La ragazza di Forum Lepidi

di DirceMichelaRivetti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di ritorno ***
Capitolo 2: *** Il Duca ***
Capitolo 3: *** I Rintocchi ***
Capitolo 4: *** Il Pranzo ***
Capitolo 5: *** Chiacchiere in cortile ***
Capitolo 6: *** Il covo ***
Capitolo 7: *** Sotto il gazebo ***
Capitolo 8: *** Le tradizioni degli Aristidei ***
Capitolo 9: *** Il weekend in campagna ***
Capitolo 10: *** Il Duca turbato ***



Capitolo 1
*** Di ritorno ***


Astrea sedeva sul primo dei due carretti che procedevano lentamente verso la città di Forum Lepidi, era proprio accanto al coc

Astrea sedeva sul primo dei due carretti che procedevano lentamente verso la città di Forum Lepidi, era proprio accanto al cocchiere, voleva vedere a modo il paesaggio: un’immensa e sconfinata bionda campagna tagliata da qualche rigagnolo stagnante, di tanto in tanto qualche albero si stagliava carico di frutti verso l’azzurro cielo limpido, non v’era neppure una nuvola. C’erano decine di mezzadri che mietevano con le loro falci, altrove si vedevano ragazzini che tenevano dietro al bestiame; talvolta si scorgevano i poderi e i casali dove le donne davano il becchime al pollame che ruspava nell’aia, oppure filavano la lana, tessevano od erano dedite a molte altre attività. La ragazza osservava tutto pensando tra sé e sé a quanto quel mondo le fosse estraneo, era così diversa la vita di campagna da quella di città…

Ella aveva avuto la fortuna di essere nata in una famiglia benestante che risiedeva dentro le mura, i beni di prima necessità come gli abiti e il cibo li aveva sempre potuti comprare nei negozi e non aveva mai avuto bisogno di coltivare o allevare. Non apparteneva certo all’alta-borghesia, certo la sua famiglia viveva più che dignitosamente; la giovane non faceva parte della gente bene, benché avesse molte volte sfiorato quel mondo di apparenze, illusioni, vanità ed ipocrisia. Sì, lei aveva avuto a che fare con diverse persone di quell’ambiente, che aveva più volte sfiorato, più volte vi aveva dato una sbirciata, ma mai vi era davvero entrata.

Tutto era iniziato nove anni prima, quando aveva iniziato a frequentare le scuole superiori, si era iscritta al liceo più prestigioso, quello umanistico, in cui si dedicavano allo studio o gli amanti della cultura, o i rampolli delle famiglie più prestigiose della città. Il primo anno Astrea non conosceva praticamente nessuno in quell’istituto, eccetto Eduardo, un suo compagno del corso di teatro, più grande di lei di un anno. Egli era l’assai eccentrico figlio di un avvocato, si professava discendente dei Marchesi di un paese non molto lontano, ma da quando la monarchia era decaduta, i titoli nobiliari interessavano solamente a chi li aveva persi e a pochi altri. Eduardo aveva una ristretta cerchia di amici, da molti definita la Corte, infatti ad ognuno di essi aveva dato un tipico ruolo delle corti regali, ovviamente lui era l’imperatore, poi vi erano il cancelliere, il ciambellano, il capo delle guardie, l’aedo, lo storico etcetc… Tutti quei ragazzi facevano parte dell’alta società, tutti tranne Astrea che si chiedeva come avesse fatto ad entrare i quel circolo tanto esclusivo. In particolare la giovane si era legata ai tre fratelli Aristidei: Agakrathos, Halkemidos e Timao; essi forse erano gli unici veri amici di Eduardo, infatti ci litigavano un giorno sì e uno no, ma alla fine erano sempre uniti. Il maggiore era coetaneo di Astrea, alto, corporatura robusta, aveva capelli ricci e neri, occhi intensi, sguardo altero, labbra carnose, il suo volto, il suo portamento, il suo comportamento, tutto in lui era assai aristocratico, era il più chiuso ed altero del gruppo; il secondo, invece, aveva i capelli lisci color del miele, gli occhi nocciola brillavano di una strana luce, anche lui era robusto, ma più alto e snello del fratello, pure lui era circondato da una forte aura di nobiltà, inoltre era molto desiderato da quasi tutte le ragazze; il più piccolo, che aveva solo due anni in meno rispetto al primo, aveva i capelli di un biondo misto rossiccio, riccioli, aveva il viso molto simile a quello di Halkemidos, ma meno affilato, non era affatto alto, anzi molti alle sue spalle ridevano della sua scarsa statura, egli era il più vivace ed estroverso, non si faceva problemi ed era amico anche di quella che dai suoi fratelli veniva definita “plebaglia”, l’unica cosa che nell’aspetto lo legava all’ambiente aristocratico erano gli eleganti vestiti.

Astrea, dunque, era entrata in contatto con questa gente, per tre anni aveva mantenuto dei buoni rapporti, ma poi le cose erano cambiate: da una parte aveva litigato con Eduardo, dall’altra tramite il proprio migliore amico, Duccio, aveva conosciuto un gruppo di ragazzi davvero meravigliosi a cui si era molto legata. Gli ultimi anni nella sua città natale li aveva dunque trascorsi in compagnia di mezzi pazzi, mezzi artisti  e a scuola con l’amicizia di Duccio e Timao. Già, l’ultimo degli Aristidei, quello che in principio aveva più ignorato, era l’unico di quella cerchia che continuava ancora a frequentare, anzi, era diventato un suo carissimo amico. Quando s’era accorta di avere perso i contatti con Agakrathos e Halkemidos, aveva provato a rinsaldare i legami con loro, ma erano diversi. I due in pubblico la ignoravano, le concedevano unicamente il saluto, quando invece si incontravano casualmente per strada, senza che vi fossero altri compagni di scuola, le parlavano a lungo e la trattavano con affabilità e cordialità…. Una cortesia che Astrea percepiva carica di ipocrisia, avvertiva come se tra di loro vi fosse una lastra di vetro e, quindi, che per quanto potessero essere vicini, non si sarebbero mai toccati.

Dopo il diploma, la giovane aveva lasciato la propria città per andare a studiare altrove teatro, era stata via qualche anno perdendo totalmente i contatti con tutti se non con Duccio che l’aveva raggiunta poco tempo dopo. Adesso, ventitreenne, faceva finalmente ritorno alla sua Forum Lepidi. Sapeva che molte cose erano cambiate: infatti poco meno di un lustro prima era scoppiata una guerra civile in tutta la nazione, il conflitto s’era concluso con la restaurazione della monarchia. Forum Lepidi era diventata un ducato, ma Astrea era talmente furiosa e in collera che non volle mai sapere chi avesse assunto il titolo di duca, ma presto lo avrebbe scoperto. Ora che stava tornando assieme alla sua compagnia di teatro per portare i propri spettacoli per le piazza, ora lo avrebbe scoperto.

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Capitolo 2
*** Il Duca ***


La piccola comitiva di teatranti era giunta alle porte di Forum Lepidi in tarda serata

La piccola comitiva di teatranti era giunta alle porte di Forum Lepidi in tarda serata. Il Sole era già tramontato, il cielo pareva un morbido velo di velluto nero teso sopra alle teste degli uomini, le stelle brillavano di una fredda luce metallica. L’unica luce calda era quella delle torce, appese lungo la cinta. Le mura e i bastioni della città erano alti e possenti, i mattoni non erano rossi ma di quel chiaro marroncino tipico dei castelli medievali e dei coevi palazzi comunali. Quelle fortificazioni toglievano il fiato, così massicce e imponenti, parevano inscalfibili e gettavano nelle persone un senso di nullità: che cos’era un piccolo uomo, destinato alla morte, a confronto di quelle solide pareti millenarie? Qualcuno tra gli attori lo domandò, più per celia che per filosofia, tuttavia Astrea rispose:

“Le persone, caduche e destinate all’oblio, valgono molto più di qualsiasi edificio mozzafiato, se vivono davvero. L’uomo è emozione, passione, sentimento; se non si pone freni, se si lascia trasportare da sé stesso, se non si cura dell’apparenza e di ciò che vuole il maledetto senso comune, allora davvero vive. Se, invece, ha paura, se si lascia condizionare, se cerca disperatamente l’approvazione altrui, allora non fa altro che far sopravvivere il proprio corpo. L’uomo libero è infinitamente superiore a queste mura e a qualsiasi altra cosa di questo mondo materiale; l’uomo timoroso ne è schiavo.” Alcuni degli attori scossero la testa: era sempre la solita filosofa; altri invece annuirono approvando tali parole e iniziando discussioni impegnate tra di loro.

Entrarono in città, si fermarono coi carri in uno spiazzo vicino ai giardini pubblici, si sistemarono un poco, accesero un fuoco per scaldarsi e cucinare; stanchi per il viaggio e in vista della loro prima esibizione a Forum Lepidi, si coricarono tutti quanti abbastanza presto. Prima di mettersi a dormire, tuttavia, Astrea guardò il teatro più importante della città, il terzo più bello della nazione, era stato eretto poco più di due secoli prima, proprio accanto al parco. Lo guardò e tra sé e sé si chiese se i suoi pieni avrebbero mai calcato quel palcoscenico; al momento doveva accontentarsi dei ciottoli delle strade, ma infondo forse era meglio così, in questo modo poteva far emozionare molta più gente ed era ciò che più voleva.

La mattina seguente, di buon ora, gli artisti si recarono in Piazza Alta, montarono alcune tende affinché fungessero da quinte e camerini, poi fu la volta della modesta scenografia; si misero in costume, si truccarono e si prepararono ad entrare in scena. Il più giovane dei teatranti, un ragazzino di sedici anni, pieno di vita e allegria, mascherato da giullare, inizio a suonare la tromba e a richiamare l’attenzione dei passanti con battute di spirito, giochetti di prestigio e altre facezie; quando si fu radunato un pubblico alquanto consistente, ecco che l’attore iniziò a pronunciare il prologo, il sipario si aprì e lo spettacolo ebbe inizio. La folla guardava entusiasta e si lasciava trasportare dalla scena, rideva, piangeva, applaudiva.

D’improvviso, però, giunsero soldati in armi che a gran voce intimavano: “Largo, largo! Sgomberate il passaggio, sta per giungere sua eccellenza il Duca Agakrathos e i suoi fratelli, le loro grazie Halkemidos e Timao. Presto, presto, cedete il passo, fate spazio!” Tutta la gente iniziò a farsi da parte, si accalcò da un lato o l’altro della piazza, aprendo così un ampio corridoio tramite cui sarebbe passato il piccolo corteo. Soltanto gli attori non si erano mossi, pur occupando un tratto della strada, anzi continuavano la loro rappresentazione senza esitare, senza batter ciglio, come se nulla fosse. Irritati, i soldati fecero irruzione sulla scena, ribadirono l’ordine e scaraventarono a terra qualche teatrante che, tuttavia, per un poco rimasero calati nella parte ed improvvisarono. Le guardie erano terribili e irremovibili e si fecero ancor più tremende quando giunsero le tre portantine che trasportavano il Duca e i suoi fratelli e che si dovettero arrestare poiché l’improvvisato palco intralciava il loro tragitto. Halkemidos, seduto alla destra del signore di Forum Lepidi, con calma e freddezza domandò al capo delle guardie che cosa stette succedendo, ma non ottenne da quello una risposta, ci pensò Astrea. La giovane, infatti, camminando impetuosa, con grandi falcate si pose davanti alla portantina centrale e, senza neppure riconoscere i vecchi amici, da quanto era furiosa non aveva neppure fatto caso ai nomi che i soldati avevano annunciato, iniziò a dire: “Non si spezza un’emozione. Non si infrange un sogno. Non si rompe una magia. Avete interrotto uno spettacolo teatrale: che grande errore!” Fissò dritto negli occhi il Duca che aveva assunto un’espressione arcigna e di disgusto, quelle folte ciglia aggrottate, quell’indignato sguardo altezzoso le ricordavano qualcuno e finalmente lo riconobbe. Guardò rapidamente gli altri due e il proprio stupore crebbe a tal punto che non poté fare a meno di esclamare: “Voi? Tu…. Tu sei diventato Duca?” Agakrathos era sbalordito da così tanta spavalderia e da modi così liberi ed irrispettosi, per cui, con la voce vagamente segnata dall’ira, ma pur sempre calma, calda e distaccata, domandò: “Come osi rivolgerti a me in questo modo? Anzi come osi rivolgerti a me?! Tu non dovresti neppure guardarci: abbassa gli occhi, non sei degna. Astrea si lasciò andare a una fragorosa risata e ribatté: “Ma come? Così mi tratti, dopo tutte le volte che abbiamo cenato assieme?”

Agakrathos stentava a credere alle proprie orecchie: non poteva tollerare che una popolana, anzi, ancor meno, una nomade, si permettesse di rivolgersi a lui in quella maniera e che affermasse certe cose per di più! Egli, il Duca, che sempre s’era accompagnato esclusivamente con la creme de la creme, a cena con una del volgo? Impossibile! Che affronto tale insinuazione! Tuttavia c’era qualcosa che non lo convinceva, in effetti quella voce non glie era nuova… e quei lineamenti morbidi e decisi, quei profondi occhi ardenti come tizzoni, quei capelli castano scuri e rosso fiamma, lunghi e boccolosi…… Tutto questo gli ricordava qualcuno, eppure nella mente non gli riaffiorava alcuna memoria ben definita.

Halkemidos era stato gettato nel medesimo stato d’animo del Duca, anche lui era convinto di aver già conosciuto quell’impertinente attrice, questa certezza gli era data non tanto dall’aspetto fisico, ma dall’atteggiamento sprezzante e risoluto.

Solo Timao l’aveva riconosciuta, solo lui la ricordava, ma non ne era sicuro, erano passati ben quattro anni, ella comunque era un po’ cambiata esteriormente; egli sperava in cuor proprio che quella fosse la sua vecchia amica, ma il timore di essersi sbagliato, di essersi illuso, lo tratteneva dall’esclamare il nome di Astrea.

Tutti questi pensieri attraversarono la mente dei tre fratelli in un lampo e nessuno di loro ebbe il tempo di dir nulla per replicare, infatti la teatrante s’era d’improvviso ricordata di un’importantissima questione, per cui s’affrettò a dire: “Uh, scusate un attimo, devo prendere una cosa prima di dimenticarmene, torno subito, attendete un secondo, non di più.” La giovane si infilò dentro a una delle tende e ne uscì recando con sé una busta che porse a Timao annunciando: “Da parte di un carissimo amico comune.” Il nobile lesse rapidamente l’intestazione: A Timao Aristidei, da Duccio. Ora aveva la conferma che quella ragazza era quella ch’ei credeva; si alzò in piedi tutto contento esclamando: “Ma allora sei tu!” Con un balzo che poco si addiceva alla propria posizione sociale, saltò giù dalla portantina dicendo gioioso con la sua profonda voce: “Astrea, Astra! Quanto tempo! Perché non mi hai mai scritto?” La ragazza ricambiò i saluto lietamente.

Nel mentre gli altri due Aristidei si scambiarono un’occhiata che in parte era preoccupata: conoscevano bene il carattere della vecchia semi-amica. Agakrathos iniziò a ricordare tutte le discussioni che avevano avuto, l’astio, tutti i contrasti che erano nati tra loro: monarchia vs democrazia, società piramidale vs uguaglianza sociale, pugno di ferro vs tolleranza e così via. Il Duca sapeva bene che Astrea non lo avrebbe lasciato in pace, sapeva che lei era d’indole ribelle e sediziosa, sapeva che in lei pulsava uno spirito libero, non disposto ad essere domato, che non si sarebbe piegato a lui, che non lo avrebbe mai ossequiato. La soluzione migliore e più razionale era certamente quella di prevenire ogni altra alzata di testa facendola arrestare e fustigare, così come aveva già compiuto con altri soggetti ostili. Tuttavia c’era qualcosa che lo tratteneva, qualcosa che stranamente non era dettato dalla formalità o l’apparenza, bensì da un benevolo sentimento sincero, generato dalla memoria di altri momenti del tempo che fu: era vero, avevano avuto molti animati dibattiti, ma mai veri e propri litigi e spesso avevano anche dialogato serenamente sia di cultura, sia dei reciproci problemi personali. Agakrathos, che era sempre stato intransigente circa il rispetto che gli si doveva tributare, che mai s’era fatto scrupoli  nel punire chi si mostrava indocile, che ormai era noto a tutti per la propria durezza, non riusciva, in nome di quell’antico e debole legame, ad ordinare di mettere ai ferri quella giovane. come agire, dunque? Doveva trovare un modo per evitare a lei la galera e a sé stesso di rovinarsi la reputazione.

Intanto, sapendo anch’egli che doveva dare l’impressione al popolo che quella giovane indisponente, si comportasse in un modo così libero, non per ribellione, ma perché legata a loro, Halkemidos fece cenno di abbassare la propria portantina, si levò in piedi e col capo alto e l’incedere del passo elegante e distinto, che quasi parea brillare di luce propria, avanzò e raggiunse Astrea e, mostrando un sorriso luminoso ma ipocrita, le strinse la mano cordialmente dicendo: “Carissima, che piacere rincontrarti dopo così tanto tempo. Come stai?”

“Benissimo, non posso certo lamentarmi. Voi, invece? Non mi pare ve la passiate male…”

Non ce la passiamo male? Mio fratello è Duca! Oserei dire che la nostra vita sia ottima.

“Convinto tu…” replicò Astrea lasciando intendere che assai dubitava che un uomo di governo potesse esser lieto. Prima che si potesse aggiungere altro o cadere in un imbarazzante silenzio, Agakrathos, dall’altro del proprio trono, annunciò: “Oggi, sarai nostra ospite a pranzo, così potremo parlare a lungo; adesso non possiamo trattenerci oltre, abbiamo questioni importanti da sbrigare. A più tardi.”

I due Aristidei minori risalirono sulle loro portantine, il corteo era pronto per ripartire, quando il capo delle guardie osservò: “Ma il paesaggio è ancora ingombrato da questi attori…. Halkemidos, sapendo che insistere per liberare la strada avrebbe causato soltanto problemi inutili, con finta naturalezza  rispose: “Non essere ridicolo, questi teatranti dovrebbero smontare tutto, perderemmo un sacco di tempo. Se tu ci avessi informati prima avremmo variato fin da subito il nostro tragitto, infondo noi siamo promotori dell’arte e ci dispiace aver interrotto uno spettacolo, lascia che lo riprendano e noi avviamoci per una strada più corta.”

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Capitolo 3
*** I Rintocchi ***


DON

DON.

Le campane avevano appena cominciato a scandire i tredici rintocchi che annunciavano l’orario, erano quelle del campanile del duomo, massiccio edificio romanico che tuttavia presentava alcuni elementi gotici, ad esempio il rosone e altissime trifore decorate con vetrate variopinte che narravano le vite di molti santi. La basilica si trovava nella piazza centrale di Forum Lepidi, che era anche quella del mercato.

DON.

Nella parte più a Nord del centro della città si ergeva il palazzo Ducale, non era una fortezza, bensì un elegante edificio neoclassico, con molte marmoree colonne ioniche con capitelli corinzi lungo la facciata azzurra su cui si aprivano finestre dai molti bianchi stucchi.

DON.

Davanti ad esso si apriva una vastissima piazza priva di monumenti o fontane, in essa spesso sfilavano i militari, per questo era chiamata piazza d’armi.

DON.

Dietro, invece, cresceva rigogliosamente un immenso parco, attraversato da vialetti di candida ghiaia e solcato da un ruscelletto che formava pure un piccolo laghetto: un vero paradiso.

DON.

Astrea era in piedi, ferma immobile, dal lato opposto della piazza ed esitava ad attraversarla. Da una parte aveva voglia di rivedere gli Aristidei, passare del tempo con loro immergersi nuovamente, per un poco, in un ambiente aristocratico, acculturato, ma falso; dall’altra tremava, non sapeva perché, forse per il fatto che i tre fratelli non fossero più quelli che aveva conosciuto, o forse era solo l’emozione, ma tremava.

DON.

Si decise ad andare. Attraversò la piazza, incerta, molti ricordi si susseguivano rapidamente nella giovane mente: le cene da Eduardo, le chiacchierate, i concerti di musica classica dei tre fratelli che rispettivamente suonavano il pianoforte, l’oboe e il violoncello.

DON.

Era davanti al portale a sesto acuto, retto da due telamoni scolpiti in maniera estremamente realistica, precisi nel dettaglio: muscolatura perfettamente definita, un morbido panneggio increspato nei veli che li avvolgevano, la barba e i baffi scompigliati, lo sguardo e l’espressione di chi fatica a reggere un grande peso.

DON.

Davanti all’ingresso vi era un drappello di sei soldati, indossavano una divisa blu notte con bottoni color dell’oro. Erano armati di tutto punto con spade, pugnali, mazzafrusti e lì accanto, pronti ad essere impugnati, si trovavano archi, balestre e fionde.

DON.

Astrea allungò la mano, l’appoggiò sul pomello d’ottone e ancora indugiò: e se le avessero fatto del male? Ricordò quando, pochi mesi prima di finire il liceo, durante la gita scolastica, esasperata perché la ignorava, lei aveva chiesto ad Agakrathos: “Ma ti sto antipatica?”

“No…… Sono stanco.”

“Non è questione di adesso, è in generale. Capisco che, forse, ti possa essere sembrata assillante ultimamente, ma è solo perché, comunque, una volta avevamo un buon rapporto, ora invece non ci parliamo più e a me piacerebbe rinsaldare quel legame.” Egli aveva ascoltato tutto quanto impassibilmente, la osservò imperturbabile per un istante, poi fece il segno della croce dicendo: “Ti do la benedizione papale.”

DON.

No, non avrebbe potuto farle più male d’allora. Astrea avrebbe preferito mille volte che l’Aristideo, in quell’occasione, le avesse detto di odiarla, infondo l’odio era comunque una forma di rispetto e di considerazione. L’indifferenza faceva male più di ogni altra cosa.

DON.

No, non l’avrebbero ferita, sarebbero stati soli, non c’erano altre persone, non dovevano mantenere un prestigio davanti ad altri amici, erano solamente loro quattro… Inoltre erano passati alcuni anni, anche gli Aristidei erano cresciuti e se ciò non li aveva fatti maturare, almeno erano diventati i signori della città e non dovevano rispondere a nessuno delle proprie azioni e delle proprie frequentazioni.

DON.

Astrea varcò la porta e attraversò un lungo corridoio decorato in stile barocco: l’oro si sprecava! Un maggiordomo, esageratamente elegante per il proprio ruolo, la scortava e le mostrava la strada da percorrere per raggiungere la sala da pranzo. Ovunque ci erano quadri, sculture, arazzi e specchi.

DON.

La porta della sala da pranzo si aprì, erano già seduti Halkemidos e Timao. Il posto di capotavola era libero, riservato per il Duca, quello alla sua destra era appunto occupato dal fratello mediano, quello a sinistra era stato destinato all’ospite che aveva accanto anche il più piccolo dei nobili.

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Capitolo 4
*** Il Pranzo ***


Astrea salutò cordialmente, gli Aristidei ricambiarono, ella si sedette nel posto che le era stato assegnato e iniziò a guarda

Astrea salutò cordialmente, gli Aristidei ricambiarono, ella si sedette nel posto che le era stato assegnato e iniziò a guardarsi attorno. La stanza era molto luminosa, infatti si apriva una larga ed alta finestra dietro al posto del capotavola, essendo la sala al terzo piano non si temevano attentati, per cui il Duca non temeva a dar le spalle alla vetrata. Da quella finestra, dunque, la luce estiva entrava ed inondava la stanza facendo così brillare la maggior parte degli oggetti presenti: dalle posate d’argento, ai calici di cristallo, dalla tovaglia di raso, al lampadario a gocce di vetro e poi i due specchi in cornici d’oro, i vetri dei raffinati mobili in mogano decorati con intarsi che narravano chissà quali miti od eventi. Tutto luccicava. La ragazza era messa di buon umore dall’infrangersi della luce che colpiva quell’ambiente, ma ne era anche infastidita, quell’intensa luminosità le bruciava gli occhi. Gli scranni su cui sedevano erano imbottiti come poltroncine ed avevano decori rococò, erano tutti foderati di damasco blu, tutti tranne quello del Duca che, oltre ad essere più elaborato, era del nobile color porpora. La tovaglia era gialla e i tovaglioli bianchi; davanti a ciascun commensale vi erano tre bicchieri, un piatto sormontato da uno fondo che, a sua volta, era coperto da un piattino, alla destra vi erano le forchette a quattro denti, alla sinistra un coltello e davanti un cucchiaino. Su tutte le stoviglie era impresso o dipinto lo stemma degli Aristidei. Le pareti erano rivestite di seta azzurro, abbellite da geometrici più scuri; il soffitto era affrescato con immagini grottesche su sfondo bianco. Astrea si sentiva un po’ fuori luogo, era la prima volta, dopo molto tempo, che si ritrovava in un luogo così raffinato;  negli ultimi anni aveva sempre mangiato qualsiasi cibo nella mediamo scodella, avendo per posate un arnese che da un lato aveva la concava del cucchiaio, e dall’altro i tre denti della forchetta e un coltellaccio che usava in molte altre occasioni.

Un improvviso squillo di tromba, che annunciava l’arrivo del Duca, ridestò l’attenzione della ragazza, assopita nel contemplare la sala. Agakrathos fece il proprio ingresso: varcò la soglia, i suoi fratelli si alzarono in piedi in segno di rispetto e saluto, invece Astrea restò seduta, il Duca lo notò e quando si fu accomodato (e quindi anche gli altri due si rimisero a sedere) rivolto a lei, osservò con disappunto: “Tu non rispetti il mio essere nobile. Ella rispose rivolgendosi non solo a lui ma a tutti e tre: “No, hai ragione. Io vi rispetto come persone ed è quanto di più si possa desiderare. Io non rispetto il vostro titolo, io non rispetto il vostro sangue, io non rispetto il vostro potere. Io rispetto voi.”  In quelle parole non vi era alcuna arroganza, per cui gli Aristidei rimasero stupiti, ma non lo dimostrarono, i loro volti non furono solcati da alcuna emozione mantennero quella maschera di sereno distacco che non abbandonavano mai, neppure quando ridevano, neppure col riso che è la cosa più spontanea dell’uomo, sembravano sinceri. Dopo pochi e brevi istanti di silenzio, Agakrathos suonò la campanella che era appoggiata accanto ai sui calici e subito, da una porticina mimetizzata dalla tappezzeria, uscirono due camerieri, uno portava un vassoio con gli antipasti, l’altro li serviva nei piattini. Il Duca fissò un attimo l’ospite, poi chiese: “Raccontaci, ti abbiamo lasciata quand’eri un’aspirante attrice piena di speranze, cos’è accaduto? Come sei finita a recitare per le strade? Non hai avuto fortuna?”

“Entrare in una compagnia stabile è assai difficile, bisogna prima fare molta gavetta in altri ambienti. Viaggiare è molto interessante, per esempio…” cominciò a raccontare alcuni episodi che aveva vissuto, da lì presero a nascere  altri dialoghi. Parlavano, parlavano e parlavano, vi erano già stati alcuni screzi, ma senza che alcuno se ne avesse a male.  Il secondo stava per essere servito, quando entrò il maggiordomo annunciando: “C’è il Maggiore Ponte che vi chiede udienza d’urgenza, poiché sostiene di aver catturato un rivoltoso. Cosa devo rispondergli?” Agakrathos, pur essendo seccato dentro di sé, acconsentì con la solita calma: “Conducilo qui. Astrea, guardandolo, domandò ad Halkemidos: “Dicevi che la vostra vita è felice? Non vi permettono neppure di desinare in pace…”

“Queste sono questioni di massima importanza! Ne va della nostra vita!”

“Appunto, siete potenti, però vivete sempre con la paura di essere insidiati, no?”

Che esagerazione! Non abbiamo ansia, non siamo vinti dal timore; affrontiamo questi intralci con lucidità e prendiamo le giuste precauzioni. Siamo al sicuro come Dionigi, ma senza la sua apprensione. Siamo tranquilli.”

Fece il proprio ingresso il maggiore Ponte, nella sinistra teneva una catena che legava i polsi del prigioniero che rimase in piedi, mentre il soldato si inchinava al cospetto del Duca, salutava e iniziava a spiegare: “Abbiamo, io e i miei uomini, colto in flagrante costui che, in un’osteria, parlava di rivolta e sedizione.”  Il Duca meditò un attimo, poi sentenziò: “Imprigionalo e fustigalo con venti frustate al giorno per un mese, poi mozzagli le orecchie e vendilo come schiavo in un'altra città.”

Astrea ridacchiò. La giovane aveva riconosciuto all’istante il prigioniero: sei trattava di Carlo Cacio. Egli aveva due anni in più di lei, aveva frequentato la medesima scuola, i suoi lunghi e lisci capelli castano scuro, la sua barba da re persiano, i suoi occhi scuri impenetrabili e penetranti, che parevano poter scrutare dentro ogni cosa, che parevano poter vedere altri piani dimensionali negati ai comuni mortali, che parevano bastioni che proteggevano la sua anima, avevano affascinato fin da subito Astrea che per lungo tempo era stata innamorata di lui. Per i primi due anni, vedendosi solo a scuola, Carlo era stato scostante, in un primo momento era stato disponibile, poi aveva iniziato ad evitarla, ma di rado le rivolgeva la parola, anzi rispondeva vagamente alle domande che ella gli poneva. Quand’egli si era diplomato ed Astrea era convinta che non lo avrebbe mai più rivisto, ecco che subito la situazione mutò; infatti Duccio le aveva fatto conoscere il proprio insegnante di teatro, Nibbio, che le era stato simpatico fin da subito, iniziò a frequentare quella casa e le molte persone che andavano e venivano da lì, tra esse vi era anche Carlo. Si era formato un vivacissimo gruppetto di giovani, che forse non tutti si frequentavano spesso, tuttavia era affiatato e avevano dato vita a molti eventi. Astrea e Carlo, dunque, si vedevano più di prima, condividevano molti momenti di vita, per cui si creò una forte amicizia, ma nulla di più. Ella, infine, aveva accettato l’idea di non poter mai essere la morosa del suo amato, oramai erano anni che non era più innamorata di lui, sebbene in sua presenza continuasse a provare uno strano sentimento. La giovane, quindi, non poteva permettere che il suo amico andasse incontro all’orribile sorte predisposta da Agakrathos, per cui pensò rapidamente a una scusa e le sovvenne alla mente la triste reputazione di cui godeva Carlo a scuola…

Rise. “Che ti prende?” domandò Halkemidos, brusco solo interiormente. “Non lo riconoscete” domandò lei “Non è diventato lo scemo del villaggio? Lo zimbello del paese? Dai non ditemi che non vi ricordate di Cacio…”

“Il matto della scuola, è vero!” aggiunse Timao, che continuò: “Sì, sì, è vero… È quello che s’aggirava pei corridoi parlando della morte e altre corbellerie!” i fratelli fecero cenno di aver inteso. “Io stesso, l’altro giorno” proseguì il piccolo “L’ho sentito che parlava di insorgere, ma nessuno lo stava ad ascoltare, anzi la gente rideva di lui e gli lanciava contro verdura marcia. È innocuo.”

Se le cose stanno così” dichiarò il Duca “Commuto la pena in una notte in cella e una decina di frustate al rilascio. Te ne occuperai tu, Timao, domattina.”

“Va bene.” acconsentì il più giovane degli Aristidei. Il maggiore Ponte portò via il prigioniero, intanto Agakrathos proseguì rivolto al fratello minore: “Inoltre, oggi pomeriggio, se non hai incombenze urgenti, farai compagnia alla nostra ospite. Astrea si stupì, sgranò gli occhi e affermò: “Io, veramente, pensavo di togliere il disturbo dopo pranzo, i miei compagni attori mi aspettano e…”

“Abbiamo già provveduto ad informarli che ti tratterrai qui da noi per un po’ di tempo.”

“Questo, però, non è vero…”

“Come?” disse con finto stupore il Duca e con quel velato tono di chi ha preso una decisione e non ha intenzione di revocarla “Non vuoi soggiornare da noi per qualche mese? Certo che lo vuoi… e poi un’ospitalità simile non la si può rifiutare.”

Astrea capì: era prigioniera. Fingendo di ignorare quest’amara verità, cordialmente rispose: “Hai ragione, un’offerta simile non posso declinarla.”

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Capitolo 5
*** Chiacchiere in cortile ***


Poiché era una bella giornata, Timao propose ad Astrea di fare assieme una passeggiata nel parco del palazzo

Poiché era una bella giornata, Timao propose ad Astrea di fare assieme una passeggiata nel parco del palazzo. Dunque uscirono sul retro, un prato lungo duecento metri si apriva davanti a loro, al centro passava un largo sentiero di ghiaia bianca, che si restringeva sul fondo, poco prima di entrare in quello che pareva un boschetto. Vi erano anche vialetti laterali e altri trasversali, quest’ultimi dividevano le aiuole, in ognuna delle quali erano coltivate varietà diverse di una stessa specie di fiori, disposte in modo tale da formare variopinti disegni. Le stradine, inoltre, erano state abbellite con statue di gesso che rappresentavano divinità pagane e altri personaggi mitologici. Il nobile e l’ospite attraversarono tutto il viale principale ed entrarono nel presunto boschetto, che in realtà era il parco vero e proprio, molto ben curato ove crescevano alberi secolari, per lo più querce, faggi e pioppi. Dopo una lunga camminata, decisero di fare una sosta e sì sedettero in una piccola rotonda di marmo, eretta tra le piante, per cui era all’ombra delle folte chiome e lì il Sole non picchiava e non stancava col suo calore. Era calato il silenzio da qualche minuto, quando Astrea riuscì a chiedere: “Per favore, domattina potresti non frustare Cacio…?”

“Non era mia intenzione farlo.”

“Oh, grazie! Lui è una persona molto importante per me e non volevo che gli capitasse qualcosa di male.

“Grazie a te per aver iniziato a difenderlo oggi a pranzo, mi hai dato un ottimo spunto per tirarlo fuori dai guai, non so se altrimenti ci sarei riuscito.”

“Prego, però è stato indispensabile che tu intervenissi a darmi man forte… Ma perché l’hai fatto? Non capisco… Lo conosci, forse?” Timao si alzò in piedi, si guardò intorno per esser certo che non ci fosse nessuno, quando fu certo che fossero soli, si avvicinò alla ragazza e sottovoce le domandò: “Tu sai il mio segreto, ricordi? Lo confidai a te e a Duccio.” Astrea ricordò, tornò con la mente a cinque o sei anni prima…

Quel giorno c’era l’assemblea d’istituto a scuola; lei, il suo migliore amico e il giovane Aristideo l’avevano disertata, s’erano chiusi dentro a un’aula, se erano seduti a terra per non essere visti dalle finestre. Parlavano, giocavano a carte, ridevano e scherzavano, ma ad un tratto, senza un apparente motivo, Timao si era fatto serio in volto e gravemente aveva dichiarato: “Ragazzi, io vi devo confidare un segreto.

“Dicci.”

“Non è facile per me dirlo, perché nessuno se lo aspetterebbe, però è la verità…”

Cosa?”

“Voi siete i primi a cui lo rivelo, dovete promettermi che non lo direte a nessuno.

“Tranquillo, non sveleremo nulla, giuriamo.

“I miei fratelli non lo devono assolutamente sapere, perché se lo scoprono, per me è la fine.

“Dicci.”

“Io non sono monarchico come loro!”

Astrea annuì, Timao prese a spiegare sussurrando: “Tu forse non ci crederai, ma è così: io sono uno dei promotori, organizzatori e finanziatori della rivolta. La ragazza era rimasta senza parole per lo stupore, il giovane continuò: “Le azioni dei miei fratelli dono deprecabili, sono insensatamente aspri e devono essere ostacolati. È meglio, però, non parlarne qui, adesso, domattina ti mostrerò molte cose, così capirai maggiormente quel che accade e quel che facciamo noi. Cacio è uno dei nostri più abili uomini, dovevo assolutamente difenderlo, ma, ti ripeto, tra meno di ventiquattro ore, ne saprai di più.”

Rimasero nuovamente in silenzio, Astrea spostava lo sguardo trai rami degli alberi, vedeva il vento che faceva danzare le verdi foglie, scorse più in là un nido ove tre piccoli di gazza stridevano affamati, placandosi solo una volta che la madre aveva portato da mangiare, stretto tra gli artigli, un coniglietto di un paio di settimane. Gli esili colli si allungavano e i becchi strappavano brani di carne al piccolo roditore ancora vivo, che s’agitava inutilmente finché, squarciato il ventre, non spirò. Dura realtà.

“Quanto dovrò rimanere qui?” chiese Astrea. “Dovrai? Potrai, intendi dire… Comunque quanto ti pare.”

“Suvvia non fingere. Per quanto mi riguarda, me ne andrei volentieri anche ora, ma dubito che Agakrathos me lo conceda, non è così?” Timao non rispose, ma il suo sguardo era, stranamente, molto eloquente; la ragazza continuò: “Si può sapere, almeno, perché mi vuole tenere prigioniera? Non ho fatto nulla.”

“È per quel che potresti fare. È una precauzione che hanno voluto prendere i miei fratelli, ho provato a dissuaderli, ma non ho potuto essere troppo insistente, altrimenti avrebbero potuto sospettare qualcosa…” Iniziò a raccontare…

Poco dopo aver lasciato piazza Alta, quella mattina, il Duca aveva dato ordine di essere condotto a palazzo dove si era chiuso in una stanza coi suoi germani per pensare al da farsi. “Non possiamo permettere le sue idee libertarie in pubblico!” aveva esordito Agakrathos “Quanto odio i popolani che hanno un pensiero indipendente! Perché esistono? Non possono adeguarsi tutti al pensiero comune ed essere placidi e manipolabili? No! Devono fare gli originali, avere una propria opinione ed intralciarci. Ah, ma sono i problemi di inizio governo, quando c’è ancora qualche residuo di plebaglia istruita. Noi, però, impediremo il proliferarsi di questo cancro: le scuole di un certo livello saranno esclusivamente per gli aristocratici, al volgo lasciamo il minimo…” Halkemidos aveva dato un colpo di tosse e aveva richiamato il fratello a focalizzarsi sul punto principale. “Ah, sì, giusto, giusto Astea…. Dobbiamo impedirle di tenere serti atteggiamenti nei nostri confronti, specie quando c’è gente e di divulgare le sue opinioni che potrebbero far germogliare il seme della rivolta in seno alla plebe. Avete qualche proposta? Niente di violento, però, non voglio farle del male, almeno finché non causerà seri problemi.” Timao aveva detto: “Basterebbe esortarla a ripartire al più presto con la sua compagnia.

“No” dissentì il Duca “Andrebbe altrove a cercar di destare gli animi…. Bisogna tenerla imbavagliata e sottocontrollo.

“Io un’idea l’avrei” avanzò Halkemidos “Tratteniamola nel nostro palazzo, la ‘coccoleremo’ con il lusso, i privilegi, onori e altro in modo da mitigare sempre più i suoi spiriti ribelli fino a spegnerli completamente. Dopo di ché le ritaglieremo un posto nell’alta-società, così se ne rimarrà tranquilla e noi potremo sempre sorvegliarla.”

“Mi piace come piano, vada per questo, più avanti, magari, riusciremo anche a rendercela utile… Perfetto, allora è deciso: rimarrà qua e l’addomesticheremo.”

“Che cosa?!” rimase esterrefatta Astrea “Ah, ma si illudono. Non ricordano ch’io sono un’attrice? Fingerò e appena potrò fuggirò da qui e riprenderò la mia strada.

“Non vuoi aiutare la ribellione?”

“Non so… è un affanno tale… Io son sempre stata conteso dalla mia anima politica che segue il senso di giustizia e quella filosofica che ambisce alla pace interiore. Darmi da fare per queste vicende umane è spesso vano e non mi eleva, per cui che ci pensi chi è legato a questo mondo, a battersi per esso, io ho qualcosa di più grande da seguire. Comprendi?”

“No, lo trovo un ragionamento egoistico, ma fa lo stesso, non ti voglio imporre alcunché, se cambierai idea sai a chi rivolgerti.”

“Una mano, se posso, ve la darò comunque volentieri.”

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Capitolo 6
*** Il covo ***


Il mattino seguente Astrea si destò di buon ora, com’era abituata nella compagnia teatrale, quasi si stupì di ritrovarsi in qu

Il mattino seguente Astrea si destò di buon ora, com’era abituata nella compagnia teatrale, quasi si stupì di ritrovarsi in quella stanza, poi ricordò di essere nel palazzo ducale. Aveva dormito molto bene, da diversi mesi non si sdraiava su un letto o aveva un soffice cuscino sotto la testa o era avvolta da lenzuola; infatti quando viaggiava sui carri, dormiva nei prati, per terra, in tenda, dentro al sacco a pelo, senza neppure usare il pigiama; quand’erano fortunati venivano ospitati in qualche casa parrocchiale e allora potevano sdraiarsi su materassi duri, bucati, ammuffiti, con coperte ruvide e rigide. Quella camera, dunque, era un vero lusso per la ragazza: letto a una piazza e mezzo, molto alto, bianche lenzuola di cotone ben lavorato, il copriletto di seta verde con ricami floreali. Si alzò e appoggio i piedi nudi su un morbido tappeto, li infilò in un paio di pantofole azzurre con sopra ricamate due grandi margherite, le aveva scelte la sera prima tra le molte paia mostratele dai servitori degli Aristidei. Andò dall’altra parte della stanza e aprì gli scuri delle alte finestre da cui si aveva una visuale del parco; si volse poi verso l’armadio che oltre con i pochi suoi, era stato riempito con numerosi abiti eleganti, li osservò, poi optò per i propri pinocchietto azzurri e una camicia rossa priva di maniche. Si lavò a modo nel bagno attiguo ove su un treppiede di bronzo era stato posto un catino di ceramica, colmo di acqua fresca; quasi non era più abituata a lavarsi se non in un fiume o in un lago. Una volta pronta andò nella sala da pranzo per la colazione.

Vi era soltanto Halkemidos, col volto assonnato, indossava una camicia celeste, sul tavolo aveva appoggiato una cravatta blu scuro a righe sottili azzurrine, stava imburrando una fetta di pane tostato e teneva vicino un barattolo di marmellata di albicocche fatta in casa. “Buongiorno!” salutò il nobile con quella sua voce cordiale e solenne. Astrea sorrise e ricambiò sussurrando, si accomodò e presto giunse una cameriera a portarle la colazione che aveva ordinato la sera precedente. “Hai dormito bene?”

“Sì, indubbiamente, si sta bene qui.”

Ne son lieto, auspico vorrai farci compagnia a lungo.” dichiarò con falsa ospitalità nel tono.

Fece il suo ingresso Agakrathos, senza squilli di trombe: detestava i rumori e i suoni acuti appena svegliato; il fratello si levò comunque in piedi, Astrea alzò appena lo sguardo e continuò a girare il proprio cucchiaio nella tazza di cioccolata. Al duca furono immantinente serviti il suo caffè e la sua brioche alla crema. La conversazione fu molto formale, con frasi di circostanza; poco prima di alzarsi da tavola, il maggiore degli Aristidei annunciò alla giovane: “Questa mattina ti lascio nuovamente in compagnia di Timao, ma nel pomeriggio mi intratterrò io con te.” Astrea sorrise, forse un po’ forzatamente, non sapeva cosa dire, per cui si limitò ad un semplice: “Volentieri.”

Pochi minuti dopo anche Halkemidos se ne andò per occuparsi delle proprie mansioni; la ragazza rimase seduta ad aspettare il più giovane dei tre fratelli che non tardò molto ad arrivare. Timao fece colazione con estrema calma e Astrea iniziava ad annoiarsi, si alzò in piedi, vagò per la stanza, si affacciò a una finestra. “Sei nervosa?”

“No, ma non sono abituata all’ozio, non mi piace stare senza far nulla.

“Sei irrequieta. Tra poco usciremo.”

Terminata la colazione, Timao invitò la ragazza a seguirlo; scesero diverse rampe di scale fino a giungere nei sotterranei, dove si trovavano le segrete del palazzo; il nobile si fece indicare la cella di Cacio e vi entrò da solo, impugnando una frusta. Trascorsero dieci minuti durante i quali si udirono schiocchi e grida.

La porta si aprì e Cacio uscì con espressione vagamente dolorante e la maglia bianca macchiata di rosso sulla schiena, spintonato in malo modo da Timao che inveiva contro di lui. il nobile ordinò a due guardie di scaraventare il poveraccio per strada; poi, facendosi seguire dalla ragazza, andò nei propri appartamenti, dando ordine di non essere disturbato per alcun motivo durante le successive tre ore. Una volta soli, Timao invitò l’ospite a sedersi, poi si chinò a terra, sollevò un tappeto svelando così una botola, l’aprì e fu chiaro che si trattava di un armadio a pavimento, da l’ tirò fuori due mantelli di rozza tela leggera di colore beige, due tricorni veneziani, una parrucca. Timao indossò la falsa capigliatura, si avvolse in uno dei mantelli e si calcò in testa uno dei cappelli, esortando la ragazza a fare altrettanto; successivamente il nobile andò vicino a una statua che abbelliva la sua stanza, toccò il basamento ove vi era un grande quadrato, formato da molti altri quadretti colorati e numerati, li spostò, formò una speciale questione ed ecco che si aprì un passaggio segreto. “Presto, seguimi.” Entrò nel cunicolo, accese una torcia e iniziò a scendere un scalinata. Astrea era rimasta esterrefatta, ma s’affrettò a star dietro all’amico. “Dove andiamo? Dove porta questo passaggio?”

“Conduce da molte parti, più avanti vedrai che la strada si dirama, quindi stammi vicina o ti perderai. Ogni via sbuca poco lontano da uno dei punti di ritrovo dei rivoltosi, il collegamento non è diretto per evitare che, se disgraziatamente fossi scoperto, i miei fratelli possano inviare i loro soldati per una sortita. Adesso ci rechiamo in un posto tranquillo, è una specie di locanda solo per i rivoltosi, dove ci si trova in modo informale, si parla, si scambiano idee o semplicemente ci si diverte. Dopo circa un quarto d’ora tornarono all’aria aperta, percorsero una viuzza, poi ne imboccarono un’altra che li condusse in un quartiere degradato, si fermarono vicino a una bettola con i vetri delle finestre a specchio. Timao bussò con un particolare ritmo, poi iniziò a recitare due versi di una parola d’ordine, dall’altra parte della porta una voce la continuò e infine il nobile la concluse. L’uscio si aprì e i due amici entrarono. Astrea si guardò intorno e si meravigliò nel notare come quel locale fosse ben tenuto, certo era semplice, rustico, con tavoli in legno grezzo, tuttavia era pulito, accogliente e caloroso. Sedeva ad un tavolo, con un buon boccale di birra posto davanti a sé, Carlo. L’Aristideo si diresse immediatamente da lui, si accomodò allo stesso desco assieme alla giovane. “Allora cos’è andato storto? Com’è che sei stato arrestato?”

“Il palo non m’ha avvertito.”

“Tutto qui? Semplicemente un idiota non ha fatto il suo dovere? Voglio il suo nome, subito, così controlleremo se è stato un errore più o meno volontario!”

“Ettore Canedi, nome in codice: Tasso Fiorito.

“Bene. Giacché vi conoscete, ti lascio in compagnia della nostra comune amica, io devo parlare con alcune persone. detto ciò si alzò da tavola e cominciò a girare da un gruppo di gente all’altro. Carlo e Astrea rimasero in silenzio per un poco, poi lei domandò: “Come fai ad essere appoggiato allo schienale? Non ti hanno frustato?” il ragazzo indicò le macchie rosse e bofonchiò: “Pomodoro. Cacio era sempre stato di poche parole e la sua loquela era estremamente lenta, il viso era inespressivo, mai nessuna emozione lo attraversava; soltanto in un’occasione Astrea aveva capito che egli fosse furioso, non perché il volto fosse deformato dalla rabbia, ma per una strana fiamma che gli aveva travolto gli occhi, altrimenti solitamente atoni. Un’altra cosa che lo rendeva umano era il riso, quando rideva si sentiva che era spontaneo, la risata pareva innaturale, ma non come se fosse forzata, ma come se non venisse usata da tanto tempo. Astrea, per la prima volta, pensò alle somiglianze e alle differenze circa l’impressione che facevano Carlo e gli Aristidei. Entrambi sembravano distaccati, entrambi apparivano con un volto sempre uguale, intonso da emozioni; tuttavia il primo pareva completamente estraniato, alienato, gli altri invece erano presenti. Difficile era a dirsi chi sembrasse più irreale.

Il silenzio trai due rimaneva, la ragazza si decise a parlare e domandò: “Ma qui cosa fate? Come si è formata la ribellione e perché?”

“Il Duca è molto aspro, repressivo, autoritario… La sera c’è il coprifuoco: totale per la plebe, parziale per i borghesi perché possono chiedere dei permessi, inesistente per i nobili. In ambito giudiziario si riducono a torture, mutilazioni, morte, schiavitù. Dispotismo, ecco quello che c’è. Fin da subito io, Duccio, Tetano, Biagio, Ivan e tutti gli altri del gruppo di Nibbio ci siamo organizzati; all’inizio protestavamo e basta, non causavamo troppi problemi, ma poi Timao ci ha contattati, in un primo momento non ci siamo fidati, ma poi si è mostrato leale e così abbiamo creato questa società segreta. Non facciamo nulla di attivo, il Duca non sospetta nulla, per ora cerchiamo di far proseliti e di conceder spazi liberi alle persone.”

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Capitolo 7
*** Sotto il gazebo ***


Timao e Astrea tornarono a palazzo per l’ora di pranzo, fingendo di non essere mai usciti

Timao e Astrea tornarono a palazzo per l’ora di pranzo, fingendo di non essere mai usciti. Come preannunciato, quel pomeriggio, fu l’Aristideo maggiore a godere della compagnia della giovane; anch’egli la condusse nel grande giardino, però preferì addentrarsi fin nel cuore di esso dove si trovava un prato privo di alberi al cui centro era stato eretto un gazebo ornato con motivi orientali: dragoni e tigri d’oro s’arrampicavano tra le navi color del mare. Lì sotto erano poste delle poltroncine basse, imbottite, della medesima fantasia del chiosco e un tavolino treppiede di marmo, non tozzo, ma slanciato e si atteneva allo stile del loco. Vi era un solo ingresso, poiché gli altri lati erano completamente chiusi da roseti dai molti colori. Il Duca invitò la giovane ad accomodarsi, girò intorno nel gazebo osservando scrupolosamente i fiori, infine ne trovò uno che lo soddisfacesse, lo recise con delle cesoie che erano lì e lo porse: una rosa corallo. Astrea poggiò il naso trai petali e inspirò profondamente, lasciando che il profumo le penetrasse le narici e le invadesse i polmoni: che dolce odore, intenso, ma che trasmetteva un senso di leggerezza e di vago, le fece tornare in mente il giorno in cui lei, Carlo e Nibbio erano andati a passeggio in un boschetto segreto.

Era un tardo pomeriggio di fine gennaio, avevano camminato a lungo per stradine di campagna ove non passava nessuno, infine erano giunti vicino a un torrentello che scorreva in un piccolo angolo di foresta, che era tutto ciò che rimaneva della folta vegetazione dopo i continui roncaggi operati nei secoli per allargare i campi coltivati. Una recinzione separava quel mondo dalla strada, i tre l’avevano scavalcata senza problemi, avevano poi attraversato tutto quel minuscolo spazio di selvaggio e incontaminato, un’atmosfera semplice e magica; infine erano tornati sui propri passi e, levando gli occhi al cielo, tra i rami neri, avevano visto Venere che corteggiava una sottile falce di Luna.

Sorrise, ringraziò e si mise il fiore trai capelli, altrimenti non avrebbe potuto fare a meno di annusarlo ad ogni istante. “Sei molto cambiato.” notò ella “Non sei mai stato così gentile.”

“Io sono una persona cortese, lo son sempre stato e sempre lo sarò.”

“Non mi hai trattata bene, l’ultimo anno di liceo…”

“Davvero? No, no, senz’altro ti stai confondendo.”

“Affatto. Ricordo molto bene, a scuola non mi tenevi minimamente in considerazione, per di più negli ultimi mesi hai addirittura smesso di salutarmi. Io avevo fatto di tutto per rinsaldare i legami con voi, cercavo occasioni di dialogo, vi invitavo quando organizzavo feste a casa mia, vi ho fatto regali per i compleanni e Natale! Con Timao non ci sono mai stati problemi, Halkemidos mi ascoltava e chiacchieravamo quando ce n’era l’occasione. Tu, invece, non mi prestavi orecchio, quando c’era altra gente del liceo mi ignoravi completamente, se provavo a dirti una parola, tu te ne andavi; se però ci incrociavamo per caso per strada, senz’altri conoscenti,  ecco che eri cordiale e disponibile. Non ho mai capito se ti vergognassi di mostrare che mi dessi confidenza, oppure se proprio non mi sopportassi e quando mi parlavi era solo perché non avevi altre vie di fuga. Io ti voglio bene e mi dispiaceva recarti tedio e non capivo il perché del tuo agire e mi rammaricavo pensando: se solo fosse sincero e spiegasse ciò che vuole… Non stavo bene, ero triste, volevo solo esserti amica e tu eri troppo ambiguo.”

Agakrathos non rispose, si alzò, fece un paio di giri del gazebo, senza neppure sembrare pensieroso, poi si rimise a sedere, tirò fuori la pipa, la caricò, l’accese e iniziò a fumare, diede qualche boccata, infine puntò i propri occhi su Astrea e cominciò a dire: “Ti dirò, non m’ero mai accorto di trattarti male, finché non hai osato colpirmi…”

“Era una scoppola amichevole e non ti aveva neppure fatto male. Non hai detto nemmeno Ahaia, ma semplicemente: Mi hai toccato…! Come osi? Con un tono terribile, privo di rabbia, senza enfasi, ma carico di sdegno...”

“Era il minimo. Di te mi infastidiva proprio il fatto che non vedessi la distanza che c’era tra noi, ch’io fossi a un livello più elevato. La gente che mi circondava sapeva bene che eravamo su piani differenti, invece tu ti prendevi la libertà di considerarti mia pari, non eri mite e sottomessa come avresti dovuto, ma ti permettevi di criticarmi. Eri sempre sicura ed irruente, un atteggiamento che non mi piaceva perché non riconosceva la mia superiorità.

“Lo faccio tutt’ora e non smetterò, a mio parere si è tutti uguali; non è però un mancarti di rispetto, anzi, come ti dicevo ieri, è un rispetto maggiore: potresti essere più di un duca, o un uomo comune o anche un vagabondo, ch’io ti vorrei bene lo stesso e ti tratterei nel medesimo modo.” Agakrathos ignorò quest’ultima interruzione, o almeno finse, proseguì dicendo: “Agivo, dunque, come mi pareva più consono per evidenziare il mio rango, credevo di impartirti una lezione, non che tu soffrissi… è per questo che asserii che non era vero che ti trattassi male, quando me ne chiedesti la ragione, tuttavia tale quesito mi fece riflettere e compresi che forse ti avevo arrecato dolore, quindi…” Non volle terminare la frase. “Quindi?” lo incalzò la ragazza. “Quindi” riprese egli controvoglia, ma senza che il proprio tono fosse intaccato “Mi vergognai, un poco, mi dispiaceva che tu fossi stata triste a causa mia.

Ed era una buona ragione per smettere di parlarmi e quasi togliermi il saluto?”

“Non devo rendere conto a te delle mie azioni!” dichiarò con forza il Duca, la sua voce non era stata deformata dall’ira, il timbro era più profondo e cupo, il volume alto, il tono carico d’impetuosità e forse un po’ minaccioso, pareva quasi aggredire. Astrea tremò un poco dentro di sé, non era abituata a simili reazioni da parte degli Aristidei, certo si ricordava che spesso e volentieri, in mezzo alla loro tipica posatezza, avevano brevi scatti di euforia, oppure di vicendevole collera, tuttavia anche in quest’ultimo caso tuonavano con cipiglio aristocratico e distaccato. Il tono del Duca, questa volta, era invece carico di astio e minaccioso, insolito per l’Agakrathos che conosceva l’attrice che mai si sarebbe aspettata da lui una simile furia, resa ancor più terribile perché trasmessa solo in parte dalla voce, ma soprattutto dallo sguardo, da un bagliore negli occhi, da un energia che proveniva da chissà dove. Astrea, comunque, non si lasciò intimorire, non abbassò la testa, non distolse le pupille dal viso del nobile; fece un paio di respiri profondi e placò il ribollire che le agitava l’animo, cacciò l’offesa del tempo passato; sorrise e disse: “Suvvia, ho sbagliato a rivangare quegli anni, non importa quel che è stato, ma solo quel che è ora, per cui propongo di abbandonare, entrambi, i dissapori che ci sono stati e goderci l’adesso. Perché avvelenarci lo spirito e stare inquieti per frivolezze?”

“Concordo.” si limitò a rispondere Agakrathos, poi tornò il silenzio. Trascorse qualche minuto, poi la ragazza osservò: “Eduardo deve essere tremendamente invidioso della vostra posizione. Ricordo bene che voleva sempre essere al centro dell’attenzione, voleva comandare e ora, invece, al potere ci siete voi, gli avete almeno affidato un buon compito?”

“L’ho nominato barone di una zona di provincia, al confine con Mutina, non me ne curo più di tanto finché rimane buono e tranquillo.

“Gli conviene… a tutti conviene.”

“Come?” domandò con un ché di stupito l’Aristideo maggiore.

“Sei il Duca, non è saggio mettersi contro di te; tu sei il detentore del potere, tu decidi, tu comandi… per li altri l’obbedienza è d’obbligo.” Astrea aveva iniziato a recitare, il suo tono era a metà tra il seducente e l’adulatorio. Agakrathos era compiaciuto, dichiarò: “Avevo inteso, ma stentavo a credere che fossero parole tue. Non eri tu, forse, che proclamavi la libertà e la rivolta contro gli oppressori?”

“Oh, certo, una volta ero così, ma poi ho compreso: il volgo è troppo stolto per accorgersi delle catene che lo opprimono, non vuole essere affrancato…, dunque perché dovrei spendermi per chi non vuole essere aiutato? Miro, adesso, esclusivamente alla mia libertà, a una pace interiore, a una volta contemporaneamente stoica ed epicurea. Voglio migliorare e perfezionare me stessa, solo allora, forse, sarò degna d’occuparmi del mondo, ma son certa che una volta trovata la serenità, non mi interesseranno più queste sciocche vincendole terrene.”

“Mascheri così la tua rassegnazione?”

“Non è una maschera: ammetto di essere stata delusa e di aver intrapreso un’altra strada.

“Ne sono lieto, così non avremo da scontrarci e potremo restare amici. Astrea sorrise forzatamente, doveva fingere di credere a quella falsa amicizia; fremeva, sapeva che quella gentilezza era dettata da necessità, sapeva che ad Agakrathos nulla importava di lei, per cui si ripeté per l’ennesima volta che non doveva lasciarsi abbindolare, che non doveva illudersi, bensì doveva essere lei ad abbindolare e ad illudere per poter tornare al più presto alla libertà. La giovane si alzò dalla sedia e si avvicinò al duca dicendo: “Suppongo che tu sia oberato d’impegni, sempre dietro a badare al governo, sarai stressato…” si mise dietro al nobile, appoggiò le proprie mani sulle sue spalle. Il Duca era perplesso dentro di sé e, forse, anche un poco allarmato, ma la ragazza lo rassicurò: “Rilassati e lascio ch’io ti massaggi un poco, ne hai bisogno.” L’Aristideo rimase per un poco rigido, ma poi decise di fidarsi e si lascio andare al rilassamento, dando di tanto in tanto qualche boccata di pipa. “Neanch’io ti credevo così gentile, se sempre stata un maschiaccio, non credevo che…”

Potessi essere così dolce?”

“Esatte. Cosa ti è successo?”

“Nulla, ero così pure prima, soltanto non ci sono state occasioni, in passato, in cui potessi mostrarti la mia tenerezza. Sono molto dolce con chi se lo merita e quando non c’è altra gente… infondo anch’io ho la mia immagine, quella di donna sicura, forte e indipendente, da difendere.

“Questa, spero lo ammetterai, è una maschera.

“No, io sono di carattere risoluto e deciso, ma ho lati che preferisco mostrare solamente a chi so che non vuole farmi del male, a chi non userà la mia tenerezza contro di me.

“Ti fidi di me?”

“No, ma penso che esser cortese non mi danneggerà.

Agakrathos, con la sinistra, accarezzò la mano destra della ragazza, come in segno di ringraziamento. Il Duca era soddisfatto, forse si era sbagliato, forse Astrea non era così pericolosa, è vero a livello pubblico poteva causare problemi: non si sarebbe mai inchinata al suo cospetto, non sarebbe mai stata una suddita obbediente, la sua irrispettosità avrebbe potuto agitare la plebe; tuttavia era così piacevole averla lì accanto a sé… Ecco aveva due motivi per tenerla stretta a corte: impedire che il volgo potesse imitare il suo atteggiamento e godere egli stesso della sua presenza. Iniziò a formarsi nella nobile mente un proposito…: non avrebbe lasciato che Astrea abbandonasse il palazzo, neppure se si fosse mostrata docile e sottomessa… almeno finché non si sarebbe stancato di lei.

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Capitolo 8
*** Le tradizioni degli Aristidei ***


Ogni fine settimana, salvo importanti faccende di governo, gli Aristidei andavano a rilassarsi nella loro magione di campagna

Ogni fine settimana, salvo importanti faccende di governo, gli Aristidei andavano a rilassarsi nella loro magione di campagna e sempre invitavano i loro amici a raggiungerli. Come d’abitudine, anche quel sabato, il Duca e i suoi fratelli si recarono fuori dalle mura e portarono con sé l’ospite. Erano partiti su una grande carrozza bianca, scoperta, dalle forme rotondeggianti, con decorazioni e particolari in oro zecchino, trainata da sei cavalli, se bai; all’interno era spaziosa, aveva comodi sedili imbottiti, rivestiti di damasco rosso. Mentre la carrozza e la piccola scorta di soldati passavano per le vie, la gente si accalcava per le strade, salutando animatamente e urlando ovazioni: era necessario comportarsi così, altrimenti avrebbero rischiato di contrariare il Duca e questo certo non lo volevano: sarebbe stato assai spiacevole. Astrea scrutava la folla e si domandava se davvero quelle persone fossero liete; Halkemidos e Timao, di tanto in tanto, degnavano di qualche occhiata, sorriso o cenno di saluto la torma, invece Agakrathos non posava gli occhi su suoi sudditi, fissava in modo altero un punto perso nell’orizzonte, aveva uno sguardo ieratico. Quando ormai erano usciti dalla città, il mediano si appoggiò mollemente allo schienale, sbuffò e bofonchiò: “Plebe…!” Ironica, Astrea domandò: “Non ti piace sentirti lodato? Tutta quella massa informe di uomini e donne accalcati per le vie agitavano braccia, fazzoletti, cappelli… Non è salutare per il tuo ego?”

“Oh certo, non mi infastidiscono i complimenti, è il dovermi mostrare cortese col volgo per dargli un contentino che mi secca.”

“Pagando le tasse ti mantiene, grazie al suo sudore puoi vivere in un sontuoso palazzo e avere tutto ciò che potresti desiderare; un falso sorriso quando passi è una ben magra ricompensa, per cui non dovresti lamentarti.”

“Ma che vai dicendo?” ribatté Halkemidos con un tono calmo, ma macchiato di incredulità tediata, proseguì esponendo dottamente il proprio punto di vista: “Tu parti da un presupposto erroneo, ti spiegherò chiaramente una volta per tutte così forse capirai: noi siamo superiori a voi del popolino, è nostro compito governarvi e ricercare il piacere, mentre vostro dovere è obbedire e onorarci e dovreste esserci riconoscenti se vi concediamo qualche attenzione. Tu, però, questo non lo comprendi neppure ti rendi conto di quanto dovresti esserci grata per il fatto di concederti di essere nostra ospite…”

Timao guardava gli alberi e si tratteneva a stendere dal contraddire il fratello, a malincuore doveva sopportare quelle parole, ma infondo era abituato fin da piccolo o fingere di condividere i valori e gli ideali dei suoi germani. Agakrathos ascoltava senza dar alcun cenno di consenso o dissenso, era impassibile, in realtà era pienamente d’accordo con Halkemidos, tranne per un particolare: Astrea faceva davvero parte della torma degli inferiori, oppure…? No, no, che si stava dicendo? Certo ce ne faceva parte, certo.

Astrea era disgustata e irritata da quelle parole, guardò con astio l’Aristideo di mezzo, si alzò in piedi e, poiché la velocità non era elevata si gettò giù dalla carrozza e con calma camminò verso i boschetti adiacenti. Agakrathos si scosse d’improvviso e ordinò a due guardie di recuperarla e di condurla alla meta, poi guardò Halkemidos severamente e gli disse: “Non dobbiamo lasciarla fuggire finché non l’avremo asservita a noi!” era molto aspro, quando erano solo tra loro tre lasciavano che si manifestassero “Cosa t’è saltato in mente di dirle certe cose?”

Ma è la verità, non dirmi che ti fai delle remore per lei! Bisogna mettere le cose in chiaro, farle capire che vi sono dei paletti che non deve azzardarsi a superare! Ai tempi della scuola mi veniva a parlare come se nulla fosse, come se io avessi del tempo da sprecare… Bhe, sì, è vero in realtà quel che mi infastidiva non era che mi parlasse, ma come lo faceva: in scioltezza e tranquillità… A quel tempo non le si poteva dir nulla, ma ora tu sei Duca e noi abbiamo potere, per cui deve comportarsi com’è più consono: da subordinata.”

“Deve piegarsi a noi senza accorgersene. Deve rendersi conto che noi siamo più di lei lentamente, con i fatti e non devi insegnarglielo tu con certi toni, altrimenti sarà ancor più indisponente. Possibile che in cinque anni che l’abbiamo avuta a scuola, tu non abbia capito come trattarla?”

“Lo so, lo so, però non vedo perché le stiamo riservando questo trattamento di favore, se fosse stata un’altra non avremmo esitato a mandarla a morte o a ridurla in schiavitù per non averci ceduto il passo.” Timao scattò e rimproverò il fratello: “Mi stai dicendo che, per quanto ti riguarda, saresti disposto ad ucciderla? Una che ci vuol bene e nonostante i diverbi non ci ha mai trattato come nemici?”

“Oh, sta zitto, eri tu che la frequentavi, almeno finché non hai compiuto diciassette anni e ti abbiamo fatto diventare un Aristideo completo…”

“Non me lo ricordare! Comunque anche voi prima di quell’età trascorrevate tempo con lei.”

“Dovresti solo ringraziarci per averti istruito o non saresti come noi, ora. Io non sono come voi e non voglio neppure diventarlo!  Avrebbe voluto gridare Timao, ma non ne aveva il coraggio; non sopportava molte delle idee dei suoi germani, spesso avrebbe voluto contraddirli, ma non ci riusciva: il sangue era un legame talmente saldo che non gli permetteva di reagire. Tutta la sua famiglia era così, seguiva le medesime tradizioni da secoli, s’era formata un nome, una posizione, una fama nel tempo e ogni suo membro si atteneva a un determinato codice di comportamento; solo lui era un po’ diverso e non condivideva ognuna delle rigide regole, se sentiva differente, forse sbagliato, ma non poteva tradire la sua stirpe, doveva adeguarsi altrimenti avrebbe potuto danneggiare anche gli altri. Già: la famiglia e il suo buon nome precedevano la felicità e la volontà del singolo. Fino ai diciassette anni i piccoli Aristidei venivano lasciati in pace, liberi di frequentare chi volessero e di comportarsi in modo un poco più aperto, ma poi, una volta compiuta quell’età, venivano condotti davanti al Consiglio degli Aristidei, composto da tutti gli uomini della famiglia che erano già maggiorenni. Timao ricordava bene il giorno in cui, rientrato a casa, aveva ritrovato in salotto suo padre seduto al centro della sala su una poltrona, a cui fianchi sedevano su alti scranni i suoi zii, mentre da un lato si trovavano i suoi cugini che ancora vivevano coi propri genitori.  Timao era stato fatto accomodare su una sedia proprio in fronte al padre che aveva iniziato a fargli un lungo discorso sul fatto che stesse crescendo, che dovesse costruirsi una posizione nella società, perché essere un Aristideo significava avere un determinato ruolo etcetc… Il ragazzo s’era un po’ preoccupato a sentir tutte quelle cose, ma non immaginava minimamente quel che sarebbe accaduto immediatamente dopo. Halkemidos si era posizionato ad uno scrittoio, aveva srotolato una pergamena su cui si trovava un lunghissimo elenco delle persone che Timao conosceva: era necessaria una cernita per non perder più tempo con gente di poco conto e concentrarsi a stringere amicizia con persone che avrebbero avuto un futuro di un certo livello. Avevano iniziato, dunque, a nominare uno per uno i singoli ragazzi per poi decretare se erano degni di attenzioni e in che misura; quando erano giunti al nome di Duccio, per rispondere allo sguardo interrogativo del padre, Agakrathos aveva risposto: “È figlio di un medico, ma non ha prestigio, a stento lo si potrebbe definire un piccolo borghese. Non ha particolari ambizioni, forse il teatro o l’insegnamento; non è certo una persona di spicco, ha pochi amici, almeno all’interno della scuola, in cui non ha una fama, né buona, né cattiva. Il genitore aveva ascoltato attento e immantinente sentenziò: “Rompi i rapporti con lui, puoi al massimo salutarlo, giusto per buona educazione.

Ma, papà, lui è il mio migliore amico! Ci divertiamo molto assieme, ci tiene a me… Conosce molto bene la storia!” tentò di giustificare Timao che non voleva certo abbandonare l’amico. Il padre, con tremenda freddezza ribadì: “Nessuno è mai diventato importante frequentando simile plebaglia. Obbedisci, segui le nostre disposizioni o farai la fine dello zio Ettore!”

“Non ho mai sentito parlare dello zio Ettore…”

“Appunto!” risposero all’unisono tutti gli altri Aristidei. Timao aveva dunque dovuto fingere di allontanarsi da Duccio, in pubblico non gli parlava e a stento gli rispondeva, però gli scriveva spesso di nascosto e, talvolta, mentiva ai propri parenti e si vedevano di pomeriggio in luoghi della città ove gli Aristidei e i loro compagni non potevano vederli.

La vita di Timao era una continua menzogna, non solo applicava la falsità tipica della sua famiglia, ma perfino non era sincero coi suoi consanguinei; soffriva, straziato dal non potere agire come meglio credeva, sarebbe stato così facile, per lui, decidere di smettere di pensare e semplicemente attenersi ai dettami degli Aristidei, se li avesse accolti ciecamente, non avrebbe più avuto da crucciarsi, ma non poteva rinunciare a sé stesso, per cui portava avanti quella continua farsa.

Intervenne nuovamente Agakrathos: “Adesso, quando riporteranno indietro Astrea, ci comporteremo come se nulla fosse successo. Se dovesse essere lei a parlarne e a pretendere delle scuse, tu non gliele porgerai.

“Ci mancherebbe altro.”

Ecco una delle regole auree degli Aristidei: mai scusarsi o render conto delle proprie azioni, se non tra parenti o in qualche rarissimo caso in cui si rischierebbe di compromettere la propria posizione.

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Capitolo 9
*** Il weekend in campagna ***


Astrea s’era rapidamente intrufolata tra gli alberi, nel fitto del boschetto, dove i cavalli non potevano passare, s’era infat

Astrea s’era rapidamente intrufolata tra gli alberi, nel fitto del boschetto, dove i cavalli non potevano passare, s’era infatti subito accorta dell’ordine impartito da Agakrathos e del rumore degli zoccoli. Non aveva intenzione di tornare dagli Aristidei, non subito almeno, finalmente era tornata libera, perché consegnarsi ai propri aguzzini? In realtà non le dispiaceva completamente il palazzo ducale, finalmente poteva non affannarsi per i beni di prima necessità, poteva leggere libri in abbondanza, ascoltare musica raffinata, ammirare opere d’arte parlare con gente dotta, con un linguaggio forbito e argomenti che spaziavano tra letteratura e politica. Un clima ricco d’eleganza e cultura, l’ambiente era lo specchio delle persone che lo animavano: all’apparenza meraviglioso, ma privo di sostanza, oro e argento non rendono migliore il soprammobile che rivestono che inutile rimane. Effettivamente, però, gli uomini non erano vuoti, non quelli almeno; Astrea era convinta che la maggior parte della gente, schiava, spesso inconsapevole, della società e della normalità, viva obbedendo a convenzioni e che dentro sia vuota; gli Aristidei, Eduardo e gli altri loro simili, pur essendo tanto devoti all’apparenza e alla formalità, le davano l’impressione di essere ben vivi dentro di sé, lei non comprendeva il loro modo di agire, ma era come se tutto ciò che facessero, compreso l’essere ipocriti e il fingere, fosse finalizzato a qualcosa di grande e misterioso; percepiva in loro una grande energia che pulsava, che li rendeva vivi ma in modo celato. Questo era la convinzione Astrea, non sapeva se la sua intuizione fosse corretta od errata, tuttavia vi credeva fermamente, altrimenti non avrebbe sprecato tempo con quelle persone. Già, da una parte vi erano le masse patetiche che pure lei disdegnava, gente priva di valori, interessi, idee che si lasciava guidare e manipolare da un invisibile volontà dettata chissà da chi; dall’altra c’era questa classe aristocratica che rifiutava di mescolarsi con la plebe e viveva chiusa nel proprio mondo; infine c’era la terza categoria, quella a cui apparteneva anche Astrea, ovvero quella di coloro comunemente detti folli, degli esclusi, degli emarginati poiché non riconducibili a nessun gruppo, di quelli che vivevano alla propria maniera. Oh quanti ai giorni nostri si reputano tali! Quanti dicono: “Sono pazzo” “Sono ribelle” “Non mi importa quello che dicono gli altri” e invece sono banali, comuni e conformisti. Si considerano folli solo perché dicono qualche sciocchezza: ma chi è che non ama ridere e scherzare con gli amici? Si ribellano ocn trasgressioni che ormai sono gesta quotidiane. Ignorano il giudizio altrui, dicono, ma non rompono mai gli schemi. I veri pazzi sono quelli che non vogliono per forza essere originali o fare qualcosa di eclatante, ma che si comportano seguendo i dettami del proprio spirito, senza temere di inimicarsi molti; sono quelli disposti ad abbracciare la solitudine piuttosto che adattarsi, certo non la amano, ma l’accettano; sono i più selettivi nel scegliere gli amici, ma sono comunque bendisposti verso tutti e accolgono chiunque voglia star con loro. I folli sono i vivi che non hanno paura di mostrarsi tali. Astrea aveva faticato molto per trovare la gente giusta per lei, Duccio era stato il primo caposaldo: ragazzo intelligente, modesto, umile, ma pieno di idee, creativo, spiritoso, amante delle scienze umaniste, capace di dar sostegno, conforto, grande affetto e amore, un amico leale, aveva i suoi periodi cupi in cui il suo malumore era difficile da sopportare, tuttavia chi non ha giornate nere? Egli, poi, le aveva fatto conoscere Nibbio, folle carismatico e accentratore, attirava a sé gente di ogni tipo e risvegliava la vita in loro; in quell’ambiente la ragazza aveva conosciuto e legato con il giovane fabbro Ivan, la sua morosa l’artista Cornelia, il cuoco guerriero Tetano, il suo fratello musicista Biagio, l’intelligentissima sorellina Rery, vi erano anche altri speciali con cui aveva avuto opportunità di legarsi. Inoltre aveva potuto stringersi assai maggiormente al già conosciuto Carlo, che uomo…! Benché si fosse da anni rassegnata all’idea che Cacio non l’avrebbe mai amata e da molto tempo si fosse costretta a non esserne innamorata, non poteva fare a meno di sentirsi appagata dalla sua presenza, a sentirsi beata vicino a lui, a perdersi nel calore del suo abbraccio. C’erano, poi, molte altre persone che frequentava o con cui era in buoni rapporti, tuttavia nessun altro era speciale come quelli, fatta eccezione per Massimiliano, un compagno di classe di Eduardo, molto educato, esperto conoscitore di letteratura, storia, lingue e culture antiche e arte, aveva un linguaggio assai forbito e una loquela sciolta, Astrea era affascinata dall’oratoria di quel giovane, spesso in passato, quando si sentiva giù di morale, lo andava a cercare perché ascoltarlo le dava piacere. Ormai egli doveva essere diventato un avvocato o un magistrato, chissà, la ragazza infatti ricordava che l’amico si era dato allo studio di giurisprudenza.

Astrea procedeva tra gli arbusti meditando su queste cose e dicendosi che c’erano molte persone che voleva riabbracciare. Non avrebbe potuto, però, rivedere i suoi amici se fosse rimasta a palazzo, non gliel’avrebbero permesso, tuttavia se era vero ciò che le aveva detto Carlo, li avrebbe ritrovati seguendo Timao quando si recava nei luoghi dei ribelli. Che fare, dunque? Continuare la sua fuga senza vettovaglie, oppure ritornare facendo finta di nulla? C’era caldo e lei aveva molta sete, sentì lo scorrere di un torrente, seguì il gorgoglio delle acque e raggiunse il ruscello che scorreva limpido; Astrea si avvicinò, se sedette sui levigati ciottoli della riva del greto, immerse le mani a coppa, raccolse l’acqua più volte, bevve e si rinfrescò il viso e le braccia; mentre era presa in questa occupazione, udì dei passi, voltò velocemente il capo e vide uscir dal boschetto i due soldati del Duca, non si mosse. Una delle guardie, senza violenza o minacciosità, si avvicinò alla giovane e le disse con sincera gentilezza: “Il nobile Agakrathos ci ha incaricati di ricondurti presso di lui, per favore seguici senza protestare, se ti opporrai ricorreremo alla forza. Non possiamo lasciarti scappare, altrimenti verremo puniti noi e non possiamo permettercelo, io ad esempio ho una famiglia da mantenere e non posso rischiare di venire mutilato. Spero tu comprenda la situazione e decida di far ritorno dal Duca spontaneamente. Astrea annuì, si alzò e disse: “Va bene, non voglio causarvi guai, andiamo. Uscirono dal bosco e recuperarono i cavalli che avevano legato a una staccionata, montarono sui destrieri, la ragazza assieme al soldato che le aveva parlato, e cavalcarono verso la magione degli Aristidei.

Giunsero verso l’ora di pranzo; era stata apparecchiata in giardino una tavola ed era apparecchiata per otto persone; ai due posti di capotavola si trovavano Agakrathos ed Halkemidos, ai fianchi del primo sedevano Eduardo e il Generale Supremo delle milizie ducali, il fido e devoto Anaele; accanto al secondo, invece un altro soldato di grande spicco, Tirteo, e un famoso intellettuale, Elia; in posizione centrale vi era Timao, davanti a lui vi era l’unico posto vuoto che venne rapidamente occupato da Astrea che dunque sedeva tra Eduardo e Tirteo, i due ospiti che conosceva meglio. Tutti e otto erano molto giovani, nessuno superava i ventiquattro anni, si conoscevano tra loro più o meno superficialmente, infatti avevano frequentato la medesima scuola. Scuola che aveva mantenuto la promessa fatta: formare la classe dirigente.

La tovaglia, il tavolo e le sedie erano bianche e il Sole faceva risplendere i calici, le posate e i vassoi; quando arrivò Astrea era già stato servito l’antipasto e ormai era il momento del primo. “Ben tornata” disse con meditata calma e serenità il Duca “La tua passeggiata è stata più lunga del previsto, siccome tardavi abbiam iniziato senza di te. Penso che non ci sia bisogno di presentazioni, per cui continuiamo il nostro pranzo.” Astrea sorrise e fece qualche cenno con la testa, ma non disse nulla, rimase in silenzio per la maggior parte del tempo, ascoltando i discorsi altrui che vertevano per lo più sul governo, solamente Tirteo o Timao le rivolgevano la parola di tanto in tanto. Quando fu servito il dolce, un semifreddo alla meringa, Eduardo si degnò finalmente di parlare un poco con la ragazza che conosceva da quasi quindici anni, ma erano domande convenzionali e prive di interesse su cosa avesse fatto in quel tempo.

Il pomeriggio, il Duca, i suoi fratelli e i loro ospiti, lo passarono in giardino, discorrendo,giocando a biliardo oppure a cricket o a bocce; Astrea era annoiata da tutto ciò, se ne stava in disparte, seduta a terra, sotto a un pioppo, a leggere. La serata la trascorsero dentro la magione, in un salone ove ai servi era vietato avvicinarsi se non convocati tramite il suono di una campanella e dovevano ogni volta bussare alle porte che erano rigorosamente tenute chiuse a chiave dall’interno. In questo clima privato, in sola presenza d’amici, gli Aristidei non si fecero problemi a prendere i loro strumenti e suonare. Melodie dolci e soavi riempivano la stanza e anche Astrea ascoltava affascinata e si lasciava trasportare da quelle note. Quando si furono stancati di suonare, Agakrathos disse alla giovane: “Tu che sei attrice, allietaci con la tua arte, è il tuo turno adesso; ti do un libro: leggicelo. La ragazza ne fu ben lieta, era da giorni che non aveva modo di esibirsi e iniziava a sentirne il bisogno. Agakrathos s’avvicinò alla libreria che si trovava nella stanza, era un grande scaffale con sette ripiani, osservò, scorse i vari volumi, infine ne scelse no, lo porse alla giovane, poi si accomodò in poltrona e iniziò a fumare la pipa. Tutti stavano fumando o la pipa o un sigaro, tranne Timao, e intanto ascoltavano e si lasciavano emozionare dalla voce della fanciulla e dalle parole dell’antico scrittore. Il tono era dolce e variava a seconda della situazione narrata, a volte incalzante, altre lento, rendeva veri i sentimenti dei personaggi, ira, paura, amore, noia, gioia e altro ancora.

La serata si concluse qualche ora più tardi, quando ormai la voce di Astrea era affaticata e lei si sentiva stanca e preferì andare a dormire. L’attrice s’era appena messa addosso una vestaglietta ed era pronta per andare a dormire, si sporse un poco dalla finestra per osservare il cielo stellato, ma mentre guardava gli astri, udì delle voci, abbassò lo sguardo e vide due giovani uscire dal portone, erano Anaele ed Elia che si stavano congedando dagli Aristidei per tornare a casa. “Una giornata molto piacevole, però la prossima settimana torniamo alle vecchie abitudini: il giorno per l’arte e gli affari, la notte per un altro tipo di divertimento. si raccomandò l’intellettuale, il Generale aggiunse: “Non mi importa se c’è trai piedi anche quella ragazza, anzi ben venga che partecipi anche lei, non è affatto male.” da dentro la casa si sentì venire la voce di Halkemidos che rispondeva: “Non credo proprio sia adatta a certi giochi, né vi vorrebbe prendere parte, per di più c’è già chi le ha messo gli occhi addosso… Tuttavia tranquilli, troveremo una soluzione per ripristinare i nostri festini.”

“Obbligatela, basta che il Duca glielo ordini e lei sarà costretta a partecipare. Va bhe, ci troviamo presto, buona notte vostra grazia.”

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Capitolo 10
*** Il Duca turbato ***


Erano trascorse circa due settimane da quando Astrea aveva iniziato il suo alloggiare nel palazzo ducale; in tre o quattro occ

Erano trascorse circa due settimane da quando Astrea aveva iniziato il suo alloggiare nel palazzo ducale; in tre o quattro occasioni aveva seguito Timao presso i ribelli e finalmente aveva rivisto più o meno tutti i suoi vecchi amici del gruppo di Nibbio. Aveva trascorso la maggior parte del tempo tra leggere e passeggiare nel parco, senza mai poter uscire, sempre sola se non quando uno degli Aristidei la invitava a fargli compagnia. Prigioniera tra il marmo, l’oro, la seta, il lusso, stretta da invisibili catene, all’apparenza poteva far tutto ciò che desiderava, abbandonarsi ad ogni piacere, ma quella del vizio è una schiavitù nascosta agli occhi e le cose che voleva compiere le erano proibite poiché impossibili da raggiungere finché lì soggiornava.

Quella sera il Duca non si era presentato a cena, neppure i suoi fratelli ne conoscevano la cagione, era stato tutto il giorno occupato ad ascoltare i resoconti dei suoi vassalli, aveva poi dato ordine che il pasto gli fosse servito nel proprio appartamento e, per il giorno successivo, aveva fatto convocare una riunione d’urgenza del Gran Consiglio Ducale, infine si era chiuso nelle proprie stanze, cupamente meditabondo. Intorno alle ventuno, tuttavia, mandò a chiamare Astrea. La giovane entrò nella prima stanza degli alloggi di Agakrathos, l’unica che avesse visto, era un salotto molto ampio, alle pareti erano appesi grandi arazzi di seta che raffiguravano battaglie e grandi eventi storici, il soffitto era affrescato con l’apoteosi di Zeus sull’Olimpo, ovviamente il figlio di Crono aveva le fattezze del Duca, il pavimento era rivestito da un sottile strato di marmo color zolfo, in modo che potesse essere facilmente riscaldato, le finestre erano alte, strette e numerose, il lampadario a gocce reggeva una moltitudine di candele, i mobili erano tutti di pregiatissimo ebano intarsiato, le poltroncine eleganti e rivestite di raso. Agakrathos era seduto e guardava fuori dalla vetrata, osservando il Sole che calava lentamente dietro l’orizzonte e fumando la pipa. “Avvicinati” disse come se fosse un ordine, Astrea non replicò, capiva che il Duca non era di buon umore e inoltre doveva fingere per riottenere la libertà, per cui obbedì, si accostò al giovane e rimase in piedi accanto a lui in attesa. “Oggi, sono venuti a rendermi conto, i miei vassalli coi loro fiscalisti ed economisti. Dicono che ci sono problemi, c’è crisi, sostengono. A quanto pare i campi non stanno rendendo come dovrebbero, c’è il rischio di avere scarse derrate alimentari…”

“Comprate da altri feudi, vi basterebbe vendere qualcuno degli oggetti di questa stanza e potrete acquistare abbastanza grano e cereali in abbondanza.

“Si vede che non te ne intendi di certe questioni. Non possiamo mostrarci deboli agli occhi dei nostri vicini, se si accorgessero che abbiamo difficoltà, non esiterebbero ad aggredirci, benché sottostiamo ad un unico monarca. Ti dirò io cosa faremo: aumenteremo i prelievi del fisco o inventeremo un tributo speciale, così pagheremo di nascosto dei mercenari o briganti che vadano a razziare Mutina o Ariminum o altri confinanti e ci procurino quanto occorre.

“Ma se la gente già ora fatica a pagare le tasse, come credi farà se le maggiorerai? Inoltre queste incursione violente non credi spingeranno gli altri feudi a fare altrettanto nei nostri confronti?”

“Ti devo proprio spiegare tutto! Se qualcuno non riesce a pagare o lo mandiamo a morte o lo vendiamo come schiavo altrove, così ci saranno meno bocche da sfamare…”

Ma così ci sarà meno forza lavoro!”

“Oh di questo non ti devi crucciare, di bassa manovalanza ce n’è fin troppa! Per di più gli altri che riusciranno a pagare, ma che si ritroveranno in ristrettezze, compreranno meno cibo e quindi la carestia sarà meno evidente. Per quanto riguarda la possibilità di venire attaccati, è sempre un modo per eliminare il problema della sovrappopolazione.” diede una profonda boccata di pipa e sorrise. Astrea incrociò le braccia, andò vicino alla finestra, volgendo le spalle al duca e irritata disse: “Sei tremendo e spregevole. Non pensi alla vita di quella povera gente?”

“Non mi importa della plebe, una marmaglia di bestie.”

“Come puoi dir ciò? Un uomo rimane un uomo indipendentemente dal suo ceto.

“Oh, certo, questa è la convinzione di voi che non riuscite ad accettare la vostra condizione, che siete tanto presuntuosi da ritenere di eguagliarci in dignità.” Astrea non rispose, guardò con ira fuori dalla finestra, non poteva tollerare quelle parole, non poteva replicare se voleva andarsene da quel luogo; si morse il labbro inferiore e per l’ennesima volta si ripeté che non doveva sottomettersi, ma solo fingersi tale. Si voltò e chiese: “Perché, allora, mi tieni qua, se mi reputi inferiore?”

Agakrathos la osservava e taceva, gli occhi erano pieni di uno strano ed indecifrabile spirito; vedere quella ragazza che si innervosiva lo divertiva, gli piaceva vederla fremere per l’ira o la tristezza. Vedendosi negata una risposta, indispettita, Astrea se ne andò. Il Duca non la trattenne, altra regola aurea degli Aristidei: mai mostrare di desiderare o avere bisogno di una persona o della sua presenza.

 

Nei giorni seguenti il Duca aveva fatto mette in atto i suoi propositi su come risolvere l’imminente crisi alimentare e ovviamente il popolo non ne fu affatto contento: fin da subito iniziò ad avvertire le dure conseguenze, già dopo una settimana c’erano stati i primi condannati. Un pomeriggio, i più animosi dei ribelli, convocati da Timao, si erano radunati per una riunione per decidere il da farsi, questi giovani erano tutti amici di Astrea. Erano seduti sparsi ma in cerchio in una stanza, accanto al camino spento sedeva Ivan: altezza media, lineamenti sottili, affilati, duri e netti, occhi verde oliva, capelli lunghi, lisci, biondo intenso ma scuro e spento. Tetano era in piedi dall’altro lato del focolare, era alto, robusto, con una muscolatura abbastanza sviluppata, occhi marroni che tradivano il suo aspetto feroce per rivelarne il lato da cucciolo giocondo, la capigliatura color paglia era molto lunga e leggermente mossa, la barba era corta, fatta eccezione per il pizzetto lunghissimo. C’era poi Cornelia, carnagione chiara, occhi nocciola, capelli che le scendevano fino ai fianchi, erano biondo chiari e assai ricci; Biagio sedeva accanto a una finestra e teneva d’occhio la strada, i capelli corti, color oro, molto mossi parevano sempre spettinati, iridi castane, sguardo semplice e dolce, labbra rosse e sorriso radioso; Nibbio era magrissimo, capelli corti e neri, sbarbato, occhi che brillavano per gli ideali che ardevano in quell’animo; inoltre c’erano anche Carlo, Timao ed Astrea. L’ordine del giorno erano i provvedimenti da prendere per contrastare le recenti e aspre norme istituite dal Duca: le tasse erano già intollerabili, ovviamente la gente non voleva essere punita, per cui c’era stato un aumento dei furti, poiché le persone cercavano di sottrarsi a vicenda il necessario per pagare i tributi. “Indiciamo uno sciopero dei dazi, boicottiamoli, nessuno darà più un soldo finché non saranno abbassate. propose Cornelia. “No, non riusciremmo a convincere tutti.” la contraddisse Biagio “Aderirebbe si e no un quinto della popolazione e verrebbe ucciso. Purtroppo abbiamo poca presa sulla gente, non ne coinvolgeremmo molta…. Altre idee?” pensarono nel silenzio, ad un tratto Tetano esclamò: “Assaliamo un gruppo di esattori e ridistribuiamo tutto alla gente!”

In base a quale criterio?” lo interruppe Carlo, Timao aggiunse: “Così si rischia solo di peggiorare la situazione, mio fratello potrebbe prendere provvedimenti ancor più tremendi.”

“Allora” intervenne Ivan “Liberiamo i prossimi poveretti che verranno deportati per ‘evasione fiscale’. Io mi offro per forgiare armi e protezioni. tutti approvarono, solo l’Aristideo non era pienamente convinto ma accettò, iniziò a dire: “Almeno un paio di noi devono condurre l’operazione e guidare il drappello degli uomini che si offriranno. Dunque: in caso si fallisca io non posso espormi, Nibbio ci occorre come figura accentratrice, Carlo ha già rischiato ed è meglio che stia nascosto. Cornelia non ha capacità di combattimento, Ivan si occuperà di forgiare le spade… Rimangono solo Tetano e Biagio che sono fratelli, quindi soltanto uno di loro potrà partecipare.”

“Ehi, ci sono anch’io!” esclamò Astrea. Timao ribatté: “Tu sei nella mia stessa situazione, non puoi rivelare che fai il doppiogioco…”

“No! Non mi importa; non ha senso per me starmene in quel palazzo a far compagnia ai tuoi fratelli. Io voglio far qualcosa di concreto per aiutare la gente e sono disposta anche a rischiare di perdere la mia vita.

Timao sapeva che forse un destino peggiore attendeva l’amica se fosse stata scoperta, tuttavia si mi limitò a dire: “E va bene, ma sta attenta, nel caso sciagurato venissi arrestata non farti scappar detto nulla su di me.” L’azione venne programmata per la settimana successiva.

 

 

 

La sortita sarebbe avvenuta poche ore più tardi, Astrea si stava dirigendo nelle stanze di Timao per utilizzare il passaggio segreto; era in un lungo corridoio, svoltato un angolo, vide Agakrathos che, come infastidito, diceva ad una cameriera che trasportava molti panni: “Spostati, incapace, non vedi che avanza il Duca?!” e l’allontanava colpendola elegantemente col suo bastone da passeggio, la donna s’allontanò rapidamente, testa china, chiedendo perdono. L’Aristideo avanzò e s’accorse dell’ospite e le chiese: “Come mai quell’espressione accigliata?”

“Ti sei reso conto di come hai trattato quella domestica?”

“Certamente.”

“Nel caso non te ne fossi accorto, sappi che sei stato sgarbato. replicò la ragazza innervosita. “Nel caso non te ne fossi accorta, sappi che sono il Duca.

“Sei superbo e tracotante.”

“Tratto la gente come merita per il suo rango, sciocca idealista.

Sempre più alterata l’attrice ribatté: “Despota borioso.

“Libertina irrispettosa!”

“Tiranno arrogante!”

“Taci plebea!” Agakrathos le diede uno schiaffo poi l’afferrò per la maglia, la spinse contro al muro con veemenza, appoggiò le proprie labbra sulle le sue e iniziò a baciarla. Astrea non si ribellò.

Agakrathos, quando si staccò, osservò come smarrito l’ancor più confusa giovane, si voltò e fece per andarsene, ma lei gli prese il polso domandando: “Perché?”

“Lasciami!” con un movimento brusco si liberò dalla stretta e si allontanò lesto.

Ciao a tutti, so che non sono in molti a leggere questa storia, tuttavia, magari qualcuno potrebbe lasciare un commentino, per favore? Mi piacerebbe sapere se questo racconto piace o meno e su cosa devo lavorare per rendervelo più gradito. GRAZIE :-)

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