Omicidio per due.

di AlexaHumanoide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ai suoi ordini signora Kaulitz! ***
Capitolo 2: *** Colpo di fulmine. ***
Capitolo 3: *** Dobbiamo solo aspettare. ***
Capitolo 4: *** Sei bellissima. ***
Capitolo 5: *** Giorno di merda. ***
Capitolo 6: *** Ho bisogno di te. ***
Capitolo 7: *** Ti voglio bene. ***
Capitolo 8: *** Ti va di raccontarmelo? ***
Capitolo 9: *** Al diavolo i paparazzi! ***
Capitolo 10: *** Ti prego, torna presto. ***
Capitolo 11: *** Sei un idiota. ***
Capitolo 12: *** Codice rosso. ***
Capitolo 13: *** C'è sempre speranza. ***
Capitolo 14: *** Non sono stato io. ***
Capitolo 15: *** Ti fidi di me? ***
Capitolo 16: *** L'odio è amore. ***
Capitolo 17: *** Il tempo scorre. ***
Capitolo 18: *** Devo finire il mio lavoro. ***
Capitolo 19: *** Ti ho salvato la vita. ***
Capitolo 20: *** Wonderwall. ***
Capitolo 21: *** Io sono il sole e tu la luna. ***
Capitolo 22: *** Chi l'avrebbe mai detto? ***



Capitolo 1
*** Ai suoi ordini signora Kaulitz! ***


 

 

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Questa FF l'ho iniziata a scrivere nel 2010 e l'ho continuata a scrivere a gennaio di quest'anno. Quindi dal capitolo 9 in poi, noterete un grandissimo cambiamento! (:

Faccio pochi avvertimenti prima di lasciarvi leggere: alla protagonista non piacciono molto i TH (anzi, non li piacciono per niente.), ma non prendete le sue parole sul serio. Poi leggendo magari scoprirete che cambierà idea, forse. Poi ovviamente i Tokio Hotel non mi appartengolo e bla bla bla, lo sapete già. E' tutto frutto della mia fantasia, anche perchè se fosse successo veramente... beh. Se ve lo dicessi vi rovinerei la sorpresa!

In questo capitolo non succede nulla, l'azione inizia nel secondo! Mi raccomando, se vi piace recensite ;)

xoxo, lex.




I: Ai suoi ordini signora Kaulitz!

 


"Che ne dici di questo?", urlò la mia migliore amica da dentro al camerino.

"Se esci magari..", dissi, seccata. Odiavo fare shopping.

"I miei piani erano quelli, se la cerniera non si fosse incastrata.", rispose.

Sbuffai e mi alzai dallo sgabello che per quel pomeriggio mi aveva fatto da postazione. Toc, toc.

"Posso?", chiesi.

"Sì sì, entra!"

Entrai nel camerino e vidi la persona, che per me valeva tutto, cercare di allacciarsi la cerniera di quel vestito nero, aderente. Guardai i suoi lunghi capelli ondulati color oro che risaltavano più che mai sul nero del pezzo di stoffa.  La sua smorfia mi fece ridere: teneva la lingua fuori, stretta dai denti e le braccia erano aggrovigliate dietro la schiena, in cerca di quel pezzo di metallo.

"Invece di ridere, perché non mi aiuti?", borbottò.

"Ai suoi ordini!", risposi tra le risate. 

Mi avvicinai a lei e con un movimento veloce e deciso feci salire la cerniera fino all'orlo.

"Grazie!", disse saltellando sul posto.

Feci un cenno con la testa come risposta. Si girò verso di me.

"Allora, come sto?", chiese, per poi fare un giro su se stessa.

L'abito le arrivava appena sotto le ginocchia e la gonna, mano a mano che arrivava alla fine diventava sempre più trasparente.
"Ti sta davvero bene!", esclamai.

Sbuffò e passò tutto il peso del suo corpo sull'altra gamba.

"Ash, hai detto la stessa ed identica cosa per gli ultimi dieci vestiti!", mi rimproverò, puntandomi il dito contro.

Io feci spallucce, giocando con una ciocca di capelli color ebano.

"Non è colpa mia se siamo qui da tre ore per trovare un vestito, mi sto annoiando immensamente, prova a capirmi..", feci la faccia dolce, sperando che i miei occhi color ghiaccio la intenerissero. "E comunque questo ti sta benissimo, è il migliore dei cento che ti sei provata..", sorrisi.

"Cento, puah!", borbottò per poi spingermi fuori dal camerino e chiudendomi la porta in faccia.

"Ah.. Questo è il ringraziamento?!? Io che sono qui solo per te ad annoiarmi a morte e tu mi sbatti perfino la porta in faccia? Grazie, grazie mille!"

La porta davanti a me si spalancò e lei uscì con i vestiti sportivi con cui era uscita quel pomeriggio e con il vestito prescelto sotto il braccio. Senza dire una parola si diresse verso le casse. Io rimasi lì, con la bocca spalancata dallo stupore e con le braccia sollevate in aria, seguendola con lo sguardo. Quando si accorse che mancava una presenza corporea vicino a lei si girò nella mia direzione. Il suo sopracciglio biondo e ben curato destro si alzò.

"Bè, allora? Andiamo?", chiese.

Feci qualche gesto con le mani e aprii la bocca, ma non uscì nessun suono. Non sapevo cosa dire, non riuscivo a dire qualcosa di brutto o cattivo davanti a lei. Ero inerme davanti a Viola e lo ero da sempre. Non perché era più forte di me o roba del genere, era facile da capire: se stava male lei, stavo male anche io. Le mie braccia rimbalzarono sui fianchi e restarono ferme lì. Contemporaneamente abbassai lo sguardo. Probabilmente camminò verso di me, perchè dopo qualche secondo rimasta in quella posizione due braccia mi avvolsero.

"Dicevo davvero, ti sta benissimo quel vestito...", cercai di dire con il mento appoggiato alla sua spalla.

"Ti credo e.. Scusa, ho avuto una reazione involontaria, non volevo farlo, scusa ancora."

"No no! Sono io che mi devo scusare per averti detto quelle cose, ma la noia fa butti scherzi.", sogghignai.

Si staccò quel quanto che bastava per guardarmi negli occhi: verde contro azzurro.

"Mi perdoni?", sorrisi.

"Non ti devo perdonare per niente, non hai fatto niente.", dissi.

"Adesso andiamo a casa, và! Non devi prepararti a vedere Bill?", feci una smorfia quando pronunciai quel nome.

"Ashley, guarda che ti ho visto!", borbottò.

"Cos'ho fatto questa volta?", chiesi, alzando gli occhi al cielo.

"Hai fatto una smorfia quando hai detto Bill!", mi accusò. "Non lo fare più!"

"Ai suoi ordini signora Kaulitz!", scherzai, facendo il saluto militare. Lei rise e mi diede uno spintone.

"Stupida!"

***


"Oooh, ma quello è davvero...", iniziò Viola indicando qualcosa con l'indice. Seguii la scia.

"Un treno?!? Si, è davvero un treno.", dissi tranquilla, ma poi mi immobilizzai e mi girai verso di lei.

"Non hai mai visto un treno?!?", la mia bocca rimase spalancata, provocando delle risa da parte di Viola.

"Veramente io intendevo quello sopra al treno…", sogghignò. "E per cronaca, avrò visto più treni di te!"

"Si, certo…", dissi, mentre cercavo con gli occhi a che cosa si riferiva.

La trovai: non era sopra al treno, era appiccicato al treno. Un cartellone con sopra chi? Sempre loro. Sbuffai.

"Che c'è? Non hai visto che bel faccino che ha in quella foto Bill?", sghignazzò.

"E io che pensavo ti riferissi a un gran bel ragazzo..niente.", sussurrai.

"Ma Bill è un gran bel ragazzo!", ribatté. La fulminai con lo sguardo.

"Oooh, cambiamo discorso per piacere!", la supplicai.



“Il treno regionale delle ore quattordici e trenta proveniente da Hessen e diretto a d Amburgo è in arrivo al binario tre,  si prega di allontanarsi dalla linea gialla.”



"Si prega di allontanarsi dalla linea gialla!” dissi, imitando quella voce femminile da racchia. "Mica siamo scemi, non ci vogliamo suicidare, sai?!?", cercai con la testa all'insù il microfono che aveva trasmesso quel messaggio e non mi resi conto che Viola si era messa a ridere.

"Che hai da ridere?", le chiesi, porgendo le mani in aria con il palmo in sù e facendo una faccia da ebete.

"No, niente. E' che non è da tutti i giorni vedere la propria migliore amica parlare da sola.", mi rispose, mentre ricominciò a camminare verso il binario tre.

"Ah-ah! Spiritosa!", urlai, visto che non mi aveva aspettato e quindi era più avanti di me.

La raggiunsi con tre grandi passi, per poi darle una spinta dietro alla schiena.

"Grazie per avermi aspettato, eh!"

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Capitolo 2
*** Colpo di fulmine. ***



II: "Colpo di fulmine."


"Aaaah, Ashley, non ci credo ancora!", urlò Viola quando si sedette sul sedile del treno, di fronte a me.

"Che cosa?", alzai un sopracciglio.

"Fra poche ore vedremo i Tokio Hotel!", iniziò a saltellare sul posto. Il vecchietto che era seduto vicino a lei si girò e la guardò in un modo alquanto strano, come per dire: "E questa da dove spunta fuori?". Mi chiedevo la stessa cosa pure io.

"Che culo!", borbottai, sorridendole. Lei sbuffo e si alzò in piedi.

"Scusi se la disturbo... ", disse riferendosi alla signora che era seduta vicino a me, che stava beatamente leggendo una rivista di moda. "... Sarebbe così gentile da farmi sedere vicino alla mia amica?", la mia bocca si spalancò e i miei occhi si spostarono sull'interessata. Senza dire una parola quella donna, che denominai subito come "santa donna", si alzò e si andò a sedere vicino al vecchietto.

"Grazie mille, è troppo gentile!", la ringraziò Viola con un sorriso che andava da un orecchio all'altro.

"Non si preoccupi.", borbottò la santa donna. La mia migliore amica si accomodò vicino a me, mi guardò per alcuni secondi e poi mi diede un abbraccio stritolante.

"Grazie, grazie, grazie!", ripeté quella parola per almeno dieci volte.

"Adesso mi spieghi cosa ho fatto per meritarmi questo... ", le dissi, quando si staccò dal mio corpo e mi lasciò respirare. "Sei un amore!"

"Bè, questo lo sapevo già!", dissi, sorridendo. Lei incrociò le braccia al petto e mise il broncio, offesa. Le accarezzai la guancia, ridendo.

"Sto scherzando!", esclamai. "Ora però spiegami perché ti sei ringraziata."

"Perché sei qui con me..", sussurrò, arrossendo.

"Ah, giusto.", riuscii solo a dire. " Non ci avevo pensato." In effetti, stavo per fare una cosa che non avrei mai neanche pensato di fare e ora che ci pensavo, stavo per andare a conoscere la band di musicisti che odio di più al mondo ad Amburgo, solo per la mia migliore amica. Pazzesco. Forse on mi era ancora venuto in mente perché ieri sera avevo provato a scacciare via questo pensiero cercando di fare alcuni esercizi di "yoga" e a ripetermi di non pensarci.

"Ashley, stai solo andando a vedere una band che ti fa schifo per la tua migliore amica, non è niente.", ecco cosa avevo ripetuto per almeno un migliaio di volte a me stessa e sorprendentemente era servito a qualcosa. Non ci avevo pensato fino a quel momento. Wow.

Non mi ero accorta che una mano stava sventolando davanti alla mia faccia.

"Oooh, ci sei?", era Viola.

"Si si, ci sono, scusa.", dissi velocemente, scrollando le spalle.

"A che stavi pensando?", mi chiese.

"A niente... ", cercai di giustificarmi.

"Se se, non ci credo!", mi puntò il dito contro. "Dimmelo!"

"Okay okay. Stavo pensando alla pazzia che sto per fare, solo per te!", sorrisi. Mi abbracciò di nuovo.

"Ti voglio bene Ashley."

"Anch’io, tanto.", sussurrai tra i suoi capelli color fieno.

"E vedrai che cambierai idea quando li incontrerai dal vivo!", disse quando ci staccammo dall'abbraccio. Scosse la testa su e giù, come per annuire.

"Sì sì, certo... Come no.", risposi, facendole la linguaccia.

 

***

 

"Adesso svengo!", urlò Viola, così che la sua voce coprisse tutte le atre, per farsi sentire da me. Io non capivo nulla e avevo un mal di testa tremendo.

"Cosa?!? Non capisco!", urlai, facendo dei gesti per fami capire. Viola era a qualche persona più avanti di me. Disse qualcos'altro, ma io non capii lo stesso.

"Ma state un po' zitte, brutte oche!". Sicuramente in quel momento tutte le fan mi stavano mandando a quel paese, ma almeno il volume delle loro voci si era abbassato.

"Viola, dimmi... ", questa volta parlai con un tono di voce normale.

"Sto per svenire!". O mio dio. Iniziai a spingere quelle ragazzine tutte appiccicate l'una all'altra per arrivare da Viola.

"Fatemi passare!", urlai, con una voce alquanto distaccata.

"Tu non vai da nessuna parte, rispetti la fila, tutte vogliono vederli per prima, sai... ", disse una ragazzina davanti a me, con un ciuffo appiccicato alla fronte come se fosse stata leccata da una mucca e con un trucco nero tutto sbavato che la faceva sembrare ancora di più un mostro con sembianze umane.

"Ma chi li vuole vedere quei quattro.", borbottai.

"Sì sì, tutte dicono così..", disse quella bambina, sventolando una mano per aria.

"Stai zitta gallina. C'è la mia amica che sta male, fammi passare!", la spinsi con forza e ignorai il bellissimo aggettivo che mi aveva dedicato. Con degli spintoni arrivai vicino a Viola e la abbracciai.

"Mi hai portato in una gabbia di matti.", sussurrai vicino al suo orecchio.

"Io ti avevo avvertito!", sorrise e si staccò per guardare la smorfia che era nata sul mio volto.

"E quando me l'avresti detto, scusa?", il mio sopracciglio si alzò automaticamente.

"L'altro giorno, quando eri sotto la doccia... ", il suo sorriso si allargò.

"Ah, perché secondo te io riesco a sentire quello che dici quando sono sotto la doccia?", la mia voce si alzò di alcune ottave.

"No, ma almeno io te l'ho detto... ", le diedi una pacca sulla spalla, ma non riuscii a dire una parola di più perché le oche iniziarono a urlare più forte di prima e come se non bastasse, iniziarono a spingere come pazze.

"E ora che cavolo succede?!?", urlai.

"Hanno aperto le porte!", mi rispose Viola cercando la mia mano tra la folla. Quando la trovai, la allacciai alla mia e avvicinai Viola a me, con una spinta. Intanto con i piedi facevamo piccoli passi e ogni centimetro ci avvicinavamo sempre di più ai crucchi, come li chiamavano le fans. Quando entrammo nella struttura, Viola mi stringeva la mano con movimenti regolari. Ormai non la sentivo più, la mano ovviamente.

"La smetti di torturare la mia povera mano, per favore?"

"Scusa, ma non ce la faccio. Cioè, loro sono lì!", fece un urletto alla fine della frase. Lasciai perdere.

Dopo alcuni minuti arrivammo davanti ad un tavolo nero, con dietro quattro ragazzi un pochino più grandi di noi. Finalmente arrivò il nostro turno, (dico finalmente perché non ne potevo più.) e io vicino a Viola, senza lasciare la sua mano. Il primo a firmare fu quello con le treccine nere, che quando gli passai davanti mi fece un sorriso a trentadue denti. Mi stava già antipatico. Viola gli passò l'album che aveva portato per gli autografi e disse un timido "Ciao" e "Grazie". Io risi, non chiedetemi il perché. Passammo al secondo che capii subito che era Bill, primo perché aveva una faccia da femmina e secondo perché Viola mi strinse la mano più forte di prima. Quando lui, dall'altra parte alzò lo sguardo verso di lei, s’immobilizzarono tutte e due a guardarsi negli occhi. 'Forse saranno stati colpiti dal famoso colpo di fulmine.', pensai, ma cambiai subito idea quando vidi il vestito della mia migliore amica sporco di sangue.

 

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Capitolo 3
*** Dobbiamo solo aspettare. ***



III: Dobbiamo solo aspettare.
 

Il mio corpo s’immobilizzò come ghiaccio il mio cuore smise di battere per troppo tempo. Intorno a me ormai sentivo solo urla isteriche, peggio di quelle precedenti. Mi spaventai ancora di più, anche se lo credevo impossibile, quando la presa delle nostre mani si alleviò e Viola cascò per terra, insieme al corpo di Bill. Cercai tra la folla uno sguardo che mi aiutasse, ma non lo trovai. Notai, però, che anche la maglia di Bill era macchiata di rosso. Involontariamente iniziai a piangere e i miei occhi si appannarono. Mi misi in ginocchio vicino al corpo di Viola e, nello stesso momento fece la medesima cosa quello con le treccine che capii fosse il fratello gemello di Bill.

"Che cazzo è successo?!?", urlai per disperazione, quando mi ritornò la voce.

"Signorina, si dovrebbe allontanare.", disse una voce vicino a me. Alzai lo sguardo e mi ritrovai un uomo enorme, con una giacchetta fluorescente, che mi porgeva la mano.

"Io non vado da nessuna parte.", ringhiai tra i denti.

"Non può restare qui!", mi rispose tranquillamente.

"Ma perché invece di rompere i coglioni a me non fa il suo lavoro?", con lo sguardo ritornai sul corpo della mia migliore amica, ma con la coda dell'occhio vidi l'uomo che si girò verso di Tom e lui annuiì.

"Come si chiama lei?", mi chiese.

"Ashley Fitz.", risposi secca.

"E' una sua amica?", indicò Viola.

"Sì.", borbottai. "E' un interrogatorio per caso?" Misero Viola su una barella.

"No, ultima domanda signorina: Come si chiama la sua amica?", mi seguì nell'ambulanza.

"Viola Sneider.", sussurrai.

"Ok, grazie.", disse, per poi scendere dell'ambulanza. Mi ritrovai in quel mezzo sola con Tom. Bill e Viola erano su due barelle diverse.

Regnava il silenzio. Io guardavo Viola e lui Bill. Gli unici rumori erano i bip degli apparecchi e gli urli isterici delle fan, quando passammo davanti alla libreria dove era accaduto il tutto. Erano state evacuate e io non me n'ero nemmeno resa conto. Mi rannicchiai su quello sgabello, prendendo le gambe tra le braccia e appoggiando la testa su di esse. Chiusi gli occhi. Non potevo crederci. Era un sogno, anzi, un incubo. Doveva essere un incubo. La mia migliore amica non era su quella barella, io non ero su un’ambulanza ad Amburgo con un ragazzo che non conoscevo nemmeno. Ero sicura che quando avrei aperto gli occhi mi sarei svegliata da tutto e mi sarei ritrovata nel mio letto, a casa mia, con Viola. Aprii gli occhi e tutto il mondo mi cascò addosso. Non esisteva nessun incubo, era tutto reale, tutta realtà. Una realtà di merda, in un mondo di merda. Iniziai a piangere di nuovo e alzai lo sguardo verso Tom: era immobile a fissare il vuoto.

"Come fai?", chiesi, sussurrando, ma sapendo che mi avrebbe sentito. Lui spostò lo sguardo su di me.

"A fare che?", la sua voce si spezzò.

"A non piangere."

"Ho pianto poche volte nella mia vita. Ora non ho ancora realizzato tutto questo, sto iniziando a morire dentro, ma sono sicuro che piangerò.", sospirò, guardando suo fratello sulla barella. Io non risposi, non sapevo cosa dire. Non trovavo le parole giuste.

"Sei la sua migliore amica?", mi chiese, dopo qualche tremendo minuto di silenzio.

"Sì.", risposi. "Come l'hai capito?"

"Si capisce da come ti muovi vicino a lei, da come hai reagito.", alzò le spalle.

"Ah... ", dissi. "E come mi muovo?"

"Con cura, stai attenta a tutto, dolcemente."

"Non ci avevo mai fatto caso. Grazie per avermelo fatto notare.", feci un mezzo, monco, sorriso.

"Di niente.", rispose.

L'ambulanza si fermò di colpo: eravamo arrivati. 5 infermieri arrivarono, tirarono giù le barelle e iniziarono a correre. Tom ed io iniziammo a correre con loro, cercando di tenere lo stesso passo.

"Bollino rosso, bollino rosso!", urlava l'infermiera che spingeva la barella di Viola.

Il mio cuore batteva ancora più forte. Le lacrime uscivano più veloci. Arrivammo alla fine del corridoio e ci sbatterono la porta in faccia. Ci fermammo di colpo ed io lessi ad alta voce la targhetta che era vicina alla porta: "Sala operatoria." Stavano per operarli. Ci guardammo negli occhi per cercare consolazione l'uno nell'altro. Con la testa mi fece cenno di sederci nella panchina di fronte alla porta.

"Ora dobbiamo solo aspettare.", disse. Io annuii con un movimento della testa e mi girai verso di lui.

"Comunque, piacere, io mi chiamo Ashley Schneider.", avevo ancora il fiatone dopo-corsa. Gli allungai le mani, lui la strinse.

"Piacere mio, io sono Tom Kaulitz."


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Capitolo 4
*** Sei bellissima. ***



IV: Sei bellissima.
 

"Strano... ", iniziò Tom.

"Strano che cosa?", chiesi.

"Strano che dopo averti detto il mio nome, non hai esclamato 'come se non lo sapessi già'... Normalmente lo dicono tutti", imitò una voce femminile.

"Oh, semplice: perché io non sapevo chi fossi.", sorrisi meglio che potei. Lui strabuzzò gli occhi.

"Stai scherzando, vero?"

"No, perché dovrei?", chiesi, facendo spallucce. Anche la sua bocca si spalancò.

"Non sei una nostra fan, quindi?"

"No.", risposi tranquillamente.

"E perché sei venuta alla nostra Signing Session?", stava iniziando a rompermi.

"Perché tutte queste domande? Comunque… Ho fatto un favore a Viola.", la mia voce si spezzò quando pronunciai il suo nome.

"Giusto, scusa. Volevo solo capirci qualcosa di questa fottuta situazione."

"Non ti preoccupare, vorrei anch’io capirci di più.", mi rannicchiai sulla panchina, fissando la porta davanti a me. Improvvisamente si aprì e io mi alzai automaticamente.

Dalla sala operatoria uscì una donna bassa, di mezza età, almeno credo: la divisa e la maschera bianca non mi permettevano di vederla bene.

"Scusi... ", dissi velocemente, alzando un dito verso di lei.

Camminava veloce e non mi badava. La rincorsi con passi veloci.

"Scusi... ", ripetei. Non mi ascoltò, andava dritto per la sua strada. Mi fermai, scocciata.

"Grazie, eh! Lei è una donna molto disponibile, complimenti!", gridai.” Secondo me le daranno presto un premio per questo!", feci retro front e mi avviai verso la panchina.

"Senza offesa, ovviamente.", sussurrai.

Mi accomodai vicino a Tom che nel frattempo non aveva neanche cambiato posizione. Fissava sempre il vuoto. Sospirai e restammo di nuovo in silenzio.

Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Nove. Dieci.

Contavo ogni singolo secondo mentre fissavo il soffitto.

'Che situazione di merda.', pensai. Tutto stava andando storto, Viola era sotto operazione per colpa di quattro ragazzi, che per lei significano tanto e io qui, seduta su una panchina, girandomi i pollici. Non potevo fare niente, non potevo aiutarla. Dovevo solo restare a guardare, ad aspettare e questo mi dava sui nervi: odio non poter aiutare qualcuno a cui voglio bene.

Chiusi gli occhi ed una ad una mi vennero in mente tutte le persone a cui tenevo di più: Viola, Papà, cane, sorella e... Mamma.

Aprii di scatto gli occhi quando arrivò la sua immagine.

Mamma Mamma Mamma Mamma Mamma

Questa misera parola che però vuole dire tanto, stava rimbombando nella mia testa.

"Secondo te dovrei chiamare la mamma di Viola?", chiesi a Tom, ma senza distogliere lo sguardo dal soffitto. Non disse niente. Lo guardai: aveva cambiato posizione. Ora era con il busto in avanti e si stava tenendo la testa con le mani. Lo scossai con una mano.

"Mi rispondi?"

"Fai quel cazzo che ti pare.", borbottò, deciso. Mi immobilizzai con la mano in aria.

"Scusa se ti ho chiesto un parere!", dissi con voce dura e distaccata. Incrociai le braccia al petto e mi misi con le gambe incrociate sulla panchina. Perché avevo reagito così? Aveva ragione Tom. Che cosa gliene fregava a lui di Viola?

Mi ero fidata troppo in fretta di lui, normalmente non ero così veloce ad aprirmi con qualcuno. Aveva fatto bene a rispondermi così, me lo ero meritata. Così starò più attenta in futuro.

"Scusami.", disse Tom, appoggiandosi alla parete con la schiena. "E' che non riesco ancora a crederci. Non dovevo risponderti così."

"No, hai fatto bene.", risposi, tirando fuori dalla tasca il cellulare. "Sono ancora un’emerita sconosciuta per te, come te per me."

Cercai il numero della mamma di Viola e pigiai il tasto verde. Tom mi guardò, sospirò e si alzò. Lo fissai mentre portavo il cellulare all'orecchio. Una voce snervante mi informò che il cellulare era spento. 'Ci mancava solo questo.', pensai per poi riattaccare. Vidi Tom andare verso l'uscita.

"Dove vai?", chiesi. Sapevo che anche questa domanda non dovevo farla. Non erano fatti miei, ma era più˘ forte di me. Ora lui era l'unica persona che si trovava nella mia stessa situazione. In quel momento mi sentivo sola, ecco perché mi ero completamente aperta a lui.

"A fumarmi una sigaretta.", rispose, freddo. Dei brividi mi percorsero la schiena.

Mi presi la testa fra le mani, come Tom poco prima. Che cosa dovevo fare? Non avevo idee, avevo la mente vuota. Le mie gambe si mossero involontariamente o forse ricevettero un comando dal cuore e seguirono Tom, che ormai era fuori dall'ospedale con la sigaretta in bocca. Stava guardando il cielo, come incantato, ma sapevo che stava pensando a Bill: si vedeva dal brillare degli occhi. Quando mi avvicinai a lui, spostò lo sguardo verso di me e mi fece un mezzo sorriso. Lo guardai bene e aggrottai le sopracciglia. Aveva uno sguardo diverso: non era più vuoto, ma qualcosa di nuovo era nato.

"Ne vuoi una?", mi chiese, porgendomi il pacchetto delle sigarette.

"No, grazie. Non fumo.", risposi lentamente. Mi sorprese anche la sua voce: aveva un pizzico di… sensualità. Scossi la testa, per scacciare quel pensiero. Mi appoggiai al muro.

"Allora, cos'ha detto la mamma di Viola?", buttò la sigaretta per terra e la schiacciò con il piede.

"Ehm... ", sussurrai, mentre lo seguivo con lo sguardo. "Aveva...", si stava avvicinando pericolosamente a me. "…Aveva il cellulare spento.", balbettai, ma lui non mi badava; mi fissava e muoveva il suo piercing sul labbro con la lingua.

"Tom?!", lo chiamai spaventata.

"Sai, non l'avevo notato prima... Sei bellissima."

"Tom, non dire cavolate." Non smetteva più di muovere quel maledetto pezzo di metallo. Appoggiò le mani sul muro, intrappolandomi.

"Tom, che cavolo stai facendo?!?", borbottai, ormai in panico. Non mi ascoltò nemmeno.

Guardai dietro di lui, in cerca di qualcuno, ma non c'era un’anima viva. Perché gli ospedali dovevano essere sempre imbucati nel nulla?!

Il mio cuore era impazzito, le mani mi tremavano.

"Tom, a-allontanati!", cercai di dire senza pause. Niente da fare. Era come se fosse sordo.

Con tutta la forza che aveva dentro, spinse il suo corpo contro al mio, facendo sbattere i nostri bacini con un colpo secco. La mia bocca si spalancò per il dolore. La mia mano velocemente incontrò la sua guancia, provocando uno schiocco. Lui allentò la presa, scioccato. Riuscii a staccarmi dal muro e uscire da quella trappola.

"Ma io dico, sei impazzito?? Come cazzo hai osato?", gridai. "Ti è andato in fumo il cervello, eh, Kaulitz?"

Le lacrime erano pronte per uscire. Il bacino pulsava dal dolore, faceva male, troppo.

Lui rimase lì, con le mani in aria e con la mia impronta dello schiaffo sulla guancia. Non disse niente. Io mi girai e incominciai a correre, entrando nell'ospedale.

"Ashley... ", sentii Tom chiamarmi con una voce alquanto bassa. Sembrava… dispiaciuto.

Con un gesto veloce asciugai le lacrime che erano uscite. Mi fermai, di colpo, quando vidi un uomo uscire dalla sala operatoria.

"Lei è una parente di Viola Sneider?", mi chiese, indicandomi.

"Sì.", risposi con il fiatone. Tom ci raggiunse.

"Lei è Tom Kaulitz, giusto?", questa volta indicò Tom. Lui fece un movimento secco con la testa, per annuire.

"Mi dispiace... ", disse lentamente il chirurgo. "Viola Sneider e Bill Kaulitz sono in coma."

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Capitolo 5
*** Giorno di merda. ***




V: Giorno di merda.
 

Ogni singolo muscolo del mio corpo trasalì ed io rimasi perfettamente ferma. Non avevo capito bene cosa aveva detto quel dottore o meglio, non lo volevo capire.

"C-Cosa?", balbettai.

Eccole: le lacrime erano di nuovo lì, a pulsare per uscire.

"Mi dispiace signorina.", disse lentamente, appoggiando la mano sulla mia spalla. "Abbiamo fatto il possibile."
A quelle parole il mio corpo si rese conto della realtà e ricominciò a funzionare.

Senza guardare in faccia né a Tom, né al chirurgo, mi girai e riiniziai a correre, questa volta tra le vie di Amburgo.
L'aria fresca mi batteva in faccia e le lacrime iniziarono a uscire libere. L'unica cosa che sentivo era il mio cuore che batteva forte e che sapevo, in un momento all'altro sarebbe sparito.
Correvo tra la gente, senza sapere dove stavo andando. Era la prima volta ad Amburgo e forse anche l'ultima.
Un unica parola mi ronzava in testa; quella parola che mi aveva spaventato più di tutte: coma.
Viola non poteva essere in coma, no. Non se lo merita, non se lo merita affatto. Oggi doveva essere uno dei più bei giorni della sua vita e invece si era tutto trasformato in un incubo.

Perché avevano sparato?
 Chi aveva sparato?

Non sapevo dare una risposta a nessuna delle due domande. Non sapevamo niente.
Davanti a me vidi un parco. Iniziai a correre più veloce, anche se avevo il fiatone, per raggiungerlo. La milza pulsava, faceva male, ma mai come il cuore. Mi buttai per terra quando vidi sotto i miei piedi il verde dell'erba e mi rannicchiai, cercando di fare diventare il respiro regolare.
Chiusi gli occhi e mi venne in mente quella scena: il sorriso di Tom, la stretta della mano di Viola e poi lo sguardo tra di loro e... Il sangue. Però, ora che ci pensavo, mancava qualcosa all'appello. Un tassello fondamentale: gli spari.

Perché non si erano sentiti gli spari? C'era troppo casino, forse?

Quella, però, non era la domanda principale, che prevaleva tutte le altre.

Perché avevano sparato proprio a Viola?

Questa, era quella predominante.
Non aveva alcun senso sparare ad una ragazza solo perché fan di quella band, no? O, almeno, non lei. C'erano così tante oche da strozzare in quel posto, perché proprio Viola? Che cosa aveva fatto di male?
O forse...

La mia bocca si spalancò e mi alzai, appoggiando la schiena all'albero che avevo dietro. Giusto... Non ci avevo pensato.
Forse non era lei il bersaglio, non era lei quella che volevano uccidere, ma Bill Kaulitz. Un cantante pazzo e ricco. Lui, infatti, era stato colpito, operato e ora era in coma, come Viola.

L'assassino aveva sparato due colpi, non uno. Il primo, forse, non aveva centrato la persona interessata così aveva sparato ancora, ma perché uccidere un cantante di fama mondiale?

Qualche idea c'è l'avevo, ma tutte quante erano stupide. Idee da non-fan.
Comunque poteva essere anche tutto il contrario: volevano colpire Viola e hanno preso per sbaglio Bill. Sì, poteva essere, anche se a me sembrava improbabile.
Una cosa ora era scritta in grassetto nella mia mente, un obiettivo da raggiungere da sola... O con Tom.
Trovare il colpevole a tutti i costi.

Quando sbattei gli occhi, l'immagine di Tom arrivò davanti a me. Tutto il mio corpo, prima divenuto rigido, si rilassò di colpo e la testa si abbassò.

Tom.

Mi venne in mente quello che aveva fatto poco fa.

Perché l'aveva fatto? 
Cosa voleva da me, sesso?

Volevo delle spiegazioni, ma non adesso. Scossi la testa e mi alzai. La cosa più importante ora era Viola.
Iniziai a camminare e a provare di orientarmi. Cercai il sole per trovare qualche suggerimento per la direzione da prendere, ma non lo trovai alto nel cielo: era già sull'orlo dell'orizzonte.
Il tempo era volato troppo velocemente. Sembrava un secondo fa quando Viola aveva spalancato la porta della mia camera gridando come una pazza, perché dovevamo partire per vedere i Tokio Hotel, invece da quel momento erano già passate dieci ore e ci eravamo allontanate. Lei era su un letto di ospedale e io ero tra le strade di Amburgo.
Dovevo andare da lei, non doveva stare da sola.

La sera era calata sulla città, quindi mi dovevo muovere. Feci un giro su me stessa per trovare un punto di riferimento. Non lo trovai: mi ero persa.

"Scusi..", fermai un signore di mezza età che stava passeggiando nella mia direzione. "Posso chiederle un'informazione?"
L'uomo si fermò e mi guardò.

"Certo, signorina.", mi rispose.

"Grazie..", lo ringraziai. "Sa per caso dov'è il Grüne Hotel?"

Il vecchio ci pensò su e mi rispose indicandomi la nostra destra.

"Deve andare sempre dritto per questa strada.."

"Grazie mille, davvero..", gli strinsi la mano.

"Di niente signorina!"

Iniziai a camminare spedita nella direzione che mi aveva gentilmente indicato il signore. Guardavo i miei piedi muoversi regolarmente.
La mia mente era completamente vuota, non volevo pensare a niente. Alzai lo sguardo solo quando riconobbi le aiuole fuori dell'Hotel dove alloggiavamo.
Mi fermai e rimasi a guardare la porta girevole color oro. Il mio sopracciglio destro si alzò: perché ero venuta qui? Dovevo andare in ospedale, non in Hotel.

Sospirai, sto diventando pazza.

L'illuminazione arrivò: dovevo prendere le cose di Viola, ecco perché ero venuta automaticamente qui e poi, mi dovevo fare assolutamente una doccia, ero a pezzi. Una doccia mi avrebbe fatto bene.
Entrai nell'hotel e notai due valigie vicino al bancone della segreteria. Sgranai gli occhi: erano le nostre.

"Signorina Fitz?", mi chiamò la segretaria.

Mi avvicinai al bancone e mi appoggiai su di esso.

"Si, sono io.", sussurrai: mi era andata via la voce.

'Dimmi che non è come penso.', supplicai a me stessa.

"Abbiamo dovuto portarle giù le valigie, dovevamo fare la camera.", disse tranquilla.

Rimasi immobile.

"Vuol dire che la camera non è più disponibile?", chiesi con voce malferma.

"No, mi dispiace. L'avevate prenotata fino alle 19."

Non risposi e la signorina, che prima stava pigiando freneticamente i tasti della tastiere, alzò la testa verso di me.

"Non c'è nessuna camera libera?", chiesi.

Cercò qualcosa sul pc.

"No, mi dispiace..", scosse la testa orizzontalmente.

Il mondo mi cascò di nuovo tutto addosso, facendomi ancora più male di prima. Ora ero ancora più disperata.

"O-Ok, g-grazie.", balbettai e con passi meccanici uscii dall'Hotel.

Che giorno di merda. Oltre ad avere la migliore amica in coma, ora non avevo neanche un posto dove stare.
Mi sedetti per terra, con la schiena contro il muretto dell'aiuola e chiusi gli occhi, cercando di pensare ad una soluzione.

All'improvviso qualcosa di gelato mi toccò la spalla.

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Capitolo 6
*** Ho bisogno di te. ***



VI: Ho bisogno di te.
 

Il mio cuore si fermò, il mio respiro so arrestò di colpo. Per alcuni secondi, che sembrarono anni, restai ferma lì, senza muovere un muscolo. Ero in una città da me sconosciuta, di notte, fuori da un hotel, da sola.

Cosa mi poteva capitare ancora? Ok. era meglio non pensarci.

Iniziai a tremare. Mi feci forza e alzai di scatto la testa per vedere in faccia il proprietario di quella mano. Di colpo iniziai a respirare con respiri fin troppo irregolari. Il mio corpo sembrava lanciare scosse forti di adrenalina, stavo tremando come una foglia.

“T-Tom!", sussurrai tra un tremolio e l’altro. "M-Mi hai fatto spaventare."

Tom si inginocchiò vicino a me e si sedette sull'asfalto.

"Scusami...", mi sussurrò.

Che reazione stupida. Davvero, davvero stupida. Il colpo che mi aveva fatto Tom con quel tocco ghiacciato mi aveva fatto esplodere completamente. In quel preciso momento sembravo un epilettica: dondolavo sul posto con le braccia che tenevano le ginocchia strette al petto.

Tom mi lasciò fare, aspettando che mi riprendessi.

"Perché sei qui?", gli chiesi quando mi riuscii a rilassare.

Lo guardai; lui lo stava già facendo.

"Sei scappata e non riornavi... ", disse. "Ti sono venuto a cercare... "

Il suo tono di voce era basso, leggero, come se fosse imbarazzato con me.

"Oh, ti sei preoccupato per me?", chiesi.

Lui fece spallucce.

"Dopo quello che mi hai fatto, ti sei preoccupato per me?", riformulai la domanda così che mi desse una risposta un pochino più corposa.

Il mio tono di voce aveva assunto un qualcosa di aspro, cattivo.

"Era di questo che volevo parlare..", a malapena lo sentii, era come se stesse parlando da solo.

Distolse lo sguardo, che si spostò sulle mani. Con gli occhi cercai i suoi ed esaminai il volto: le labbra carnose erano incurvate all'ingiù e non davano segno di risalita o di un piccolo, misero sorriso; le sopracciglia erano aggrottate come se stesse cercando di non piangere, ma la cosa più importante e più triste erano gli occhi, i quali non davano segni di vita, erano spenti. Cercai di trovare una scintilla che potesse riaccenderli, ma non trovai niente.

"Scusami…", soffiò, ma non alzò lo sguardo.

Non diedi importanza a quella piccola parola e feci un’altra domanda.

"Come hai fatto a trovarmi?", sussurravamo entrambi.

"Ho girato tutta Amburgo.", sospirò e le spalle, prima divenute rigide, si rilassarono.

"Perché avresti dovuto farlo?", ero ancora spiazzata da quella situazione, ma sentivo che qualcosa stava iniziando a rodere.

Alzò di scatto la testa e inchiodò il suo sguardo al mio, facendomi sobbalzare.

"Ashley io.", si bloccò, come se non riuscisse a dirlo. "Io ho bisogno di te."

Di colpo un fuoco iniziò a bruciarmi dentro, come quando si butta un fiammifero acceso nella benzina. Mi alzai di scatto e lo indicai, con rabbia.

"Dopo quello che hai fatto, che ti sei permesso di fare.", gridai nella notte. "Ti permetti anche di dire che hai bisogno di me?!?"

Il suo corpo si chinò di nuovo.

"Hai bisogno di me per fare cosa? Solo per sesso?", Tom iniziò a scuotere la testa.

"No?!? Allora perché hai bisogno di me? Eh? Spiegamelo!"

"Non volevo farlo..", sussurrò, continuando a scuotere la testa.

"Non ti capisco Tom Kaulitz, spiegati.", il mio tono si abbassò e le braccia mi cascarono sui fianchi. "Per favore... "

Si strofinò le mani sulla fronte prima di parlare velocemente.

"Non volevo farlo.. Non so cosa mi è preso!", fece alcuni respiri. "Odio questa situazione, non riesco ancora a crederci e tu sei l'unica persona che ho vicino. Cercavo e cerco ancora di tenere a controllo la mia mente e il mio corpo, ma prima la situazione mi è sfuggita di mano, scusami. Quando mi sono reso conto di quello che avevo fatto, ho capito che tengo a te... ", lo bloccai.

"Come fai a tenere ad una persona sconosciuta?", ormai ansimavo, fuori controllo di me stessa. "Perché è questo che sono per te: una perfetta sconosc-”

Non mi fece finire la parola.

"No!", disse secco. "Fammi finire di spiegare.", restai con la bocca spalancata e con la fine di quella parola sulla punta della lingua, pronta ad uscire. Restai immobile, aspettando che Tom parlasse.

"Non tengo a te perché siamo amici o perché ci conosciamo da tanto... Tengo a te in modo... diverso. Tu sei l'unica persona che è nella mia stessa situazione, che prova i miei stessi sentimenti, capisci?? E se tu ti allontanassi da me, ora come ora, rimarrei da solo.", riprese fiato. "Solo perché nessuno sarebbe in grado di capirmi come te, Ashley, ecco perché tengo a te."

Alzò il capo, che per tutto il discorso era rimasto chino, per guardare la mia espressione. Ero sicura che se ora mi avessero messo uno specchio davanti alla faccia, avrei visto che i miei occhi si erano strabuzzati in un modo pazzesco e la mia mascella era cascata ed ero sicura anche che sulle mie guance si poteva notare una sfumatura di colore rosa molto più scuro del normale. Lui se n'era accorto sicuramente. Chiusi e riaprii la bocca per due volte, senza riuscire a dire neanche una parola.

Si era aperto con me, mi aveva appena detto tutto...o quasi. Potevo perdonarlo, no?

'NO!', rispose una vocina dentro la mia testa. Alzai gli occhi al cielo. 'E stai zitta te!'.

Mi sedetti di nuovo nel mio ''vecchio'' posto vicino a Tom che mi stava squadrando dalla testa ai piedi, cercando di capire cosa stessi per fare. Picchiarlo? Noooo, non sono così cattiva, Kaulitz.

"Posso chiederti un'altra cosa?", lui sospirò e si rilassò.

Appoggiò la testa sulla parte superiore del muretto che contornava l'aiuola e chiuse gli occhi.
Era così...tenero. La mia testa s’incurvò di lato, come per ammirarlo meglio.

Ashley?!? Che cavolo stai facendo?!?

Mi ricomposi e feci quella benedetta domanda.

"Perché l'hai fatto?", iniziai a torturarmi le mani, aspettando una risposta.

"Uhm…", avevo un po' paura, al dire il vero. "In poche parole ho voluto sfogarmi su di te per non pensare a quello che è accaduto."

Sfogarsi su di me?? Che cappero voleva dire? Che ero diventata una dei suoi giocattoli preferiti?!
Al solo pensiero mi vennero i brividi. Mi sarei dovuta di nuovo incazzare, ma non ne avevo voglia né forza.

Il mio corpo emanava piccole scosse lungo tutta la spina dorsale, che aumentarono quando la segretaria dell'hotel uscì dall'ingresso.

"Scusi signorina... ", Tom alzò lo sguardo e tutte e due la fissammo. "Non vorrei disturbarla, ma dobbiamo chiudere il cancello per la notte e quindi... ", mi lanciò un occhiata per farmi capire cosa voleva dire, senza ripeterlo ad alta voce.

Fa male buttare fuori un proprio cliente. Io, comunque, avevo già capito quando aveva detto scusi.

"S-Si.. m-me n-ne va-vado s-subito.", balbettavo come una perfetta scema.

Mi si addiceva molto quel ruolo.
Tom spostò lo sguardo su di me, mentre la segretaria rientrò. Mi guardò dubbioso.

"Che cos'è successo?", sospirai, senza smettere di tremare.

"Mi hanno cacciato fuori.", sussurrai in imbarazzo.

Le mie guance ora erano color pomodoro, ne ero sicura.

"Perché?", inarcò un sopracciglio.

Abbassai lo sguardo, puntandolo verso le mie mani rovinate.

"Perché io.. io e Viola a-avevamo prenotato fino ad oggi po-pomeriggio.", gli occhi di Tom diventarono il doppio. "..E ora non ci sono p-più ca-camere libere..", ma perché balbettavo?
Non ero mica in imbarazzo. Sì Ashley, tu sei im.ba.raz.za.ta.

"E ora?", chiese semplicemente.

"E ora non so cosa fare !", i miei occhi si riempirono per l’ennesima volta di lacrime.

Li chiusi e li tenei un po' stretti per fa sì che le lacrime ritornassero da dove erano venute.

"Bè..", sussurrò. "Puoi venire da me..", aprii di colpo palpebre e lo guardai.

"Stai scherzando, vero?", borbottai.

"No!", esclamò. "Perché dovrei? A casa mia c'è una camera da letto vuota e-", non lo feci finire e gli saltai addosso, mettendogli le braccia intorno al collo.

"Grazie grazie grazie !"

Che accipicchia hai fatto? Mi immobilizzai.

"Ehm… Prego!", tossì.

Che cavolo hai fatto? Ritornai nella mia posizione di partenza.

"Scusa, scusa!"

Lo hai abbracciato ! Tu-sei-pazza.

"Non volevo farlo... ", sussurrai di nuovo in imbarazzo.

"Non ti preoccupare... ", mi rispose, alzandosi e stendendo le pieghe della maglia extra-large.

"Dove sono le valigie?"

Mi alzai in piedi pure io.

"So-sono dentro..", risposi indicando con l'indice l'hotel.

Abbassai lo sguardo sui miei piedi e iniziai a dondolarmi sui talloni. Passarono alcuni minuti e le mie orecchie percepirono dei lievi passi.

"Vuoi stare ancora lì per molto?", alzai di colpo il capo e trovai Tom di fronte a me con i palmi rivolti al cielo e un sorriso beffardo sul volto.

"Oh, s-si...scusa...", lo raggiunsi e mi fermai di nuovo a guardarlo. "Le valigie?"

"Sono già in macchina..", mi rispose, facendo cascare le braccia sui fianchi. "Andiamo?"

"Uh, si..", ci incamminammo e Tom si fermò vicino ad una macchina sportiva.

Non ero molto esperta di macchine, ma credo che quella fosse un Audi, di più non sapevo dire.

"Dai, sali..", mi incitò. "E' aperta."

Speravo tanto che il viaggio non fosse tanto lungo. Mi sentivo in totale imbarazzo con Tom. Che mi stava capitando? In tutta la mia piccola vita non ero mai stata così imbarazzata con una persona.

'Secondo me ti stai innamorando' disse l'angioletto sulla mia spalla destra.

'Di quello lì? Puah!' rispose il diavoletto sulla mia sinistra.

"E basta voi due..", sussurrai a me stessa ancora sul marciapiede. "Sapete benissimo che l'amore non esiste."

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Capitolo 7
*** Ti voglio bene. ***



VII: Ti voglio bene.
 

La mattina mi svegliai e non capii subito dove mi trovavo. Mi girai e mi rigirai nel letto e poi, quando accesi la luce, capii e mi ricordai tutto di quello che era successo il giorno prima.

Oh, si... Il giorno più brutto della mia vita.

Mi spalmai una mano sulla faccia cercando di svegliarmi meglio e scesi dal letto, pettinandomi con le mani.
Scesi le scale di legno che si trovavano proprio davanti alla porta della "mia" camera, sperando di non sbagliare strada. Andai a destra, dove mi ricordavo ci fosse la cucina.

Tom era seduto al tavolo, sembrava che dovesse cascare nel sonno profondo a secondi. Aveva due occhiaie che arrivavano a metà guancia, circa. Guardava una rosa che era disegnata sulla tovaglia, senza traccia di una tazza o qualcos'altro. Non aveva ancora mangiato, così sembrava.

"Buongiorno... Non hai chiuso occhio stanotte?", entrai nella cucina e andai vicino alla macchina del caffè.

Lui alzò di scatto la testa, come gli studenti addormentati sul banco al suono della campanella.

"Uhm... ehm... Buongiorno... No.", bè, certo, era più assonato di uno studente.

"Neanche io Kaulitz, hai già mangiato?", chiesi.

"Non... Non chiamarmi Kaulitz per piacere... No..."

"Okay, dove solo le tazze?"

"Nello sportello sopra di te.", rispose, prima di cascare con la testa sul tavolo.

Io trattenni una risata e cercai di fare due caffè.

Appena ebbi finito, mi sedetti di fronte e lui e gli porsi la tazza.

"Grazie... ", sorseggiò il suo caffè e iniziò a svegliarsi.

"Niente, bè... Oggi... oggi andiamo all'ospedale?", balbettai, mi faceva ancora male pensare a Viola... a Bill. “Si, certo. Ci andiamo subito, preparati... "

Non feci in tempo a rispondere che era già scappato in camera sua. Sbuffai, misi le tazze sporche nel lavandino e mi andai a preparare pure io.


 ***


Arrivammo in ospedale verso le dieci di mattina. Normalmente io dormivo molto di più, ma quella sera non avevo proprio chiuso occhio.

"Scusi, siamo i parenti di Bill Kaulitz e Viola...", Tom fermò un medico proprio all'entrata.

"Sneider.", mi affrettare a dire.

"Seguitemi, li hanno portati alla camera 88", ci rispose gentilmente il medico.

Lo seguimmo per l'ospedale, la camera si trovava al secondo piano, sul lato destro.

"Possiamo entrare?", chiesi timida.

"Si, però è meglio uno alla volta...", detto questo se ne andò, lasciandoci soli.

Tom ed io ci guardammo.

"Vai tu!", lo dicemmo insieme, nello stesso preciso momento.

"Nono, vai tu. Prima le ragazze.", mi precedette questa volta Tom.

Gli sorrisi e lo ringraziai, prima di entrare.
Avevo pensato molto quella notte su come avrei trovato la mia migliore amica in quella stanza completamente bianca, ma non avevo mai immaginato questo.
La stanza era particolarmente grande e sulla parete davanti a me c'erano due letti paralleli con sopra... loro.

Viola e Bill erano pieni di tubi e sembravano senza vita. Morti.
Gli occhi iniziarono a pizzicare, ma io non volevo piangere. 
L'unico rumore che si sentiva nella stanza, oltre ai miei respiri ormai diventati irregolari erano i bip di quelle due macchine ai piedi dei due lettini.
Presi lentamente una sedia e mi avvicinai al letto dove c'era Viola. Mi sedetti e con la massima attenzione presi la sua mano nelle mie.
Era così liscia, chiara...fragile. Avevo paura di romperla.
Tirai su con il naso. Non volevo che nessuno mi vedesse piangere e stare male.

"Viola...", appena pronunciai il suo nome le lacrime uscirono pazze.

Mi appoggiai con la testa sul suo fianco, cercando sempre di non farle male.

"Viola...Ti voglio bene.", sussurrai, sperando che lei potesse sentire.
"In tutta la mia misera e inutile vita l'unico regalo che mi è arrivato sei stata tu. Tu sei stata la persona che mi ha salvato, sia fuori sia dentro. Senza di te ora io non ci sarei più e questo lo sai bene. Senza di te ora io sarei già da mio fratello, senza di te ora io ero già saltata da quel cavolo di cornicione, ma forse quello non era il mio destino. Forse io non dovevo morire così, dovevo conoscerti prima. Quel maledetto giorno è ancora nei miei ricordi, non riesco a cancellarlo. Quel giorno in cui ho tentato...Ho tentato il suicidio. E' li che ci siamo conosciute, ricordi? Tu mi odiavi, ma sei venuta a urlare di scendere dal tetto della scuola. Forse io pensavo che tu mi odiassi, ma tu lo volevi solo far vedere e nascondevi tutto dentro. Bè, certo, nessuno voleva essere l'amica della secchiona e della sfigata, no? E io non so neanche perché sono scesa da quel tetto ascoltandoti, forse perché ho visto qualcosa nei tuoi occhi. Da quel giorno siamo diventate inseparabili e ora... Ora sei su un letto d'ospedale, in coma e io non posso accettarlo. Mi ero promessa che nessuno ti avrebbe mai toccato, mai fatto del male. Scusa se non ti ho salvato anch’io, ma la cosa che mi dispiace di più è che ci sei finita per colpa di quattro ragazzi ricchi e richiesti da tutti. Bè, tu li amavi, me lo hai sempre detto e ora saresti super contenta di essere nella stessa stanza con Bill Kaulitz, ma non così. Ora ti prometto che farò di tutto per scoprire chi è quello stronzo che ha sparato e se potessi farei di tutto per riaverti sorridente come prima. Ti prometto che farò di tutto, ma tu promettimi che non morirai... ti prego, resisti."

Ormai non se ne fregavo più delle lacrime, dei singhiozzi e delle scosse che emanavo. Fissavo il volto di Viola ed ero nei miei ricordi con lei.

Ero così chiusa in me stessa che non sentii nemmeno la porta aprirsi. Capii che c'era qualcuno nella camera quando sentii i suoi respiri. Sembravano... spaventati.
Mi girai e Tom era lì, in piedi vicino alla porta ancora con la mano sulla maniglia.

"Ashley... Che cosa ti è successo?"

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Capitolo 8
*** Ti va di raccontarmelo? ***



VIII: Ti va di raccontarmelo?
 

Restai immobile a guardarlo. Aveva sentito tutto, tutta la mia fottuta vita con Viola.

E io mi vergognavo.

Non l'avevo mai e poi mai detto a nessuno, era il nostro segreto e ora un ragazzo che stava per violentarmi sapeva tutto.
Tirai su con il naso per rompere quel silenzio devastante. I suoi occhi mi facevano quasi paura. Erano così tetri, circondati da quella pieghetta formatasi dalla mancanza di riposo.

Mi alzai di scatto dalla sedia e corsi verso la porta, vicino a lui sperando di uscire da quella stanza d'ospedale senza che lui mi fermasse. Ma sapevo che non era possibile.

Quando arrivai vicino all'uscita, Tom mi prese dalle spalle facendomi fermare di colpo. Mi fece girare verso di lui e io scoppiai a piangere ancora più forte di prima.

"Ashley!", Tom quasi urlava il mio nome per farmi tranquillizzare.

Mi scuoteva come se volesse far uscire tutte le mie lacrime che avevo dentro e farmi cascare a terra esausta. E infatti stavo arrivando all'apice. Non ne potevo più.

Un urlo straziante uscì dalla mia bocca e fanculo all'ospedale.
Come un sacco di patate mi buttai su Tom, appoggiando la mia testa nel suo incavo del collo.

"Dovrei esserci io su quel cazzo di lettino... Dovrei esserci io su quel cazzo di lettino... ", ripetevo quella frase come per convincere me stessa.

Per convincermi che NON ero io lì, ma la mia migliore amica. Avevo il fiatone. Ad ogni pausa respiravo con grossi e pesanti respiri.
Tom mi cinse il bacino con le sue lunghe e muscolose braccia. Mi abbracciò. E subito mi tranquillizzai. Mi sentivo protetta.

Le mie mani si chiusero in due pugni. Con forza colpii il petto di Tom, ma ad ogni colpo la forza diminuiva, fino a che rimasi ferma a piangere, cercando di stringermi ancora di più a lui.

"Scu-scusami.", ansimai.
Lui mi strinse a sé, cercando di far combaciare i nostri corpi l'uno all'altro. Scosse la testa, senza rispondermi. Lentamente di avvicinò al mio orecchio. Sentivo i suoi respiri rimbombare nel mio cuore: erano affannosi come i miei.

"Ti va di raccontarmelo?", mi chiese con un tono di voce leggero, dolce.

Alzai lo sguardo e mi immersi nei suoi occhi luccicanti. Vidi la sincerità più pura. Il mio cuore impazzì, incominciò a battere forte.

Sì, gli avrei detto tutto.

Annuii lentamente e riabbassai subito lo sguardo. Non volevo sostenerlo ancora per molto.

Questa era la vera Ashley: timida e timorosa. Non quella prepotente e indifferente, no. Quella era solo una stupida maschera. Una stupida maschera che mi serviva per non vergognarmi di me stessa.

Sapevo che ora voleva stare da solo, con suo fratello. In questa stanza ora c'erano due cuori spezzati. Il mio e il suo, quindi gli avrei lasciato tutto il tempo per stare con Bill.

Mi staccai lentamente da lui e aprii la porta senza rialzare più lo sguardo, ma sapendo che il suo mi stava seguendo. Mi chiusi la porta dietro e mi andai a sedere sulla panchina di legno lì davanti. Mi rannicchiai, stringendo le gambe contro al petto e incavando la testa tra esse.
Chiusi gli occhi e lasciai che tutte le immagini della mia vita mi passassero davanti, accompagnate dalle lacrime che mi stavano bagnando i pantaloni.
La mia mente ritornò a quella notte. All'inizio di tutto.

Avevo solo sedici anni. Ero una stupida, ignorante adolescente. Non pensavo ad altro che alla scuola.

"Devi crearti il tuo futuro, cara Ashley. Devi studiare, studiare, studiare e studiare!", mi ripeteva sempre mia madre, un odiosa madre.

E io obbedivo, come una cagnolina.

Solo mio fratello mi capiva, solo con lui riuscivo ad essere realmente viva. Libera.
Quella notte stavo dormendo. Stavo sognando.
C'era una strada buia e una macchina. Una macchina nera. Quella di mio fratello.
E un furgone. Un furgone che andava contro mano. Andava veloce contro mio fratello, troppo veloce.
E...

"Aaaah!", tirai su la testa di colpo, notando le gocce di sudore che mi scendevano dalla fronte e il respiro pesante.

"Tranquilla... Sono io.", era Tom.
Solo ed esclusivamente Tom che mi aveva toccato la spalla. "Non volevo spaventarti."

Scossi la testa velocemente e iniziai a inspirare ed espirare lentamente. Stavo scoppiando, dovevo sfogarmi. Ora.

"Avevo una sola persona di cui mi potevo fidare tre anni fa: mio fratello. Era più grande di me, aveva 22 anni.", iniziai il mio racconto tremando. "Però, la notte di Halloween del 2007 lui... morì. Stava ritornando dalla discoteca con dei suoi amici, quando un furgone si scontrò contro la sua macchia. Non era colpa sua. Il furgone stava andando contro mano. Due sei suoi amici sono sopravvissuti, ma lui no. Non c'è l'ha fatta. Il giorno dopo la scoperta andai a scuola, ma come sempre tutti mi ignoravano, mi chiamavano secchiona o sfigata. Li avevo sempre ignorati, ma quel giorno no. Avevo il cuore diviso in due da un taglio profondo e non ne potevo più. Alla ricreazione buttai i libri di scuola per terra e corsi sul tetto della scuola. Volevo farla finita, volevo andare da mio fratello, vivere in pace. Quando arrivai vicino al margine una massa di ragazzi si accumulò davanti alla scuola, urlando di scendere e per la prima volta mi sentii al centro dell'attenzione. Ma non m’importava, ormai avevo scelto.", cercavo di trattenere i singhiozzi, ma alcune volte non ci riuscivo. Avevo paura di guardare il volto di Tom, quindi continuai. "Sapevo che c'era una sola persona che mi poteva far scendere da lì, ma sapevo anche che mai e poi mai sarebbe venuta. Invece mi sbagliavo. Viola, la ragazza più popolare della scuola, che non mi aveva mai degnata di uno sguardo, ma che sapeva che tra me e lei ci sarebbe stata una grande amicizia, mi venne a pregare di scendere. Me la ricordo come ora, con quel vestitino a scacchi e quegli stivali neri lunghi fino alle ginocchia, che si inginocchiò a terra con le lacrime agli occhi e una maschera di dolore negli occhi. E fu lì che il mio cuore perse un battito e decisi di scendere dal tetto. Continuando a vivere la mia vita al fianco di Viola."

Tirai su con il naso e mi decisi di guardare Tom. Mi immobilizzai. Occhi contro occhi.

Lo stesso dolore che c'era negli occhi di Viola quel maledetto giorno, ora erano nei suoi. Un brivido mi percorse la schiena e fu lì che Tom, senza dire niente, mi strinse a sé con tutta la forza che aveva dentro, ma anche con dolcezza.

Sapevo che queste erano le sue parole. Con un abbraccio voleva farmi capire tutto quello che stava provando lui in quel momento.

Un abbraccio, certe volte, è meglio di mille parole.

In quel momento fummo accecati da un flash. Ci staccammo velocemente per capire da dove provenisse, ma non ci volle molto per capirlo: il corridoio dell'ospedale si riempì di giornalisti e fotografi.

Luci.

Voci.

Telecamere.

Iniziai a vedere tutto bianco, non riuscivo più a vedere niente. Cercai Tom con lo sguardo e a malapena riuscii a distinguere il suo viso.
Mi alzai di scatto e iniziai a correre per il corridoio in preda al panico, non curante della voce di Tom che mi chiamava.
Entrai nel primo bagno che trovai, chiudendomi a chiave. Con la schiena scivolai sulla porta liscia, fino a toccare il pavimento freddo.
Chiusi gli occhi.

Mi lasciai andare.
Sentii due battiti leggeri sulla legno dietro di me.

"Ashley ti prego apri..."

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Capitolo 9
*** Al diavolo i paparazzi! ***


Come promesso, continuo a scrivere anche le FF che ho lasciato in sospeso. Spero esista ancora qualche ragazza che la leggeva prima e spero anche ci siano nuove lettrici ;) Lo so, dovrete leggere tutti gli altri capitoli, ma comunque spero vi piaccia!

xoxo, lex.

IX: Al diavolo i paparazzi!

Al diavolo i paparazzi. Al diavolo i flash, i microfoni, le telecamere. Al diavolo tutto!

In quei pochi giorni niente andava per il verso giusto. Finalmente Ashley stava per raccontarmi tutta la sua terribile storia, stava per liberarsi di un grosso fardello dalla coscienza ed io la stavo aiutando.

Ma niente, sono arrivati i paparazzi a rovinare tutto. 
E' nei momenti come questo che non vorrei essere famoso. Vorrei essere un normale ragazzo di 21 anni che aiuta una ragazza che ha bisogno di lui.

Non capivo perché Ashley fosse corsa via e si fosse chiusa in bagno, ma qualche idea ce l'avevo. Se io fossi stato in lei, avrei fatto la stessa cosa. Sicuramente si era presa paura; era in un momento assai delicato.

E poi, chi non ha paura di una mandria inferocita di paparazzi? Alcune volte anch'io l'avevo. Soprattutto quando non ero dell'umore giusto. Come in questo momento.

Toc, toc. Bussai per l'ultima volta su quel pezzo di legno bianco e liscio.

"Ash...", sussurrai, senza nemmeno riuscire a pronunciare il suo nome interamente.

Non avevo più forze e soprattutto non ne potevo più delle voci troppo alte e delle luci troppo accecanti che erano dietro di me. Anzi, appiccicate a me.

Come per tutti gli altri 100 tentativi, non ricevetti nessuna risposta. Appoggiai la fronte su quella superficie fredda e respirai a fondo.

"Ashley, se mi senti, rimani lì dentro finché non te lo dico io.", dissi, sperando con tutto me stesso che mi sentisse.

Se volevo aiutarla, dovevo eliminare il problema. Non avrebbe mai aperto quella porta finché ci fosse stata tutta quella gente. Sarebbe rimasta chiusa lì ed io da fuori non potevo consolarla, non potevo asciugarle le lacrime, non potevo fare niente.

Dovevo affrontare la mandria inferocita.

Mi girai di scatto e mi allontanai dal bagno, andando nella hall dell'ospedale. Come prima cosa mandai un messaggio a David, chiedendo cosa dovessi fare. Non mi era mai capitato di affrontare una cosa del genere da solo. Seconda cosa... bè, iniziai a parlare.
Il problema era: a quale delle tante domande dovevo rispondere per primo? Erano migliaia, quelle che riuscivo a capire erano: cos'è successo alla libreria? Chi è la ragazza con cui era? Dov'è Bill Kaulitz? Sta bene? Cosa vuole dire alle fans? Dove sono Georg e Gustav? Come si sente lei?
E via dicendo.

Ne scelsi una a caso, ma, prima di rispondere, dovevo calmare le acque, farli tacere almeno un po'.

"Risponderò alle vostre domande solo se vi tenete a distanza e ne chiedete una alla volta.", quasi gridai per farmi sentire.

Di colpo tutti tacquero e si allontanarono di alcuni metri da me. Ora andava molto meglio, ma la testa pulsava lo stesso.

"Signor Kaulitz, come sta suo fratello?", mi chiede una giornalista della RTL, avvicinando il microfono. 
Era una donna minuta, sulla quarantina circa, con capelli a caschetto rossi. Sul suo volto c'era un accenno di sorriso.
Chiusi gli occhi per alcuni secondi prima di parlare, faceva ancora male.

"Mio fratello, Bill, è stato colpito da un proiettile quando eravamo alla libreria, a fare una Signing Session."

"Abbiamo saputo che è coinvolta anche una vostra fan, è vero?", mi chiese la stessa donna.

"Si, è vero.", il cellulare che avevo in tasca vibrò e lo tirai fuori per leggere il messaggio.

- Tienili occupati, arrivo subito con alcuni Bodyguard, Georg e Gustav. Non dire molti dettagli dell'accaduto. David. -

Sbuffai e rimisi il cellulare al suo posto. Speravo arrivassero presto, non ne potevo già più. Volevo andare da mio fratello, da Ashley.

"Come si chiama la fan?", chiese un giornalista alto e bruno.

"Come stanno?", chiese un altro più vecchio.

Mi spalmai una mano in faccia.

"Una domanda alla volta ho detto. La fan si chiama Viola, credo. Ed entrambi...", mi fermai qualche secondo a guardare il vuoto. "...sono in coma."

I paparazzi ricominciarono a parlare tutti contemporaneamente e io non capii più niente. Lo scoop era arrivato: Bill Kaulitz in coma. Non se ne potevano andare ora?

"B-basta. Ora vorrei rilassarmi un po'. Sono stanco.", cercai di finire l'intervista, ma ovviamente non ci riuscii.

Tutti continuavano a farmi domande, come se io fossi la bocca della verità. All'improvviso una mano mi afferrò il braccio e mi trascinò via dalla massa di persone.
Per fortuna era arrivato David. Con la punta dell'occhio vidi i bodyguards che impedivano i paparazzi di seguirci. David mi portò in una stanza vuota dell'ospedale. C'erano anche Georg e Gustav. Le loro facce erano letteralmente sconvolte e addolorate. Avranno saputo anche loro del coma.

Finalmente David mi lasciò il braccio e il silenzio regnò nella stanza.

"Grazie David, non ne potevo più. Ho la testa che mi scoppia.", dissi, strofinandomi le tempie con le mani.

"Dovevi dirmi che venivi in ospedale. Ti chiamavo le guardie. Con chi sei venuto?"

"Sono venuto con...", mi immobilizzai. "...Ashley!"

Senza dire niente corsi fuori dalla stanza e ritornai davanti alla porta del bagno delle femmine.
Bussai. "Ashley, sono Tom. Puoi aprire ora... se ne sono andati."

 

***

 

Non potevo aprire quella porta. Non volevo. Tutte quelle luci mi avevano ricordato quel fottuto sogno, quella notte. E io non volevo riviverlo di nuovo.

Mi strinsi le ginocchia al petto e appoggiai la fronte su di esse. Le lacrime non finivano mai di scorrere sulle mie guance.

Toc toc. Tom bussò per la centesima volta. Ma non capiva che non sarei uscita se i paparazzi non fossero andati via?

"Ashley, se mi senti, rimani lì dentro finché non te lo dico io.", sentii a malapena la sua voce, ma obbedii.

Non mi mossi, neanche quando sentii le voci affievolirsi e scomparire del tutto. Mi dondolavo su me stessa per cercare di calmarmi, ma non ci riuscivo.
Non so quanto tempo passò, ma sentii di nuovo bussare alla porta. Alzai di colpo la testa, sperando che fosse Tom.

"Ashley, sono Tom. Puoi aprire ora... se ne sono andati."

Feci due respiri profondi, mi spostai a lato della porta e allungai la mano per aprirla senza alzarmi. Quando lo vidi, con le sue treccine lunghe e i suoi vestiti larghi, ricominciai a piangere. Non so il perché. Forse perché ora mi sentivo nuda davanti a lui, perché sapeva tutto. Oppure perché mi volevo scusare per quello che avevo fatto.

Lui, vedendomi ancora più disperata, velocemente entrò, chiuse la porta a chiave e si sedette vicino a me.

"Ehi, ehi... Non piangere.", sussurrò, prendendomi tra le braccia. "E' finito. Se ne sono andati."

Perché piangevo così? Non l'avevo mai fatto prima d'ora. Non avevo mai avuto così tante crisi di pianto in pochi giorni. Mi strinsi di più a lui, cercando di respirare lentamente e calmarmi.

Lui non disse più niente, mi accarezzava solo i capelli con la mano. Il silenzio era rotto solo dai miei singhiozzi. Chiusi gli occhi, appoggiai la testa nell'incavo del suo collo e mi lasciai andare.

I minuti passarono, e finalmente riuscii a ritornare normale. Ora respiravo regolarmente, il mio cuore pulsava lento e i miei occhi erano ritornati asciutti.
Alzai la testa per guardarlo negli occhi.

"Grazie...", sussurrai.

Un sorriso sincero nacque sulle sue labbra carnose.

E il cellulare si mise a squillare.

Mi alzai di scatto, lo tirai fuori dalla tasca dei jeans e guardai lo schermo: era la mamma di Viola.
Oh, merda.

"E' la mamma di Viola. Che cosa le dico?", la mia voce era malferma.

Anche Tom si alzò e iniziò a camminare nel bagno notevolmente preoccupato.

"Non lo so... la verità?"

Inspirai lentamente, buttai fuori tutta l'aria e premetti il tasto verde.

"Pronto?"

"Ashley, Viola non risponde al telefono, voi non tornate, è successo qualcosa? Perché mi hai chiamato? Viola è con te? Sta bene?", la voce preoccupata della madre di Viola mi invase e io rimasi in silenzio.

Daisy non era affatto come mia madre. Lei era una madre super affettuosa, premurosa e protettiva. Insomma, era una madre come quella dei film, perfetta. La mia invece era l’esatto contrario.

"Daisy, è seduta? Perché le devo dire una cosa..."

"S-si... Ora sono seduta. Cosa vi è successo?", ora sembrava ancora più preoccupata.

"E' successo un'incidente...", non riuscii neanche a finire la frase.

"Un incidente?!? Oddio, Viola sta bene? E' morta? Dove siete che vi raggiungo subito?", ora sì che era il ritratto del terrore.

"Daisy... Bè, si... E' meglio che lei venga qui.", non sapevo cosa dire, come dirlo. "E' meglio se ne parliamo di persona. Siamo all'ospedale Tabea di Amburgo."

Silenzio. Dall'altra parte del telefono non volava nemmeno una mosca. Credevo che la parola 'ospedale' ne fosse la causa.

"Arrivo.", furono le uniche parole che disse prima di riagganciare.

Rimasi immobile per alcuni secondi che sembrarono minuti. Fu Tom a riportarmi alla realtà.

"Allora?", mi chiese, avvicinandosi.
Lo guardai con due palle da bowling al posto degli occhi.

"Sta arrivando."

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Capitolo 10
*** Ti prego, torna presto. ***


X: Ti prego, torna presto.


 “Lei è Ashley.”, Tom mi presentò alle tre persone che erano davanti a me.

Ed io, ovviamente, non avevo la minima idea di chi fossero. Non li avevo mai visti in vita mia, ma avevo l’impressone che se Viola ora fosse stata al mio posto, sarebbe già svenuta.

Sbucai da dietro la schiena di Tom, la quale era stata il mio nascondiglio per tutto il tragitto dal bagno a quella stanza d’ospedale. Sventolai la mano in aria, per salutare tutti i presenti.

“Ehm… Piacere.”, dissi imbarazzata e senza alcun entusiasmo nella voce.

Esaminai i due ragazzi e l’uomo che avevo difronte. C’era un ragazzo seduto su una sedia alla mia destra che aveva dei capelli castani perfetti per una pubblicità di una piastra lisciante, l’altro ragazzo invece aveva capelli corti biondi ed era il più robusto dei tre. Quest’ultimo era in piedi a braccia conserte vicino all’uomo, che era abbastanza basso ed aveva capelli e barba castani chiari.

“Sei l’amica della ragazza in coma?”, mi chiese il più vecchio dei tre.

Allora era così? Il mio nuovo nome era ‘l’amica della ragazza in coma insieme al cantante Bill Kaulitz’? Speravo vivamente di no.

“Sì.”, risposi semplicemente.

Ormai non ne potevo più di quella situazione, ed erano passati solo tre giorni.

“Mi dispiace davvero…”, chi aveva parlato aveva una voce molto bassa, ma dolce.

Cercai con gli occhi il proprietario e scoprii che apparteneva al ragazzo muscoloso.

“G-grazie…”

“Siete dei veri maleducati ragazzi!”, mi girai subito verso Tom. “Non vi siete neanche presentati!”

“Perché? Non è una nostra fan?”, chiese stupito quello con i capelli da invidiare.

Abbassai lo sguardo verso i miei anfibi neri quando sentii il calore invadermi le guance.

“No!”, rispose Tom con una faccia divertita.

“E allora perché eri alla nostra Signing Session?”, continuò l’altro.

Alzai automaticamente gli occhi al cielo e Tom rise: stavamo pensando entrambi alla seconda nostra conversazione.

“Ho solo accompagnato Viola, che è pazza di voi!”

“Allora perdonaci…”, disse l’uomo, avvicinandosi a me e porgendomi la mano. “Io sono David Jost, il manager dei Tokio Hotel.”

Strinsi la mano con poca forza, ero veramente esausta. Che ore erano? Non lo sapevo, ma era sicuramente già sera. E quel giorno era stato lungo e troppo pieno di tristezza.

“Io sono Gustav, il batterista.”, annunciò il ragazzo robusto, allungando anche lui la mano.

“E io sono Georg, il bassista…”, disse quello seduto, sorridendomi e salutandomi. “Piacere.”

“Il piacere è mio!”, ricambiai il sorriso.

Dopo tutte le presentazioni, tutti rimanemmo in silenzio senza sapere cosa dire. Io guardai Tom, che era la persona che conoscevo di più dei quattro e alzai un sopracciglio come per chiedergli silenziosamente di dire qualcosa. Ma David lo precedette.

“Allora, Tom, hai avuto delle notizie dai medici su Bill?”

Entrambi sospirammo e notai che i suoi compagni di band abbassarono lo sguardo quando nominò Bill. Tom aprì varie volte la bocca per dire qualcosa, ma non uscì niente. Decisi così di aiutarlo.  Lo capivo. Capivo come ci si sentiva.

“No. I medici ci hanno solo detto che sono in coma. Non ci hanno dato altre spiegazioni. Oggi in realtà non ci hanno detto niente di niente.”, dissi alzando le spalle.

Jost si strofinò la fronte con la mano destra.

“Che brutta situazione. Davvero brutta. Speriamo si riprenda… Si riprendano presto.”, sembra parlasse con se stesso, poiché aveva chiuso gli occhi.

“Come facciamo con il tour e tutto?”, chiese Georg.

“Cosa vuoi fare? Eh? Fare un provino per cercare un nuovo cantante?”, saltò su Tom, con un tono serio. “Stupido che non sei altro!”

Percepivo già la sua rabbia. Mi girai verso di lui e appoggiai le mie mani sulle sue spalle per far si che mi guardasse negli occhi.

“Rilassati. Non ti arrabbiare.”, sussurrai.

“Ora, visto che non sono argomenti che m’interessano, se non vi dispiace mi metto in disparte per non impicciarmi nei vostri discorsi da superstar.”

Detto questo, girai i tacchi e mi andai a sdraiare sul letto vicino alla porta della stanza.

“Però non ti addormentare eh, che poi ti lascio qui.”, mi disse Tom.

“Mmh-mmh”, annuii, ma in realtà non lo sentii con chiarezza, perché, appena appoggiai la testa sul cuscino mi lasciai andare e mi addormentai come un sasso.

 

***

 

Come non detto. Ashley si era beatamente addormentata su quel letto d’ospedale completamente bianco e lei, con il suo vestito nero, gli anfibi neri e i capelli lunghi neri sembrava un angelo nero che sognava felicemente.

E io sembravo uno stupido che si era imbambolato vicino al letto non sapendo cosa fare.

Georg, Gustav e David se n’erano andati da circa cinque minuti, e la notte era calata su Amburgo. Avevamo parlato e discusso per quasi due ore, arrivando alla conclusione che Ashley ed io avremmo avuto ogni giorno un bodyguard al nostro fianco, che ogni giorno saremmo stati all’ospedale e che avremmo lasciato lavorare la polizia sul caso senza intrometterci. Su quest’ultimo punto io mi ero opposto, ma alla fine avevo perso.

Questo però non voleva dire che avrei seguito le regole.

Incrociai le braccia al petto pensando alle opzioni che avevo: potevo veramente lasciare Ashley su quel letto e tornarmene a casa oppure potevo svegliarla. No, non volevo farlo. Era la prima volta che la vedevo sorridere.

Senza pensarci due volte mi avvicinai lentamente a lei, misi un braccio sotto la schiena e l’altra sotto le gambe e la presi in braccio, cercano di non svegliarla.

Mi immobilizzai quando si mosse tra le mie braccia.

‘Non svegliarti, non svegliarti, ti prego.’, pensai.

E per fortuna non lo fece: girò solo la testa e l’appoggiò sul mio petto insieme alla mano sinistra. Sospirai e uscii dalla stanza. Camminai per i corridoi deserti per poi uscire dall’ospedale. Quando fummo all’aria aperta, sentii Ashley tremare tra le mie braccia. Era già primavera inoltrata, ma comunque la notte era abbastanza fresco. E lei era a maniche corte. La strinsi ancora di più a me, nel tentativo di riscaldarla e aumentai il passo. Arrivai alla macchina, cercai molto goffamente di stenderla sui sedili posteriori dell’Audi Q7 di  mio fratello e guidai fino a casa.

 

***

 

Quella sera avevo scoperto una nuova cosa su Ashley: quando dormiva poteva arrivare anche un terremoto che lei avrebbe continuato a dormire. Seriamente. Per tutto il tragitto non si era nemmeno mossa, e non si era svegliata neanche quando l’avevo portata su per le scale e l’avevo messa sotto le coperte nella camera degli ospiti. Incredibile.

Involontariamente mi ritrovai ad accarezzarle la guancia. Era così morbida.

‘Tom? Che ti sta succedendo?’, mi chiesi mentalmente.

Non avevo ancora una risposta per quella domanda.

Facendo molta attenzione uscii dalla stanza spegnendo la luce e mi preparai per andare a letto.  Quando mi sdraiai sotto le coperte, la stanchezza che avevo in corpo si fece sentire.

Mamma mia, che giornata intensa. Per la prima volta dopo il tragico evento avevo visto Bill, avevo scoperto la storia di Ashley e avevo affrontato la mandria di paparazzi.

Ma la cosa più importante era che solo adesso mi ero reso conto della realtà. Ora avevo la consapevolezza che mio fratello era su un letto d’ospedale, attaccato a delle macchine, perché era in coma.

Mio fratello era in coma per uno stronzo che aveva sparato per chissà quale motivo.

Chiusi gli occhi e gli strinsi con tutte le mie forze.

Una lacrima mi rigò il viso.

Mi girai di scatto prono e schiacciai il viso nel cuscino.

“ Ti prego, fratellino, torna presto.”

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Capitolo 11
*** Sei un idiota. ***


Scusate per l'enorme ritado, ma in queste ultime settimane la scuola mi ha letteralmente uccisa.
Spero che questo capitolo vi piaccia, buona lettura.
xoxo, lex.

 

XI: Sei un idiota.


La luce del sole proveniente dalla finestra mi stava dando i nervi.

Evidentemente la sera prima mi ero scordata di chiudere gli scuri, maledizione! Avevo ancora sonno, non ero ancora pronta ad aprire gli occhi, alzarmi e trascorrere un'altra giornata. Li strinsi più che potei per rituffarmi di nuovo nel bellissimo sogno di pochi minuti prima. Ma niente, il calore solare mi pizzicava la faccia.

Con un grugnito presi il cuscino alla mia destra e me lo schiacciai sul volto. Feci passare alcuni secondi, ma non c'era niente da fare: ormai ero assolutamente e completamente sveglia.

Sbuffai rumorosamente, buttai per terra il cuscino e mi misi a sedere sul letto. Mi stropicciai con movimenti circolari entrambi gli occhi e mi stiracchiai tutta. Lenta come un bradipo mi alzai e feci per uscire dalla stanza, ma la mia immagine riflessa nello specchio a lato della porta mi fece immobilizzare.

Ero un mostro. Un mostro che aveva dormito vestito.

L'abito nero di pizzo era tutto sgualcito, le collane che avevo al collo erano annodate tra loro e gli anfibi... Non c'erano. Mi girai su me stessa e li trovai buttati vicino al letto matrimoniale. Mi concentrai di nuovo sul mio riflesso, avvicinandomi vicino al pezzo di vetro.

Non potevo credere che quella fosse la mia faccia!

Al posto dei capelli avevo un nido di vespe e sembravo un vero e proprio panda: avevo tutto il contorno occhi completamente nero.

Okay, ora volevo sapere cose era successo ieri sera.

Cercai di ricordare, ma la mia memoria finiva quando mi sdraiavo sul letto all'ospedale. Velocemente afferrai la maniglia laccata d'oro della porta e uscii dalla stanza. Guardai sia a destra che a sinistra per vedere se Tom era nelle vicinanze e, non vedendo nessuno, camminai verso il bagno, che si trovava proprio alla fine del corridoio. Quando passai davanti alla camera di Tom, non riuscii a non fermarmi. C'era la porta socchiusa e non si sentiva alcun rumore all'interno. Neanche il tempo per pensare, che mi ritrovai a spingere leggermente la porta uguale a quella della mia camera. Silenziosamente si aprì e io rimasi imbambolata a guardare quel ragazzo che era avvolto tra le lenzuola bianche nel letto al centro della stanza. Tom era rannicchiato nella posizione fetale, con la mano vicino a quelle labbra carnose. Le treccine nere circondavano quel volto così spensierato facendolo sembrare molto più luminoso. Sorrisi tra me e me e richiusi cautamente la porta. Mi chiusi in bagno e mi guardai allo specchio, sospirando.

Cosa mi stava succedendo? Perché il mio cuore stava battendo così forte? Perché i miei occhi blu stavano luccicando proprio in quel momento?

'Te l'ho detto, ti stai innamorando.', disse quel maledetto angoletto sulla mia spalla.

Scossi velocemente la testa, per negare tutto. "Non è vero. L'amore non esiste."

'Certo, continua così e ti autoconvincerai.'

Aprii velocemente il rubinetto del lavandino davanti a me e mi lavai la faccia con acqua gelida. Mi lavai i denti e mi guardai. Presi in mano il pettine e cercai di domare quella chioma nera, ma il pettine rimase impigliato. Basta. Mi spogliai e andai sotto la doccia. Era il modo migliore per ritornare fresca e pulita. Aprii l'acqua calda e mi misi sotto il getto. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare al miliardo di pensieri che invadevano la mia mente.

 

***

 

"Buongiorno."

Quando aprii la porta del bagno avvolta solo da un asciugamano turchese, mi ritrovai davanti a Tom.

Immediatamente diventai rossa come un peperone. " 'Giorno."

I suoi occhi, prima socchiusi a causa del sonno, si spalancarono di colpo quando mi squadrò dalla testa ai piedi. Quando tornò a concentrarsi sul mio viso, un sorriso sghembo nacque sulle sue labbra.

“Non farti troppe illusioni, Kaulitz.”, dissi, prima di ritornare nella camera degli ospiti.

Sinceramente non sapevo da dove fosse arrivato quel coraggio, però mi piaceva: la faccia che aveva fatto Tom era inspiegabile.  Era rimasto senza parole e sbigottito. Risi tra me e presi un paio di leggins rossi e una maglia larga bianca dalla valigia che non avevo ancora disfatto e si trovava ancora ai piedi del letto.

Quando mi fui vestita, truccata e pettinata, scesi in cucina per prepararmi un caffè.

Quando mi avvicinai alla macchina del caffè, però, Tom mi fermò.

“Non ci pensare neanche. Siamo in ritardo.”, disse prendendomi per un braccio e trascinandomi verso la porta. “Passeremo da una caffetteria prima di andare all’ospedale.”

Io lo guardai con le sopracciglia corrugate, mentre uscivamo di casa. “In ritardo per cosa, scusa?”

“Avevo detto a David che ci saremmo trovati alle dieci in ospedale. Siamo già in ritardo di mezz’ora.”

Detto questo, salii in macchina e io lo seguii. “Sono già le dieci e mezza?!?!?”, chiesi, sbattendo la portiera.

Come risposta, mi guardò e rise. “Bè, questo vuol dire che hai dormito bene stanotte, suppongo.”

“In effetti sì… Ma non capisco perché ero vestita.”, lo guardai e il suo sorriso si allargò.

Lo capii da come mi guardò. No. Non poteva essere. Girai involontariamente il capo verso il finestrino e per pochi secondi guardai il mondo fuori correre, per poi tornare a guardarlo mentre guidava concentrato. “Non mi dire che mi hai portato te a casa… e mi hai messo a letto.”

Dalla sua bocca uscì un risolino. “In realtà è andata in un altro modo: ti ho portata a letto.”

Ci misi un po’ di tempo per capire il doppio senso. Quando lo compresi, tirai un pugno sulla spalla di Tom.

“Stupido che non sei altro!”, esclamai, per poi iniziare a ridere con lui.

Tom parcheggiò in doppia fila davanti ad uno Starbucks. “Per te cosa prendo?”

“Un cappuccino, grazie.”, dissi, sorridendo.

Lui annuì e scese dalla macchina. Lo seguii con lo sguardo finché non svanì dentro alla caffetteria.

Mentre aspettavo il suo ritorno, mi guardai un po’ in giro e notai che, vicino allo Starbucks, c’era un chiosco che vendeva i giornali. Intorno ad esso c’era un filo dove il giornalaio stava appendendo tutte le notizie più importanti. Misi a fuoco per leggere i titoli.

Diventai di ghiaccio quando lessi quello che stava attaccando proprio in quel momento.

“BILL KAULITZ E UNA FAN IN COMA.”

Il sangue mi si gelò nelle vene. Saltai sul sedile quando Tom chiuse la portiera.

“Cos’è successo?”, mi chiese, notando i miei occhi strabuzzati.

Mi porse il cartone con i nostri caffè. Li presi e li misi sulle mie gambe. “Ehm…”

Non sapevo come dirlo, quindi indicai il giornale. Quando anche Tom lo vide, mise subito in moto la macchina e pigiò il piede sull’acceleratore. Senza dire niente, guidò troppo velocemente verso quell’edificio bianco, che, purtroppo, in quei giorni era come una seconda casa per noi.

 

***

“Tom Kaulitz, ti avevo detto pochi dettagli!”, urlò David quando scendemmo dalla macchina davanti all’ospedale.

Stava sventolando il giornale in aria ed era notevolmente paonazzo.

“Secondo te dire ai paparazzi che tuo fratello è in coma equivale a pochi dettagli?!?”

“David. Lo so, ma…”, Tom cercò di spiegare, ma David non glielo permise.

“Ma cosa??? Non ci sono scuse, Kaulitz! Sei un’idiota!”

Vedendo che anche Tom stava iniziando ad arrabbiarsi, cercai di calmare la situazione. “Ehi, ehi, non c’è motivo di offendere! Sono sicura che c’è una motivazione valida. Ora entriamo, che sennò finirete per dare altri scoop ai paparazzi.”

I due mi guardarono senza capire e io indicai due paparazzi appostati dietro ad una siepe non molto lontano da dove eravamo noi. Quando li vide, David fece qualche respiro profondo e abbassò la mano ancora in aria.

“Hai ragione, andiamo dentro.”, disse, con un tono di voce completamente diverso.

Si girò e iniziò a camminare verso l’entrata. Io mi avvicinai a Tom.

“Grazie.”, mi disse, prima di incamminarsi anche lui.

Lo seguii. “No. Grazie a te per avermi portato a casa ieri sera.”

Tom si girò verso di me e mi regalò un sorriso accecante.

Ormai la strada la sapevamo: secondo piano, lato destro, camera 88.

Quando entrammo nella stanza, però, ci immobilizzammo tutti e tre.

Rimanemmo tutti a bocca aperta, senza parole.

“Ciao, Ashley.”, disse Daisy.

“Ciao, tesoro.”, disse l’altra donna vicino al letto di Bill.

Guardai Tom. “Ciao, mamma.”, rispose. 

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Capitolo 12
*** Codice rosso. ***



XII: Codice rosso.


Ormai erano passati molti minuti da quando i miei occhi si erano immobilizzati sulla schiena di Tom, coperta da una maglia verde smeraldo, ovviamente più grande di molte taglie. Contavo quante volte stava tremando, facendo alzare le spalle a causa dei singhiozzi dovuti al pianto. La sua testa era appoggiata alla spalla destra della madre, che lo stava abbracciando forte a sé.

Credo che quel momento non me lo scorderò mai. Dalla prima volta che l’avevo visto, Tom mi era sembrato una delle persone più forti e apatiche di questo mondo, soprattutto dal punto di vista della tristezza. Quando eravamo insieme sull’ambulanza, appena dopo l’omicidio, io piangevo come una disperata e lui no. Quando i medici ci hanno informato che Bill e Viola erano in coma, io sono scoppiata a piangere come una scema, lui invece era rimasto impassibile. Ma, quando ha visto sua madre Simone vicino al capezzale del suo gemello, che gli teneva la fragile mano con gli occhi lucidi, è corso immediatamente da lei buttandosi letteralmente tra le sue braccia e sfogandosi del tutto, lasciando libere quelle lacrime che erano rimaste dentro di lui per tutto quel tempo. Il silenzio tombale della stanza era rotto dai singhiozzi di Tom e dalla madre che lo tranquillizzava,accarezzandogli la schiena dolcemente. Simone era più bassa di suo figlio di qualche centimetro, aveva lunghi capelli neri lisci e i tratti del viso molto decisi, ma sempre di una bellezza straordinaria: si vedeva proprio da chi avevano preso i gemelli Kaulitz.

“Tesoro, calmati ora.”, la sua voce era sottile ma decisa. “E’ tutto a posto, ci sono io con te.”

Quelle parole mi fecero venire la pelle d’oca e le lacrime agli occhi. Mia madre non era affatto così, era esattamente il contarlo. Non mi aveva mai consolato in quella maniera, non mi aveva mai detto parole così profonde. Mia madre non mi capiva mai. Le uniche persone che lo facevano erano due: uno è morto e l’altra era su un letto d’ospedale, in coma.

Abbassai immediatamente lo sguardo, fissandolo sulle mattonelle consumate color avorio, che ormai mi davano il voltastomaco. Non volevo che mi vedessero di nuovo piangere. Sentii il tocco caldo di una mano sulla mia schiena che andava su e giù come quella di Simone sulla schiena del rasta. Alzai subito la testa e scoprii che era Daisy, la madre di Viola. Non mi disse niente, mi sorrise solo e, dai suoi occhi rossi capii che anche lei aveva pianto. Dovevo scusarmi con lei, alla fine era anche un po’ a causa mia se sua figlia non era a casa sana e salva.

“Mi…”, cercai di dirlo, ma in quel momento di era difficile dire qualsiasi cosa. “Mi dispiace.”

“Non dire così.”, mi rispose, scuotendo la testa. “Non è affatto colpa tua se Viola è in…”

Non riuscì a finire la frase, a dire quella parola. Io annuii, per farle intendere che avevo capito. Daisy mi guardò, cercò di sorridermi e si asciugò una lacrima ribelle che stava scendendo sulla sua guancia. Osservai il suo volto e mi venne il groppo in gola: ogni volta che la guardavo mi veniva in mente Viola, poiché erano come due gocce d’acqua. Avevano gli stessi capelli dorati, gli stessi occhi verde e perfino lo stesso neo sulla guancia sinistra. Era come se davanti a me ci fosse la mia migliore amica invecchiata di vent’anni. E questo mi rattristò ancora di più: ora come ora non sapevo se avrei mai visto Viola invecchiare, sposarsi o avere figli. Poteva anche non risvegliarsi mai più.

Lentamente camminai vicino al suo letto, mi avvicinai al cuscino, scavalcando la sedia dove era seduto David al centro dei due letti e scostai un ciuffo di capelli che non mi permetteva di vederla bene. Il suo volto era così pacifico, come se stesse sognando qualcosa di meraviglioso. Il suo mezzo sorriso era così contagioso che mi ritrovai a sorriderle a mia volta.

“Vedrai che si riprenderà.”, Daisy si era seduta dall’altra parte. “E’ una ragazza in gamba. E’ sempre stata forte.”

“Lo so…”, sospirai. “Lo so.”

“Mamma, come fai a non piangere?”

Mi girai a guardare Tom ancora di spalle, che questa volta non erano piegate verso Simone, ma si era staccato dall’abbraccio materno per guardarla negli occhi neri come la pece.

“Figlio mio, ho già pianto abbastanza.”, disse, regalandogli un sorriso rassicurante.

Quella donna mi stava già simpatica e mi sembrava a prima vista un modello da seguire: era così sicura di sé e piena d’affetto per le persone che amava. In quel momento capii che da grande volevo essere come lei.

“Mi manca, mamma. Mi sento così solo.”

A quelle parole annullai quasi tutta la distanza che ci separava e inchiodai il miei occhi nei suoi, incrociando le braccia al petto.

“Tom, tu non sei affatto da solo.”, lui abbassò la testa, ma io gli sollevai subito il mento con la mano. “Tom, ti prego, guardami.”

Ora sentivo tutti gli occhi concentrati su di noi, ma io non mi lasciai prendere dall’imbarazzo e continuai per la mia strada.

“Ci sono io con te. Ci sono sempre stata dall’inizio di questa storia assurda!”, altre lacrime scesero pazze sul suo volto delicato. Non sopportavo più quelle dannate gocce; stonavano troppo con i suoi lineamenti quasi angelici. Allungai le mie mani tremanti verso di lui e le asciugai freneticamente. Pensavo mi fermasse, invece mi sbagliavo. Mi guardò sorpreso e notai nei suoi occhi nocciola una scintilla nuova. La sua pelle era liscia come porcellana e senza alcuna imperfezione.

“Ti prego, non dire mai più che ti senti solo, perché mi fai stare male.”, parlavo velocemente a causa del nervosismo. “Sai che usciremo da questa situazione insieme. Ce la faremo, vedrai.”

Non so perché lo feci, ma automaticamente lo strinsi a me con tutta la forza che avevo in corpo. Appoggiai la testa sul suo petto e chiusi gli occhi. Sentivo il calore emanato dal suo corpo e i battiti accelerati del cuore che rimbombavano nella cassa toracica. Per alcuni secondi lo sentii irrigidirsi per lo stupore, ma poi si rilassò e percepii le sue braccia lunghe e muscolose abbracciarmi la vita e appoggiare il suo capo sulla mia spalla. Dentro di me nacque un sentimento completamente nuovo per me: era come se il mio cuore avesse ceduto e si fosse aperto a lui. Sentivo i brividi sulle braccia e le farfalle nello stomaco.

Non volevo crederci, non potevo innamorarmi di lui!

“Grazie, Ashley.”, quando sentii la sua voce calda sussurrare nel mio orecchio, aprii gli occhi e mi allontanai da lui.

“Non c’è di che.”, risposi, facendo una mezza smorfia.

Ora regnava il silenzio. Tom si stava grattando i cornrows sotto la bandana nera con delle decorazioni bianche che gli copriva la fronte; Simone mi stava fissando con un sorriso accecante stampato in faccia; Daisy era ancora seduta vicino a sua figlia e David si stava strofinando le mani non sapendo cosa fare. Fu Tom, davanti a me, a romperlo.

“Come hai fatto a scoprirlo, mamma?”, chiese, guardando suo fratello respirare piano e vidi i suoi occhi spegnersi di tutta la luce che avevano.

“Mi ha chiamato David.”, disse indicandolo. “Ma anche se non l’avesse fatto, è scritto su tutti i giornali.”

“A proposito di giornali…”, saltò su il manager, appoggiandosi sullo schienale della sedia verde e sgranchendosi le gambe non molto lunghe. “Ti avevo detto di non dire molti dettagli ai paparazzi. Ora mi puoi spiegare cosa ti è passato per la mente.”

Guardai Tom, che lentamente deglutì e mi ricambiò lo guardo con molta intensità. Io andai a sedermi vicino al letto di Bill, poiché l’unica sedia libera era lì e non mi andava di spostarla. Da quella posizione riuscivo sentire il rumore della macchina che monitorava il battito regolare del cuore del cantante. Sospirai, pensando che quegli apparecchi li avevo sempre visti solo nei film. Mi accomodai meglio sul quel pezzo di legno vecchio, cercando di trovare una posizione comoda e iniziai ad ascoltare la conversazione.

“Lo so David, mi dispiace, ma era l’unico modo per far tacere quella mandria di bufali.”, affermò Tom con voce decisa.

“Farli tacere?! Ma sei impazzito o cosa? Così è come se avessi buttato un fiammifero sulla benzina!”, il suo tono di voce aumentò.

“Okay, okay, ho capito…”, disse, alzando entrambi le mani al cielo con i palmi rivolti all’esterno. “Mi dispiace, non avrei dovuto farlo. Contento?”

“No.”, rispose David duro. “Non ti devi scusare solo perché non vuoi litigare.”

“Sai com’è, David, ho solo un fratello gemello in coma!”, gridò arrabbiato. “Non voglio passare i miei giorni a litigare per delle cazzate, mentre Bill è in coma e c’è un assassino che gira per Amburgo!”

Anche dall’altra parte della stanza si riusciva a vedere la vena del collo ingrossata dallo sforzo che stava facendo Tom per gridare. Simone ed io sospirammo insieme.

“Ti prego David, non farlo arrabbiare. Non vedi che è stanco?”, sussurrò quest’ultima.

“Va bene, va bene!”, rispose lui guardandola ma senza smettere di gridare. “Però quando ti do delle regole le devi rispettare, okay?”

Questa volta guardò il ragazzo, che come risposta annuì.

“Ora, cosa facciamo con l’assassino?”, chiese Daisy con voce bassa, come se avesse paura di essere anche lei aggredita verbalmente dall’uomo.

“Facile, lasciamo che la polizia faccia il suo lavoro.”, disse David, alzando le spalle.

“Oh, certo! Come se la polizia facesse qualcosa!”, esclamò Simone sventolando la mano in aria.

Il modo in cui lo disse  mi fece scoppiare a ridere. Adoravo quella donna ancora di più, adesso.

Quando vidi gli occhi del manager spalancarsi in modo impressionante, mi alzai, girai la sedia al contrario , mi sedetti appoggiando le braccia conserte sopra al poggia schiena e appoggiai il mento su di esse per godermi meglio la scena.

“E cosa vorresti fare, Simone??”, aveva ricominciato ad urlare.

“Lo troveremo noi!”, questa volta quattro paia di occhi la guardarono sbalorditi, ma solo David continuò a parlare, o meglio, gridare.

“Ti sei bevuta il cervello, per caso?!”, avevo paura che in un momento all’altro qualcuno sarebbe entrato in quella stanza e ci avrebbe cacciato fuori dall’ospedale a calci.

Già era un privilegio poter stare in cinque in una stessa stanza e non avere orari di visita, ma litigare come pazzi era troppo anche per una band multimilionaria. Ah, cosa facevano i soldi.

“Assolutamente no, David!”, disse puntandogli il dito lungo e sottile contro. “Non resterò qui inerme a piangere vicino al capezzale di mio figlio!”

“Ma mamma…”, cercò di dire Tom, ma lei lo fermò subito.

“Ma mamma niente, Thomas! Vuoi vedere tuo fratello morire e non sapere neanche chi ha provocato la sua morte?!”

A quelle parole Tom scoppiò.

“Bill non morirà, mamma! Non ci pensare neanche! E io non…”, non riuscivano a non interrompersi a vicenda o a non parlare uno sopra all’altro.

“Questo non lo puoi sapere! Chi ti garantisce che Bill si risveglierà? Eh?”

“Dobbiamo avere fiducia, mamma! Non è questo che ci hai sempre insegnato tu?!”

A quel punto non li ascoltai più, anche se mi era molto difficile. Le mie orecchie si erano concentrate su un altro rumore, che era nuovo in quella stanza: era un suono acuto e veloce, e stava aumentando in fretta. Non riuscivo a capire cosa fosse, se era reale o frutto della mia immaginazione.

“Magari l’assassino ucciderà anche te!”, sentii urlare Tom, ma non gli diedi peso.

Mi guardai intorno per capire la fonte di quel rumore snervante e quando la trovai, mi congelai sul posto.

“Tom…”, sussurrai a causa del groppo che mi chiudeva la gola.

Guardavo quelle righe verdi andare su e giù troppo velocemente.

TOM!”, urlai con tutte le mie forze.

Di colpo sia il rasta sia la madre tacquero e mi guardarono allibiti. Ora quel suono echeggiava nella stanza. Tutti non sapevano che fare di fronte al monitor della macchina elettrocardiografica, che stava disegnando segmenti troppo alti e troppo ripidi emanando BIP troppo alti e ripetuti.

Improvvisamente la porta della stanza si spalancò ed entrarono quattro persone, una delle quali gridava:”Codice rosso! Codice rosso stanza 88!”

Tutti e quattro avevano lunghi camici bianchi e altrettanto bianchi erano i pantaloni che avevano sotto, l’unico colore diverso era quello della mascherina che indossavano, che era verdognola. Tre di essi corsero subito vicino al letto di Bill e lo scoprirono da tutte le coperte. Io mi alzai subito dalla sedia e mi allontanai, lasciano completamente la zona libera. Il corpo di Bill era quasi mostruoso: era così magro che potevo vedere la cassa toracica. L’infermiera che aveva urlato, non si unì al gruppo ma si avvicinò a noi, che ci eravamo ammassati nell’angoletto più lontano dal letto.

“Devo invitarvi a uscire, è un’emergenza.”, ci annunciò con molta rapidità, spingendoci uno ad uno verso la porta.

Quando appoggiò la mano sul braccio di Simone, per accompagnarla fuori, lei l’afferrò per le spalle e gridò:”Cosa sta succedendo a mio figlio?!”

Sul suo volto era dipinta una vera maschera di paura e disperazione. Vedendo che l’infermiera non rispondeva, ma scuoteva solo il capo, urlò di nuovo la stessa domanda. Noi quattro guardavamo allibiti la scena.

“Dobbiamo usare il defibrillatore, il suo cuore sta cedendo.”

A quelle parole, Tom si avvicinò alla madre come un automa e la prese delicatamente dalle spalle e la portò fuori di lì. Fuori da quell’incubo in cui stavamo vivendo. David, Daisy ed io li seguimmo e appena misi i piedi nel corridoio, sentii la porta sbattere dietro di noi. Ci sedemmo tutti sui sedili di plastica attaccati al muro e rimanemmo tutti a fissare quel pezzo di legno che ci divideva da Bill e Viola.

L’unico rumore che sentivamo era il medico che urlava. “Uno, due, tre, scarica!”

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Capitolo 13
*** C'è sempre speranza. ***



XIII: C'è sempre speranza.
 

“Tom, Ashley, posso parlare con voi in privato?”, la voce di Simone sembrava quella di un robot: senza emozioni, senza tono, senza niente.

Eravamo seduti lì fuori da almeno quindici minuti e nessuno era ancora uscito da quella stanza. Avevano cercato di rianimarlo per tre volte, poi era crollato il completo silenzio, non riuscivamo più a sentire nemmeno le voci dei medici. L’unico rumore pulsava dentro di me: i miei battiti cardiaci erano impazziti, così tanto che li sentivo nelle orecchie. Prima di alzarci, Tom ed io ci scambiammo uno sguardo confuso e io alzai le spalle. Mentre seguivamo sua madre avevo i crampi allo stomaco dovuti al nervosismo. Come soccorso a questo dolore, percepii la mano di Tom stringere la mia. Strabuzzai gli occhi scioccata, guardando prima in basso senza smettere di camminare e poi fissai le nostre due mani intrecciate: erano il contrario l’una dell’altra. La mia era la tipica mano femminile, liscia, con lunghe e sottili dita e le unghie perfettamente curate laccate di rosso; le sue erano quelle tipiche di un chitarrista: grandi, con dita affusolate e callose. Notai che la mia pelle sembrava ancora più chiara vicino alla sua. Dopodiché lo guardai e il mio sguardo era tutto tranne che ricambiato. Il suo era fisso davanti a sé che fissava la maglia blu della madre, come se non avesse appena fatto un gesto del tutto inaspettato e quasi senza senso. Non riuscii a chiedergli spiegazioni, poiché Simone si fermò davanti a noi e si girò per guardarci in faccia. Si rese conto subito del nostro contatto e, quando io allontanai automaticamente la mano, lei ci sorrise. Non fu uno dei migliori che mi aveva regalato da quando ci eravamo conosciute, ma erano ovvie le ragioni. Tom continuò ad ignorarmi e io ero più confusa che mai dal suo comportamento.

“Cosa c’è, mamma?”, il suo tono era duro, freddo, come se fosse arrabbiato con il mondo intero.

“Dobbiamo parlare.”

“E fin lì c’ero arrivato anche io, grazie.”, rispose, incrociando le braccia al petto.

“Ehi, signorino! Non parlarmi così! Non sei l’unico incastrato in questa situazione, sai?!”, sua madre cercò di mettersi nei panni di un genitore severo, ma si vedeva lontano chilometri che quella non era la sua natura.

Sospirò sonoramente e avvolse le mani venose di suo figlio nelle sue.

“Scusa, tesoro, ma questa situazione mi sta uccidendo… E…”, come in tutte le loro conversazioni, non riuscivano a non interrompersi a vicenda.

“No, scusa te, mamma. Sono stato uno stupido, non dovevo parlarti così.”, disse Tom con una voce completamente diversa: ora era bassa e comprensiva.

“Lo so, tesoro, lo so, però dobbiamo essere…”

“Forti, certo.”, finì Tom, aumentando la stretta delle loro mani, prima di scioglierla.

“Sì, dobbiamo farlo per Bill e…”, mi guardò, sorridendomi ancora e accarezzandomi la spalla. “Viola.”

Io annuii semplicemente, non sapendo cosa dire; era come se fossi l’intrusa in quella conversazione.

“Comunque ora…”, continuò la donna. “Dobbiamo pensare ad un piano.”

“Oh, giusto… quello.”, Tom fece una smorfia velocemente, come se non volesse essere scoperto dalla madre.

“Ehi, guarda che ti ho visto! E sono sicura al cento per cento che anche tu vuoi cercare chi ha quasi ucciso tuo…”, non c’era niente da fare: non riuscivano a finire le frasi, come se stessero comunicando mentalmente invece che verbalmente.

“Si, mamma, ci avevo già pensato…”, in realtà ci avevo pensato anche io un paio di volte, ma rimasi in silenzio.

“E allora perché fai tutte queste storie?!”

“Perché non voglio che tu ti…”

“Mi impiccio?!”, chiese, sbalordita.

“Si!”, con molta sorpresa, sia mia che di Tom, Simone si mise a ridere di gusto.

La sua risata mi ricordava un canto di un uccellino: squillante e armonioso.

“Sei il solito cretino, Tom!”, con questa affermazione non riuscii a trattenermi dal ridere anche io.

Tom, come risposta, incrociò di nuovo le braccia al petto, come per costruire una barriera contro di noi e schernire le risate.

“Simpatiche, davvero simpatiche.”, borbottò, mettendo il broncio.

Simone si ricompose insieme a me con lunghi e lenti respiri.

“Ritornando a noi… Io vorrei tanto stare qui con voi e Bill, ma purtroppo non posso.”

“Perché?!?”, chiese, scioccato.

“La prossima settimana ho una mostra molto importante e non posso rimandarla, quindi devo tornare a Magdeburgo per preparare tutto…”, alzò gli occhi al cielo, come se stesse pensando ad alta voce. “A dire la verità devo ancora dipingere due quadri, ma non ho alcuna inspirazione.”

Abbassò lo guardo verso di me, mi guardò intensamente e poi guardò suo figlio, di nuovo me e di nuovo Tom. Il suo viso si illuminò e potevo quasi vedere la lampadina che si era accesa nella sua testa. “Credo proprio di averla trovata.”

“Ooh, mamma! Torniamo al punto, per piacere.”, al contrario di me, Tom aveva capito a cosa si riferiva sua madre.

Simone scosse di poco la testa, come se si fosse svegliata dalla trance.

“Bè, è tutto semplicissimo.”, iniziò. “Andate dalla polizia, chiedete informazioni su cosa hanno scoperto dell’omicidio e dopo iniziate l’indagine per conto vostro. Mi raccomando, non dite niente né a David, né a Daisy… Sennò vi daranno un sacco di problemi.”

“E tu cosa farai?”, chiesi senza neanche pensarci.
“Oh, cara Ashley, io sarò vicino a voi, sempre. Basta che mi chiamate, quando volete.”

“Quando parti?”, chiese suo figlio.

“Domani mattina, con la madre di Daisy.”, quando notò il mio sguardo interrogativo, aggiunse: “Anche lei deve per forza tornare a lavorare a Hessen.”

La conversazione non andò più avanti di così perché si colpo la porta della stanza dove erano ricoverati Viola e Bill si spalancò ed uscirono le infermiere e il medico che si prendeva cura di loro, il dottor Peters. Quest’ultimo era un uomo di mezza età, non più altro di un metro e ottanta, con capelli corti brizzolati, labbra sottili e occhi chiarissimi. Si fermò davanti ai sedili dove erano seduti David, Daisy, Georg e Gustav, i quali erano accorsi poco tempo prima, appena Tom gli aveva chiamati per informarli dell’accaduto. Appena sentimmo il rumore della porta aprirsi, ci guardammo un secondo negli occhi e corremmo dove eravamo seduti poco prima.

“Come sta mio figlio?”, gridò Simone, anche se era a pochi centimetri dal medico.

Lentamente il dottor Peters si abbassò la mascherina verdognola e lesse qualcosa sui fogli che aveva davanti, raccolti dentro una carpetta beige con su scritto ‘Wilhelm Kaulitz’. Mi sorpresi molto alla vista del suo vero nome. Wilhelm, che strano e antico nome; preferivo di gran lunga Bill.

“Il cuore di Bill Kaulitz ha accelerato molto i battiti, come succede quando una persona diventa nervosa o ansiosa…”, iniziò il medico, con sette paia di occhi che lo fissavano intensamente. “Dopo l’elettrocardiogramma segnava che i battiti cardiaci stavano diminuendo drasticamente e quindi abbiamo dovuto rianimarlo.”

A quelle parole Simone gemette per il dolore.

“E… Ora come sta?”, sussurrò Tom di fianco a me.

Non ero sicura di voler sapere la risposta a quella domanda. Dopo le rianimazioni non avevamo più sentito le voci del medico e questo voleva dire due cose: o il cuore di Bill non era stato abbastanza forte e aveva smesso di battere o era ritornato tutto alla normalità. Non potevo neanche immaginare il caos che sarebbe scoppiato se fosse stata vera la prima opzione.

“All’inizio non dava segni di ripresa, ma poi è tornato a battere regolarmente”, quando finì di parlare ci regalò un mezzo sorriso.

Tutti insieme tirammo fuori l’aria che avevamo trattenuto mente il dottore diceva il verdetto. Si percepiva che ora l’aria era meno tesa e pesante, che eravamo tutti più rilassati.

“Oh, grazie al cielo!”, esclamò la madre dei gemelli.

“Purtroppo però non è riuscito a svegliarsi dal coma.”, affermò il medico. ”Ora, se non avete altre domande, dovrei andare a visitare una paziente.”
“In realtà io avrei una domanda.”, disse Daisy, alzandosi dal sedile. “Possiamo sapere perché i nostri figli sono in coma?”

“Certo.”, rispose l’uomo. “Abbiamo dovuto indurre il coma ad entrambi poiché avevano un’emorragia interna grave, causata dal proiettile.”

“E ci sono possibilità che si risveglieranno?”, chiese David.

Il tono con cui lo disse era molto strano: era come se fosse convinto che sarebbero morti, oppure sperava proprio su questo. Guardai con la coda dell’occhio Tom e notai che anche lui aveva aggrottato le sopracciglia confuso.

“Certo. C’è sempre speranza.”

“Dottore, scusi…”, l’interessato si girò verso di me. “Posso farle una domanda strana?”

“Ci sono abituato alle domande insolite, mi dica.”

Prima di parlare, guardai Tom per farmi coraggio.

“E’… E’ possibile che quando si risveglieranno non si ricorderanno più di noi?”

Tutti i presenti smisero di parlare e anche di respirare. Tom, per la prima volta dopo ciò che era accaduto poco prima inchiodò i suoi occhi nocciola nei miei occhi color ghiaccio. Quello sguardo era così pieno di pieno di paura che mi fece venire i brividi. Era palese che nessuno aveva pensato a questa eventualità.

“Sì. E’ possibile.”, rispose semplicemente il medico, “Ora, con permesso, ma devo proprio andare.”

Seguii con gli occhi la sua figura alta e snella camminare nel lungo e vuoto corridoio fino a quando si confuse con l’oscurità. Eravamo ancora tutti scioccati e immersi nei nostri pensieri quando un’infermiera bassa con capelli neri come la notte ci sconvolse ancora di più.

“Dopo l’accaduto di oggi, non possiamo più rischiare che succeda di nuovo, perché potrebbe essere fatale. D’ora in poi potrete far visita a Bill e a Viola solo due alla volta e solo nei seguenti orari: dalle 10 alle 15 e dalle 18 alle 20.”, detto ciò seguì la scia del suo capo.

Tom fu il primo a scongelarsi dal posto e si avvicinò alla porta, pronto per entrare.

“Ash, vieni con me, per favore?”, sussurrò, sempre senza guardarmi negli occhi.

Mi venne la pelle d’oca quando sentii come mi aveva chiamato: solo mio fratello e Viola mi chiamavano così. A testa bassa lo seguii dentro la stanza.

“E’ colpa mia.”, sussurrò Tom, che si era avvicinato al letto del fratello quando io avevo chiuso la porta.

Niente era cambiato: era come se non fosse successo niente, loro erano uguali a prima. Il ragazzo si era inginocchiato vicino a lui e li stava stringendo la mano con cautela, come avesse paura di spezzarla.

“Cosa stai dicendo, Tom?”, dissi, camminando verso di lui.

“Non capisci, Ashley?!?”, esclamò, fissandomi. “Bill ha avuto quella reazione perché io stavo litigano con nostra madre e David!”

Io mi paralizzai sul posto. “C-cosa?!?”

“Vuoi dire che loro…”, lasciai la domanda incompleta.

“Sentono tutto, sì.”, sospirò e appoggiò la fronte coperta dalla bandata sul corpo di Bill, il quale era avvolto dal lenzuolo bianco.

Non ebbi il tempo di dire o fare qualcosa, che lui si alzò di scatto, come se si fosse reso conto di una cosa importante, più importante di disperarsi ed essere divorato dai rimorsi vicino al capezzale del gemello.

“Andiamo.”, ordinò, afferrandomi il polso.

“Andiamo dove, Kaulitz?!”, dissi, trattenendolo dallo stesso braccio con cui mi stava stringendo il polso.

“Dalla polizia.”, disse inchiodandomi con uno sguardo pieno di dolore. “Non posso restare qui seduto un altro singolo minuto senza fare niente per mio fratello, e tu per Viola.”

 

***

 

“Prego, accomodatevi.”, disse il tenente Scholtz quando aprì la porta di vetro del suo ufficio.

Tom ed io ci alzammo ed entrammo, accomodandoci sulle due sedie di pelle nera che erano presenti dietro la scrivania sempre di vetro trasparente. Il tenente si sedette dall’altra parte dopo aver chiuso la porta dietro di sé. L’ufficio non era molto grande, aveva pareti bianco latte e l’arredamento era alquanto spoglio: c’era solo quell’enorme scrivania al centro della stanza con sopra mucchietti di fogli, del caffè dei porta foto e l’immancabile computer. Oltre a quella e alle sedie, c’era uno scaffare di metallo scuro composto da vari cassetti e pieni di raccoglitori di vario colore. C’era una misera pianta che chiedeva aiuto sulla sinistra della scrivania e una tenda rosso fuoco che copriva l’unica finestra proprio davanti a noi.

“Aspettavo una sua visita, Signor Kaulitz.”, la sua voce era molto roca, forse dovuta al troppo fumo. “Vuole sapere dell’omicidio di vostro fratello, dico bene?”

Il tenente Scholtz era il tipico poliziotto tedesco: era basso, abbastanza grassottello, capelli biondo scuro e occhi di un castano anonimo.

 “Esattamente.”, Tom si sistemò meglio su quella sedia esteticamente molto bella, ma scomodissima.

“Mi dispiace deluderla, ma non abbiamo avuto molto successo fino ad ora.”, rispose lui, scuotendo la testa.

“In che senso, tenente Scholtz?”, lasciavo parlare Tom come mi aveva chiesto lui mentre aspettavamo seduti sui sedili della centrale di polizia.

“Abbiamo subito aperto le indagini dopo l’accaduto, ma l’assassino è molto bravo. Non ha lasciato nessuna traccia. Sappiamo solo che ha sparato da dietro ad uno scaffale della libreria, che era disposto a pochi metri di distanza dal tavolo dove eravate seduti voi e che ha sparato due volte.”, iniziò ad accarezzarsi la barba bionda folta, sovrappensiero. “Sappiamo che ha usato una nove millimetri, e credo sia entrato insieme a tutte le altre fan e sia evacuato sempre con loro, ecco perché non abbiamo testimoni che possano identificarlo.”

Tom ed io ci guardammo e credo che stessimo pensando alla stessa cosa: dovevamo fare qualcosa noi, sennò la polizia non avrebbe mai scoperto un accidente. 

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Capitolo 14
*** Non sono stato io. ***


XIV: Non sono stato io. 


Ormai erano passati tre mesi da quel giorno e noi eravamo ancora al punto di partenza. Sembravamo intrappolati in una partita del gioco dell’oca: quando stavamo per scoprire qualcosa e vincere la partita, capitavamo sulla casella che ci obbligava a tornare dal via. Daisy e Simone erano partite la mattina seguente con l’aereo. Quest’ultima ci aveva stritolato entrambi prima dell’imbarco e ci aveva fatto promettere che saremmo andati avanti con l’indagine. Noi non avemmo neanche un minimo dubbio: era l’unica cosa di cui eravamo sicuri, allora.

Ora non più.

Con il passare dei giorni, la nostra sicurezza e la nostra speranza diminuiva sempre di più: avevamo fatto di tutto, ma non riuscivamo ad avere prove certe di chi fosse l’assassino. Eravamo andati nella libreria, che oltretutto qualche giorno fa era stata riaperta al pubblico, ma niente; abbiamo visto ore e ore dei video della sorveglianza, ma lo scaffare dietro al quale era nascosto copriva la visuale; avevamo fatto di tutto, ma niente. In tutti questi giorni Simone ci è sempre stata vicino e ci ha sempre aiutato anche a distanza; ci chiamava ogni sera per chiedere notizie o per darci delle dritte, ma ora anche lei non sapeva più cosa dire, aveva finito l’ispirazione. David invece ci aveva ripetuto più volte che la polizia farà il suo dovere e che non ci dovevamo immischiare in cose più grandi di noi. E, come ciliegina sulla torta, la situazione in ospedale non era cambiata di un millimetro.

“Che noia.”, dissi sbuffando e girandomi prona per accomodarmi meglio sul letto matrimoniale di Tom.

Allungai pigra la mano e feci scivolare l’indice sulla tastiera del portatile metallizzato davanti a me per digitare nella barra di ricerca di Google immagini ‘Tokio Hotel’ e iniziai a guardare milioni di loro foto.

“Mamma mia, che belli che siete.”, esclamai ironica.

Tom non capì affatto il mio umorismo, infatti si diede una spinta con i piedi per far girare la sedia della scrivania dove era seduto verso di me e mi regalò un sorriso a trentadue denti.

“Lo so.”, ammise, ridacchiando.

“Era ironico, stupido!”, il suo sorriso si spense subito come quando la luce del sole viene oscurata da una nuvola.

Certo, lui non era il sole, ma il suo sorriso era davvero radiante. ‘E meraviglioso’, continuò la mia mente. Alzai gli occhi al cielo e Tom lo prese come un gesto rivolto a lui.

“E alza anche gli occhi al cielo dopo aver detto questa, questa…”, sventolò le mani in aria cercando di trovare la parola adatta. “… questa bestemmia, ecco!”

“Ma non dire cretinate!”, dissi, ridendo e tirandogli addosso uno dei cuscini rossi che erano sopra al letto, centrandolo proprio in faccia.

“Brutta scimmia!”, urlò, alzandosi e buttandosi sopra di me.

“Come mi hai chiamata?!”, chiesi sconvolta, cercando inutilmente di scostarlo via da me.

“Sei una scimmia!”, ripeté ridendo e iniziando a farmi il solletico sui fianchi.

Si era seduto a cavalcioni sopra il mio posteriore e mi aveva bloccata con le gambe, quindi non riuscivo in nessun modo a liberarmi. Cercavo solo di tirargli dei pugni sulle gambe o braccia, ma per lui erano facili da schivare. Odiavo il solletico, cavolo! Forse era una delle cose che odiavo di più, perché detestavo quel prurito che si diffondeva in tutto il corpo con un’intensità folle, che ti faceva urlare di smetterla all’istante. Secondo me il solletico era una delle armi più efficaci per far sottomettere una persona.

“Basta, smettila!”, lo supplicai, cercando di alzarmi dal letto, senza successo: era pur sempre un armadio di un metro e ottanta se non di più, accidenti!

“Se vuoi che la smetto, devi dire che i Tokio Hotel sono la band più brava e bella del mondo!”

“Neanche morta!”, mi maledissi mentalmente per averlo detto, perché Tom aumentò ancora di più l’intensità della tortura e, come se non bastasse, iniziò a farmelo anche sotto le ascelle.

“Okay, okay!”, appena lo dissi Tom allentò la presa e io, veloce come un serpente, mi alzai avvicinandomi alla porta senza distogliere lo sguardo da lui, che era ancora seduto sul letto.

“I Tokio Hotel sono…”, aprii la porta pronta per scappare. “… la band più brutta e incapace di questo pianeta!”

Ero sicura che mi aspettava un’altra tortura o un inseguimento per tutta la casa, ma Tom non si mosse e mi guardò con un sorriso che la sapeva lunga.

“Bè, non sai che ti perdi.”, disse semplicemente, indicandosi e ritornando alla sua postazione di poco prima, per analizzare tutte le poche prove che avevamo racimolato in quei mesi.

Quei pochi indizi erano per noi l’unico barlume di speranza: ad esempio un pezzo di tessuto di pelle nero, che avevamo trovato incastrato nella mensola della libreria, oppure alcuni granelli di fango secco che secondo noi apparteneva alle scarpe dell’assassino e poi, un pezzo di unghia laccata di nero, che secondo Tom non era niente, ma per me era importante, per ricordarsi che poteva essere anche una donna, non solo un uomo.

Io rimasi per un po’ lì, con la bocca aperta, scioccata. Dopo mi buttai di nuovo sul letto per guardare le foto dei Meet&Greet della sua band. Poche erano non sfocate, poiché tutte erano state scattate dalle fan. E, visto che le avevo viste da vicino, capivo assolutamente il perché: erano pazze, troppo agitate e piene di ormoni per premere il pulsante senza che la mano non tremasse come un terremoto.

“Stai diventando noioso giorno dopo giorno…”, borbottai.

Non ricevetti risposta e quindi mi concentrai sulle immagini e sulla musica che trasmetteva la radio in sottofondo. Ascoltai la canzone che c’era in quel momento e rimasi colpita dalle parole: I’m writing down what I cannot see, wanna wake up in a dream…

La voce del cantante era così profonda  e piena di emozioni che mi persi dentro di essa. Era così intensa quella canzone, che mi fece venire la pelle d’oca.

“Sai chi è che canta questa canzone?”, chiesi a Tom.

Lui si girò di nuovo verso di me, con la biro in una mano e con un sorriso beffardo sul volto. Io però non lo lasciai rispondere e continuai il mio ragionamento a voce alta. “Perché il chitarrista è abbastanza scarso, ma il cantante e il batterista sono incredibili!”

A quelle parole il suo sorriso sparì subito e iniziò a tossire a più non posso, come se si fosse strozzato con la sua stessa saliva. Iniziò a darsi delle pacche sul petto e mi fulminò con lo sguardo.

“Dio, Tom, ti senti bene?”, chiesi, pronta per avvicinarmi a lui, ma la voce dello speaker mi fece raggelare il sangue nelle vene.

“E questo era il nuovo singolo dei Tokio Hotel, world behind my wall! Speriamo che il cantante di riprende presto dal come e che…”

“Oh. Mio. Dio.”, riuscii a dire.

“Tu suoni il basso, vero Tom?”, chiesi guardandolo supplichevole.

“No! Suono il clavicembalo!”, esclamò con mezza voce.

Automaticamente mi spalmai una mano sulla faccia. Che casino avevo combinato? Mi alzai in ginocchio e mi andai a sedere sul bordo del letto più vicino possibile a lui.

“Senti…”, iniziai, ma mi fermai subito: non trovavo le parole giuste. “Non volevo, cioè…”

“Hai appena detto che sono abbastanza scarso!”, disse enfatizzando quelle due parole, offeso.

“Okay, ho capito. Sei arrabbiato. Ma pensa al lato positivo: ho detto che la metà dei Tokio Hotel è incredibile! Mi piace una vostra canzone!”, feci un sorriso a trecentoventidue denti, sperando di passarla liscia, ma l’unica cosa che ricevetti in cambio fu un altro sguardo omicida.

Ah, cavolo.

“Va bene, va bene. Allora, facciamo così: un giorno di questi mi farai sentire altre vostre canzoni, così potrò confutare la mia opinione.”

Tom mi guardò aggrottando le sopracciglia. “Confu-che?”

Non riuscii a trattenere le risate. “Confutare, citrullo! Cambiare la mia opinione!”

“Ah, okay. Ci sto.”, disse, allungando una mano verso di me.

“La prendi sul serio, Kaulitz!”, esclamai, stringendola.

“Certo.”, mi sorrise. “Nessuno può chiamarmi chitarrista scarso.”

 

***

 

“Quindi, secondo te, chiunque sia stato, non è uscito dalla porta principale?”, chiesi, addentando un triangolo di pizza margherita.

“Sì, secondo me è uscito dalla porta di servizio.”, mi rispose a bocca piena. “Dai, è impossibile che nessuno l’avesse notato se fosse stato evacuato con tutti gli altri, no?”

Io feci spallucce e mi allungai sul tavolo del soggiorno per prendere un altro pezzo: ormai non ero più sicura di niente. “E se fosse sempre stato dentro la libreria?”, buttai lì, tanto per considerare tutte le possibilità.

Tom mi guardò, deglutì sonoramente e aggrottò le sopracciglia, creando una piccola ruga tra di esse. “Intendi dire… tipo un nostro bodyguard o un personale della libreria?”

“Bè, sì. E’ possibile, no?”, dissi, riempiendo i due bicchieri di coca cola e svuotando il mio tutto in un sorso.

“Mmh..”, Tom alzò lo sguardo al cielo, perso nei suoi pensieri, ma senza smettere di mangiare. “E perché sparare a mio fratello, se lavori per lui?”

“Credimi. Ci sono molte riposte a questa domanda.”

Tom fece spallucce, come per far scivolare via quell’argomento e passare subito ad un altro.

“Che ne dici di ritornare alla stazione di polizia?”, mi chiese, guardandomi di sottecchi.

“A fare che cosa, scusa?”, ero confusa: ci eravamo andati almeno cinque volte e le ultime erano state senza risultato, eravamo rimasti lì a parlare con il tenente di tutt’altro, sperando di farci rivelare qualcosa di nuovo.
“Possiamo vedere i filmati delle telecamere delle porte di servizio.”, affermò, alzandosi e stirandosi con le mani la maglia rossa XXL.

Ci pensai su: alla fine non era male come idea, o almeno era meglio che starsene a casa ad oziare mangiando pizza e ascoltare musica, che tra parentesi, era tutta dei Tokio Hotel da dopo il piccolo “incidente” di pochi giorni prima. Con mia grande sorpresa molte loro canzoni mi piacevano come spring nicht o übers ende der welt. Bado alle ciance, mi alzai finendo il mio pezzo di pizza con due grandi bocconi e seguii Tom, che stava già aprendo la porta d’ingresso con le chiavi della macchina in mano.

“Dove credevate di andare, voi due?”, quella voce mi fece fare un salto di qualche metro da terra.

Mi girai di scatto e l’ultimo boccone mi andò di traverso. Guardai con gli occhi sgranati Tom e poi tutti i sacchetti di plastica che contenevano le prove sul tavolo dietro di me. Ecco. Eravamo nella merda.

L’uomo che era entrato, sbattendo la porta, si avvicinò a me e prese in mano l’involucro che conteneva il pezzo di tessuto.

“Allora aveva ragione.”, si girò verso di noi. “Fabian mi ha detto tutto.”

Il suo tono era duro come il cemento e i suoi occhi erano più scuri del solito. “State veramente indagando dietro alle mie spalle.”

Tom ed io rimanemmo in silenzio, senza muovere un muscolo. Non avevo la minima idea di chi fosse Fabian, ma non era la cosa più importante, quella. “David.. non…”, inziò Tom, ma non lo fece parlare.

“David niente! Ti avevo dato un ordine, e tu dovevi rispettarlo!”, in quell’enorme casa vuota, le sue urla rimbombavano nel silenzio.

“Io non capisco perché ti debba arrabbiare tanto!”, urlò di risposta il ragazzo.

Il manager aprì più volte la bocca, ma senza dire niente, come se non riuscisse a trovare le parole giuste. Io ero confusa: David che non sapeva come ribattere? Strano, davvero troppo strano. Non mi dire che…

In quel preciso momento il mio sguardo incrociò quello di Tom e credo che entrambi eravamo arrivati alla stessa conclusione. Vidi il suo corpo irrigidirsi e la vena nel collo ingrossarsi dalla rabbia.

“David, tu dov’eri quando hanno sparato a Bill?”, chiese lentamente, cercando di trattenere le urla e appoggiandosi allo schienale del divano nero di pelle che era vicino a lui, come supporto per non far cedere le ginocchia.

“Cosa vorresti insinuare?!”, borbottò l’interessato.

“Rispondi!”, gridò Tom, come se fosse una bomba pronta a scoppiare.

David diventò paonazzo in volto e iniziò a fare gesti con le braccia senza senso, perché non erano accompagnati da nessuna, misera parola. E fu allora che la bomba scoppiò.

“Sei stato tu! Lurido bastardo! Ecco perché non vuoi che noi indaghiamo, non vuoi che i paparazzi sappiano in che situazione di merda siamo, non vuoi che nessuno scopra che sei stato tu! TU volevi uccidere mio fratello e TU hai sbagliato coinvolgendo anche una ragazza che non centrava niente! TU hai fallito nel tuo piano e ora vuoi che Bill non si riprenda dal coma!”, si avvicinò pericolosamente al suo manager, che indietreggiò di qualche passo.

“Io…”, riuscì a dire lui, deglutendo faticosamente. “No, non sono stato io.”

“Sei un bugiardo di merda!”, sbraitò Tom.

E la situazione precipitò pericolosamente.

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Capitolo 15
*** Ti fidi di me? ***


XV: Ti fidi di me? 

 

Tom, che fino a poco prima era al mio fianco con la schiena leggermente curva come un leone pronto a scattare, dopo aver fatto lentamente qualche passo verso David, la sua preda, si lanciò contro di lui che lo guardava con due occhi spalancati dalla paura. Era pronto a tirargli un pugno in pieno volto, o anche peggio, se solo io non mi fossi intromessa tra i due. Sinceramente, non sapevo che cosa mi stesse passando per la testa in quel momento, però mi ritrovai a due centimetri dalla mano serrata in un pugno di Tom, con le mani parate davanti al viso per difendermi. Non avevo nessuna intenzione di lasciare che finisse nei guai per aver picchiato qualcuno, soprattutto se quel qualcuno era una persona che conosceva e a cui, sotto sotto, voleva bene come David. Non volevo che a causa di quell'emozione troppo amara ed intensa rischiasse di sentirsi in colpa per aver fatto del male ad una persona innocente. Perché lo sapevo: David Jost era innocente.

Quindi l'unica soluzione, anche se non mi andava molto a genio, era quella di difenderlo.

Le sopracciglia aggrottate del ragazzo non diedero segno di rilassamento. Il suo sguardo era freddo e minaccioso: faceva sul serio.

"Ashley, togliti.", sussurrò tra i denti, stretti in una morsa che sembrava letale.

"No.", risposi, con un tono più deciso di quanto fossi io in realtà. "Tom, ascoltami."

"Ho detto spostati!", urlò, afferrandomi un polso e cercando di strattonarmi via da lui, ma senza alcun risultato: avevo i piedi incollati al pavimento.

"Ma tu da che cazzo di parte stai?!", mi gridò con il volto a pochi centimetri dal mio.

Per alcuni secondi mi lasciai prendere dai suoi occhi: il marrone era più intenso, come quando un fuoco brucia più vivo che mai. Quasi potevo vedere la piccola fiammella che era accesa dentro di lui attraverso il suo sguardo, che in quel momento era lo specchio della sua anima. Appoggiai una mano sul suo pugno ancora chiuso davanti a me e abbassai delicatamente il suo braccio, che scoprii essere più muscoloso di quello che pensassi.

"Io non sto dalla parte di nessuno. Voglio solo fare il bene di tutti e due.", sussurrai, sapendo che entrambi gli interessati avrebbero sentito.

David, dietro di me, sospirò sonoramente e Tom, invece, mi guardò con il ritratto della confusione dipinto in volto.

"E' innocente.", non riuscii più a sostenere il suo sguardo, così lo abbassai sui miei immancabili anfibi neri e consumati.

La stretta ferrea e bollente aumentò ancora di più. "Mi fai male, Tom.", dissi, con un tono sofferente.

Lui non diede peso alle mie parole, e strinse ancora di più: avevo l'impressione che da un momento all'altro avrei sentito il rumore dell'osso del polso spezzarsi. Si vedeva già la striscia rossa creata dalla troppa pressione che stava esercitando.

"Che cosa hai detto?", non guardava me: i suoi occhi infuocati erano fissi in quelli del manager.

"Che è innocente, non è stato lui.", strattonai il mio povero braccio, cercando di liberarmi dalla sua presa. "Non ha sparato lui."

"Cazzate!", sbraitò ancora più incavolato, perché pensava di essere solo: anche io, secondo lui, ero a favore di David. "E' palese che è stato lui!"

Finalmente mi lasciò andare e io me strinsi automaticamente il polso al petto massaggiandolo lentamente.

"Tom, ascolta, ragioniamo...", l'uomo cercò di parlare, ma ovviamente lui non voleva sentire nessuna delle sue scuse.

"Ragioniamo un cazzo, David!"

Avevo una paura matta che la situazione mi scivolasse di nuovo dalle mani, quindi mi affrettai a spiegare quello che mi era venuto in mente troppo tardi. Prima, però, posai i palmi delle mie mani gelate sulle guance arrossate di Tom, che subitò spostò i suoi occhi nocciona nei miei color ghiaccio.

"Tom. Ora ascolta me.", vidi una scintilla nel suo sguardo buio che mi fece nascere un sorriso sulla bocca. "L'ho visto. Ho visto Davidalla Signing Session: era vicino ad un bodyguard all'inizio del tavolo..."

"Io...", iniziò lui, ma lo stoppai subito adagiando un dito sulle sue soffici labbra.

"Smettila di blaterale e pensa, per favore."

All'improvviso una melodia snervante e troppo alta invase il soggiorno. Entrambi, però, rimanemmo in quella posizione, sapendo che era la suoneria del cellulare del manager, che suonava almeno ogni mezz'ora ogni volta che lo vedevamo. Sentimmo i suoi passi leggeri attraversare la stanza e uscire dalla porta principale. Quando fui sicura di essere rimasti soli, continuai con il mio discorso.

"Ti fidi di me?", soffiai, guardandolo disperata.

Non sopportavo più di vederlo così: era sempre triste o arrabbiato e non lo meritava. Non lo meritava affatto.

Ci guardammo per vari secondi che sembrarono minuti, con i respiri affannosi che si incrociavano e le farfalle che volavano impazzite nello stomaco.

"Si.", rispose alla fine deciso, come se con quel monosillabo si fosse tolto un grandissimo macigno che lo opprimeva.

Chiusi per pochi attimi le palpebre, soddisfatta di quell'affermazione, per poi sprofondare di nuovo in quegli occhi, che stavano quasi diventando un incubo da quanto erano dannatamente belli.

"David era lì, ne sono sicura. E io ero quasi di fronte a te quando è successo, quindi non può essere lui, in alcun modo.", lo dissi veloce, per paura di essere fermata. "Non è lui, ma comunque qualcuno è stato, e noi lo troveremo. Te lo prometto, con o senza l'assenso del tuo manager. E, quando finalmente lo faremo, potrai reagire come hai fatto oggi."

Sorrisi, sperando con tutta me stessa che lui facesse lo stesso. Quel viso era troppo scuro, troppo spento. Per fortuna il mio desiderio si avverò e le sue labbra si tesero regalandomi un sorriso che non solo illuminò il suo volto, ma scaldò anche il mio cuore.

"Grazie di esserci sempre stata da quel giorno, Ash.", disse, stringendo a sé i miei fianchi magri con le sue braccia forti e muscolose.

"Questo e altro per te, Tom.", soffiai tra i suoi cornrows neri come la notte.

 

***

 

Erano passati altri due giorni e per fortuna la questione con David si era completamente risolta. Tom gli aveva chiesto scusa e si erano dati una forte pacca sulla schiena a vicenda, che per loro valeva come un abbraccio. Noi però non avevamo assolutamente smesso di fare le nostre indagini, anche se lo avevamo promesso. In quel momento ero seduta sulla sedia della scrivania di legno massiccio della camera degli ospiti, che ormai potevo chiamare mia, e guardavo ancora le stesse foto. Ne avevo trovate molte belle e nitide: appartenevano a varie Signing Session (Colonia, Berlino, Ginevra, Parigi e molte altre), ma la cosa abbastanza strana era che la quasi tutte erano di Bill. In quelle ore in cui ero rimasta appiccicata al computer, avevo esaminato meglio i membri della band e mi ero resa conto della straordinaria somiglianza dei gemelli: avevano gli stessi lineamenti, gli stessi identici occhi, come anche le labbra e il naso. L'unica cosa che li differenziava erano i capelli, un neo, che era in due posizioni diverse e i piercing. Di solito il cantante era anche truccato, ma senza matita e ombretto, come l'avevo sempre visto io nel letto d'ospedale, si notava ancora di più la loro parentela.

"Ehi, Ash, io esco un attimo, devo andare a comprare delle cose al supermercato!", la voce di Tom mi fece fare un salto dalla sedia di mezzo metro.

Mi girai verso la porta e vidi sbucare la sua testa.

"Oh… Okay.", risposi, in imbarazzo, poiché avevo notato che mi ero imbambolata a fissare gli occhi nocciola di Tom in una delle poche foto che avevano scattato le fan nell'evento di Amburgo.

"Cosa stai guardando?", chiese, curioso, entrando e camminando goffamente verso di me.

Io mi affrettai a chiudere il portatile, osservando la sua strana andatura da pinguino. "Niente."

Lui inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia al petto, non bevendosi neanche una lettera di quella bugia, ma lasciò stare. "Certo, come no."

Con un sorriso beffardo sul volto uscì e, quando sentii la porta principale blindata chiudersi, riaprii il computer, tirando un sospiro di sollievo. Scossi vigorosamente la testa, fissando ancora quel volto: possibile che avesse tutta questa influenza su di me? Non mi ero mai sentita così imbarazzata davanti ad una persona in tutta la mia vita. Anzi, a dirla tutta, non avevo mai provato quei sentimenti per nessun'altro al mondo. Che cosa mi stava succedendo? Possibile che mi stavo realmente innamorando di Tom?

I miei pensieri furono interrotti da uno strano presentimento: notai, in basso a destra, vicino al margine della foto un nome. Quel nickname mi ricordava qualcosa, ma non riuscivo a capire cosa. Distrattamente cambiai finestra nel browser e, anche in quella foto, c'era lo stesso nome: amybill89. Controllai in tutte le altre immagini e quella scritta in neretto rosa c'era in tutte quante. Nessuna esclusa.

No, non può essere...

Digitai freneticamente l'appellativo nella barra di google e trovai il suo sito. Quando si caricò completamente, mi venne la pelle d'oca. Era pieno di foto dei Tokio Hotel, ma soprattutto di Bill: lui che beveva un caffè nel cartone dello Starbucks, al check-in con i documenti in mano, che le stava autografando un album, che si copriva con un foglio per non essere scoperto. Il frontman dei Tokio Hotel in ogni momento immaginabile e non. Il cuore perse un battito: mi ero gelata sul posto. Quel sito mi faceva quasi paura e io non sapevo che cosa fare. Dovevo dirlo a Tom? Dovevo parlargli del mio bruttissimo presentimento? O no?

In quel momento, però, lui non c'era e io dovevo assolutamente discuterne con qualcuno. Mi allungai sul letto e presi il mio cellulare tra le mani tremanti, chiamando il primo numero che compariva nell'elenco delle chiamate effettuate.

"Pronto? Ashley?", quella voce mi tranquillizzò subito.

"Simone, ho un grandissimo problema.", parlai velocemente, presa dal panico. "Credo di aver trovato l'assassino."

Pensai di aver perso la comunicazione, dato che non sentii alcuna risposta dall'altra parte. "S-Simone?"

"Ashley. Dimmi assolutamente tutto.", affermò con voce tremolante.

Mi buttai letteralmente sul letto morbido, sdraiandomi supina.

"Non so se dirlo a Tom.", buttai lì la prima cosa che capitò nella mia mente, che in quel momento era affollata dalle troppe preoccupazioni.

"Parti dall'inizio, cara.", la sua voce era comprensiva, ma allo stesso tempo bramosa di sapere di più.

"S-stavo guardando delle foto su internet, quando ho notato che tutte erano della stessa ragazza: una certa Amy.", presi un respiro profondo. "Credo sia una stalker."

"Cosa te lo fa pensare?", mi chiese con un filo di voce.

"Ho visto il suo sito, Simone.", mi stropicciai gli occhi, stanca. "E' pieno di foto di Bill, anche in momenti che neanche i paparazzi sarebbero in grado di immortalare."

Sentii la madre dei gemelli trattenere il respiro. "Credi davvero che sarebbe capace di...", lasciò la frase incompleta, ma si capiva perfettamente dove voleva arrivare.

"Credimi, sì. Gli stalker sono capaci di tutto.", mi colpì la verità di quelle parole.

Anche uccidere una ragazza innocente.

"Cosa faccio con Tom?", ripresi la domanda che le avevo fatto all'inizio della telefonata.

"Devi dirglielo, assolutamente.", rispose, decisa.

"Ma, se...", cominciai, ma non mi lasciò finire.

"Ashley, Tom deve sapere. Non hai mai visto i miei due figli insieme, e quindi non riesci ancora completamente a capire quanto l'uno tenga all'altro. Qualunque cosa sia collegata a Bill, deve saperla. E soprattutto, non è bello vivere nella menzogna, ricordatelo sempre.", il suo tono serio e allo stesso tempo commosso mi toccò nel profondo.

"Grazie, Simone.", dissi semplicemente.

"Grazie a te Ashley, per stare vicino a mio figlio quando io non posso farlo."

Quello era il secondo ringraziamento che ricevevo in pochi giorni e ogni grazie mi riempiva sempre di più il cuore, principalmente perché provenivano da persone che piano piano stavano diventando sempre più importanti per me.

 

***

 

Quando Tom tornò, mi trovò seduta con le gambe accavallate sul divano di pelle nera e con il volto coperto dalle mani.

"Ash?!", mi chiamò preoccupato.

Io andai dritta al punto, senza fare preamboli. "So chi è l'assassino."

Quelle parole lo fecero raggelare sul posto, con ancora le chiavi di casa in una mano e la busta della spesa contenente un cartone di latte, del pane e alcune banane nell'altra.

"Cosa?", era semplicemente incredulo.

Mi alzai anche se sentivo le gambe molli e mi girai verso di lui. "Hai capito bene."

Tom quasi lanciò le chiavi e la busta per terra e si avvicinò velocemente a me, afferrandomi per le spalle, così che io non avevo altra scelta: dovevo guardarlo nei occhi.

"Chi è?", nei suoi occhi era nata una nuova scintilla: un frammento si speranza.

"Tom… E’ una vostra fan."

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Capitolo 16
*** L'odio è amore. ***


XVI: L'odio è amore.

 

L’unico rumore che riuscivo a sentire erano i nostri respiri affannati e l’unica cosa che vedevo erano i suoi occhi scuri, spenti e pieni di rabbia. Rabbia che era rivolta con ogni singola parola a me, che non riuscivo a far altro che guardarlo sbigottita senza percepire nessuna delle accuse che mi stava urlando proprio a pochi centimetri dal mio volto pietrificato.

“Tu sei pazza!”, a quell’ennesima esclamazione ritornai con i piedi per terra e mi mossi.

“Non sono io quella pazza, qui! E’ quella fan, maledizione! Ha sparato a tuo fratello e tu sei qui che mi urli contro cose senza senso!”, gli puntai il dito contro, inchiodandolo proprio al centro del suo petto ben scolpito.

“Tu…”, iniziò lui ancora più arrabbiato, come se avessi toccato il suo tallone d’Achille. “…Tu non hai nessun diritto di accusare le mie fan!”

Io ero semplicemente senza parole. Non conoscevo molto bene, anzi, per niente i Tokio Hotel e le loro fan, ma questo mi fece capire che loro tenevano molto alle adolescenti che li seguivano ovunque, anche se non le conoscevano direttamente. Non ero mai stata un’ammiratrice accanita di nessuna band e non riuscivo neanche ad immaginare una ragazza sparare al proprio idolo. Infatti era una cosa quasi surreale, ma le prove che avevo trovato dicevano tutto il contrario.

“Tom quella è una stalker, non una fan!”, cercai di farlo ragionare, ma ormai lui era era troppo convinto della sua posizione e molto lontano da voler cambiare la sua opinione.

“Come fai a dirlo, miss so-tutto-io?!”, io rimasi a bocca aperta ancora una volta.

In quei pochi mesi in cui ci eravamo conosciuti, quelli erano i minuti più terribili che avessimo mai trascorso insieme: forse era dovuto alla stanchezza, o alla disperazione della situazione, ma non mi aveva mai offeso così. Presi due respiri profondi, per cercare di placare quel dolore acuto che era nato dentro di me.

“Le hai viste le foto, quella ragazza vi segue ovunque! Non può essere normale!”

“Anche i paparazzi ci seguono ovunque e di certo non sparano a Bill!”, non lo avevo mai visto così furibondo e in quel momento lo era così tanto che si notava molto bene la vena verdastra ingrossata sul collo.

“Io…”, abbassai lo sguardo, non sapendo cosa dire e quali parole scegliere per fargli capire.

Non avrei mai pensato che avesse reagito così, come se io fossi davvero fuori di testa e, pur di dare la colpa a qualcuno avevo scelto una persona a caso.

“Te lo dico io perché non sai cosa dire! Perché tu…”, si avvicinò a me, afferrando con una mano il mento e guardando nei miei occhi glaciali. “…Tu non sei nessuno. Soprattutto per me. Sei solo una pecorella smarrita, che, senza la sua migliore amica si sente sola e cerca vergognosamente un qualsiasi appiglio, anche se questo comporta entrare nella tana del lupo. Sai cosa ti dico? Forse era meglio se ti buttavi veramente da quel tetto.”

Un dolore tremendo e lacerante mi fece mancare il respiro. Quelle parole erano così… taglienti, che mi procurarono una ferita profonda nel cuore. Non avrei mai pensato che quel ragazzo, apparentemente innocente e troppo eccentrico, potesse essere così crudele con le persone. Le gambe diventarono molli, troppo deboli per sopportare quell’orrendo peso. Cascai, inerme, in ginocchio sul pavimento del soggiorno e mi coprii il volto con le mani, come se mi vergognassi davanti a lui. Oppure, perché  mi vergognavo di lui. Mi ero aperta con Tom, mi ero fidata, li avevo raccontato tutti i momenti più terribili della mia vita e lui me li aveva sputati letteralmente in faccia. In quel momento capii che avevo fatto un enorme, fatidico errore. Lui, ancora in piedi davanti a me, sembrava senza fine, deciso ad affondare la barca del tutto, inconsapevole del male che mi stava procurando.

“Se non ci fosse Viola nella stessa camera di mio fratello, e se non sapessi che tu sei senza un soldo, ti manderei fuori da questa casa!”

“Tom, ti prego…”, alzai lo sguardo verso di lui, disperata. “Basta…”

“NO!”, gridò, con un tono troppo duro che non si gli addiceva. “Ashley, io non voglio più vederti.”

Quelle parole furono la goccia che fece traboccare il vaso. Come faceva a dire parole così cariche di odio, se fino a pochi giorni fa ridevamo e scherzavamo come due amici del cuore? Era tutta finzione? Le palpitazioni accelerate dei nostri cuori, le carezze che qualche volta scappavano, era tutto una bugia? Oppure mi ero inventata tutto? Io semplicemente non riuscivo a crederci. Quelle poche parole non potevano aver scatenato questo.

Tom si inginocchiò vicino a me, obbligandomi ad alzare lo sguardo. Per pochi secondi rimanemmo così, e io intravidi qualcosa in quegli occhi, che, sapevo era l’ultima scintilla di amore che era rimasta. E io, mi appigliai a quell’unica ancora si speranza. Non so cosa mi passò per la testa in quel momento, però mi ritrovai ad accarezzare la sua pelle liscia e morbida della guancia. Lui, come se fosse disgustato da quel tocco, si alzò velocemente in piedi e distolse lo sguardo.

In un battito di ciglia, Tom non era più davanti a me, ma stava salendo le scale. Mio malgrado, lo seguii e forse fu l’ennesimo sbaglio di quella sera. Lo trovai nella sua stanza, a fissare il computer ancora aperto sul suo letto. L’avevamo lasciato lì quando li avevo fatto vedere le foto della stalker, ovvero quando Tom era scoppiato ed era sceso di furia al piano inferiore per mettere in ordine quello che aveva comprato e per poi assalirmi verbalmente. Il monitor del portatile proiettava ancora la foto del suo gemello che beveva spensierato il suo cappuccino dello starbucks mentre sceglieva una rivista di moda tra le tante disposte sul bancone di un giornalaio. Con un colpo secco, che mi fece raggelare il cuore, lo chiuse e, sapendo che io ero dietro di lui a fissarlo sconcertata, iniziò a buttare vestiti a caso dentro un borsone nero dell’Adidas.

“Ancora non ci credo! Una persona che non ci conosce, che non mi conosce e, soprattutto, che non conosce le nostre fan, che colpevolizza una di loro di aver quasi ucciso il suo idolo solo perché ha postato delle foto sul suo blog!”

“Tom, perché non vuoi almeno prendere in considerazione questa possibilità?!”, urlai, esasperata.

Vidi la schiena del chitarrista percorsa da un brivido e, lentamente, girarsi verso di me. L’unica risposta che ricevetti, però, fu un’occhiata piena d’odio e una spallata quando uscì dalla camera con il borsone in spalla.

“Io me ne vado da Georg e Gustav per qualche giorno. Tu, mia cara, non dovrai esserci quando tornerò.”

L’unico suono che sentii dopo quella minaccia, fu la porta d’ingresso chiudersi e poi l’enorme casa fu avvolta dal silenzio. Per alcuni minuti rimasi immobile, con le braccia lungo i fianchi, la testa che guardava il punto in cui Tom era sparito e le sue parole che rimbombavano nella mente.

Tu…

Mia cara…

Non dovrai esserci…

Quando tornerò…

Quando assimilai completamente quella frase, mi buttai sul letto pieno del suo profumo e affondai il volto nel cuscino, dando libero sfogo alle lacrime che bussavano alle porte da tempo.

Quello non poteva essere Tom. Non quello che avevo conosciuto.

Non era il Tom di cui mi stavo pericolosamente innamorando…

 

***

“Chi è?”, mi chiese la voce metallica di Georg che usciva dal citofono.

“Sono Tom.”

“Che cacchio ci fai tu qui alle undici di sera?”, si sentiva che era mezzo addormentato dalla sua voce impastata.

“Ho fatto un casino enorme.”, l’avevo capito appena mi ero seduto in macchina ed ero rimasto a fissare il volante per molti minuti fermo davanti alla loro villetta, indeciso sul da farsi.

“Come al solito. Entra.”, spinsi il cancelletto di ferro battuto e percorsi il vialetto ben curato della villetta dei miei due compagni di band.

Quando entrai, percepii subito il calore accogliente di quella casa. Era sempre stato così: ogni volta che Bill e io volevamo rilassarci un po’ andavamo sempre da loro. La casa era arredata con mobili rustici e il camino sempre acceso ti trasmetteva una calma straordinaria.

“Oh, guarda chi c’è!”, vidi la testona bionda di Gustav voltarsi dal divano. “Ciao, Tom.”

Farfugliai un saluto prima di buttare vicino alla porta il borsone sotto gli occhi confusi dei miei amici e trascinare le mie gambe coperte dai jeans oversize troppo pesanti verso il tavolo di ciliegio al centro della stanza. Con un tonfo mi sedetti su una delle sei sedie che erano disposte ordinatamente intorno ad esso.

“Mi vuoi spiegare che hai combinato questa volta?”, Georg si accomodò di fronte a me.

“Mi sono sfogato con Ashley.”, borbottai rassegnato.

“C-cosa?”, chiese il biondo avvicinandosi a noi sbalordito. “Quella ragazza carinissima, che ti sopporta come pochi prima d’ora?”

“Si…”, soffiai, capendo ancora di più che ero senza speranze.

Lasciai cadere rumorosamente la testa piena di tutti i rimorsi sul tavolo, producendo un suono sordo e un dolore a cui non diedi importanza. Con tutto il dolore che avevo procurato ad Ashley, quello era niente. Nei miei occhi chiusi si proiettò l’immagine di lei, inginocchiata davanti a me, che mi pregava di smetterla, con lo sguardo intenso e pieno di sofferenza.

Che cosa avevo fatto? Mi chiesi, dando un’altra botta sul tavolo.

“Sbattila più forte, così magari quei pochi neuroni che ti rimangono si svegliano!”, esclamò Georg, accompagnando le parole con colpo secco sui miei cornrows corvini.

“Che cosa gli hai detto?”, la voce di Gustav era piena di comprensione che io non meritavo.

“Delle mostruosità da vero stronzo.”

“Tipo?”

Inchiodai gli occhi nel verde quasi accecante di quelli del mio migliore amico, come per sfidarlo a chi era il più stronzo, premio che io avevo già vinto a priori.

“Tipo che se ne deve andare quando ritornerò? Che è una pazza? Che non è nessuno per me? Che…”

Che era meglio se si fosse suicidata? Un brivido mi percorse la schiena. Come avevo anche solo pensato quelle mostruosità? Non era affatto da me e non ne capivo il motivo per cui erano uscite.

“Okay, okay, sei ufficialmente un vero stronzo! Se Bill fosse qui…”, iniziò Gustav, ricevendo un occhiataccia di fuoco sia da me che dall’amico. “E non mi guardate così! Se fosse stato qui ti avrebbe mangiato vivo! Come puoi trattare così una ragazza? Per lo più una ragazza di cui ti sei innamorato!”

A quelle parole la mia mascella cascò toccando quasi il tavolo.

“Che cosa?”, Georg mi rubò le parole di bocca. “Tom, ti sei innamorato di Ashley?!”

Si…

“No.”, dissi sicuro di me stesso, come sempre del resto.

Gustav alzò gli occhi e le braccia al cielo, palesemente esasperato. “Sei un bugiardo senza speranze! Si vede da come la guardi, e credimi, hai guardato così pochissime persone da quando ti conosco!”

“Ma almeno ci vuoi dire che cosa ti ha fatto arrabbiare tanto?”, per fortuna Georg cambiò argomento.

Prima di rispondere mi stropicciai gli occhi, era da quando Bill era entrato in coma che non riuscivo a dormire decentemente per dieci ore di seguito.

“Secondo lei l’assassino è una…”, sospirai. “…Una nostra fan.”

Per alcuni minuti i due mi guardarono sbigottiti, come se avessero di fronte uno scemo. Forse semplicemente perché non credevano neanche loro che una nostra fan avesse potuto fare una cosa del genere.

“Bè… L’unica domanda che mi viene in mente è: che accipicchia ti è venuto in mente per arrabbiarti così? Cavolo, guarda che questa possibilità è più probabile di quella di David!”, a parlare per primo fu Georg, perché Gustav era ancora scioccato.

“Ma non è possibile che una nostra fan abbia sparato a BILL!”, cercai di difendere la mia idea, ma anche io non ne ero più sicuro, ormai.

“Stai scherzando, vero, Tom? Ti dovrei ricordare l’evento del pugno? Oppure cos’è successo a John Lennon? Guarda che ci sono ragazze che farebbero di tutto, e non parlo solo dal punto di vista positivo.”, chiarì il batterista.

“Si.. Ma..”, non sapevo che cosa dire, perché come sempre Gustav aveva ragione.

“Seriamente, non capisco perché sfogarsi su di lei!”

“Io…”, cercai qualsiasi scusa che sembrasse almeno un po’ credibile, ma la verità era che non ne esisteva nessuna che potesse rimediare  all’enorme sbaglio che avevo commesso. “…Non lo so.”

Gustav sospirò, si alzò e lentamente si avvicinò a me posando il palmo della sua mano enorme e callosa sulla mia spalla.

“Ricordati Tom, che l’odio che hai gettato su Ashley in realtà è solo amore. Perché, se l’avessi odiata veramente, non l’avresti accolta nella tua vita e aperto il tuo cuore. Ora dormici su, e domani corri da lei per chiederle scusa.”

Lo guardai. Osservai attentamente quel ragazzo che conoscevo da tanti anni, assaporando tutte le sue parole e facendone tesoro. Perché, fu proprio in quel momento che capii che la realtà era proprio davanti ai miei occhi e io non volevo accettarla: Ashley mi aveva salvato e io l’amavo. L’amavo come nessuna ragazza prima d’ora. Ma, sicuramente, dopo quella sera l’avevo allontanata da me per sempre e ora dovevo fare di tutto per riacquistare la sua fiducia.

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Capitolo 17
*** Il tempo scorre. ***


XVII: Il tempo scorre.


Mi rannicchiai ancora di più, stringendomi a quella maglia XXL del mio colore preferito che mi faceva da vestaglia per quanto mi stava larga, visto il mio fisico alto e asciutto. Quel rosso mi ricordava molto il colore delle rose all’apice della fioritura: era così intenso e scuro che potevo fissarlo per ore e ore senza mai stancarmi. Inspirai molto profondamente, riempiendo le narici del suo profumo. Erano passate esattamente quattordici ore da quando se n’era andato ed io ero rimasta lì per tutto il tempo, a pensare proprio a Tom. L’unico movimento che avevo fatto era stato alzarmi pochi secondi per prendere una sua maglietta dall’enorme armadio che era a lato del letto e indossarla, buttando per terra il mio vecchio pigiama. Non mi interessava se ora mi poteva anche accusare di averli rubato un indumento. Alzai lo sguardo e l’appoggiai sul porta foto argentato che era posto al centro del comodino: la foto ritraeva i due gemelli da piccoli, mentre giocavano con alcune padelle in cucina. La cosa che spiccava di più era l’occhio nero di quello che era seduto per terra, che secondo me era Tom, poiché aveva lo stesso neo sulla guancia che avevo notato più volte. Rimasi per molto tempo a contemplare quella foto, pensando a tutte le ragioni possibili per cui lui avrebbe potuto fare una cosa del genere. La possibilità più plausibile era che la disperazione che aveva chiuso dentro da mesi ormai, si era liberata quando avevo toccato un argomento per lui molto sensibile: le fan. Forse, più che il suo tallone d’Achille, era quello di suo fratello e questo peggiorava la situazione, perché oltre a non sapere ancora per certo chi fosse il colpevole, Bill non dava cenni di risveglio. E, quindi, si era sfogato di nuovo ma questa volta su di me: l’unica persona che aveva vicino tutto il giorno da quando suo fratello non era più in grado di farlo. Quella foto mi aveva fatto capire una cosa importante: anche se una persona vuole bene ad un'altra, questo non vuol dire che non debbano litigare anche in modo forte, ma anzi, questo rafforza ancora di più la relazione. Perché come si poteva ben notare, Bill aveva colpito con una padella (anche se a quell’età forse non era volontario) suo fratello, procurandogli un occhio nero. Nonostante ciò il loro rapporto non aveva subito danni e il bene che si volevano, molto probabilmente era solo aumentato. Quindi, anche se Tom aveva usato delle parole cattive contro di me, questo poteva dire che non mi odiava, ma l’opposto.

Ma perché cercavo di tutto pur di non affermare che lui mi aveva trattato da vera merda?

Perché sei innamorata di lui Ashley, non scordartelo…

Vero. Come potevo biasimare la mia stessa coscienza?

Non sapevo quando sarebbe tornato, ma sapevo che l’ultimatum che mi aveva dato era serio, quindi mi dovevo dare una mossa e preparare le valige, anche se quello significava altro dolore e io non avevo molta forza dato che in quel momento avevo il cuore frantumato in mille pezzi. Mi stavo alzando dal letto quando sentii un rumore che stonava nel silenzio straziante che mi circondava. Fu lieve, forse troppo, quasi da pensare che me lo fossi immaginato. Ma ero sicura di averlo sentito. Era il cigolio di una porta che si chiudeva con una lentezza di bradipo, come quando di notte, per non svegliare la bambina, la madre chiude la porta lentamente cercando di non far nessun rumore.

Un’idea si fece subito strada nella mia mente. Un nome, sempre lo stesso: Tom.

Chi altro poteva essere?

Non ci pensai due volte e corsi giù per le scale, incurante di essere solo coperta da una maglia extra large.  Un sorriso nacque involontariamente sulle mie labbra e questo mi fece innervosire: possibile che, anche se mi aveva trattato male, ero pronta ad accoglierlo a braccia aperte?

Appena scesi l’ultimo gradino, guardai per tutto il soggiorno e il sorriso si spense subito: era deserto, non c’era proprio nessuno. Io, però, ero sicura di aver sentito quel rumore.

“Tom?”, chiamai, ma quel nome echeggiò nella stanza vuota, senza ricevere una risposta.

Guardai anche in cucina e nel bagno, ma niente. Non c’era nessuno e tantomeno lui. Sconsolata, mi avvicinai di nuovo alle scale per rintonare di sopra, ma qualcosa mi bloccò. C’era un foglio bianco, sul tavolo in soggiorno che prima non c’era. Lentamente mi avvicinai a quel mobile e presi il pezzo di carta con le mani tremanti. Un’altra possibilità si formò automaticamente: che qualcuno fosse entrato in casa? Ladri? Quell’opzione venne subito cancellata quando lessi quelle poche parole scritte al computer con un carattere semplice, ma in grassetto. Era firmato Tom. Questo mi fece ben sperare e, senza chiedermi spiegazioni, corsi di sopra, mi infilai delle panta di eco pelle nera, le mie vans rosse e uscii di casa, prendendo in prestito la Q7 bianca di Bill. Mentre parcheggiavo davanti a quell’edificio anonimo, avevo il sorriso stampato in volto, ignara dei pericoli in cui stavo per immergermi.

 

***

 

La notte mi aveva portato buoni consigli. Non potevo dire lo stesso del sonno, perché non avevo dormito affatto bene, a causa principalmente dei mille pensieri che mi ronzavano rumorosamente in testa: tra la stalker assassina, Bill, Ashley, le parole di Gustav e le mie accuse, bè, c’era poco da stare tranquilli e dormire sereni. Erano le tre del pomeriggio ed io ero ancora immerso nelle lenzuola bianco candido del lettone della camera degli ospiti, a torso nudo, che fissavo il soffitto concentrato con le mani intrecciate dietro la nuca. Avevo le sopracciglia aggrottate, come se dovessi trovare ogni singola venatura del legno di cui era fatto il soffitto della casa. L’unica certezza che avevo era che dovevo chiedere scusa ad Ashley. E l’avrei fatto appena sarei tornato a casa, sperando che non avesse preso alla lettera le mie minacce e se ne fosse andata veramente. Un’altra cosa, la seconda in ordine di importanza, era che dovevamo indagare su quella presunta stalker. Ci avevo pensato molto ed ero arrivato alla conclusione che tutto poteva succedere e quindi anche una fan che sparava alla superstar che amava era una spiegazione plausibile. I miei pensieri furono interrotti dal mio migliore amico che bussò alla porta.

“Che vuoi?!”, chiesi, con il tono che usavo sempre con lui: scocciato e strafottente.

“Fra esattamente cinque minuti ti voglio fuori da casa mia.”

“Mamma mia, che gentile che sei!”, gli scoccai un’occhiataccia.

“Lo sono sempre più di te. E ora muoviti, Ashley sta aspettando il tuo perdono.”

Alzai automaticamente gli occhi al cielo e Georg lo notò.

“Non sprecare quelle poche energie che ti sono rimaste con azioni inutili e usale per baciarla! Guarda che il tempo scorre… Tic toc tic toc!”, chiuse appena in tempo la porta per non beccare il cuscino che gli avevo lanciato dietro.

Ah, cavolo, quante cretinate che diceva! Però lui era fatto così, e in un certo senso era uguale a me. Questo, non potevo biasimarlo, mi piaceva e forse era proprio per questo se eravamo molto legati. Mi alzai sui gomiti e poi appoggiai i piedi per terra, in tutti i sensi. Andai in bagno e mi feci una doccia veloce sia per essere fresco e profumato sia per pensare un altro po’ sotto al getto rilassante dell’acqua calda. Quando fui pronto, salutai i miei amici e salii in macchina che avevo parcheggiato a pochi passi dalla villetta. Non feci molta attenzione alla guida, la testa era sulle nuvole, come sempre: come avrebbe reagito Ashley? Se fossi stato nei suoi panni mi sarei cacciato via di casa, anche se era mia. Se avesse reagito veramente così, non parlandomi più, l’avrei capita ma allo stesso tempo supplicata di darmi una seconda occasione. Se, invece, mi avesse perdonato io sarei stato il ragazzo più felice del mondo e l’avrei trattata nel modo in cui si deve trattare una ragazza d’oro come lei.

Quando arrivai a casa, le mani mi tremavano. Dovetti fare due tentativi per aprire la serratura. Non mi ero mai sentito così in vita mia: le farfalle svolazzavano impazzite nel mio stomaco e sentivo le gambe molli. Entrai in casa e, con mio grande dolore, scoprii che era vuota. A quel punto le gambe cedettero davvero, così mi sedetti sul divano, non sapendo cosa fare.

Se n’era andava veramente…

Una piccola speranza però rimaneva: ero sicuro che non avrebbe mai e poi mai lasciato Viola, quindi l’avrei rivista in ospedale e gli avrei potuto rivelare tutto quello che provavo, sperando solo che lei ascoltasse. Mi stropicciai la faccia, pensando disperatamente a cosa potevo fare. Dove poteva essere andata? La risposta fu lampante: in ospedale. Dove altro sennò? Non aveva abbastanza soldi per prenotare un albergo e di sicuro non era tornata a casa, lontano da Viola.

Mi alzai, deciso ad andare in quel luogo desolante e cupo, ma, quando lo feci, notai un foglietto bianco per terra, vicino al tavolo nel soggiorno. Era il suo biglietto d’addio?

Lo raccolsi e quando lo lessi il sangue mi si raggelò nelle vene. Un orribile presentimento si impossessò di me. Quel biglietto era firmato con il mio nome, ma io non l’avevo mai scritto. Quindi qualcuno era entrato in casa quando lei era da sola. Un altro brivido mi percorse la schiena. Dovevo andare, e subito. Sapevo che Ashley non se n’era andata, ma era in grave pericolo. Cosa dovevo fare? Ero semplicemente nel panico. Velocemente e con mano malferma presi le chiavi della macchina ed uscii di casa, notando con orrore che mancava la macchina di mio fratello. Mi maledissi mentalmente per averle dato una copia delle chiavi. Scrollai la testa, cacciando tutti i bruttissimi presentimenti che erano nati e salii sulla mia auto sportiva. Quel messaggio era infisso nella mia mente come una macchia indelebile. Poche parole, scritte al computer, ma che contenevano un grande significato e, soprattutto adatto a quella maledetta situazione.

 

Dobbiamo parlare.

Ci vediamo in ospedale.

Tom.

 

In quel momento, mentre sfrecciavo tra le vie di Amburgo illuminate solo dalle luci dei lampioni mi ritornarono in mente le parole di Georg, dette solo per gioco, ma che si erano trasformate in serietà.

“Guarda che il tempo scorre… Tic toc tic toc!”

Tic toc tic toc tic toc….

Quasi sentivo l’orologio dentro la mia testa che ritoccava quei secondi che, sapevo, avrebbero portato qualcosa di veramente malevolo. Una sensazione in particolare mi stava mangiando letteralmente lo stomaco: la paura di perdere un’altra persona per me indispensabile.

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Capitolo 18
*** Devo finire il mio lavoro. ***


XVIII: Devo finire il mio lavoro.


Mi fermai di colpo davanti a alla porta a spinta bianca. Fissai intensamente la scritta che occupava gran parte della sezione superiore, di colore nero, sperando vivamente che fosse l'ultima volta che l'avrei rivista. Sotto sotto, però, ero sicura che non sarebbe stato così. Ormai erano mesi che passavo ore e ore in quel maledetto reparto, era quasi diventato come una seconda casa.

Terapia intensiva.

Assottigliai gli occhi, come per farla sparire. In vita mia ero stata poche volte in un ospedale, ma quei pochi momenti erano stati tragici. Significavano solo tristezza e dolore.

E questo non era da meno.

Sospirai sonoramente e spinsi la stecca rossa per aprire la porta e poi percorsi il lungo corridoio illuminato solo da alcune luci al neon sul soffitto. Era deserto, visto che non era orario di visita e gli unici parenti che erano presenti si erano già addormentati seduti su una poltrona scomoda al capezzale del proprio familiare. La suola delle mie vans producevano un suono sordo al contatto con il linoleum grigio del pavimento. Una domanda riecheggiava nella mia mente come il ritmo scandito dai miei passi nel silenzio tombale del corridoio: ero pronta per quello? Non lo sapevo. Non sapevo se ero davvero pronta a vedere Tom e, soprattutto, a perdonarlo. In fin dei conti, lui mi aveva ferita ripetutamente, conficcandomi un pugnale alle spalle e non era facile da dimenticare.

L'unica soluzione a quella situazione era vederlo in faccia. A quel punto avrei avuto la certezza sul da farsi: se accettare le sue scuse; sempre se si sarebbe scusato, o trattarlo come lui aveva fatto con me.

Arrivai davanti alla stanza 88 e notai che la porta era socchiusa e dentro governava il buio. Mi bloccai con la mano a mezz'aria pronta ad aprirla. Le sopracciglia si aggrottarono involontariamente, dubbiose sul perché Tom non avesse acceso le luci se era lì dentro. Forse si era addormentato mentre mi aspettava? Scrollai le spalle ed entrai, cercando di fare il meno rumore possibile. Appena chiusi lentamente la porta dietro di me, la piccola lampada che si trovava sul comodino vicino al letto di Bill si accese. Un brivido freddo mi percorse la schiena.

“Finalmente sei arrivata. Ti stavo aspettando.”

***

“Maledizione, maledizione, maledizione!”, urlai ripetutamente, sbattendo la mano contro al volante.

Ashley aveva dimenticato anche il cellulare a casa, perfetto! Tutto andava a gonfie vele: lei era in pericolo e io non riuscivo a contattarla. Anzi, non avevo la minima idea di cosa fare! Me ne stavo lì, seduto sul sedile della mia auto parcheggiata davanti all'ospedale a pensare ad un piano. Sapevo al cento per cento che qualcuno l'aveva incastrata, ma non ero sicuro che fosse davvero stata lei. Certo, la decisione più saggia sarebbe stata quella di chiamare la polizia e spiegare tutto, ma il mio orgoglio in quel momento era più forte di tutti: non volevo rovinarmi la reputazione se tutto questo era solo una farsa.

Ah, cavolo! Perché sei fatto così, Tom?

Appoggiai la fronte sulla pelle fredda del voltante e chiusi gli occhi. Non avevo mai pensato così tanto in vita mia. Sentivo le goccioline di sudore scivolare lentamente sul mio viso. Mi diedi un pugno sulla gamba, per fermare il tremolio che mi stava dando sui nervi e, senza pensarci due volte per non avere ripensamenti, scesi dalla macchina e mi avviai dentro quell'enorme edificio bianco, sperando solo di aver fatto la scelta giusta.

E, soprattutto, che Ashley stesse bene.

Tirai di nuovo fuori il mio cellulare dalla tasca enorme dei jeans e cercai il numero del mio migliore amico nella rubrica, con la mano tremante. Lo avvicinai all’orecchio mentre salutai con un cenno del capo l’infermiera che era seduta dietro al lungo bancone di legno all’entrata.

Rispondi, maledizione…

Stavo per interrompere la comunicazione lanciando quell’aggeggio contro al muro quando sentii la sua voce. “Pronto?” tirai un sospiro di sollievo.

“Georg. Mi devi aiutare.”

***

Come ero riuscita ad essere così stupida? Questa domanda mi frullava in testa mente fissavo il ghigno malefico che distorceva le labbra sottili della ragazza di fronte a me. Automaticamente indietreggiai di un passo e mi ritrovai con le spalle al muro, in tutti i sensi.

“Non provare neanche ad uscire da quella porta…” sussurrò, lanciandomi uno sguardo infuocato. “… Oppure sarò costretta ad ucciderti.”

Deglutii sonoramente a causa dell’enorme groppo che mi si era formato in gola alla vista della pistola che mi stava puntando contro.

“Chi sei?” chiesi quando mi ritornò la voce.

La ragazza abbassò con un gesto secco il braccio, roteando gli occhi come se quella domanda fosse senza senso.

“Oh, Ash, pensavo fossi più intelligente!” Disse con una smorfia stampata in volto.

Quando sentii il mio soprannome che solo poche persone usavano capii tutto. Ogni singolo pezzo di puzzle si incastrò al proprio posto e il quadro che si formò davanti ai miei occhi mi fece raggelare.

“Amy.” Il suo nome uscì come un sospiro dalle mie labbra.

La mora batté lentamente la mano libera contro il polso più volte, come per farmi un applauso. “Bingo!” esclamò, sogghignando.

In quel momento non sapevo né cosa fare né cosa dire. Rimasi semplicemente lì, a fissare quella ragazza bassa, con dei capelli a caschetto neri e rovinati, occhi di un marrone spento e un fisico abbastanza robusto. Le mi fissava di rimando, forse immaginandosi i miei pensieri e senza cancellare il riso malefico dalle labbra. Non riuscii a non notare i denti storti che spuntavano. Per niente al mondo avrei immaginato l’assassina della mia migliore amica così. Avevo fatto moltissimi sogni su di “lui”, immaginandolo come nei film; magari grosso, pelato e pieno di tatuaggi. Ma, alla fine, niente era come nei film. Non riuscivo ancora a credere che davanti a me c’era Amy, la skalker che aveva quasi ucciso Bill Kaulitz e Viola. Avrei voluto tirarle un pugno o qualsiasi altra cosa, ma la parte più debole di me prese il sopravvento alla vista della pistola e della fune che penzolava dalle sue mani. Lanciai un’occhiata verso il letto della mia amica e sospirai: non volevo le facesse ancora del male, quindi avrei fatto tutto quello che mi avrebbe chiesto.

“Perché l’hai fatto?” mi resi conto di aver parlato solo quando ricevetti la risposta.

“Quella che fa le domande qui sono io.” L’odio nella sua voce si poteva quasi toccare. “E ora fai la brava e siediti qui.” Aggiunse, indicando con l’indice la sedia di fronte ai due letti e puntandomi di nuovo contro l’arma. Cosa potevo fare se non obbedire? Perché ero certa che non avrebbe esitato a sparare se avessi cercato di scappare e di certo io non ero Lara Croft. Quindi mi avvicinai con passi lenti, tenendo le mani ben in vista per non creare sospetti inutili e quando mi sedetti, mi ritrovai il suo vico a pochi centimetri dal mio. Da quella distanza potevo vedere anche le poche lentiggini che aveva sul naso.

“Bene, bene… Quindi tu sei la nuova finanzatina di Tom.” Disse, alzando una ciocca dei miei capelli color pece con la pistola.

Sia per le parole che per il gesto, un altro brivido mi percorse il corpo. Come diavolo faceva a sapere tutte quelle cose? Sicuramente aveva spiato anche la nostra litigata, perché sapeva che Tom non era in casa quando aveva fatto irruzione e sapeva che ci eravamo allontanati, perché le parole che aveva scritto sul biglietto erano dannatamente perfette.

“Non sono la sua fidanzata.” Sussurrai, più a me stessa che a lei.

Dopo tutto il male che mi aveva inflitto, di certo non sarei diventata la sua ragazza.

“Oh, povera.” Disse Amy con fare teatrale assumendo una faccia triste. “Cos’è che ha detto pure? Ah, sì: forse era meglio se ti buttavi veramente da quel tetto.”

Sentire di nuovo quella frase mi fece venire la nausea e forse fu proprio in quel momento che capii realmente quello che Tom mi aveva detto: era meglio se fossi morta. Come ero riuscita ad essere così stupida e addirittura inginocchiarmi davanti a lui ed accarezzarlo? Dove era finita la vera Ashley, quella determinata che in una situazione così avrebbe preso a pugni il ragazzo che aveva causato tutto? Era amareggiata, arrabbiata, disgustata  dalll'ingenuità con cui mi ero fidata di una persona famosa che conoscevo a malapena. Se non fosse stato per lui, ora io non sarei bloccata sotto le grinfie di una stalker letteralmente pazza. Se mi avesse solamente ascoltato, dato la possibilità di fargli capire che ero sulla strada giusta, tutto questo non sarebbe successo. Invece mi aveva aggredito dicendomi che sarebbe stato meglio se fossi morta. Quando chiusi gli occhi per soffocare la rabbia, lei rise di gusto, legandomi i polsi e le caviglie ben stretti alla sedia con delle funi.

“Come fai a saperlo?” chiesi tra i denti, ormai stufa di quella situazione.

La mia vita si era trasformata in un vero incubo, loro l’avevano trasformata in un incubo. Quando avevo varcato quella maledettissima porta della libreria per vedere quei maledettissimi Tokio Hotel, era come se fossi entrata in un maledettissimo sogno.

“Ah, Ashley.” Sospirò ironicamente, facendo poi un sorriso finto. “Non mi sono ancora presentata. Mi chiamo Amy, stalker di Bill Kaulitz!”

Nel modo in cui lo disse, sembrava veramente orgogliosa di essere una sanguisuga attaccata al sedere di un cantante famoso. Che schifo.

Di colpo, afferrò il colletto della mia maglietta e annusò profondamente. Io alzai in mento per non toccare i suoi capelli unti e rovinati e chiusi gli occhi, sperando con tutta me stessa che quella situazione finisse presto. Però avevo notato che aveva le unghie laccate di nero e questo mi fece venire i n mente l’indizio che avevamo trovato.

Era proprio lei.

Con un gesto secco mi lasciò andare e io riaprii gli occhi, notando che il suo sorriso si era ingrandito.

“Quella maglietta è di Tom.” Disse, leccandosi le labbra. “Sono sicura che arriverà a salvare la sua piccola e indifesa fanciulla.” Disse, alzandomi il mento con l’indice e fissando i suoi occhi nei miei.

Io assottigliai lo sguardo, come per cercare di guardare dentro di lei, perché fino a quel momento, l’unica cosa che avevo capito era che non stava affatto bene. Sembrava realmente malata.

“Allora io sono…”

“La mia esca, si.” Finì la mia frase, tirandosi indietro e ridendo di nuovo.

Perché non l’avevo capito prima? Non mi ero mai sentita così ingenua in vita mia. Come avevo fatto a non capire che quel biglietto non era stato scritto veramente da Tom? Pensandoci bene, lui non avrebbe mai lasciato un biglietto, e poi scritto al computer. Avrebbe chiarito la situazione faccia a faccia, lo sapevo. E allora perché ero corsa all’ospedale senza ragionarci sopra?

Perché ti stai follemente innamorando di lui…

Se avessi avuto le mani libere, mi sarei menata da sola per quei pensieri. Cercai di liberare i polsi, ma la fune sembrava essere stata legata da mani esperte: ormai le mie erano indolenzite e avevo paura che quando le avrebbe slegate, se l’avesse fatto, ci sarebbe stato anche del sangue, da quanto era stretta. Ad ogni minimo movimento sentivo il materiale della corda sfregare contro la mia pelle, provocandomi un bruciore insopportabile.

“Perché l’hai fatto?” ripetei la stessa domanda, poiché era quella più importante. “Perché hai sparato alla mia migliore amica?”

A quelle parole Amy cercò di accarezzarmi la guancia con le dita, però io mi ritrassi subito, come se le sue mani andassero a fuoco e io non mi volevo scottare.

“La tua cara Viola è stata solo un errore.” Disse, tirando fuori dalla tasca dei jeans neri un coltello molto affilato.

Chiusi gli occhi, cercando di mandare giù il nodo che mi si era fermato in gola. Un errore. Era stato solo un errore.

“Fottiti.” Sussurrai tra i denti livida di rabbia, senza neanche pensarci.

“Come scusa?”

In un batter d’occhio era a pochissimi centimetri da me, con il coltello puntato sulla mia gola. Sentivo l’acciaio duro e freddo al contatto della mia pelle. Fissai quegli occhi che brillavano, specchio della sua pazzia.

“Ho detto fottiti.” Riuscii a ripetere, raccogliendo un po’ di coraggio nascosto nel profondo e capendo che mi riferivo sia a lei che a Tom.

Lei, con mia sorpresa, rise. Una risata maligna. “Oh, Ashley, credo tu non abbia ancora capito chi comanda qui.” Sogghignò, facendo una leggera pressione sul coltello. “Sai, se continui a parlare, potresti diventare un errore anche tu.”

Premette ancora di più sul mio collo. Sentivo l’odore metallico del mio sangue uscire dal taglio che si era creato. Chiusi gli occhi, aspettando la mia fine.

“Ma non lo farò.” Disse di colpo, girandosi verso la porta, ma senza allontanare il coltello. “Perché Tom Kaulitz si è unito alla nostra festa!”

Aprii gli occhi di scatto, guardando dritto davanti a me. La porta si aprì lentamente, scoprendo la figura alta e snella del chitarrista. Appena lo guardai in faccia, la rabbia mi invase di nuovo come un fiume in piena e realizzai che non avrei potuto perdonarlo per ciò che aveva fatto, mai.

***

Come aveva fatto a sentirmi arrivare?

Avevo a malapena appoggiato la mano sul legno bianco della porta con il fiatone dovuto alla corsa quando avevo sentito la sua voce femminile. Oh, il fiatone. Ecco cos’aveva sentito.

Maledicendomi mentalmente, aprii lentamente la porta, assicurandomi per l’ennesima volta che il cellulare fosse al proprio posto nella tasca posteriore dei pantaloni. Appena si aprì del tutto, mi immobilizzai: c’era una ragazza nera dalla testa ai piedi che teneva premuto un coltello sulla gola macchiata di rosso di Ashley, che era legata ad una sedia ed indossava una mia maglietta rossa come il suo sangue. L’avevo riconosciuta all’istante perché era una delle mie preferite. Sul davanti erano disegnati tre teschi disposti in una fila verticale. Ognuno di essi era collegato ad un dei cinque sensi: non vedo, non sento, non parlo era il suo significato.

Non vedo, non sento, non parlo…

Mi mancò il respiro quando capii a chi erano associate quelle parole: a me. Io non avevo visto la verità che mi era stata messa sotto gli occhi, io non avevo ascoltato nessuna delle suppliche e spiegazioni di Ashley che cercava di spiegarmi la realtà dei fatti e io avevo parlato senza pensare, accusandola di cose senza senso e urlandole contro che era meglio se si fosse suicidata. Per la prima volta, il senso di colpa mi fece stringere il cuore, perché avevo capito veramente cosa avevo fatto. Percorsi velocemente tutto il suo corpo asciutto fino ad arrivare al volto. Mi venne una fitta allo stomaco quando la guardai negli occhi: erano freddi, duri e disgustati.

Quello sguardo mi fece sentire ancora più male, ma ero consapevole che me lo meritavo.

“Pensavo fossi più sveglio, Tomi.” A quelle parole mi risvegliai dai miei pensieri, girandomi verso di lei e aggrottando le sopracciglia. “Su, muoviti. Chiudi la porta e vieni a sederti vicino alla tua donzella.”

“Lasciala andare.” Sussurrai, senza pensarci due volte e ritornando a fissare Ashley. “Lasciala andare e prendi me, Amy.”

Annuii lentamente, per far capire ad Ash che andava tutto bene, che avevo tutto sotto controllo, ma lei distolse lo sguardo, ma non così velocemente da permettermi di non vedere che aveva gli occhi lucidi.

Che cosa avevo fatto? Mi chiesi per l’ennesima volta. Ho davvero rovinato tutto?

Chiusi la porta e mi avvicinai ad Amy, che aveva piegato il labbro inferiore e inclinato la testa di lato.

“Sono così contenta che tu sappia chi sono. Sai, sono una su milioni.” La sua voce era così acuta che mi fischiavano già le orecchie.

Ignorando le parole della stalker, fissavo sempre Ashley mentre mi ci sedevo vicino, cercando di catturare di nuovo il suo sguardo che invece era rivolto da tutta un’altra parte.

“Smettila di guardare quella lì.” Disse Amy, stringendo i miei polsi alla sedia per poi passare a legarmi le caviglie. “Tu devi guardare me.”

“Ah, davvero? Chi sei per meritare la mia attenzione?” a quelle parole mi si parò davanti, puntandomi il coltello contro.

Io però non mi tirai indietro, anzi l’affrontai avvicinandomi a lei quanto potevo, arrivando a far toccare la punta con il petto. “Cosa farai, eh? Ucciderai anche me?”

“Taci!” urlò, dandomi un colpo sulla guancia, facendomi girare la testa di lato.

“E’ così che tratti i tuoi idoli?” la sfidai, ritornando a guardarla, non curante del bruciore che mi aveva provocato.

“Io non ho mai detto di amarti.” Sputò, a pochi centimetri dalla mia faccia. “Io amo solo Bill.”

“Scusami?!” chiesi ed Amy alzò gli occhi al cielo.

“Sì, idiota. Ti devo fare un disegnino?”

Non riuscii a non trattenere una risata. Stava scherzando, vero? Non poteva essere seria. Fissai per alcuni secondi i suoi occhi scuri come la notte e poi guardai con la coda dell’occhio Ashley, immobile con lo sguardo sbalordito.

Okay, non stava scherzando…

Mi schiarii la gola, un po’ a disagio e cercai di cambiare discorso. “Ora che mi hai legato, libera Ashley.”

Questa volta fu lei a ridere di gusto. “Oh, certo.”

Si avvicinò a lei e, con un movimento veloce, passò il coltello sul braccio nudo della ragazza, procurandole un altro taglio. Lei chiuse automaticamente gli occhi e aggrottò il volto, cercando di tenere a bada il dolore.
“BASTARDA!” gridai e lei rise di nuovo.

“Bene. Ora che hai capito cosa posso fare, ritorniamo a noi due.” Si inginocchiò vicino a me.

Il cuore mi pulsava forte nel petto, rimbombando nelle mie orecchie. Digrignai i denti, furioso.

Lei aveva mandato in coma mio fratello, aveva quasi ucciso una ragazza innocente e aveva ferito Ashley.

Oh, quanto avrei voluto ucciderla io.

“Perché l’hai fatto?” sussurrai tra i denti e lei sbuffò, giocando con il coltello.

“La smettete di fare sempre la stessa domanda?” aggrottai le sopracciglia, confuso. “L’ha già fatta la tua amichetta.”

Si alzò, avvicinandosi al letto di Bill e io automaticamente mi raddrizzai, appoggiandomi allo schienale.

Amy camminava lenta, come un leone che si avvicinava alla sua preda attento a non farla scappare.

“Come ho già detto, io amo Bill.”

Sentire il nome di mio fratello uscire da quelle labbra mi fece contorcere lo stomaco. Come poteva affermare di amarlo dopo averlo ferito così gravemente? Mi pietrificai all’istante ripensando a quella domanda. Io avevo fatto la stessa cosa. Anche io avevo fatto del male alla persona che amavo, non fisico come il suo, ma psicologico. Il solo pensiero di poter essere paragonato a lei mi fece rabbrividire. Almeno io che potevo, dovevo tentare qualsiasi cosa per ottenere il perdono di Ashley.

Fissai Amy che al capezzale del letto e si appoggiò con i gomiti sulle lenzuola bianche, troppo vicino a lui.

“Ma lui non mi conosce neanche.” prese in mano uno dei suo rasta e iniziò a giocherellare con la parte bianca. “Ho provato a farmi conoscere, sono venuta a tutti i vostri concerti e i vostri eventi, ma ogni volta che mi guardava in faccia passava oltre.”

“E’ per questo che hai sparato? Solo perché passava oltre?” chiesi, disgustato.

Lei si portò la mano libera sul mento, come per pensarci su. “Diciamo di sì.” Disse alla fine, girandosi verso di me con un sorriso falso stampato in faccia.

“Comunque.” Continuò, girandosi di nuovo verso mio fratello. “Vi ho fatto venire qui, soprattutto a te, Tom, per un motivo ben preciso.” Rimase qualche minuto in silenzio, come per trovare le parole giuste per continuare.

“Per la cronaca.” Iniziò alla fine, grattandosi la nuca. “E’ stato fin troppo facile ingannarvi.” Ridacchiò. “Infiltrarmi a casa tua, lasciare a casa tua, entrare qui dentro senza essere scoperta. E’ stato un vero gioco da ragazzi!”

Batté le mani, felice come un bambino la mattina di natale. Un suono simile ad un ringhio uscì dalla mia bocca. Non era possibile che una nostra fan era felice di aver mandato in coma il suo idolo e di aver incastrato suo fratello. Non poteva essere reale, doveva essere un fottuto sogno. La rabbia ribolliva dentro di me mentre seguivo ogni suo singolo movimento: andò verso l’armadio nell’angolo della stanza e tirò fuori un cuscino. Ritornò vicino a noi, guardandoci entrambi e sogghignando mentre tornava vicino a Bill. “Devo finire il mio lavoro.”

Quando capii il suo intento, cercai di alzarmi e fermarla, ma senza risultato. “Non lo toccare, bastarda!” urlai con tutte le mie forze, proprio quando Ashley urlò un “No!” disperato.

Si fermò con il cuscino a mezz’aria. “Oh, siete così carini insieme.” Disse, ridacchiando. “Ma, sapete. Magari vi sto solo facendo un favore ad ucciderlo, così avrete più tempo per voi due.”

“Non ci provare, lurida –“

“Ah-ah. Non si dicono le parolacce.” proferì, scuotendo la testa e accarezzando poi la guancia pallida di Bill.

“Se non lo posso avere io, non lo può avere nessuno.” Sussurrò, assottigliando gli occhi.

“Tu sei malata!” gridò Ashley vicino a me mentre cominciò a dimenarsi per liberarsi.

Mi si raggelò il sangue a sentire il suono della sua voce. Vederla così, disperata mentre cercava di slegare le funi mi fece accelerare le pulsazioni del cuore ancora di più.

Era colpa mia, era tutta colpa mia.

Cercai di slegarmi, di avvicinarmi a lei, di fare qualsiasi cosa per salvare mio fratello e Ashley.

“Può essere.” Borbottò la ragazza alzando le spalle, prima di coprire completamente il volto di Bill con il cuscino.

“NO, NO, NO!” urlai con tutte le mie forze.

Ma non c’era niente da fare. Ero inerme davanti a quella situazione. Stavo per vedere il mio gemello morire davanti ai miei occhi. Lacrime salate scesero pazze lungo le mie guance quando Amy esercitò ancora più pressione.

“Dite bye bye al vostro amato cantante.“ la sua risata malefica echeggiò nella stanza e le macchine iniziarono ad emanare suoni acuti ed irregolari.

Era la fine, lo sapevo.

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Capitolo 19
*** Ti ho salvato la vita. ***


Mi devo assolutamente scusare per l'eeenorme assenza, ormai è passato un mese dall'ultimo capitolo. Scusatemi, ma la scuola mi sta letteralmente uccidendo. Siamo all'ultimo mese e solo ora i professori si accorgono che manca poco alla fine. AHAH Comunque, tralasciando la scuola, ho avuto anche qualche problemino (tipo un blocco da scrittore eterno AHAH) e quindi riesco a pubblicare solo ora. Scusatemi ancora, spero solo che questo capitolo ripaghi tutto il tempo che avete dovuto aspettare çç Bè, ora vi lascio leggere, perchè è un capitolo davvero tosto. Buona lettura e grazie a tutti quelli che leggono e a chi recensisce ♥

xoxo, lex.

XIX: Ti ho salvato la vita.


“Polizia di Amburgo!” la porta si spalancò di colpo ed entrarono cinque poliziotti armati, che puntarono immediatamente le pistole contro Amy che era ancora in piedi vicino al letto. “Getta l’arma e metti le mani ben in vista!”

L'uomo che aveva parlato si staccò dal gruppo e le si avvicinò. La ragazza si era completamente immobilizzata con le mani ancora strette sul cuscino e guardava sbalordita le armi che le stavano puntando contro. I suoi occhi erano strabuzzati e iniziò a respirare affannosamente. Anche io mi ero pietrificata e stavo guardando la scena con il cuore in gola. Non capivo la reazione della stalker: era davvero spaventata dai poliziotti? Come poteva esserlo se poco prima mi aveva ferito due volte, legato ad una sedia e stava addirittura per uccidere il suo idolo?

Sbattei più volte le palpebre per mandare via le poche lacrime che ancora mi appannavano la vista e trovai la risposta a quella domanda: aveva paura di loro perché erano più forti di lei. Avevano più potere. Non si sarebbe mai aspettata che qualcuno fosse riuscito a chiamare la polizia. Era così sicura di se stessa che non aveva neanche pensato a quella opzione. Secondo lei il piano sarebbe andato a buon fine, senza ostacoli e quindi quando si era ritrovata davanti alla squadra armata, il suo muro di certezze era completamente crollato e la parte più debole di lei era uscita alla luce del sole.

“Lo ripeto un'ultima volta: mani ben in vista!” urlò di nuovo il poliziotto, facendomi risvegliare dai miei pensieri.

“Io...Non...” balbettò Amy, lasciando di colpo la presa e alzando le mani tremanti, mentre qualche lacrima scendeva sulle sue guance arrossate.

Ora piangeva? Quella scena era surreale, Amy era surreale. Non riuscivo davvero a capire quella ragazza, infatti la mia ipotesi era stata confermata: c'era qualcosa che non andava in lei, era malata. Come poteva essere il contrario?

Appena alzò le mani tremanti al cielo due poliziotti corsero velocemente verso di lei e il più grosso le afferrò le braccia ammanettandola.

“Lei è in arresto per tentato omicidio e per sequestro di persona. Ha il diritto di restare in silenzio, qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale.”

Un brivido mi percorse la schiena: quella frase l'avevo sempre e solo sentita nei film.

Lei è in arresto per tentato omicidio...

Una nuova consapevolezza si fece strada dentro di me: ce l'avevamo veramente fatta? Era davvero tutto finito?

La risposta arrivò poco dopo, quando dalla porta ancora aperta entrarono tre medici che corsero subito vicino al letto di Bill. Solo in quel momento le mie orecchie percepirono di nuovo il rumore delle macchine che sembravano come impazzite. Rimaneva ancora la cosa più importante: Bill stava rischiando la vita.

“Ho bisogno che andiate tutti fuori, è un'emergenza.” disse il dottor Peters, cercando di usare un tono il più gentile possibile, ma si capiva che era nervoso e impaziente.

Subito due poliziotti si avvicinarono a noi, liberandoci dalle funi. Appena tagliò le mie, il bruciore ai polsi non si alleviò, ma al contrario, aumentò. Mentre mi alzavo dalla sedia, cercai di toccare la ferita che si era formata, ma appena lo feci dovetti chiudere gli occhi dal dolore. Non feci in tempo ad aprirli di nuovo, che sentii l'agente spingermi da dietro per farmi uscire dalla stanza. Stavo per dirgli qualcosa, ma Amy mi bloccò.

“La pagherai, Kaulitz!” urlò, mentre i due poliziotti cercavano di tenerla ferma, poichè si dimenava in preda a spasmi di rabbia. “Pagherai per questo, dovessi morire!”

Le ultime parole echeggiarono nel corridoio mentre la trascinavano via. Guardai per l’ultima volta quel viso che sarebbe rimasto per sempre impresso nella mia mente, insieme a quello dei miei genitori che erano catalogati nell’album delle persone che mi avevano rovinato al vita. Girai la testa verso la mia destra, fissando per l’ultima volta il viso sereno della mia migliore amica oltre la spalla del poliziotto che mi stava portando fuori dalla stanza, grata che Amy non le aveva fatto ulteriormente del male. Poi passai a quello di Bill, che non riuscii a vedere bene a causa dei medici che lo circondavano mentre lo denudavano del camice e preparavano  il defibrillatore. Alla vista dello strumento, un nodo mi si formò in gola: era in fin di vita di nuovo.

Solo in quel momento, mentre fissavo quel volto dai lineamenti delicati, mi ricordai di Tom.

Mi ero come dimenticata di lui. Non l'avevo guardato minimamente da quando era entrato, anche se avevo percepito il suo sguardo su di me varie volte. Era come se l'avessi completamente cancellato dalla mia mente, come se non esistesse più. E forse era veramente così, perchè quando con un gesto involontario girai il capo per cercarlo e me lo ritrovai davanti, un’improvvisa rabbia si accese dentro di me. Appena i nostri occhi si incontrarono, però, non riuscii a distogliere lo sguardo. Perchè? Perchè quei maledettissimi occhi avevano così tanto controllo su di me?

Il mio corpo diceva di andarmene e lasciarlo lì da solo, tuttavia il cuore era diretto nella direzione opposta. Anche se mi aveva fatto del male, una parte di me voleva abbracciarlo, perdersi nei suoi occhi e magari anche baciarlo.

Il tonfo sordo della porta che veniva sbattuta dietro di me mi fece sobbalzare e finalmente distolsi lo sguardo, riprendendo il controllo su me stessa. Inchiodai gli occhi sulla sagoma della corda che era rimasta impressa sui miei polsi e quasi non notai l'infermiera che mi stava porgendo un asciugamano bagnato. Lo presi senza guardarla in volto e  sussurrai un 'grazie' a malapena udibile.

Mi andai a sedere sulla panchina davanti alla porta e lo appoggiai sul taglio sul collo, che era quello che mi faceva più male. Appena l'acqua fredda entrò in contatto con la ferita, mi irrigidii e soffocai un lamento di dolore.

Fottiti Tom, fottetevi tutti.

“Ashley... Io...” Tom, che si era avvicinato, non ebbe il tempo di dire altro che una voce lo sovrastò.

“TOM!” entrambi girammo la testa verso l'entrata del reparto e vedemmo Georg che correva verso di noi con il fiatone.

L'interessato, in piedi davanti a me, si incamminò verso l'amico, lanciandomi prima un'occhiata di scuse.

Io scossi la testa quando i due si abbracciarono e si diedero una pacca sulla spalla. Lui aveva causato tutto questo e veniva anche abbracciato.

“Grazie a Dio stai bene!” esclamò il bassista.

“Sì, ed è tutto grazie a te.” gli diede un pugno sulla spalla. “Grazie mille amico!”

Il sangue mi ribolliva dentro e involontariamente strinsi i pugni, pentendomene subito dopo. Ogni singolo gesto che facevo mi faceva un male tremendo. Invece lui riusciva addirittura a tirare pacche a destra e a manca. Appoggiai la testa al muro e chiusi gli occhi.

“David, Gustav!” quando sentii Tom pronunciare quei nomi con un tono sollevato, feci due respiri profondi per calmarmi.

Sentivo le loro voci che parlavano, ma non capivo le parole a causa della distanza. Forse era solo una fortuna, altrimenti ero sicura che sarei scoppiata.

Passarono molti minuti e la situazione non cambiò di una virgola, tranne il fatto che al nervosismo si era aggiunta la tristezza. In quel momento avevo realizzato che io ero completamente sola. Non avevo nessuno che teneva a me o che mi voleva bene. Nessuno tranne Viola. Non avevo alcun familiare che si preoccupasse di cosa facevo, se ero in pericolo o se ero felice o meno. Ero sola con me stessa. E questo faceva terribilmente male.

Strinsi gli occhi con tutte le mie forze per impedire alle lacrime di uscire. Non volevo piangere, sapevo cosa sarebbe successo da lì a pochi minuti: dovevo affrontare Tom. O meglio, lui avrebbe affrontato l'argomento.  Perché io non volevo più avere niente a che fare con lui, non volevo sprecare altre parole. Non avevo più niente da dirgli, quindi non avrei aperto bocca. Ma ero certa che lui mi avrebbe costretto a farlo, quindi dovevo essere forte e trattenere le lacrime.

In realtà avrei voluto andarmene direttamente via, il mio primo pensiero era stato quello di prendere l’asciugamano e scappare via da quel dannato posto, lontano dai problemi, ma soprattutto, lontano da lui. Dopo ciò che era successo quella sera mi ero resa conto che quando lui era attorno a me cambiavo completamente, come una moneta a due facce. Da un lato c’era la Ashley di sempre, quella determinata e sicura di se stessa, che prima di dare fiducia ad una persona doveva conoscerla nel profondo; dall’altro c’era la Ashley debole, senza una personalità definita che si sottometteva a qualsiasi persona a cui voleva bene. E io odiavo la mia seconda faccia. Però in quel periodo, da quando avevo conosciuto Tom era come se avessi perso il controllo di me stessa. La parte più debole di me era riuscita a mettere da parte l’altra, nascondendola in una parte remota della mia mente, facendomi commettere molti, troppi errori. Comunque, sapevo perché  ero rimasta: anche se non lo conoscevo bene, anzi per niente, in qualche modo mi ero legata a Bill. Forse perché era nella stessa situazione di Viola, o forse perché sapevo che per lei rappresentava una persona importante. Fatto sta che volevo sapere come stava e lo stomaco mi si contorceva al pensiero che sarebbe potuto morire. Aveva rischiato già un’altra volta e se fosse successo alla mia migliore amica io non avrei saputo come gestire la cosa.

“Ashley come sta?” i miei pensieri furono di nuovo catturati dalla voce di Gustav che si era appena aggiunto al gruppetto.

Di colpo aprii gli occhi e li puntai sulla schiena di Tom, curiosa di conoscere la risposta.

“Per fortuna alla fine è andato tutto bene.” disse e, anche se non lo vedevo in faccia, percepii che stava sorridendo. “Ashley ha qualche ferita, ma sta bene.”

A quel punto non ci vidi più e mi alzai di scatto, iniziando a camminare spedita verso i bagni, che si trovavano dalla parte opposta del corridoio da dove erano loro.

Non era possibile che l’avesse detto veramente. Non poteva essere serio. Non poteva aver sorriso mentre diceva che io stavo bene. Avevo due tagli, uno sulla gola e uno sul braccio e avevo quattro solchi tra caviglie e polsi e lui aveva il coraggio di dire che stavo bene? Se prima non volevo parlargli, ora non lo volevo  più vedere. Tutto quello che era successo era stata colpa sua.

“Ashley!” appena sentii la sua voce mi venne la pelle d’oca. “Ashley, aspetta!”

Non curante del dolore che mi procurava, allungai il passo senza degnarlo di una sola parola.
Cosa voleva adesso? Voleva dirmi che gli dispiaceva?  Non volevo ascoltare le sue scuse, non avrei retto la rabbia. Era troppa. Si era accumulata dagli eventi che erano successi dall’inizio di quell’orrenda avventura e non era ancora uscita libera. Ma sarei esplosa presto se continuavo in quella direzione, lo sapevo.  Sarebbe uscita fuori come un fiume in piena.

“Fermati!” mi supplicò di nuovo.

Io non lo ascoltai, velocizzandomi ancora di più e concentrandomi sul suono dei miei passi, mischiato a quello dei suoi che erano più pesanti e rumorosi. Purtroppo il bagno delle donne era alla fine del corridoio, quindi avrei dovuto aspettare ancora un po’ prima di riuscire a chiudermi dentro per non sentire più la sua voce.

“Perché non mi parli?” chiese, con il respiro che cominciava a farsi più affannoso. “Cosa ho fatto di male?”

Cosa hai fatto di male?! Spero tu stia scherzando!

Strinsi le labbra per trattenermi dall’urlargli contro. Non dovevo abbassarmi al suo livello. Dovevo stare zitta e non prestargli attenzione. Ma era difficile con uno come Tom.

“Lo so che ho combinato un casino. Ho sbagliato, okay? Mi dispiace.” Disse poi e io alzai gli occhi al cielo: per fortuna qualche neurone gli era rimasto.

Anche se sembrava sincero, non mi fermai. Non me ne fregava niente delle sue scuse, non mi servivano parole, mi servivano fatti.

“Però non capisco perché scappi così!” continuò, capendo che io non avrei detto niente. “Non posso avere una seconda occasione?”

Non la meriti una seconda occasione dopo quello che mi hai fatto! Mi hai frantumato il cuore in mille pezzi, mi hai deluso, mi hai umiliato e fatto del male, non lo capisci?!

“Ti prego, parliamone, Ash! Io… Io non voglio che tu te ne vada! Non ora che mio fratello è di nuovo in fin di vita!”

Ah, prima mi dici di andartene dalla tua vita e ora vuoi che io resti? Tu non mi meriti e non provare a giocare la carta di tuo fratello, non funzionerà.

“Ti ho salvato la vita, questo non conta?” gridò alla fine e, capendo che anche quella domanda sarebbe rimasta senza risposta ne fece subito un’altra. “Non di mi dici neanche grazie?”

A quelle parole mi immobilizzai e il sangue mi si congelò nelle vene. Scossi leggermente la testa, sperando con tutta me stessa di aver sentito male. Lentamente mi girai verso di lui e incrociai il suo sguardo.

Non stava scherzando. Era serio.

A quel punto mandai al diavolo la mia promessa e con tre lunghi passi annullai la distanza che ci divideva.

Piantai i miei occhi glaciali nei suoi nocciola, che in quel momento non mi fecero nessun effetto. Ero talmente arrabbiata e disgustata che neanche i suoi occhi mi fecero perdere di vista il mio obiettivo. Ed ero consapevole che quelle due pietre marroni erano il mio punto debole.

Il silenzio fu rotto dal rumore del palmo della mia mano che colpiva violentemente la sua guancia.

“Taci. Chiudi quella cazzo di bocca.” la i margini del fiume si erano distrutti in mille pezzi e ora la rabbia si liberava sottoforma di parole taglienti. “Tu non mi hai salvata, la polizia l’ha fatto. Questi.”

Indicai disperata i tagli che avevo sul collo e sul braccio. “Questi li ho per colpa tua. E ti sei anche permesso di dire che sto bene. Tu… Tu –“

Presi un lungo respiro prima di continuare, fissando l’impronta rossa delle mie dita impresse sul suo volto, che era completamente sbalordito e sconvolto. Lo sapevo, non si sarebbe mai aspettato questa reazione: lui aveva conosciuto solo l’altra Ashley.

“Tu sei stato solo un cretino a credere che mi avrebbe slegato!”  il mio cuore batteva impazzito nel mio petto. “E non ti devi permettere di dire una singola parola dopo tutto quello che mi hai fatto. E di certo non ti meriti un grazie.”

Tom aprì la bocca, pronto a replicare, ma io lo bloccai subito.
“Devi stare zitto.” Quasi ringhiai e lui strinse le labbra, ancora più sconcertato dalla mia reazione.

Cosa si aspettava? Che sarei corsa da lui e l’avrei abbracciato?

“Sono stata un’emerita stupida a fidarmi di te e fare quello che ho fatto, pensavo che non fossi un ragazzo così sfacciato, ma che potevi provare qualcosa per me. Invece sei come tutti gli altri uomini: inutile.” chiusi gli occhi prima di finire il mio discorso, cercando di fermare il tremore del mio corpo . “La mia vita sarebbe stata molto meglio se non ti avessi mai incontrato. Sei stato un errore, Tom. Un grandissimo errore. E ora voglio cancellarlo. Non voglio più vederti. E io, a differenza di te, mantengo le mie promesse. Domani mattina me ne andrò da casa tua e non osare cercarmi qui in ospedale. Mi hai già rovinato abbastanza la vita, non peggiorare la situazione.”

Tom per tutto il tempo in cui avevo parlato aveva tenuto la testa china con lo sguardo fisso sulle sue Adidas bianche. Ma, quando pronunciai le ultime parole, alzò di colpo lo sguardo e i suoi occhi mi colpirono come una pugnalata al cuore. La luce che era costantemente presente era sparita. L’avevo ferito.

“Ashley, ti prego, non farlo.” la sua voce era a malapena udibile. “Non ora.”

Fissai i suoi occhi e il cuore iniziò a martellarmi ancora di più: ora erano diventati anche lucidi. Per colpa mia.

Deglutii e una fitta di dolore mi inondò. Non riuscivo neanche a deglutire per colpa del taglio. Fu proprio quel gesto a farmi ritornare sulla via giusta, ricordandomi che lui mi aveva ferito molte più volte.

Mi avvicinai al suo viso, volgendo le mie labbra in direzione del suo orecchio sinistro.

“E’ troppo tardi.” Sussurrai, scandendo bene le parole.

Prima che potessi pentirmene e cambiare idea, lo superai, sfiorando leggermente la sua spalla con la mia e con grandi passi mi diressi verso l’uscita dell’ospedale. L’unica cosa che mi dispiaceva era che non avrei saputo come stava Bill. Ma ora avevo altre priorità: me stessa. Avevo bisogno di uscire da lì, di respirare nuova aria. Quel posto mi toglieva il fiato, quando ero lì dentro non riuscivo più a respirare. Tutti i problemi mi opprimevano. Avrei scoperto come stava il giorno dopo quando sarei tornata a trovare Viola.

Quando passai vicino alla porta della stanza, notai con la coda dell’occhio che Gustav, Georg e David mi guardavano confusi dal fatto che non mi ero fermata e soprattutto dal fatto che avevo lasciato Tom dall’altra parte, completamente solo. Li ignorai e continuai a camminare a testa alta e, quando uscii dal reparto, un sorriso mi nacque spontaneamente dalle labbra. Finalmente era finita.

 

“Tom, che succede?” la voce di Georg mi invase l’orecchio e le pulsazioni nella mia testa diventarono più forti.

“E’ successo un casino, Ashley è in pericolo. Io non so cosa fare, dovrei chiamare la polizia, ma se avessi capito male? Se in realtà non fosse successo niente? Io mi rovinerei la reputazione! E se invece fosse tutto vero? Io –“

“Ehi, ehi, ehi, frena.” Mi bloccai con la bocca semi aperta. “Non ci sto capendo un cazzo. Mi fai preoccupare così, spiegami che cosa è successo.”

Girai l’angolo e iniziai a correre per le scale. “Non ho molto tempo per dirti tutto.”

“Un riassunto?” la sua voce era il ritratto della confusione.

“Ashley aveva ragione. E’ stata una fan a sparare e si chiama Amy.” Iniziai, salendo i gradini  a due a due. “Prima, quando sono tornato a casa per chiederle scusa, ho trovato un bigliettino firmato a il mio nome, ma io non l’ho mai scritto e credo sia stata lei.”

“Cosa c’era scritto?” mi chiese, per capire ancora meglio  la situazione.

“Che dovevamo parlare in ospedale. Ma io non lo mai scritto, Georg!” quasi gridai, disperato. “Credo che fosse solo una trappola per attirarla qui è prenderla in ostaggio.”

“Oh, cazzo.” Sbottò di colpo Georg, capendo la gravità di quello che stava succedendo.

“Così non mi aiuti!” ansimai a causa del fiatone.

“Credo proprio che tu abbia ragione per una volta, Tom. Ma secondo me il suo obiettivo sei tu, non lei.”

“In che senso?” chiesi, fermandomi di colpo all’entrata del reparto di terapia intensiva.

“Lei vuole attirare te in ospedale…”

“... e ha preso Ashley in ostaggio sapendo che io sarei corso in ospedale per salvarla.” Finii io la frase.

Ogni singolo pezzo di puzzle andò al proprio posto. “Oh, cazzo.” Ripetei.

“Che cazzo aspetti, Tom? “ mi urlò nell’orecchio e io aprii la porta a spinta. “Entra in quella cazzo di stanza.”

“Ma dobbiamo esserne sicuri, Georg.” Mi grattai la nuca con la mano libera. “Magari non è lei.”

“Sei veramente un coglione.” Borbottò lui di rimando.

Non ebbi il tempo di dire niente che continuò a parlare. “Allora ho un’idea: facciamo così, tu non chiudere la chiamata e metti il cellulare nella tasca posteriore dei jeans, in modo che non si veda. Poi entra nella stanza e, se è veramente come abbiamo detto noi, io sentirò cosa dirà questa Amy e potrò chiamare la polizia. Se invece è un falso allarme, non succede niente.”

“Sei un fottuto genio, Georg!” esclamai a voce bassa per non farmi sentire e cominciando a correre per il corridoio.

“Lo so, me lo dicono tutti.” Fece una risata nervosa. “Ora vai, la tua principessa ti sta aspettando.” Aggiunse poi con tono ironico.

“Sì, sì, corro.” Stavo per allontanare  il cellulare dall’orecchio, quando sentii nuovamente la sua voce.

“Tom?” chiese. “Cosa farai dopo con Ashley?”

“Non lo so.” Dissi per tagliare il discorso.

Non aspettai una risposta e, stando attento a non toccare nessun tasto, misi il cellulare dentro l’enorme tasca posteriore dei miei pantaloni e fermandomi poco lontano dalla porta della stanza numero 88. Presi due respiri profondi, sperando che tutto sarebbe andato per il meglio.

Ripensai alla domanda di Georg e alla mia risposta. Avevo mentito. Sapevo perfettamente cosa avrei fatto dopo che tutta quella storia sarebbe  finita.

Le avrei detto finalmente cosa provavo per lei.

 

Mi hai rovinato la vita…

La mia vita sarebbe stata molto meglio se non ti avessi mai incontrato…

Sei stato un errore, Tom…

Di colpo qualcosa di ghiacciato mi toccò il braccio e io sobbalzai, riemergendo dal mare di pensieri in cui ero annegato. Non so per quanto tempo ero rimasto lì, in piedi con le braccia morte lungo i fianchi a fissare il punto davanti a me dove poco tempo prima si trovava Ashley. L’unica cosa che sapevo era che per la prima volta da parecchi anni avevo sentito il mio cuore perdere molti battiti prima di rompersi in mille pezzi. Poche persone erano state in grado di ferirmi con le parole e adesso una di queste era lei. Ogni singola parola mi aveva trafitto come una pugnalata. Però non potevo obiettare nulla, perché aveva ragione. Mi meritavo tutto questo.

Credevo di essere pronto a tutto, ma quando mi girai per vedere chi era arrivato vicino a me cominciai a tremare.

Allargai subito le braccia e avvolsi il suo corpo magro ma forte, avvicinandola a me.

Senza che io potessi fare niente per fermala, una lacrima si formò sulla punta del mio occhio sinistro e scese lungo la mia guancia fino a cadere sulla sua maglia rossa.

“Mamma.” Sussurrai. “Che cos’ho fatto di male?”

“Tesoro. Non hai fatto niente di male.” Rispose con il suo tipico tono materno. “Questa è semplicemente la vita.”

Mi aggrappai a lei come se fosse la mia ultima ancora di salvezza. Mio fratello era in bilico tra la vita e la morte e la ragazza che amavo se n’era andata. E tutto per colpa mia.  Quando i poliziotti erano entrati nella stanza il mio cuore si era sentito subito più leggero e la speranza aveva iniziato a nascere dentro di me. Avevo ringraziato mentalmente Georg e pensavo che tutto sarebbe andato per il verso giusto dopo l’arresto di Amy. Ma invece tutto era andato dalla parte opposta.

“La vita è un casino.” Borbottai, con il mento appoggiato alla sua spalla.

Lei fece una risatina e io chiusi gli occhi con il cuore intrappolato in una morsa letale. “La vita è semplicemente difficile. E’ come una grandissima montagna, bisogna superare ogni ostacolo, ma quando arrivi in cima la vista è stupefacente.”

“Ashley se né andata.” La mia voce non era altro che un sussurro.

Lei rimase per qualche secondo in silenzio, forse sorpresa dalle mie parole e poi iniziò ad accarezzarmi la schiena. “Tornerà, stai tranquillo.” Disse alla fine. “Se prova qualcosa per te, tornerà.”

Sospirai, sperando con tutto me stesso che sarebbe stato così, ma lei non sapeva tutto l’accaduto. Non sapeva che stupido ero stato, che l’avevo ferita ripetutamente.

“Ora andiamo tesoro. Il dottor Peters è uscito dalla stanza.” Disse, allontanandosi per guardarmi.

A quelle parole il mio cuore iniziò a battere come quello di un colibrì e mentre mi incamminai lentamente verso gli altri insieme a mia madre, mi dimenticai per qualche minuto di Ashley.

Avevo paura di cosa avrebbe detto il medico. Mio fratello era la cosa più importante della mia vita. Più importante della mia stessa vita. L’avevo sempre protetto e se sarebbe morto, sapevo che non sarei riuscito a vivere senza di lui. Noi eravamo due parti di un insieme. Noi eravamo una persona unica. Strinsi la mano di mia madre, cercando di trattenere le altre lacrime che spingevano per uscire.

Feci un ultimo passo e mi fermai di fronte all’uomo, inspirando profondamente prima di smettere di respirare.

“Bill è vivo.”

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Capitolo 20
*** Wonderwall. ***


XX: Wonderwall

 

 

Il mio cuore tremò l’ennesima volta quando guardai di nuovo in basso e vidi che le persone erano aumentate formando una macchia nera indefinita sotto ai miei piedi. Perché tutti quei ragazzi erano lì? Era così tanto entusiasmante vedermi seduta sul cornicione mentre stavo finalmente per togliermi la vita?

Un’altra lacrima scivolò sul mio viso e la osservai cadere giù dal tetto, chiedendomi se anche io avrei fatto la sua stessa fine quando avrei toccato l’asfalto freddo e rovinato del piazzale della scuola.

Deglutii a fatica cercando di mandare giù l’enorme groppo che mi si era formato in gola. Chiusi gli occhi, chiedendomi per la millesima volta se ero sicura di ciò che stavo per fare. La risposta a quella domanda però era sempre la stessa: sì. Volevo farlo, era l’unica certezza che avevo in quel momento. Ci avevo pensato molte volte quella settimana e, constatando quali erano i pro e i contro alla fine ero arrivata alla conclusione che i lati positivi superavano di molto quelli negativi. Avevo ormai pianificato tutto, sapevo cosa dovevo fare ed ero certa che niente e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea.

Presi due respiri profondi, per poi aprire gli occhi e alzare lo sguardo al cielo sereno. Involontariamente un sorriso nacque sulle mie labbra mentre altre lacrime salate scorrevano sul mio volto.

Ti voglio bene, Adam…”

Quando pronunciai quelle parole sentii immediatamente il cuore più leggero. Mio fratello era morto da ormai una settimana e la mia vita da quel giorno era cambiata radicalmente, arrivando all’apice della sopportazione. Mia madre aveva iniziato ad assillarmi ancora di più. La scuola era diventata insostenibile ed io ero completamente sola. Avevo cercato di resistere, di essere forte, di vivere per lui, ma quella mattina, mentre girovagavo nei corridoi della scuola ero crollata. Mi ero arresa. E quindi avevo deciso di farlo proprio lì, in quel momento. Avevo lasciato cadere i libri per terra ed ero corsa sul tetto della scuola, suscitando l’attenzione di tutti gli studenti.

Improvvisamente una folata di vento mi invase e il mio sorriso si allargò. Era arrivato il momento.

Presi un ultimo profondo respiro e aprii la bocca, dimenticandomi di tutte le persone che avevo sotto di me. Iniziai a cantare la canzone che mi aveva dedicato mio fratello e che mi suonava con la chitarra ogni volta che mi trovava chiusa in camera a piangere.

I am with you…
I will carry you through it all…
I won't leave you I will catch you…

La mia voce invase l’aria e chiusi gli occhi, sentendomi felice per la prima volta dopo giorni. Aumentai la stretta delle mie mani sul cornicione mentre i brividi percorrevano ogni centimetro del mio corpo. Quella canzone mi faceva sempre lo stesso effetto. Quella canzone che mi aveva aiutata ogni giorno ad andare avanti. Quella canzone di cui in ogni parola mi ricordava lui.

When you feel like letting go…

Cause your not, your not alone.

Nessuno mi aveva mai sentita cantare. Nessuno tranne lui. Ma dovevo farlo, perché cantare era l’unica cosa che mi riempiva il cuore di forza e in quel momento dovevo essere coraggiosa. Sapevo che nessuno conosceva quella canzone e questo mi piaceva, perché la ritenevo personale, solo mia e di Adam . Chiusi gli occhi e continuai a cantare, pronta per fare il passo che mi avrebbe condotto alla morte.

And I will pick you up…
And I will be your hope… (*)

Ero pronta. Mi alzai lentamente in piedi sul cornicione, provocando grida da parte dei ragazzi. Sentivo molte persone che mi urlavano di scendere o non saltare. Ma nessuno sarebbe riuscito a fermarmi. A nessuno importava veramente di me, lo sapevo. Stavo per buttarmi, stavo per mettere un punto alla mia vita, quando sentii una voce familiare invadermi le orecchie.

Slow fading away, your lost and so afraid...” le parole finali del testo mi fecero tremare. “Where is the hope in a world so cold?”

Sbattei più volte le palpebre sorpresa. Di colpo mi girai e vidi la ragazza che non mi sarei mai aspettata di vedere. Il mio cuore perse molti battiti e quando i miei occhi trovarono i suoi, una spinta dall’interno mi fece scendere dal cornicione.

Che…” la mia voce si spezzò. “Che cosa ci fai tu qui?” riuscii a chiedere alla fine.

Viola Sneider, la ragazza più popolare della scuola, si avvicinò a me e, senza dire niente, mi abbracciò.

Non sei sola, Ashley.” Sussurrò al mio orecchio. “Ci sono io con te.”

 


I don't believe that anybody feels the way I do, about you now…

Alzai il volume dell’ipod mentre saltellavo per le scale dell’ospedale. Ero felice. Non sapevo il perché, ma avevo la sensazione che quel giorno sarebbe stato diverso dagli altri. Chiusi gli occhi e mentre camminavo per il corridoio che ormai conoscevo a memoria, facevo oscillare la testa a ritmo di musica.

There are many things that I would like to say to you, I don't know how… (**)

I said maybe…” mi bloccai di colpo quando mi resi conto che avevo cantato ad alta voce.

Rimasi qualche secondo allibita: non lo facevo mai. Erano passati anni da quando l’avevo fatto l’ultima volta e mi vennero i brividi al solo pensiero di quel giorno. Ma alla fine, se era ciò che volevo fare, perché bloccarmi in quel modo? Cantare mi aveva sempre reso felice e se l’avevo fatto in quel momento voleva dire che finalmente avevo riaperto il mio cuore, abbattendo il muro che avevo costruito dopo la morte di mio fratello. E questo non poteva essere che positivo. Quindi chiusi di nuovo gli occhi e camminai verso la mia destinazione di tutti i giorni.

“You're gonna be the one who saves me? And after all…” un sorriso nacque sulle mie labbra: adoravo quella canzone e se avevo quei gusti musicali, dovevo essere grata ancora una volta ad Adam. “You’re my wonder-“

Le parole mi morirono in gola quando aprii gli occhi e mi ritrovai davanti alle due pozze marroni che erano la causa delle mie notti insonni. Lui era davanti alla porta della camera, fermo con la mano sulla maniglia e mi guardava con due occhi strabuzzati. Di colpo il mio cuore iniziò inevitabilmente a battere come un pazzo e l’ultima parola del testo uscì libera come se fosse un bisbiglio. “-wall.”

Rimanemmo a guardarci, mentre la canzone nelle mie orecchie arrivava alla fine.

You’re my wonderwall…

Continuai a guardarlo intensamente mentre spegnevo l'ipod e la mia mente veniva svuotata da quelle parole che amavo tanto ascoltare. Anche se mi ero imposta almeno un miliardo di volte di non essere così presa da quegli occhi, non ci riuscivo. Un conto era prometterlo davanti allo specchio, ma trovarseli davanti, mentre mi scrutavano e mi leggevano dentro era tutta un’altra storia.

Dannazione, pensai, mentre deglutii per l’ennesima volta cercando disperatamente qualcosa da dire.

Non l’avevo più visto da quando era successo tutto. Ed erano passati tre mesi.

Il suono acuto del campanello mi fece sobbalzare. Chi poteva essere? Nessuno a parte Daisy sapeva che avevo affittato quel monolocale. Possibile che fosse proprio lei? No, impossibile. Mi aveva chiaramente detto che non riusciva a venire a trovare sua figlia ancora per un mesetto a causa del lavoro ed era proprio per questo che mi aveva mandato i soldi per l’affitto tramite la posta.

Quando suonarono di nuovo, mi decisi di alzarmi dal divano dove ero seduta comodamente a leggere un libro e mi avvicinai alla porta aprendola. Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva.

Ciao, Ashley.” Non sentivo la sua voce da ormai mesi. E sentirla così vicina mi fece venire voglia di piangere. “Posso?”

Io non riuscivo a dire una singola parola, così mi scostai per farla passare. Velocemente chiusi la porta e mi sedetti di fronte a lei nel tavolo al centro del soggiorno. Un silenzio quasi imbarazzante calò nella stanza. Ero ancora scioccata che non riuscivo a formulare una frase sensata. Avevo pensato a tutte le persone che conoscevo, ma mai mi sarei aspettata di trovarmi davanti lei.

È successo qualcosa, Simone?” chiesi la prima cosa che mi venne in mente ancora stupita da quella figura davanti a me.

Lei mi sorrise, quel sorriso materno che ogni volta mi scaldava il cuore. “No, non ti preoccupare. Sono solo venuta per chiederti una cosa.”

Avevo quasi paura di sapere cosa fosse. Alzai lo sguardo dalla tovaglia, come per invitarla a continuare a parlare.

Perché hai fatto questo a mio figlio?”

A quelle parole boccheggiai per riprendere fiato. Il cuore iniziò a battere impazzito nel petto e i crampi iniziarono a divorarmi lo stomaco. “Io – “

Cercai di giustificarmi, di raccontarle ciò che mi aveva fatto, ma lei non mi lasciò parlare.

Lo so cos’è successo.” Disse e io mi sentii un’idiota; era ovvio che Tom le aveva raccontato tutto. “E sono la prima a dire che mio figlio è stato uno stupido. Non doveva trattarti così. Ma io lo conosco troppo bene, Ashley.”

Allungò una mano sopra al tavolo e afferrò velocemente la mia. Quel contatto mi fece rabbrividire, anche se le sue mani emanavano calore.

So perché ha reagito così, so perché in questo periodo ha la testa tra le nuvole e agisce senza pensare. Conosco bene i miei figli e so per certo che la causa di tutto questo è Bill.”

Lo so, Simone, ma io cosa dovrei fare?” chiesi, quasi disperata; volevo dare un taglio a quella situazione. “Lasciargli fare tutto quello che vuole senza reagire?”

Lei scosse prontamente la stessa. “No, hai perfettamente ragione. Sto solo dicendo che non devi rispondere al dolore che ti hai inflitto Tom con altro dolore.”

Io… Non capisco.” Sbattei più volte gli occhi, cercando di dare un senso alla frase.

Ashley, Tom è distrutto.” Sospirò e vidi la luce nei suoi occhi spegnersi. “Questa è forse il momento peggiore della sua vita. Suo fratello è in coma e ora tu te ne sei andata. Non l’ho mai visto così triste.”

I crampi allo stomaco aumentarono notevolmente e le parole mi morirono in gola.

Lo so che ti ha fatto del male, ma so anche che tu sei una ragazza che sa perdonare.” Simone si alzò dalla sedia avvicinandosi a me e appoggiando una mano sulla mia spalla. “Cerca di perdonarlo, Ashley. Tutti e due siete sulla stessa barca e solo un cieco non noterebbe come vi guardate, nonostante tutto.”

Si avvicinò alla porta e lentamente l’aprì. “Tutti meritano una seconda occasione, soprattutto il ragazzo di cui sei innamorata.”

Detto questo, uscì, lasciandomi da sola nel silenzio più totale e nella penombra dell’appartamento.

Mi portai una mano sul cuore ormai impazzito e cercai di rallentare i battiti, respirando profondamente.

Sapevo che Simone aveva ragione, ma io non ero ancora pronta ad affrontarlo di nuovo.

Emh…” quando Tom si schiarì la gola per rompere il silenzio assordante, mi scrollai immediatamente tutti i pensieri di dosso. “…Non sapevo cantassi così bene.”

Le sue parole mi fecero tremare dentro. Solo in quel momento mi resi conto che mi aveva sentito cantare.

Non credevo fosse un dettaglio importante.” Dissi con un tono che non era affatto quello che volevo usare: era troppo duro e freddo.

Tom abbassò subito lo sguardo e io mi sentii subito in colpa.

“Devi…” cercai di controllare la mia voce. “Devi entrare?” chiesi, indicando la camera.

Sì…” rispose, inchiodando i suoi occhi nei miei. “…Ma vai pure.”

Non me lo feci ripetere due volte: non sarei riuscita a sopportare quella situazione ancora per molto. Era imbarazzante. Quindi mi avvicinai a lui e aprii la porta senza distogliere lo sguardo. Per sbaglio le mie dita sfiorarono le sue e un brivido mi percorse la schiena. Lo guardai un’ultima volta e, prima di entrare nella stanza, gli feci un gesto con la testa per ringraziarlo. Appena chiusi la porta, rimasi qualche secondo con la schiena appoggiata al legno, cercando di rallentare il cuore che era come impazzito e di ricominciare a respirare normalmente.

Lentamente mi avvicinai al letto di Viola e mi sedetti sulla sedia vicino a lei, come ogni volta che andavo a trovarla. Strinsi la sua mano fragile e inerme nella mia. Presi un profondo respiro e iniziai a parlare.

Viola, ti ricordi quel giorno?” deglutii a fatica. “Quando ci siamo parlate per la prima volta?”

Chiusi gli occhi e le immagini si proiettarono automaticamente nell’ombra della mia mente.

Quando ti ho sentita cantare e ti ho vista ho provato un’emozione indescrivibile. Il mio cuore batteva forte, le farfalle volavano impazzite nel mio stomaco e le mie mani tremavano.”

Alzai lo sguardo verso il suo volto e con la mano libera accarezzai le sue guance rosee.

Ho provato quella sensazione poche volte nella mia vita e pensavo che non sarebbe più successo.” Feci un sospiro e ritornai a guardare le nostre mani intrecchiate. “Invece mi sbagliavo. Ogni volta che mi immergo dentro quelle pozze color mandorla non riesco più a pensare lucidamente.”

Sei proprio senza speranze.” Ridacchiò Viola seduta vicino a me, mentre sorseggiava la sua coca cola dalla cannuccia.

Non è vero!” le sorrisi e addentai il mio panino. “Solo non capisco cosa ci trovi in lui.”

Ashley, si chiama amore.” Disse, ci colpo seria.

Sai che io non credo nell’amore.” Replicai subito, scuotendo le spalle.

Dovresti invece.” Cercò di catturare il mio sguardo e io lo alzai immergendomi nei suoi occhi verdi. “Perché è la sensazione più bella al mondo. Quando lo guardo, anche se non è realmente vicino a me, il mio cuore inizia a battere così velocemente che alcune volte penso che voglia uscire dal mio petto e volare da lui.”

Vedendo che io avevo lo sguardo assente, mi diede un pugno sulla spalla. “Sei senza speranze.” Ripetè e la sua risata cristallina mi invase le orecchie.

Promettimi una cosa, Ashley.” Disse poi. “Se mai un ragazzo ti farà sentire così, non fare finta di niente, perché vuol dire che lo ami.”

Sono confusa, Viola.” Ripresi a parlare dopo un po’ che ero rimasta in silenzio per pensare. “Non so cosa devo fare. Non so come comportami da quando tu non sei più vicino a me.”

Alzai gli occhi al soffitto per cercare di sopprimere le lacrime che puntualmente bussavano per uscire.

Anche se Tom mi ha fatto del male più volte, non riesco a non pensare a lui. Non riesco a cancellarlo definitivamente dalla mia vita. Non mi sono mai sentita così di fronte ad un ragazzo. Pensavo che quando l’avrei rivisto sarebbe stato diverso dopo tutto ciò che gli ho detto, ma invece mi sbagliavo. Non è cambiato assolutamente niente. Io…” mi bloccai.

Una nuova consapevolezza si fece strada dentro di me. Strinsi gli occhi con tutte le mie forze, pensando fosse una stupidaggine, ma nel profondo del mio cuore sapevo che era la verità.

“Io…” una lacrima solitaria scese sulla mia guancia. “Io lo amo.”

Quando pronunciai ad alta voce quelle parole tutto acquistò un senso. Guardai il volto pacifico della mia migliore amica e rimasi in silenzio, persa nei miei pensieri. Appoggiai la testa sulla sua gamba, chiudendo gli occhi. L’avevo detto veramente?

All’improvviso sentii un movimento quasi impercettibile e di colpo mi raddrizzai sulla sedia.

Era successo davvero o mi ero immaginata tutto? Viola mi aveva davvero stretto la mano?

Involontariamente slacciai il nostro contatto, come se mi fossi bruciata.

Non è possibile… Non è possibile…

In quel momento non sapevo cosa fare. Ormai era passato talmente tanto tempo da quando era entrata in coma che quasi avevo perso il conto dei giorni, ma mai mi aveva stretto la mano. Mi alzai dalla sedia in preda al panico e feci la prima cosa che mi venne in mente, seguendo il mio cuore.

“Tom…” sussurrai, fissando ancora la sua mano, come se fosse stata una cosa sovrannaturale.

“TOM!” urlai, disperata.

Sapevo che mi avrebbe sentito, sapevo che stava aspettando fuori dalla stanza, seduto sulla panchina. Appena pronunciai quel nome, le pulsazioni del mio cuore iniziarono a rimbombare nelle orecchie e tutto il mio corpo iniziò a tremare. Non avevo ancora realizzato.
La porta si spalancò pochi secondi dopo, come se stesse aspettando che io lo chiamassi. Appena i nostri occhi si incontrarono tutti i muri che avevo costruito per allontanarmi da lui si distrussero in mille pezzi.

“Cos’è successo?” chiese con tono preoccupato.

Io non risposi alla sua domanda e corsi verso di lui, incapace di trattenermi un secondo di più. Tom non ebbe il tempo di battere le ciglia che io cinsi le mie braccia intorno al suo collo e cancellai la distanza che separava le nostre labbra. All’inizio sentii il suo corpo irrigidirsi, ma non aspettai molto prima che ricambiasse il bacio premendo ancora di più le sue labbra morbide e calde contro le mie, avvolgendo il mio corpo con le sue braccia muscolose e avvicinandomi il più possibile a lui. In quel momento mi dimenticai di tutto e di tutti, esistevamo solo Tom ed io.

Quel piccolissimo movimento di Viola mi aveva fatto sentire così viva, che mi aveva fatto capire cosa provato veramente per lui. In un momento di felicità come quello, la prima cosa che mi era venuta in mente era di chiamarlo e questo aveva confermato tutto. L’amavo e non avrei aspettato altro tempo prima di farglielo capire.

Il bacio iniziò a farsi più intenso e passionale. Schiusi leggermente le labbra e il mio cuore esplose di piacere quando mi succhiò il labbro inferiore per poi iniziare a giocare con la mia lingua. Con una spinta fece coincidere ancora di più i nostri corpi e infilò lentamente una mano sotto la mia maglia per poi accarezzarmi la schiena dolcemente. Un brivido mi percorse tutto il corpo. Non avevo mai baciato un ragazzo e le emozioni erano così intense che pensavo di svenire da un momento all’altro. Era tutto così perfetto. Sentire le nostre labbra giocare e le nostre lingue sfiorarsi gentilmente, era la sensazione più bella che io avessi mai provato. In quel momento, tra le sue braccia, mi sentii la ragazza più felice del mondo.

Mi alzai in punta di piedi e gli stampai un altro lungo e bacio sulle labbra. Desideravo che quel momento non finisse mai. Ma, invece, finì e in un modo che non mi sarei mai aspettata.

“Questo è il paradiso?” una voce fin troppo familiare mi fece ritornare alla realtà.

Di colpo interruppi il bacio e, senza staccarmi da Tom, girai la testa verso il letto di Viola.

E imi dimenticai di respirare per molti, troppi secondi.

La mia migliore amica mi guardava con due occhi sognanti con una mano tra i capelli biondi scompigliati. Io sbattei più volte le palpebre, pensando che quello fosse solo un sogno. Viola aveva gli occhi aperti.

“Viola!” urlai e corsi subito vicino a lei, rompendo il contatto con Tom.

Senza pensarci due volte l’abbracciai così forte, che il suo cuore iniziò a battere forte e l’elettrocardiogramma impazzì.

“Ashley, così soffoco!” cercò di dire lei, ma poi aggiunse, svelta. “No, aspetta. Se questo è il paradiso io non posso morire!”

Con una spinta l’allontanai da me per guardarla in faccia. Quanto mi sei mancata…

“Non dire cavolate, non sei morta e questo non è il paradiso!” la mia voce era soffocata dalla felicità.

Lei mi guardò con gli occhi strabuzzati e indicò confusa Tom, che si era avvicinato a noi e le sorrideva.

“Ma allora perché stavi baciando Tom Kaulitz?!” chiese, stropicciandosi gli occhi come per vedere se fosse realmente lui.

Io risi. Dopo quattro mesi riuscii a ridere di nuovo. Appena lo feci, lo sguardo di Tom scattò verso di me. Non mi aveva mai visto in presenza di Viola e non mi aveva mai sentito ridere così. Non mi aveva mai visto veramente felice.

“È una storia lunga.” Risposi dopo un po’. “Come stai?”

Lei aggrottò le sopracciglia, confusa. “Come se avessi dormito per anni.”

“È meglio se ora chiamiamo i dottori, Ashley.” Mi disse Tom, guardandomi serio.

Io annuii, allontanandomi un attimo per chiamare le infermiere tramite il pulsante rosso dietro al letto.

“Perché Bill sta dormendo vicino a me?” quasi gridò Viola con voce strozzata appena vide Bill vicino a lei.

Io sospirai e la guardai negli occhi. “Forse è meglio se ti spiego tutto. Ma, prima, ti faccio conoscere il dottor Peters.”

***

“Tom, io –“ iniziai subito, quando chiusi la porta principale dell’ospedale.

“No, non sei tu che devi iniziare a parlare.”

Lo guardai, aggrottando le sopracciglia, confusa mentre si accendeva una sigaretta. Eravamo usciti a prendere un po’ d’aria mentre i medici stavano facendo tutti gli accertamenti possibili a Viola.

“Sono io che mi devo scusare per primo.” aspirò lentamente. “Sono io quello stupido tra i due.”

“Oh, questa cosa mi lusinga.” Cercai di sdrammatizzare, per alleggerire l’aria che era diventata troppo tesa.

Sotto sotto però, era anche la verità: mi faceva piacere sapere che si era reso conto di essere lui in torto.

“Ah-ah. Spiritosa!” mi sorrise, prima di ritornare serio. “Mi dispiace, Ashley. Davvero.”

“Anche a me dispiace, ma ora siamo pari, no?”

“No, io non avevo alcun diritto di dirti quelle cose, tu si. Non credo riuscirò mai a farmi perdonare per quello che ho fatto.”Pausa. “Ma questa situazione mi sta uccidendo. Bill mi sta uccidendo.”

Io sospirai tristemente rassegnata. “Lo so.”

Tom spostò lo sguardo, prima rivolto verso il cielo sereno, verso di me, con la fronte aggrottata.

“Un uccellino.” Scrollai le spalle, sorridendo.

“Mia madre.” Capì subito, alzando gli occhi al cielo. “Mi dispiace, non lo sapevo.”

“Stai dicendo troppe volte mi dispiace.” Sussurrai, avvicinandomi a lui. “Attento che potrei abituarmici.”

“Quindi mi perdoni?” chiese, speranzoso, mentre buttava la sigaretta consunta nel portacenere.

“Perdonare è una parola grossa, ma ti posso dare una seconda occasione, se vuoi.”

“Accetto.” ribatté subito, giocando maliziosamente con il piercing al labbro.

“Questa è l’ultima però, Kaulitz.”

“Non la sprecherò, fidati.” un lieve sorriso illuminò il suo viso. “E che mi dici del bacio?”

Feci un altro passo verso di lui. “Che cosa vuoi sapere?”

“Perché?” mi chiese semplicemente.

Il cuore mi scoppiò dalla felicità mentre allacciai tremante le mie braccia intorno al suo collo.

“Credo che tu sappia perfettamente il perché.”

And after all, you're my wonderwall.
I Said maybe, you're gonna be the one that saves me.

***

Quando i medici ebbero finito di fare tutte le analisi, raccontai tutto l’accaduto a Viola. Alla fine della storia lei non sapeva se piangere dalla disperazione per Bill o scatenarsi in una danza di vittoria per me e Tom. Fin dal primo giorno aveva provato in tutti i modi a farmi piacere la sua band preferita e di farmi innamorare di un ragazzo. E ora ero lì, davanti a lei, innamorata di Tom Kaulitz e quasi fan dei Tokio Hotel. L’unico aspetto negativo era che lei non era stata presente, ma alla fine ne era stata la causa quindi era comunque felice. Tutto stava andando per il meglio e io non ci potevo ancora credere. Quello era stato il giorno più bello da quando l’incubo era iniziato. Finalmente avevo visto la luce infondo al tunnel.

Quando mi voltai per sorridere per l’ennesima volta a Tom, mi sentii subito un egoista. Il sorriso morì subito sul mio volto e un groppo mi si formò in gola.

“Tom…” sussurrai, scordandomi un attimo di Viola e avvicinandomi a lui.

Era in piedi vicino al letto di suo fratello, con la testa china, una mano stretta a quella di Bill e il volto in penombra. Appena appoggiai una mano sulla sua schiena, lui si voltò di scatto verso di me, come spaventato e il mio stomaco fu stretto da una fitta di dolore. I suoi occhi erano lucidi.

“Perché non si sveglia?” mi chiese, con un sussurro.

In quel preciso momento il mio cuore si spezzò. “Si sveglierà, vedrai.”

“Perché Viola si è svegliata e lui no?!” chiese di nuovo, guardandolo. “Perché non ti sei svegliato?!”

Il mio corpo fu percorso da brividi e tutte le parole che avrei voluto pronunciare per consolarlo mi morirono in gola.

“Tom…” sussurrai di nuovo, ma lui non mi diede importanza.

Si abbassò su di lui. “Bill, ti prego svegliati.”

La sua voce era così disperata e piena di angoscia che mi fece quasi paura.

“Bill, ti prego, torna da me. Ho bisogno di te, fratellino.”

Vidi una lacrima cadere dal volto di Tom e posarsi sulla guancia del fratello. Non riuscii più a sopportare la vista di quella scena, così distolsi lo sguardo e battei più volte gli occhi per mandare via le lacrime che stavano già minacciando di scendere libere sul mio volto.

Pochi minuti prima avevo pensato che quello doveva essere un giorno felice, un giorno pieno di luce, ma appena guardai verso l’elettrocardiogramma quel pensiero si cancellò automaticamente.

Segnava linea piatta.

 

 

 

 

 

 

 

(*) Not Alone - Red

(**) Wonderwall - Oasis

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Capitolo 21
*** Io sono il sole e tu la luna. ***


Oh god, non so neanche da dove iniziare le mie scuse. È da giugno che non posto e sono davvero mortificata. Scusate davvero tanto, ma tra impegni, l'ispirazione che non contribuiva e altre cose sono riuscita a scrivere il capitolo solo poco tempo fa. Devo precisare che tutta la colpa non è mia, ma anche della mia beta, che ha fatto del suo meglio, ma è riuscita solo oggi a finirlo di betare! Comunque, meglio tardi che mai, no? Non dico più altro, solo un GRAZIE ENORME a tutte le perone che hanno recensito lo scorso capitolo e vi lascio leggere il penultimo capitolo.

xoxo, lex.


XXI: Io sono il sole e tu la luna.



Boom.

Non mi lasciare da solo. Ho paura.

Boom.

Io sono il sole e tu sei la luna, ricordi?

Boom.

Il sole non può vivere senza la luna.

Boom.

Ritorna da me, Bill.

Boom.

Ti voglio bene fratellino.

 

"Tom, calmati." la voce di Ashley era solo un suono distante per le mie orecchie.

Non le diedi importanza e continuai imperterrito, aumentando ancora di più la forza esercitata sullo sterno. Le poche lacrime che erano sfuggite mi avevano annebbiato la vista e dovetti sbattere più volte gli occhi per mettere a fuoco le mie mani appoggiate al centro del petto di mio fratello una sopra all’altra. Non poteva essere morto. Non doveva.

Feci di nuovo pressione e mi venne una fitta allo stomaco nel percepire la cassa toracica abbassarsi e comprimere il cuore. Non avevo mai fatto un massaggio cardiaco. Nonostante ciò, quando avevo alzato la testa e avevo visto la linea piatta dell’elettrocardiogramma mi ero sentito così vuoto, come se anche io fossi morto insieme a lui, che automaticamente avevo spento tutti gli interruttori e avevo agito d’istinto. Anche se tutto il mio corpo diceva di fermarmi, di lasciare perdere perché non c’era più speranza, io non mi potevo arrendere così. Non se si trattava di Bill.

 

Tom, vuoi giocare al dottore con me?” quando alzai lo sguardo dalla torre che stavo costruendo con i lego mi ritrovai due occhi marroni identici ai miei che mi fissavano.

No, non mi va!” dissi subito, odiavo quel gioco e non capivo cosa ci trovasse di divertente.

Il labbro inferiore di Bill si piegò e iniziò a tremare. “Ma io voglio giocare con te.” Sussurrò con una voce che mi fece accelerare i battiti del cuore.

Stava per piangere e odiavo vedere mio fratello piangere. Perché se era triste lui, lo diventavo automaticamente anche io e in più mi sarei sentito tremendamente in colpa.

Bill, non piangere.” Dissi subito, appoggiando una mano sulla sua spalla. “Dai, vieni.”

Mi alzai dal pavimento, prendendolo per mano e avvicinandomi al mio letto.

Allora, signor Kaulitz, dove le fa male?” appena pronunciai quella frase, un sorriso si fece strada sulle sue labbra e si buttò subito sul materasso, stendendosi a pancia in su.

Ho male al cuore.” Rispose, appoggiandosi una mano sul petto. “Mi può salvare, dottore?”

Certamente.” Velocemente presi il kit da medico nel cassetto nell’armadio e tirai fuori il fonendoscopio.

Mi fermai un attimo ad osservarlo mentre aspettava impaziente che lo visitassi. Leggevo serenità nel suo sguardo e come sempre mi sentì più leggero. Era proprio vero che Bill era il sole senza cui non potevo vivere.

Bill?” lo chiamai, attirando la sua attenzione su di me uscendo per un istante dal ruolo del medico.

Sì?”

Io ti salverò sempre.”

 

Con le mani tremanti mi avvicinai al suo volto, con una gli tappai il naso e con l’altra gli schiusi le labbra. Altre lacrime salate bagnarono il suo volto mentre soffiavo tutta l’aria che avevo nei polmoni dentro di lui.

Tom…” sussurrò di nuovo Ashley, afferrandomi il gomito per farmi allontanare da lui.

Io mi scrollai di dosso la sua mano, forse con troppa forza, ma in quel momento non mi importava. “Tom, ti prego, fermati.”

No!” urlai, disperato, mentre appoggiavo nuovamente le mani tremanti sullo sterno. “Mio fratello non può morire, non può lasciarmi qui da solo!”

Ma non c’è più –“

A quelle parole mi girai di scatto verso di lei puntandole un dito contro. “Non azzardarti neanche a dire quella parola. Bill…” quando pronunciai il suo nome i crampi ricominciarono a divorarmi lo stomaco. “Non morirà su un letto d’ospedale per colpa di una psicopatica!”

Perché cazzo non arriva nessuno?!” gridai subito dopo, ritornando a comprimere il cuore.

Io…” la sua incertezza indicava che era rimasta immobile per tutto il tempo a guardarmi, senza neanche pensare a come aiutarmi. “…Non lo so!”

Fai qualcosa!”

Si… sì.” Capii dalla sua voce che quella situazione la spaventava. “Vado a chiamare qualcuno.”

 

Matthias, non so nuotare!” disse per l’ennesima volta Bill, facendo un altro passo indietro.

Lo scopriremo subito…” rispose l’altro ragazzo con un ghigno stampato sulle labbra. “Almeno se è la verità morirai davvero questa volta.” Continuò poi, avanzando ancora di più verso di lui e facendo ridere tutti e tre i ragazzi che si trovavano alle sue spalle.

No, ti prego non –“ cercò di dire, ma non si accorse che era arrivato troppo vicino al bordo della piscina.

Il contatto con l’acqua fu inevitabile. Scivolò sulla superficie blu bagnata e cadde all’indietro, provocando schizzi da tutte le parti. Bill cercò con tutte le forze di rimanere a galla muovendo freneticamente le braccia e le gambe. Le risate dei ragazzi riempivano le sue orecchie mentre cercava di gridare aiuto. Ma tutto fu inutile. Altra acqua entrò nel naso e nella bocca mentre le sue forze si esaurivano e lentamente raggiungeva il fondo di quella piscina abbandonata. Chiuse gli occhi, mentre aspettava la sua agonizzante fine.

Aspettò, ma non successe niente. Con un enorme sforzo aprì gli occhi e una luce bianca proveniente dalla superficie dell’acqua lo accecò. Gli venne automatico allungare le braccia verso quel bagliore quando vice qualcosa venire verso di lui. Non capì che cosa fosse fino a quando…

 

Di colpo aprii gli occhi e mi sedetti sul letto, annaspando in cerca di aria, come se fossi stato veramente in apnea per troppo tempo. Sentivo i battiti accelerati del mio cuore pulsare nelle mie orecchie e l’aria che usciva ed entrava dalla mia bocca molto velocemente. Non era possibile, era stato tutto un maledetto sogno. Era sembrato tutto così vivido, io che annegavo, l’acqua che entrava dentro i miei polmoni e la mano che afferrava la mia per aiutarmi a risalire a galla. Ma, se era stato tutto un incubo, perché sentivo qualcosa tirarmi la pelle? E perché sentivo dei bip regolari vicino a me?

Alzai lo sguardo dalla coperta bianca e un brivido mi percorse la schiena. Perché c’erano tre persone che mi guardavano con gli occhi spalancati come se avessero visto un fantasma? Solo di una cosa ero certo in quel momento: non ero a casa. Non ero affatto nel letto di casa mia.

B-Bill?” il ragazzo più vicino a me, con una strana capigliatura fece un passo, avvicinandosi.

Aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto a lungo e le sue spalle si abbassavano e si alzavano velocemente, come se fosse stato affaticato. Arrivò in prossimità del mio letto e appoggiò delicatamente un mano sul mio braccio. “Bill, ti senti bene?”

Mi incantai alcuni secondi ad ammirare i suoi occhi, perfettamente uguali ai miei. Sbattei più volte le palpebre, cercando una risposta nella mia mente confusa. Mi sentivo bene? Sì, mi venne spontaneo rispondere. Perché non dovrei stare bene?

Certo.” Dissi subito e la mia voce mi fece rabbrividire.

Perché era così roca e sporca, come se avessi dormito per mesi? Troppe domande mi passarono per la testa in quel momento, ma una in particolare spinse per uscire dalle mie labbra.

Guardai quel ragazzo ancora per un po’ prima di passare alle altre due ragazze: una era in piedi davanti a me, aveva lunghi capelli neri e due occhi così chiari che riuscivo a vederli anche da quella distanza. Girai ancora di più la testa e trovai una ragazza bionda con la carnagione molto chiara seduta su un letto identico al mio alla mia destra.
Ora le domande erano diventate due. “Perché mi trovo in un ospedale? E, non vorrei essere scortese, ma…” deglutii a fatica prima di porre la domanda. “Noi ci conosciamo?”

 

***

 

Mio fratello aveva gli occhi aperti. Era vivo. E l'avevo salvato io. In quel preciso istante quando i suoi occhi color mandorla si inchiodarono nei miei provai una delle sensazioni più belle di tutta la mia vita. Mi sentivo sollevato e orgoglioso di me stesso come non mai per essere riuscito anche quella volta a rispettare la promessa fatta a nostra madre moltissimi anni prima, quando eravamo ancora bambini. Forse era una cosa stupida, ma avevo promesso di proteggere per sempre il mio fratellino e l'avrei continuato a fare fino alla morte. Purtroppo però quella sensazione non durò a lungo, perché fu sostituita quasi subito da terrore, rabbia e ansia.

Perché mi trovo in un ospedale? E, non vorrei essere scortese, ma... Noi ci conosciamo?”

Noi ci conosciamo?

L'aveva chiesto sul serio?

Tutte le mie sicurezze crollarono. Tutto quello per cui avevo combattuto fino a quel momento si frantumò in mille pezzi. Qualche mese prima il dottore l'aveva detto, ma io non ci avevo dato peso. Aveva detto che era possibile che non si sarebbe ricordato del suo passato, ma non avevo pensato che sarebbe potuto succedere davvero. Non a Bill, non a mio fratello.

So-sono Tom.” sussurrai con voce strozzata, avvicinandomi ancora di più a lui. “Il tuo gemello.”

Lo vidi sbattere più volte le palpebre, come per cercare di ricordare.

Io...” aggrottò la fronte, guardandomi meglio. “Io non ho mai avuto un gemello.”

Io rimasi senza parole. Non sapevo cosa dire, cosa fare. Le mani mi tremavano e i crampi mi divoravano la bocca dello stomaco.

Bill.” disse Ashley, con calma. “Che cosa ti ricordi?”

Tutto.” rispose subito, senza una minima esitazione e quello mi fece ancora più male.

Mi chiamo Bill Kaulitz, mia madre Simone e viviamo insieme al patrigno Gordon a Leipzig. Son-”

C-conosci...” lo interruppi, ma le parole mi morirono in gola. “Sai chi sono i Tokio Hotel?”

Lui mi guardò stranito, come se stessi parlando in un altra lingua. “Chi?”

A quella misera domanda non ce la feci più, strinsi i pugni, mi girai di scatto e uscii da quella dannata stanza, sbattendo con forza la porta dietro di me.

 

***

 

E non dimenticarti le foto.” esclamò Tom prima di spegnere la chiamata e avvicinarsi a me.

Vedrai che si ricorderà di te.” sussurrai, picchiettando la mano sulla panchina.

Ho paura.” disse lui, accettando il mio invito e sedendosi. “Ho davvero paura.” aggiunse poi, come se stesse parlando con se stesso e coprì il viso con le mani.

Io chiusi qualche secondo gli occhi per pensare a qualcosa da dire, da fare. In quel periodo era come se il mio cervello fosse andato in ferie e mi avesse lasciato da sola. Non riuscivo più a pensare lucidamente a causa di tuttoi i casini che succedevano uno dietro l'altro.

Ehi.” sussurrai, appoggiando delicatamente i palmi sulle sue guance, facendolo girare verso di me. “Ehi, guardami.”

E lui lo fece. Alzò lo sguardo e l'azzurro dei miei occhi si fuse con il marrone dei suoi e per un attimo mi sembrò di tornare indietro nel tempo.

 

Ashley, smettila di piangere.” mormorò lui, asciugandomi con il pollice l'ennesima lacrima che mi sporcava il viso di nero. “Ti rovini il trucco così.”

A quelle parole non riuscii a reprimere un sorriso. Non era possibile, quel ragazzo mi faceva sorridere in qualsiasi situazione, anche quella più tragica ed era per quello che gli volevo bene. Era per il suo essere così sincero, divertente e coraggioso per cui era diventato il mio pilastro, il mio modello. Quel giorno però, la sofferenza era troppa e non si poteva cancellare con una sola battuta. Mi liberai dalla stretta delle sue mani sul mio viso e mi buttai sul materasso, soffocando la faccia sul cuscino e continuando a singhiozzare come se non ci fosse un domani.

Ehi.” sussurrò, accarezzandomi la schiena. “Ehi. Ascoltami.”

Mi afferrò dalle spalle e mi fece sedere di nuovo vicino a lui con la forza. Io cercavo di liberarmi, ma i suoi muscoli non erano niente in confronto ai miei. Mi prese per l'ennesima volta il volto tra le mani e io non ebbi scelta: mi immersi nei suoi occhi color nocciola.

Deglutii a fatica, cercando di trattenere le lacrime per farlo felice, ma non ce la feci.

Devi smetterla di essere così fragile, di essere troppo altruista.” iniziò e io chiusi gli occhi, sapendo già la direzione del discorso. “Ecco, vedi. Ti nascondi anche in questo momento, chiudendo gli occhi. Guardami, Ashley. Guardami.”

Io obbedii. “Io sono tuo fratello. E sai che ti voglio bene. Quindi ascoltami per una buona volta e reagisci. Sii te stessa, fottiti di tutti gli altri. Capito? Tu sei perfetta così come sei, perché sei Ashley e nessun'altra. E non avere paura di cadere, mai. Sbaglia, cadi, ma poi devi avere la forza di alzarti e guarire. Mi stai ascoltando?”

Io annuii, sbattendo gli occhi più volte e cercando di fermare le lacrime che ormai erano fuori controllo. “Ma la cosa più importante che ti devi ricordare, sempre, in ogni momento della tua vita è che io sarò sempre con te. Non sarai mai sola. Anche quando io non ci sarò più.”

 

Guardai ancora una volta quegli occhi nocciola che amavo così tanto, prima di deglutire e parlare.

Una sera un ragazzo mi disse una cosa.” iniziai, cercando di trattenermi da iniziare a piangere al ricordo di Adam. “Mi disse che io non ero sola, che lui sarebbe sempre stato al mio fianco.” feci un respiro profondo. “La stessa notte morì.”

Tom sobbalzò leggermente e il suo corpo fu percorso da un brivido. Io cercai di non farci caso e continuai il mio discorso, ma sapevo che aveva già capito che stavo parlando di mio fratello.

Ma nonostante la morte ci abbia diviso, io continuo a volergli bene come a nessun altro. Ho sbagliato quando ho cercato di tornare tra le sue braccia, è stato l'errore più grande della mia vita. Ma è grazie a quell'errore se ora sono qui e ho capito che lui ci sarà sempre per me, nonostante ci sia il cielo a dividerci.” feci una pausa, cercando di capire la sua reazione. “Quello che sto cercando di dirti è che non importa cosa succeda, lui rimarrà sempre tuo fratello. Rimarrà sempre sangue del tuo sangue, una parte indelebile di te. E, anche se in questo momento lui non se ne rende conto, nel profondo sa chi sei, perché non può dimenticarsi di te, non può dimenticarsi di una delle persone più importanti della sua vita. Perché ti vuole bene e te ne vorrà per sempre, capito?”

Lui annuì leggermente. “Non scordartelo mai.” sussurrai prima di avvolgere le braccia intorno al suo collo e stringerlo con tutta la forza che avevo.

E comunque tu l'hai salvato, Tom.” aggiunsi con il mento appoggiato alla sua spalla. “È vivo grazie a te. Dovresti essere orgoglioso di te stesso per questo.”

Restammo qualche secondo così, abbracciati e in silenzio. Sentivo i suoi respiri lievemente accelerati nei miei capelli e i suoi battiti cardiaci che rimbombavano lenti nel torace.

Grazie.” sussurrò poco dopo, con la voce tremante. “Grazie davvero.”

Come risposta accarezzai lentamente la sua schiena e mi strinsi di più a lui, ma proprio in quel momento la porta della stanza si aprì e ne uscirono il dottor Peters e alcune infermiere.

Di colpo ci staccammo dall'abbraccio e ci girammo automaticamente verso di lui, che leggeva qualcosa sulla sua cartella bianca. “Fisicamente va tutto bene.” iniziò, alzando lo sguardo. “Ma purtroppo non si ricorda una parte della sua vita. E la parte più grande sei tu, Tom. Non si ricorda di avere un fratello gemello. Abbiamo bisogno di qualcosa che gli faccia ricordare. Tipo foto, filmini, qualunque cosa.”

Mia mamma sta arrivando con tutto.” disse prontamente Tom e il dottore annuì.

Perfetto. Allora voi è meglio se andate a riposarvi a casa. Avete trascorso una giornata molto stressante. La cosa migliore per suo fratello è comunque quella di dormirci sopra. Domani mattina vedremo i risultati.”

All'inizio lui si irrigidì all'idea di lasciare l'ospedale e Bill, ma alla fine capì che era per il suo bene, quindi annuì. “Grazie Dottore, per tutto.”
“È il mio lavoro.”

 

*

 

Smettila di muovere la gamba.” esclamò di punto in bianco Ashley, rompendo il silenzio nel corridoio e facendo un po' di pressione sulla mia coscia per cercare di fermare il tremolio. “O te la stacco a morsi.” aggiunse, non riuscendo però a trattenere un sorriso.

Scusa se sono nervoso per il fatto che mio fratello non si ricordi più di me.” borbottai, sovrapponendo la mia mano più scura e callosa sulla sua.

Scusa se provo a consolarti.” mi rispose a tono, posando poi la testa sulla mia spalla.

In quel momento la porta si aprì e uscì la stessa infermiera che faceva il turno la mattina. Era giovane, alta e con dei capelli ricci rossi.

Buongiorno.” ci salutò, regalandoci un sorriso. “Bill è sveglio.”

A quelle parole il cuore iniziò a pulsarmi nelle orecchie, impazzito. Non sapevo cosa pensare. Da una parte ero grato che era di nuovo in piena salute, ma dall'altra avevo paura che non si ricordasse mai più di me.

Possiamo entrare?” chiesi e al suono della mia voce leggermente tremante, Ashley allungò la mano verso la mia e la strinse con forza.

Certo.” rispose, allargando il sorriso. “Ah.” aggiunse poco prima che entrassimo nella stanza. “Appena ha aperto gli occhi ha chiesto di un certo Tom.”

Non riuscii neanche a metabolizzare le parole che avevo già spalancato la porta ed ero entrato nella camera. Appena lo vidi lì, seduto su quel letto che odiavo a morte, con gli occhi aperti fissi nei miei, il mio cuore scoppiò dalla felicità. Non mi ero mai sentito così prima d'ora e non riuscivo neanche a spiegarlo. Il cuore martellava impazzito nel petto, i battiti echeggiavano nelle orecchie, tutto il mio corpo era attraversato da brividi e gli occhi mi pizzicavano, vogliosi di liberare lacrime di felicità.

Tom.” sussurrò mio fratello con gli occhi lucidi, staccando il busto dal materasso che l'infermiera aveva alzato per farlo stare più comodo. “Oh, Tom, mi -”

Shh.” soffiai subito, facendo due passi verso di lui. “Sssh. Non dire niente.”

Quando arrivai di fianco al letto avvolsi senza esitazione il suo corpo magro con tutta la forza che avevo. Mai come in quel momento avevo bisogno di sentirlo vicino a me.

Mi sei mancato così tanto.” sussurrai nei suoi rasta corvini.

Nel momento in cui sentii le sue mani appoggiarsi sulla mia schiena e intensificare ancora di più l'abbraccio non riuscii più a resistere. Calde lacrime iniziarono a scendere sul mio viso. Ma, questa volta a differenza di tutte le altre, erano di gioia.

Ti voglio tanto bene, fratellino.”

Anche io.” la sua voce era malapena udibile, ma risentirla dopo tutto quel tempo era una delle cose più belle al mondo. “Mi dispiace tanto.”

A quelle parole sciolsi l'abbraccio quel tanto che mi bastava per guardarlo in viso e altri brividi mi attraversarono la schiena. Mai in tutta la mia vita ero stato così felice di vedere quelle due pozze color mandorla uguali alle mie. Mai. Quelle due pozze che ora erano arrossate a causa delle lacrime che gli bagnavano le guance rosee.

Non provarci neanche.” lo ammonii subito con il mio tono da fratello maggiore. “Non è colpa tua, capito?”

Ma-”

Ma niente, Bill. Ora è tutto finito, tu stai bene, questo è l'importante. Okay?”

Lui annuì, tirando su con il naso. “Ma io non mi ricordo niente.” mormorò poi.

Io sbattei le palpebre più volte, confuso e sorpreso. “Davvero?” chiesi e dentro di me sentii un enorme peso svanire di colpo.

Sì.” rispose subito, mentre mi sedevo vicino alle sue gambe sul letto. “Mi ricordo che stavo autografando un album e poi buio totale.”

Io, involontariamente sospirai e incominciai a raccontargli la storia dall'inizio.

 

Quindi.” disse alla fine, guardandomi con le sopracciglia aggrottate e gli occhi socchiusi. “Tu sei fidanzato.”

A quelle parole, mi spalmai le mani sul viso. “Seriamente, Bill?”

Cosa?” chiese con il suo solito tono da innocente.

Vieni sparato da una stalker, entri in coma, rischi di morire per due volte e tu mi chiedi se sono fidanzato?”

Certo!” squittì, battendo le mani sulle coperte e quel gesto mi fece sorridere. “È la cosa più strana che potesse mai accadere!”

Io rimasi immobile. Lo fissavo sconcertato, con le braccia incrociate al petto. “Sono io quello che fa le battute tra i due.”

Sì, ma hai sempre fatto schifo.” sbuffai, aveva sempre la risposta pronta.

Ti odio.” sussurrai, ma fui tradito dalle labbra che si tesero in un sorrido.

Anche io.” disse, ricambiando il sorriso. “Ora però voglio conoscere questa santa!”

Alzai gli occhi al cielo. Era ritornato tra noi da nemmeno un giorno e già rompeva le scatole. Ma era proprio quello che mi era mancato di più di mio fratello: averlo attorno tutto il giorno e dover sopportare la sua lingua lunga e il suo carattere difficile. Mi alzai dal letto e, prima di andare a chiamare Ashley che era rimasta fuori dalla stanza per lasciarci un po' di privacy, tirai un pugno non troppo forte sulla sua spalla.

Ahi!” si lamentò. “Non sei cambiato di una virgola vedo!”

Neanche tu!” risposi subito, andando ad aprire la porta. “Tranne qualche rughetta sotto gli occhi.”

Stronzo!” lo sentii gridare mentre facevo un gesto ad Ashley per invitarla ad entrare.

Esattamente, lo dico sempre anche io!” esclamò appena entrò nella camera.
“Già mi piace!” disse, battendo le mani e sorridendole felice.

Dovresti stare dalla mia parte, Ash!” borbottai, sapendo di essere spacciato se quei due si fossero alleati contro di me.

Io sto dalla parte di chi ha ragione.” rise lei, scuotendo le spalle e avvicinandosi a Bill. “Comunque piacere, io sono Ashley.” si presentò educatamente allungando la mano.

Sono molto contento di conoscere la ragazza che finalmente è riuscita a far innamorare mio fratello.” le sorrise, stringendo la mano che le aveva porto lei per educazione. “Comunque io sono Bill, come tu ben saprai. Buona fortuna con il mio caro fratellone!”

Lei rise di nuovo e si girò verso di me. “Ha sempre questa parlantina?” chiese, divertendo entrambi.

Sempre, ogni volta vorrei prendere un calzino e chiudergli la bocca!” esclamai, piegandomi quasi a metà dal ridere quando vidi la faccia allibita di mio fratello ed Ashley.

Basta.” disse poi Bill. “Ho bisogno di una vacanza.”

A chi lo dici!” annuì subito lei.

Che ne dite di due settimane alle Maldive?” chiese e i suoi occhi si illuminarono al solo pensiero del mare, della spiaggia e del sole.

Ma sei proprio fissato con quelle isole!”

 

***

 

Tom?” lo chiamai nel buio, allungando una mano fuori dal lenzuolo per cercare l'interruttore della lampada. “Dormi già?”

No.” mugugnò e si girò verso di me quando la debole luce illuminò la stanza. “Non ci riesco.”

Neanche io.” concordai e spinsi le mani sul materasso per alzare la schiena a appoggiarla allo testata. “Ho troppi pensieri che mi frullano in testa.”

Lui fece lo stesso e allungò la mano per afferrare la mia, incrociando le sue dita calde alle mie. A quel gesto fissai prima le nostre mani intrecciate e poi alzai lo sguardo verso il quadro che avevamo appeso al muro poche ore prima proprio di fronte al letto. Ce l'aveva regalato Simone il giorno prima in ospedale, dicendo che era stato il pezzo principale della sua ultima mostra. Ritraeva due mani intrecciate molto simili alle nostre al centro, in primo piano ed erano contornate da un paesaggio spettacolare fatto dai colori del tramonto.

Non ci posso ancora credere che siamo realmente noi due.” sussurrai più a me stessa che a lui.

Ti ricordi quando hai parlato per la prima volta con mia madre?” mi sussurrò nell'orecchio.

Sì, certo che mi ricordavo. Come potevo scordarmelo? Stavano facendo la rianimazione a suo fratello e Simone ci aveva chiamato da parte per dirci che doveva partire. Ma cosa centrava con...

Mi hai stretto la mano.” soffiai.

Esatto.” disse, facendo una risatina. “Ora sei convinta?”

Sospirai e mi girai verso di lui, ritrovandomi a pochi centimetri dal suo volto. “Sai di cosa non sono convinta? È veramente tutto finito?”

Ed è andato tutto bene.” aggiunse lui, appoggiando dolcemente le sue labbra sulle mie, per poi avvolgere le braccia intorno a me e stringermi al petto.

Io appoggiai la testa sul tuo torace e per alcuni secondi rimasi ad ascoltare i battiti regolari del suo cuore. “Alla fine dei conti un po' sono contenta che tutto questo sia accaduto.” sussurrai alla fine.

Perché?” chiese e sentii la sua voce rimbombare nella cassa toracica.

Alzai la testa verso di lui e mi immersi ancora una volta nei suoi occhi. “Perché ho conosciuto te.”

Lui mi guardò e mi sorrise dolcemente. “Sei stata l'unica cosa positiva in tutto questo casino.”

Lo prendo come un complimento.” sussurrai, facendolo ridere.

Devi.” mi accarezzò delicatamente la guancia con il pollice per poi abbassarsi e posare le sue labbra sulle mie. “Buonanotte.”

'Notte.” mormorai, girandomi di schiena, senza rompere però il nostro contatto.

Spensi la luce e mi addormentai per la prima volta tra le sue braccia.

E, per la prima volta dopo mesi, sorrisi, felice.

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Capitolo 22
*** Chi l'avrebbe mai detto? ***




XXII: Chi l'avrebbe mai detto?



“Non ci credo.” dissi, girando di scatto la testa verso di lei e guardandola con gli occhi sgranati. “Tu non sei Viola Sneider. Chi sei? Che cosa ne hai fatto della mia migliore amica?”

La sua risata cristallina mi invase le orecchie e io sorrisi, contenta di poter sentire quel suono di nuovo. Scostai i capelli su una spalla e appoggiai la mano sotto il mento per vederla meglio. Non poteva seriamente aver detto una cosa del genere. Non riuscivo a crederci.

“Ash, sono seria.” cercò di dire, ma scoppio di nuovo in una fragorosa risata quando vide la smorfia di stupore dipinta sul mio volto. “Semplicemente non credo che Bill sia fatto per me.”

Detto ciò si girò prona sull'asciugamano e liberò la schiena dai suoi lunghi capelli biondi, appoggiò la guancia sul cotone bianco del telo da mare dell'hotel e chiuse gli occhi.

“Tu, che hai sempre affermato di amare Bill Kaulitz, ora mi dici che vuoi essere solo sua amica?” chiesi, come per esserne veramente sicura.

“Conoscendolo di persona, sì.” borbottò, tenendo sempre le palpebre serrate. “Non è la persona che pensavo che fosse.”

“Non è la persona che pensavo che fosse.” la presi in giro, imitando la sua voce. “Non iniziare a fare la-”

Un grido acuto uscì dalle mie labbra quando qualcosa di molto pesante e ghiacciato mi schiacciò ancora di più sulla sabbia. “Stavate parlando di me?”

No!” urlai, cercando di togliermelo di dosso. “Tom, togliti subito! Sei gelato!”

Stavamo prendendo il sole ormai da due ore, mentre i gemelli si divertivano nell'idromassaggio o nel mare limpido delle Hawaii, quindi la mia pelle era stata riscaldata parecchio dai raggi solari. Percepivo le goccioline che scendevano dalle sue treccine e dal suo costume bagnarmi il collo e le gambe, procurandomi brividi di freddo.

“Non sai che dopo ore sotto al sole bisogna bagnarsi?!” mi chiese ironico, ridendo e stampandomi un bacio sul collo.

Quello non fece altro che peggiorare la situazione. “Ti prego, smettila!”

“Di fare cosa? Io non sto facendo niente.” disse, iniziando di colpo a farmi il solletico sui fianchi.

“Basta, ti prego, basta!” odiavo quando mi torturava così. Era troppo bravo e ormai conosceva tutti i miei punti deboli. “Tom!” gridai di nuovo il suo nome e sentii altre due risate unirsi alla sua.

Improvvisamente però tutto si fermò. Non sentivo più Tom sopra di me, le sue mani e le risate che mi circondavano. E fu in quel momento che feci un errore enorme, pensando che fosse tutto finito: mi girai supina, per capire cosa fosse successo. Mi ritrovai lui davanti, tutto gocciolante che mi guardava con un sorrisetto furbo stampato sulle labbra. Dal suo sguardo capii subito le sue intenzioni.

“Non ci provar-” non riuscii neanche a finire la frase che scattò in avanti e mi prese in braccio.

Cercai di liberarmi, tirando calci e pugni, ma lui era mille volte più forte di me. 
“Ti prego, Tom, non farlo!” gridai.

Lui mi guardò negli occhi e mi sorrise, un misto tra malizia e divertimento. Avvicinò lentamente il volto al mio e io fissavo come incantata le sue labbra carnose che stavano quasi per unirsi alle mie quando sussurrò, prendendomi alla sprovvista, “Troppo tardi.”

Non mi ero accorta che con pochi passi era già arrivato in mare. Io cercai di aggrapparmi a lui in tutti i modi, per cercare di non cadere, ma lui lasciò la presa e mi lanciò in acqua. Non riuscii a evitarlo: mi ritrovai sommersa da acqua fredda e salata. Odiavo la sensazione del gelo che entrava nella pelle, che si diffondeva velocemente in tutto il corpo fino a far rabbrividire. Ma, più di tutto, odiavo quando l'acqua invadeva le vie respiratorie senza preavviso, il sale che brucia in gola e l'istinto automatico di chiudere la bocca, un istinto inutile visto l'assenza di ossigeno. In quel momento mi pentii per aver cambiato la meta di quel viaggio: avevo convinto Bill a cambiare isola e non andare di nuovo alle Maldive, visto che il fratello si era lamentato per ore intere. Eravamo stati tutti d'accordo di andare alle Hawaii, ma ora avrei preferito senza dubbio il mare caldo delle Maldive. Aprii gli occhi sott'acqua e guardai in alto, per poi darmi la spinta necessaria per tornare in superficie. Inspirai con tutte le forze quando uscii dal liquido cristallino e con le mani mi lisciai i capelli all'indietro. Sbattei più volte le palpebre per cercare di sconfiggere il bruciore e cercai subito Tom, che era rimasto vicino a me a ridere.

“Me la pagherai, Kaulitz.” dissi tra un colpo di tosse e l'altro.

Con tutta l’energia che mi era rimasta spruzzai più acqua possibile verso di lui, che non aspettava altro e la guerra iniziò. Per tutto il tempo non smettemmo di ridere e con la coda dell'occhio notai Viola e Bill che parlavano tranquillamente sulla spiaggia, seduti uno vicino all'altro mentre ci lanciavano qualche occhiata. Non riuscivo ancora a credere che dopo tutto quello che mi aveva detto, alla fine aveva capito di non amarlo realmente. Ma da una parte ero contenta: almeno non avrebbe rischiato un rifiuto da parte di lui se ci avesse provato realmente. In quel momento tutto mi sembrava perfetto: Tom ed io che giocavamo in mare come due bambini felici ed innamorati, la mia migliore amica e il fratello del mio fidanzato che chiacchieravano serenamente dopo tutto quello che li era successo come due buoni amici. Finalmente mi sentivo davvero completa. Speravo che quel momento non finisse mai.

“Va bene, va bene!” esclamai di punto in bianco. “Mi arrendo!”

Alzai le mani in aria mi avvicinai lentamente  a lui, che si fermò immediatamente dopo la mia resa. Quando arrivai vicino a lui lo guardai da vicino: il fisico asciutto, gli addominali e i pettorali ben scolpiti, la pelle ambrata che brillava sotto la luce del sole, i cornrows color pece che gocciolavano, il sorriso che si era impossessato delle sue labbra carnose e infine gli occhi color mandorla. C'era qualcosa di imperfetto in quel ragazzo?

Allacciai le mie braccia intorno al suo collo e lui appoggiò le mani sui miei fianchi.

“Ho vinto io.” sussurrò vicino alle mie labbra.

“Smettila di fare lo scemo.” mormorai di rimando, senza riuscire però a non sorridere.

“È per questo che mi ami.” quel sorriso beffardo mi fece venire le farfalle nello stomaco.

“Io non ti amo.” cercai di mentire, ma il mio tono diceva tutto il contrario.

Avvicinò ancora di più i nostri corpi bagnati e posò lentamente le labbra sul mio collo.

“Ne sei sicura?” mi chiese senza smettere di lasciare baci umidi sulla mia pelle.

Senza dire niente appoggiai le mani sulle sue guance e tirai su il tuo volto per guardarlo di nuovo negli occhi. “No.” sussurrai, unendo le nostre labbra in un dolce bacio.

 

*

 

“Sapete che Ashley sa cantare?” saltò su di punto in bianco Viola e per poco non mi strozzai con un pezzetto di carne. “Ed è anche bravissima!” aggiunse con troppo entusiasmo.

“Viola!” l'ammonii subito, strabuzzando gli occhi e bevendo un sorso di vino rosso per cercare di mandare giù propriamente il cibo.

Stavamo cenando tutti e quattro insieme nel lussuoso ristorante dell'hotel a quattro stelle dove alloggiavamo. Eravamo già alla seconda portata e fino a quel punto tutto era andato a meraviglia: i piatti erano squisiti, il posto silenzioso e accogliente e avevamo chiacchierato del più e del meno per tutto il tempo ridendo e scherzando. Vicino a me era seduto Tom, che di tanto in tanto allungava la sua mano sotto al tavolo per afferrare la mia; difronte c'era la mia migliore amica e vicino a lei c'era Bill, che continuava a lanciare sguardi dolci verso di me e suo fratello, come se avesse voluto essere al nostro posto. Era strano, ma piacevole.

“Davvero?!” chiese sorpreso quest'ultimo, tagliando delicatamente un pezzo di verdura.

“Giusto!” intervenne improvvisamente Tom, sbattendo piano la mano sul tavolo per enfatizzare le sue parole. “Mi sono dimenticato di dirtelo! L'ho sentita anche io, ha una voce fantastica!”

“Smettila!” esclamai imbarazzata, spingendolo leggermente con la mano sulla spalla. “Così mi metti in imbarazzo!”

“Perché?” mi chiese Bill, guardandomi serio. “Se hai questo bellissimo dono non ti devi vergognare.”

“Grazie.” sapevo che le mie guance erano diventate color porpora. “Detto da te mi lusinga. Hai una voce davvero meravigliosa.”

Entrambi mi sorrisero e io aggrottai le sopracciglia ripensando a cosa avevo appena detto.

“Non avrei mai pensato di dire che il cantante dei Tokio Hotel fosse bravo.” borbottai e tutti scoppiarono a ridere.

Sapevano che non ero affatto una loro fan, soprattutto Tom che si ricordava perfettamente quando ci incontrammo per la prima volta e io non sapevo minimamente chi fosse. Alcune volte rideva ancora quando ripensava al giorno in cui avevo detto che era abbastanza scarso. Ma alla fine avevo capito che non bisogna mai giudicare un cantante o band senza aver prima ascoltato le loro canzoni o senza averli prima conosciuti davvero.

“Mi è venuta un'idea fantastica!” la voce eccitata del chitarrista mi fece tornare alla realtà. “Stasera vestitevi non troppo eleganti e comodi.”

Tutti e tre alzammo lo sguardo e lo fissammo, confusi.

“Vuoi dire casual.” mormorò il suo gemello, con un sopracciglio alzato.

“Sì, quel che è! Che rompipalle che sei!” Bill, come risposta, gli fece la linguaccia.

Viola ed io ci scambiammo un’occhiata e scoppiammo a ridere, felici di aver incontrato quei due ragazzi. Era rassicurante vedere come tutto ciò che ci era successo si era risolto per il meglio e tutto era ritornato alla normalità.

 

*

 

“Secondo te sono abbastanza casual?” chiesi, imitando la voce di Bill di poco prima e facendo una giro su me stessa.

Viola alzò la testa dal cosmopolitan che stava leggendo e gli si illuminarono gli occhi. “È perfetto.”

Stirai con le mani la gonna del vestito, felice della mia scelta: era diviso in due pezzi e toccava per terra. La gonna era color pesca e di un tessuto simile alla seta, mentre la parte superiore era azzurra con le spalline nere; inoltre lasciava la schiena e un lembo di vita scoperta. Non sapevo cosa avesse in mente Tom, ma sicuramente era un vestito che soddisfaceva la sua richiesta. Ai piedi avevo abbinato un semplice sandalo di cuoio in stile indiano e avevo lasciato i capelli lisci sciolti. Per finire avevo allungato e scurito le ciglia con il mascara e avevo tinto le labbra con un rossetto dello stesso colore della gonna. Anche la mia migliore amica aveva optato per un vestito, ma era molto più semplice del mio: era corto di color bordeaux stretto in vita da una cintura di pelle nera.

“Ora è meglio se andiamo.” dissi, allungando una mano verso il letto per prendere la piccola borsetta nera con dentro tutto il necessario. “Siamo già in ritardo.”

 

Quando scendemmo nella hall dell'hotel trovammo i gemelli che ci stavano già aspettando vicino alle scale. Tom mi avvolse subito un braccio in vita e mi sussurrò un 'sei bellissima' nell'orecchio prima di accompagnarmi in spiaggia. Bill e Viola erano proprio dietro di noi che parlavano animatamente su un argomento a me sconosciuto mentre camminavamo sul lungo mare.

“Quanto manca ancora?” mi lamentai dopo ormai dieci minuti che passeggiavamo.

Lui si fermò di scatto e aumentò la stretta delle nostre mani. “Siamo arrivati.” mormorò, indicando qualcosa con l'indice.

Seguii con lo sguardo la direzione indicata e le mie labbra si tirarono in un sorriso.

“Ma è magnifico, Tom!” esclamò entusiasta Viola, battendo le mani. “Ho sempre voluto mangiare i marshmallows di fronte ad un falò sulla spiaggia!”

“È bellissimo.” furono le uniche parole che riuscii a dire, ero davvero stupefatta.

Davanti a noi c'erano quattro tronchi disposti a quadrato intorno ad un fuoco abbastanza grande ed intenso. Il tutto veniva accentuato dalla folta boscaglia verde che c'era proprio dietro e il mare scuro alle nostre spalle. Era tutto perfetto. Vagavo ancora con gli occhi per godermi quello spettacolo: il fuoco che scoppiettava, i marshmallows posizionati vicino ai tronchi…

Di colpo mi immobilizzai e capii lo scopo di Tom: una chitarra era appoggiata sulla sabbia. Ora era tutto perfettamente chiaro. Mi venne un crampo allo stomaco: mi ricordava troppo quella di mio fratello.

“Stronzo.” borbottai di getto, senza pensarlo veramente.

“Lo so. Me lo dicono in molti.” scherzò lui, lanciando uno sguardo verso il gemello, che rise.

Lentamente ci avvicinammo e ci sedemmo sui tronchi e automaticamente allungai le mani per godermi il tepore delle fiamme.

“Siamo tutti qui riuniti stasera...” iniziò lui, ma non riuscì a finire la frase poiché scoppiò in una fragorosa risata. “No. Seriamente.” Non perse tempo e afferrò la chitarra, appoggiandola sulle sue ginocchia. “Ti va di cantare per noi?”

Un groppo mi si formò in gola e calò il silenzio. “Io non...” le parole mi morirono in gola. Io non ci riesco. Non ero ancora pronta per cantare di fronte a loro. L'avevo sempre e solo fatto davanti a mio fratello o a Viola. Quel giorno era stato un errore, non volevo che Tom mi sentisse. Di colpo lui iniziò a pizzicare le corde a caso, guardandomi divertito.

“Ashley, baby!” iniziò a cantare a squarcia gola, facendo ridere tutti. “You make me feel so alive!*”

“Smettila, Tom!” disse Bill tra le risate, per poi tornare serio. “Se non vuole cantare non possiamo obbligarla.”

“No, va bene.” mi stupii di me stessa per aver ceduto veramente alla loro richiesta. “Canterò.”

Prima o poi dovevo pur farlo, dovevo abbattere finalmente i muri e cancellare la paura di cantare in pubblico. Ci ero riuscita una volta in ospedale, anche se ero da sola e ce l'avrei fatta di nuovo. Oltretutto quella era la situazione ideale per farlo, quindi perché non provare? Dovevo essere forte e vivere appieno la mia vita, altrimenti me ne sarei pentita.

“Sei sicura?” continuò Bill, appoggiandomi una mano sulla spalla. “Non devi farlo se non vuoi.”

Girai lo sguardo e mi immersi nei suoi occhi color nocciola. “Sono sicura.” e, anche se il mio tono era un po' tremante, lui annuì.

“Che canzone vuoi cantare?” sapevo esattamente la risposta a quella domanda.

Era da mesi che pensavo al modo in cui dedicare quella canzone alle persone più importanti della mia vita, ma non ne avevo mai trovato uno.

Mi avvicinai al suo orecchio e sussurrai il titolo. Lui appena capì di quale canzone stessi parlando, strabuzzò leggermente gli occhi e poi mi sorrise, capendo perfettamente il perché di quella scelta.

Senza dire altro abbassò il capo e iniziò a suonare la chitarra. Chiusi gli occhi, godendomi quel suono meraviglioso. Ovviamente non riuscii a fermare i ricordi e subito le immagini di Adam si proiettarono nella mia mente. Dolci note riempirono l'aria e mi vennero i brividi.

“I wanna start by letting you know this...” mi venne automatico accompagnare quella melodia con la mia voce.

Pensavo che sarebbe stato più difficile, invece mi sbagliavo. Il cuore mi pulsava forte quando aprii gli occhi e li puntai sulla mia migliore amica. “Because of you, my life has a purpose. You helped me be who I am today.”

Lei capì subito e i suoi occhi diventarono lucidi. Era sempre stata così: sensibile ed emotiva. E quello era uno degli tanti aspetti che adoravo di lei.

 

Sometimes it feels like nobody gets me, trapped in a world where everyone hates me.

There's so much that I'm going through,  I wouldn't be here if it wasn't for you.

 

Le sorrisi quando vidi una lacrima solitaria nascere dalle sue pozze color smeraldo. Subito l'asciugò con una mano, ma ormai io l'avevo vista e avevo capito immediatamente che il testo l'aveva toccata nel profondo. Era come se fosse scritta per noi, per il modo in cui ci eravamo conosciute, per tutto quello che era successo nelle nostre vite.

 

I was broken, I was choking, I was lost.

This song saved my life

I was bleeding, stopped believing, could have died.

This song saved my life

I was down, I was drowning, but it came on just in time.

This song saved my life  

 

Entrambe sapevamo esattamente di quale canzone stessi parlando. Quella con cui le nostre strade si erano incrociate per la prima volta. Ricordai inevitabilmente quel giorno. Ormai era indelebile nei miei ricordi e niente sarebbe stato in grado di cancellarlo. Solo un aspetto era stato positivo dopo la morte di mio fratello e il tentativo di raggiungerlo: lei.

“Sometimes it feels like you've known me forever...” sorrisi per un ultima volta a Viola prima di girarmi verso Tom e appoggiare delicatamente le dita sotto al suo mento per far coincidere i nostri sguardi. “You always know how to make me feel better.”

Dalla luce dei suoi occhi capii che aveva intuito che gli stavo dedicando quella parte del testo. Ecco perchè avevo scelto proprio quello, era perfetto per entrambi.

 

You're my escape when I'm stuck in this small town, I turn you up whenever I feel down.

You let me know like no one else that it's okay to be myself. 

 

Quelle parole erano fottutamente vere. Anche Tom l'avevo conosciuto per caso quando tutto il mondo intorno a me crollava a pezzi e ora era indispensabile e sempre presente nella mia vita. All'inizio avevo frainteso e nascosto le sensazioni che provavo quando ero vicino a lui, ma poi avevo capito: mi ero davvero innamorata di lui e quella era una delle emozioni più intense che avessi mai provato. Avevo passato interi giorni insieme a lui e per mesi era stata la mia unica ancora di salvezza, l'unica persona che era nella mia stessa situazione, l'unica persona che mi capiva davvero.

 

You never know what it means to me that I'm not alone.

That I'll never have to be. ** 

 

Quando cantai quelle parole allungai le braccia e strinsi la mano di Viola con la sinistra e appoggiai l'altra sulla gamba di Tom. Volevo fargli capire che ero veramente grata a loro per non avermi mai lasciato da sola dopo tutto quello che avevo passato e che speravo che i nostri rapporti sarebbero continuati così per sempre, perché senza di loro la mia vita non avrebbe più avuto senso. Certo, con Tom non era sempre stato tutto rosa e fiori, ma comunque sapevo che nel suo cuore sapeva di avermi ferito e di aver sbagliato. E io l'avevo perdonato.

Cantai l'ultimo ritornello voltandomi verso Bill, che stava muovendo la testa a ritmo di musica. Mi regalò un sorriso a trentadue denti e io ricambiai, sperando che capisse che anche se non lo conoscevo bene, mi veniva quasi automatico volergli bene e che, se me l'avesse permesso, avrei voluto essergli amica. Dopotutto era la persona più importante per il mio fidanzato, quindi lo era anche per me. Ma, soprattutto, mi ero avvicinata molto a lui nei mesi in cui era in coma e tutti i brutti eventi che gli erano successi avevano rafforzato quello specie di legame che si era creato tra noi due.

Le ultime note volarono via e appena Tom si allontanò dalla chitarra, Viola e Bill iniziarono a battere le mani verso di noi e si alzarono per venirci ad abbracciare.

“Ashley, sei stata incredibile!” esclamò il moro quando sciogliemmo il contatto. “Hai una voce davvero particolare, davvero bellissima!”

“Oh, grazie.” risposi, imbarazzata.

“Magari un giorno potreste fare un duetto insieme!” propose Tom, sorridendomi e picchiettando una mano sulla sua coscia, invitandomi a sedermici sopra.

“Non credo sia u-” iniziai, accontentandolo e allacciando le braccia al suo collo.

“È un'idea fantastica!” mi bloccò invece il cantante.

“Chi l'avrebbe mai detto, eh?” mormorò Viola, indicando prima Bill poi Tom, per poi inchiodare i suoi occhi nei miei. “Tu, che hai sempre odiato i Tokio Hotel e non hai mai cantato in pubblico ora sei fidanzata con Tom Kaulitz e quasi sicuramente canterai con loro.”

Metabolizzai le sue parole e mi vennero i brividi. Mi voltai verso di lui e mi immersi per l'ennesima volta nei suoi occhi color nocciola. Senza pensarci unii le nostre labbra e premetti con tutte le mie forze, assaporando il più possibile il sapore magnifico di quelle labbra. Quando mi allontanai il viso dal suo alzai lo sguardo al cielo e sorrisi.

E per la prima volta dopo anni, ero sicura che quel sorriso avesse raggiunto anche gli occhi.

Ti voglio tanto bene Adam, grazie di tutto, pensai prima di girarmi verso Viola.

“Eh sì, chi l'avrebbe mai detto?”

 

 

 

THE END.

 



* Ashley – Escape The Fate

** This Song Saved My Life – Simple Plan

 

NOTE FINALI: Una parte di me non ci crede ancora, Omicidio per due è veramente finito. Non riesco ad esprimere in parole quello che provo ora, è troppo difficile, ma ci proverò ugualmente. Da una parte sono felice, perchè per una scrittrice finire una propria storia è come tagliare la striscia del traguardo per un corridore. Sono davvero contenta di essere riuscita a mettere un punto alla mia terza long fan fiction, anche se diciamocelo, non è stato facile. Tra pause lunghe anni e imprevisti, è stato una vera e propria impresa. Dall'altra parte però, anche se ho scritto l'epilogo molti mesi fa (in agosto per essere precisi, la colpa è tutta della beta ahah) solo ora che l'ho postata inizio a sentire un vuoto. Perchè è ovvio: mi mancherà scriverle di Ashley, Viola e i gemelli. Come sempre mi sto dilunguando troppo. Passiamo alla parte più importante: voi, le lettrici. Senza di voi questa storia non sarebbe mai andata avanti, quindi vi devo ringraziare di cuore. GRAZIE MILLE DAVVERO. Ringrazio tutte le ragazze che hanno messo OX2 tra le preferite, ricordate e seguite e chi solamente ha letto. (in tutto siete 35, ouo) Un grazie infinito anche a tutte le lettrici che hanno recensito, facendomi sorridere e trovare la forza e la voglia per continuare a scrivere. GRAZIE GRAZIE GRAZIE.

Bene, ora credo di aver finito. *si asciuga una lacrima* ahah

A parte gli scherzi, spero davvero che Omicidio Per Due vi sia piaciuta e spero mi seguerete quando pubblicherò la mia nuova long fiction: An Essential Treasure! Grazie mille ancora.

xoxo, léx.

 

 

 


 


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