Il mistero della porta di cabol (/viewuser.php?uid=15027)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1: la porta chiusa
Con il suo sguardo esperto, il giovane elfo esplorò per l’ennesima
volta con estrema cura l’intera superficie della porta bronzea
elegantemente decorata, esaminando attentamente ogni rilievo e ogni
incisione per poi soffermarsi corrucciato sulla toppa e sul grimaldello
che vi era inserito. Nonostante tutti i suoi sforzi e la sua notevole
abilità di scassinatore, quella serratura non voleva assolutamente
saperne di aprirsi.
Era alto, per essere un elfo, come un uomo di statura media, tanto che
avrebbe benissimo potuto essere confuso con un umano di circa
vent’anni. Snello, quasi esile, con muscoli affusolati come quelli dei
danzatori, aveva movenze feline, eleganti. Un cappello a larghe tese,
decorato da una magnifica piuma nera, copriva i suoi capelli corvini
lunghi fin quasi sulle spalle, mantenendo in ombra il suo volto dai
lineamenti delicatamente aristocratici. I suoi abiti, pur completamente
neri, erano eleganti e ricercati, più simili a quelli di un ricco
gentiluomo che a quelli di un ladro. Un agile stocco pendeva dal suo
fianco sinistro. Gli occhi grandi, di un verde profondo, fissavano
accigliati la serratura.
Aveva aperto dozzine di porte blindate e quella sembrava in tutto e per
tutto simile alle altre.
Sembrava.
Perché Blackwind sapeva perfettamente che nessuna porta normale era in
grado di resistergli a lungo. Anche in quella, in effetti, il
grimaldello girava normalmente e il lucchetto scattava come qualsiasi
altro. Però quella porta restava chiusa, sbarrata, senza alcuna
spiegazione. Ormai era certo che non ci fossero altri meccanismi
nascosti.
A questo punto è evidente che questa
porta è serrata con la magia e potrei passare la mia vita a tentare di
aprirla senza speranza di riuscirci.
Un maledetto, sleale incantesimo. Non poteva esserci altra spiegazione.
A meno di non riconoscere di aver perso improvvisamente tutto il suo
talento.
La clessidra, accanto a lui, stava esaurendo gli ultimi granelli di
sabbia. Blackwind la girò: al termine, secondo i suoi calcoli, sarebbe
passata una guardia a controllare. La stanza detta “del tesoro” si
trovava in fondo a un corridoio privo di finestre che si dipartiva dal
salone adibito a museo che occupava quasi tutto il secondo piano
dell’edificio. Se una guardia fosse comparsa all’imboccatura di quel
corridoio, non ci sarebbe stato modo di evitare di finirle in bocca.
Lanciò un ultimo sguardo irritato verso la toppa e ritirò il
grimaldello. Inutile perderci altro tempo. Ormai restava poco tempo per
andarsene. Infilò il grimaldello sotto l’ampia fascia viola che teneva
stretta in vita e fece per allontanarsi. Esitò. Proprio non riusciva ad
accettare di essere stato sconfitto così.
Blackwind, era abituato a curare anche i minimi dettagli delle sue
“operazioni”. Così, aveva impiegato una decina di giorni a pianificare
con estrema precisione quel colpo, entrando e uscendo da quella casa
sotto svariati travestimenti, mescolandosi fra i fornitori, operai e
fattorini.
Aveva esplorato praticamente tutta la costruzione con attenzione e
discrezione. Sapeva esattamente quanti passi occorrevano per
raggiungere la stanza detta “del tesoro” partendo da diversi punti
dell’edificio. Sapeva esattamente quanti gradini c’erano in ogni
scalinata. Conosceva a memoria tutti gli spostamenti che i guardiani
compivano ogni sera per sorvegliare il palazzo. Sapeva l’esatta
posizione di ogni porta e ogni finestra. Era in grado di entrare e
uscire da quella casa senza fare il minimo rumore, sia passando dalla
strada, sia raggiungendola dai tetti degli edifici vicini. Era anche
entrato in quella stanza una sera, mescolato fra gli ospiti del padrone
di casa, ammirando quel meraviglioso gioiello e memorizzando dove era
custodito.
E ora doveva fermarsi davanti a una porta. Una sconfitta cocente,
inaccettabile. Soprattutto inaccettabile perché da parte di James Brook.
Era, il padrone di casa, un famoso commerciante d’arte, ricco, giovane,
brillante e affascinante, introdotto nella migliore società di
Elosbrand[1]. Un personaggio influente e rispettato. Un personaggio
che, si diceva, ben presto sarebbe stato investito di qualche
importante carica cittadina, forse addirittura avrebbe avuto la
possibilità di accedere al Senato.
Ma quello che i buoni cittadini e i governanti di Elosbrand ignoravano
era che buona parte delle sue ricchezze, anziché dal commercio di opere
d’arte, proveniva da traffici d’armi clandestini.
Il giovane elfo era certo che quell'uomo senza scrupoli aveva rifornito
con armi di pregevole fattura numerose bande di briganti che avevano
causato molti problemi nelle foreste a occidente della città. Egli
stesso aveva visto con i suoi occhi quelle armi quando, quasi un anno
prima, si era trovato ad affrontare insieme con un insolito gruppo di
avventurieri proprio una di quelle bande. Quelle armi provenivano
certamente dai magazzini di Brook. Purtroppo i documenti che lo
avrebbero provato erano poi finiti in cenere insieme al resto del covo
di quei briganti.
Chissà quanti altri delinquenti avevano acquistato armi dall'eccellente
signor James Brook. Chissà quanto sangue era stato sparso da quelle
armi. E quanto oro aveva portato nelle tasche del rispettabile signor
Brook tutto quel sangue?
Perciò aveva messo gli occhi su quella casa.
Perché se in realtà Blackwind non avrebbe mai nemmeno ipotizzato di
sottrarre uno spillo alla gente onesta, non aveva assolutamente alcun
rimorso a derubare i veri delinquenti. Specie quelli che mascherano la
loro disonestà sotto una facciata rispettabile. Anzi, proprio per
quella specie di furfanti provava un’avversione particolarmente
profonda.
Proprio per quelli come il rispettabile signor James Brook. Quel
trafficante meritava una sonora lezione e il giovane elfo sapeva
benissimo come il modo migliore di punire la gente di quel genere fosse
colpirli nella borsa.
Sarebbe bastato mettere le mani sull’Occhio
della Regina, un favoloso rubino grande come una noce, di
spettacolare purezza, scomparso un secolo prima dalla corte reale di
Ariakas [2] e riapparso qua e là in diverse regioni di Ainamar, per
fermarsi finalmente nelle mani del mercante d’arte più conosciuto di
Elosbrand. Brook era orgoglioso di possedere quel gioiello unico che,
da solo, valeva metà delle sue ricchezze. Blackwind era convinto che se
fosse riuscito a rubare quel rubino, Brook avrebbe subito un colpo
formidabile nelle ricchezze e nell’orgoglio.
Aveva pianificato tutto con estrema attenzione, aveva superato ogni
ostacolo. Restava solo quella porta. Non si sarebbe mai immaginato di
doversi fermare a quel punto.
Eppure non riesco ad accettare di
essere arrivato così vicino e dover rinunciare!
Ma chi diavolo poteva aver messo a disposizione la propria magia per
chiudere quella porta? Brook, a quanto se ne sapeva, non aveva alcuna
conoscenza nelle arti arcane. Possibile che avesse assoldato un mago?
Comunque fosse, quella serratura continuava a restare ostinatamente
chiusa.
La magia era piuttosto comune su Ainamar, anche se erano in pochi
quelli che la sapevano controllare e adoperare correttamente. Blackwind
stesso portava mantello e stivali infusi della magia della sua razza,
che gli consentivano di nascondersi perfettamente nell’ombra e muoversi
con la silenziosità di un gatto. Però, per eliminare quella chiusura
magica, avrebbe dovuto procurarsi una pergamena contenente
l’incantesimo adatto e augurarsi di riuscire a leggerla correttamente
davanti a quella porta sbarrata. Ma per procurarsi la pergamena giusta
gli sarebbero occorsi alcuni giorni. Quindi, tutto da rifare.
L’unico modo, a quel punto, era di farsi aprire la porta da chi era in
possesso della chiave magica. Dunque solo il padrone di casa o, forse,
il maggiordomo, l’anziano Algernon. Però sarebbe stato necessario
ricorrere alla forza e trasformare quel furto tanto abilmente
congegnato in una volgare rapina. Col rischio che qualcuno potesse
farsi seriamente male.
Quello, però non era lo stile di Blackwind. Quello stile che era
diventato quasi un marchio di fabbrica. Uno stile fatto di abilità,
intelligenza, astuzia, eleganza. Mai volgare violenza. Mai la forza
bruta. Mai una vittima innocente.
Se, per vincere, devo uccidere,
preferisco perdere.
Questo era sempre stato il suo motto. Questo lo rendeva un individuo
veramente insolito in un mondo in cui uccidere gli avversari pareva il
modo naturale di conseguire una vittoria.
D’altra parte, la clessidra stava ormai per finire. Avrebbe dovuto
ammettere la sconfitta. Il bello era che aveva addirittura già
preparato un biglietto beffardo da far trovare al padrone di casa. Lo
osservò accigliato. Era stato troppo sicuro di sé.
A meno che…
Un sorriso comparve sulle labbra di Blackwind. Forse un modo esisteva.
Probabilmente era un tentativo disperato. Però poteva funzionare.
E sarebbe stato veramente nel suo stile.
[1] La capitale della Repubblica di Elos, dove si svolge questa
storia
[2] Impero confinante ad occidente con la Repubblica di Elos
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2: la porta aperta
La notte volgeva ormai al termine e presto una radiosa alba autunnale
avrebbe scacciato la nebbiolina notturna di Elosbrand. Come ogni
mattina, Algernon Leonard Fitzhoot, maggiordomo da tre generazioni e
orgoglioso padre di un giovane promettente maggiordomo, già a servizio
in casa di un giovane nobile di un’importante casata di Aglargond[3],
cominciava il giro delle stanze per spolverare le opere d’arte del suo
padrone. Si sentiva sempre assai gratificato per questo. I suoi
colleghi, in genere, dovevano occuparsi di chincaglierie di gusto
discutibile. Lavorare per James Brook significava stare tutto il giorno
in mezzo all’arte, quadri, gioielli, statue, arazzi. Autentiche
meraviglie. Spolverare una scultura valdoriana[4] o un quadro di scuola
hyrmensiana[5] o un arazzo ariaken[6] non era lavorare: era un onore e
un piacere.
Era un uomo alto, sulla sessantina, dai radi capelli, grigi come i suoi
occhi severi. Era stato educato adeguatamente alla sua professione e il
suo autocontrollo era pressoché perfetto. Quella mattina, come sempre
quando si occupava di spolverare le opere d’arte, vestiva semplicemente
con una tunica e un paio di ciabatte ed era armato di un delicato
piumino. Appena terminato di spolverare, avrebbe abbandonato quegli
abiti dimessi e avrebbe indossato la sua impeccabile livrea da
maggiordomo.
Finito di pulire il museo, giunse alla stanza “del tesoro”, quasi
impaziente di ammirare i pezzi più pregiati della collezione del suo
padrone. Inserì la chiave nella porta e mormorò la formula di apertura,
meccanicamente, come ogni mattina. La porta si aprì dolcemente,
permettendo alla fioca luce del corridoio di proiettarsi sul pavimento
della stanza buia.
Rimase sorpreso nel notare che, proprio nel triangolo di luce disegnato
sul pavimento, spiccava un biglietto. Quella vista lo turbò. Come mai
era lì? Chi poteva averlo lasciato? Il padrone era uscito presto, la
sera prima, e rientrato tardissimo. Difficilmente poteva essersi
affacciato in quella stanza. Però, quando l’aveva chiusa, poco prima di
cena, non c’era assolutamente nulla per terra, nemmeno la polvere. La
sua mano tremava un poco, nel raccogliere quel piccolo pezzo di carta.
Gli bastò sbirciarlo un attimo per sentirsi svenire.
Oh Sergaries beata, proteggimi! Ora
chi lo dice al signor Brook?
Il suo perfetto autocontrollo si dissolse improvvisamente lasciando
spazio ad una reazione quasi isterica. Si precipitò fuori in preda al
panico. Percorse il corridoio, attraversò quasi volando il museo, scese
a rotta di collo le scale, spalancò il portone e corse in strada così
com’era, col piumino ancora in mano e le ciabatte ai piedi.
«Al ladro! Aiuto!».
Fatti pochi passi in strada, andò letteralmente a sbattere contro un
passante. Perse l’equilibrio e sarebbe caduto se colui che aveva quasi
travolto non l’avesse sorretto prontamente.
«Calmo, calmo, caro signore. Cosa sta succedendo?».
Algernon Leonard Fitzhoot, maggiordomo da tre generazioni, sollevò lo
sguardo sul suo interlocutore e quasi svenne dalla gioia nel
riconoscere l’uniforme e l’elmo di un ufficiale della Guardia di Elos,
la milizia che manteneva l’ordine nella Repubblica.
«Sono gli dei che vi mandano, capitano! Hanno rubato nella casa del mio
padrone! Venite, presto!».
«Vi seguo, signore, state tranquillo però, e raccontatemi cosa sta
accadendo, sono il capitano Ernest Tyron».
L’ufficiale parlava con calma, con un dolce accento ardoriano e un tono
tranquillizzante. Era di altezza media, di aspetto elegante, con lunghi
capelli biondi che fuoriuscivano da sotto l’elmo bronzeo per
ricadergli morbidamente sulle spalle. Il volto, severo, era
incorniciato da baffi di foggia militare, accuratamente arricciati
all’insù. Portava la cotta di maglia di ordinanza e, su quella, la
tunica con le insegne della Guardia e il suo grado. Il maggiordomo
rallentò solo di poco l’andatura e cercò di spiegare all’ufficiale
quello che era accaduto, mentre ripercorreva i corridoi della casa del
suo padrone.
«Manca qualcosa?».
«Non so… veramente mi sono precipitato fuori appena ho letto il
biglietto. Sapete, quel nome mi ha scombussolato».
Salirono le scale, attraversarono il museo, del quale l’anziano
Algernon meccanicamente decantò la ricchezza, e si diressero lungo il
corridoio che portava alla stanza detta “del tesoro”, dove il signor
Brook conservava i pezzi più pregiati della sua collezione.
«Posso vederlo?».
«Cosa?».
Algernon si era perso completamente nel ruolo di guida, nell’elencare
le meraviglie della collezione del suo padrone.
«Ma il biglietto, naturalmente, e magari, appena possibile, desidererei
incontrare il vostro padrone. Vediamo cosa si può fare».
Algernon, bruscamente riportato alla realtà della situazione, perse di
colpo buona parte della sua loquacità.
«Ma certamente capitano!».
Nel frattempo, avevano raggiunto la porta blindata.
«Avete chiuso voi la porta, uscendo?».
«Eh? Ah sì… credo di sì… veramente non ricordo ma la chiudo sempre… ma
poi chi altro potrebbe averla chiusa? Certo che l’ho chiusa io».
Il maggiordomo estrasse la sottile chiave di bronzo dalla sacca che
portava appesa alla cintura, la inserì nella serratura, pronunciò una
parola in un’antica lingua e aprì la porta. Entrarono nella stanza “del
tesoro” immersa nell’oscurità, il capitano con passo sicuro e
tranquillo, l’anziano servitore malfermo sulle gambe, come se stesse
entrando fra le fauci di un drago. Rimasero un attimo al buio, poi
Algernon trovò una lampada su uno scaffale subito accanto alla porta e
si diede da fare per accenderla.
«Il biglietto… L’ho lasciato cadere, ma dovrebbe essere qui sul
pavimento… ecco, ora lo cerchiamo… chissà dov’è finito».
«Grazie, signor…? Magari cercate anche di capire se manca qualcosa
dalla stanza».
Il capitano parlava con grande tranquillità, cercando di calmare il
povero maggiordomo terrorizzato con il tono della voce e i modi
controllati e sicuri.
«Eh? Oh, scusatemi… sono Algernon Fitzooth, maggiordomo del signor
James Brook, il famoso mercante d’arte… Ora guardo cosa manca… OH
MISERICORDIA!».
«Cosa succede?».
«Il… il… ru… rubino! L’occhio! Oh Dei misericordiosi!».
Il poveruomo era impallidito mortalmente, evidentemente terrorizzato.
Guardava, alla luce della lampada, verso uno scrigno aperto in una
nicchia della parete con la stessa espressione con la quale avrebbe
guardato un fantasma.
Il capitano seguì il suo sguardo, prese la lampada dalle mani tremanti
del maggiordomo, prima che potesse finire al suolo e raggiunse la
nicchia. Esaminò lo scrigno con grande attenzione, poi lo tolse dal suo
posto ed esaminò con la stessa attenzione la cavità nel muro, infine,
lo rimise al suo posto e si volse.
«Mi dispiace, ma effettivamente è vuoto. Era qualcosa di gran valore?
Ah! È quello il biglietto?».
Indicò un punto nei pressi della porta, dove ora giungevano i raggi
luminosi della lampada a olio. Sul pavimento c’era un piccolo
biglietto, di carta evidentemente pregiata, sul quale qualcuno aveva
vergato due righe. Lo raccolse, mentre il maggiordomo pareva volesse
incenerire quel pezzo di carta con lo sguardo. C’era scritto, con
caratteri eleganti:
Spiacente, ma non troppo,
Blackwind.
Il capitano Tyron osservò silenziosamente il biglietto, studiandolo
accuratamente, poi girò lo sguardo sul resto della stanza.
«Manca altro, oltre al rubino?».
«Ora controllo, capitano, ma nulla è paragonabile, come valore,
all’Occhio della Regina».
L’ufficiale si aggirava prudentemente nella stanza, osservando le
pregiate statue che vi erano conservate, le anfore antiche e i preziosi
mosaici testimoni di splendori passati. A un tratto si fermò a
osservare da vicino qualcuno di quei tesori, con aria incuriosita.
Nella scarsa luce della stanza pareva cercare qualcosa che solo lui
poteva vedere. Poi si rivolse nuovamente al maggiordomo.
«Dunque, vale veramente tanto quel gioiello?».
Una voce ferma risuonò alle loro spalle.
«Si può dire che sia inestimabile, capitano».
[3] La capitale dell'Impero di Ardor, potente stato a sud della
Repubblica
[4] Dell'antico e scomparso impero di Valdor
[5] Dell'Hirmensyar, ricco e decadente regno a sud dell'Impero di Ardor
[6] Dell'Impero di Ariakas
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3: indagini
Il maggiordomo si voltò, guardando terrorizzato la figura comparsa
sulla soglia della stanza. L’ufficiale fece fatica a trattenere un
sorriso nell’osservare l’espressione spaventata dell’anziano servitore.
Non poté, però, fare a meno di chiedersi cosa giustificasse tanto
terrore.
«Il signor Brook, immagino. Vorrei potervi dire buongiorno, ma temo che
sia una gran brutta giornata, per voi. Sono il capitano Ernest Tyron
della seconda compagnia della Guardia di Elos. Al vostro servizio,
signore».
«Piacere, capitano. Temo che abbiate ragione, ma non sono tipo da
avvilirmi facilmente. Spero, invece che vogliate aiutarmi a recuperare
la refurtiva».
Ernest Tyron osservò attentamente l’uomo che aveva davanti, senza
riuscire a fare a meno di ammirare la calma con la quale quel mercante
aveva accolto la notizia del furto patito. Il signor Brook era un
giovane sui trent’anni, alto e ben piantato, con una chioma bionda
ricciuta e dal viso perfettamente rasato, gradevole nei lineamenti ma
arrogante nello sguardo e nel portamento. Era vestito in modo
inappuntabile e la sua voce baritonale non tradiva la minima emozione.
Portava al fianco una spada lunga dall’elsa riccamente decorata e
sfrontatamente esposta. Aveva decisamente più l’aspetto
dell’avventuriero che quello del mercante.
«Farò quel che potrò, signore. Avete la mia parola. Però dovrò
chiedervi un po’ di collaborazione».
«È nel mio interesse assicurarvi la massima collaborazione, capitano.
Domandate pure».
Tyron osservò incuriosito l’espressione di Brook. C’era del sarcasmo,
nelle sue parole? Il volto del mercante non lasciava trasparire alcuna
emozione. L’ufficiale rimase un attimo assorto, poi parve riscuotersi.
«Tanto per cominciare: erano in molti a essere a conoscenza del
rubino?».
«Temo di sì, capitano. Ne ero veramente orgoglioso e non ne ho mai
nascosto l’esistenza, anzi, amavo mostrarlo ai miei amici… e amiche…
m’intende?».
L’ufficiale si chiedeva a che gioco giocasse quel mercante. La
flemma poteva essere comprensibile, ma questi discorsi gli parevano un po’ troppo frivoli per uno
che aveva appena subito un colpo economico di quella portata. Comunque,
decise che era meglio fare l’ingenuo, almeno finché non si fosse
chiarito meglio le idee.
«Capisco. Purtroppo questo allarga di molto la cerchia dei
sospettabili».
«Ma, scusatemi, mi pare che il colpevole abbia lasciato addirittura la
firma!».
«Vero. Ma, ammesso che la firma sia autentica, questo non esclude che
il ladro abbia avuto dei complici. Anzi, è probabile che qualcuno lo
abbia aiutato. Vi siete chiesto come abbia fatto a entrare? La porta
non pare forzata, non mi direte che l’avevate lasciata aperta? E,
inoltre, nessuno ha visto o udito nulla. Dunque, il ladro sapeva
perfettamente dove andare e cosa fare. Se trovassimo i complici,
potremmo risalire a lui».
Il mercante lo guardò con un po’ meno sufficienza. Quel mercenario
sembrava conoscere bene il suo mestiere.
«Potreste avere ragione. Ma come possiamo fare a scoprire chi sono i
complici di questo misterioso Blackwind?».
«Vedremo. Intanto vorrei capire come è entrato. La porta aveva solo
questa serratura?».
«È una delle serrature più moderne e sicure attualmente in commercio,
capitano. Comunque no. Era sbarrata anche con un incantesimo».
«Questo era un fatto noto a tutti?».
«Niente affatto, capitano. Lo sapevamo solo io e il mio maggiordomo».
Il baffuto ufficiale restò un attimo soprappensiero, come soppesando il
valore di quelle informazioni. Poi si rivolse nuovamente al mercante.
«Capisco che la risposta sia scontata, ma devo chiedervi se esistono
altre vie d’accesso a questa stanza».
«Eh? Oh no, capitano… questa porta è l’unico accesso possibile. Non
sarei certo così folle da lasciare un simile valore in una stanza dalla
quale si potesse accedere da un passaggio incustodito».
Ernest Tyron guardò con espressione pensosa il mercante, poi terminò
l’esame della porta senza ulteriori commenti. Infine, si avviò lungo il
corridoio, entrò nel museo e cominciò a seguirne il perimetro,
fermandosi ad esaminare ogni finestra. A un tratto, si arrestò.
«Direi che il ladro è entrato da questa finestra, signor Brook. È stata
forzata, delicatamente, ma sono certo che è stata forzata. Guardate i
segni».
L’ufficiale indicò alcuni sottili segni, evidentemente fatti con una
lama di recente, vicini al saliscendi della finestra. Poi spalancò le imposte e
guardò fuori.
«Potrebbe aver scalato il muro, ma è molto alto e dà sulla strada… mi
sembra più verosimile che si sia calato dal tetto… c’è un accesso ai
tetti, in questa casa?».
I modi sicuri del capitano avevano infuso coraggio nel povero Algernon
che intravedeva la speranza che venisse posto rimedio a quel furto che,
assurdamente, imputava a qualche proprio errore.
«Sì, signore. Posso condurvici, se lo desiderate».
«Grazie, signor Fitzhoot, fate strada, allora».
Percorsero corridoi e scale, raggiungendo un’altra ala del palazzo,
sulla quale si ergeva una torretta. Salirono sul terrazzo, trovandosi
all’aperto, a due metri dal tetto.
«C’è una scala?».
Il capitano pareva piuttosto preoccupato nel guardare giù, verso il
tetto. Si reggeva alla balaustra come se avesse paura di cadere giù.
«Aspettate, capitano, deve essere qui dentro».
Algernon tornò dentro la torretta per uscirne poco dopo con una scala a
pioli che fece scendere fino al tetto, appoggiandola alla balaustra.
«Capitano, soffrite di vertigini?».
Il tono beffardo di Brook provocò la risposta piccata dell’ufficiale.
«Sì. Però so qual è il mio dovere, signor Brook. Scenderò lì sotto e
arriverò fino a dove troverò le tracce del ladro. Sareste così gentile
da seguirmi?».
Con qualche esitazione, il capitano scese sul tetto e incominciò
prudentemente a dirigersi verso l’ala dove si trovavano il museo e la
stanza del tesoro. Algernon e Brook lo seguirono a breve distanza.
Giunto nei pressi della finestra da dove l’ufficiale riteneva fosse
entrato il misterioso ladro, lo videro inginocchiarsi ed esaminare
carponi tutto quel tratto di tetto. Dopo un po’, Tyron li chiamò.
«Venite a vedere, signor Brook».
Brook e Algernon raggiunsero il capitano che indicava un gruppo di
tegole leggermente coperte di fango secco.
«Ecco qui. Questa è l’impronta del ladro!».
Indicava una macchia su una tegola. Esaminandola più attentamente,
Brook si accorse che poteva davvero essere stata lasciata da una suola
sul sottile strato argilloso che copriva quella parte di tegole. Quando
sollevò lo sguardo dall’impronta, si accorse che Tyron si stava
allontanando.
Sempre procedendo carponi e con grande prudenza, il capitano proseguì
la sua esplorazione del tetto, allontanandosi con un percorso, a
spirale prima, poi sempre più retto, finché non si arrestò nei pressi
del bordo.
«Ecco, è saltato qui, quasi certamente dall’edificio di là dalla strada».
«Un bel salto, però».
«Sì, ci sono almeno dieci piedi. Deve essere un tipo dall’agilità fuori dal comune e che non soffre
sicuramente di vertigini. Comunque, qui c’è una tegola smossa quasi certamente
nell’atterraggio, a meno che non vi piova in casa, signor Brook».
Algernon intervenne, ritenendo di sua assoluta pertinenza quella
questione, anche perché non avrebbe mai tollerato che una casa da lui
diretta potesse avere inconvenienti del genere.
«Non mi risulta, capitano. E io sarei il primo a saperlo. Controllo il
tetto ogni due settimane e non c’erano tegole smosse, fino a cinque
giorni fa».
«Bene. Qui non ci resta altro da fare, dunque possiamo tornare dentro.
Confesso che quest’esperienza è stata piuttosto… impegnativa, per me».
Tornarono indietro, lentamente, il capitano Tyron in testa, con passo
esitante, gli altri due dietro. Raggiunsero la torretta senza problemi
e, appena risalito sul terrazzo, l’ufficiale parve riprendere un po’ di
colore.
«A questo punto dovremo vedere se scopriamo da dove è venuto quel tizio
ma a questo penseranno i miei uomini. Farò controllare con discrezione
i tetti delle case vicine e interrogare un po’ di gente. Non credo che
qualcuno abbia visto il ladro ma è meglio non trascurare nulla.
Arrivederci a presto, signore, tornerò al massimo domattina».
«Grazie, capitano. Apprezzo molto il vostro interessamento e sono certo
che presto verrete a capo di questo furto».
Ancora una volta, l’ufficiale ebbe la sensazione di un certo tono
beffardo nelle parole di Brook ma preferì sorvolare. Fece un cenno di
saluto e si allontanò verso l’uscita.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4: il mago
Seduto su un’antica poltrona, nel centro della stanza, il mago vestito
di nero scosse la testa rasata, coperta di tatuaggi. I suoi piccoli
occhi si ridussero a feritoie, nell’osservare il mercante. Pareva
volerlo studiare fin dentro l’anima, carpirgli i pensieri. Era di
piccola statura e corporatura minuta ma emanava una tale sensazione di
potere trattenuto e di malvagità da essere capace di intimidire gli
individui più coraggiosi. La sua bocca si contorse in un sogghigno,
mentre sollevava un dito ossuto agitandolo in direzione dell’uomo.
«Stai cercando di imbrogliarmi, Brook? Rischieresti di farti molto
male».
La sua voce sibilava nel suo strano accento dell’ovest, suadentemente
minacciosa. Davanti a lui, il rispettabile signor Brook sembrava
misurare con lunghi passi il perimetro della piccola stanza
sotterranea, illuminata da un candelabro a più braccia. Tormentava il
suo bastone da passeggio, ora stringendolo spasmodicamente, ora
passandolo da una mano all’altra. Il piccolo e malevolo mago non
staccava gli occhi dal mercante.
«Non dirlo nemmeno per scherzo, mago. Sembra assurdo ma è andata così.
Il biglietto era nella stanza e il rubino era sparito».
Brook sostenne lo sguardo inquisitore del mago ma, dalla sua voce,
traspariva un vago timore.
«Non so spiegarmelo, non capisco come sia accaduto ma è successo».
«Non avevo alcuna speranza che tu ci capissi qualcosa, Brook. Non è per
questo che ti ho scelto, d’altronde. Piuttosto, dimmi: il vecchio è
attendibile?».
La voce del mago si era fatta, se possibile, ancor più insinuante e
malevola.
«Algernon? Nel modo più assoluto. Non solo è con me da dieci anni, ma
in questo periodo non ha neanche mai avuto il minimo sospetto sulle mie
attività. Per lui sono solo il rispettabile signor Brook, mercante ed
esperto d’arte. In più è vergognosamente onesto».
«Peccato però…».
Un tono di delusione comparve nella voce del mago che assunse
un’espressione meditabonda.
«Sarebbe stato, ehm, interessante… interrogarlo. Complimenti, Brook.
Dunque esiste qualcuno che ha capito meno di te di questa storia. È già
qualcosa».
Il mercante d’arte si fermò improvvisamente, voltandosi verso il
piccolo mago con espressione cupa. La sua voce suonò alterata.
«Non ti permetto di trattarmi così».
«Sono terrorizzato, Brook. Dalla tua dabbenaggine, però. Secondo te
dovrei credere che un ladro è riuscito a entrare in quella stanza
eludendo la mia magia? Bada bene Brook: solo chi conosce la parola
d’accesso può entrare senza dissipare gli incantesimi e ti assicuro che
sono ancora tutti perfettamente attivi. Oppure, un mago molto più
potente di me».
Il mago non aveva minimamente cambiato l’espressione meditabonda del
viso ma la sua voce era diventata pericolosamente gelida. Brook si
accorse immediatamente del cambio di tono e ripiegò rapidamente
tornando a un atteggiamento remissivo.
«Capisco benissimo che la faccenda pare incredibile, Sfi’Hak, ma ti
assicuro che ne so quanto te. Quel mercenario, oggi ha saputo spiegare
come ha fatto quel tizio a entrare e raggiungere la sala ma non si è
arrischiato a fare ipotesi su come abbia forzato la porta. Francamente,
non riesco a spiegarmelo».
«Io, invece, non riesco a spiegarmi cosa avevo bevuto quando ti ho
affidato quest’operazione».
Brook fece per protestare ma uno sguardo gelido e minaccioso del mago
lo spinse a essere prudente. Sfi’Hak era un alleato veramente
pericoloso, capace e contento di uccidere con un gesto e una parola. Il
mago riprese a parlare col tono di chi spiega qualcosa a uno scolaro
svogliato.
«Dammi una speranza, Brook. Quel mercenario che svolge le indagini ti
pare all’altezza? Pensi che non si sia accorto di nulla? Sarebbe…
seccante se finisse col capire qualcosa di quel che sta succedendo qui.
E, soprattutto, ti sembra comprabile?».
«Il capitano Tyron? Sembra un tipo sveglio, potrebbe scoprire qualcosa
di più sul furto ma non di quel che stiamo facendo… Occorrerebbe un
vero esperto d’arte. In ogni caso lo terrò d’occhio».
Sfi’Hak lo guardò con una strana espressione. Sembrò sul punto di dire
qualcosa, poi si fermò e riprese l’atteggiamento meditabondo. Dopo un
istante di silenzio riportò il suo sguardo malevolo sul mercante.
«Allora sono veramente tranquillo… Forse è meglio portarlo dalla nostra
parte. Pensi di poterlo corrompere?».
«Nessuno è incorruttibile. Un capitano mercenario, poi…».
Brook rispose con un sorriso di sufficienza, gonfiando il petto. Aveva
la tendenza a misurare gli altri col proprio metro, come se tutti
dovessero pensare e comportarsi come avrebbe fatto lui.
Sfi’Hak rilevò immediatamente la superficialità della risposta del
mercante e, per un attimo, valutò la possibilità di trasformarlo in un
tacchino.
«Sì. Forse hai ragione. Forse sei un maledetto presuntuoso. Stupiscimi,
Brook. Assicurati la collaborazione di quel tipo. A quel punto
resterebbe solo il misterioso ladro».
La voce del mago divenne ancora più sibilante. Quell’intrusione
imprevista lo aveva irritato oltremisura. Non intendeva permettere che
qualcuno interferisse nella sua attività e non tollerava che quel ladro
si fosse fatto beffe dei suoi incantamenti.
«Sai qualcosa di lui? Se ti ha lasciato un biglietto dovrebbe voler
dire che il suo nome ti è noto».
«Blackwind è un ladro che si sta facendo un nome in questa città. Si
tratta di un avversario abile e pericoloso. Fra l’altro, credo che
c’entri qualcosa con quelli che hanno mandato all’aria i miei affari
nei boschi occidentali, l’anno passato».
Il mercante si fermò un attimo, pensieroso. Aveva perso un bel po’ di
soldi in quella faccenda e doveva anche ritenersi fortunato che i suo
nome non fosse saltato fuori.
«Pare che sia anche un appassionato d’arte e che spesso preferisca
rubare un capolavoro piuttosto che uno scrigno pieno d’oro. Temo che
potrebbe aver scoperto davvero qualcosa».
I piccoli occhi del mago si fissarono in quelli del mercante.
Erano freddi e minacciosi più che mai.
«Questo è il problema, Brook. Il rubino conta assai poco in confronto.
Lo capisci vero? Se i magistrati scoprono quello che stiamo preparando
saremo entrambi in un pericolo mortale. Chiunque sia quel misterioso
Blackwind, abbiamo l’assoluta necessità di neutralizzarlo. E
assicurarci che non possa riferire a nessuno quel che può aver visto».
«Vuoi utilizzare il capitano Tyron per catturare e poi eliminare quel
Blackwind?».
«Sì, Brook. Sono lieto che tu abbia compreso almeno in parte quello che
cercavo di dirti. Quell’uomo va catturato ed eliminato al più presto.
E, se accetti un umile consiglio, sarebbe intelligente da parte tua non
contare solo su quel mercenario».
Brook riprese per un attimo l’espressione arrogante, gonfiando
nuovamente il petto e mostrandosi assai soddisfatto di sé. Il mago
ebbe nuovamente la fugace visione di un tacchino vestito come il
suo complice.
«Ho buone ragioni per pensare stasera tenterà un nuovo colpo. Se sarà
così sono convinto che rifarà lo stesso percorso di ieri. Allora,
domattina quel Blackwind non sarà più un problema».
Il mago osservò in silenzio il mercante, quasi soppesando le sue
parole. Poi riprese, con un tono insinuante.
«Mi stai nascondendo qualcosa, Brook? Perché pensi che debba tornare? E
se anche quel tipo stanotte dovesse tornare davvero, sei veramente
sicuro di riuscire a eliminarlo?».
«Ho l’elemento giusto. Un pugnale che non ha mai fallito. Basterà
aspettarlo sul tetto e il problema sarà risolto».
Il mago rimase ancora un attimo a studiare il suo interlocutore che
pareva solo parzialmente a disagio. Perché mai era tanto sicuro del
fatto che il ladro sarebbe tornato? C’era davvero da fidarsi di quel
misterioso sicario? Qualcosa continuava a sfuggirgli. Il suo complice
garantiva un’ottima copertura per i suoi affari ma stava diventando
pericolosamente intraprendente e stava certamente tacendo qualche
informazione importante. Tutto sommato, però, poteva benissimo che il sicario riuscisse nell’intento di uccidere quel Blackwind,
dunque, perché non tentare? Comunque, poi si sarebbe dovuto occupare di
quel che Brook stava cercando di nascondergli. E l’avrebbe fatto alla
sua maniera.
«Bene, Brook. Buona fortuna, allora. Comunque non trascurare il
capitano. Se sale sulla nostra barca, bene, sennò…».
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5: inganno
Blackwind giocherellava assorto con la splendida sferula rossa, seduto
accanto alla finestra della sua camera, nel palazzo dove aveva preso
alloggio un anno prima. Ogni tanto si fermava e la osservava
attentamente, contro la luce proveniente da una lanterna accesa,
nonostante fosse ancora pieno giorno, poggiata sul tavolo accanto a lui.
Non sapeva bene se mettersi a ridere o scagliare il rubino fuori dalla
finestra. Quel gioiello d’inestimabile valore, la meraviglia della
collezione di Brook, era un falso da due soldi. Un pezzo di vetro
colorato. Bello, per carità, fatto veramente bene. Ma falso.
Guardò dalla finestra, nel cortile del palazzo che era stato di un
crudele mercante di schiavi che Blackwind aveva pubblicamente
smascherato, scoprendo con orrore che si trattava di un ratto mannaro,
una delle più sordide specie di licantropi di Ainamar. Ripensò a come
si era fatto beffe di quell’individuo e un sorriso amaro gli affiorò
sulle labbra.
Stavolta era stato lui a essere beffato. Nei pochi istanti che aveva
avuto a disposizione per impadronirsi del rubino non aveva avuto la
possibilità di esaminarlo con cura. Gli sarebbe bastato guardarlo un
attimo controluce per capire, ma in quel momento era praticamente al
buio.
Pazienza. Era stato giocato. Però la partita era tutt’altro che chiusa.
Anzi, aveva la netta sensazione che quella faccenda si sarebbe rivelata
decisamente più complessa di un semplice furto di gioielli. Più pensava
a quanto aveva osservato nella stanza “del tesoro”, più si convinceva
che la maggior parte dei tesori nascosti in quella stanza erano in
realtà ottime copie. Falsi, insomma.
Il giovane elfo guardò ancora con aria assorta la bella riproduzione
del rubino favoloso. Ripensò alla stanza, ai pochi istanti che aveva
avuto per osservarla. Cercò di ricomporre nella sua mente quell’enigma.
L’interrogativo che più di tutti lo tormentava era perché mai Brook
avesse messo tante protezioni su quella porta, quando poi non custodiva
altro che cose di relativamente poco valore.
Cosa custodiva quella porta inaccessibile se non il rubino e le altre
opere d’arte? Cos’altro c’era nella stanza del tesoro di James Brook?
Quale mistero si celava dietro quella porta?
Occorreva tornare in quella stanza. Adesso sapeva come fare a entrare,
anche se occorreva procurarsi una chiave originale. Questo non sarebbe
stato semplicissimo anche se un’idea stava cominciando a prendere forma
nella sua mente.
Spense la lanterna e ripose il falso rubino in un sacchetto di pelle e
poi in uno scrigno. Si avvicinò allo specchio, controllando che i
baffetti posticci che indossava nei panni di lord Bailey Winström
fossero perfettamente aderenti. Si aggiustò gli abiti, pettinò i
capelli e recuperò il bastone animato che usava per non essere
completamente disarmato, poi uscì dalla stanza.
«Robert!».
«Eccomi milord».
Il giovane maggiordomo raggiunse rapidamente il suo nuovo padrone,
pronto a eseguire con assoluta precisione i suoi ordini. Robert James
Fitzooth, maggiordomo da quattro generazioni era particolarmente
orgoglioso di servire un nobile gentiluomo del livello di lord Bailey.
Anche perché era un nobile di indole assolutamente pacifica,
refrattario a ogni idea avventurosa e gli garantiva una vita tranquilla
e, onestamente, nemmeno troppo faticosa. Poi quella casa era piena di
libri affascinanti e Robert aveva sempre avuto una grande passione per
la lettura. Insana, diceva
suo padre.
«Puoi chiamarmi Calyon ed Elowen, per cortesia?».
«Vado immediatamente, milord. Dove intendete attenderli?».
«Nello studio. Grazie, Robert».
Guardò allontanarsi il giovane maggiordomo, trattenendo a stento un
sorriso. Era decisamente un bravo ragazzo, proprio come suo padre era
una brava persona. Sospirò, sentendosi un po’ in colpa. Il buon Robert
non poteva certamente immaginare di essere al servizio di uno dei più
famosi fuorilegge di Elosbrand. Sperò di potergli garantire la
tranquillità che meritava.
Raggiunse lo studio con passo rapido e si mise a frugare fra le
pergamene raccolte in una libreria nei pressi della sua scrivania.
Aveva appena trovato quel che cercava quando bussarono alla porta.
«Ci sei?».
«Ti aspettavo, amico mio, entra! Elowen non c’è?».
Sulla porta comparve un giovane elfo dal volto sorridente e lo sguardo
vivace. Calyon era poco più basso del suo amico, decisamente più
muscoloso, con lineamenti decisi e volitivi, incorniciati da una
capigliatura bionda tagliata corta, da persona pratica qual’era.
Vestiva semplicemente, con pantaloni di panno e una camicia, sulla
quale indossava una corazza di cuoio, mantenuta con cura militaresca in
perfetta efficienza. Una spada lunga pendeva al suo fianco sinistro e i
bracciali di cuoio indicavano chiaramente la sua familiarità con
l’arco. Alle sue spalle Robert attendeva compostamente gli ordini del
suo padrone.
«Credo sia al tempio di Mirpas…».
Un lampo divertito guizzò negli occhi di lord Bailey.
«Dal paladino?».
«Sì».
Calyon soffocò a stento un sorriso.
«Faccenda seria, allora… Robert, non credo che avrò ancora bisogno di
te, per oggi. Ceneremo fuori, stasera».
Il giovane maggiordomo fece un perfetto inchino e salutò, lasciando
soli i due amici.
«Conoscendoti, ho paura che stasera salteremo la cena, invece. Non ho
ragione?».
La voce tenorile di Calyon era sempre piacevole, anche quando intrisa
d’ironia, come in quel caso. Il cacciatore elfo era diventato uno degli
amici più cari dell’eclettico ladro. Così come la leggiadra ma
audacissima Elowen. Ufficialmente, insieme al cacciatore elfo Ardis,
erano al servizio di Lord Bailey. Ma nessuno sapeva che Ardis e lord
Bailey erano una persona sola e che nessun contratto ma una semplice e
leale amicizia legava quei tre elfi.
«Spero che non sia necessario. Però ho bisogno di parlarti e fare un
giretto nel quartiere nobiliare… alla "Corona d'Oro" si mangia
piuttosto bene, no?».
«Altroché. Mandiamo un biglietto a Elowen?».
«Ottima idea, se ci può raggiungere a cena le parleremo di questa idea
che mi frulla per la testa».
«E se si porta dietro il pio guerriero?».
«Dovrò stare maledettamente attento a non farmi sfuggire certi
particolari… sennò, alla faccia dell’amicizia, mi sbatte dentro e butta
via la chiave!».
Scoppiarono entrambi a ridere. Stimavano profondamente il coraggioso
paladino ma sapevano benissimo che non avrebbe mai potuto approvare
fino in fondo i metodi che Blackwind soleva adottare.
«Puoi occuparti tu di mandare due righe a Elowen? Ne approfitto per
guardare questa pergamena…».
«Sì, certo. Cos’è?». Calyon allungò il collo sulla spalla del suo amico
e riconobbe la pergamena.
«Una mappa del quartiere nobiliare? Stai progettando un gran colpo eh?».
«Veramente, sospetto che sia qualcun altro a progettarlo. Anzi, ne sono
praticamente certo anche se non so esattamente di cosa si tratti. È
proprio di questo che vorrei parlare con te ed Elowen. Credo che ci
sarà da divertirsi».
Lord Bailey osservò ancora con grande attenzione una parte di quella
mappa, poi la arrotolò e la ripose in un cilindro d’avorio che appese
alla cintura. Infine, uscì dalla stanza.
Mezzora dopo, i due amici passeggiavano sul far del tramonto nelle
ampie strade del quartiere ricco della città. Sempre chiacchierando
giunsero davanti all’elegante palazzina dove viveva lo stimato James
Brook, mercante d’arte. Era situata nella parte del quartiere più
vicina all’area portuale, su un viale alberato che la separava dalla
grande sede commerciale della Compagnia dei Viaggiatori e confinava con
l’elegante villa di Irlentree, uno dei più ricchi armatori della città,
membro influente e rispettato della Corporazione dei Mercanti. Una
villa sontuosa quest’ultima, addirittura arricchita da una sorgente
termale i cui vapori si alzavano in cielo in pigre volute.
«Si tratta bene l’amico Irlentree. Guarda che vapori! Credo proprio che
mi piacerebbe fare un bagno in quella sorgente, che ne dici Ard…ehm
Bailey?».
Un’occhiataccia, smorzata da un sorriso, fulminò il cacciatore elfo.
«Magari con la sua figliola eh? Dicono sia niente male, oltre che la
migliore ereditiera della città. Attento a dire certe cose ad alta
voce, Calyon. Qualcuno potrebbe sentirti e potresti passare un guaio».
Calyon capì al volo che le ultime parole non si riferivano al pur
gelosissimo Irlentree e fece segno di aver ricevuto il messaggio.
Rimase un attimo assorto a osservare la villa del ricco armatore, poi
raggiunse il suo amico che si era avvicinato al palazzo del mercante.
«Vorrei fare un giro intorno al palazzo di Brook. Ho la sensazione che
stasera dovrò farci un’altra visita».
Lord Bailey parlava a bassa voce, quasi più a se stesso che al suo
fedele amico.
«Credevo di aver capito che ieri sera era andato tutto bene».
«In quella stanza c’erano solamente dei falsi. Ho rischiato il collo
per un pezzo di vetro. L’ho scoperto solo stamani, per questo siamo
qui».
Calyon sgranò gli occhi.
«Falsi? Vuoi dire che ti hanno fregato? Questa poi è bella! Pensavo che
fosse impossibile prenderti per il naso e tu mi dici che c’è riuscito
quel pallone gonfiato di Brook?».
Calyon dovette sforzarsi per non mettersi a ridere.
«Grazie del conforto. È bello avere degli amici che parteggiano per
te…».
Lord Bailey accompagnò con una riverenza il suo commento ironico.
Calyon stavolta scoppiò a ridere.
«Prego. Ora cosa dovremmo fare, secondo te?».
«Osservare bene. Vedi la parete rivolta verso la villa di Irlentree? Al
secondo piano c’è la stanza del tesoro. Però, guardandola da qui, mi
sembra che qualcosa non torni».
«Che vuoi dire?».
«Magari lo sapessi. È solo una sensazione, bada bene. Ma la
disposizione delle finestre mi sembra diversa da quel che si vede da
dentro… non so però quale sia questa differenza, né se significhi
qualcosa».
I due amici percorsero quasi tutto il perimetro del palazzo ma Lord
Bailey non parve essere riuscito a chiarire i propri dubbi.
«Andiamo, Calyon. Se continuiamo ad aggirarci qui intorno finiremo per
richiamare l’attenzione di Brook e non mi pare il caso».
Si diressero verso nord, raggiungendo la splendida Grande Casa del
Sapere, il tempio di Stias, dio della conoscenza e dell’ingegno e si
avviarono per l’ampia via della Libertà, la strada che conduceva al
Senato. Quasi di fronte al grandioso palazzo dove si svolgeva
l’attività politica della Repubblica, si trovava la sfarzosa locanda
“Corona d’Oro”, il locale più ricco e meglio frequentato della città.
«Ma non è presto per andare a cena? Siamo a metà pomeriggio ed Elowen
non arriverà prima di un’altra ora».
«Infatti. Ho prenotato una saletta tutta per noi. Ci ritroveremo lì.
Tornerò nel giro di due ore. Tu dovresti ricontrollare il palazzo di
Brook e incontrarti con Elowen. Occupate la saletta prenotata a mio
nome e aspettatemi alla locanda. Intanto le racconterai tutto».
«E tu dove intendi andare?».
«Io… devo capire meglio alcune cose. Farò una breve indagine col
massimo della discrezione, poi vi racconterò tutto».
«Giochi a fare il misterioso?».
«Ti racconterò tutto a cena, stai tranquillo. Penso che Brook si
aspetti di vedermi tornare stasera e vorrei prendere le mie
precauzioni. Non lo voglio deludere ma non vorrei lasciarci la pelle,
ci sono ancora troppo affezionato».
Calyon guardò allontanarsi il giovane avventuriero, chiedendosi cosa
stesse tramando. Era certamente un geniale organizzatore ma anche uno
straordinario cacciatore di guai. Sospirò. Se avesse desiderato una
vita tranquilla avrebbe potuto fare mille mestieri. Invece aveva deciso
di imbrancarsi con Blackwind. Questo voleva evidentemente dire che i
guai li cercava anche lui.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo 6: Corruzione
Un bel pomeriggio d’autunno, tiepido, ricco di luci e profumi. Il
capitano Tyron bussò al portone del palazzo di Brook. L’ufficiale era
decisamente di buonumore. Le sue indagini stavano procedendo bene e
nella sua mente si andava componendo sempre meglio l’intrigo del rubino.
«Buonasera Algernon! Posso entrare?».
«Buonasera capitano. Siete sempre il benvenuto qui dentro. Avete
scoperto qualcosa?».
L’ufficiale entrò sorridendo nell’ampio vestibolo del palazzo,
osservato con scarsa simpatia da una guardia dall’aria afflitta, forse
quella stessa che era di ronda quando il rubino era scomparso. Certo,
pensava il giovane capitano, aveva molto più l’aspetto di un malfattore
che di un sorvegliante.
«Credo di sì, Algernon. Il signor Brook è in casa?».
«Sì, capitano. È rientrato presto oggi. Volete essere annunciato?».
«Grazie, Algernon. Vi attenderò qui».
Il solerte maggiordomo risalì rapidamente l’ampia scalinata che
conduceva al museo e scomparve nell’ampia sala, chiudendosi la porta
dietro le spalle. Dopo pochi minuti era di ritorno.
«Il signor Brook vi attende, capitano».
L’ufficiale seguì il maggiordomo su per le scale, attraverso il museo,
fino alla porta dell’appartamento del padrone di casa. Questo
correva parallelamente al corridoio dove si trovava la stanza del
tesoro. L’ultima stanza, illuminata da due ampie finestre, era proprio
lo studio di Brook.
Il mercante era seduto dietro un’ampia scrivania ma, appena Algernon
introdusse l’ospite, si alzò e gli venne incontro, stringendogli
vigorosamente la mano.
«Benvenuto, capitano. Pensavo proprio a voi, poco fa. Avete scoperto
qualcosa di nuovo?».
L’ufficiale osservò incuriosito il mercante. Pareva davvero felice di
rivederlo ma poche ore prima pareva impaziente di liberarsi di lui.
Cosa poteva essere cambiato?
«Credo di sì, signore».
«Algernon, potete andare. Qui ho tutto quanto mi occorre. Potete
occuparvi della cena, grazie».
Il maggiordomo fece un inchino e uscì dalla stanza. Se era rimasto male
per essere stato congedato così rapidamente non lo diede assolutamente
a vedere.
«Bene, capitano. Quali novità mi portate?».
«Penso di aver capito alcune cose, signore. Su come quel ladro è
entrato nella vostra stanza nonostante la protezione magica».
«Davvero? Mi incuriosite capitano. Volete bere qualcosa?».
Brook si diresse verso un armadio, alla destra della porta d’ingresso,
vicino al quale era un pregiato tavolino di marmo e due comode
poltrone. Aprì l’armadio rivelando le numerose bottiglie che vi erano
contenute.
«Un frizzante di Mirlond? A quest’ora è l’ideale».
«Siete anche un collezionista di vini pregiati, signor Brook?
Complimenti davvero!».
«Amo trattarmi bene, capitano. E mi faccio un dovere di trattare nel
modo migliore possibile i miei collaboratori. Soprattutto quelli abili
e fedeli».
La voce di Brook indugiò un attimo sulla parola “fedeli”, poi riprese a
parlare, indicando una delle due poltrone.
«Accomodatevi, capitano, così potremo parlare con maggior agio».
Il giovane ufficiale si sedette un po’ rigidamente sulla poltrona,
senza smettere di osservare con curiosità il mercante. Si chiedeva dove
volesse andare a parare con tutta quella gentilezza. Pareva che dovesse
intavolare una trattativa d’affari, anziché parlare delle indagini che
riguardavano il furto subito. Assaggiò il vino, apparendone decisamente
soddisfatto.
«Prego, capitano, raccontatemi i vostri progressi».
«Credo, come vi stavo accennando, di aver capito come ha fatto il ladro
a entrare».
«Davvero? E come avrebbe fatto, secondo voi?».
«È molto semplice, signor Brook. Non è affatto entrato».
«Cosa?».
«So che sembra assurdo, ma è l’unica spiegazione ragionevole, seguite
il mio ragionamento e ditemi cosa ne pensate».
«Vi ascolto, capitano, mi state incuriosendo davvero».
«Bene. Abbiamo una porta chiusa magicamente, i cui incantamenti sono
perfettamente attivi, eppure nella stanza c’è un biglietto e né voi né
il vostro maggiordomo avete rivelato a chicchessia la formula di
apertura della stanza, senza la quale bisognerebbe annullare gli
incantamenti per passare, siamo d’accordo?».
«Sì. Proseguite, prego».
«Immaginiamo che questo ladro abbia pianificato il furto con
attenzione, sia arrivato davanti a quella porta e si sia reso conto che
non c’era modo di aprirla. Nessuno sapeva degli incantamenti, dunque
supponiamo che il ladro ne sia rimasto sorpreso e che non avesse mezzi
magici a disposizione».
«D’accordo».
«Bene. Cosa fa il nostro ladro, di fronte a quell’ostacolo
apparentemente insormontabile? Chiunque getterebbe la spugna e
progetterebbe di tornare con qualche oggetto magico ma il nostro ladro
ha un’idea che potrebbe permettergli di entrare, facendosi aprire la
porta da un complice involontario».
«Cioè?».
«Ora mi spiego. Quando il vostro maggiordomo è entrato nella stanza ha
subito visto il biglietto sul pavimento, poco oltre la porta, vero?».
«Sì, è proprio quello che ha raccontato, poi, quando l’ha letto, si è
precipitato fuori dalla stanza per chiamare aiuto».
«Infatti. E così l’ho incontrato. Ma perché quel biglietto era per
terra? Questa cosa mi ha lasciato perplesso. Io lo avrei lasciato al
posto del rubino, nella nicchia. Voi no? E perché ha preso solo il
rubino? Voi non avreste preso anche qualcos’altro, avendo buona parte
della notte a disposizione?».
«Beh… sì, immagino di sì».
«D’altra parte, Algernon ha reagito in maniera assolutamente
prevedibile, vista la fama di quel ladro. Ed è scappato fuori senza
nemmeno guardare cosa era stato rubato. Lo ha fatto solo dopo che siamo
entrati, una decina di minuti dopo».
«Non vi seguo…».
«Supponiamo che questo Blackwind abbia vergato il biglietto e lo abbia
fatto scivolare sotto la porta… Gli incantesimi si attivano solo se
entra qualcuno o si apre la porta, vero? Supponiamo poi che si sia
nascosto da qualche parte e abbia aspettato. Quando Algernon è scappato
fuori, è entrato approfittando della porta aperta e degli incantesimi
inattivi, ha preso il rubino ed è fuggito. Non ha preso altro perché il
tempo a sua disposizione era brevissimo e doveva sfruttarlo nel modo
più… redditizio».
«Per gli Dei! Ci avrebbe giocato così, secondo voi? Certo ha un bel
sangue freddo quel tipo! E se lo avessero scoperto?»
«Il rischio era poco maggiore di quello di essere scoperto durante il
tentativo di furto fatto durante la notte. Ha tentato una mossa
disperata e gli è riuscita».
«In effetti, mi sembra un’ipotesi molto intelligente… complimenti,
capitano credo che siate davvero sulla buona strada».
«Sono lieto che troviate ragionevole la mia ipotesi».
«La trovo più che ragionevole, capitano. La trovo geniale. Siete
veramente un uomo dalle qualità non comuni. Un uomo che merita ben più
del grado che portate».
«Sono lusingato, signore. Temo, però che potrei ambire a una promozione
solo se dovessi mettere le mani su quel Blackwind. Temo che non sarà
facile».
«Non per uno in gamba come voi, capitano. Io però pensavo a qualcosa di
diverso, per voi».
La voce di Brook, si era fatta melliflua, insinuante.
«Temo di non capirvi, signor Brook…».
«Non vi potrebbe interessare un incarico… molto ben remunerato…
compatibile col vostro impegno di ufficiale?».
«Eh?».
L’ufficiale pareva meravigliato ma niente affatto irritato. Guardava
con attenzione il volto di Brook, Nel suo sguardo comparve un nuovo
interesse.
«Si tratterebbe solo di collaborare con me… per rendere più semplice e
sicura la mia attività mercantile… nulla di disonorevole, badate bene.
Solo qualche piccolo servizio…».
«Volete comprarmi, signor Brook? Un ufficiale della Guardia di Elos?».
La voce di Tyron sembrava più che altro divertita, senza alcun tono di
minaccia.
«Comprare è un verbo poco appropriato alle persone… Siete un soldato di
ventura. La vostra spada è in vendita. Il vostro onore no di certo…
Vorrei la vostra collaborazione, ben retribuita, per certi miei affari».
«Retribuita… quanto?».
Una luce avida si accese negli occhi dell’ufficiale.
«Mille monete d’oro se Blackwind morirà nel tentativo di catturarlo.
L’onore della sua cattura sarà comunque vostro».
«Questo si può fare. Non vedo alcuna difficoltà… tranne che non so
ancora come catturarlo».
«E altre mille se farete in maniera che un carico di opere d’arte possa
essere imbarcato domani sera, senza… eccessive formalità».
«Questo mi piace meno, signor Brook. Volete che diventi complice di un
contrabbando d’arte?».
«Non mi avete compreso, capitano. È tutto perfettamente in regola. È
solo che… vorrei evitare ispezioni che potrebbero danneggiare le merci
che tratto. Molte opere d’arte sono estremamente delicate e certi
vostri colleghi, perdonatemi, hanno modi più adatti a dei taglialegna».
«Beh… se si tratta di questo… allora…».
«Allora capitano? Sì o no?».
L’ufficiale chiuse gli occhi. Sembrava assorto in qualche profonda
meditazione. Brook lo osservava ansioso, quasi trattenendo il respiro.
La faccenda delle opere d’arte lo incuriosiva oltremodo. La versione
del mercante aveva poco di credibile e mille monete d’oro erano una
cifra spropositata per una cosa tanto banale. Dunque, c’era molto di
più in ballo.
«D’accordo, Brook. Sono con voi».
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo 7: una cena fra amici
La locanda “La Corona d’Oro” era il locale più ricercato a Elosbrand.
Era considerato dai cittadini e dai viaggiatori più abbienti che
capitavano in città il posto ideale per condurre gli affari di più alto
livello. A questo si prestavano perfettamente i molti salottini che era
possibile riservare per pranzi e cene fra amici o gente d’affari.
La locanda era una vecchia e lussuosa casa affacciata sulla Piazza
Antica, proprio di fronte al Senato. In precedenza, era stata
l’abitazione di un senatore appassionato d’arte e in effetti sui
soffitti e sulle pareti dei saloni si potevano ancora vedere alcuni
affreschi di fattura estremamente pregevole. L’edificio era circondato
su tre lati da uno splendido giardino, la cui parte meridionale
guardava sulla Casa della Giustizia, il severo tempio di Varëos, dalla
caratteristica pianta rotonda, identico in ogni città di Ainamar.
Sull'architrave dell'ingresso principale vi era il bassorilievo di una
corona ducale che dava il nome alla locanda.
Davanti all’edificio, una bellissima giovane elfa, vestita con la
semplice eleganza della sua razza, pareva attendere qualcuno. Era
snella, con un portamento eretto, lievemente altezzoso, che ne
tradivano l’abitudine a trarsi d’impaccio coi propri mezzi e la
notevole sicurezza in se stessa. I lunghi capelli biondi le ricadevano
morbidamente sulla corazza di cuoio che le proteggeva il busto
flessuoso. Portava, appesi alla vita sottile, una spada corta e un
pugnale da caccia. Chiunque l’avrebbe identificata con certezza come
un’avventuriera. Una delle tante donne d’arme che circolavano per
quelle terre.
«Salve, bellezza!».
La giovane si voltò lentamente, la destra sull’elsa della spada, il
volto attraente assolutamente tranquillo eppure (o proprio per questo)
decisamente minaccioso. Immediatamente un cordiale sorriso illuminò il
suo viso.
«Calyon! Ti piace rischiare, eh? E se avessi risposto con un
colpo di spada?».
«L’avrei parato. Ma ti conosco troppo bene. Tu guardi sempre in faccia
prima di colpire. Sarà che frequenti certa gente…».
Elowen arrossì leggermente ma la sua voce apparve tranquilla nel
rispondere.
«Alaum è un caro amico. Se diventerà qualcos’altro, mi premurerò di
informarti».
Calyon scoppiò in un’allegra risata.
«Va bene, va bene. Non te la prendere, bellezza. Piuttosto, il nostro
mutevole capobanda dove si è ficcato? Sarebbe dovuto essere già di
ritorno».
L’espressione allegra scomparve dal volto della leggiadra elfa,
sostituita da un’ombra di preoccupazione.
«Pensavo foste insieme. Hai idea di cosa intendeva fare?».
«Ficcanasare dalle parti del palazzo dell’eccellentissimo signor Brook…
almeno credo».
«Brook? Ma chi? Il mercante d’arte?».
«Sì, proprio lui».
«Ma non è quello che aveva venduto armi agli orchi dei boschi
occidentale? O ricordo male?».
«Ricordi benissimo. E il nostro amico ha una memoria da elefante per
queste cose. Lo ha messo sotto tiro ma pare che abbia rimediato un bel
fiasco. E lui non accetta facilmente di essere imbrogliato…».
«Imbrogliato? Avanti, racconta!».
«Ci dovrebbe essere una saletta prenotata a nostro nome. Forse è più
prudente andare lì a parlare, non credi?».
«D’accordo, forse hai ragione. Però se ritarda troppo, lo andiamo a
cercare, va bene?».
Calyon si strinse nelle spalle e si diresse verso la locanda. Chiaro
che sarebbero andati a cercarlo se avesse ritardato troppo! E che
avrebbero trovato un bel po’ di guai, era altrettanto certo.
Entrarono nella locanda e un cameriere in elegante livrea li accompagnò
premurosamente ma con discrezione alla saletta riservata a nome di lord
Bailey Winström. La tavola era già apparecchiata per tre, al centro
della stanza ricavata sul retro dell’edificio, alla quale si accedeva
solo attraverso una porticina e che prendeva aria e luce da una
finestra posta a circa due metri d’altezza. Calyon controllò
discretamente le pareti ma si rese subito conto che il loro spessore e
la boiserie di legno non avrebbero permesso a orecchie indiscrete di
ascoltare quanto poteva essere detto nel locale. Il cameriere si
informò se avesse dovuto provvedere immediatamente alla cena. Elowen,
con la sua consueta ferma gentilezza, gli disse che stavano aspettando
ancora una persona e lo congedò.
«Bene. Ora che ne diresti di raccontarmi tutto?».
Calyon si sedette su una delle tre poltrone con aria soddisfatta,
piazzò gli stivali sul bracciolo della poltrona accanto e cominciò a
raccontare quanto aveva saputo.
Dopo un’ora, i due amici cominciavano a essere veramente preoccupati
per il ritardo dell’audace ladro. Si chiedevano cosa mai lo avesse
potuto trattenere e il timore che gli fosse capitato qualcosa di serio
stava diventando sempre più angosciante.
«Al diavolo! Io vado a cercarlo!».
Improvvisamente, la porta della saletta si spalancò.
«Buonasera, ragazzi!».
Sulla porta era comparso Blackwind, per l’occasione nei panni di Ardis,
il cacciatore elfo.
«Alla buon'ora! Dov'eri finito? Cominciavamo a preoccuparci davvero».
«Sono stato in esplorazione e ho consultato il mio servizio segreto».
Quello che Ardis chiamava scherzosamente il suo servizio segreto era in
realtà una formidabile combriccola di vecchie pettegole, capitanate
dalla signora Adelaide, vedova Calverton.
Quando era arrivato a Elosbrand ed era solamente Ardis il cacciatore,
il giovane elfo aveva trovato alloggio presso un'anziana vedova che gli
aveva affittato l'appartamento ricavato dal sottotetto. Dopo il suo
trasferimento presso il palazzo del suo alter ego lord Bailey, il
giovane cacciatore era rimasto in termini di amicizia con l’arzilla
vecchietta. Un po' per simpatia, un po' per l'enciclopedico suo sapere
dei fatti altrui. A capo di un piccolo ma efficiente gruppo di comari
che quotidianamente si aggiornavano sulle dicerie cittadine, la signora
Adelaide Calverton era a conoscenza pressoché di tutti i pettegolezzi
che giravano in città. Quando il giovane Ardis passava a trovarla, era
sempre felicissima di intrattenerlo con le sue chiacchiere e i suoi
biscotti. Anche quel giorno, l'anziana vedova si era dimostrata
all'altezza.
«E cosa avresti scoperto?».
«L'illustre signor Brook, impenitente seduttore, ha fatto lungamente la
corte alla figlia di Irlentree, la quale pare sia piuttosto sensibile
al fascino maschile, ma fu messo alla porta in malo modo quando il
geloso genitore l'ha beccato abbarbicato alla figlia proprio in casa
sua».
«Interessante... E questo cosa c'entra con i nostri affari?».
«Le porte della villa erano e sono sempre sorvegliate. Eppure Brook si
è introdotto in casa. Irlentree è convinto che Brook abbia corrotto
qualcuna delle sue guardie per entrare in casa sua e le ha sostituite
tutte».
«Vuoi dire che le ha cacciate senza nemmeno sapere chi era onesto e chi
no?».
«Niente affatto. Il vecchio ha un pessimo carattere ed è gelosissimo
della sua adorata figliola ma è un uomo fondamentalmente giusto. Le ha
destinate ad altri incarichi. Siccome Brook non si è più fatto trovare
in casa sua, si è convinto di aver fatto la cosa più giusta per
difendere la dubbia reputazione della sua erede. Io, invece, sono
convinto che deve esserci una comunicazione fra le due abitazioni».
«Ma perché fantasticare di una comunicazione fra le due case se ci può
essere una spiegazione più semplice?».
«Avresti ragione se non fosse che ci sono altre novità emerse dalla mia
sfortunata impresa dell’altra notte. Avanti, ragazzi, facciamoci
servire la cena e vi racconterò tutto mentre mangiamo».
Il servizio era eccellente e molto raffinato. Nella locanda si potevano
degustare raffinate specialità di mare e una grande varietà di vini.
Gli amici mangiarono con appetito ma si limitarono alquanto nel bere.
Quando uscirono dalla locanda era notte fonda.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo 8
Capitolo 8: Notte di paura
Un’ombra si avvicinò al palazzotto di Brook. Si muoveva agile e
silenziosa come il vento, completamente ammantata di nero. Giunta quasi
di fronte al palazzo, svoltò in una strada laterale e si arrampicò con
agilità felina sul tetto di una casa per porsi in osservazione,
sdraiato sulle tegole, accanto al comignolo. Le luci della casa del
mercante si spensero una dopo l’altra. Restavano solo le luci del museo
e le due torce davanti al portone sbarrato.
Probabilmente Brook è nella stanza
del tesoro.
Blackwind non aveva smesso un attimo di pensare al mistero di quella
stanza. Il rubino era falso così come le antiche grandi anfore
valdoriane e le statue del Formensiar. Cosa poteva esserci, allora, di
tanto prezioso da proteggere con una porta incantata? Potevano essere
le prove dei suoi traffici? Blackwind era ragionevolmente convinto che,
dopo che gli orchi ed i briganti dei boschi occidentali erano stati
sbaragliati, Brook non avesse cessato i suoi commerci d’armi,
limitandosi a cambiare clientela. Ma di che genere di prove poteva
trattarsi? Documenti non ce n’erano né armi di alcun genere.
E allora, cosa c’era dietro quella
porta?
Scrutava nell’oscurità, gli occhi fissi sul palazzo con tutti i sensi
all’erta, cercando di rivedere con la mente la misteriosa stanza del
tesoro. Ripensava alla porta, la serratura incantata, le pareti coperte
da scaffali, le anfore, le statue antichissime e... false.
Cos’altro c’era?
La mente del ladro corse ancora agli scaffali riempiti di vasi
pregiati, anch’essi falsi, che dal pavimento istoriato giungevano fino
alla volta a botte. Le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi,
illuminate dalla debole luce che giungeva dal corridoio.
Potevano esserci dei documenti nascosti fra quei finti tesori? Non gli
pareva di aver notato contenitori adatti. Algernon puliva quella stanza
tutte le mattine, se in quella stanza c’erano dei documenti segreti, il
maggiordomo avrebbe finito per scoprirli. Doveva esserci dell’altro. E
proprio non riusciva a spiegarsi il significato di quelle opere d’arte
contraffatte.
Ma poi perché prendere tante precauzioni per proteggere dei falsi? E
perché tanta cura? Avrebbe potuto essere un museo e non c’era un
granello di polvere da nessuna parte. Evidentemente il maggiordomo
doveva essere convinto di occuparsi di opere originali.
Aveva più volte parlato con quell’Algernon, sotto diversi
travestimenti. L’anziano maggiordomo pareva essere proprio una brava
persona ed era difficile credere che potesse essere al corrente delle
attività di Brook.
Cosa c’era dietro quella porta?
Ripensò alla strana sensazione che aveva avuto osservando il palazzo
dall’esterno. Qualcosa non tornava e, ripensando alla disposizione
delle stanze del palazzo, cominciava a sospettare di cosa poteva
trattarsi.
La sua attenzione si rivolse per un attimo ai vapori che si levavano
dal giardino accanto al palazzo di Brook. Al buio parevano ancora più
abbondanti che di giorno. Rabbrividì. L’aria stava diventando sempre
più fresca e Blackwind desiderò di potersi immergere in quelle calde
sorgenti. Si avvolse più strettamente nel mantello. L’autunno volgeva
al termine e presto sarebbe cominciata la brutta stagione, durante la
quale le navi cessavano i loro viaggi e Elosbrand entrava in una specie
di letargo.
Dagli alberi del giardino di Irlentree una civetta emise il suo
caratteristico verso.
***
Elowen si aggirava prudentemente nello splendido giardino del ricco
armatore. Vedeva le volute di vapori biancheggiare davanti a lei e il
riflesso della luna nelle acque calde delle sorgenti. Si arrampicò su
un albero nei pressi della pozza d’acqua. Il vapore l’avvolse un
momento e temette di mettersi a tossire. Rapidamente spostò il suo
agile corpo fuori dal vapore, balzando silenziosa e agile come uno
scoiattolo su una quercia poco distante. Si passò una mano sugli occhi
e li sentì bruciare. Guardò la sua mano e la vide sporca di
un’impalpabile polvere grigia.
Fuliggine.
Rimase un attimo meravigliata, chiedendosi dove aveva potuto sporcarsi
in quel modo. Poi la sua attenzione fu attratta da un movimento
nell’ombra. Sul tetto della casa lì accanto, qualcuno si muoveva con
estrema prudenza, in silenzio. Qualcuno che osservava con attenzione il
tetto dove Blackwind era salito.
***
Una figura nascosta fra le ombre nei pressi del palazzo di Brook
scrutava la sua vittima arrivare, silenziosa e prudente. La vittima si
muoveva anch’essa fra le ombre ma la vista ereditata dai genitori
mezzelfi permetteva alla misteriosa e minacciosa figura di vederla
chiaramente.
E questa vide che la vittima si arrampicava sul tetto della casa di
fronte e si nascondeva dietro il camino.
Vide che stava osservando il palazzo.
Vide che si sdraiava sulle tegole.
Vide che era assorta e immobile.
Decise di muoversi e sguainò il pugnale.
Una civetta cantò.
Il pugnale avrebbe colpito presto.
Il pugnale avrebbe spezzato un’altra vita.
Il pugnale le avrebbe dato di che vivere bene per un altro lungo
periodo.
Una civetta cantò.
Era l’ora di uccidere.
Si spostò rapidamente verso la casa dove la sua vittima attendeva di
morire. Si arrampicò sul tetto adiacente e si sporse un po’ per
assicurarsi che quel nemico sconosciuto, la vittima condannata, fosse
sempre lì, ignaro di tutto, immobile, mentre la morte si avvicinava.
Scivolò sul tetto dove era sdraiata la figura ammantata di nero.
Una civetta cantò.
Giunse al camino. Era buio, vedere qualcosa era estremamente difficile
e solo il mantello e il cappello della vittima, leggermente mossi dal
vento, ne tradivano la presenza. Sarebbe stato ancora più facile del
previsto. Un altro avversario indegno di lei. Preparò il colpo con
calma, si avvicinò in silenzio, fino a pochi passi dalla vittima
immobile.
Scattò con un balzo e vibrò il fendente mortale.
La lama quasi si spezzò sulle tegole del tetto. La mano sicura si torse
per la violenza del contraccolpo e il sicario comprese che aveva
accoltellato un mantello appoggiato sul tetto.
Con la coda dell’occhio vide l’elsa dello stocco piombare sul suo capo.
Poi tutto fu buio.
***
Brook entrò nel suo studio con una strana inquietudine. Finalmente
quella tremenda giornata era giunta al termine. Il colloquio con
Sfi’Hak lo aveva irritato oltremodo. Quel maledetto mago lo derideva e
umiliava col suo disprezzo. Però aveva bisogno di lui e della copertura
che garantiva. Ma anche Brook aveva bisogno di quel mago e dei suoi
infernali aiutanti. Senza di loro non avrebbe avuto modo di sviluppare
a tal punto il contrabbando d’armi. Però averli così vicino alle sue
ricchezze lo preoccupava. Per questo aveva sostituito il rubino. E
nessuno avrebbe potuto immaginare dov’era nascosto.
E poi quella donna. Una donna bellissima ma pericolosa come la coda di
una viverna. Avrebbe trovato estremamente piacevole frequentarla se non
avesse avuto quell’inquietante alone di morte attorno a sé. Però era
fra i migliori del suo ramo. Formidabile, efficace e spietata. Aveva
accettato l’incarico senza esitazioni. L’avrebbe portato a termine con
la sua letale efficienza.
E, infine, il mercenario. Era riuscito a comprarlo ma per un terribile
momento aveva temuto che fosse stato sul punto di rifiutare la sua
offerta. Se non l’avesse corrotto, Sfi’Hak non avrebbe perdonato
quell’errore.
Rabbrividì.
La tenue luce della bugia che teneva in mano tremolò un po’ nel varcare
la soglia del suo studio. Chiusa la porta, il ricco mercante si diresse
verso la scrivania con passo sicuro. Si avvicinò alla lampada e
armeggiò un poco per accenderla. Gli parve di avvertire un leggero
odore di vino. Possibile che avesse lasciato una bottiglia aperta?
Click.
Il mercante si voltò bruscamente verso la porta, da dove aveva
avvertito nitidamente il rumore di qualcosa che era scattato. Guardò la
porta senza capire, poi si accorse che la chiave era scomparsa.
«Buonasera, signor Brook».
La voce, tranquilla, leggermente ironica, assolutamente priva di
qualsivoglia accento, proveniva dalla poltrona vicina al tavolino,
accanto alla porta. Brook girò rapidamente il paralume per vedere
meglio. Seduto comodamente sulla poltrona c’era quello che pareva un
gentiluomo elegantemente vestito di nero, con il capo coperto da un
ampio cappello a tese larghe adorno di una splendida piuma nera. Teneva
in mano un calice di vino rosso e, sul tavolino, accanto a lui, una
bottiglia e un altro calice parevano attendere un ospite di riguardo.
«Accomodatevi, prego. Questo squisito nettare vi attende già da qualche
minuto».
La mano destra di Brook scivolò nascostamente nel cassetto della
scrivania, mentre il trafficante d’armi teneva gli occhi fissi sul
misterioso ospite.
«Se è la balestra da mano che cercate, temo di averla già presa io. Non
datevi disturbo, eccellentissimo signore».
La voce dell’uomo vestito di nero suonava beffarda nel silenzio della
stanza. Brook fece uno scatto verso la parete e afferrò il cordone
della campana che usava per richiamare la servitù. Lo tirò con forza
ma, al primo strattone, l’intero cordone gli cadde addosso, senza che
la campana emettesse alcun suono.
«Suvvia, egregio signore, perché volete che qualcuno venga a
disturbarci? Accomodatevi a questo tavolo, siamo fra gentiluomini, mi
pare».
«Blackwind?».
Il gentiluomo vestito di nero fece un cenno di assenso col capo. Brook
ebbe l’impressione che avesse anche sorriso, da sotto quel cappello che
gli manteneva il viso in ombra.
«Ho sentito che mi chiamano così e devo dire che non mi dispiace
affatto. Accomodatevi. Dopotutto siete il padrone di casa. Assaggiate
quest’ottimo vino, signore. È veramente sublime. E poi viene dalla
vostra collezione, nell’armadio qui accanto».
Brook rimase un attimo a guardare la figura comodamente seduta la cui
mano inguantata gli stava indicando la poltrona accanto alla sua.
Il sicario aveva fallito.
Si sedette, cupo in volto, e prese il calice sul tavolino. Quando lo
avvicinò alla bocca, trasalì.
«Morello di Rhest[7], del 325. Splendida annata, mi congratulo per il
vostro gusto. Un colore meraviglioso. Sapevate che lo chiamano anche
”rubino di Rhest”?».
Brook non disse nulla ma i suoi occhi dardeggiavano fuoco dal suo volto
fattosi improvvisamente terreo. Avrebbe voluto uccidere quell’uomo che
continuava a parlargli tanto beffardamente.
«Ovviamente lo sapete. Siete stato quasi sul punto di giocarmi.
Purtroppo, la vostra presunzione è seconda solamente alla vostra
assoluta mancanza di scrupoli. La bottiglia è poco polverosa, al
contrario delle altre. Appena l’ho vista ho immaginato dov’era nascosto
il rubino».
«Siete solo un volgarissimo ladro!».
«Di queste parole mi darete soddisfazione a tempo e luogo, signore.
Sono un ladro, non lo nego, ma definirmi volgare è un’offesa gratuita.
Intanto cessate di agitarvi e accomodatevi su questa poltrona, abbiamo
alcune cose da dirci».
Brook eruppe in una sequela di bestemmie e insulti di encomiabile
varietà e colore, che coronò con un altrettanto elegante proposito.
«Sono pronto fin d’ora a tagliarvi la testa».
«Non lo metto in dubbio. I modi da boia non vi mancano. E nemmeno
l’animo, vedo. Però l’offeso sono io e sceglierò io luogo e ora per
regolare i nostri conti. Stasera ho altro da fare, eccellentissimo
mercante d’armi».
«Case da svaligiare?».
Brook cercò di dare un tono beffardo alla sua voce ma questa uscì
alquanto stridula dalla sua bocca.
«Perché dovrei, se ho già quel che cercavo? O c’è qualcos’altro? Cosa
custodisce la stanza del tesoro?».
Brook divenne ancora più pallido e la sua voce più incerta.
«Non so davvero di cosa parliate…».
«Bene, allora vi racconterò una storia, prendendo spunto da questo».
Come per magia, sulla mano inguantata di Blackwind era comparsa una
piccola splendida sferula rossa.
«Maledetto ladro! Ridammelo!».
Brook fece per scattare addosso a Blackwind ma si arrestò quasi subito
davanti alla punta di uno stocco, fulmineamente sguainato e
minacciosamente rivolto verso il suo petto.
«Detesto la violenza ma so difendermi. Ora sedetevi e cercate di
mantenere un po’ di contegno, eccellentissimo signore».
«Non osereste uccidermi. Vi siete sempre vantato di non usare la
violenza».
«Non intendo affatto uccidervi. Al contrario, vi sto salvando la vita:
sappiate che, dietro quella tenda, un mio fidato amico vi tiene sotto
tiro con una balestra. Quindi evitate di fare sciocchezze».
Il mercante si voltò verso la tenda e vide che da sotto di essa
spuntavano un paio di stivali. Un’insolita piega del tessuto celava a
malapena la punta del dardo, rivolta verso di lui.
Brook si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona, puntando gli occhi
carichi d’odio addosso alla figura paludata di nero. Meccanicamente,
prese la coppa di vino e se la portò alle labbra.
«Questo meraviglioso rubino, invece di essere nella inaccessibile
camera del tesoro, era curiosamente nascosto in una bottiglia di vino.
Nella camera del tesoro c’era un falso, assieme a numerosi altri
oggetti d’arte contraffatti. Perché? Mi sembrava poco credibile che
fosse solo per sfiducia nei confronti delle difese della vostra casa.
Soprattutto se pensiamo a una porta difesa addirittura da un
incantesimo».
«Avevo le mie buone ragioni».
Brook sentiva la propria voce come fosse lontana. La vista andava
annebbiandosi. Aveva tanto sonno.
«Infatti. E mi chiedevo quali fossero. Perché mai avevate messo tante
protezioni su quella porta che non custodiva altro che alcuni pregevoli
falsi? Semplice: dovevate evitare che qualcuno scoprisse cosa celava in
realtà la stanza del tesoro e d’altra parte sapevate che in quella
stanza poteva entrare qualcuno di cui non vi fidavate. Escluso
Algernon, nessuno avrebbe potuto oltrepassare la porta blindata,
eccetto, forse, il mago che l’aveva incantata. Dunque, era improbabile
che poteste temere uno dei due. Doveva essere qualcun altro. Qualcuno
che non aveva bisogno di passare dalla porta per entrare».
Brook non aprì bocca. Pareva assolutamente incapace di muovere un solo
muscolo, faceva decisamente fatica a tenere gli occhi aperti. Blackwind
riprese a parlare.
«Occorrono settantacinque passi per giungere dal museo alla finestra in
fondo a questa stanza. Ne bastano una settantina per arrivare alla
parete di fondo della stanza del tesoro, proprio qui accanto.
Buonanotte, caro mercante. Domani la vostra attività segreta subirà un
brutto colpo».
Brook fece un timido cenno di protesta, poi parve arrendersi. Gli occhi
si chiusero e il respiro si fece regolare. Non vide Blackwind sfilare
la chiave della stanza del tesoro dalla sua borsa.
[7] Città antichissima del nordovest di Ainamar
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo 9
Capitolo 9: una luce nel buio
La porta si aprì al primo tentativo. Blackwind ringraziò Yavië, la sua
memoria e il suo talento di imitatore. Gli era bastato sentire quella
parola una volta per saperla pronunciare correttamente. Girò la
clessidra. Ora si passava alla seconda parte del piano. Corse alla
finestra del museo e la spalancò. Gettò poi una lunga fune giù nella
strada e la assicurò a un reggitorcia infisso nel muro. Poco dopo, la
snella figura di Elowen comparve nella luce della finestra. Un attimo
ancora e anche Calyon raggiunse i suoi amici.
Chiusero la finestra e seguirono Blackwind fino alla stanza del tesoro.
Attraversarono il museo sorpresi dalle magnifiche opere d’arte che vi
erano raccolte e rapidamente percorsero il corridoio che portava alla
stanza blindata. Appena entrati, Blackwind chiuse la porta e accese la
lampada a olio che si trovava sullo scaffale lì accanto. Si misero a
cercare sulla parete di fondo e, dopo una decina di minuti, Calyon
emise un lieve fischio di evidente soddisfazione e parlò sottovoce.
«Trovato. Era il reggitorcia di centro».
Tirò, prima delicatamente, poi più decisamente, il supporto metallico
che cedette facilmente e un pannello della parete scivolò verso
l’interno scorrendo silenziosamente su guide invisibili dalla stanza.
«Bel lavoro. Roba da nani, immagino».
Calyon sbirciò nell’apertura comparsa nel muro. Dietro di lui, la voce
di Blackwind era un sussurro appena percettibile.
«Maghi per la porta, nani per il passaggio. Non bada a spese il nostro
illustre signor Brook. Mi pare chiaro che la posta in gioco sia
veramente qualcosa di importante».
Elowen sorrise ammiccando. La faccenda si stava rivelando veramente
intrigante e la fanciulla elfa si stava appassionando al mistero
nascosto da quel passaggio segreto. Anche se ormai aveva fondate
ragioni per ritenere di sapere cosa si nascondeva in fondo alla rampa
di scale che s’intravedeva nel buio del vano nascosto.
Blackwind si fece avanti.
«Vado avanti io. Seguitemi e cercate di essere il più silenziosi
possibile. In fondo a queste scale potrebbe esserci gente pericolosa».
L’audace ladro ricambiò il sorriso di Elowen e si diresse verso la
scalinata con passo sicuro. In fondo, era la passione per l’avventura
che lo aveva reso quel che era.
«A testa bassa in mezzo ai guai. Va bene. Che gusto c’è a vivere senza
rischi, tranquillamente, senza follia?».
Calyon sospirò e si dispose alla retroguardia. Posò la mano sull’elsa
della spada e si avviò dietro la bellissima elfa che era già sparita
nel buio della scalinata.
Le scale scendevano parecchio e ben presto i tre amici si resero conto
di trovarsi ben al di sotto del livello della strada.
Curiosamente, non c’erano tracce di umidità in quel sotterraneo,
piuttosto un’aria secca e una temperatura decisamente superiore a
quella esterna.
Al termine della scala, giunsero in una stanza piuttosto piccola, dalla
quale l’unica via d’uscita pareva essere una grossa porta di legno.
Silenzioso come un’ombra, Blackwind si era già dedicato a studiare la
serratura che la chiudeva.
«Sembra aperta».
La voce era un impercettibile sussurro. Si avvicinò alla porta e vi
appoggiò l’orecchio, ascoltando attentamente per alcuni minuti che ai
suoi amici parvero interminabili.
«Deve essere un corridoio. Sembra che in lontananza qualcuno stia
picchiando contro un’incudine».
Elowen rimase un attimo pensierosa, poi sussurrò:
«Forse ho capito. Quel che si innalza dal giardino di Irlentree non è
tutto vapore. Ci deve essere una forgia laggiù e scommetto che si trova
all’incirca sotto le sorgenti calde. I fumi della forgia si mescolano
ai vapori caldi e nessuno se ne accorge. Ecco da dove veniva quella
fuliggine!».
«Quale fuliggine?». Chiesero all’unisono i suoi due compagni.
«Mentre ero nel giardino, vicino alle sorgenti… prima di vedere quella
donna… mi sono trovata le mani sporche di fuliggine… non capivo come
potessi essermele sporcate ma ora immagino che fosse sulla corteccia e
sulle foglie degli alberi intorno alle sorgenti».
Blackwind si esibì in un perfetto inchino.
«Complimenti, mia affascinante cacciatrice. Credo proprio che tu abbia
intuito il segreto del signor Brook. Abbiamo trovato la forgia dove
vengono realizzate le armi che impinguano le casse del nostro stimato
mercante».
«Ma non è un po’ esagerato tutto questo per una semplice forgia? Quante
armi dovrebbero costruire e contrabbandare per ripagare tutta questa
spesa?».
Calyon era decisamente perplesso.
«Amico mio, dimentichi che in questa storia dovrebbe pure esserci un
mago. Il cui ruolo potrebbe non essere semplicemente quello di
incantare le porte. Piuttosto: hai legato bene quell’affascinante
sicario?».
«Come un salame. E per buona misura, le ho fatto bere una fiala di
sonnifero. Ne avrà per qualche ora».
Blackwind socchiuse la porta e guardò nel corridoio.
«Tutto bene. Possiamo muoverci».
Si inoltrarono nel corridoio camminando silenziosamente come tre felini
in caccia. La vista da elfi permetteva loro di amplificare al massimo
il tenue chiarore che proveniva dal fondo del corridoio che appariva
lungo un centinaio di metri.
«Qui dovremmo già essere nella proprietà di Irlentree».
Proseguirono nel più assoluto silenzio, muovendosi lentamente, con
tutti i sensi all’erta. A un tratto si accorsero che il corridoio era
interrotto da una porta di legno su ciascuna parete. Si fermarono e
Blackwind accostò l’orecchio prima a una, poi all’altra porta.
«Sembrano deserte. E sono entrambe aperte».
«Vediamo che c’è qui dentro».
Elowen era ormai preda della curiosità e non vedeva l’ora di scoprire
cosa stesse succedendo in quei locali sotterranei. Si avvicinò a una
delle porte, la aprì prudentemente e guardò dentro. Si voltò con
un’espressione delusa.
«Quattro giacigli e una gran puzza. Mi pare ci sia poco d’interessante».
Blackwind si strinse nelle spalle.
«Saremo più fortunati con l’altra. Intanto sappiamo che ci sono almeno
quattro persone che vivono quaggiù».
«Persone è una parola
grossa. Dal fetore potrebbero essere goblin o bestiacce simili».
Calyon pareva alquanto disgustato. Detestava, come molti elfi, quelle
creature e, all’idea di trovarsele di fronte, la sua mano era corsa
all’elsa della spada. Elowen, però, non pareva molto d’accordo
sull’interpretazione del cacciatore elfo.
«Non credo che affiderei un lavoro di forgiatura a goblin o simili.
Deve essere qualcos’altro».
Blackwind li chiamò dal corridoio.
«Vediamo l’altra stanza, venite».
Il ladro aprì prudentemente la porta sulla parete opposta e guardò
dentro. Si voltò raggiante.
«Tombola. Guardate qui».
Entrarono nella stanza buia ma i loro occhi impiegarono un attimo ad
adattarsi e videro che il locale era pieno di statue antiche e anfore
preziose ma, sulla parete di fondo, una serie di rastrelliere
sostenevano numerose splendide armi.
«Santi Numi, che meraviglia! Queste armi valgono un patrimonio! Ma le
statue e le anfore? Non capisco perché siano insieme alle armi».
Elowen si aggirava nella stanza con le sue movenze eleganti, esaminando
tutti quei tesori con un’espressione incantata.
Blackwind si dedicò immediatamente a studiare quelle opere d’arte,
mentre Calyon esaminava le armi sulle rastrelliere.
«Falsi. Di discreta fattura, ma falsi. E piuttosto recenti, direi.
Forse ho capito il giochino di Brook».
«Queste, invece, sono vere. E tutte incantate, direi. Armi veramente
superbe».
Calyon stava impugnando una spada meravigliosa, la cui lama pareva
soffusa di una luce argentea. La roteò nell’aria e mimò alcuni
fendenti. Era leggera e straordinariamente equilibrata. Il giovane elfo
non aveva mai maneggiato un’arma simile. Sorrideva decisamente
soddisfatto.
«Spiacente per l’eccellente signor Brook, ma io da questa spada non mi
separo più».
«Bene. Credo che faremo tutti lo stesso, se troviamo un’arma che ci
vada bene. Poi faremo meglio a muoverci».
Blackwind si mise a studiare uno scrittoio che si trovava in un angolo
della stanza. Dopo che ci ebbe brevemente armeggiato, lo aprì e
cominciò a esaminarne il contenuto. Rimase un bel po’ assorto a leggere
carte e aprire buste.
Nel frattempo, Elowen aveva individuato una spada corta dalla lama
splendidamente istoriata, curiosamente tiepida al tocco. Anche
quell’arma pareva meravigliosamente equilibrata e maneggevole. Quando
provò a colpire una delle rastrelliere, la ragazza rimase sorpresa nel
vedere guizzare una lingua di fiamma lungo la lama.
«Per gli Dei! Questa spada arde quando colpisce! È meravigliosa!».
«D’accordo ma gira al largo da me: non ho voglia di finire arrosto per
qualche tuo movimento inconsulto!».
Calyon ridacchiò guardando la giovane elfa che ammirava la spada con lo
stupore di una bambina.
«L’unica occasione in cui farei movimenti inconsulti sarebbe quando tu
mi sbucassi improvvisamente di fronte dal buio. Non sono sicura di
essere preparata a simili spaventi…».
«Simpaticona!».
«Bene, ragazzi! Se avete finito di divertirvi, credo proprio che
possiamo andare».
Blackwind aveva terminato di esaminare le carte trovate nello scrittoio
e si era avvicinato ai due amici. Rapidamente scelse uno splendido
stocco da una delle rastrelliere e, senza nemmeno guardarlo, si
avvicinò alla porta, ascoltando attentamente. Dopo qualche istante,
fece segno che tutto era a posto, aprì la porta e i tre amici uscirono
dalla stanza per avviarsi lungo il corridoio.
Ripresero a muoversi in assoluto silenzio, fidando nella loro vista
notturna e nei loro sensi sempre all’erta.
Mentre avanzavano, il chiarore incerto si delineava sempre più
manifestamente come la luce di grandi fornaci, davanti alle quali si
muovevano alcune figure massicce ma di bassa statura. Il clangore di
alcuni martelli giungeva ritmicamente alle loro orecchie.
«Nani?».
Blackwind si avvicinò con prudenza alla grande sala che si apriva in
fondo al corridoio. Dopo pochi istanti, i due amici lo videro tornare,
scuro in volto.
«Allora?».
«Nani Grigi. Sono in quattro. E c’è anche un mago di Uytolgoth[8]».
[8] Isola a occidente di Ainamar, retta da una casta di
principi-stregoni
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10: la spada e la magia
Sfi’Hak era estremamente concentrato. Richiamò alla mente le parole
arcane dell’incantesimo e, nel pronunciarle, avvertì l’immenso potere
magico che lo pervadeva e scaturiva dalle sue mani protese su una scure
dalla lama meravigliosamente istoriata. Questa parve quasi tremare,
investita dalla magia, e prese a rifulgere come impregnata da una luce
gelida e intensa. Poi, lentamente, il fulgore diminuì d’intensità, fin
quasi a scomparire.
Il mago allungò la mano sulla lama e rabbrividì al contatto col metallo
diventato freddo come il ghiaccio. Un sorriso soddisfatto comparve sul
suo piccolo volto malevolo.
«Bene! Anche questa è fatta».
«Grande potere, maestro! Io porto scure in deposito».
Uno dei nani grigi si era avvicinato al tavolo dove il mago operava i
suoi incantamenti e aveva rivolto la parola a Sfi’Hak in un comune
rozzo ma efficace, insieme a un sorriso stentato di untuosa piaggeria.
In realtà gli sarebbe piaciuto piazzare quell’arma esattamente fra i
tatuaggi che ricoprivano il capo rasato del crudele piccolo mago. Il
nano sopportava il continuo sarcasmo di Sfi’Hak solo per il timore del
potere di quel piccolo uomo e per la lunga consuetudine a servire un
padrone. Lui e i suoi compagni erano stati venduti ai maghi di
Uytolgoth dai loro precedenti padroni elfi scuri e, nel cambio, ci
avevano decisamente guadagnato. Ciononostante, covava nei loro animi il
desiderio di riconquistare la libertà perduta.
«Attento a non stancarti, mangiasassi. E vedi di tornare subito, c’è
ancora parecchio lavoro da fare. Domani il carico partirà e dopo
potrete battere la fiacca finché vorrete».
Il mago ignorò lo sguardo d’odio lanciatogli dal nano e concentrò la
sua attenzione sugli altri tre schiavi. Stavano lavorando a ritmo
sostenuto e, continuando così, c’erano fondate speranze di terminare il
lavoro entro l’alba. Poi ci sarebbe stato solo da portare le armi nella
stanza del tesoro, nascoste dentro le anfore e le antiche statue. Al
resto avrebbe pensato Brook. Almeno in quelle cose era efficiente.
Chissà se è riuscito a eliminare il ficcanaso…
Ne dubitava assai. Erano parecchi i dubbi che nutriva nei confronti del
suo alleato cui riconosceva solo il merito di essere ricco, ben
introdotto in certi ambienti e sufficientemente privo di scrupoli. Per
il resto, meglio lasciar perdere.
Comunque, appena finito quel lavoro, si sarebbe dedicato a sistemare
quel ladro importuno e capire cosa stesse macchinando il suo poco
affidabile alleato. Più ci pensava, più era certo che Brook gli stava
nascondendo qualcosa. E Sfi’Hak non era abituato a permettere ai propri
alleati di giocare a carte coperte.
«Allora? Quella spada è pronta? Forza bestiacce, guadagnatevi il pane o
metterò mano alla frusta!».
I nani lo guardarono corrucciati ma non osarono far nulla di più di
aumentare il ritmo dei loro martelli.
Una splendida spada stava prendendo forma su una delle incudini e pochi
istanti dopo, si sarebbe trovata sul bancone del mago.
«Dov’è quell’idiota di Kruk? Quanto ci mette a portare un’ascia nel
magazzino? Qualcuno lo vada a cercare!».
Il mago cominciava a innervosirsi per il ritardo del suo assistente e,
con lo sguardo, cercava invano di scrutare nel buio del corridoio dove
il nano era sparito poco prima. Proprio quando un altro nano stava per
andarlo a cercare, Kruk emerse dal corridoio.
«Ma che diavolo stavi combinando? Ti sei addormentato?».
«Padrone Brook ti cerca, maestro. In magazzino ti attende. Cose gravi,
lui dice».
Il nano pareva nervoso, decisamente a disagio.
«Cosa mai potrà esserci di tanto grave da interrompermi mentre sto
lavorando? Maledizione a quell’altro idiota! Preparami gli ingredienti
per l’incantesimo del fulmine, mangiasassi. Tornerò subito e voglio
trovare tutto sul bancone, chiaro?».
Sfi’Hak si diresse verso il corridoio con passo svelto. Arrivato
all’imboccatura del passaggio buio, pronunciò una secca parola e una
vivida luce azzurrina comparve intorno a uno dei suoi anelli,
illuminandogli il cammino.
Spero che Brook abbia un valido
motivo per disturbarmi… sennò stavolta lo trasformo davvero in un
tacchino. E non è escluso che poi lo faccia arrosto.
Aprì la porta del magazzino senza bussare.
«Allora, che diavolo vuoi?».
«Benvenuto, mago. Ora non fiatare e non provarti a muovere neanche un
pelo o sei morto».
Una spada si era poggiata improvvisamente sulla sua gola. Due figure
comparvero ai suoi fianchi, emergendo dal buio. Un’altra, completamente
vestita di nero, era seduta sullo scrittoio e sorrideva beffardamente.
Sfi’Hak era un uomo abituato a essere temuto e rispettato da chiunque.
E sapeva come incutere timore e rispetto. In un lampo si rese conto
della situazione e agì come era stato addestrato a fare. Roteò gli
occhi e si lasciò cadere al suolo, come se avesse perduto i sensi per
lo spavento. I suoi avversari rimasero sorpresi per un attimo, un breve
istante che gli permise di attaccare a modo suo. Una parola in una
lingua misteriosa e Calyon si trovò completamente avvolto da una
ragnatela appiccicosa. Un attimo dopo, il mago rotolò fuori dalla
portata di Elowen, si alzò agilmente e puntò la mano destra verso
Blackwind. Un comando secco e una folgore partì in direzione del ladro.
Senza nemmeno guardare il suo avversario, Sfi’Hak si voltò verso Elowen.
La giovane elfa vide il suo nemico che rivolgeva le mani verso di lei e
scacciò dalla mente il terrore per la sorte dei suoi amici. Il mago
congiunse i pollici ed estese le dita di entrambe le mani. Elowen capì
di non avere scampo e, istintivamente, frappose fra sé e l’avversario
la lama della spada.
«Così bella! Un vero peccato!».
Ancora una parola arcana e dalle dita delle mani del mago scaturì una
vampata che avvolse in pieno la terrorizzata ragazza.
Il sorriso malevolo del mago si spense immediatamente. Elowen, con
un’espressione assolutamente stupita, rossa in volto per il calore che
l’aveva circondata, non pareva aver subito neppure una minima
scottatura. La spada era ancora levata fra lei e il mago e la sua lama
pareva ardere come brace. Sfi’Hak riconobbe, ormai troppo tardi, l’arma
che la ragazza impugnava. Era una delle sue creazioni meglio riuscite.
Si riscosse. Doveva colpire in un altro modo. Puntò ancora le braccia
verso Elowen ma la ragazza era scomparsa. Un attimo dopo, un violento
urto alla bocca dello stomaco gli levò il fiato e gli fece capire che
la giovane elfa aveva reagito un attimo prima di lui. Poi non capì più
nulla.
«Ardis! In nome del cielo, stai bene?».
Il ladro si alzò lentamente sulle ginocchia, col volto fra le mani.
Pareva incolume.
«Sì… credo di sì. Sono scattato via in tempo e credo di essere solo un
po’ stordito. Che brutto cliente, quel tipo!».
Nel frattempo, Calyon stava finendo di districarsi dai fili appiccicosi
che il mago gli aveva materializzato addosso. Sorrideva ma il suo volto
era pallido e la voce incerta.
«Credo che dobbiamo la vita alla tua spada e ai tuoi riflessi,
bellezza. Anche se non ho capito molto di cosa sia accaduto».
Elowen rimase un attimo soprappensiero. Poi sorrise.
«Per la verità non ci ho capito molto neanche io. Ho visto il fuoco che
mi avvolgeva. Ho avuto caldo ma nessun danno. Evidentemente, questa
spada protegge dal fuoco, almeno in una certa misura. Quando ho visto
che stava per lanciare un altro incantesimo, mi sono buttata addosso a
lui e l’ho colpito con una testata. È andata bene, direi».
Blackwind la abbracciò affettuosamente.
«Complimenti, amica mia. Se siamo vivi è solo grazie a te».
Un gemito li fece voltare. Il piccolo mago stava riavendosi. Calyon non
si fece pregare. In un salto fu accanto al pericoloso avversario e, con
un poderoso calcione, lo rispedì nel mondo dei sogni. Dopodiché si
dette da fare per legarlo e imbavagliarlo.
«Padrone è vinto. Liberi noi siamo?».
Kruk era comparso sulla soglia della stanza, seguito dai suoi compagni.
La sua voce era incerta e guardava il mago con un misto di odio e
terrore. Blackwind si voltò verso di lui.
«Sì. Ti ho dato la mia parola. Non avete più un padrone, ora. Al
contrario, è lui vostro prigioniero. Siete liberi».
Il nano appariva alquanto diffidente. Aveva vissuto troppi tradimenti
per potersi fidare della parola di qualcuno. Si avvicinò al mago ancora
privo di sensi con la prudenza che avrebbe avuto maneggiando un
serpente velenoso. Controllò il bavaglio e i legacci che imprigionavano
Sfi’Hak, poi, soddisfatto, si caricò sulle spalle il suo ex-padrone e
raggiunse i suoi compagni che lo attendevano nel corridoio.
«Ricorderò te, se incontrerò ancora. Tu ha rispetto di noi. Noi
rispetto di te. Addio».
«Addio. Yavië vi protegga».
Un attimo dopo, i nani scomparvero letteralmente. Era un potere innato
della loro razza, quello di rendersi invisibili. Come il loro orgoglio
e la volontà indomita che condividevano con tutte le razze di nani.
Calyon li osservò sparire, poi si rivolse all’amico.
«Non sarà un rischio lasciarli andare? Sono pur sempre dei nani grigi!».
«Non so. Ho avuto la netta sensazione che siano sì pericolosi ma non
particolarmente sleali. Inoltre, una razza orgogliosa come la loro non
tollera facilmente la schiavitù».
«A proposito Ci pensi alla faccia del mago quando si sveglierà? Non
credo che sarà troppo contento».
«Questa è la cosa che più mi tormenta. Non vorrei che quel mago dovesse
rimpiangere di non essere stato ucciso da noi».
Elowen si avvicinò sorridendo al giovane ladro e gli posò
affettuosamente una mano sulla spalla.
«Non credo che lo tratteranno in modo più disumano di quanto lui abbia
trattato loro. Inoltre, Kruk è stato irremovibile. Quel mago gli aveva
fatto patire troppe umiliazioni».
Anche Calyon si rivolse all’amico con un sorriso e una strizzata
d’occhio.
«Senza trascurare il fatto che, se fosse stato per lui, noi tre saremmo
già morti… Ora che si fa?».
«Ce ne andiamo. Abbiamo scombinato abbastanza gli affari del
rispettabile signor Brook, direi. Ci siamo meritati una bella dormita.
La partita è chiusa».
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Capitolo 11: risvegli
Si ridestò al lieve chiarore di una candela. La mano corse alla testa
dolente. La bocca era amara. Le dovevano aver fatto bere un narcotico.
Si appoggiò sul morbido materasso e scostò le coltri. Si sentiva tutta
scombussolata, il mondo intorno a lei pareva muoversi e dondolare.
Eppure era su un comodo letto e indossava una splendida vestaglia di
seta. Cercò di ricordare. Il buio, la vittima, il pugnale… il polso le
doleva ancora. E la testa… cosa l’aveva colpita? Cos’era accaduto? Cosa
ci faceva in quel letto? Dov’erano i suoi abiti? Dov’erano le sue armi?
«Gran brutto mestiere per una gran bella ragazza».
Una voce armoniosa con una nota beffarda le fece capire che non era
sola in quella stanza.
Le parve di intravedere una figura vestita di nero, seduta nei pressi
del letto. Da sotto un cappello a tese larghe, scorse due occhi
brillanti fissi su di lei. Un inspiegabile brivido le percorse la
schiena. Cercò il suo pugnale senza trovarlo e questa cosa le sembrò
orribilmente frustrante. Si sentiva inerme. Da tanti anni si era
liberata da quella odiosa sensazione e sperava di non doverla provare
mai più. La mano sfiorò la seta che la fasciava e un moto di paura la
colse.
«Chi mi ha spogliata?». La sua voce tremava.
«Ha davvero importanza? Di cosa ha paura un’assassina?».
La nota beffarda suonò insopportabile.
«Se mi hai toccata con le tue mani schifose…».
«Gran bella ragazza, ma decisamente volgare».
La voce era diventata più dura.
«Cosa rende schifose le mani di una persona? Esiste davvero qualcosa di
schifoso per chi lorda le sue mani di sangue innocente? Di cosa ha
paura un’assassina?».
La voce aveva perso ogni nota beffarda e si era fatta tagliente. I
profondi occhi verdi brillavano nel buio.
Un nuovo brivido le corse per la schiena. Aveva scelto di diventare
quel che era per liberarsi dai lacci della povertà, per non cedere se
stessa, per essere temuta e rispettata dopo anni di terrore. Come osava
giudicarla quell’uomo? Cosa le aveva fatto mentre era incosciente?
Avrebbe voluto balzargli addosso e portare a termine in suo compito
eppure non osava. Doveva capire. Doveva sapere chi era quell’avversario
che l’aveva beffata così abilmente. Doveva guardare dentro quegli occhi
verdi.
«Non ho paura di morire. Uccidimi o ti ucciderò io».
Quegli occhi verdi afferrarono saldamente i suoi, con la forza di una
catena e la dolcezza di un bacio. La ragazza ebbe il terrore di non
riuscire a distogliere lo sguardo.
«Neanch’io ho paura di morire. Non per questo invito gli altri a
uccidermi. Peraltro, se per vincere devo uccidere, preferisco perdere.
Ma non è questo il caso. Non oggi, perlomeno».
«Sei troppo vigliacco per uccidere?».
«Forse. O forse non abbastanza. Comunque, la tua vita non è affatto in
pericolo, rassegnati».
La voce aveva ripreso il suo tono beffardo.
«La tua sì, miserabile…».
«Sempre più maleducata, ragazza mia. Posso sapere cosa ti ho fatto per
meritarmi tanto astio?».
Rimase un po’ sorpresa da quella domanda. Non provò a ribattere ma
restò in silenzio mentre la melodiosa voce tenorile continuava a
parlare.
«Non ti conosco e credo che tu non conosca me. Possibile che un po’
d’oro possa scatenare tanto odio verso qualcuno che, per te, è un
perfetto sconosciuto? Sai almeno il mio nome?».
Non lo sapeva. Sapeva solo che le avevano dato l’incarico di uccidere
l’uomo che quella sera si sarebbe aggirato nei dintorni di quella casa.
E che quella voce melodiosa, tranquilla e beffarda la stava facendo
impazzire di rabbia.
No. Effettivamente non aveva altro motivo valido per odiare quell’uomo
all’infuori del fatto che l’aveva beffata e sconfitta.
E del fatto che non prendeva affatto in considerazione l’idea di
ucciderla.
Era un comportamento irragionevole. E umiliante. Evidentemente riteneva
che non potesse costituire un reale pericolo e lasciarla viva non gli
pareva un’imprudenza.
«Taci? Va bene, posso capire. Comunque, sappi che è stata una mia cara
amica a spogliarti delle armi e rivestirti da donna. Le mie mani
schifose ti hanno solo trasportato qui. Con rispetto, s’intende».
Ancora quella nota beffarda ma c’era uno strano calore in quella voce.
«Puoi stare tranquilla perché non ti capiterà nulla. Siamo salpati per
Soltë, con l’ultima nave della stagione».
«COSA?»
La sua mente riprese lucidità. Quel senso di instabilità non era legato
alla botta in testa. Era il rollio di una nave in movimento. Era
l’esilio dopo una bruciante sconfitta. Eppure non era arrabbiata.
Almeno, non quanto si sarebbe aspettata.
«Purtroppo non posso trattenermi a farti compagnia in questa crociera,
ho affari urgenti a Elosbrand. Sarai trattata con ogni riguardo. Mi
dispiace farti svernare laggiù ma non intendo correre dei rischi
stupidi. C’è una borsa, vicino al tuo letto. Contiene abbastanza oro da
permetterti di vivere per un bel po’ senza ammazzare innocenti. Se
invece non sai stare senza versare sangue e in primavera avrai ancora
tanta voglia di uccidermi, potrai tornare. Ti aspetterò».
La figura vestita di nero si alzò, la salutò con un elegante inchino e
si voltò per allontanarsi. La ragazza si sentì assalire dal panico.
Avrebbe voluto fermarlo, chiedergli di lasciarla tornare a terra con
lui, giurare che non avrebbe più tentato di fargli del male.
Si trattenne.
«Chi devo cercare, quando tornerò a Elosbrand?».
Il gentiluomo vestito di nero si voltò. I suoi occhi verdi la
trafissero un’altra volta. Stavolta c’era un velo di malinconia sul suo
sorriso.
«Chiedi di Blackwind. Qui mi conoscono tutti… almeno in un certo senso».
***
Luce. L’alba?
La testa gli doleva particolarmente. E anche la schiena non era messa
meglio. Si rese conto di essere seduto su una poltrona. Perché?
Lentamente nella sua mente tornarono i ricordi confusi della sera
precedente. Una sensazione di panico si fece strada nelle sue viscere,
torcendogli violentemente lo stomaco.
Blackwind. Il vino era drogato!
Avrebbe voluto alzarsi di scatto e chiedere aiuto ma gli tornò in mente
il misterioso complice del ladro, nascosto dietro la tenda. Aguzzò lo
sguardo, senza fare movimenti bruschi. Le punte degli stivali erano
sempre lì e così quella maledetta balestra, puntata verso di lui. Non
poteva ancora fare nulla. Poteva solo continuare a guardare la tenda
che nascondeva il suo misterioso carceriere.
Si era nuovamente addormentato. La luce ora era intensa. Doveva essere
mattino inoltrato. Quel maledetto era sempre lì. Sempre con quella
balestra rivolta verso di lui. Ma non si stancava mai? Come poteva
essere stato tante ore immobile a sorvegliarlo? Quale misteriosa
disciplina poteva dargli tanta forza? Brook era frastornato. Con chi
aveva a che fare? E cos’era accaduto quella notte?
Doveva assolutamente scoprirlo e si rese conto che non avrebbe potuto
restare ancora a lungo in quella posizione di scacco. Era un uomo
coraggioso e decise che era giunto il momento di rischiare il tutto per
tutto.
Lentamente, in assoluto silenzio, fece scivolare la sua mano lungo il
bordo del bracciolo. Impiegò alcuni lunghissimi minuti a trovare ed
afferrare il bicchiere che l’aveva drogato. Avrebbe avuto una sola
occasione e non poteva farsela sfuggire. Prese attentamente la mira, e
calcolò con precisione tutti i movimenti che gli avrebbero permesso di
saltare addosso al suo misterioso guardiano.
Improvvisamente scattò: lanciò il bicchiere verso la punta della
balestra e si scagliò giù dalla poltrona. Vide il calice infrangersi e
la balestra cadere. Esultò selvaggiamente e balzò contro il misterioso
individuo, deciso ad abbatterlo.
Si schiantò contro il muro.
Riprese conoscenza dopo un tempo indefinito. Era sdraiato fra cocci di
cristallo. Poco più in là c’era la balestra. La tenda che aveva
mascherato il suo guardiano era parzialmente abbattuta e le punte degli
stivali continuavano a spuntare da sotto di essa. Finalmente comprese.
Il misterioso individuo che lo aveva vegliato tutta la notte era un
paio di vecchi stivali e una balestra appoggiata sul davanzale.
Una violentissima e roboante salva di bestemmie echeggiò per il palazzo
dell’eccellentissimo signor Brook.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Capitolo 12: fuga
Algernon era rientrato a casa di cattivo umore, la sera prima. La cena
col suo figliolo era stata funestata dalle continue chiacchiere di
Robert che gli aveva raccontato una serie di storie di assassini da far
accapponare la pelle. Le aveva lette in un libro sul culto di Dhela
trovato in casa del suo padrone e si era evidentemente impressionato a
tal punto da raccontargli tutto quell’orrore per tutta la sera. Per
fortuna, almeno aveva avuto il buon senso di chiedere al suo padrone il
permesso di leggere quel libro.
Una marea di sciocchezze.
Insomma…
Comunque, appena tornato a palazzo, si era chiuso nella sua stanza a
doppia mandata. Qualunque cosa fosse accaduta quella sera, Algernon non
avrebbe osato uscire dalla sua camera e, sebbene avesse fatto molta
fatica ad addormentarsi, dormì fino ad un’ora alquanto tarda, per le
sue abitudini.
Quando si alzò, si rese subito conto che il sole era alto e si affrettò
ad incominciare le sue consuete attività mattutine, sperando che il suo
padrone non si fosse accorto del suo imperdonabile ritardo.
Fortunatamente, pareva che il signor Brook non si fosse ancora
svegliato, sicché Algernon cominciò a sperare di averla fatta franca.
Ad un tratto, udì un tonfo proveniente dalle stanze del signor Brook.
Si aspettò di essere chiamato ma non ci furono altri rumori per alcuni
minuti, dunque, il maggiordomo si avvicinò alla studio del suo padrone,
da dove gli sembrava fosse giunto il rumore.
«Signore? Avete bisogno di qualcosa?».
Non ci fu risposta. Algernon tese l’orecchio ma non riuscì ad unire
alcun rumore. Attese ancora un po’, poi ritenne di non dover dare peso
alla cosa e riprese le sue occupazioni.
Quando, circa dieci minuti dopo, la voce del suo padrone lo
raggiunse, recando con sé parole delle quali l’anziano maggiordomo non
si sognava neppure l’esistenza, Algernon si sentì morire.
Se lo vide piombare addosso col volto sconvolto di rabbia, gli abiti
sgualciti come se ci avesse dormito dentro, un bernoccolo come un uovo
di gallina sulla fronte.
«Dormivi eh? Vecchio fannullone! E quegli altri idioti che dovrebbero
vegliare su questa casa che diavolo fanno? Per gli Dei, stavolta vi
sbatto tutti in mezzo ad una strada!».
Algernon non riusciva a spiegarsi come il signor Brook si fosse accorto
del suo ritardo. La sua voce balbettò nel formulare un tentativo di
scuse. L’idea di poter essere ignominiosamente licenziato lo
terrorizzava più dei pugni serrati del suo padrone.
«Ah maledetto! Osi accampare scuse? Ma questa me la paghi, schifosa
mummia! Levati dai piedi, immediatamente!».
Un violento pugno colpì in pieno volto l’anziano servitore,
scaraventandolo contro la parete e lasciandolo privo di sensi, col viso
coperto di sangue. Brook non se ne curò e si precipitò alla stanza del
tesoro.
Appena dentro, vide il passaggio segreto ancora spalancato e si sentì
raggelare. Cosa aveva osato fare quel maledetto ladro? Accese la
lampada ad olio, chiuse la porta e scese rapidamente giù nei
sotterranei. Il silenzio assoluto che vi regnava gli fece temere il
peggio. Sguainò la spada e avanzò con prudenza.
Nel magazzino c’erano segni di lotta ma il mercante non fu in grado di
capire esattamente chi avesse prevalso. Febbrilmente, esplorò il
dormitorio e la sala delle forge, senza trovare nessuno. Non riusciva
assolutamente a capire cosa potesse essere accaduto. L’unica cosa certa
era che Sfi’Hak e i suoi schiavi erano scomparsi senza lasciar traccia.
Fuggiti? Catturati? E da chi?
Blackwind, certamente; e chi altri, ancora? Non poteva certamente aver
messo fuori combattimento da solo un mago come Sfi’Hak e quattro nani
grigi armati fino ai denti.
Tornò nel magazzino. Lo scrittoio era stato forzato. Erano scomparsi
alcuni documenti che avrebbero potuto diventare pericolosi se fossero
caduti in mani sbagliate. Cominciò a sentirsi perduto. Voleva fuggire.
Sì, fuggire era la soluzione migliore. Era ricco. Dovunque fosse andato
avrebbe saputo rimettere in piedi la sua attività, almeno per quanto
riguardava le armi normali. E quella sera, sarebbe dovuta partire una
nave diretta verso sud, col carico di opere d’arte che nascondevano le
armi di contrabbando. Decise in fretta. Su quella nave sarebbe salito
anche il ricco e rispettato (almeno fino ad allora) signor Brook.
Ma c’erano diversi problemi da risolvere. Senza i nani, portare le
statue e le anfore piene di armi nella stanza del tesoro, sarebbe stata
un’impresa improba. Aveva bisogno di alleati che non lo potessero
tradire. Poi c’era da chiedersi quanto tempo gli sarebbe restato prima
che la lettura di quei documenti da parte di uno dei senatori
scatenasse le guardie sulle sue tracce. E, infine, voleva farla pagare
a quel maledetto Blackwind.
Scacciò i propositi di vendetta. La situazione stava precipitando e non
c’era tempo per le rivincite. Ora doveva salvare il salvabile, poi, una
volta al sicuro, avrebbe pensato al resto. L’importante era riuscire ad
imbarcarsi quella sera.
Bisognava organizzare le cose per bene. Si sedette allo scrittoio,
cercando di riflettere con calma. Soffocò la rabbia, tentò di
rilassarsi. Lentamente, sentì di stare riacquistando lucidità. Rimase
quasi due ore a pensare alle varie possibilità, cercando di ponderare
bene i vantaggi e gli svantaggi di ogni soluzione.
Infine scelse il piano che riteneva più sicuro. Non c’era da farsi
scrupoli di alcun genere. Era in ballo tutto quello che aveva
realizzato in quegli anni. Avrebbe chiesto aiuto ai marinai della nave
contrabbandiera. Sarebbero salpati con lui, dunque non sarebbero stati
in grado di rivelare alcunché ad estranei. Per maggior precauzione si
sarebbe procurato un lasciapassare che gli avrebbe garantito qualche
ora d’impunità, oltre a distrarre le guardie. Non avrebbe certamente
più potuto metter piede a Elosbrand ma almeno avrebbe avuto la
possibilità di ricominciare altrove.
Tornò nella stanza del tesoro. Chiuse il passaggio segreto e si diresse
verso il museo. Lanciò un’occhiata distratta al punto dove aveva
lasciato il vecchio maggiordomo. Non c’era. Solo una macchia di sangue
sul muro ricordava cos’era accaduto. Non se ne curò. Quel vecchio
idiota poteva andarsene al diavolo. Ora gli sarebbe stato solo
d’impaccio.
Si cambiò e ripulì, gettò un mantello sulle spalle e uscì, ignorando il
guardiano al portone che lo salutava deferente. Probabilmente non si
era accorto di nulla di quel che era accaduto durante la notte.
Certamente non s’immaginava che quello sarebbe stato il suo ultimo
giorno di lavoro.
***
Una figura incappucciata si avvicinò con passo malfermo al palazzo di
Lord Bailey Windström. Non c’era nessuno, nei pressi. Lentamente, come
trascinandosi a malapena, raggiunse il portone e sollevò il battente
con enorme fatica. Lo lasciò ricadere e scivolò al suolo, rotolando
poco davanti al portone.
Una voce limpida risuonò poco dopo.
«Chi bussa?».
Non si udì risposta.
«Ehi? Chi bussa?».
Lo spioncino si aprì. Qualcuno guardò fuori, senza vedere nessuno. Il
portone venne spalancato e un giovane in splendida livrea da
maggiordomo uscì dal palazzo. Sobbalzò nel vedere la figura accasciata
al suolo, sui gradini lì accanto. Corse a soccorrere quello sconosciuto
e gli tolse il cappuccio per vederlo in volto. Sbiancò.
«Padre! Cosa vi è successo?».
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Capitolo 13: rapimento
Era passato mezzogiorno e Lord Bailey dormiva ancora. Robert esitava,
davanti alla porta della camera del suo padrone. Era pallido, agitato.
Il suo autocontrollo e la sua professionalità si erano sciolti come
neve al sole di fronte al viso ferito del suo anziano padre. Aveva
urgente bisogno di parlare col suo padrone per accompagnare il genitore
da chi avrebbe potuto curarlo. Però esitava. In realtà, Lord Bailey era
sempre stato estremamente gentile e disponibile, trattandolo come un
suo pari e non come un sottoposto. Eppure, l’educazione lo tratteneva
dal bussare a quella porta.
Un passo nel corridoio lo fece voltare. Era Calyon, scuro in volto, che
aveva appena finito di parlare con il malconcio Algernon.
«Robert, che fai? Lo svegliamo o no?».
«Non so, signore… Milord dorme… mi dispiace svegliarlo».
«Ma che scherzi? Ci penso io».
Il cacciatore spalancò la porta della camera.
«Sveglia, marmotta!».
Il letto era disfatto e vuoto. La punta di una spada si appoggiò al suo
fianco.
«Accidenti a te, Calyon! Ma che vi viene in mente di stare dietro la
porta a cospirare? Per poco non ti ho fatto male, pensavo ci fosse
qualcuno con brutte intenzioni».
La voce di Lord Bailey aveva un tono divertito che contrastava con
l’esasperazione delle sue parole. Il gentiluomo, sorrideva ma nel
vedere il viso del suo amico, prima e quello di Robert poi, si fece
subito serio.
«Cosa è successo? Qualcosa di grave?».
«Hanno picchiato il padre di Robert. È stato quel bel campione di
Brook. Credo che quella famosa partita sia ancora aperta».
«Cosa? Robert, racconta tutto».
Il giovane maggiordomo non si fece pregare e riferì come aveva trovato
suo padre subito fuori dal portone e come questi si era trascinato in
cerca del figlio, dopo l’aggressione subita a opera del suo padrone.
Lord Bailey ascoltava con estrema attenzione mentre si rivestiva
rapidamente.
«Come sta tuo padre?».
«Non sembra una ferita grave, milord, ma è anziano e sarebbe meglio che
qualcuno più esperto di me gli desse un’occhiata».
Calyon intervenne.
«Elowen è già andata al tempio di Mirpas. Stai tranquillo che tornerà
qui con un guaritore».
«Meglio così. Gli eviteremo inutili strapazzi. Ascolta Robert: stai
vicino a tuo padre e fidati di me. Assecondatemi entrambi, qualsiasi
cosa io faccia o dica, e tuo padre entro domani avrà giustizia e una
bella ricompensa».
«Ho piena fiducia in voi, milord. Farò come dite».
Lord Bailey era già vestito di tutto punto. Prese il bastone, si gettò
un elegante mantello sulle spalle e si diresse verso la porta.
«Andiamo Calyon. Brook avrebbe potuto cavarsela con relativamente poco
ma pare che sia in cerca di guai. E noi lo accontenteremo».
«Dove andiamo?».
«Intanto a fare una passeggiata dalle parti del palazzo di Brook. Poi
vedremo».
Venti minuti dopo, i due amici erano davanti al palazzo del mercante
d’arte, mescolati alla gente che affollava le vie della città. Lord
Bailey si avvicinò e scambiò alcune parole con la guardia che
sorvegliava il portone del palazzo. Un attimo dopo tornò da Calyon con
aria pensierosa.
«Brook è uscito e non è ancora rientrato. Mi chiedo cosa stia
macchinando. Aggredire così quel bravuomo! Roba da autentici
vigliacchi».
«Algernon sostiene di non averlo mai visto così fuori di sé».
«Beh, questo posso capirlo, gli abbiamo mandato all’aria i traffici.
Vorrei solo capire dov’è andato».
«Magari è scappato».
«Eh, scappato. Uno così scappa portandosi dietro mezza casa, mica solo
quel che ha addosso… Sei un genio!».
«Che?».
«Ma certo. Ora credo di sapere dov’è il nostro amico. Vieni con me,
dobbiamo cambiar faccia per un po’».
Un’ora dopo, un vecchio marinaio sciancato arrancava sostenendosi a un
bastone nelle stradine del porto, diretto verso il molo. Accanto a lui
c’era un altro marinaio decisamente più giovane dal passo sicuro ma che
pareva decisamente a disagio. Il vecchio faceva fatica a seguire il
compagno.
«Ehi, rallenta, giovinastro!».
«Ma era necessaria questa mascherata?».
«Sì, se non vogliamo dare nell’occhio. Siamo quasi arrivati».
«Sei sicuro che la nave sia quella che dici tu?».
«Dalle carte che ho letto, direi proprio di sì, comunque, ce ne
accerteremo presto. Vediamo, dovrebbe essere la Lanterna Gialla».
Indicò una nave dalle forme massicce, equipaggiata come se stesse per
salpare da un momento all’altro. C’era molto movimento di uomini sulla
tolda e sul sartiame. Evidentemente si stavano terminando i preparativi
per la partenza. Sul molo, un paio di falconi[9] caricavano a bordo
alcune casse che venivano scaricate da un carro fermo lì vicino.
A un tratto, i due amici videro scendere dalla nave il rispettabile
signor Brook che si muoveva guardingo, come se temesse un pericolo.
Quattro marinai lo seguirono e si diressero verso un carro. Il vecchio
marinaio li osservò attentamente.
«Guarda che ceffi! L’equipaggio ideale per una banda di
contrabbandieri. Scommetto di sapere dove vanno».
Calyon sorrise.
«A prendere le armi rimaste nei sotterranei. A questo punto è chiaro.
Mi chiedo se partirà anche Brook».
«Fossi in lui lo farei senz’altro. Troppo grande il rischio che le
carte che gli ho sottratto finiscano in mani sbagliate. E questa è
l’ultima nave che possa fare un viaggio abbastanza lungo da portarlo
fuori dai guai».
«E ora che si fa?».
«Cerchiamo di scoprire quando leveranno l’ancora. Anzi, fallo tu. Io
devo correre da un vecchio amico».
Rapido come un gatto, il marinaio sciancato sparì in uno dei vicoli del
porto, lasciando l’amico a osservare pensieroso la nave e il suo
indaffarato equipaggio.
Un’ora dopo, un Lord Bailey Windström particolarmente elegante si
presentava al quartier generale della Guardia di Elos. Al piantone di
guardia chiese di poter parlare col capitano Tyron, della seconda
compagnia.
Tyron non amava particolarmente i tipi come quel damerino che aveva già
conosciuto in alcune occasioni e che gli stava alquanto antipatico. Ma
era un personaggio di rango sarebbe stato scortese e poco prudente non
riceverlo. Inoltre, le cose che quel tipo era venuto a sapere da un
vecchio maggiordomo gli parvero decisamente interessanti. Gli rivolse
alcune domande per meglio capire la situazione, poi decise che era
effettivamente il caso di intervenire, possibilmente subito.
Proprio mentre stava per congedare Lord Bailey, il capitano vide
irrompere nella sua stanza un sottufficiale di proporzioni quasi
gigantesche. Era il sergente Burt “ogre” Waster, noto a tutta Elosbrand
per la sua arroganza e avidità e per la scarsa dotazione intellettuale.
«Sergente Waster! È questo il modo di presentarsi a un superiore? Non
vi hanno insegnato a bussare?».
«P-perdonate c-capitano. È una cosa urgente e gravissima. La signorina
Irlentree è scomparsa!».
[9] Strumenti per sollevare pesi, simili alle gru, manovrati da argani
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Capitolo 14: rivincita
La nave veleggiava placidamente nel chiarore mattutino, la prora
rivolta a nordest, sfruttando la brezza fresca che soffiava da ovest,
increspando lievemente la superficie azzurra del mare. Il capitano
Stark guardava con l’affetto di un padre verso la propria creatura, le
vele gonfie di vento e il sartiame teso fin sulla cima degli alberi.
Era un uomo alto e robusto, dai lineamenti gradevoli e dai modi
leggermente arroganti. Quel genere di arroganza che fa perdere la testa
alle donne. E di ciò era particolarmente fiero.
Ancora poche ore e avrebbero rivolto la rotta decisamente verso
occidente. Se il tempo non fosse cambiato, e tutto faceva presagire che
non sarebbe accaduto, entro una settimana sarebbero arrivati in vista
di Nolarbar, il grande porto dell’isola di Soltë, la più grande delle
isole orientali. E finalmente si sarebbe liberato della passeggera.
Nulla contro le donne, per carità. Soprattutto se sono belle e pagano
bene. Però sulla terraferma. A bordo portano sventura. Anche se pagano
bene e sono belle.
Guardò, oltre la murata di babordo, la linea sottile della terraferma
che si allontanava lentamente. Presto si sarebbero visti i primi picchi
dei monti del Kaardir e quello sarebbe stato il segnale di volgere la
rotta verso oriente. Anche perché costeggiare quella regione poteva
essere decisamente poco igienico.
«Buongiorno, capitano».
Una voce dolcemente musicale lo fece voltare. Beata Telgëa, com’era bella! Un
corpo perfetto avvolto da una splendida veste di seta verde, un ampio
spacco della quale mostrava una gamba perfettamente tornita, inguainata
in una calza di seta che spariva dentro un elegante stivaletto appena
sopra la caviglia. Il viso era splendido, con lineamenti regolari, una
bocca sensuale e altera, due occhi nerissimi e ammalianti, una cascata
di splendidi capelli d’oro.
Il capitano Stark dimenticò immediatamente tutte le superstizioni
marinare e pregò ardentemente che quel viaggio potesse durare ben più
di una settimana e, magari, trasformarsi in qualcosa di estremamente
piacevole.
«Bu-buongiorno milady. O-onoratissimo di avervi a bordo della mia nave.
Sono il capitano Stark e sono completamente al vostro servizio».
Il capitano, che aveva già un paio di mogli in porti diversi, avrebbe
voluto aggiungere “anima e corpo” ma temette di essere troppo audace e
giocarsi stupidamente un’occasione straordinaria. Il tempo non gli
sarebbe mancato e avrebbe avuto tutte le possibilità di mettere a
frutto i suoi talenti seduttivi.
«Grazie, capitano. È un… piacere conoscervi. Sono Lady Lavinia
Florence».
Il capitano la guardò perplesso. Si sbagliava, o aveva sottolineato la
parola “piacere”?
«Il piacere è mio, milady. Spero che questo viaggio possa essere di
vostro gradimento».
«Sono certa che voi abbiate tutte le qualità per rendere decisamente…
piacevole questo viaggio».
Il tono della parola “piacevole” e lo sguardo della ragazza lasciavano
decisamente poche possibilità d’equivoco e il signor Stark si sentì
girare la testa, mentre i suoi ormoni si distribuivano impetuosamente
in ogni recesso del suo corpo.
«Spero che la cabina sia di vostro gradimento, milady».
Ormai era in ballo, decise di lanciare l’amo e vedere se l’impressione
che l’atteggiamento di quella splendida donna gli aveva dato era
corretta o se si stava facendo pericolose illusioni. L’istinto (o la
vanità) gli diceva che la ragazza stava provando a sedurlo e lui non
intendeva opporre troppa resistenza se davvero era lei a condurre il
gioco.
«Oh, capitano, è veramente splendida. Però, ora che me lo chiedete, c’è
un cassetto che non si apre… potreste aiutarmi?».
Abbocca!
Il capitano Stark era già al settimo cielo. Raggiunse l’ottavo quando
sentì cingersi la vita dal braccio della giovane splendida dama che lo
condusse verso il castello di poppa. Precipitò nel più profondo degli
abissi quando, appena entrati nella cabina, si accorse che il suo
pugnale era nella mano della donna e premeva pericolosamente contro il
suo pomo d’Adamo.
«Che pena voi uomini. Uno sgonnellìo, un po’ di moine e non capite più
nulla. Ora, mio affascinante capitano, farete calare a mare la lancia e
mi farete l’onore di scortarmi a riva. Senza scherzi o la vostra
carriera di seduttore e di marinaio troverà una fine ingloriosa».
Era sempre bellissima ma la crudeltà del suo sorriso e la durezza della
voce non lasciavano adito a dubbi sulle capacità di quella donna di
mettere in pratica le sue minacce.
Mezzora dopo, una lancia con a bordo il capitano e la bellissima dama
si staccava dalla nave, rapidamente messa all’ancora, seguita dagli
sguardi perplessi di quasi tutto l’equipaggio.
L’agile imbarcazione toccò terra un’ora dopo e il capitano Stark, rosso
di sudore e di un misto fra ira e umiliazione, guardò la sua passeggera
gettare una borsa sulla spiaggia e scendere con un balzo felino.
«Buon viaggio, capitano. Vi assicuro che questo è stato il viaggio per
mare più… piacevole della mia vita. Come amante non so come siate ma,
come rematore, avete un futuro».
Il furente capitano Stark riprese a remare, senza dire una parola,
allontanandosi dalla riva con formidabili colpi di remo, resi ancor più
efficaci dal furore che gli torceva le viscere.
Le donne, a bordo, portano sventura.
Non aveva più alcun dubbio. Non ne avrebbe accettate mai più sulla sua
nave, nemmeno se l’avessero coperto d’oro.
Ovviamente, l’idea di essere stato di una stupidità disarmante non gli
passo neppure un attimo per la mente.
La ragazza lo guardò allontanarsi, poi prese la borsa e si diresse
verso l’interno. Dopo un centinaio di metri si fermò e tagliò la gonna
col pugnale, scoprendo entrambe le splendide gambe e guadagnando una
maggiore libertà di movimento. Si allontanò verso le colline con passo
fermo e rapido. Il pugnale assicurato in vita e un sorriso gioioso
sulle labbra sensuali. Solo gli occhi erano duri e spietati come
l’acciaio.
Non temeva affatto quelle campagne selvagge. Difficilmente avrebbe
incontrato qualcuno o qualcosa più pericoloso di lei. La chiamavano Oleandro Nero, il fiore bellissimo
e letale. Camminò ore senza minimamente fermarsi, sempre avvolta in
quegli abiti ingombranti ma che avrebbero spinto eventuali predoni a
tener bassa la guardia davanti a una ragazza bella e sola, a spasso
sulle colline.
Si fermò in un piccolo villaggio per mangiare qualcosa e cercare di
procurarsi una cavalcatura. L’oro, grazie a quell’odioso individuo che
l’aveva beffata, non le mancava. Riuscì a rifocillarsi ma nessuno
possedeva animali di taglia superiore a quella di una pecora. Rinunciò
e riprese la marcia.
A metà del pomeriggio due briganti (o, forse, solo due contadini
ubriachi) l’avvicinarono con apprezzamenti pesanti e, visto che lei non
li considerava nemmeno di striscio, tentarono di metterle le mani
addosso. Caddero in pochi secondi, con la gola squarciata da due colpi
di quel pugnale che quella splendida creatura adoperava con veramente
rara rapidità ed efficacia.
Al tramonto, le mura di Elosbrand si stagliarono davanti ai suoi occhi
freddi e determinati. Mezz’ora dopo entrava in città, diretta verso il
quartiere nobiliare.
Era l’ora della rivincita.
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Capitolo 15: caccia
Quella notizia lo aveva completamente colto di sorpresa. Si immaginava
che Brook sarebbe scappato cercando di portarsi dietro la maggior parte
delle proprie ricchezze e il carico d’armi, ma non aveva minimamente
pensato alla ragazza. Perché Lord Bailey non aveva dubbi su chi fosse
il responsabile di quella sparizione, né su come questa fosse avvenuta.
Erano ben altre le domande che si poneva. Brook aveva rapito la ragazza
o quella l’aveva seguito spontaneamente? Era una complice od un
ostaggio? Od entrambe le cose?
In ogni caso, rivelare al capitano Tyron quel che sapeva sul passaggio
sotterraneo sarebbe stato come consegnarsi spontaneamente alle guardie.
Come poteva conoscere tali particolari?
Il giovane elfo che, nei panni di Lord Bailey, stava rapidamente
percorrendo le strade affollate di Elosbrand non smetteva un attimo di
riflettere sugli ultimi avvenimenti.
L’unica cosa certa era che quella ragazza, complice o vittima, avrebbe
legato le mani alle guardie di Elos.
Si era illuso di non dover intervenire di persona ma si rendeva conto
di non avere molta scelta. A meno di non lasciare che Brook la facesse
franca. Cosa da non prendere nemmeno in considerazione, soprattutto
dopo quel che era accaduto al padre di Robert.
Giunse al proprio palazzo in preda a un’agitazione insolita per un tipo
calmo come lui. Doveva scoprire immediatamente dove Brook poteva aver
condotto la ragazza. Certamente non direttamente alla nave, né era
verosimile che il mercante si fosse trattenuto a lungo nel sotterraneo,
dal momento che poteva essere oggetto di un’irruzione da parte delle
guardie. Si rimproverò duramente per non aver esplorato quel passaggio
fino in fondo. Quasi sicuramente doveva esserci un’altra uscita. Il
problema era riuscire a capire dove portasse. Provare a tornare nel
passaggio sotterraneo sarebbe stato assai pericoloso, senza considerare
il fatto che il mercante doveva averne bloccato l’apertura, a
meno di non essere uno stupido totale.
Varcato il portone, incontrò subito Robert che lo rassicurò sulle
condizioni dell’anziano padre. Di Calyon nessuna notizia. Salì nel suo
studio e si dedicò a esaminare numerosi volumi e pergamene che
trattavano della città e la sua storia.
Due ore dopo era pomeriggio inoltrato, conosceva a memoria l’intero
quartiere nobiliare ma non aveva la minima idea su dove potesse essere
nascosto Brook.
Adesso calmati. Rifletti. Cosa sai di
sicuro? Che Brook si imbarcherà sulla “Lanterna Gialla”. Quasi
certamente stasera. Dunque è assolutamente necessario trovare dov’è
ora, se sai dove sarà più tardi? La ragazza, consenziente o no, non
corre pericoli di alcun genere perché se è complice, lui non le torcerà
un capello, se l’ha rapita per usarla come ostaggio, le serve viva
almeno fino a quando non saranno bene al largo.
Lentamente, la calma cominciò a tornare nell’anima del giovane elfo. La
calma e la sua consueta freddezza. L’unico punto fermo della questione
era la nave e da lì avrebbe dovuto partire. Bisognava vedere se, e
come, era possibile fermare Brook poco prima del suo imbarco. Una volta
a bordo, gli sarebbe sfuggito, forse per sempre.
Si preparò all’azione, indossando gli eleganti abiti neri che gli
permettevano di nascondersi meglio nell’oscurità e il magico mantello
degli elfi, capace di renderlo quasi completamente invisibile. Cinse la
splendida spada che aveva trovato nella fucina di Brook e calzò il
cappello a larghe tese che gli manteneva in ombra il volto. Rimpianse
di non poter avvertire i suoi amici, anche se manteneva la speranza di
poter trovare Calyon nei pressi della “Lanterna Gialla”.
Un quarto d’ora dopo era già nella zona del porto.
***
Rimasto solo, Calyon cercò di capire se fosse possibile avvicinare
qualcuno dei marinai della “Lanterna Gialla”. A prima vista parevano
indaffarati come api ma il cacciatore elfo individuò rapidamente un
paio di marinai che parevano cercare ogni scusa possibile per evitare
il lavoro. Quando erano di turno ai “Falconi”, giravano l’argano con
poca lena e i carichi rallentavano visibilmente. Spesso fingevano di
essere stati chiamati da qualcuno e sparivano per interi quarti d’ora a
bordo della nave. Addirittura, uno dei due, che si era attardato una
buona mezzora, fu scaraventato sul molo dal nostromo infuriato. Dalle
urla che lo accompagnarono, comprese che il suo nome era Jack Oblomov.
Bene, bene. Questo ha l’aria di essere proprio il tipo adatto.
Rapidamente, Calyon raggiunse la taverna più vicina e acquistò una
fiasca di rum. Poi tornò nei pressi dell’argano, dove il marinaio, con
aria afflitta, sbuffava spingendo la ruota alla velocità minima che
poteva mantenere senza incorrere nelle ire del nostromo. Passò una
buona mezzora, durante la quale Oblomov parve patire pene infernali
mentre spingeva la barra dell’argano sotto l’occhio attento e malevolo
del suo aguzzino.
Finalmente, un altro marinaio giunse a dare il cambio al poco
industrioso collega che si diresse con passo lento verso il molo, con
l’evidente intento di andare a riposarsi da qualche parte.
«Un goccio?».
L’esausto marinaio guardò estasiato la paradisiaca visione di una
fiasca di rum che gli veniva agitata davanti al naso, il quale fremette
nel percepire l’aroma proveniente dal collo stappato. Non ebbe dubbi
che la persona che gli offriva quell’insperato ristoro dovesse essere
la migliore e più generosa di tutta la costa.
«Grazie, amico, mi stai salvando la vita!».
«Prendi e ristorati, vecchio mio. Ho visto che quel brutto arnese non
ti ha perso di vista un attimo. Ne hai proprio bisogno, dopo tutta
quella fatica».
Il marinaio si attaccò alla fiasca e trasse due lunghi sorsi, prima di
staccarsene con aria decisamente soddisfatta.
«Grazie davvero, amico. Ma ci conosciamo?».
«Per le squame di Ascaris! Certamente, Jack! Sono il cugino del vecchio
Fred!».
Ora, Fred non era esattamente un nome insolito da quelle parti e il
marinaio ne passò in rassegna una mezza dozzina nella sua mente
esausta, prima di riconoscere che, in fondo, non gli importava un
accidente di chi mai fosse quel tizio. L’importante era continuare a
svuotare quella fiasca.
«Ah, certo! Sta bene quel vecchio furfante?».
«Benissimo. Bevi, amico mio, anzi, perché non festeggiamo l’incontro in
quella taverna? Ti offro un’altra bottiglia».
Oblomov guardò la fiasca, il suo interlocutore e l’argano del Falcone
che girava di buona lena, spinto dal marinaio che gli aveva dato il
cambio. Decise in un attimo.
«Ottima idea. Questo è un incontro che va festeggiato».
Un’ora dopo, Oblomov era ubriaco fradicio e Calyon sapeva che la
“Lanterna Gialla” doveva salpare quella sera, a notte fonda. Al massimo
prima dell’alba. A bordo erano attesi passeggeri di riguardo e, dopo
cena, si sarebbero caricate delle casse di opere d’arte delicatissime
che avrebbero dovuto essere trasportate alla nave da un magazzino nei
pressi del porto.
Lasciò il marinaio ubriaco al tavolo, pagò il conto e si diresse verso
la parte settentrionale della zona portuale, dove si sarebbe dovuto
trovare il magazzino in questione. Era quasi il tramonto, sicché
immaginò che stessero per cominciare le operazioni di carico delle
armi. Sarebbe bastato trovare un magazzino che veniva svuotato a
quell’ora insolita. Poco dopo, era ragionevolmente certo di averlo
trovato, avendo riconosciuto il nostromo. Il sole tramontava proprio
allora.
***
La guardia sentì bussare al portone e aprì lo spioncino. Era buio ma le
due torce accese davanti al portone illuminavano abbastanza la figura
davanti all’ingresso da permetterle di rendersi conto che si trattava
di una donna. Probabilmente giovane. Non era la prima volta che il
padrone di casa riceveva simili visite serali, però, quella sera, il
signor Brook non era ancora rientrato. La guardia aprì il portone e
verificò che era veramente una giovane donna di rara bellezza. Ed era
lì per conferire con il signor Brook. Conferire,
come no?
L’uomo sospirò e spiegò alla giovane che il signor Brook non era in
casa e che no, non c’era nemmeno il suo maggiordomo, anzi, il palazzo
era deserto e che no, non poteva assolutamente farla entrare.
Lo sguardo dell’uomo era completamente perso nello scollo generoso
della sconosciuta, dunque non vide il pugnale che lei gli appoggiò
sulla gola, se non quando sentì il gelo della lama.
«Il signore non è in casa? Bene, ci divertiremo noi due, allora. Vuoi
farmi entrare o devo proprio ucciderti?».
La guardia ubbidì tremando e fece entrare la donna, cercando di tenere
il collo staccato dal coltello della sconosciuta. Questa, una volta
entrata nell’ingresso del palazzo, colpì decisamente il poveretto sotto
la cintura, inducendolo a piegarsi. Un attimo dopo, l’elsa del pugnale
piombò violentemente sulla nuca dell’uomo che cadde al suolo,
incosciente.
La giovane donna aprì la porta dello stanzino delle guardie e controllò
che fosse deserto, poi vi trascinò il corpo esanime dell’uomo e lo
chiuse dentro a doppia mandata, dopo averlo spogliato delle armi.
Non conosceva bene il palazzo ed impiegò una mezzora a trovare le
stanze di Brook, al piano superiore. Si mise a frugare fra le carte con
somma pazienza, senza trovare nulla di veramente indicativo. Nessun
appunto su quel maledetto individuo. Solo un’annotazione: “Lanterna
Gialla”. Cosa poteva essere?
Rifletté con calma. Una taverna? Un segnale? Una nave? Conosceva la
maggior parte delle taverne della città ma non ricordava di averne
vista una con quel nome. La cosa più facile era che si trattasse di una
nave. Non aveva alcun’altra traccia, dunque doveva seguire questa.
Lasciò silenziosamente il palazzo, diretta verso il porto.
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Capitolo 16
Capitolo 16: la beffa
Il nostromo pareva decisamente alterato e passeggiava su e giù per il
magazzino, brontolando rumorosamente. Era un uomo massiccio, non molto
alto, dai radi capelli biondi che andavano sempre più ingrigendo. Il
volto, dalla carnagione giallastra denotava chiaramente il suo pessimo
umore: le folte sopracciglia erano aggrottate e gli occhi piccoli erano
ridotti a fessure.
Il comandante della “Lanterna Gialla” lo osservava perplesso, spostando
spesso lo sguardo sugli altri marinai che parevano appoggiare le tesi
del sottufficiale. Era un uomo alto e magro, dai lineamenti affilati
che ricordavano un po’ una faina. Le argomentazioni del nostromo non lo
avevano affatto convinto e l’oro promesso da Brook lo allettava ma si
rendeva conto di essere in una posizione difficile.
Seduto su una cassa, lì nei pressi, Brook era furente. Paonazzo in
volto, lanciava sguardi irati alla ciurma e alla giovane donna che,
pallidissima, sedeva con le mani giunte e gli occhi bassi accanto a lui.
«Le donne a bordo portano disgrazia. Il comandante siete voi ma io devo
ricordarvelo capitano, giacché parete essere accecato dal miraggio
dell’oro. In fondo al mare l’oro non serve!».
Il nostromo si rivolgeva al suo capitano, forte dell’appoggio della
maggior parte della ciurma, composta da marinai coraggiosi e senza
scrupoli ma profondamente superstiziosi.
«Maledetto gallinaccio, lo volete capire che questa ragazza è il nostro
lasciapassare più sicuro?».
«Signor Brook, cercate di ragionare. Il nostromo parla a nome
dell’intero equipaggio e non mi sembra un buon viatico per la nostra
spedizione partire con tanto malumore a bordo».
Le parole pacate del capitano incoraggiarono il nostromo che si
affrettò a sottolineare le sue convinzioni.
«Signor Brook, finché si tratta di opere d’arte o merci di
contrabbando, non mi interessa affatto cosa portate a bordo della
nostra nave. Ma, se si tratta di donne, io non posso stare zitto. Le
sottane devono stare sulla terraferma. Anche se sono belle!».
«Ma lo sapete quanto sarebbe disposto a pagare il padre di questa
ragazza, per riaverla? Io dico almeno ventimila monete d’oro. E, se ve
lo dico io, potete crederci!».
A queste parole, la giovane impallidì ulteriormente, guardando con
occhi sgranati quello che aveva creduto un appassionato spasimante e
che, invece, la aveva portata via dalla sua casa con la violenza.
«E, di grazia, perché proprio ventimila?».
Tutti si voltarono. Dal fondo del magazzino un’elegante figura vestita
di nero avanzava con passo fermo, nella voce una nota beffarda.
Brook balzò in piedi.
«Blackwind! Prendetelo! Duemila monete d’oro a chi lo cattura!».
«Fermi!». La voce di Blackwind tuonò autoritaria nell'ampio locale,
fermando un attimo i marinai, mentre lui continuava ad avvicinarsi
tranquillamente.
«Capitano, permettete che mi presenti. Mi chiamano Blackwind, passavo
da queste parti e non ho potuto fare a meno di udire le voci sommesse
del vostro nostromo e del signor Brook…».
Qualcuno dei marinai sghignazzò, considerando il gran vociare che
avevano fatto quei due fino ad allora.
«… Mi dispiace tanto sentir litigare due personcine così ammodo, dunque
ho pensato che ci sarebbe una soluzione per togliervi da queste
ambasce».
«Cosa intendete dire?».
«Che compro io la ragazza. Qui e ora. Così potrete imbarcarvi senza
altre preoccupazioni».
La giovane Irlentree, a quelle parole, parve rianimarsi e cominciò ad
osservare quello sconosciuto con estrema attenzione e trepidazione. Era
la salvezza o un destino ancora peggiore? Il capitano trasecolò.
«State scherzando?».
«Affatto. Signor nostromo, avete la bontà di avvicinarvi?».
Il nostromo guardò il suo comandante che annuì con il capo, poi guardò
Brook che pareva volerlo incenerire con lo sguardo, dunque sorrise
soddisfatto e si avvicinò allo sconosciuto.
«Vi intendete di pietre preziose, immagino».
«Un po’…». Rispose il marinaio, intimidito.
«Bene, cosa mi dite di questo rubino?».
Nella mano inguantata di Blackwind era comparso, come per magia,
l’Occhio della Regina, il favoloso rubino sottratto a Brook. Il
nostromo impallidì e si avvicinò per guardarlo meglio.
«Ma è… è… stupendo! Vale una fortuna!».
«Sì, ma non riuscireste a rivenderlo. Però potete farlo tagliare in due
o tre gemme che vi renderanno almeno il doppio delle ventimila monete
d’oro di cui parlava il signor Brook».
Il signor Brook si avvicinò al capitano col volto in fiamme.
«Maledetto! Capitano, prendetelo! Avrete la gemma e anche il riscatto!».
«Non fate sciocchezze, capitano. Vi offro una scappatoia onorevole. Io
prendo la ragazza, voi la gemma e vi potrete imbarcare senza problemi.
In caso contrario, devo avvisarvi che l’edificio è circondato dai miei
uomini e che molti potrebbero farsi male. Potrei prendere la ragazza
con la forza ma detesto la violenza».
«State cercando di giocarmi?».
«Come preferite. L’alternativa è imbarcarvi senza il gioiello e con la
donna».
Un brusio si levò dai marinai. La cupidigia e la superstizione li
portavano naturalmente a considerare con molto favore l’offerta di
Blackwind. Il nostromo si avvicinò al capitano.
«Capitano, mi sembra un’offerta ragionevole».
«Va bene, Blackwind. Accetto. Datemi il rubino».
«Quando la ragazza sarà qui, accanto a me. La scorterete voi, capitano,
e metterò io stesso la gemma nella vostra mano, potete fidarvi della
mia parola».
Il capitano si avvicinò alla ragazza che lo seguì senza dire una
parola, come una sonnambula.
«Scelta saggia, capitano, eccovi il rubino e addio».
Brook si lanciò con la spada sguainata verso l’avventuriero ma fu
immediatamente bloccato dai marinai più vicini.
«Eh no! Maledetto bastardo non te la caverai così facilmente! Ridammi
il rubino!».
Il capitano lo guardò con aria severa.
«Brook, non insistete a fare sciocchezze. Imbarchiamoci subito. Voi
avete le vostre ricchezze e il vostro carico, noi una ricca ricompensa
e questo signore la ragazza».
«La ragazza! Ah cagnaccio! Ora ti faccio vedere io!».
L’eccellentissimo signor James Brook si esibì in una sequela di
bestemmie che sorprese anche molti dei marinai presenti. Il capitano si
fece minaccioso.
«Ora basta, Brook. Oppure vi lascio sul molo».
«Addio, signori, è stato un vero piacere».
Blackwind, giunto alla porta del magazzino, si allontanò a passo svelto
nella nebbia del porto, quasi trascinando la ragazza per il braccio e
lasciando Brook a discutere animatamente con il capitano, sotto gli
occhi soddisfatti del nostromo.
«Venite signorina Irlentree, sarà meglio sbrigarci. Non siamo ancora al
sicuro».
«Ma… i vostri uomini?».
«Sono due. Valgono tanto oro quanto pesano e dovete dire loro grazie se
vi abbiamo trovata e vi ho potuta sottrarre a quei pirati, ma sono solo
due. E quelli fra poco ci verranno dietro».
«E perché? Non li avete pagati?».
«Ehm… non crederete che abbia lasciato un rubino di quel valore
nelle mani di quella gente? L’ho sostituito con una copia proprio
mentre lo consegnavo al capitano».
«Cosa?».
«Chi la fa l’aspetti. Il falso è opera dello stesso vostro spasimante,
signor James Brook».
«Non nominatemi quel mostro! Credevo fosse venuto a prendermi per
portarmi in qualche posto meraviglioso, come i cavalieri eroici… invece
ha quasi ammazzato la mia cameriera che mi sconsigliava di andare con
lui. Aveva ragione. Gli servivo solo da ostaggio».
«Ma non ha considerato le superstizioni dei marinai. Così mi ha offerto
l’occasione giusta per liberarvi».
«Allora… non devo considerarmi una vostra proprietà?».
Blackwind scoppiò a ridere nel vedere l’aria sollevata della ragazza
che stava rapidamente riprendendo colore.
«Assolutamente no, signorina. Siete libera come l’aria… però cerchiamo
di muoverci o saremo nei guai. Temo si siano accorti del mio giochino
di prestigio».
Urla e maledizioni giungevano dalla direzione del magazzino ed era
chiaro che i marinai si stavano riversando sulle tracce dei fuggitivi.
«Peccato, però…». Mormorò la ragazza, apprestandosi a seguire
l’avventuriero vestito di nero.
Si affrettarono nei vicoli del porto, finché due ombre non emersero
dalla nebbia. Erano Calyon ed Elowen. Per l’occasione, Calyon sfoggiava
uno splendido cappello a tese larghe e un mantello nero ed Elowen era
vestita come una dama, in modo abbastanza simile alla giovane Irlentree.
«Eccoci! Grazie, amici miei».
«Andate. Ora faremo da esca per un po’ e li porteremo a spasso per il
porto. Quando si accorgeranno dell’errore sarà troppo tardi».
«Venite signorina, vi riaccompagno a casa. Amica mia, hai fatto quel
che ti avevo detto?».
Elowen sorrise, ammiccando.
«Alaum è pronto. L’ultimo atto può andare in scena».
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
Capitolo 17
Capitolo 17: la trappola
La nebbia avvolgeva le stradine di Elosbrand, rendendo indefiniti i
contorni delle abitazioni, delle taverne e dei magazzini ed attutendo i
suoni e gli odori del porto, quasi deserto a quell’ora tarda. In
genere, quei pochi suoni e luci che turbavano il silenzio ed il buio
della notte provenivano dalle ultime bettole ancora aperte, a opera di
marinai ormai preda dei fumi dell’alcol. Quella notte, però, una
piccola folla di uomini percorreva i vicoli e le strade tortuose, alla
luce di numerose torce, accompagnata da rabbiose espressioni di
frustrazione e sconcerto.
«Maledizione! Avrei giurato di averli visti svoltare da questa parte!
Eppure non possono essere scomparsi».
Un marinaio dal fisico tarchiato guidava la piccola ciurma, affiancato
da un giovane uomo di alta statura, elegantemente vestito,
dall’apparenza di un ricco mercante o di un avventuriero. Un giovane
uomo dallo sguardo furente.
«Nostromo, siete sicuro di sapere dove ci state portando?».
«Maledizione a voi, Brook! Se conoscete il porto meglio di me,
guidateci! In fondo quel bastardo ha fregato voi tanto quanto noi.
Forse anche di più».
Il mercante avvampò in viso e la sua mano corse alla lunga spada che
cingeva al fianco.
«Pezzo d’idiota! Ora vi faccio…».
Una voce interruppe il litigio.
«Eccoli! Laggiù, verso il molo!».
Due figure erano passate davanti alle luci di una taverna ed erano
chiaramente apparse come un uomo con un mantello scuro e una dama in
abiti eleganti.
«Avanti! Prendiamoli!».
L’intera ciurma si gettò all’inseguimento dei due che, immediatamente,
si erano messi a correre per le stradine del porto, diretti verso il
molo.
«Forza! Non lasciamoli scappare!».
Corsero dietro ai due fuggitivi, guidati da fugaci ombre emerse dalla
nebbia, talora simili a un uomo ammantato, talaltra a una donna avvolta
in sete pregiate. A volte, quando la nebbia frustrava i loro occhi,
dovevano fermarsi per ascoltare i passi della coppia, nella speranza di
non perdere nuovamente le loro prede.
Dopo un tempo indefinibile, dilatato dalla nebbia e dall’ansia, i passi
degli inseguiti condussero i marinai e il mercante sul molo. Grida
trionfali eruppero quando videro emergere dalla nebbia la sagoma della
“Lanterna Gialla”.
«Ascaris li ha accecati! Sono in trappola!».
«Circondateli! Non facciamoli scappare!».
La coppia fuggitiva si era fermata nei pressi di uno dei due Falconi
dal quale penzolava ancora una delle casse di opere d’arte destinate a
essere imbarcate sulla nave.
I marinai circondarono agevolmente i due che si erano addossati
all’argano della macchina da carico e che apparivano senza via di
scampo. L’uomo sguainò una lunga spada.
«Chi siete? Banditi forse? Qui, in mezzo alla città?».
«Non fare il furbo, Blackwind. Siete in trappola!».
«Cosa? Non so chi cerchiate, signore. Non conosco quel nome. Di certo
non è il mio».
Brook sghignazzò soddisfatto. Il suo nemico non aveva più scampo e quei
patetici tentativi lo divertivano.
«Non ci faremo giocare un’altra volta. Gettate le armi o per voi sarà
la fine».
«Ma insomma! Sono una dama e quest’aggressione la pagherete assai
cara!».
Una lama di gelo spezzò le certezze del mercante. Quella non era
affatto la voce della giovane Irlentree. Fu preso da un sospetto
atroce. Possibile che si fossero sbagliati?
«Portateli qui!».
«Ma… questi non sono quei due!».
Il nostromo, che si era avvicinato alla coppia, si voltò stupefatto
verso gli altri marinai.
«Maledizione! E allora perché scappavano?».
«Cosa avreste fatto voi, se vi foste visto correre addosso una torma di
brutte facce armate e minacciose?».
Brook era basito. Come diavolo poteva essere accaduta una cosa del
genere? Una voce limpida e potente, simile al suono d’una canna
d’organo, proveniente da dietro le sue spalle, lo fece trasalire.
«Cosa succede qui, a quest’ora? Fatevi riconoscere, nel nome di Mirpas,
o vi porteremo tutti in prigione!».
Dalla nebbia emerse l’alta figura di un uomo in armatura completa, con
la spada in pugno e un grande scudo sul quale campeggiava l’emblema di
Mirpas. Si avvicinava con passo fermo e cadenzato, mettendo bene in
evidenza lo stemma che lo qualificava come un campione del Signore
dell’Armonia. Dietro di lui veniva un folto drappello di armati che
portavano le insegne della Guardia di Elos.
Qualcuno dei marinai fu preso dal panico e tentò di fuggire,
immediatamente bloccato dai mercenari. Il paladino si avvicinò al
gruppo di Brook. Dalla visiera alzata, due brillanti occhi color
dell’oro si fissarono sul mercante.
«Ebbene, chi siete signore? E questi marinai armati?».
«Sono James Brook, mercante d’arte, e questi marinai sono armati
solamente per proteggere le preziose opere d’arte che vengono caricate
sulla nave. Io protes…».
Fu interrotto da uno schianto terribile. Qualcuno aveva tolto il fermo
dell’argano e il carico del Falcone si era schiantato al suolo. Brook
impallidì a quella vista. I due fuggitivi erano ancora nei pressi
dell’argano, con un sorriso soddisfatto sul volto.
«Sir Alaum, capitano, venite a vedere».
Una guardia si era avvicinata ai resti della cassa schiantata al suolo
e stava sollevando una scure, evidentemente raccolta da quel che
restava del carico. Il paladino si diresse verso i rottami, mentre un
mormorio allarmato si levava fra i marinai. Insieme a un ufficiale
della Guardia, Alaum si mise a esaminare le statue e le anfore
fracassate.
«Bene, bene. Sono queste le opere d’arte signor Brook? Fate aprire le
altre casse, capitano, credo che queste non siano le sole sorprese che
ci riserverà questo carico».
Brook riprese colore. Le guardie intorno a lui stavano osservando le
armi che venivano raccolte da quel che restava della cassa, sforzandosi
di penetrare la nebbia con lo sguardo, e non gli prestavano molta
attenzione. Decise che non poteva farsi sfuggire quell’occasione.
La spada del mercante saettò colpendo la guardia più vicina e Brook
scattò oltre il cerchio dei mercenari, fuggendo fra la nebbia e le
stradine del porto.
«Prendetelo! Capitano, non fatevelo sfuggire!».
La voce di Alaum tuonò nella nebbia, col suo caratteristico timbro
metallico, pervasa da un’autorità che pochi avrebbero osato discutere.
Immediatamente, un drappello di mercenari corse dietro al mercante,
guidati dall’ufficiale.
«Sergente, mettete agli arresti l’intero equipaggio di quella nave e
perquisite il carico».
Una massiccia figura si staccò dal gruppo delle guardie e si avvicinò
al paladino.
«Subito, signore. Bella retata, signore!».
«Sergente Waster, devo avvertirvi che detesto gli adulatori. E che le
opere d’arte sono verosimilmente false, dunque evitate di intascarvi
qualcosa. Lo scoprirei. E non vi piacerebbe».
Il grosso sottufficiale corse immediatamente a eseguire gli ordini,
senza più proferire una sola parola. Il paladino si avvicinò ai due
amici, nei pressi dell’argano.
«Ciao, Calyon. Siete stati veramente in gamba. Soprattutto tu, mia
cara».
Elowen si inchinò graziosamente, mentre Calyon abbracciava il vecchio
amico.
«Splendido lavoro, Sir Alaum, le mie congratulazioni».
«Fai poco lo spiritoso, mezzo furfante. Non voglio sapere come avete
fatto a scoprire questa faccenda. Piuttosto, dov’è il re dei
malandrini?».
«Ha accompagnato miss Irlentree dall’augusto genitore ma dovrebbe
essere qui a momenti».
«Lo immaginavo. Dove c’è una gonna, il nostro amico è sempre nei
paraggi…».
Rise, di un riso sonoro e lieve, mentre gli occhi color dell’oro si
illuminavano nel fissarsi sul sorriso di Elowen.
«Va bene… lo aspetteremo ancora un po’, ma potrebbe aver trovato
qualcosa di meglio da fare. Se non arriva me lo saluterete voi».
***
Brook correva a perdifiato fra i vicoli. Conosceva bene quei paraggi ed
era abbastanza certo di essersi liberato dei suoi inseguitori. Dopo
averli portati a spasso nei dedali della parte più vecchia e malridotta
del porto, si era nuovamente diretto verso il molo, dove le barche dei
pescatori stavano rientrando dalla nottata di lavoro e presto sarebbe
cominciata la vendita del pesce. Ormai non gli restava altra via di
fuga che il mare ed era certo che avrebbe saputo convincere uno dei
pescatori a portarlo da qualche parte, dove sarebbe stato al sicuro.
Dietro di lui l’eco dei passi degli inseguitori si era spenta da un
po’, dunque riteneva di essere ragionevolmente al sicuro. Almeno per
quel tanto che gli occorreva per salpare con uno dei pescherecci. Si
ricompose e riprese l’apparenza del ricco mercante, apparenza che gli
avrebbe facilmente fatto trovare l’imbarco che desiderava. Stava per
avvicinarsi al molo quando una figura vestita di nero gli sbarrò la
strada.
«Non dimenticate qualcosa, eccellentissimo signor Brook?».
Il mercante avvampò e snudò la spada. La sua voce tremava per la rabbia
e l’odio.
«Sei un uomo morto, bastardo schifoso!».
«Come già vi avevo detto, avrei preteso soddisfazione dei vostri
insulti, signor rapitore di ragazzine. È giunto il momento di regolare
la questione».
Con grande calma e sempre sorridendo, Blackwind sguainò lo stocco,
disponendosi in guardia. Brook caricò violentemente, menando un
terribile fendente che, però, trovò solamente l’aria. Immediatamente
provò un altro attacco, ancora senza trovare l’avversario. Il mercante
contava sulla sua forza, indubbiamente maggiore, e sul peso della sua
arma che avrebbe potuto spaccare facilmente quella del suo rivale.
Questi, fino ad allora, si era solo lievemente spostato, evitando
l’impeto del mercante e limitandosi a cambiare guardia. Brook, invece,
nei suoi assalti senza costrutto era arrivato quasi a cadere su un
carretto carico di pesce. La poca gente presente sul molo si stava
accorgendo di quanto accadeva e si stava avvicinando. Qualcuno, al
vedere balenare le armi, si mise a chiedere aiuto.
«Troppa foga, Brook. Rischiate di farvi male».
Brook non rispose alla voce beffarda del suo avversario ma si esibì in
un paio di finte, seguite da un violento affondo. Questa volta,
Blackwind non si scansò ma parò con un movimento semicircolare, verso
l’esterno, colpendo la punta della lama avversaria con il “forte”[10]
della sua e portando l’arma di Brook all’esterno. In questo modo, la
difesa di Brook si era aperta e Blackwind vi penetrò rapidamente, con
una piroetta che concluse con una secca gomitata sul volto
dell’avversario.
Brook barcollò all’indietro, sorpreso dalla mossa del ladro, arrivando
sul bordo del carretto. Un affondo di Blackwind lo costrinse a una
goffa parata che finì per fargli scoprire nuovamente la guardia. Un
violento calcio lo raggiunse al volto, facendolo cadere all’indietro,
sul carretto, in mezzo ai pesci.
«Mi ritengo soddisfatto, eccellentissimo signor Brook. Addio».
Brook udì le parole del suo avversario come in un sogno. Vedeva tante
facce avvicinarsi curiose, formando un capannello di volti, occhi,
rughe e bandane. Un curioso olezzo di pesce gli solleticava le nari.
Lentamente, il mercante cercò di scuotersi. Poi udì una voce.
«Alzatevi signor Brook. Siete in arresto».
Quelle parole ebbero l’effetto di un secchio d’acqua sul mercante che
si sollevò su un gomito, cercando di liberarsi dei pesci e riprendere
un minimo di dignità. A parlare era stato un ufficiale della Guardia di
Elos, un biondino baffuto che aveva l’aria di essere appena stato
promosso al suo grado.
«Arrestate Blackwind, piuttosto. Io sono uno dei più stimati cittadini
di Elosbrand!».
«Siete accusato di traffico d’armi e di aver ferito gravemente una
guardia. Seguitemi immediatamente, senza opporre resistenza».
Brook riprese il colorito paonazzo e si rizzò sulle ginocchia.
«Esigo di parlare col capitano Ernest Tyron!».
Il giovane ufficiale lo guardò incuriosito.
«E perché, scusate?».
«Sono certo che garantirà per me. Sono un cittadino onesto, io».
L’ufficiale scoppiò a ridere.
«E perché mai il capitano Tyron dovrebbe garantire per voi, se non vi
ha mai visto finora?».
«Il capitano Tyron mi conosce bene!».
«Ne dubito fortemente, signor Brook. Prova ne sia che voi chiedete di
lui avendolo di fronte. Io sono il capitano Ernest Tyron».
Brook spalancò gli occhi, farfugliò qualcosa, poi li roteò e cadde
riverso in mezzo ai pesci, privo di sensi.
[10] Il “forte” di una lama è la parte più vicina all’elsa, più robusta e meno elastica. Contrapponendolo alla punta dell’arma avversaria, si crea una leva favorevole, capace di equilibrare eventuali differenze di forza fra i duellanti.
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Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
Capitolo 18: conclusione
Blackwind amava il buio della notte. Nel buio le strade di Elosbrand
gli appartenevano quasi completamente, prive di rumori, percorse solo
dai gatti e dagli innamorati. E dai ladri, ovviamente. Nel buio lui
sapeva muoversi come in pieno giorno, invisibile e silenzioso come il
vento. La notte lo avvolgeva con un mantello nero capace di renderlo
invisibile e quasi invulnerabile. Capace di dissipare la parte oscura
della sua anima, sperdendola nelle sue profondità, trapuntandola delle
stelle dei suoi ricordi, dolci e amari. Capace di cancellare quel
desiderio di vendetta che, anni prima, lo aveva consumato come una
febbre e portato quasi sull’orlo della follia.
Aveva sconfitto il suo nemico, lo aveva deriso e abbandonato, vinto e
umiliato. Ma non gli aveva sottratto la vita. Mai l’idea di ucciderlo
lo aveva sfiorato. Era contento di questo. Era la conferma che l’ira
faceva fatica a impossessarsi della sua anima. Era la conferma della
sua forza. E del fatto che il suo nemico peggiore, quello che
condivideva il suo stesso involucro, era sconfitto, forse per sempre.
Presto l’alba avrebbe cancellato la notte e la città si sarebbe
riempita di gente e rumori. Era stanco ma l’eccitazione della vittoria
non gli avrebbe permesso di dormire. Volle godere ancora del silenzio e
dell’oscurità.
«Aiuto!».
La voce di una donna. Forse in pericolo. Cercò di capire da dove
provenisse e rapidamente individuò un vicolo poco lontano. Non poteva
che andare a vedere cosa stesse accadendo. Un brivido gelido percorse
la sua schiena. Cosa lo attendeva ancora, in quella notte?
Corse verso la voce. Raggiunse il vicolo. Nessuno. Nessun rumore.
Nessuna traccia di lotta. Solo quel brivido lungo la schiena.
Non vide partire il colpo. Un gran dolore alla testa. Poi un buio
freddo e vuoto. Diverso dal buio che amava.
Si risvegliò in una stanza umida. Larghe strisce di cuoio agli
avambracci, sotto le ascelle, sulla vita e alle caviglie lo
trattenevano in piedi appoggiato a una parete di legno. Davanti a lui,
una figura femminile sedeva su una seggiola malridotta.
La riconobbe subito. Cercò di mascherare il dolore che gli aveva
stretto il cuore.
«Già di ritorno? Sei veramente un tipo determinato!».
La donna si alzò in piedi, avvicinandoglisi. Era bellissima, avvolta
dai capelli color dell’oro, con due occhi neri che fiammeggiavano verso
di lui.
«Come vedi, sono più in gamba di quanto ti potessi aspettare. Ti ho
reso la cortesia».
Il giovane ladro risentì più forte il dolore alla testa. Sorrise.
«In effetti, colpirti è stata una grave mancanza di educazione.
Purtroppo non mi ero accorto che tu fossi una donna».
«Perché, se te ne fossi accorto, ti saresti lasciato uccidere?».
«Non so. Penso però che, se proprio dovessi morire, preferirei fosse
per mano di una donna. Meglio se bella come te».
La giovane assassina impallidì. I grandi occhi si dilatarono, per poi
restringersi fino a diventare due fessure.
«Potrei esaudire il tuo desiderio, lo sai?».
«Non ne dubito assolutamente. Semmai mi chiedo perché tu non l’abbia
già fatto».
«Perché ucciderti e basta non servirebbe a nulla. Chi mi ha assoldato è
in prigione e non ne uscirà molto presto. Non ho convenienza a
ucciderti».
«Uccidi solo per denaro o anche per passione?».
Un pugnale saettò nell’aria, piantandosi accanto al braccio destro di
Blackwind, subito sopra la striscia di cuoio che lo bloccava.
«Non osare prenderti gioco di me!».
«Voglio solo capire perché uccidere è così importante per te».
«Perché uccidere mi ha resa forte e temuta. Mi ha tolta dalla fame e
dalla miseria. Mi ha dato un lavoro e ricchezza. Mi ha reso possibile
vivere senza dovermi appoggiare a qualcuno».
La ragazza aveva pronunciato le sue parole ad alta voce, quasi
gridando, appassionatamente. Blackwind rispose dolcemente.
«E queste cose sono tanto importanti da sacrificare delle vite, per
ottenerle?».
Un altro pugnale si piantò accanto al braccio sinistro.
«Sì. Sono le cose più importanti dell’universo».
«C’è ben poco nel tuo universo».
«Ci sono io».
«Appunto».
Un coltello sfiorò il fianco destro del giovane ladro.
«Hai tanta fretta di morire?».
«No. Ma, se devi uccidermi, fallo subito. Questa conversazione mi
sembra assolutamente inutile. Altrimenti liberami. Ho molte cose da
fare».
«Già. Sei stato bravo a liberare la ragazza. Li hai beffati».
«Hai visto cos’è successo?».
«Non ho perso una parola. Non ti ho perso di vista tutta la sera. Devo
riconoscere che è stato un bello spettacolo».
«Sono lieto che ti sia piaciuto».
«Perché non l’hai ucciso?».
«Perché detesto uccidere».
«Però non ti fai problemi a rubare».
«Io rubo solo il superfluo mal guadagnato. Non rubo quel che serve per
vivere. Né, tantomeno, rubo la vita».
«E io uccido chi non è degno di vivere. E chi non sa difendere la
propria vita non lo è».
Aveva alzato nuovamente la voce.
«Non ti ho chiesto di giustificare la tua vita. Mi sembra che le tue
argomentazioni siano piuttosto superficiali. Francamente, non credo a
una sola di queste tue parole».
«Allora, visto che sai tutto, dimmi perché uccido».
Ancora una volta, la voce di Blackwind suonò dolce e tranquilla nel
silenzio della stanza.
«Perché ti odi. Perché non ami nessuno, meno che mai te stessa».
Un altro pugnale sfiorò il giovane legato alla parete. Questi sorrise
dolcemente alla ragazza.
«Hai fretta di morire, signor ladro?».
«No. E tu hai paura di guardare dentro la tua anima?».
La giovane donna esitò.
«No. Perché dovrei?».
«Perché potrebbe essere ancora peggio di morire».
Questa volta, il coltello morse la carne del braccio del giovane elfo,
insieme a un pezzo di cuoio. Blackwind strinse i denti ma non emise
alcun lamento.
«Stai giocando col fuoco, Blackwind. A nessuno ho mai permesso tanto».
«Perché a me sì?».
«Perché…».
«Ebbene?».
La giovane donna si avvicinò al prigioniero e gli puntò il pugnale alla
gola. Gli occhi scuri brillavano. Qualcosa tremava sul suo ciglio. La
voce rimase ferma e decisa.
«Perché tu sei tu».
Gli afferrò i capelli, sollevandogli il viso, fissando i suoi occhi
neri nei profondi occhi verdi del giovane avventuriero. E lo baciò a
lungo, appassionatamente. Poi si voltò e fuggì fuori dalla stanza,
lasciandolo senza fiato e col cuore in tumulto.
Blackwind non impiegò molto a liberarsi dalle cinghie che lo
trattenevano. Prima liberò il braccio ferito, spezzando facilmente il
cuoio già parzialmente inciso, poi, con l’aiuto del coltello, tutto fu
facile.
Uscì all’aperto. La notte moriva nei primi chiarori dell’alba. Della
giovane donna, nessuna traccia. Era stanchissimo e le ferite gli
dolevano. Ma soprattutto, aveva bisogno di restare al buio. Rimpianse
la notte, ormai finita.
Perché Blackwind amava la notte e il suo buio. Nel buio si sentiva
forte e quasi invincibile. Nel buio si sentiva al sicuro.
Perché nel buio nessuno poteva vederlo piangere.
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