Menemelcar

di Lady_Draconibus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo+Il Principe e La Bambola ***
Capitolo 2: *** cap.2: Lame Gemelle ***
Capitolo 3: *** Il sentiero nascosto ***



Capitolo 1
*** prologo+Il Principe e La Bambola ***


 Ghiliat
Menemelcar 

 

 

 

 

 


Prologo:

 

Ogni persona nasce, o almeno, così dovrebbe, dall’amore di due persone. E se non dall’amore, almeno dall’unione di due corpi.

Ogni persona ha una madre e un padre.

Tranne me.

Io sono stata creata dal potere dei nostri dei.

I Vala.

Di terra è fatto il mio corpo.

Di acqua il mio sangue.

Il vento è il mio respiro.

Che cosa sono?

Non mortale.

Non della razza dei nani.

Non sono un elfo, anche se è questo il mio aspetto.

Una Maiar?

Forse.

Che importanza avrà?

Non sono venuta al mondo per questo.

Io devo solo combattere quanti si ribellano al disegno di luce dei Valar. Non importa da chi sia rappresentato. Che siano orchi, goblin, troll, balrog o Sauron o Morgoth in persona… per me non fa differenza. La morte per me non ha alcuna importanza. Nemmeno la mia vita ne ha, ad essere sincera.

L’unica cosa che conta, è la mia missione.

L’hanno affidata a me e ora null’altro deve contare.

Mi è stato detto di non avere sentimenti.

Ne gioia.

Ne tristezza.

Sono solo una bambola assassina.

Solo questo.

 

Sono andata avanti così per secoli, guardando il mondo cambiare senza che m’importasse nulla.

E avrei potuto andare avanti così per sempre.

Se solo non avessi incontrato lui.

Se solo i miei occhi non avessero incontrato i suoi.

Quegli specchi di ghiaccio dove brillavano le stelle che gli davano il nome.

Quegli specchi che mi avevano rubato l’anima e il cuore.

Avevo creduto di essere immune all’amore e alla passione.

L’avevo creduto per secoli e millenni.

E poi, dovetti ammettere, che quello che mi batteva in petto era pur sempre il cuore di una donna.

Per la prima volta nella mia lunga, millenaria esistenza, desiderai di vivere.

Volevo vivere per stare con lui.

E per la prima volta, la mia missione non mi parve più solamente fine a sé stessa.

Per quanto fosse un desiderio utopistico, desiderai di portare a termine la mia missione.

Per vivere per sempre in pace. Con lui.

Mai come allora, il mio compito mi parve così importante.

Combattevo ancora.

E lo facevo per amore.

 

Cap. 1: Il principe e la bambola.

 

Dodici.

Mi ero trovata in situazioni peggiori.

Anche migliori in verità, ma non ero in vena di sottilizzare.

Dodici orchi.

Non particolarmente grossi e con l’aria di essere degli sbandati. Ma avevano l’aria di saper essere scaltri. Ed erano armati fino ai denti!

Non che costituisse uno svantaggio così netto.

La mia alabarda, Helkaluin, sembrava incutere loro un certo terrore e sulle spalle, sentivo il peso rassicurante della Claymore*, nel remoto caso in cui avessi dovuto perdere la mia prima arma.

Mi accerchiarono.

Restai rilassata, concedendomi un sorriso: non c’era motivo di preoccuparsi.

Uno di loro scattò verso di me, brandendo una specie di ascia ricurva e mirando al mio fianco. Lo bloccai, parando la lama tra le punte dell’alabarda. Voltai appena il capo a guardarlo, schifata.

“Tutto qui?” domandai, deridendolo.

“Mai distrarsi!” un altro mi attaccò da dietro. Era un grosso capo orco con una catena di denti umani al collo. Ornamento di pessimo gusto! Schivai. La sua mazza colpì il terreno facendo schizzare zolle di terra dal punto dove mi trovavo solo un istante prima. Atterrai in piedi, molleggiando le gambe qualche metro più in là, al di fuori del cerchio. Scattai di nuovo verso di loro. La mia alabarda si bagnò del sangue di altri due orchi.

Gli altri mi si avventarono contro.

Parai, nonostante cercassero di colpirmi da ogni parte. Passai al contrattacco.

Furono tra gli istanti più frenetici e brutali che avessi dovuto affrontare fino a quel momento. In sincerità, non riesco più a ricordare bene quel che successe, fatto sta, che dopo alcuni minuti di macabro combattimento, gli orchi da dodici erano arrivati a cinque. Ed io ero ferita alla spalla. Una cosina leggera, quasi da nulla, ma era bastata perché cominciassi ad alterarmi!

E questo Non è una buona cosa: mai lasciarsi prendere dalle emozioni durante una lotta.

Di nuovo un attacco alle spalle. Solo che questa volta non fui così attenta. Ne così veloce. Persi l’equilibrio e caddi a terra, rotolando su me stessa per allontanarmi.

Mi raggiunsero, ma riuscii comunque ad allontanarmi da loro.

Un’ombra al mio fianco.

Mi voltai appena in tempo.

Il loro capo calò l’ascia su di me. Alzai l’alabarda per parare il colpo. La sua ascia s’incastrò tra i denti di Helkaluin, facendo stridere il metallo. Sentii la forza del colpo farmi tremare il braccio. L’orco approfittò della mia debolezza per strapparmi l’alabarda dalle mani.

Balzai indietro per non dargli modo di attaccare mentre ero disarmata.

Un altro pensò di approfittarsene attaccandomi alle spalle. Mi voltai estraendo claymore. Un istante dopo, l’orco non aveva più il braccio, e l’istante successivo, le sue gambe non erano più attaccate al torso. Il sangue m’impiastricciò il volto e gli abiti. Lo lasciai lì, morente. Parai l’attacco di un altro ma mi presero tra due fuochi, scivolai via e li attaccai da dietro. Le loro teste furono spiccate dal collo e rotolarono lontano. Ne restavano due.

Uno di loro fece per fuggire, nascondendosi nella vicina boscaglia. Lanciai la spada e lo colpii alla schiena, trafiggendolo da parte a parte. Mi tuffai a recuperare l’alabarda mentre il più grosso mi si avventava contro. L’afferrai e, a terra, respinsi il suo corpo. Mi rifeci avanti con un urlo e le nostre armi si scontrarono di nuovo, generando una pioggia di scintille.

Restammo per un attimo immobili, le nostre forze perfettamente uguali, in precario equilibrio. Scattai a destra e lo colpii al fianco. La sua ascia quasi mi spiccò la testa. Liberai Helkaluin con un sordo risucchio e lo colpii di taglio sul gomito, movendomi rapida.

La sua ascia cadde con un tonfo sordo insieme a una metà del suo braccio. Mugghiò di dolore e rabbia ed estrasse un lungo coltello, avventandosi contro di me, accecato dalla collera, caricandomi a testa bassa.

Sentii il pugnale entrarmi nelle carni, trafiggendomi il ventre, mentre Helkaluin lo passava da parte a parte.

Sentii il terreno mancarmi sotto ai piedi. Trascinati dalla foga del mostro, cademmo entrambi. Giù dalla scogliera. Per un tempo che parve incredibilmente lungo. Sentii per un interminabile istante il rumore della risacca confuso con quello del vento che ci infuriava intorno, al momento della caduta. Vidi il terreno sabbioso venirci incontro a incredibile velocità e rocce scure spuntare come ghignanti denti aguzzi qua e là. Non urlai neppure.

 

Musica…

C’era della musica…

Ero forse tornata alla corte degli Ainur?

Sentivo la testa pulsare in modo sordo, mentre il mio corpo giaceva abbandonato, dolorante e indolenzito. Sentivo su tutto il corpo, specialmente sulla schiena, lividi e graffi. Mi costrinsi ad aprire gli occhi.

< Ben svegliata, ragazza. > Voltai la testa, nonostante le fitte di dolore. Cercai di parlare ma il dolore mi avvolse e le parole morirono in gola. L’elfo cominciò a pestare delle erbe in un mortaio, senza apparentemente badare più a me. Portava una tunica chiara e i suoi capelli biondi erano pettinati secondo la maniera dei guaritori. Tentai di alzarmi a sedere ma, con un gemito, ricaddi sui cuscini. < Non affaticatevi. Restate sdraiata. > Si voltò appena verso di me. Aveva gli occhi verdi e un’incredibile austerità nello sguardo e nei lineamenti duri e sottili. < Il mio nome è Ormal e sono guaritore alla corte di Sire Gil-Galad, a Falas, dove vi trovate ora. > Disse, quasi in risposta alle mie domande. Mise le erbe a bollire e tornò verso di me. Alzò il lenzuolo che mi copriva, rivelando il mio corpo nudo. La ferita sulla pancia era stata pulita e bendata. Svolse le bende e la esaminò, poi andò verso un piccolo, basso armadio con le ante di vetro ed estrasse una ciotola con dentro delle erbe sminuzzate. Spalmò la pomata sulla mia ferita e rifece la bendatura, in silenzio.

< Come… > Cominciai. La mia voce tremava mentre parlavo e non riuscii a terminare la frase. < Sono stato io a portarvi qui. > Mi voltai verso l’origine della voce. Un altro elfo entrò nella stanza.

Aveva lunghi capelli d’ebano, neri e lucenti, che scendevano sciolti sulle sue spalle e lungo la schiena, arrivando fino a metà. Due occhi argentati brillavano sul suo viso affusolato, severi e curiosi, orgogliosi ma anche con qualcosa di… canzonante. Come se si burlassero di chi li osservava, in quella loro forma sottile e leggermente allungata verso l’alto.

Le sue labbra sottili si aprirono in un quieto sorriso mentre mi fissava. Chinò appena la testa in un cenno di saluto, facendo scintillare alla luce solare la sua corona d’argento e mithril, cinta attorno al suo capo con complicati arabeschi. Era vestito interamente di blu e l’orlo e il collo della sua blusa erano ricamati d’argento con un motivo a foglie stilizzate.

Mi resi conto di essere nuda. Ormal si affrettò a ricoprirmi ma non abbastanza in fretta da impedire al nuovo arrivato un’occhiata quasi cupida. < Non dovreste essere qui, altezza… > Borbottò. Quello sorrise. Un sorriso derisorio che avrei rivisto molte altre volte. < Volevo solo conoscere meglio la nostra ospite… > Chinò ancora il capo, portando la mano al cuore, in un inchino forse troppo esagerato, che però mi fece sorridere. < Ereinion Gil-Galad, al vostro servizio. Posso sapere il vostro nome? > pronunciò, una nota scherzosa nella voce. < Ghiliat… > Risposi semplicemente.

Lui annuì, pensoso, mentre Ormal borbottava una sorta di rimbrotto. Il principe, o re, ancora non sapevo, non sembrò curarsene particolarmente, limitandosi ad osservarmi. Mi metteva quasi a disagio: sembrava che tutta la sua attenzione fosse concentrata su di me. L’unica attenzione a cui ero abituata, era quella che avevo dai miei avversari durante un combattimento! Ma questo era diverso. Sembrava più che altro incuriosito. < Ebbene Ghiliat, consideratevi pure mia ospite per tutto il tempo che vorrete. >

Gil-Galad mi rivolse un ultimo sorriso prima di uscire, chiudendosi la porta alle spalle.

Rimasi a lungo ad osservare quella porta. Poi mi riadagiai sui cuscini, esausta, lasciando che i miei sogni si confondessero con la realtà, concedendomi riposo.

 

I giorni passarono, mentre le mie ferite guarivano con una velocità sorprendente, anche per gli elfi. Presto potei lasciare il mio letto per qualche solitaria passeggiata nei giardini, o fino alla spiaggia, quando mi sentivo più in forze.

Per la prima volta nella mia lunga vita, assaporai il sapore della pace. Una pace fragile e illusoria. Effimera. Ma pur sempre pace.

Per tutto il tempo che ci misi a guarire, Gil-Galad rimase con me. Non seppi spiegarmi il perché del suo gesto, ma mi piaceva la sua compagnia. Era un guerriero ma anche una persona colta e un vero mago delle erbe! Un esperto di epica. Parlare con lui era un toccasana per il corpo e per la mente.

Le mie armi erano state recuperate, ma per i primi giorni, non osai neppure pensare di servirmene. Non sarei neppure riuscita a tenerle in mano. Poi, un giorno, mi alzai dal mio giaciglio e andai allo specchio.

La ferita sulla pancia non era diventata altro che un’altra delle mie tante cicatrici. Anzi, era quasi invisibile. Recuperai i miei abiti e la mia armatura da una cassapanca e mi rivestii in fretta. Claymore e Helkaluin erano appoggiate a una rastrelliera di legno. Le raccolsi e le incrociai entrambe sulla schiena, stringendo le cinghie.

Osservai la mia immagine riflessa. Il mio corpo sottile, quasi affusolato, abbandonato dalle sete che in quei giorni mi avvolgevano, di nuovo abbracciato dai caldi e logori abiti da viaggio, lisi dalle intemperie, dagli stinti colori del verde e del bruno. Le mie gambe erano fasciate da nuovi stivali. Camoscio. Stretti al polpaccio, che salivano fino alle ginocchia. Non avevo più un mantello. Il mio era lacero dopo la caduta e non ero riuscita a trovare nulla che potesse sostituirlo. Infilai i bracciali e la cotta. Mi voltai per uscire.

< Te ne vai, Ghiliat? > Gil Galad stava ritto davanti alla porta, bloccandomi il passaggio. < Pensavi di andartene così? Alle prime luci dell’alba? > Entrò nella stanza e mi passò accanto, andando a un tavolino e fissandosi del vino in una coppa. Sorseggiò piano la bevanda. Rimasi immobile, in silenzio, senza approfittarne per uscire, evitando domande e spiegazioni. Non avevo programmato di salutarlo o cosa, ma in quel momento, mi sentii indegna nel fare una cosa del genere. Mi guardò da sopra il calice, incrociando i suoi occhi d’argento coi miei, di tempesta. Pensai fosse un congedo: non ero pratica di saluti. Mi voltai. < Discreta e silenziosa… come una ladra, si potrebbe dire. > < Si  potrebbe dire. > Replicai, semplicemente. Non capii se mi stesse deridendo, come alle volte faceva, o se il suo fosse un insulto velato, nato dal mio comportamento. < Dove andrai, ora? > Chiese ad un tratto. < Al nord. Verso Mordor. Qualcosa si sta movendo da quelle parti. E io devo scoprire cosa. > Risposi. La mia voce suonò dura. Decisa. Quasi arrogante. < Perché devi? > La semplicità della domanda mi spiazzò. < È la mia missione. > Mi guardò interrogativo, ma non fece domande. Rimasi immobile per un istante, giusto per assicurarmi che la conversazione fosse finita. < Tornerai? > < Non lo so. È improbabile. Quasi certamente, questo sarà un addio. > Sorrise, fissandomi enigmatico. < Allora mi aggrapperò a quel quasi. > Si avvicinò a me e mi fece voltare, in modo da potermi guardare in faccia. Lentamente, mi si avvicinò. Le sue labbra sfiorarono le mie. Un bacio a labbra chiuse. Si allontanò. < Ci rivedremo, Ghiliat. Non so perché, ma ho la sensazione che le nostre strade si incroceranno ancora, prima che quest’era giunga alla fine. > Non riuscii a staccare i miei occhi dai suoi. Il suo viso. Le sue mani. Le sue labbra… < Prendi Alata. È un ottimo cavallo. Ti condurrà bene e velocemente, ovunque tu voglia andare. >

Mi superò, uscendo dalla stanza. I suoi passi leggeri si persero presto lungo il corridoio deserto.

 

Lasciai Falas mentre il sole sorgeva ad est.

Non mi voltai indietro, lasciandomi alle spalle il porto e il mare. La campagna scorreva sotto gli zoccoli del mio nuovo cavallo, un animale meraviglioso, candido come la neve e dai liquidi e vivaci occhi neri. Divorava le miglia sotto i suoi zoccoli, allontanandoci sempre più. Sarebbe trascorso molto tempo prima che rivedessi quel posto. E ancora più tempo sarebbe passato perché rivedessi Galad. Ma non era importante in quel momento. Ero concentrata sul mio obbiettivo e null’altro aveva importanza in quel momento.

Il vento mi fischiava nelle orecchie, turbinando per la velocità.

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Capitolo 2
*** cap.2: Lame Gemelle ***


Due paroline veloci veloci prima di lasciarvi alla lettura.

Intanto mi scuso con Lin e Los (o Elfa e Eledh, che dir si voglia) Per la mancata scena di sesso. Non linciatemi ragazze, ma il capitolo rischiava davvero di diventare infinito!

Poi, volevo avvisare che ho fatto una piccola piccola citazione: il nome di una delle due ancelle, Calacalen, è presa da una fic di Hareth, Harma Ondo. È il nome elfico della protagonista (co-protagonista, forse è meglio, xkè a modo loro, lo sono tutti lì!) di questa bella fic che consiglio a tutti di leggere!

Poi, avviso, x un po’ non aggiornerò, causa problemi all’ADSL che mi impediscono di utilizzare Internet, se non dall’internet point sotto casa! Chiedo perdono.

A parte questo, saluto tanto Giadina, che ad Aprile si sposa col mio fratellone (magari divento zia!), Elfotta, gli amici di là (commentate quando leggete, bastardi!) e soprattutto Losy e quanti commentano. Bacio Bacio! :-§

GGHGMenemelcar Ghiliat (Menemelcar Ghiliat)

O se preferite, Lady!

 

Cap. 2: Lame Gemelle.

 

Lanciai la corda oltre il Ginghilt. La freccia si conficcò nel tronco di uno degli alberi sull’altra sponda. La assicurai a un altro albero e strattonai, controllando che fosse ben assicurata. Lo era.

Vi balzai sopra, superando in corsa le acque. Misi piede a terra. Il Belerian Occidentale… ero più che a metà strada ormai. Continuai a camminare, nonostante la luna fosse ormai alta nel cielo. Le Falas… erano più di cinquecento anni che non tornavo laggiù! Era strano pensare che a capo di poche settimane avrei rivisto quei luoghi.

Ricordai il mio breve soggiorno laggiù: La pace che vi regnava. Le attenzioni di Gil-Galad. Erano anni che non ci ripensavo. Di solito non mi lasciavo andare ai ricordi…

Continuai a camminare. Non c’era alcun sentiero tracciato ma avevo percorso la Terra di Mezzo troppe volte per poter sbagliare strada. E luna e stelle mi guidavano, gettando una vaga luce argentata sul terreno e sulle foglie degli alberi radi, sui tronchi, sulle rocce… rendendole irreali, ma stranamente vividi, come se balzassero fuori dal tessuto scuro della notte.

Qualche ciottolo riluceva a terra come una pietra preziosa. Alzai gli occhi al cielo: le stelle brillavano nitide e fredde, così lontane e belle da far venire le lacrime agli occhi. Menemelcar… erano quelle stelle a darmi la vita. La loro luce. Finché avessero continuato a brillare, io avrei continuato a vivere. In qualche modo. Anche se il mio corpo fosse morto, il mio spirito avrebbe continuato ad essere legato alla Terra di Mezzo.

Solitamente non mi compiango, ma non potei fare a meno di pensare, che a me era negato anche quel riposo estremo. Avevo solo la certezza di potermi gettare a capofitto in battaglia, senza preoccuparmi di salvarmi o no. Perché non era importante la mia vita, per il fine. E io non avevo nulla da perdere.

Continuai a camminare.

Le Falas… sentire quel nome dopo tante tempo… era stato strano. Come se dovesse significare qualcosa che avrei dovuto sapere, ma che avevo a lungo dimenticato.

Era stato Manwe a mandarmi laggiù. Avevo sentito la sua voce nel vento.

“Dove devo andare? Dove mi porteranno i miei passi? Dove mi chiama il mio scopo?”

a Sud

dove il mare incontra la terra

laggiù.

Laggiù.

Dove la voce di Ulmo è più forte…

Laggiù…

Laggiù…

Come un sospiro nelle orecchie. Un’eco lontana.

Era sempre così che ricevevo le mie indicazioni, quando ero in dubbio. A meno che non ci fosse un’emergenza estrema, nel qual caso era lo stesso Eonwe a portarmi i messaggi dei Vala.

Camminai senza mai fermarmi. Per giorni. Incrociai il fiume Nenning e proseguii verso Eglarest.

Giorni e notti intere, mentre Anor e Isil si alternavano nei cieli. Andai avanti. Fino a che le gambe non mi ressero più.

Crollai a terra e mi concedetti riposo.

 

Eglarest.

Il più meridionale dei porti delle Falas.

Le sue mura bianche come l’avorio scintillavano al sole mattutino tanto da essere quasi intollerabili allo sguardo. Mi gettai il mantello dietro alle spalle, crogiolandomi al primo tiepido raggio del giorno. “Perché proprio qui?” mi ritrovai a chiedermi. “Perché mai i Vala mi hanno ordinato di raggiungere le Falas? Da quel che si dice, è una contrada ancora relativamente sicura… ci sono ancora tanti altri luoghi dove ci sarebbe bisogno di me…” Erano domande senza risposta. O meglio, ancora senza risposta. Come al solito, avrebbe dovuto essere il tempo a spiegarmi il perché di ciò che facevo.

Raggiunsi i cancelli della città. E fui bloccata. Due guardie mi impedirono l’ingresso, puntandomi contro le lance.

< Chi sei? E quali affari ti portano a Eglarest? > Chiesero bruscamente, avvicinandosi guardinghi. Erano un po’ troppo nervosi, per i miei gusti. < Mi chiamo Ghiliat. E ho assoluta urgenza di entrare in città. > Risposi piatta. Quelli mi squadrarono dalla testa ai piedi, senza accennare a spostarsi o abbassare la guardia. < Se è così, devi deporre le armi. > Ribatterono secchi. Storsi il naso: abbandonare Helkaluin e la Claymore? Era fuori discussione. < Non posso farlo. > Quei due quasi ringhiarono alla mia risposta. < Non si entra in città. Nessuno straniero armato ha il permesso di entrare. Specie se non è in grado di giustificare il suo arrivo e le sue intenzioni! >

Sbuffai. La situazione era chiara: di là non si passava. Finsi di arrendermi e mi allontanai. Quando non fui più in vista dei soldati, deviai, raggiungendo l’altro lato delle mura, lontana dai cancelli. Mi guardai intorno. Nessuno. Attesi che le guardie sulle mura si allontanassero dal punto che avevano individuato, raccolsi le gambe e saltai.

Non erano alte, come mura. Non certo all’altezza di quelle di Minas Tirith o di altre città in cui ero stata. Non si avvicinavano neanche lontanamente alla loro altezza. Le superai con facilità, atterrando dall’altra parte. Ammortizzai l’impatto piegando le gambe. Mi concessi un sorriso mentre mi allontanavo: mai sottovalutare una Maiar!

 

Mai sottovalutare una Maiar… avrei dovuto dire, mai sottovalutare il nemico. Che razza di sciocca arrogante!  M’infilai in un vicolo, cercando di seminarli.

< Laggiù! È andata da quella parte! > Sentii gridare da qualcuno. Imprecai tra me e me: gente che si faceva i propri affari ce n’era davvero poca! La situazione stava diventando preoccupante. Erano in tanti e determinati. Li avrei sconfitti con facilità, ma preferivo evitare di usare la violenza: non erano malvagi e stavano solo facendo il loro lavoro, eseguendo gli ordini. Non potevo attaccare.

Circondata, saltai, raggiungendo il tetto di un palazzo, evitandoli. Scagliarono alcune frecce contro di me, ma queste non fecero danni, solo un paio riuscirono a trafiggermi il mantello. Saltai su un altro tetto, movendomi veloce, seminandoli. Quando mi fui allontanata, e fui sicura che la strada fosse sgombra, saltai a terra, attirandomi ancora qualche malosguardo, a cui non prestai particolare attenzione.

Mi guardai attorno: in città ero entrata, certo, ma avevo anche scatenato un maledetto vespaio! La cosa migliore da fare, era quella di trovarsi un posticino tranquillo dove nascondersi finché non si fossero calmate le acque. Già… il problema stava nel trovarlo. Non mi andava l’idea di prendere una stanza in una locanda. Troppe domande, il più delle volte. E poi preferivo gli spazi aperti. L’aria fresca… il cielo stellato… quella sensazione di vita che la notte, serena o di burrasca che fosse, ti lasciava sulla pelle!

Purtroppo, almeno quella volta, non avevo alternativa. Sospirai, guardandomi attorno. Qualcosa di tranquillo e, possibilmente, non troppo vistoso. Sempre che un posto simile esistesse.

Girovagai tra le vie di Eglarest senza alcun risultato, scansandomi quando incrociavo una pattuglia in ricognizione.

Non fui abbastanza veloce, però. < Eccola! È laggiù! > Nemmeno mi voltai e cominciai a correre. Corsi. E rimasi impigliata. Caddi in avanti, qualcosa che pesava sulle spalle.

< Una… rete…? > Mormorai sorpresa. Cercai di rialzarmi ma non riuscivo a muovermi bene. Si avvicinavano. Estrassi Claymore e cominciai a tagliarla. Non fu difficile anche se le maglie erano fitte ed era di ferro.

Sentii una lama pungolarmi il collo. Alzai la testa. E mi trovai circondata da una schiera di lance. Non ero stata abbastanza veloce.

< In piedi! > Mi ordinarono, alzando la rete ma continuando a puntarmi contro le lance. Ubbidii. Non mi andava di ingaggiare battaglia. Quelli non erano nemici. E comunque erano armati. E erano tanti. < Legatela! > Porsi i polsi e lasciai che me li legassero. Mi spinsero in avanti e mi condussero via.

 

La cella era minuscola, incredibilmente fredda e umida e c’era muffa dappertutto. Un ottimo posto per viverci. Solo se sei un fungo, ovviamente.

Me ne stavo seduta su un mucchio di paglia sudicia che qualcuno aveva avuto la carità di lasciare lì a guisa di giaciglio. Accanto ai miei piedi, una ciotola vuota e una brocca sbeccata. In un angolo, un secchio lurido e puzzolente. Non era difficile immaginare a cosa servisse, ma sperai ardentemente e con un moto di disgusto, di non dover passare in quel posto tanto a lungo da trovarmi costretta ad usarlo ma avevo l’impressione che questa speranza sarebbe stata delusa. Un grosso ratto dalla pelliccia nera e l’aria malata schizzò accanto ai miei piedi. La luce polverosa del giorno pioveva nella stanzetta da una finestra microscopica chiusa da una grata, che si affacciava sulla strada. Vedevo i piedi della gente che passava. I raggi stinti colpivano un piccolo rettangolo del pavimento, facendolo apparire la pietra grigiastra, più chiara dell’informe nerofumo che regnava sulle pareti, il soffitto e il pavimento della cella. Da dietro la pesante porta di legno massiccio, sentivo delle voci e dalla finestrella veniva la luce rossastra di una torcia.

Mi appoggiai alla parete e sospirai. Che razza di situazione! Dovevo trovare un modo per uscire e andarmene! Per quale oscura ragione avevano voluto che arrivassi in quel posto? Mi alzai e mossi qualche passo, per sgranchirmi le gambe e schiarirmi le idee.

Innanzitutto, dov’ero? Conoscevo quel posto. Non la cella, beninteso. Ma avevo visto l’esterno del palazzo in cui mi avevano portato. L’avevo già visto. Più di cinquecento anni fa. Mi venne da sorridere: che buffo scherzo del destino! La residenza di Gil-Galad! Dubitavo che la cosa fosse casuale. Ma non potevo incontrare Galad, se restavo chiusa lì dentro! Dovevo stare calma e ragionare. Dovevo uscire. Ma senza uccidere le guardie, possibilmente. E poi dovevo recuperare le mie armi e la mia armatura… non potevo andarmene senza!

Ripiombai a sedere sul pagliericcio, torcendomi una ciocca di capelli, pensierosa. Come potevo fare? L’impresa mi sembrava impossibile! Avrei potuto usare la magia… ammaliare le guardie… o far saltare la finestrella e andarmene dalla strada… scartai subito l’ultima idea. Troppe possibilità di essere vista e ripresa. O uccisa. E poi non avrei potuto recuperare l’armatura, Helkaluin e la Claymore! Quindi l’unica sarebbe stata stregare una delle guardie e rubargli la chiave. Ma dovevo aspettare che mi venissero abbastanza vicino. E che la guardia fosse abbastanza stupida da guardarmi negli occhi. E poi… sarei stata in grado di muovermi all’interno del castello al punto di trovare le mie cose e poi uscire? Non ero sicura di riuscire a ricordare alla perfezione… sospirai: non c’era scelta. Dovevo correre dei rischi. O restare li a vita.

Continuai ad attorcigliarmi una ciocca di capelli attorno al dito, mentre cercavo di ricordare quanto più possibile la geografia del palazzo, schizzando una mappa rudimentale sul pavimento con un sasso appuntito. Alla fine, fissai con occhio critico lo schizzo. Ne fui abbastanza soddisfatta, anche se dovetti ammettere che avevo dei buchi di memoria abissali! Sogghignai. “Stai invecchiando, Ghiliat, vecchia mia1” Sorrisi tra me. Studiai la mappa fino a impararla a memoria, poi la coprii con della paglia: ancora non volevo cancellarla.

Mi gettai all’indietro e fissai il soffitto. Come potevo avvicinare una delle guardie? Forse quando mi avrebbero portato da mangiare… effettivamente non avrei avuto altre occasioni per farlo. Voltai il capo di lato, fissando la finestra, cercando di capire che ore fossero. Il sole non si vedeva ma non dovevano essere passate che poche ore da quando mi avevano catturata, nel primo pomeriggio, quindi non doveva essere ancora sera… ci sarebbe voluta ancora qualche ora prima che si decidessero a portarmi qualcosa. Forse l’avrebbero fatto la mattina dopo… non troppo presto comunque. Sospirai: non mi restava altro da fare che non armarmi di pazienza!

Le ore passarono e venne la sera, seguita dalla notte e da una nuova alba. Non avevo fame, eppure credo di non aver mai aspettato un pasto con tanta trepidazione! La luce grigiastra e lattiginosa dell’alba lasciò spazio a un mattino fulgido, anche se da lì, potevo solo intravederne l’ombra. Venne aperta una porticina nella porta, e una mano spinse dentro una scodella. Quasi urlai per la delusione.

Inghiottì controvoglia il disappunto e mangiai pochi bocconi in silenzio. La maggior parte del pasto rimase nella ciotola.

Sospirai. Evidentemente non erano sciocchi come avevo sperato. Non mi restava che aspettare una nuova occasione.

 

Passarono i giorni. Le guardi stavano bene attente a non incrociare il mio sguardo e non ebbi alcuna occasione per andarmene. Stavo perdendo la pazienza!

Quel posto era nauseabondo! La puzza, la sporcizia e quell’aria ferma e stagnante mi riuscivano ogni giorno più insopportabili, invece che diventare abitudinari.

Quando stavo per mandare a quel paese il fatto che quelle persone non erano malvagie, e cominciavo seriamente a pensare di andarmene con le cattive, la porta si aprì e qualcuno si fece avanti nell’ombra. Scattai in piedi, i muscoli in tensione. I miei occhi scintillarono mentre mi preparavo per l’incanto.

< Sei davvero tu? > Quella voce… così dolce e vibrane, come le corde di un’arpa d’argento, quasi un canto… limpida come l’acqua… seria, ma con quella nota quasi derisoria, quasi si burlasse del proprio ascoltatore… l’avrei riconosciuta tra mille! Lasciai cadere l’incantesimo.  < Ereinion! > Sorrise. < Ereinion Gil Galad... sono lieto che ti ricordi ancora di me, Ghiliat. > Mi guardò. < È passato molto tempo… Non credevo davvero che ci saremo rivisti qui… in questo modo. > Mi squadrò da capo a piedi. I miei capelli erano sporchi e spettinati e il mio viso  condizioni ancora peggiori. I vestiti laceri e pieni di sporcizia. Ridacchiò. < Sei davvero un disastro! > Io non ci trovai nulla di divertente. Tenne la porta aperta, invitandomi ad uscire. Non me lo feci ripetere. Le guardie mi lanciarono occhiate sospettose e ostili ma chinarono il capo dinnanzi al loro re. Fui lì li per fulminarli.

Galad si avviò lungo il corridoio illuminato dalle torce, con me al seguito. Fu un cammino tortuoso, anche se non troppo lungo. Qualche ratto ci attraversava veloce la strada o correva radente il muro, ma il re non sembrava prestarci particolare attenzione e a me ormai, quelle bestie non facevano più ne caldo ne freddo.

Cominciammo a salire lungo una scala stretta e ripida, con gradini tagliati rozzamente che però si fece via via più grande e regolare. Sbucammo in quello che sembrava il locale delle guardie, per poi uscire in un cortile d’allenamento. Galad non aveva detto una parola e per un po’ ancora non parlò. Alcuni dei combattenti ci guardarono curiosi. In effetti, una prigioniera lacera e lercia e un re perfetto e orgoglioso che se ne andavano insieme, doveva essere uno spettacolo ben strano! Quanto a metà, non sapevo se essere sorpresa e sollevata di quella visita, o se essere furiosa con Galad per il trattamento che i suoi uomini mi avevano riservato! Probabilmente, il mio stato d’animo non era che l’unione di quelle emozioni.

Entrammo a palazzo. I lucidi pavimenti di marmo, e lo sfarzo delle stanze, non fece che contribuire al mio disagio. Se avessero chiesto il mio parere in quel momento, avrei detto che volevo solo riavere le mie cose ed andarmene il prima possibile.

Gil-Galad bussò a una porta e parlò con un elfo dai capelli d’argento e dai lineamenti sottili e spigolosi. Emanava una non so che aria di autorità, anche se era vestito semplicemente, e chinava il capo davanti al suo interlocutore. Ma in fondo, chi non si sarebbe inchinato davanti a Gil Galad, nel suo regno?

La conversazione si risolse in qualche minuto ma non riuscii  a sentire ciò che dicevano, ma alla fine, Galad venne da me sorridendo. Mi posò una mano sulla spalla. < Ti affido a Galion. Sei in ottime mani! Noi ci rivedremo presto. > Se ne andò senza darmi il tempo di ribattere, il mantello che ondeggiava leggero a ogni suo passo. Rimasi a guardarlo finché non sparì dietro a un angolo e rimasi sola, in mezzo al corridoio, sotto lo sguardo dell’elfo. Galion, evidentemente. Chinai veloce il capo e lui sorrise. Mi fece un cenno quasi di benvenuto. < Prego, seguitemi. > Si avviò veloce verso il corridoio. Sembrava gentile e caloroso quasi come un amico che accoglie un ospite stanco. Non era una sensazione che avevo avuto occasione di provare molto spesso!

Bussò a un’altra stanza e chiamò due donne. Serinde e Calacalen. I loro occhi erano giovani, ed erano identiche in ogni particolari. Galion mi posò una mano su una spalla. < Lei è un’ospite di sua maestà. Ha passato molti guai prima di arrivare qui. ha bisogno di riprendersi e riposarsi nel migliore dei modi. L’affido a voi, sono certo la tratterete nel migliore dei modi. > Parlava affettuosamente, come un padre, con una nota d’orgoglio che suonava anche come un ammonimento: non deludetemi. Sul volto delle due ragazze si aprirono due identici sorrisi incoraggianti, che non potei impedirmi di imitare.

 

Lo scroscio dell’acqua calda che pioveva a riempire la vasca fu un vero toccasana per me! Sembravano passati secoli dall’ultima volta che avevo fatto un bagno caldo! Mi tolsi gli abiti  e mi lasciai scivolare nell’acqua calda. Calacalen portò via i miei abiti, mentre Serinde mi strofinava la schiena e mi lavava i capelli. All’inizio mi ero sentita un po’ in imbarazzo: non ero abituato ad essere servita e a ricevere simili attenzioni, ma le due ragazze avevano riso e non c’era stato verso di mandarle via! Così avevo finito per cedere. E avevo scoperto che la cosa non era affatto male!

Cala rideva sempre. Delle due sorelle, era senza dubbio la più spigliata e curiosa. Serinde invece era più composta e taciturna, sembrava quasi più vecchia dell’altra, nonostante fossero gemelle!

Sospirai di piacere. Adoravo l’abbraccio caldo dell’acqua, e il profumo delle essenze usate per il bagno, senza contare le dita esperte di Serinde che mi massaggiavano la schiena!

Appoggiai la testa al bordo della vasca e chiusi gli occhi. Vala, se stavo bene!

< Posso farvi una domanda? > Alzai gli occhi su Serinde e annuii, senza parlare. < Ecco, come… che cosa vi è successo? > Domandò, timida. < A ridurmi così, intendi? Tutta colpa di un malinteso. Anche se da parte mia, non avrei dovuto entrare in città a quel modo! > La giovane non mi fece più domande. Cala si affacciò alla porta del bagno, sorridendo. < Blu o rosso? > trillò. La guardai, senza capire. Mi mostrò due abiti e ripeté la domanda. Sorrisi. < Il blu va benissimo. >

Uscii dall’acqua e mi avvolsi in un telo. Poi lasciai che le ragazze mi pettinassero i capelli e mi rivestissero. Su un tavolino basso erano disposte delle pietanze. Pane, frutta e della carne dall’aspetto invitante. Chiesi di rimanere sola. Le ragazze uscirono in silenzio, assicurandomi che sarebbero tornate la mattina dopo e pregandole di chiamarle per qualsiasi cosa. Mi dissi che probabilmente non l’avrei fatto.

Mangiai in silenzio, riflettendo su quanto era accaduto e su quello che avrei dovuto fare. Appena finito, mi sdraiai sul letto e rimasi a lungo a fissare il baldacchino, prima di arrendermi e lasciarmi cullare dai sogni, ancora confusa e stordita.

Mi espansi come un sospiro, librandomi alta oltre il mio corpo, mentre mi univo al vento, sorvolando la Terra di Mezzo. Trascesi i miei confini come non facevo da tempo, troppo legata ai fatti terreni, innalzandomi a un livello altissimo, innalzandomi fino al primo cielo. Persi il senso del tempo.

Fui richiamata alla realtà da un quieto bussare alla mia porta. Rientrai nel mio corpo e mi tirai a sedere. Calacalen era sulla porta. Fuori il sole era calato, tingendo il mare di un tramonto sanguigno. Mi alzai. < Sua altezza chiede di vedervi… >

 

Fui scortata in un appartamento lussuoso, fuori, su una grande terrazza affacciata sul mare. Il sole sembrava incredibilmente grande mentre spariva verso Ovest, oltre al mare infuocato. Il vento portava fin lassù il rumore della risacca. Gil Galad era sdraiato su un basso divanetto. Si alzò in piedi, fecendomi accomodare di fronte a lui. Versò del vino in due coppe e me ne porse una. Sorseggiai la bevanda lentamente, gustandola, e lui fece altrettanto, fissandomi da sopra l’orlo del calice. Tornò a sedersi. < Allora… la mia ospitalità è di tuo gradimento? > Domandò, con un sorrisino divertito. Ricambiai. < La seconda parte molto… ma ho imparato che niente si fa per niente. Dov’è l’inghippo, Galad? > Domandai, sospettosa. < Vedo che vai subito al sodo… > Mi porse un involto e andò a una rastrelliera, dove raccolse una lunga lancia dalla lama decorata. Feci appena in tempo a svolgere l’involto e a impugnare la mia alabarda, che Galad mi puntò la sua arma alla gola. < In guardia. >

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Capitolo 3
*** Il sentiero nascosto ***


Cap. 3: Il sentiero nascosto.

 

Fissai Galad sbalordita: cosa credeva di fare? Perché quella sfida?

Partì all’attacco, roteando Aeglos. Alzai Helkaluin e parai il colpo. Nello scontro, le nostre armi mandarono scintille. Era forte! Mi concessi un sorriso: si prospettava una sfida interessante.

Ritirò la lancia e balzò indietro, prendendo spazio. Lo imitai.

Restammo a guardarci a lungo, studiandoci, girando attorno l’uno all’altra come animali che si preparassero all’attacco.

Scattai per prima, sperando di avere il vantaggio della sorpresa. Parò il colpo e lo deviò. La triplice lama di Helkaluin si conficcò nel pavimento, restando incastrata tra le mattonelle divelte.

Galad tornò all’attacco. Schivai, ma dovetti abbandonare l’arma. La mia veste si strappò sotto al seno ma la lama mancò pelle e carne.

Saltai all’indietro, atterrando in piedi, sul parapetto. Galad si riprese presto dalla sorpresa e si slanciò verso di me. Aeglos tagliò l’aria dove, fino a un istante prima, c’erano i miei piedi. Lo colpii da dietro, sul collo, con il gomito. Cadde in avanti, sbattendo il mento contro il parapetto. Sentii l’odore del sangue. Il suo.

Esitai: forse avevo esagerato! O forse no. La distrazione mi costò un lungo graffio sulla guancia. Finii a terra, lui sopra di me. Poggiai i piedi sul suo petto e lo calciai via. Rotolai su me stessa e afferrai l’asta della mia alabarda, tirai, liberandola. Balzai in piedi, di nuovo pronta alla battaglia. Galad roteò la lancia come un derviscio. < Sei brava… > Mormorò. < Altrettanto… > Urlai e gli corsi incontro. Lui fece lo stesso e le nostre lame s’incontrarono, cozzando tra loro e mandando scintille, mentre combattevamo, come in una strana e micidiale danza.

Caddi all’indietro, inciampando nell’abito. Galad mi fu subito addosso, ma riuscii a ripararmi con l’asta. Lo spinsi indietro e retrocedetti.

Un attimo di pausa in cui non facemmo che guardarci in cagnesco, cercando ognuno una breccia nella difesa dell’altro. Il vento si era levato, portando sulla terrazza l’odore e il rumore del mare. Il nostro combattimento era durato qualche ora e la luna, piena, brillava alta in un cielo senza nuvole e punteggiato di stelle.

Una calma irreale era scesa intorno a noi.

La battaglia riprese.

Per tre volte mi attaccò, e altrettante lo respinsi, cedendo e prendendo terreno di volta in volta. Le nostre lame s’incontrarono per l’ennesima volta, mandando una pioggia di scintille. Feci una finta e riuscii a prenderlo sul fianco. Gli strappai la blusa e sulla sua pelle chiara si aprì un graffio. Corse all’indietro e saltò sul parapetto. Lo seguii. Lancia e alabarda si scontrarono più volte, tagliando l’aria fischiando. Provai, con un colpo basso, a fargli perdere l’equilibrio, ma lui intuì le mie intenzioni e parò l’attacco. Colpii l’asta della sua arma.

Saltò giù dalla balaustra con me dietro.

Continuavamo a combattere. Paravo i suoi colpi e li sentivo vibrare sulle mie mani.

Finalmente, trovai una breccia nella sua difesa!

Calò la lancia verso di me. Mi rattrappii verso il basso, Helkaluin con l’asta poggiata al braccio, perfettamente dritta e posta in diagonale, a parare l’attacco. Quando Aeglos la colpì, usai il suo slancio come una catapulta, gettandomi all’indietro e alzandomi come per eseguire una ruota. Lo colpii con un calcio sotto al mento e piegai l’altra gamba a uncino, aggrappandomi al suo collo e gettandolo a terra accanto a me. Batte violentemente il fianco e lo intontì. Feci una ruota di lato e recuperai l’equilibrio, impugnando meglio la mia alabarda. Corsi verso di lui prima che si rialzasse e lo bloccai a terra, mettendogli un piede sulla pancia. Spinsi e lui gemette e sbuffò, quasi soffocando, con l’altro piede gli pestai il polso, impedendogli di usare la sua arma. Gli infilai la triplice lama sotto al mento, minacciandolo. Sorrisi. < Fine dei giochi, mio principe… >

 

Più tardi, Galad mi spiegò il motivo del suo comportamento.

Passeggiavamo nei giardini. In silenzio. Il sole non era ancora sorto ma già s’intravedeva un chiarore ad est.

Era quell’ora prima dell’alba, in cui ogni cosa era grigia e immota, e sembrava che potesse accadere qualsiasi cosa. Era come se tutta la terra, gli alberi, gli animali, tutte le creature parlanti, e pure, forse, l’aria stessa, trattenessero il respiro, per poi liberarlo all’improvviso al primo raggio. Al primo trillo di un uccello.

Faceva ancora freddo, nonostante l’estate fosse ormai alle porte. Gil Galad mi aveva ceduto il suo mantello. Molto cavalleresco, dovevo ammetterlo.

Mi aveva portato lì per spiegarmi, ma fino a quel momento, nessuno di noi due aveva proferito una sola parola. Ci limitavamo a camminare, in silenzio, ognuno immerso nei suoi pensieri, tanto che a un certo punto, mi chiesi se non ci fossimo persi nei nostri sogni e pensieri, camminando in quel giardino. Ma poi, Galad si riscosse di colpo, al primo trillo di un passero, come se aspettasse quel segnale.

< Vuoi sapere perché ti ho attaccato, non è così? > Lo guardai. Sembrava che stesse tastando il terreno… lasciai che parlasse. < Volevo metterti alla prova. Vedere quanto valevi e sapere se davvero eri all’altezza della tua fama. Avevo già sentito parlare di te… > Rise. < Anche se dopo il casino che hai combinato con le mie guardie, cominciavo a dubitare! > Sbuffai, scocciata: voleva prendermi in giro? Lui continuò. < Ora so che non è così. > Si fermò e mi si parò di fronte, afferrandomi per le spalle e obbligandomi a guardarlo negli occhi. Quegli occhi… brillanti più delle stelle e più puri degli stagni di Ivrin! Occhi che rapivano e stregavano l’anima, incatenandola a loro. Sentivo il cuore battere fortissimo nel petto, quasi dolorosamente, e una strana ansia attanagliarmi lo stomaco. Le mie labbra si seccarono improvvisamente. Mi teneva. Sorrise, ma il suo sguardo rimase serio. < Ora che ti ho messo alla prova, e conosco il tuo valore, so di non sbagliarmi. > Tacque per alcuni istanti, nei quali non mi staccò mai gli occhi di dosso. Era quasi come fissare un drago… < Sto per farti una proposta, Ghiliat, e voglio sperare che tu l’accetterai! > Non risposi. Del resto, non era una domanda. Attesi. E finalmente… < Entra al mio servizio, Ghiliat. Combatti per me. >

Lo fissai esterrefatta. Mi stava chiedendo di restare… mi stava offrendo una casa! Ma io potevo accettare? Mi potevo fermare in quel posto? Mettere radici? Era quello che volevo? Certo che sì! Ma non sapevo se potevo. Del resto però, perché i Vala mi avrebbero mandata proprio li? Per quale motivo? Forse era proprio Gil Galad, la risposta… forse mi avevano mandata lì a servire e proteggere uno degli ultimi, grandi re tra gli elfi ad est del mare! Forse era davvero quello, il mio obbiettivo… Il mio compito… la mia missione… tacevo, mentre i minuti passavano. E Galad era ancora lì in piedi, in attesa della mia risposta.

Rialzai lo sguardo e lo fissai su di lui.

< Gil Galad… la tua offerta mi onora e mi riempie di orgoglio… > Tornai ad abbassare gli occhi. < Ma purtroppo, non so se potrò accettarla. > Su di noi calò un silenzio pesante. Il sole sorse, e la sua immagine, contornata di luce, mi parve più bella che mai! E più simile a quella di un Vala che a quella di un elfo… lo guardai. < Dammi tre giorni. E io, per allora, ti darò la mia risposta. >

Gli voltai le spalle e me ne andai, il suo mantello, ancora posato sulle mie spalle, ondeggiava ad ogni movimento, mentre correvo via.

Entrai nella stanza che mi era stata assegnata. Serinde e Calacalen mi vennero incontro ma le congedai subito. Volevo riflettere. Da sola. Senza nessuno intorno.

Uscii sul terrazzo. Ad est il sole era sorto e la sua luce allungava l’ombra del palazzo fino alla spiaggia. Mi appoggiai alla balaustra, pensando. Riflettendo tra ciò che volevo e ciò che dovevo fare, chiedendomi se non fosse possibile, per la prima e forse unica volta, che queste due cose coincidessero.

Alzai la testa a guardare l’oceano. Cantava sempre la sua solita, malinconica canzone, ma Ulmo non mi parlò. E anche il vento, che mi soffiava in faccia, movendomi i capelli e gonfiando il mantello, quel giorno, rimase silenzioso.

 

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