor più indisponente.
Possibile che in cinque anni che l’abbiamo avuta a
scuola, tu non abbia capito come trattarla?”
“Lo so, lo so, però non vedo perché le stiamo
riservando questo trattamento di favore, se fosse stata
un’altra non avremmo esitato a mandarla a morte o a ridurla in schiavitù per
non averci ceduto il passo.” Timao scattò e rimproverò
il fratello: “Mi stai dicendo che, per quanto ti riguarda, saresti disposto ad
ucciderla? Una che ci vuol bene e nonostante i diverbi non ci ha mai trattato come nemici?”
“Oh, sta zitto, eri tu che la frequentavi, almeno
finché non hai compiuto diciassette anni e ti abbiamo fatto diventare un Aristideo completo…”
“Non me lo ricordare! Comunque
anche voi prima di quell’età trascorrevate tempo con
lei.”
“Dovresti solo ringraziarci per averti istruito o
non saresti come noi, ora.”Io non sono come voi e non voglio neppure diventarlo!Avrebbe voluto gridare Timao,
ma non ne aveva il coraggio; non sopportava molte
delle idee dei suoi germani, spesso avrebbe voluto contraddirli, ma non ci
riusciva: il sangue era un legame talmente saldo che non gli permetteva di
reagire. Tutta la sua famiglia era così, seguiva le medesime tradizioni da
secoli, s’era formata un nome, una posizione, una fama nel tempo e ogni suo
membro si atteneva a un determinato codice di
comportamento; solo lui era un po’ diverso e non condivideva ognuna delle
rigide regole, se sentiva differente, forse sbagliato, ma non poteva tradire la
sua stirpe, doveva adeguarsi altrimenti avrebbe potuto danneggiare anche gli
altri. Già: la famiglia e il suo buon nome precedevano la felicità e la volontà
del singolo. Fino ai diciassette anni i piccoli Aristideivenivano lasciati in pace, liberi di frequentare chi
volessero e di comportarsi in modo un poco più aperto, ma poi, una volta
compiuta quell’età, venivano condotti davanti al
Consiglio degli Aristidei, composto da tutti gli
uomini della famiglia che erano già maggiorenni. Timao
ricordava bene il giorno in cui, rientrato
a casa, aveva ritrovato in salotto suo padre seduto al centro della sala su una
poltrona, a cui fianchi sedevano su alti scranni i suoi zii, mentre da un lato
si trovavano i suoi cugini che ancora vivevano coi
propri genitori.Timao
era stato fatto accomodare su una sedia proprio in fronte al padre che aveva
iniziato a fargli un lungo discorso sul fatto che stesse crescendo, che dovesse
costruirsi una posizione nella società, perché essere un Aristideo
significava avere un determinato ruolo etc…etc… Il ragazzo s’era un po’ preoccupato a sentir tutte
quelle cose, ma non immaginava minimamente quel che
sarebbe accaduto immediatamente dopo. Halkemidos si
era posizionato ad uno scrittoio, aveva srotolato una
pergamena su cui si trovava un lunghissimo elenco delle persone che Timao conosceva: era necessaria una cernita per non perder
più tempo con gente di poco conto e concentrarsi a stringere amicizia con
persone che avrebbero avuto un futuro di un certo livello. Avevano iniziato,
dunque, a nominare uno per uno i singoli ragazzi per
poi decretare se erano degni di attenzioni e in che misura; quando erano giunti
al nome di Duccio, per rispondere allo sguardo interrogativo del padre, Agakrathos aveva risposto: “È figlio di un medico, ma non
ha prestigio, a stento lo si potrebbe definire un piccolo borghese. Non ha
particolari ambizioni, forse il teatro o l’insegnamento; non è certo una
persona di spicco, ha pochi amici, almeno all’interno della scuola, in cui non
ha una fama, né buona, né cattiva.” Il genitore aveva
ascoltato attento e immantinente sentenziò: “Rompi i rapporti con lui, puoi al
massimo salutarlo, giusto per buona educazione.”
“Ma, papà, lui è il mio migliore amico! Ci divertiamo molto
assieme, ci tiene a me… Conosce molto bene la storia!” tentò
di giustificare Timao che non voleva certo
abbandonare l’amico. Il padre, con tremenda freddezza ribadì:
“Nessuno è mai diventato importante frequentando simile plebaglia. Obbedisci,
segui le nostre disposizioni o farai la fine dello zio Ettore!”
“Non ho mai
sentito parlare dello zio Ettore…”
“Appunto!”
risposero all’unisono tutti gli altri Aristidei. Timao aveva dunque dovuto fingere di allontanarsi da
Duccio, in pubblico non gli parlava e a stento gli rispondeva, però gli
scriveva spesso di nascosto e, talvolta, mentiva ai propri parenti e si
vedevano di pomeriggio in luoghi della città ove gli Aristidei
e i loro compagni non potevano vederli.
La vita di Timao era una
continua menzogna, non solo applicava la falsità tipica della sua famiglia, ma
perfino non era sincero coi suoi consanguinei;
soffriva, straziato dal non potere agire come meglio credeva, sarebbe stato
così facile, per lui, decidere di smettere di pensare e semplicemente attenersi
ai dettami degli Aristidei, se li avesse accolti
ciecamente, non avrebbe più avuto da crucciarsi, ma non poteva rinunciare a sé
stesso, per cui portava avanti quella continua farsa.
Intervenne nuovamente Agakrathos:
“Adesso, quando riporteranno indietro Astrea, ci comporteremo come se nulla
fosse successo. Se dovesse essere lei a parlarne e a pretendere delle scuse, tu
non gliele porgerai.”
“Ci mancherebbe altro.”
Ecco una delle regole auree degli Aristidei: mai scusarsi o render conto delle proprie
azioni, se non tra parenti o in qualche rarissimo caso in cui si rischierebbe
di compromettere la propria posizione.
Astrea s’era rapidamente intrufolata tra gli alberi, nel fitto del
boschetto, dove i cavalli non potevano passare, s’era infat
Astrea s’era rapidamente intrufolata tra gli
alberi, nel fitto del boschetto, dove i cavalli non potevano passare, s’era infatti subito accorta dell’ordine impartito da Agakrathos e del rumore degli zoccoli. Non aveva intenzione di tornare dagli Aristidei,
non subito almeno, finalmente era tornata libera, perché consegnarsi ai
propri aguzzini? In realtà non le dispiaceva completamente il palazzo ducale,
finalmente poteva non affannarsi per i beni di prima necessità, poteva leggere
libri in abbondanza, ascoltare musica raffinata, ammirare opere d’arte parlare
con gente dotta, con un linguaggio forbito e argomenti
che spaziavano tra letteratura e politica. Un clima ricco d’eleganza e cultura,
l’ambiente era lo specchio delle persone che lo
animavano: all’apparenza meraviglioso, ma privo di sostanza, oro e argento non
rendono migliore il soprammobile che rivestono che inutile rimane.
Effettivamente, però, gli uomini non erano vuoti, non quelli almeno; Astrea era
convinta che la maggior parte della gente, schiava, spesso inconsapevole, della
società e della normalità, viva obbedendo a convenzioni e che dentro sia vuota;
gli Aristidei, Eduardo e gli altri loro simili, pur
essendo tanto devoti all’apparenza e alla formalità, le davano l’impressione di
essere ben vivi dentro di sé, lei non comprendeva il loro modo di agire, ma era
come se tutto ciò che facessero, compreso l’essere ipocriti e il fingere, fosse
finalizzato a qualcosa di grande e misterioso; percepiva in loro una grande energia che pulsava, che li rendeva vivi ma in modo
celato. Questo era la convinzione Astrea, non sapeva se la sua intuizione fosse corretta od errata, tuttavia vi credeva fermamente,
altrimenti non avrebbe sprecato tempo con quelle persone. Già, da una parte vi
erano le masse patetiche che pure lei disdegnava, gente priva di valori,
interessi, idee che si lasciava guidare e manipolare da un
invisibile volontà dettata chissà da chi; dall’altra c’era questa classe
aristocratica che rifiutava di mescolarsi con la plebe e viveva chiusa nel proprio
mondo; infine c’era la terza categoria, quella a cui apparteneva anche Astrea,
ovvero quella di coloro comunemente detti folli, degli esclusi, degli
emarginati poiché non riconducibili a nessun gruppo, di quelli che vivevano
alla propria maniera. Oh quanti ai giorni nostri si reputano tali! Quanti
dicono: “Sono pazzo” “Sono ribelle” “Non mi importa
quello che dicono gli altri” e invece sono banali, comuni e conformisti. Si
considerano folli solo perché dicono qualche
sciocchezza: ma chi è che non ama ridere e scherzare con gli amici? Si
ribellano ocn trasgressioni che ormai sono gesta
quotidiane. Ignorano il giudizio altrui, dicono, ma non rompono mai gli schemi.
I veri pazzi sono quelli che non vogliono per forza essere originali o fare
qualcosa di eclatante, ma che si comportano seguendo i
dettami del proprio spirito, senza temere di inimicarsi molti; sono quelli
disposti ad abbracciare la solitudine piuttosto che adattarsi, certo non la
amano, ma l’accettano; sono i più selettivi nel scegliere gli amici, ma sono
comunque bendisposti verso tutti e accolgono chiunque voglia star con loro. I
folli sono i vivi che non hanno paura di mostrarsi tali. Astrea aveva faticato
molto per trovare la gente giusta per lei, Duccio era stato il primo caposaldo:
ragazzo intelligente, modesto, umile, ma pieno di
idee, creativo, spiritoso, amante delle scienze umaniste, capace di dar
sostegno, conforto, grande affetto e amore, un amico leale, aveva i suoi
periodi cupi in cui il suo malumore era difficile da sopportare, tuttavia chi
non ha giornate nere? Egli, poi, le aveva fatto conoscere Nibbio, folle
carismatico e accentratore, attirava a sé gente di ogni
tipo e risvegliava la vita in loro; in quell’ambiente
la ragazza aveva conosciuto e legato con il giovane fabbro Ivan, la sua morosa
l’artista Cornelia, il cuoco guerriero Tetano, il suo fratello musicista
Biagio, l’intelligentissima sorellina Rery, vi erano
anche altri speciali con cui aveva avuto opportunità di legarsi. Inoltre aveva potuto stringersi assai maggiormente al già
conosciuto Carlo, che uomo…! Benché si fosse da anni rassegnata all’idea che Cacio non l’avrebbe mai amata e da molto tempo si fosse
costretta a non esserne innamorata, non poteva fare a meno di sentirsi appagata
dalla sua presenza, a sentirsi beata vicino a lui, a perdersi nel calore del
suo abbraccio. C’erano, poi, molte altre persone che frequentava o con cui era
in buoni rapporti, tuttavia nessun altro era speciale come quelli, fatta
eccezione per Massimiliano, un compagno di classe di Eduardo,
molto educato, esperto conoscitore di letteratura, storia, lingue e culture
antiche e arte, aveva un linguaggio assai forbito e una loquela sciolta, Astrea
era affascinata dall’oratoria di quel giovane, spesso in passato, quando si
sentiva giù di morale, lo andava a cercare perché ascoltarlo le dava piacere.
Ormai egli doveva essere diventato un avvocato o un magistrato, chissà, la
ragazza infatti ricordava che l’amico si era dato allo
studio di giurisprudenza.
Astrea procedeva tra gli arbusti meditando su
queste cose e dicendosi che c’erano molte persone che voleva riabbracciare. Non
avrebbe potuto, però, rivedere i suoi amici se fosse rimasta a palazzo, non
gliel’avrebbero permesso, tuttavia se era vero ciò che
le aveva detto Carlo, li avrebbe ritrovati seguendo Timao
quando si recava nei luoghi dei ribelli. Che fare,
dunque? Continuare la sua fuga senza vettovaglie, oppure ritornare facendo
finta di nulla? C’era caldo e lei aveva molta sete, sentì lo scorrere di un
torrente, seguì il gorgoglio delle acque e raggiunse il ruscello che scorreva
limpido; Astrea si avvicinò, se sedette sui levigati ciottoli della riva del
greto, immerse le mani a coppa, raccolse l’acqua più volte, bevve e si
rinfrescò il viso e le braccia; mentre era presa in questa occupazione,
udì dei passi, voltò velocemente il capo e vide uscir dal boschetto i due
soldati del Duca, non si mosse. Una delle guardie, senza violenza o minacciosità, si avvicinò alla giovane e le disse con
sincera gentilezza: “Il nobile Agakrathos ci ha
incaricati di ricondurti presso di lui, per favore seguici
senza protestare, se ti opporrai ricorreremo alla forza. Non possiamo lasciarti
scappare, altrimenti verremo puniti noi e non possiamo
permettercelo, io ad esempio ho una famiglia da mantenere e non posso rischiare
di venire mutilato. Spero tu comprenda la situazione e decida di far ritorno
dal Duca spontaneamente.” Astrea annuì, si alzò e
disse: “Va bene, non voglio causarvi guai, andiamo.”
Uscirono dal bosco e recuperarono i cavalli che avevano legato a una staccionata, montarono sui destrieri, la ragazza
assieme al soldato che le aveva parlato, e cavalcarono verso la magione degli Aristidei.
Giunsero verso l’ora di pranzo; era stata
apparecchiata in giardino una tavola ed era apparecchiata per otto persone; ai
due posti di capotavola si trovavano Agakrathos ed Halkemidos, ai fianchi del primo sedevano Eduardo e il
Generale Supremo delle milizie ducali, il fido e devoto Anaele;
accanto al secondo, invece un altro soldato di grande
spicco, Tirteo, e un famoso intellettuale, Elia; in
posizione centrale vi era Timao, davanti a lui vi era
l’unico posto vuoto che venne rapidamente occupato da Astrea che dunque sedeva
tra Eduardo e Tirteo, i due ospiti che conosceva
meglio. Tutti e otto erano molto giovani, nessuno superava i ventiquattro anni,
si conoscevano tra loro più o meno superficialmente, infatti
avevano frequentato la medesima scuola. Scuola che aveva mantenuto la promessa
fatta: formare la classe dirigente.
La tovaglia, il tavolo e le sedie
erano bianche e il Sole faceva risplendere i calici, le posate e i
vassoi; quando arrivò Astrea era già stato servito l’antipasto e ormai era il
momento del primo. “Ben tornata” disse con meditata calma e serenità
il Duca “La tua passeggiata è stata più lunga del previsto, siccome
tardavi abbiam iniziato senza di te. Penso che non ci
sia bisogno di presentazioni, per cui continuiamo il
nostro pranzo.” Astrea sorrise e fece qualche cenno con la testa, ma non disse
nulla, rimase in silenzio per la maggior parte del tempo, ascoltando i discorsi
altrui che vertevano per lo più sul governo, solamente Tirteo
o Timao le rivolgevano la parola di tanto in tanto.
Quando fu servito il dolce, un semifreddo alla meringa, Eduardo si degnò
finalmente di parlare un poco con la ragazza che conosceva da quasi quindici
anni, ma erano domande convenzionali e prive di interesse
su cosa avesse fatto in quel tempo.
Il pomeriggio, il Duca, i suoi fratelli e i loro
ospiti, lo passarono in giardino, discorrendo,giocando
a biliardo oppure a cricket o a bocce; Astrea era annoiata da tutto ciò, se ne
stava in disparte, seduta a terra, sotto a un pioppo, a leggere. La serata la
trascorsero dentro la magione, in un salone ove ai servi era vietato
avvicinarsi se non convocati tramite il suono di una campanella e dovevano ogni
volta bussare alle porte che erano rigorosamente tenute chiuse a chiave
dall’interno. In questo clima privato, in sola presenza d’amici, gli Aristidei non si fecero problemi a prendere i loro
strumenti e suonare. Melodie dolci e soavi riempivano la stanza e anche Astrea
ascoltava affascinata e si lasciava trasportare da quelle note. Quando si
furono stancati di suonare, Agakrathos disse alla
giovane: “Tu che sei attrice, allietaci con la tua arte, è il tuo turno adesso;
ti do un libro: leggicelo.” La ragazza ne fu ben lieta,
era da giorni che non aveva modo di esibirsi e iniziava a sentirne il bisogno. Agakrathos s’avvicinò alla libreria che si trovava nella
stanza, era un grande scaffale con sette ripiani, osservò, scorse i vari
volumi, infine ne scelse no, lo porse alla giovane, poi si accomodò in poltrona
e iniziò a fumare la pipa. Tutti stavano fumando o la pipa o un sigaro, tranne Timao, e intanto ascoltavano e si lasciavano emozionare
dalla voce della fanciulla e dalle parole dell’antico
scrittore. Il tono era dolce e variava a seconda della
situazione narrata, a volte incalzante, altre lento, rendeva veri i sentimenti
dei personaggi, ira, paura, amore, noia, gioia e altro ancora.
La serata si concluse qualche
ora più tardi, quando ormai la voce di Astrea era affaticata e lei si sentiva
stanca e preferì andare a dormire. L’attrice s’era appena messa addosso una vestaglietta ed era pronta per andare a dormire,
si sporse un poco dalla finestra per osservare il cielo stellato, ma mentre
guardava gli astri, udì delle voci, abbassò lo sguardo e vide due giovani
uscire dal portone, erano Anaele ed Elia che si
stavano congedando dagli Aristidei per tornare a
casa. “Una giornata molto piacevole, però la prossima settimana torniamo alle
vecchie abitudini: il giorno per l’arte e gli affari, la notte per un altro
tipo di divertimento.”si
raccomandò l’intellettuale, il Generale aggiunse: “Non mi importa se c’è trai
piedi anche quella ragazza, anzi ben venga che partecipi anche lei, non è
affatto male.” da dentro la casa si sentì venire la
voce di Halkemidos che rispondeva: “Non credo proprio
sia adatta a certi giochi, né vi vorrebbe prendere parte, per di più c’è già
chi le ha messo gli occhi addosso… Tuttavia tranquilli, troveremo una soluzione
per ripristinare i nostri festini.”
“Obbligatela, basta che il Duca glielo ordini e lei
sarà costretta a partecipare. Va bhe, ci troviamo
presto, buona notte vostra grazia.”
Erano trascorse circa due settimane da quando Astrea aveva iniziato il
suo alloggiare nel palazzo ducale; in tre o quattro occ
Erano trascorse circa due settimane da quando Astrea aveva iniziato il suo alloggiare nel
palazzo ducale; in tre o quattro occasioni aveva seguito Timao
presso i ribelli e finalmente aveva rivisto più o meno tutti i suoi vecchi
amici del gruppo di Nibbio. Aveva trascorso la maggior parte del tempo tra
leggere e passeggiare nel parco, senza mai poter uscire, sempre sola se non
quando uno degli Aristidei la invitava a fargli
compagnia. Prigioniera tra il marmo, l’oro, la seta, il lusso, stretta da
invisibili catene, all’apparenza poteva far tutto ciò che desiderava,
abbandonarsi ad ogni piacere, ma quella del vizio è
una schiavitù nascosta agli occhi e le cose che voleva compiere le erano
proibite poiché impossibili da raggiungere finché lì soggiornava.
Quella sera il Duca non si era presentato a cena,
neppure i suoi fratelli ne conoscevano la cagione, era stato tutto il giorno
occupato ad ascoltare i resoconti dei suoi vassalli, aveva poi dato ordine che
il pasto gli fosseservito
nel proprio appartamento e, per il giorno successivo, aveva fatto convocare una
riunione d’urgenza del Gran Consiglio Ducale, infine si era chiuso nelle
proprie stanze, cupamente meditabondo. Intorno alle ventuno, tuttavia, mandò a
chiamare Astrea. La giovane entrò nella prima stanza degli alloggi di Agakrathos, l’unica che avesse
visto, era un salotto molto ampio, alle pareti erano appesi grandi arazzi di
seta che raffiguravano battaglie e grandi eventi storici, il soffitto era
affrescato con l’apoteosi di Zeus sull’Olimpo, ovviamente il figlio di Crono
aveva le fattezze del Duca, il pavimento era rivestito da un sottile strato di
marmo color zolfo, in modo che potesse essere facilmente riscaldato, le
finestre erano alte, strette e numerose, il lampadario a gocce reggeva una moltitudine
di candele, i mobili erano tutti di pregiatissimo ebano intarsiato, le
poltroncine eleganti e rivestite di raso. Agakrathos
era seduto e guardava fuori dalla vetrata, osservando
il Sole che calava lentamente dietro l’orizzonte e fumando la pipa. “Avvicinati”
disse come se fosse un ordine, Astrea non replicò, capiva che il Duca non era
di buon umore e inoltre doveva fingere per riottenere la libertà, per cui obbedì, si accostò al giovane e rimase in piedi
accanto a lui in attesa. “Oggi, sono venuti a rendermi conto, i miei vassalli coi loro fiscalisti ed economisti. Dicono che ci sono
problemi, c’è crisi, sostengono. A quanto pare i campi
non stanno rendendo come dovrebbero, c’è il rischio di avere scarse derrate
alimentari…”
“Comprate da altri feudi, vi basterebbe vendere
qualcuno degli oggetti di questa stanza e potrete acquistare abbastanza grano e
cereali in abbondanza.”
“Si vede che non te ne intendi di certe questioni.
Non possiamo mostrarci deboli agli occhi dei nostri vicini, se si accorgessero
che abbiamo difficoltà, non esiterebbero ad
aggredirci, benché sottostiamo ad un unico monarca. Ti dirò io cosa faremo:
aumenteremo i prelievi del fisco o inventeremo un tributo speciale, così
pagheremo di nascosto dei mercenari o briganti che vadano a razziare Mutina o Ariminum o altri
confinanti e ci procurino quanto occorre.”
“Ma se la gente già ora fatica a pagare le tasse,
come credi farà se le maggiorerai? Inoltre queste incursione violente non credi spingeranno gli altri
feudi a fare altrettanto nei nostri confronti?”
“Ti devo proprio spiegare tutto! Se qualcuno non riesce a pagare o lo mandiamo a morte o lo
vendiamo come schiavo altrove, così ci saranno meno bocche da sfamare…”
“Ma così ci sarà meno
forza lavoro!”
“Oh di questo non ti devi
crucciare, di bassa manovalanza ce n’è fin troppa! Per di più gli altri
che riusciranno a pagare, ma che si ritroveranno in ristrettezze, compreranno
meno cibo e quindi la carestia sarà meno evidente. Per quanto riguarda la
possibilità di venire attaccati, è sempre un modo per
eliminare il problema della sovrappopolazione.” diede
una profonda boccata di pipa e sorrise. Astrea incrociò le braccia, andò vicino
alla finestra, volgendo le spalle al duca e irritata disse: “Sei
tremendo e spregevole. Non pensi alla vita di quella povera gente?”
“Non mi importa della
plebe, una marmaglia di bestie.”
“Come puoi dir ciò? Un uomo rimane un uomo
indipendentemente dal suo ceto.”
“Oh, certo, questa è la convinzione di voi che non
riuscite ad accettare la vostra condizione, che siete
tanto presuntuosi da ritenere di eguagliarci in dignità.” Astrea non rispose,
guardò con ira fuori dalla finestra, non poteva
tollerare quelle parole, non poteva replicare se voleva andarsene da quel
luogo; si morse il labbro inferiore e per l’ennesima volta si ripeté che non
doveva sottomettersi, ma solo fingersi tale. Si voltò e chiese: “Perché,
allora, mi tieni qua, se mi reputi inferiore?”
Agakrathos la osservava e taceva,
gli occhi erano pieni di uno strano ed indecifrabile spirito; vedere quella ragazza
che si innervosiva lo divertiva, gli piaceva vederla
fremere per l’ira o la tristezza. Vedendosi negata una risposta, indispettita,
Astrea se ne andò. Il Duca non la trattenne, altra
regola aurea degli Aristidei: mai mostrare di
desiderare o avere bisogno di una persona o della sua presenza.
Nei giorni seguenti il Duca aveva fatto mette in atto i suoi propositi su come risolvere l’imminente
crisi alimentare e ovviamente il popolo non ne fu affatto contento: fin da
subito iniziò ad avvertire le dure conseguenze, già dopo una settimana c’erano
stati i primi condannati. Un pomeriggio, i più animosi dei ribelli, convocati
da Timao, si erano radunati per una riunione per
decidere il da farsi, questi giovani erano tutti amici di Astrea.
Erano seduti sparsi ma in cerchio in una stanza,
accanto al camino spento sedeva Ivan: altezza media, lineamenti sottili,
affilati, duri e netti, occhi verde oliva, capelli lunghi, lisci, biondo
intenso ma scuro e spento. Tetano era in piedi dall’altro lato del focolare, era
alto, robusto, con una muscolatura abbastanza sviluppata, occhi marroni che
tradivano il suo aspetto feroce per rivelarne il lato da cucciolo giocondo, la
capigliatura color paglia era molto lunga e leggermente mossa, la barba era
corta, fatta eccezione per il pizzetto lunghissimo. C’era poi Cornelia,
carnagione chiara, occhi nocciola, capelli che le scendevano fino ai fianchi,
erano biondo chiari e assai ricci; Biagio sedeva accanto a
una finestra e teneva d’occhio la strada, i capelli corti, color oro, molto
mossi parevano sempre spettinati, iridi castane, sguardo semplice e dolce,
labbra rosse e sorriso radioso; Nibbio era magrissimo, capelli corti e neri,
sbarbato, occhi che brillavano per gli ideali che ardevano in quell’animo; inoltre c’erano anche Carlo, Timao ed Astrea. L’ordine del giorno erano i provvedimenti
da prendere per contrastare le recenti e aspre norme istituite dal Duca: le tasse
erano già intollerabili, ovviamente la gente non voleva essere punita, per cui c’era stato un aumento dei furti, poiché le persone
cercavano di sottrarsi a vicenda il necessario per pagare i tributi. “Indiciamo
uno sciopero dei dazi, boicottiamoli, nessuno darà più un soldo finché non
saranno abbassate.”propose
Cornelia. “No, non riusciremmo a convincere tutti.” la
contraddisse Biagio “Aderirebbe si e no un quinto della popolazione e verrebbe
ucciso. Purtroppo abbiamo poca presa sulla gente, non ne
coinvolgeremmo molta…. Altre idee?” pensarono nel silenzio, ad un tratto
Tetano esclamò: “Assaliamo un gruppo di esattori e
ridistribuiamo tutto alla gente!”
“In base a quale
criterio?” lo interruppe Carlo, Timao aggiunse: “Così
si rischia solo di peggiorare la situazione, mio fratello potrebbe prendere
provvedimenti ancor più tremendi.”
“Allora” intervenne Ivan “Liberiamo i prossimi poveretti
che verranno deportati per ‘evasione fiscale’. Io mi offro per forgiare armi e protezioni.”tutti approvarono, solo l’Aristideo non era pienamente convinto ma accettò, iniziò a
dire: “Almeno un paio di noi devono condurre l’operazione e guidare il
drappello degli uomini che si offriranno. Dunque: in
caso si fallisca io non posso espormi, Nibbio ci occorre come figura accentratrice,
Carlo ha già rischiato ed è meglio che stia nascosto. Cornelia non ha capacità
di combattimento, Ivan si occuperà di forgiare le spade… Rimangono solo Tetano
e Biagio che sono fratelli, quindi soltanto uno di
loro potrà partecipare.”
“Ehi, ci sono anch’io!” esclamò Astrea. Timao ribatté: “Tu sei nella mia stessa situazione, non
puoi rivelare che fai il doppiogioco…”
“No! Non mi importa; non
ha senso per me starmene in quel palazzo a far compagnia ai tuoi fratelli. Io voglio
far qualcosa di concreto per aiutare la gente e sono disposta anche a rischiare
di perdere la mia vita.”
Timao sapeva che forse un
destino peggiore attendeva l’amica se fosse stata
scoperta, tuttavia si mi limitò a dire: “E va bene, ma sta attenta, nel caso
sciagurato venissi arrestata non farti scappar detto nulla su di me.” L’azione venne programmata per la settimana successiva.
La sortita sarebbe avvenuta poche ore più tardi,
Astrea si stava dirigendo nelle stanze di Timao per utilizzare
il passaggio segreto; era in un lungo corridoio, svoltato un angolo, vide Agakrathos che, come infastidito, diceva ad una cameriera
che trasportava molti panni: “Spostati, incapace, non vedi che avanza il Duca?!” e l’allontanava colpendola elegantemente col suo bastone
da passeggio, la donna s’allontanò rapidamente, testa china, chiedendo perdono.
L’Aristideo avanzò e s’accorse dell’ospite e le
chiese: “Come mai quell’espressione accigliata?”
“Ti sei reso conto di come hai trattato quella
domestica?”
“Certamente.”
“Nel caso non te ne fossi accorto, sappi che sei
stato sgarbato.”replicò la
ragazza innervosita. “Nel caso non te ne fossi accorta, sappi che sono il Duca.”
“Sei superbo e tracotante.”
“Tratto la gente come merita per il suo rango,
sciocca idealista.”
Sempre più alterata l’attrice ribatté: “Despota
borioso.”
“Libertina irrispettosa!”
“Tiranno arrogante!”
“Taci plebea!” Agakrathos
le diede uno schiaffo poi l’afferrò per la maglia, la
spinse contro al muro con veemenza, appoggiò le proprie labbra sulle le sue e iniziò
a baciarla. Astrea non si ribellò.
Agakrathos, quando si staccò,
osservò come smarrito l’ancor più confusa giovane, si voltò e fece per
andarsene, ma lei gli prese il polso domandando: “Perché?”
“Lasciami!” con un movimento brusco si liberò
dalla stretta e si allontanò lesto.
Ciao a tutti, so che non sono in molti a leggere questa storia, tuttavia, magari qualcuno potrebbe lasciare un commentino, per favore?
Mi piacerebbe sapere se questo racconto piace o meno e su cosa devo lavorare per rendervelo più gradito. GRAZIE :-)