Il mistero della porta

di cabol
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1: la porta chiusa


Con il suo sguardo esperto, il giovane elfo esplorò per l’ennesima volta con estrema cura l’intera superficie della porta bronzea elegantemente decorata, esaminando attentamente ogni rilievo e ogni incisione per poi soffermarsi corrucciato sulla toppa e sul grimaldello che vi era inserito. Nonostante tutti i suoi sforzi e la sua notevole abilità di scassinatore, quella serratura non voleva assolutamente saperne di aprirsi.
Era alto, per essere un elfo, come un uomo di statura media, tanto che avrebbe benissimo potuto essere confuso con un umano di circa vent’anni. Snello, quasi esile, con muscoli affusolati come quelli dei danzatori, aveva movenze feline, eleganti. Un cappello a larghe tese, decorato da una magnifica piuma nera, copriva i suoi capelli corvini lunghi fin quasi sulle spalle, mantenendo in ombra il suo volto dai lineamenti delicatamente aristocratici. I suoi abiti, pur completamente neri, erano eleganti e ricercati, più simili a quelli di un ricco gentiluomo che a quelli di un ladro. Un agile stocco pendeva dal suo fianco sinistro. Gli occhi grandi, di un verde profondo, fissavano accigliati la serratura.
Aveva aperto dozzine di porte blindate e quella sembrava in tutto e per tutto simile alle altre.
Sembrava.
Perché Blackwind sapeva perfettamente che nessuna porta normale era in grado di resistergli a lungo. Anche in quella, in effetti, il grimaldello girava normalmente e il lucchetto scattava come qualsiasi altro. Però quella porta restava chiusa, sbarrata, senza alcuna spiegazione. Ormai era certo che non ci fossero altri meccanismi nascosti.

A questo punto è evidente che questa porta è serrata con la magia e potrei passare la mia vita a tentare di aprirla senza speranza di riuscirci.

Un maledetto, sleale incantesimo. Non poteva esserci altra spiegazione. A meno di non riconoscere di aver perso improvvisamente tutto il suo talento.
La clessidra, accanto a lui, stava esaurendo gli ultimi granelli di sabbia. Blackwind la girò: al termine, secondo i suoi calcoli, sarebbe passata una guardia a controllare. La stanza detta “del tesoro” si trovava in fondo a un corridoio privo di finestre che si dipartiva dal salone adibito a museo che occupava quasi tutto il secondo piano dell’edificio. Se una guardia fosse comparsa all’imboccatura di quel corridoio, non ci sarebbe stato modo di evitare di finirle in bocca. Lanciò un ultimo sguardo irritato verso la toppa e ritirò il grimaldello. Inutile perderci altro tempo. Ormai restava poco tempo per andarsene. Infilò il grimaldello sotto l’ampia fascia viola che teneva stretta in vita e fece per allontanarsi. Esitò. Proprio non riusciva ad accettare di essere stato sconfitto così.
Blackwind, era abituato a curare anche i minimi dettagli delle sue “operazioni”. Così, aveva impiegato una decina di giorni a pianificare con estrema precisione quel colpo, entrando e uscendo da quella casa sotto svariati travestimenti, mescolandosi fra i fornitori, operai e fattorini.
Aveva esplorato praticamente tutta la costruzione con attenzione e discrezione. Sapeva esattamente quanti passi occorrevano per raggiungere la stanza detta “del tesoro” partendo da diversi punti dell’edificio. Sapeva esattamente quanti gradini c’erano in ogni scalinata. Conosceva a memoria tutti gli spostamenti che i guardiani compivano ogni sera per sorvegliare il palazzo. Sapeva l’esatta posizione di ogni porta e ogni finestra. Era in grado di entrare e uscire da quella casa senza fare il minimo rumore, sia passando dalla strada, sia raggiungendola dai tetti degli edifici vicini. Era anche entrato in quella stanza una sera, mescolato fra gli ospiti del padrone di casa, ammirando quel meraviglioso gioiello e memorizzando dove era custodito.
E ora doveva fermarsi davanti a una porta. Una sconfitta cocente, inaccettabile. Soprattutto inaccettabile perché da parte di James Brook.
Era, il padrone di casa, un famoso commerciante d’arte, ricco, giovane, brillante e affascinante, introdotto nella migliore società di Elosbrand[1]. Un personaggio influente e rispettato. Un personaggio che, si diceva, ben presto sarebbe stato investito di qualche importante carica cittadina, forse addirittura avrebbe avuto la possibilità di accedere al Senato.
Ma quello che i buoni cittadini e i governanti di Elosbrand ignoravano era che buona parte delle sue ricchezze, anziché dal commercio di opere d’arte, proveniva da traffici d’armi clandestini.
Il giovane elfo era certo che quell'uomo senza scrupoli aveva rifornito con armi di pregevole fattura numerose bande di briganti che avevano causato molti problemi nelle foreste a occidente della città. Egli stesso aveva visto con i suoi occhi quelle armi quando, quasi un anno prima, si era trovato ad affrontare insieme con un insolito gruppo di avventurieri proprio una di quelle bande. Quelle armi provenivano certamente dai magazzini di Brook. Purtroppo i documenti che lo avrebbero provato erano poi finiti in cenere insieme al resto del covo di quei briganti.
Chissà quanti altri delinquenti avevano acquistato armi dall'eccellente signor James Brook. Chissà quanto sangue era stato sparso da quelle armi. E quanto oro aveva portato nelle tasche del rispettabile signor Brook tutto quel sangue?
Perciò aveva messo gli occhi su quella casa.
Perché se in realtà Blackwind non avrebbe mai nemmeno ipotizzato di sottrarre uno spillo alla gente onesta, non aveva assolutamente alcun rimorso a derubare i veri delinquenti. Specie quelli che mascherano la loro disonestà sotto una facciata rispettabile. Anzi, proprio per quella specie di furfanti provava un’avversione particolarmente profonda.
Proprio per quelli come il rispettabile signor James Brook. Quel trafficante meritava una sonora lezione e il giovane elfo sapeva benissimo come il modo migliore di punire la gente di quel genere fosse colpirli nella borsa.
Sarebbe bastato mettere le mani sull’Occhio della Regina, un favoloso rubino grande come una noce, di spettacolare purezza, scomparso un secolo prima dalla corte reale di Ariakas [2] e riapparso qua e là in diverse regioni di Ainamar, per fermarsi finalmente nelle mani del mercante d’arte più conosciuto di Elosbrand. Brook era orgoglioso di possedere quel gioiello unico che, da solo, valeva metà delle sue ricchezze. Blackwind era convinto che se fosse riuscito a rubare quel rubino, Brook avrebbe subito un colpo formidabile nelle ricchezze e nell’orgoglio.
Aveva pianificato tutto con estrema attenzione, aveva superato ogni ostacolo. Restava solo quella porta. Non si sarebbe mai immaginato di doversi fermare a quel punto.

Eppure non riesco ad accettare di essere arrivato così vicino e dover rinunciare!

Ma chi diavolo poteva aver messo a disposizione la propria magia per chiudere quella porta? Brook, a quanto se ne sapeva, non aveva alcuna conoscenza nelle arti arcane. Possibile che avesse assoldato un mago? Comunque fosse, quella serratura continuava a restare ostinatamente chiusa.
La magia era piuttosto comune su Ainamar, anche se erano in pochi quelli che la sapevano controllare e adoperare correttamente. Blackwind stesso portava mantello e stivali infusi della magia della sua razza, che gli consentivano di nascondersi perfettamente nell’ombra e muoversi con la silenziosità di un gatto. Però, per eliminare quella chiusura magica, avrebbe dovuto procurarsi una pergamena contenente l’incantesimo adatto e augurarsi di riuscire a leggerla correttamente davanti a quella porta sbarrata. Ma per procurarsi la pergamena giusta gli sarebbero occorsi alcuni giorni. Quindi, tutto da rifare.
L’unico modo, a quel punto, era di farsi aprire la porta da chi era in possesso della chiave magica. Dunque solo il padrone di casa o, forse, il maggiordomo, l’anziano Algernon. Però sarebbe stato necessario ricorrere alla forza e trasformare quel furto tanto abilmente congegnato in una volgare rapina. Col rischio che qualcuno potesse farsi seriamente male.
Quello, però non era lo stile di Blackwind. Quello stile che era diventato quasi un marchio di fabbrica. Uno stile fatto di abilità, intelligenza, astuzia, eleganza. Mai volgare violenza. Mai la forza bruta. Mai una vittima innocente.

Se, per vincere, devo uccidere, preferisco perdere.

Questo era sempre stato il suo motto. Questo lo rendeva un individuo veramente insolito in un mondo in cui uccidere gli avversari pareva il modo naturale di conseguire una vittoria.
D’altra parte, la clessidra stava ormai per finire. Avrebbe dovuto ammettere la sconfitta. Il bello era che aveva addirittura già preparato un biglietto beffardo da far trovare al padrone di casa. Lo osservò accigliato. Era stato troppo sicuro di sé.

A meno che…

Un sorriso comparve sulle labbra di Blackwind. Forse un modo esisteva. Probabilmente era un tentativo disperato. Però poteva funzionare.
E sarebbe stato veramente nel suo stile.

[1] La capitale della Repubblica di Elos, dove si svolge questa storia
[2] Impero confinante ad occidente con la Repubblica di Elos


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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2: la porta aperta


La notte volgeva ormai al termine e presto una radiosa alba autunnale avrebbe scacciato la nebbiolina notturna di Elosbrand. Come ogni mattina, Algernon Leonard Fitzhoot, maggiordomo da tre generazioni e orgoglioso padre di un giovane promettente maggiordomo, già a servizio in casa di un giovane nobile di un’importante casata di Aglargond[3], cominciava il giro delle stanze per spolverare le opere d’arte del suo padrone. Si sentiva sempre assai gratificato per questo. I suoi colleghi, in genere, dovevano occuparsi di chincaglierie di gusto discutibile. Lavorare per James Brook significava stare tutto il giorno in mezzo all’arte, quadri, gioielli, statue, arazzi. Autentiche meraviglie. Spolverare una scultura valdoriana[4] o un quadro di scuola hyrmensiana[5] o un arazzo ariaken[6] non era lavorare: era un onore e un piacere.
Era un uomo alto, sulla sessantina, dai radi capelli, grigi come i suoi occhi severi. Era stato educato adeguatamente alla sua professione e il suo autocontrollo era pressoché perfetto. Quella mattina, come sempre quando si occupava di spolverare le opere d’arte, vestiva semplicemente con una tunica e un paio di ciabatte ed era armato di un delicato piumino. Appena terminato di spolverare, avrebbe abbandonato quegli abiti dimessi e avrebbe indossato la sua impeccabile livrea da maggiordomo.
Finito di pulire il museo, giunse alla stanza “del tesoro”, quasi impaziente di ammirare i pezzi più pregiati della collezione del suo padrone. Inserì la chiave nella porta e mormorò la formula di apertura, meccanicamente, come ogni mattina. La porta si aprì dolcemente, permettendo alla fioca luce del corridoio di proiettarsi sul pavimento della stanza buia.
Rimase sorpreso nel notare che, proprio nel triangolo di luce disegnato sul pavimento, spiccava un biglietto. Quella vista lo turbò. Come mai era lì? Chi poteva averlo lasciato? Il padrone era uscito presto, la sera prima, e rientrato tardissimo. Difficilmente poteva essersi affacciato in quella stanza. Però, quando l’aveva chiusa, poco prima di cena, non c’era assolutamente nulla per terra, nemmeno la polvere. La sua mano tremava un poco, nel raccogliere quel piccolo pezzo di carta. Gli bastò sbirciarlo un attimo per sentirsi svenire.

Oh Sergaries beata, proteggimi! Ora chi lo dice al signor Brook?

Il suo perfetto autocontrollo si dissolse improvvisamente lasciando spazio ad una reazione quasi isterica. Si precipitò fuori in preda al panico. Percorse il corridoio, attraversò quasi volando il museo, scese a rotta di collo le scale, spalancò il portone e corse in strada così com’era, col piumino ancora in mano e le ciabatte ai piedi.

«Al ladro! Aiuto!».

Fatti pochi passi in strada, andò letteralmente a sbattere contro un passante. Perse l’equilibrio e sarebbe caduto se colui che aveva quasi travolto non l’avesse sorretto prontamente.

«Calmo, calmo, caro signore. Cosa sta succedendo?».

Algernon Leonard Fitzhoot, maggiordomo da tre generazioni, sollevò lo sguardo sul suo interlocutore e quasi svenne dalla gioia nel riconoscere l’uniforme e l’elmo di un ufficiale della Guardia di Elos, la milizia che manteneva l’ordine nella Repubblica.

«Sono gli dei che vi mandano, capitano! Hanno rubato nella casa del mio padrone! Venite, presto!».

«Vi seguo, signore, state tranquillo però, e raccontatemi cosa sta accadendo, sono il capitano Ernest Tyron».

L’ufficiale parlava con calma, con un dolce accento ardoriano e un tono tranquillizzante. Era di altezza media, di aspetto elegante, con lunghi capelli biondi che fuoriuscivano da sotto l’elmo bronzeo per ricadergli morbidamente sulle spalle. Il volto, severo, era incorniciato da baffi di foggia militare, accuratamente arricciati all’insù. Portava la cotta di maglia di ordinanza e, su quella, la tunica con le insegne della Guardia e il suo grado. Il maggiordomo rallentò solo di poco l’andatura e cercò di spiegare all’ufficiale quello che era accaduto, mentre ripercorreva i corridoi della casa del suo padrone.

«Manca qualcosa?».

«Non so… veramente mi sono precipitato fuori appena ho letto il biglietto. Sapete, quel nome mi ha scombussolato».

Salirono le scale, attraversarono il museo, del quale l’anziano Algernon meccanicamente decantò la ricchezza, e si diressero lungo il corridoio che portava alla stanza detta “del tesoro”, dove il signor Brook conservava i pezzi più pregiati della sua collezione.

«Posso vederlo?».

«Cosa?».

Algernon si era perso completamente nel ruolo di guida, nell’elencare le meraviglie della collezione del suo padrone.

«Ma il biglietto, naturalmente, e magari, appena possibile, desidererei incontrare il vostro padrone. Vediamo cosa si può fare».

Algernon, bruscamente riportato alla realtà della situazione, perse di colpo buona parte della sua loquacità.

«Ma certamente capitano!».

Nel frattempo, avevano raggiunto la porta blindata.

«Avete chiuso voi la porta, uscendo?».

«Eh? Ah sì… credo di sì… veramente non ricordo ma la chiudo sempre… ma poi chi altro potrebbe averla chiusa? Certo che l’ho chiusa io».

Il maggiordomo estrasse la sottile chiave di bronzo dalla sacca che portava appesa alla cintura, la inserì nella serratura, pronunciò una parola in un’antica lingua e aprì la porta. Entrarono nella stanza “del tesoro” immersa nell’oscurità, il capitano con passo sicuro e tranquillo, l’anziano servitore malfermo sulle gambe, come se stesse entrando fra le fauci di un drago. Rimasero un attimo al buio, poi Algernon trovò una lampada su uno scaffale subito accanto alla porta e si diede da fare per accenderla.

«Il biglietto… L’ho lasciato cadere, ma dovrebbe essere qui sul pavimento… ecco, ora lo cerchiamo… chissà dov’è finito».

«Grazie, signor…? Magari cercate anche di capire se manca qualcosa dalla stanza».

Il capitano parlava con grande tranquillità, cercando di calmare il povero maggiordomo terrorizzato con il tono della voce e i modi controllati e sicuri.

«Eh? Oh, scusatemi… sono Algernon Fitzooth, maggiordomo del signor James Brook, il famoso mercante d’arte… Ora guardo cosa manca… OH MISERICORDIA!».

«Cosa succede?».

«Il… il… ru… rubino! L’occhio! Oh Dei misericordiosi!».

Il poveruomo era impallidito mortalmente, evidentemente terrorizzato. Guardava, alla luce della lampada, verso uno scrigno aperto in una nicchia della parete con la stessa espressione con la quale avrebbe guardato un fantasma.
Il capitano seguì il suo sguardo, prese la lampada dalle mani tremanti del maggiordomo, prima che potesse finire al suolo e raggiunse la nicchia. Esaminò lo scrigno con grande attenzione, poi lo tolse dal suo posto ed esaminò con la stessa attenzione la cavità nel muro, infine, lo rimise al suo posto e si volse.

«Mi dispiace, ma effettivamente è vuoto. Era qualcosa di gran valore? Ah! È quello il biglietto?».

Indicò un punto nei pressi della porta, dove ora giungevano i raggi luminosi della lampada a olio. Sul pavimento c’era un piccolo biglietto, di carta evidentemente pregiata, sul quale qualcuno aveva vergato due righe. Lo raccolse, mentre il maggiordomo pareva volesse incenerire quel pezzo di carta con lo sguardo. C’era scritto, con caratteri eleganti:
Spiacente, ma non troppo,
Blackwind.
Il capitano Tyron osservò silenziosamente il biglietto, studiandolo accuratamente, poi girò lo sguardo sul resto della stanza.

«Manca altro, oltre al rubino?».

«Ora controllo, capitano, ma nulla è paragonabile, come valore, all’Occhio della Regina».

L’ufficiale si aggirava prudentemente nella stanza, osservando le pregiate statue che vi erano conservate, le anfore antiche e i preziosi mosaici testimoni di splendori passati. A un tratto si fermò a osservare da vicino qualcuno di quei tesori, con aria incuriosita. Nella scarsa luce della stanza pareva cercare qualcosa che solo lui poteva vedere. Poi si rivolse nuovamente al maggiordomo.

«Dunque, vale veramente tanto quel gioiello?».

Una voce ferma risuonò alle loro spalle.

«Si può dire che sia inestimabile, capitano».

[3] La capitale dell'Impero di Ardor, potente stato a sud della Repubblica
[4] Dell'antico e scomparso impero di Valdor
[5] Dell'Hirmensyar, ricco e decadente regno a sud dell'Impero di Ardor
[6] Dell'Impero di Ariakas



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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3: indagini

Il maggiordomo si voltò, guardando terrorizzato la figura comparsa sulla soglia della stanza. L’ufficiale fece fatica a trattenere un sorriso nell’osservare l’espressione spaventata dell’anziano servitore. Non poté, però, fare a meno di chiedersi cosa giustificasse tanto terrore.

«Il signor Brook, immagino. Vorrei potervi dire buongiorno, ma temo che sia una gran brutta giornata, per voi. Sono il capitano Ernest Tyron della seconda compagnia della Guardia di Elos. Al vostro servizio, signore».

«Piacere, capitano. Temo che abbiate ragione, ma non sono tipo da avvilirmi facilmente. Spero, invece che vogliate aiutarmi a recuperare la refurtiva».

Ernest Tyron osservò attentamente l’uomo che aveva davanti, senza riuscire a fare a meno di ammirare la calma con la quale quel mercante aveva accolto la notizia del furto patito. Il signor Brook era un giovane sui trent’anni, alto e ben piantato, con una chioma bionda ricciuta e dal viso perfettamente rasato, gradevole nei lineamenti ma arrogante nello sguardo e nel portamento. Era vestito in modo inappuntabile e la sua voce baritonale non tradiva la minima emozione. Portava al fianco una spada lunga dall’elsa riccamente decorata e sfrontatamente esposta. Aveva decisamente più l’aspetto dell’avventuriero che quello del mercante.

«Farò quel che potrò, signore. Avete la mia parola. Però dovrò chiedervi un po’ di collaborazione».

«È nel mio interesse assicurarvi la massima collaborazione, capitano. Domandate pure».

Tyron osservò incuriosito l’espressione di Brook. C’era del sarcasmo, nelle sue parole? Il volto del mercante non lasciava trasparire alcuna emozione. L’ufficiale rimase un attimo assorto, poi parve riscuotersi.

«Tanto per cominciare: erano in molti a essere a conoscenza del rubino?».

«Temo di sì, capitano. Ne ero veramente orgoglioso e non ne ho mai nascosto l’esistenza, anzi, amavo mostrarlo ai miei amici… e amiche… m’intende?».

L’ufficiale si chiedeva a che gioco giocasse quel mercante. La flemma poteva essere comprensibile, ma questi discorsi gli parevano un po’ troppo frivoli per uno che aveva appena subito un colpo economico di quella portata. Comunque, decise che era meglio fare l’ingenuo, almeno finché non si fosse chiarito meglio le idee.

«Capisco. Purtroppo questo allarga di molto la cerchia dei sospettabili».

«Ma, scusatemi, mi pare che il colpevole abbia lasciato addirittura la firma!».

«Vero. Ma, ammesso che la firma sia autentica, questo non esclude che il ladro abbia avuto dei complici. Anzi, è probabile che qualcuno lo abbia aiutato. Vi siete chiesto come abbia fatto a entrare? La porta non pare forzata, non mi direte che l’avevate lasciata aperta? E, inoltre, nessuno ha visto o udito nulla. Dunque, il ladro sapeva perfettamente dove andare e cosa fare. Se trovassimo i complici, potremmo risalire a lui».

Il mercante lo guardò con un po’ meno sufficienza. Quel mercenario sembrava conoscere bene il suo mestiere.

«Potreste avere ragione. Ma come possiamo fare a scoprire chi sono i complici di questo misterioso Blackwind?».

«Vedremo. Intanto vorrei capire come è entrato. La porta aveva solo questa serratura?».

«È una delle serrature più moderne e sicure attualmente in commercio, capitano. Comunque no. Era sbarrata anche con un incantesimo».

«Questo era un fatto noto a tutti?».

«Niente affatto, capitano. Lo sapevamo solo io e il mio maggiordomo».

Il baffuto ufficiale restò un attimo soprappensiero, come soppesando il valore di quelle informazioni. Poi si rivolse nuovamente al mercante.

«Capisco che la risposta sia scontata, ma devo chiedervi se esistono altre vie d’accesso a questa stanza».

«Eh? Oh no, capitano… questa porta è l’unico accesso possibile. Non sarei certo così folle da lasciare un simile valore in una stanza dalla quale si potesse accedere da un passaggio incustodito».

Ernest Tyron guardò con espressione pensosa il mercante, poi terminò l’esame della porta senza ulteriori commenti. Infine, si avviò lungo il corridoio, entrò nel museo e cominciò a seguirne il perimetro, fermandosi ad esaminare ogni finestra. A un tratto, si arrestò.

«Direi che il ladro è entrato da questa finestra, signor Brook. È stata forzata, delicatamente, ma sono certo che è stata forzata. Guardate i segni».

L’ufficiale indicò alcuni sottili segni, evidentemente fatti con una lama di recente, vicini al saliscendi della finestra. Poi spalancò le imposte e guardò fuori.

«Potrebbe aver scalato il muro, ma è molto alto e dà sulla strada… mi sembra più verosimile che si sia calato dal tetto… c’è un accesso ai tetti, in questa casa?».

I modi sicuri del capitano avevano infuso coraggio nel povero Algernon che intravedeva la speranza che venisse posto rimedio a quel furto che, assurdamente, imputava a qualche proprio errore.

«Sì, signore. Posso condurvici, se lo desiderate».

«Grazie, signor Fitzhoot, fate strada, allora».

Percorsero corridoi e scale, raggiungendo un’altra ala del palazzo, sulla quale si ergeva una torretta. Salirono sul terrazzo, trovandosi all’aperto, a due metri dal tetto.

«C’è una scala?».

Il capitano pareva piuttosto preoccupato nel guardare giù, verso il tetto. Si reggeva alla balaustra come se avesse paura di cadere giù.

«Aspettate, capitano, deve essere qui dentro».

Algernon tornò dentro la torretta per uscirne poco dopo con una scala a pioli che fece scendere fino al tetto, appoggiandola alla balaustra.

«Capitano, soffrite di vertigini?».

Il tono beffardo di Brook provocò la risposta piccata dell’ufficiale.

«Sì. Però so qual è il mio dovere, signor Brook. Scenderò lì sotto e arriverò fino a dove troverò le tracce del ladro. Sareste così gentile da seguirmi?».

Con qualche esitazione, il capitano scese sul tetto e incominciò prudentemente a dirigersi verso l’ala dove si trovavano il museo e la stanza del tesoro. Algernon e Brook lo seguirono a breve distanza. Giunto nei pressi della finestra da dove l’ufficiale riteneva fosse entrato il misterioso ladro, lo videro inginocchiarsi ed esaminare carponi tutto quel tratto di tetto. Dopo un po’, Tyron li chiamò.

«Venite a vedere, signor Brook».

Brook e Algernon raggiunsero il capitano che indicava un gruppo di tegole leggermente coperte di fango secco.

«Ecco qui. Questa è l’impronta del ladro!».

Indicava una macchia su una tegola. Esaminandola più attentamente, Brook si accorse che poteva davvero essere stata lasciata da una suola sul sottile strato argilloso che copriva quella parte di tegole. Quando sollevò lo sguardo dall’impronta, si accorse che Tyron si stava allontanando.
Sempre procedendo carponi e con grande prudenza, il capitano proseguì la sua esplorazione del tetto, allontanandosi con un percorso, a spirale prima, poi sempre più retto, finché non si arrestò nei pressi del bordo.

«Ecco, è saltato qui, quasi certamente dall’edificio di là dalla strada».

«Un bel salto, però».

«Sì, ci sono almeno dieci piedi. Deve essere un tipo dall’agilità fuori dal comune e che non soffre sicuramente di vertigini. Comunque, qui c’è una tegola smossa quasi certamente nell’atterraggio, a meno che non vi piova in casa, signor Brook».

Algernon intervenne, ritenendo di sua assoluta pertinenza quella questione, anche perché non avrebbe mai tollerato che una casa da lui diretta potesse avere inconvenienti del genere.

«Non mi risulta, capitano. E io sarei il primo a saperlo. Controllo il tetto ogni due settimane e non c’erano tegole smosse, fino a cinque giorni fa».

«Bene. Qui non ci resta altro da fare, dunque possiamo tornare dentro. Confesso che quest’esperienza è stata piuttosto… impegnativa, per me».

Tornarono indietro, lentamente, il capitano Tyron in testa, con passo esitante, gli altri due dietro. Raggiunsero la torretta senza problemi e, appena risalito sul terrazzo, l’ufficiale parve riprendere un po’ di colore.

«A questo punto dovremo vedere se scopriamo da dove è venuto quel tizio ma a questo penseranno i miei uomini. Farò controllare con discrezione i tetti delle case vicine e interrogare un po’ di gente. Non credo che qualcuno abbia visto il ladro ma è meglio non trascurare nulla. Arrivederci a presto, signore, tornerò al massimo domattina».

«Grazie, capitano. Apprezzo molto il vostro interessamento e sono certo che presto verrete a capo di questo furto».

Ancora una volta, l’ufficiale ebbe la sensazione di un certo tono beffardo nelle parole di Brook ma preferì sorvolare. Fece un cenno di saluto e si allontanò verso l’uscita.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4: il mago

Seduto su un’antica poltrona, nel centro della stanza, il mago vestito di nero scosse la testa rasata, coperta di tatuaggi. I suoi piccoli occhi si ridussero a feritoie, nell’osservare il mercante. Pareva volerlo studiare fin dentro l’anima, carpirgli i pensieri. Era di piccola statura e corporatura minuta ma emanava una tale sensazione di potere trattenuto e di malvagità da essere capace di intimidire gli individui più coraggiosi. La sua bocca si contorse in un sogghigno, mentre sollevava un dito ossuto agitandolo in direzione dell’uomo.

«Stai cercando di imbrogliarmi, Brook? Rischieresti di farti molto male».

La sua voce sibilava nel suo strano accento dell’ovest, suadentemente minacciosa. Davanti a lui, il rispettabile signor Brook sembrava misurare con lunghi passi il perimetro della piccola stanza sotterranea, illuminata da un candelabro a più braccia. Tormentava il suo bastone da passeggio, ora stringendolo spasmodicamente, ora passandolo da una mano all’altra. Il piccolo e malevolo mago non staccava gli occhi dal mercante.

«Non dirlo nemmeno per scherzo, mago. Sembra assurdo ma è andata così. Il biglietto era nella stanza e il rubino era sparito».

Brook sostenne lo sguardo inquisitore del mago ma, dalla sua voce, traspariva un vago timore.

«Non so spiegarmelo, non capisco come sia accaduto ma è successo».

«Non avevo alcuna speranza che tu ci capissi qualcosa, Brook. Non è per questo che ti ho scelto, d’altronde. Piuttosto, dimmi: il vecchio è attendibile?».

La voce del mago si era fatta, se possibile, ancor più insinuante e malevola.

«Algernon? Nel modo più assoluto. Non solo è con me da dieci anni, ma in questo periodo non ha neanche mai avuto il minimo sospetto sulle mie attività. Per lui sono solo il rispettabile signor Brook, mercante ed esperto d’arte. In più è vergognosamente onesto».

«Peccato però…».

Un tono di delusione comparve nella voce del mago che assunse un’espressione meditabonda.

«Sarebbe stato, ehm, interessante… interrogarlo. Complimenti, Brook. Dunque esiste qualcuno che ha capito meno di te di questa storia. È già qualcosa».

Il mercante d’arte si fermò improvvisamente, voltandosi verso il piccolo mago con espressione cupa. La sua voce suonò alterata.

«Non ti permetto di trattarmi così».

«Sono terrorizzato, Brook. Dalla tua dabbenaggine, però. Secondo te dovrei credere che un ladro è riuscito a entrare in quella stanza eludendo la mia magia? Bada bene Brook: solo chi conosce la parola d’accesso può entrare senza dissipare gli incantesimi e ti assicuro che sono ancora tutti perfettamente attivi. Oppure, un mago molto più potente di me».

Il mago non aveva minimamente cambiato l’espressione meditabonda del viso ma la sua voce era diventata pericolosamente gelida. Brook si accorse immediatamente del cambio di tono e ripiegò rapidamente tornando a un atteggiamento remissivo.

«Capisco benissimo che la faccenda pare incredibile, Sfi’Hak, ma ti assicuro che ne so quanto te. Quel mercenario, oggi ha saputo spiegare come ha fatto quel tizio a entrare e raggiungere la sala ma non si è arrischiato a fare ipotesi su come abbia forzato la porta. Francamente, non riesco a spiegarmelo».

«Io, invece, non riesco a spiegarmi cosa avevo bevuto quando ti ho affidato quest’operazione».

Brook fece per protestare ma uno sguardo gelido e minaccioso del mago lo spinse a essere prudente. Sfi’Hak era un alleato veramente pericoloso, capace e contento di uccidere con un gesto e una parola. Il mago riprese a parlare col tono di chi spiega qualcosa a uno scolaro svogliato.

«Dammi una speranza, Brook. Quel mercenario che svolge le indagini ti pare all’altezza? Pensi che non si sia accorto di nulla? Sarebbe… seccante se finisse col capire qualcosa di quel che sta succedendo qui. E, soprattutto, ti sembra comprabile?».

«Il capitano Tyron? Sembra un tipo sveglio, potrebbe scoprire qualcosa di più sul furto ma non di quel che stiamo facendo… Occorrerebbe un vero esperto d’arte. In ogni caso lo terrò d’occhio».

Sfi’Hak lo guardò con una strana espressione. Sembrò sul punto di dire qualcosa, poi si fermò e riprese l’atteggiamento meditabondo. Dopo un istante di silenzio riportò il suo sguardo malevolo sul mercante.

«Allora sono veramente tranquillo… Forse è meglio portarlo dalla nostra parte. Pensi di poterlo corrompere?».

«Nessuno è incorruttibile. Un capitano mercenario, poi…».

Brook rispose con un sorriso di sufficienza, gonfiando il petto. Aveva la tendenza a misurare gli altri col proprio metro, come se tutti dovessero pensare e comportarsi come avrebbe fatto lui.
Sfi’Hak rilevò immediatamente la superficialità della risposta del mercante e, per un attimo, valutò la possibilità di trasformarlo in un tacchino.

«Sì. Forse hai ragione. Forse sei un maledetto presuntuoso. Stupiscimi, Brook. Assicurati la collaborazione di quel tipo. A quel punto resterebbe solo il misterioso ladro».

La voce del mago divenne ancora più sibilante. Quell’intrusione imprevista lo aveva irritato oltremisura. Non intendeva permettere che qualcuno interferisse nella sua attività e non tollerava che quel ladro si fosse fatto beffe dei suoi incantamenti.

«Sai qualcosa di lui? Se ti ha lasciato un biglietto dovrebbe voler dire che il suo nome ti è noto».

«Blackwind è un ladro che si sta facendo un nome in questa città. Si tratta di un avversario abile e pericoloso. Fra l’altro, credo che c’entri qualcosa con quelli che hanno mandato all’aria i miei affari nei boschi occidentali, l’anno passato».

Il mercante si fermò un attimo, pensieroso. Aveva perso un bel po’ di soldi in quella faccenda e doveva anche ritenersi fortunato che i suo nome non fosse saltato fuori.

«Pare che sia anche un appassionato d’arte e che spesso preferisca rubare un capolavoro piuttosto che uno scrigno pieno d’oro. Temo che potrebbe aver scoperto davvero qualcosa».

I piccoli occhi del mago si fissarono in quelli del mercante. Erano freddi e minacciosi più che mai.

«Questo è il problema, Brook. Il rubino conta assai poco in confronto. Lo capisci vero? Se i magistrati scoprono quello che stiamo preparando saremo entrambi in un pericolo mortale. Chiunque sia quel misterioso Blackwind, abbiamo l’assoluta necessità di neutralizzarlo. E assicurarci che non possa riferire a nessuno quel che può aver visto».

«Vuoi utilizzare il capitano Tyron per catturare e poi eliminare quel Blackwind?».

«Sì, Brook. Sono lieto che tu abbia compreso almeno in parte quello che cercavo di dirti. Quell’uomo va catturato ed eliminato al più presto. E, se accetti un umile consiglio, sarebbe intelligente da parte tua non contare solo su quel mercenario».

Brook riprese per un attimo l’espressione arrogante, gonfiando nuovamente il petto e mostrandosi assai soddisfatto di sé. Il mago ebbe nuovamente la fugace visione di un tacchino vestito come il suo complice.

«Ho buone ragioni per pensare stasera tenterà un nuovo colpo. Se sarà così sono convinto che rifarà lo stesso percorso di ieri. Allora, domattina quel Blackwind non sarà più un problema».

Il mago osservò in silenzio il mercante, quasi soppesando le sue parole. Poi riprese, con un tono insinuante.

«Mi stai nascondendo qualcosa, Brook? Perché pensi che debba tornare? E se anche quel tipo stanotte dovesse tornare davvero, sei veramente sicuro di riuscire a eliminarlo?».

«Ho l’elemento giusto. Un pugnale che non ha mai fallito. Basterà aspettarlo sul tetto e il problema sarà risolto».

Il mago rimase ancora un attimo a studiare il suo interlocutore che pareva solo parzialmente a disagio. Perché mai era tanto sicuro del fatto che il ladro sarebbe tornato? C’era davvero da fidarsi di quel misterioso sicario? Qualcosa continuava a sfuggirgli. Il suo complice garantiva un’ottima copertura per i suoi affari ma stava diventando pericolosamente intraprendente e stava certamente tacendo qualche informazione importante. Tutto sommato, però, poteva benissimo che il sicario riuscisse nell’intento di uccidere quel Blackwind, dunque, perché non tentare? Comunque, poi si sarebbe dovuto occupare di quel che Brook stava cercando di nascondergli. E l’avrebbe fatto alla sua maniera.

«Bene, Brook. Buona fortuna, allora. Comunque non trascurare il capitano. Se sale sulla nostra barca, bene, sennò…».

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5: inganno

Blackwind giocherellava assorto con la splendida sferula rossa, seduto accanto alla finestra della sua camera, nel palazzo dove aveva preso alloggio un anno prima. Ogni tanto si fermava e la osservava attentamente, contro la luce proveniente da una lanterna accesa, nonostante fosse ancora pieno giorno, poggiata sul tavolo accanto a lui.
Non sapeva bene se mettersi a ridere o scagliare il rubino fuori dalla finestra. Quel gioiello d’inestimabile valore, la meraviglia della collezione di Brook, era un falso da due soldi. Un pezzo di vetro colorato. Bello, per carità, fatto veramente bene. Ma falso.
Guardò dalla finestra, nel cortile del palazzo che era stato di un crudele mercante di schiavi che Blackwind aveva pubblicamente smascherato, scoprendo con orrore che si trattava di un ratto mannaro, una delle più sordide specie di licantropi di Ainamar. Ripensò a come si era fatto beffe di quell’individuo e un sorriso amaro gli affiorò sulle labbra.
Stavolta era stato lui a essere beffato. Nei pochi istanti che aveva avuto a disposizione per impadronirsi del rubino non aveva avuto la possibilità di esaminarlo con cura. Gli sarebbe bastato guardarlo un attimo controluce per capire, ma in quel momento era praticamente al buio.
Pazienza. Era stato giocato. Però la partita era tutt’altro che chiusa. Anzi, aveva la netta sensazione che quella faccenda si sarebbe rivelata decisamente più complessa di un semplice furto di gioielli. Più pensava a quanto aveva osservato nella stanza “del tesoro”, più si convinceva che la maggior parte dei tesori nascosti in quella stanza erano in realtà ottime copie. Falsi, insomma.
Il giovane elfo guardò ancora con aria assorta la bella riproduzione del rubino favoloso. Ripensò alla stanza, ai pochi istanti che aveva avuto per osservarla. Cercò di ricomporre nella sua mente quell’enigma.
L’interrogativo che più di tutti lo tormentava era perché mai Brook avesse messo tante protezioni su quella porta, quando poi non custodiva altro che cose di relativamente poco valore.
Cosa custodiva quella porta inaccessibile se non il rubino e le altre opere d’arte? Cos’altro c’era nella stanza del tesoro di James Brook? Quale mistero si celava dietro quella porta?
Occorreva tornare in quella stanza. Adesso sapeva come fare a entrare, anche se occorreva procurarsi una chiave originale. Questo non sarebbe stato semplicissimo anche se un’idea stava cominciando a prendere forma nella sua mente.
Spense la lanterna e ripose il falso rubino in un sacchetto di pelle e poi in uno scrigno. Si avvicinò allo specchio, controllando che i baffetti posticci che indossava nei panni di lord Bailey Winström fossero perfettamente aderenti. Si aggiustò gli abiti, pettinò i capelli e recuperò il bastone animato che usava per non essere completamente disarmato, poi uscì dalla stanza.

«Robert!».

«Eccomi milord».

Il giovane maggiordomo raggiunse rapidamente il suo nuovo padrone, pronto a eseguire con assoluta precisione i suoi ordini. Robert James Fitzooth, maggiordomo da quattro generazioni era particolarmente orgoglioso di servire un nobile gentiluomo del livello di lord Bailey. Anche perché era un nobile di indole assolutamente pacifica, refrattario a ogni idea avventurosa e gli garantiva una vita tranquilla e, onestamente, nemmeno troppo faticosa. Poi quella casa era piena di libri affascinanti e Robert aveva sempre avuto una grande passione per la lettura. Insana, diceva suo padre.

«Puoi chiamarmi Calyon ed Elowen, per cortesia?».

«Vado immediatamente, milord. Dove intendete attenderli?».

«Nello studio. Grazie, Robert».

Guardò allontanarsi il giovane maggiordomo, trattenendo a stento un sorriso. Era decisamente un bravo ragazzo, proprio come suo padre era una brava persona. Sospirò, sentendosi un po’ in colpa. Il buon Robert non poteva certamente immaginare di essere al servizio di uno dei più famosi fuorilegge di Elosbrand. Sperò di potergli garantire la tranquillità che meritava.
Raggiunse lo studio con passo rapido e si mise a frugare fra le pergamene raccolte in una libreria nei pressi della sua scrivania. Aveva appena trovato quel che cercava quando bussarono alla porta.

«Ci sei?».

«Ti aspettavo, amico mio, entra! Elowen non c’è?».

Sulla porta comparve un giovane elfo dal volto sorridente e lo sguardo vivace. Calyon era poco più basso del suo amico, decisamente più muscoloso, con lineamenti decisi e volitivi, incorniciati da una capigliatura bionda tagliata corta, da persona pratica qual’era. Vestiva semplicemente, con pantaloni di panno e una camicia, sulla quale indossava una corazza di cuoio, mantenuta con cura militaresca in perfetta efficienza. Una spada lunga pendeva al suo fianco sinistro e i bracciali di cuoio indicavano chiaramente la sua familiarità con l’arco. Alle sue spalle Robert attendeva compostamente gli ordini del suo padrone.

«Credo sia al tempio di Mirpas…».

Un lampo divertito guizzò negli occhi di lord Bailey.

«Dal paladino?».

«Sì».

Calyon soffocò a stento un sorriso.

«Faccenda seria, allora… Robert, non credo che avrò ancora bisogno di te, per oggi. Ceneremo fuori, stasera».

Il giovane maggiordomo fece un perfetto inchino e salutò, lasciando soli i due amici.

«Conoscendoti, ho paura che stasera salteremo la cena, invece. Non ho ragione?».

La voce tenorile di Calyon era sempre piacevole, anche quando intrisa d’ironia, come in quel caso. Il cacciatore elfo era diventato uno degli amici più cari dell’eclettico ladro. Così come la leggiadra ma audacissima Elowen. Ufficialmente, insieme al cacciatore elfo Ardis, erano al servizio di Lord Bailey. Ma nessuno sapeva che Ardis e lord Bailey erano una persona sola e che nessun contratto ma una semplice e leale amicizia legava quei tre elfi.

«Spero che non sia necessario. Però ho bisogno di parlarti e fare un giretto nel quartiere nobiliare… alla "Corona d'Oro" si mangia piuttosto bene, no?».

«Altroché. Mandiamo un biglietto a Elowen?».

«Ottima idea, se ci può raggiungere a cena le parleremo di questa idea che mi frulla per la testa».

«E se si porta dietro il pio guerriero?».

«Dovrò stare maledettamente attento a non farmi sfuggire certi particolari… sennò, alla faccia dell’amicizia, mi sbatte dentro e butta via la chiave!».

Scoppiarono entrambi a ridere. Stimavano profondamente il coraggioso paladino ma sapevano benissimo che non avrebbe mai potuto approvare fino in fondo i metodi che Blackwind soleva adottare.

«Puoi occuparti tu di mandare due righe a Elowen? Ne approfitto per guardare questa pergamena…».

«Sì, certo. Cos’è?». Calyon allungò il collo sulla spalla del suo amico e riconobbe la pergamena.

«Una mappa del quartiere nobiliare? Stai progettando un gran colpo eh?».

«Veramente, sospetto che sia qualcun altro a progettarlo. Anzi, ne sono praticamente certo anche se non so esattamente di cosa si tratti. È proprio di questo che vorrei parlare con te ed Elowen. Credo che ci sarà da divertirsi».

Lord Bailey osservò ancora con grande attenzione una parte di quella mappa, poi la arrotolò e la ripose in un cilindro d’avorio che appese alla cintura. Infine, uscì dalla stanza.
Mezzora dopo, i due amici passeggiavano sul far del tramonto nelle ampie strade del quartiere ricco della città. Sempre chiacchierando giunsero davanti all’elegante palazzina dove viveva lo stimato James Brook, mercante d’arte. Era situata nella parte del quartiere più vicina all’area portuale, su un viale alberato che la separava dalla grande sede commerciale della Compagnia dei Viaggiatori e confinava con l’elegante villa di Irlentree, uno dei più ricchi armatori della città, membro influente e rispettato della Corporazione dei Mercanti. Una villa sontuosa quest’ultima, addirittura arricchita da una sorgente termale i cui vapori si alzavano in cielo in pigre volute.

«Si tratta bene l’amico Irlentree. Guarda che vapori! Credo proprio che mi piacerebbe fare un bagno in quella sorgente, che ne dici Ard…ehm Bailey?».

Un’occhiataccia, smorzata da un sorriso, fulminò il cacciatore elfo.

«Magari con la sua figliola eh? Dicono sia niente male, oltre che la migliore ereditiera della città. Attento a dire certe cose ad alta voce, Calyon. Qualcuno potrebbe sentirti e potresti passare un guaio».

Calyon capì al volo che le ultime parole non si riferivano al pur gelosissimo Irlentree e fece segno di aver ricevuto il messaggio. Rimase un attimo assorto a osservare la villa del ricco armatore, poi raggiunse il suo amico che si era avvicinato al palazzo del mercante.

«Vorrei fare un giro intorno al palazzo di Brook. Ho la sensazione che stasera dovrò farci  un’altra visita».

Lord Bailey parlava a bassa voce, quasi più a se stesso che al suo fedele amico.

«Credevo di aver capito che ieri sera era andato tutto bene».

«In quella stanza c’erano solamente dei falsi. Ho rischiato il collo per un pezzo di vetro. L’ho scoperto solo stamani, per questo siamo qui».

Calyon sgranò gli occhi.

«Falsi? Vuoi dire che ti hanno fregato? Questa poi è bella! Pensavo che fosse impossibile prenderti per il naso e tu mi dici che c’è riuscito quel pallone gonfiato di Brook?».

Calyon dovette sforzarsi per non mettersi  a ridere.

«Grazie del conforto. È bello avere degli amici che parteggiano per te…».

Lord Bailey accompagnò con una riverenza il suo commento ironico. Calyon stavolta scoppiò a ridere.

«Prego. Ora cosa dovremmo fare, secondo te?».

«Osservare bene. Vedi la parete rivolta verso la villa di Irlentree? Al secondo piano c’è la stanza del tesoro. Però, guardandola da qui, mi sembra che qualcosa non torni».

«Che vuoi dire?».

«Magari lo sapessi. È solo una sensazione, bada bene. Ma la disposizione delle finestre mi sembra diversa da quel che si vede da dentro… non so però quale sia questa differenza, né se significhi qualcosa».

I due amici percorsero quasi tutto il perimetro del palazzo ma Lord Bailey non parve essere riuscito a chiarire i propri dubbi.

«Andiamo, Calyon. Se continuiamo ad aggirarci qui intorno finiremo per richiamare l’attenzione di Brook e non mi pare il caso».

Si diressero verso nord, raggiungendo la splendida Grande Casa del Sapere, il tempio di Stias, dio della conoscenza e dell’ingegno e si avviarono per l’ampia via della Libertà, la strada che conduceva al Senato. Quasi di fronte al grandioso palazzo dove si svolgeva l’attività politica della Repubblica, si trovava la sfarzosa locanda “Corona d’Oro”, il locale più ricco e meglio frequentato della città.

«Ma non è presto per andare a cena? Siamo a metà pomeriggio ed Elowen non arriverà prima di un’altra ora».

«Infatti. Ho prenotato una saletta tutta per noi. Ci ritroveremo lì. Tornerò nel giro di due ore. Tu dovresti ricontrollare il palazzo di Brook e incontrarti con Elowen. Occupate la saletta prenotata a mio nome e aspettatemi alla locanda. Intanto le racconterai tutto».

«E tu dove intendi andare?».

«Io… devo capire meglio alcune cose. Farò una breve indagine col massimo della discrezione, poi vi racconterò tutto».

«Giochi a fare il misterioso?».

«Ti racconterò tutto a cena, stai tranquillo. Penso che Brook si aspetti di vedermi tornare stasera e vorrei prendere le mie precauzioni. Non lo voglio deludere ma non vorrei lasciarci la pelle, ci sono ancora troppo affezionato».

Calyon guardò allontanarsi il giovane avventuriero, chiedendosi cosa stesse tramando. Era certamente un geniale organizzatore ma anche uno straordinario cacciatore di guai. Sospirò. Se avesse desiderato una vita tranquilla avrebbe potuto fare mille mestieri. Invece aveva deciso di imbrancarsi con Blackwind. Questo voleva evidentemente dire che i guai li cercava anche lui.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6: Corruzione

Un bel pomeriggio d’autunno, tiepido, ricco di luci e profumi. Il capitano Tyron bussò al portone del palazzo di Brook. L’ufficiale era decisamente di buonumore. Le sue indagini stavano procedendo bene e nella sua mente si andava componendo sempre meglio l’intrigo del rubino.
 
«Buonasera Algernon! Posso entrare?».

«Buonasera capitano. Siete sempre il benvenuto qui dentro. Avete scoperto qualcosa?».

L’ufficiale entrò sorridendo nell’ampio vestibolo del palazzo, osservato con scarsa simpatia da una guardia dall’aria afflitta, forse quella stessa che era di ronda quando il rubino era scomparso. Certo, pensava il giovane capitano, aveva molto più l’aspetto di un malfattore che di un sorvegliante.

«Credo di sì, Algernon. Il signor Brook è in casa?».

«Sì, capitano. È rientrato presto oggi. Volete essere annunciato?».

«Grazie, Algernon. Vi attenderò qui».

Il solerte maggiordomo risalì rapidamente l’ampia scalinata che conduceva al museo e scomparve nell’ampia sala, chiudendosi la porta dietro le spalle. Dopo pochi minuti era di ritorno.

«Il signor Brook vi attende, capitano».

L’ufficiale seguì il maggiordomo su per le scale, attraverso il museo, fino alla porta dell’appartamento del padrone di casa.  Questo correva parallelamente al corridoio dove si trovava la stanza del tesoro. L’ultima stanza, illuminata da due ampie finestre, era proprio lo studio di Brook.
Il mercante era seduto dietro un’ampia scrivania ma, appena Algernon introdusse l’ospite, si alzò e gli venne incontro, stringendogli vigorosamente la mano.

«Benvenuto, capitano. Pensavo proprio a voi, poco fa. Avete scoperto qualcosa di nuovo?».

L’ufficiale osservò incuriosito il mercante. Pareva davvero felice di rivederlo ma poche ore prima pareva impaziente di liberarsi di lui. Cosa poteva essere cambiato?

«Credo di sì, signore».

«Algernon, potete andare. Qui ho tutto quanto mi occorre. Potete occuparvi della cena, grazie».

Il maggiordomo fece un inchino e uscì dalla stanza. Se era rimasto male per essere stato congedato così rapidamente non lo diede assolutamente a vedere.

«Bene, capitano. Quali novità mi portate?».

«Penso di aver capito alcune cose, signore. Su come quel ladro è entrato nella vostra stanza nonostante la protezione magica».

«Davvero? Mi incuriosite capitano. Volete bere qualcosa?».

Brook si diresse verso un armadio, alla destra della porta d’ingresso, vicino al quale era un pregiato tavolino di marmo e due comode poltrone. Aprì l’armadio rivelando le numerose bottiglie che vi erano contenute.

«Un frizzante di Mirlond? A quest’ora è l’ideale».

«Siete anche un collezionista di vini pregiati, signor Brook? Complimenti davvero!».

«Amo trattarmi bene, capitano. E mi faccio un dovere di trattare nel modo migliore possibile i miei collaboratori. Soprattutto quelli abili e fedeli».

La voce di Brook indugiò un attimo sulla parola “fedeli”, poi riprese a parlare, indicando una delle due poltrone.

«Accomodatevi, capitano, così potremo parlare con maggior agio».

Il giovane ufficiale si sedette un po’ rigidamente sulla poltrona, senza smettere di osservare con curiosità il mercante. Si chiedeva dove volesse andare a parare con tutta quella gentilezza. Pareva che dovesse intavolare una trattativa d’affari, anziché parlare delle indagini che riguardavano il furto subito. Assaggiò il vino, apparendone decisamente soddisfatto.

«Prego, capitano, raccontatemi i vostri progressi».

«Credo, come vi stavo accennando, di aver capito come ha fatto il ladro a entrare».

«Davvero? E come avrebbe fatto, secondo voi?».

«È molto semplice, signor Brook. Non è affatto entrato».

«Cosa?».

«So che sembra assurdo, ma è l’unica spiegazione ragionevole, seguite il mio ragionamento e ditemi cosa ne pensate».

«Vi ascolto, capitano, mi state incuriosendo davvero».

«Bene. Abbiamo una porta chiusa magicamente, i cui incantamenti sono perfettamente attivi, eppure nella stanza c’è un biglietto e né voi né il vostro maggiordomo avete rivelato a chicchessia la formula di apertura della stanza, senza la quale bisognerebbe annullare gli incantamenti per passare, siamo d’accordo?».

«Sì. Proseguite, prego».

«Immaginiamo che questo ladro abbia pianificato il furto con attenzione, sia arrivato davanti a quella porta e si sia reso conto che non c’era modo di aprirla. Nessuno sapeva degli incantamenti, dunque supponiamo che il ladro ne sia rimasto sorpreso e che non avesse mezzi magici a disposizione».

«D’accordo».

«Bene. Cosa fa il nostro ladro, di fronte a quell’ostacolo apparentemente insormontabile? Chiunque getterebbe la spugna e progetterebbe di tornare con qualche oggetto magico ma il nostro ladro ha un’idea che potrebbe permettergli di entrare, facendosi aprire la porta da un complice involontario».

«Cioè?».

«Ora mi spiego. Quando il vostro maggiordomo è entrato nella stanza ha subito visto il biglietto sul pavimento, poco oltre la porta, vero?».

«Sì, è proprio quello che ha raccontato, poi, quando l’ha letto, si è precipitato fuori dalla stanza per chiamare aiuto».

«Infatti. E così l’ho incontrato. Ma perché quel biglietto era per terra? Questa cosa mi ha lasciato perplesso. Io lo avrei lasciato al posto del rubino, nella nicchia. Voi no? E perché ha preso solo il rubino? Voi non avreste preso anche qualcos’altro, avendo buona parte della notte a disposizione?».

«Beh… sì, immagino di sì».

«D’altra parte, Algernon ha reagito in maniera assolutamente prevedibile, vista la fama di quel ladro. Ed è scappato fuori senza nemmeno guardare cosa era stato rubato. Lo ha fatto solo dopo che siamo entrati, una decina di minuti dopo».

«Non vi seguo…».

«Supponiamo che questo Blackwind abbia vergato il biglietto e lo abbia fatto scivolare sotto la porta… Gli incantesimi si attivano solo se entra qualcuno o si apre la porta, vero? Supponiamo poi che si sia nascosto da qualche parte e abbia aspettato. Quando Algernon è scappato fuori, è entrato approfittando della porta aperta e degli incantesimi inattivi, ha preso il rubino ed è fuggito. Non ha preso altro perché il tempo a sua disposizione era brevissimo e doveva sfruttarlo nel modo più… redditizio».

«Per gli Dei! Ci avrebbe giocato così, secondo voi? Certo ha un bel sangue freddo quel tipo! E se lo avessero scoperto?»

«Il rischio era poco maggiore di quello di essere scoperto durante il tentativo di furto fatto durante la notte. Ha tentato una mossa disperata e gli è riuscita».

«In effetti, mi sembra un’ipotesi molto intelligente… complimenti, capitano credo che siate davvero sulla buona strada».

«Sono lieto che troviate ragionevole la mia ipotesi».

«La trovo più che ragionevole, capitano. La trovo geniale. Siete veramente un uomo dalle qualità non comuni. Un uomo che merita ben più del grado che portate».

«Sono lusingato, signore. Temo, però che potrei ambire a una promozione solo se dovessi mettere le mani su quel Blackwind. Temo che non sarà facile».

«Non per uno in gamba come voi, capitano. Io però pensavo a qualcosa di diverso, per voi».

La voce di Brook, si era fatta melliflua, insinuante.

«Temo di non capirvi, signor Brook…».

«Non vi potrebbe interessare un incarico… molto ben remunerato… compatibile col vostro impegno di ufficiale?».

«Eh?».

L’ufficiale pareva meravigliato ma niente affatto irritato. Guardava con attenzione il volto di Brook, Nel suo sguardo comparve un nuovo interesse.

«Si tratterebbe solo di collaborare con me… per rendere più semplice e sicura la mia attività mercantile… nulla di disonorevole, badate bene. Solo qualche piccolo servizio…».

«Volete comprarmi, signor Brook? Un ufficiale della Guardia di Elos?».

La voce di Tyron sembrava più che altro divertita, senza alcun tono di minaccia.

«Comprare è un verbo poco appropriato alle persone… Siete un soldato di ventura. La vostra spada è in vendita. Il vostro onore no di certo… Vorrei la vostra collaborazione, ben retribuita, per certi miei affari».

«Retribuita… quanto?».

Una luce avida si accese negli occhi dell’ufficiale.

«Mille monete d’oro se Blackwind morirà nel tentativo di catturarlo. L’onore della sua cattura sarà comunque vostro».

«Questo si può fare. Non vedo alcuna difficoltà… tranne che non so ancora come catturarlo».

«E altre mille se farete in maniera che un carico di opere d’arte possa essere imbarcato domani sera, senza… eccessive formalità».

«Questo mi piace meno, signor Brook. Volete che diventi complice di un contrabbando d’arte?».

«Non mi avete compreso, capitano. È tutto perfettamente in regola. È solo che… vorrei evitare ispezioni che potrebbero danneggiare le merci che tratto. Molte opere d’arte sono estremamente delicate e certi vostri colleghi, perdonatemi, hanno modi più adatti a dei taglialegna».

«Beh… se si tratta di questo… allora…».

«Allora capitano? Sì o no?».

L’ufficiale chiuse gli occhi. Sembrava assorto in qualche profonda meditazione. Brook lo osservava ansioso, quasi trattenendo il respiro. La faccenda delle opere d’arte lo incuriosiva oltremodo. La versione del mercante aveva poco di credibile e mille monete d’oro erano una cifra spropositata per una cosa tanto banale. Dunque, c’era molto di più in ballo.

«D’accordo, Brook. Sono con voi».

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7: una cena fra amici

La locanda “La Corona d’Oro” era il locale più ricercato a Elosbrand. Era considerato dai cittadini e dai viaggiatori più abbienti che capitavano in città il posto ideale per condurre gli affari di più alto livello. A questo si prestavano perfettamente i molti salottini che era possibile riservare per pranzi e cene fra amici o gente d’affari.
La locanda era una vecchia e lussuosa casa affacciata sulla Piazza Antica, proprio di fronte al Senato. In precedenza, era stata l’abitazione di un senatore appassionato d’arte e in effetti sui soffitti e sulle pareti dei saloni si potevano ancora vedere alcuni affreschi di fattura estremamente pregevole. L’edificio era circondato su tre lati da uno splendido giardino, la cui parte meridionale guardava sulla Casa della Giustizia, il severo tempio di Varëos, dalla caratteristica pianta rotonda, identico in ogni città di Ainamar.
Sull'architrave dell'ingresso principale vi era il bassorilievo di una corona ducale che dava il nome alla locanda.
Davanti all’edificio, una bellissima giovane elfa, vestita con la semplice eleganza della sua razza, pareva attendere qualcuno. Era snella, con un portamento eretto, lievemente altezzoso, che ne tradivano l’abitudine a trarsi d’impaccio coi propri mezzi e la notevole sicurezza in se stessa. I lunghi capelli biondi le ricadevano morbidamente sulla corazza di cuoio che le proteggeva il busto flessuoso. Portava, appesi alla vita sottile, una spada corta e un pugnale da caccia. Chiunque l’avrebbe identificata con certezza come un’avventuriera. Una delle tante donne d’arme che circolavano per quelle terre.
 
«Salve, bellezza!».

La giovane si voltò lentamente, la destra sull’elsa della spada, il volto attraente assolutamente tranquillo eppure (o proprio per questo) decisamente minaccioso. Immediatamente un cordiale sorriso illuminò il suo viso.

«Calyon! Ti piace rischiare, eh? E  se avessi risposto con un colpo di spada?».

«L’avrei parato. Ma ti conosco troppo bene. Tu guardi sempre in faccia prima di colpire. Sarà che frequenti certa gente…».

Elowen arrossì leggermente ma la sua voce apparve tranquilla nel rispondere.

«Alaum è un caro amico. Se diventerà qualcos’altro, mi premurerò di informarti».

Calyon scoppiò in un’allegra risata.

«Va bene, va bene. Non te la prendere, bellezza. Piuttosto, il nostro mutevole capobanda dove si è ficcato? Sarebbe dovuto essere già di ritorno».

L’espressione allegra scomparve dal volto della leggiadra elfa, sostituita da un’ombra di preoccupazione.

«Pensavo foste insieme. Hai idea di cosa intendeva fare?».
   
«Ficcanasare dalle parti del palazzo dell’eccellentissimo signor Brook… almeno credo».

«Brook? Ma chi? Il mercante d’arte?».

«Sì, proprio lui».

«Ma non è quello che aveva venduto armi agli orchi dei boschi occidentale? O ricordo male?».

«Ricordi benissimo. E il nostro amico ha una memoria da elefante per queste cose. Lo ha messo sotto tiro ma pare che abbia rimediato un bel fiasco. E lui non accetta facilmente di essere imbrogliato…».

«Imbrogliato? Avanti, racconta!».

«Ci dovrebbe essere una saletta prenotata a nostro nome. Forse è più prudente andare lì a parlare, non credi?».

«D’accordo, forse hai ragione. Però se ritarda troppo, lo andiamo a cercare, va bene?».

Calyon si strinse nelle spalle e si diresse verso la locanda. Chiaro che sarebbero andati a cercarlo se avesse ritardato troppo! E che avrebbero trovato un bel po’ di guai, era altrettanto certo.
Entrarono nella locanda e un cameriere in elegante livrea li accompagnò premurosamente ma con discrezione alla saletta riservata a nome di lord Bailey Winström. La tavola era già apparecchiata per tre, al centro della stanza ricavata sul retro dell’edificio, alla quale si accedeva solo attraverso una porticina e che prendeva aria e luce da una finestra posta a circa due metri d’altezza. Calyon controllò discretamente le pareti ma si rese subito conto che il loro spessore e la boiserie di legno non avrebbero permesso a orecchie indiscrete di ascoltare quanto poteva essere detto nel locale. Il cameriere si informò se avesse dovuto provvedere immediatamente alla cena. Elowen, con la sua consueta ferma gentilezza, gli disse che stavano aspettando ancora una persona e lo congedò.

«Bene. Ora che ne diresti di raccontarmi tutto?».

Calyon si sedette su una delle tre poltrone con aria soddisfatta, piazzò gli stivali sul bracciolo della poltrona accanto e cominciò a raccontare quanto aveva saputo.
Dopo un’ora, i due amici cominciavano a essere veramente preoccupati per il ritardo dell’audace ladro. Si chiedevano cosa mai lo avesse potuto trattenere e il timore che gli fosse capitato qualcosa di serio stava diventando sempre più angosciante.

«Al diavolo! Io vado a cercarlo!».

Improvvisamente, la porta della saletta si spalancò.

«Buonasera, ragazzi!».

Sulla porta era comparso Blackwind, per l’occasione nei panni di Ardis, il cacciatore elfo.

«Alla buon'ora! Dov'eri finito? Cominciavamo a preoccuparci davvero».

«Sono stato in esplorazione e ho consultato il mio servizio segreto».

Quello che Ardis chiamava scherzosamente il suo servizio segreto era in realtà una formidabile combriccola di vecchie pettegole, capitanate dalla signora Adelaide, vedova Calverton.
Quando era arrivato a Elosbrand ed era solamente Ardis il cacciatore, il giovane elfo aveva trovato alloggio presso un'anziana vedova che gli aveva affittato l'appartamento ricavato dal sottotetto. Dopo il suo trasferimento presso il palazzo del suo alter ego lord Bailey, il giovane cacciatore era rimasto in termini di amicizia con l’arzilla vecchietta. Un po' per simpatia, un po' per l'enciclopedico suo sapere dei fatti altrui. A capo di un piccolo ma efficiente gruppo di comari che quotidianamente si aggiornavano sulle dicerie cittadine, la signora Adelaide Calverton era a conoscenza pressoché di tutti i pettegolezzi che giravano in città. Quando il giovane Ardis passava a trovarla, era sempre felicissima di intrattenerlo con le sue chiacchiere e i suoi biscotti. Anche quel giorno, l'anziana vedova si era dimostrata all'altezza.

«E cosa avresti scoperto?».

«L'illustre signor Brook, impenitente seduttore, ha fatto lungamente la corte alla figlia di Irlentree, la quale pare sia piuttosto sensibile al fascino maschile, ma fu messo alla porta in malo modo quando il geloso genitore l'ha beccato abbarbicato alla figlia proprio in casa sua».

«Interessante... E questo cosa c'entra con i nostri affari?».

«Le porte della villa erano e sono sempre sorvegliate. Eppure Brook si è introdotto in casa. Irlentree è convinto che Brook abbia corrotto qualcuna delle sue guardie per entrare in casa sua e le ha sostituite tutte».

«Vuoi dire che le ha cacciate senza nemmeno sapere chi era onesto e chi no?».

«Niente affatto. Il vecchio ha un pessimo carattere ed è gelosissimo della sua adorata figliola ma è un uomo fondamentalmente giusto. Le ha destinate ad altri incarichi. Siccome Brook non si è più fatto trovare in casa sua, si è convinto di aver fatto la cosa più giusta per difendere la dubbia reputazione della sua erede. Io, invece, sono convinto che deve esserci una comunicazione fra le due abitazioni».

«Ma perché fantasticare di una comunicazione fra le due case se ci può essere una spiegazione più semplice?».

«Avresti ragione se non fosse che ci sono altre novità emerse dalla mia sfortunata impresa dell’altra notte. Avanti, ragazzi, facciamoci servire la cena e vi racconterò tutto mentre mangiamo».

Il servizio era eccellente e molto raffinato. Nella locanda si potevano degustare raffinate specialità di mare e una grande varietà di vini. Gli amici mangiarono con appetito ma si limitarono alquanto nel bere.
Quando uscirono dalla locanda era notte fonda.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

Capitolo 8: Notte di paura

Un’ombra si avvicinò al palazzotto di Brook. Si muoveva agile e silenziosa come il vento, completamente ammantata di nero. Giunta quasi di fronte al palazzo, svoltò in una strada laterale e si arrampicò con agilità felina sul tetto di una casa per porsi in osservazione, sdraiato sulle tegole, accanto al comignolo. Le luci della casa del mercante si spensero una dopo l’altra. Restavano solo le luci del museo e le due torce davanti al portone sbarrato.

Probabilmente Brook è nella stanza del tesoro.

Blackwind non aveva smesso un attimo di pensare al mistero di quella stanza. Il rubino era falso così come le antiche grandi anfore valdoriane e le statue del Formensiar. Cosa poteva esserci, allora, di tanto prezioso da proteggere con una porta incantata? Potevano essere le prove dei suoi traffici? Blackwind era ragionevolmente convinto che, dopo che gli orchi ed i briganti dei boschi occidentali erano stati sbaragliati, Brook non avesse cessato i suoi commerci d’armi, limitandosi a cambiare clientela. Ma di che genere di prove poteva trattarsi? Documenti non ce n’erano né armi di alcun genere.

E allora, cosa c’era dietro quella porta?

Scrutava nell’oscurità, gli occhi fissi sul palazzo con tutti i sensi all’erta, cercando di rivedere con la mente la misteriosa stanza del tesoro. Ripensava alla porta, la serratura incantata, le pareti coperte da scaffali, le anfore, le statue antichissime e... false.

Cos’altro c’era?

La mente del ladro corse ancora agli scaffali riempiti di vasi pregiati, anch’essi falsi, che dal pavimento istoriato giungevano fino alla volta a botte. Le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, illuminate dalla debole luce che giungeva dal corridoio.
Potevano esserci dei documenti nascosti fra quei finti tesori? Non gli pareva di aver notato contenitori adatti. Algernon puliva quella stanza tutte le mattine, se in quella stanza c’erano dei documenti segreti, il maggiordomo avrebbe finito per scoprirli. Doveva esserci dell’altro. E proprio non riusciva a spiegarsi il significato di quelle opere d’arte contraffatte.
Ma poi perché prendere tante precauzioni per proteggere dei falsi? E perché tanta cura? Avrebbe potuto essere un museo e non c’era un granello di polvere da nessuna parte. Evidentemente il maggiordomo doveva essere convinto di occuparsi di opere originali.
Aveva più volte parlato con quell’Algernon, sotto diversi travestimenti. L’anziano maggiordomo pareva essere proprio una brava persona ed era difficile credere che potesse essere al corrente delle attività di Brook.

Cosa c’era dietro quella porta?

Ripensò alla strana sensazione che aveva avuto osservando il palazzo dall’esterno. Qualcosa non tornava e, ripensando alla disposizione delle stanze del palazzo, cominciava a sospettare di cosa poteva trattarsi.
La sua attenzione si rivolse per un attimo ai vapori che si levavano dal giardino accanto al palazzo di Brook. Al buio parevano ancora più abbondanti che di giorno. Rabbrividì. L’aria stava diventando sempre più fresca e Blackwind desiderò di potersi immergere in quelle calde sorgenti. Si avvolse più strettamente nel mantello. L’autunno volgeva al termine e presto sarebbe cominciata la brutta stagione, durante la quale le navi cessavano i loro viaggi e Elosbrand entrava in una specie di letargo.
Dagli alberi del giardino di Irlentree una civetta emise il suo caratteristico verso.

***

Elowen si aggirava prudentemente nello splendido giardino del ricco armatore. Vedeva le volute di vapori biancheggiare davanti a lei e il riflesso della luna nelle acque calde delle sorgenti. Si arrampicò su un albero nei pressi della pozza d’acqua. Il vapore l’avvolse un momento e temette di mettersi a tossire. Rapidamente spostò il suo agile corpo fuori dal vapore, balzando silenziosa e agile come uno scoiattolo su una quercia poco distante. Si passò una mano sugli occhi e li sentì bruciare. Guardò la sua mano e la vide sporca di un’impalpabile polvere grigia.
Fuliggine.

Rimase un attimo meravigliata, chiedendosi dove aveva potuto sporcarsi in quel modo. Poi la sua attenzione fu attratta da un movimento nell’ombra. Sul tetto della casa lì accanto, qualcuno si muoveva con estrema prudenza, in silenzio. Qualcuno che osservava con attenzione il tetto dove Blackwind era salito.

***

Una figura nascosta fra le ombre nei pressi del palazzo di Brook scrutava la sua vittima arrivare, silenziosa e prudente. La vittima si muoveva anch’essa fra le ombre ma la vista ereditata dai genitori mezzelfi permetteva alla misteriosa e minacciosa figura di vederla chiaramente.
E questa vide che la vittima si arrampicava sul tetto della casa di fronte e si nascondeva dietro il camino.
Vide che stava osservando il palazzo.
Vide che si sdraiava sulle tegole.
Vide che era assorta e immobile.

Decise di muoversi e sguainò il pugnale.

Una civetta cantò.

Il pugnale avrebbe colpito presto.
Il pugnale avrebbe spezzato un’altra vita.
Il pugnale le avrebbe dato di che vivere bene per un altro lungo periodo.

Una civetta cantò.

Era l’ora di uccidere.

Si spostò rapidamente verso la casa dove la sua vittima attendeva di morire. Si arrampicò sul tetto adiacente e si sporse un po’ per assicurarsi che quel nemico sconosciuto, la vittima condannata, fosse sempre lì, ignaro di tutto, immobile, mentre la morte si avvicinava.
Scivolò sul tetto dove era sdraiata la figura ammantata di nero.
Una civetta cantò.
Giunse al camino. Era buio, vedere qualcosa era estremamente difficile e solo il mantello e il cappello della vittima, leggermente mossi dal vento, ne tradivano la presenza. Sarebbe stato ancora più facile del previsto. Un altro avversario indegno di lei. Preparò il colpo con calma, si avvicinò in silenzio, fino a pochi passi dalla vittima immobile.
Scattò con un balzo e vibrò il fendente mortale.
La lama quasi si spezzò sulle tegole del tetto. La mano sicura si torse per la violenza del contraccolpo e il sicario comprese che aveva accoltellato un mantello appoggiato sul tetto.
Con la coda dell’occhio vide l’elsa dello stocco piombare sul suo capo.
Poi tutto fu buio.
 
***

Brook entrò nel suo studio con una strana inquietudine. Finalmente quella tremenda giornata era giunta al termine. Il colloquio con Sfi’Hak lo aveva irritato oltremodo. Quel maledetto mago lo derideva e umiliava col suo disprezzo. Però aveva bisogno di lui e della copertura che garantiva. Ma anche Brook aveva bisogno di quel mago e dei suoi infernali aiutanti. Senza di loro non avrebbe avuto modo di sviluppare a tal punto il contrabbando d’armi. Però averli così vicino alle sue ricchezze lo preoccupava. Per questo aveva sostituito il rubino. E nessuno avrebbe potuto immaginare dov’era nascosto.
E poi quella donna. Una donna bellissima ma pericolosa come la coda di una viverna. Avrebbe trovato estremamente piacevole frequentarla se non avesse avuto quell’inquietante alone di morte attorno a sé. Però era fra i migliori del suo ramo. Formidabile, efficace e spietata. Aveva accettato l’incarico senza esitazioni. L’avrebbe portato a termine con la sua letale efficienza.
E, infine, il mercenario. Era riuscito a comprarlo ma per un terribile momento aveva temuto che fosse stato sul punto di rifiutare la sua offerta. Se non l’avesse corrotto, Sfi’Hak non avrebbe perdonato quell’errore.
Rabbrividì.
La tenue luce della bugia che teneva in mano tremolò un po’ nel varcare la soglia del suo studio. Chiusa la porta, il ricco mercante si diresse verso la scrivania con passo sicuro. Si avvicinò alla lampada e armeggiò un poco per accenderla. Gli parve di avvertire un leggero odore di vino. Possibile che avesse lasciato una bottiglia aperta?

Click.

Il mercante si voltò bruscamente verso la porta, da dove aveva avvertito nitidamente il rumore di qualcosa che era scattato. Guardò la porta senza capire, poi si accorse che la chiave era scomparsa.
 
«Buonasera, signor Brook».

La voce, tranquilla, leggermente ironica, assolutamente priva di qualsivoglia accento, proveniva dalla poltrona vicina al tavolino, accanto alla porta. Brook girò rapidamente il paralume per vedere meglio. Seduto comodamente sulla poltrona c’era quello che pareva un gentiluomo elegantemente vestito di nero, con il capo coperto da un ampio cappello a tese larghe adorno di una splendida piuma nera. Teneva in mano un calice di vino rosso e, sul tavolino, accanto a lui, una bottiglia e un altro calice parevano attendere un ospite di riguardo.

«Accomodatevi, prego. Questo squisito nettare vi attende già da qualche minuto».

La mano destra di Brook scivolò nascostamente nel cassetto della scrivania, mentre il trafficante d’armi teneva gli occhi fissi sul misterioso ospite.

«Se è la balestra da mano che cercate, temo di averla già presa io. Non datevi disturbo, eccellentissimo signore».

La voce dell’uomo vestito di nero suonava beffarda nel silenzio della stanza. Brook fece uno scatto verso la parete e afferrò il cordone della campana che usava per richiamare la servitù. Lo tirò con forza ma, al primo strattone, l’intero cordone gli cadde addosso, senza che la campana emettesse alcun suono.

«Suvvia, egregio signore, perché volete che qualcuno venga a disturbarci? Accomodatevi a questo tavolo, siamo fra gentiluomini, mi pare».

«Blackwind?».

Il gentiluomo vestito di nero fece un cenno di assenso col capo. Brook ebbe l’impressione che avesse anche sorriso, da sotto quel cappello che gli manteneva il viso in ombra.

«Ho sentito che mi chiamano così e devo dire che non mi dispiace affatto. Accomodatevi. Dopotutto siete il padrone di casa. Assaggiate quest’ottimo vino, signore. È veramente sublime. E poi viene dalla vostra collezione, nell’armadio qui accanto».

Brook rimase un attimo a guardare la figura comodamente seduta la cui mano inguantata gli stava indicando la poltrona accanto alla sua.
Il sicario aveva fallito.
Si sedette, cupo in volto, e prese il calice sul tavolino. Quando lo avvicinò alla bocca, trasalì.

«Morello di Rhest[7], del 325. Splendida annata, mi congratulo per il vostro gusto. Un colore meraviglioso. Sapevate che lo chiamano anche ”rubino di Rhest”?».

Brook non disse nulla ma i suoi occhi dardeggiavano fuoco dal suo volto fattosi improvvisamente terreo. Avrebbe voluto uccidere quell’uomo che continuava a parlargli tanto beffardamente.

«Ovviamente lo sapete. Siete stato quasi sul punto di giocarmi. Purtroppo, la vostra presunzione è seconda solamente alla vostra assoluta mancanza di scrupoli. La bottiglia è poco polverosa, al contrario delle altre. Appena l’ho vista ho immaginato dov’era nascosto il rubino».

«Siete solo un volgarissimo ladro!».

«Di queste parole mi darete soddisfazione a tempo e luogo, signore. Sono un ladro, non lo nego, ma definirmi volgare è un’offesa gratuita. Intanto cessate di agitarvi e accomodatevi su questa poltrona, abbiamo alcune cose da dirci».

Brook eruppe in una sequela di bestemmie e insulti di encomiabile varietà e colore, che coronò con un altrettanto elegante proposito.

«Sono pronto fin d’ora a tagliarvi la testa».

«Non lo metto in dubbio. I modi da boia non vi mancano. E nemmeno l’animo, vedo. Però l’offeso sono io e sceglierò io luogo e ora per regolare i nostri conti. Stasera ho altro da fare, eccellentissimo mercante d’armi».

«Case da svaligiare?».

Brook cercò di dare un tono beffardo alla sua voce ma questa uscì alquanto stridula dalla sua bocca.

«Perché dovrei, se ho già quel che cercavo? O c’è qualcos’altro? Cosa custodisce la stanza del tesoro?».

Brook divenne ancora più pallido e la sua voce più incerta.

«Non so davvero di cosa parliate…».

«Bene, allora vi racconterò una storia, prendendo spunto da questo».

Come per magia, sulla mano inguantata di Blackwind era comparsa una piccola splendida sferula rossa.

«Maledetto ladro! Ridammelo!».

Brook fece per scattare addosso a Blackwind ma si arrestò quasi subito davanti alla punta di uno stocco, fulmineamente sguainato e minacciosamente rivolto verso il suo petto.

«Detesto la violenza ma so difendermi. Ora sedetevi e cercate di mantenere un po’ di contegno, eccellentissimo signore».

«Non osereste uccidermi. Vi siete sempre vantato di non usare la violenza».

«Non intendo affatto uccidervi. Al contrario, vi sto salvando la vita: sappiate che, dietro quella tenda, un mio fidato amico vi tiene sotto tiro con una balestra. Quindi evitate di fare sciocchezze».

Il mercante si voltò verso la tenda e vide che da sotto di essa spuntavano un paio di stivali. Un’insolita piega del tessuto celava a malapena la punta del dardo, rivolta verso di lui.
Brook si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona, puntando gli occhi carichi d’odio addosso alla figura paludata di nero. Meccanicamente, prese la coppa di vino e se la portò alle labbra.

«Questo meraviglioso rubino, invece di essere nella inaccessibile camera del tesoro, era curiosamente nascosto in una bottiglia di vino. Nella camera del tesoro c’era un falso, assieme a numerosi altri oggetti d’arte contraffatti. Perché? Mi sembrava poco credibile che fosse solo per sfiducia nei confronti delle difese della vostra casa. Soprattutto se pensiamo a una porta difesa addirittura da un incantesimo».

«Avevo le mie buone ragioni».

Brook sentiva la propria voce come fosse lontana. La vista andava annebbiandosi. Aveva tanto sonno.

«Infatti. E mi chiedevo quali fossero. Perché mai avevate messo tante protezioni su quella porta che non custodiva altro che alcuni pregevoli falsi? Semplice: dovevate evitare che qualcuno scoprisse cosa celava in realtà la stanza del tesoro e d’altra parte sapevate che in quella stanza poteva entrare qualcuno di cui non vi fidavate. Escluso Algernon, nessuno avrebbe potuto oltrepassare la porta blindata, eccetto, forse, il mago che l’aveva incantata. Dunque, era improbabile che poteste temere uno dei due. Doveva essere qualcun altro. Qualcuno che non aveva bisogno di passare dalla porta per entrare».

Brook non aprì bocca. Pareva assolutamente incapace di muovere un solo muscolo, faceva decisamente fatica a tenere gli occhi aperti. Blackwind riprese a parlare.

«Occorrono settantacinque passi per giungere dal museo alla finestra in fondo a questa stanza. Ne bastano una settantina per arrivare alla parete di fondo della stanza del tesoro, proprio qui accanto. Buonanotte, caro mercante. Domani la vostra attività segreta subirà un brutto colpo».

Brook fece un timido cenno di protesta, poi parve arrendersi. Gli occhi si chiusero e il respiro si fece regolare. Non vide Blackwind sfilare la chiave della stanza del tesoro dalla sua borsa.

[7] Città antichissima del nordovest di Ainamar

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

Capitolo 9: una luce nel buio

La porta si aprì al primo tentativo. Blackwind ringraziò Yavië, la sua memoria e il suo talento di imitatore. Gli era bastato sentire quella parola una volta per saperla pronunciare correttamente. Girò la clessidra. Ora si passava alla seconda parte del piano. Corse alla finestra del museo e la spalancò. Gettò poi una lunga fune giù nella strada e la assicurò a un reggitorcia infisso nel muro. Poco dopo, la snella figura di Elowen comparve nella luce della finestra. Un attimo ancora e anche Calyon raggiunse i suoi amici.
Chiusero la finestra e seguirono Blackwind fino alla stanza del tesoro. Attraversarono il museo sorpresi dalle magnifiche opere d’arte che vi erano raccolte e rapidamente percorsero il corridoio che portava alla stanza blindata. Appena entrati, Blackwind chiuse la porta e accese la lampada a olio che si trovava sullo scaffale lì accanto. Si misero a cercare sulla parete di fondo e, dopo una decina di minuti, Calyon emise un lieve fischio di evidente soddisfazione e parlò sottovoce.

«Trovato. Era il reggitorcia di centro».

Tirò, prima delicatamente, poi più decisamente, il supporto metallico che cedette facilmente e un pannello della parete scivolò verso l’interno scorrendo silenziosamente su guide invisibili dalla stanza.

«Bel lavoro. Roba da nani, immagino».

Calyon sbirciò nell’apertura comparsa nel muro. Dietro di lui, la voce di Blackwind era un sussurro appena percettibile.

«Maghi per la porta, nani per il passaggio. Non bada a spese il nostro illustre signor Brook. Mi pare chiaro che la posta in gioco sia veramente qualcosa di importante».

Elowen sorrise ammiccando. La faccenda si stava rivelando veramente intrigante e la fanciulla elfa si stava appassionando al mistero nascosto da quel passaggio segreto. Anche se ormai aveva fondate ragioni per ritenere di sapere cosa si nascondeva in fondo alla rampa di scale che s’intravedeva nel buio del vano nascosto.

Blackwind si fece avanti.

«Vado avanti io. Seguitemi e cercate di essere il più silenziosi possibile. In fondo a queste scale potrebbe esserci gente pericolosa».

L’audace ladro ricambiò il sorriso di Elowen e si diresse verso la scalinata con passo sicuro. In fondo, era la passione per l’avventura che lo aveva reso quel che era.

«A testa bassa in mezzo ai guai. Va bene. Che gusto c’è a vivere senza rischi, tranquillamente, senza follia?».

Calyon sospirò e si dispose alla retroguardia. Posò la mano sull’elsa della spada e si avviò dietro la bellissima elfa che era già sparita nel buio della scalinata.
Le scale scendevano parecchio e ben presto i tre amici si resero conto di trovarsi ben  al di sotto del livello della strada. Curiosamente, non c’erano tracce di umidità in quel sotterraneo, piuttosto un’aria secca e una temperatura decisamente superiore a quella esterna.
Al termine della scala, giunsero in una stanza piuttosto piccola, dalla quale l’unica via d’uscita pareva essere una grossa porta di legno. Silenzioso come un’ombra, Blackwind si era già dedicato a studiare la serratura che la chiudeva.

«Sembra aperta».

La voce era un impercettibile sussurro. Si avvicinò alla porta e vi appoggiò l’orecchio, ascoltando attentamente per alcuni minuti che ai suoi amici parvero interminabili.

«Deve essere un corridoio. Sembra che in lontananza qualcuno stia picchiando contro un’incudine».

Elowen rimase un attimo pensierosa, poi sussurrò:

«Forse ho capito. Quel che si innalza dal giardino di Irlentree non è tutto vapore. Ci deve essere una forgia laggiù e scommetto che si trova all’incirca sotto le sorgenti calde. I fumi della forgia si mescolano ai vapori caldi e nessuno se ne accorge. Ecco da dove veniva quella fuliggine!».

«Quale fuliggine?». Chiesero all’unisono i suoi due compagni.

«Mentre ero nel giardino, vicino alle sorgenti… prima di vedere quella donna… mi sono trovata le mani sporche di fuliggine… non capivo come potessi essermele sporcate ma ora immagino che fosse sulla corteccia e sulle foglie degli alberi intorno alle sorgenti».

Blackwind si esibì in un perfetto inchino.

«Complimenti, mia affascinante cacciatrice. Credo proprio che tu abbia intuito il segreto del signor Brook. Abbiamo trovato la forgia dove vengono realizzate le armi che impinguano le casse del nostro stimato mercante».

«Ma non è un po’ esagerato tutto questo per una semplice forgia? Quante armi dovrebbero costruire e contrabbandare per ripagare tutta questa spesa?».

Calyon era  decisamente perplesso.

«Amico mio, dimentichi che in questa storia dovrebbe pure esserci un mago. Il cui ruolo potrebbe non essere semplicemente quello di incantare le porte. Piuttosto: hai legato bene quell’affascinante sicario?».

«Come un salame. E per buona misura, le ho fatto bere una fiala di sonnifero. Ne avrà per qualche ora».

Blackwind socchiuse la porta e guardò nel corridoio.

«Tutto bene.  Possiamo muoverci».

Si inoltrarono nel corridoio camminando silenziosamente come tre felini in caccia. La vista da elfi permetteva loro di amplificare al massimo il tenue chiarore che proveniva dal fondo del corridoio che appariva lungo un centinaio di metri.

«Qui dovremmo già essere nella proprietà di Irlentree».

Proseguirono nel più assoluto silenzio, muovendosi lentamente, con tutti i sensi all’erta. A un tratto si accorsero che il corridoio era interrotto da una porta di legno su ciascuna parete. Si fermarono e Blackwind accostò l’orecchio prima a una, poi all’altra porta.

«Sembrano deserte. E sono entrambe aperte».

«Vediamo che c’è qui dentro».

Elowen era ormai preda della curiosità e non vedeva l’ora di scoprire cosa stesse succedendo in quei locali sotterranei. Si avvicinò a una delle porte, la aprì prudentemente e guardò dentro. Si voltò con un’espressione delusa.

«Quattro giacigli e una gran puzza. Mi pare ci sia poco d’interessante».

Blackwind si strinse nelle spalle.

«Saremo più fortunati con l’altra. Intanto sappiamo che ci sono almeno quattro persone che vivono quaggiù».

 «Persone è una parola grossa. Dal fetore potrebbero essere goblin o bestiacce simili».

Calyon pareva alquanto disgustato. Detestava, come molti elfi, quelle creature e, all’idea di trovarsele di fronte, la sua mano era corsa all’elsa della spada. Elowen, però, non pareva molto d’accordo sull’interpretazione del cacciatore elfo.

«Non credo che affiderei un lavoro di forgiatura a goblin o simili. Deve essere qualcos’altro».

Blackwind li chiamò dal corridoio.

«Vediamo l’altra stanza, venite».

Il ladro aprì prudentemente la porta sulla parete opposta e guardò dentro. Si voltò raggiante.

«Tombola. Guardate qui».

Entrarono nella stanza buia ma i loro occhi impiegarono un attimo ad adattarsi e videro che il locale era pieno di statue antiche e anfore preziose ma, sulla parete di fondo, una serie di rastrelliere sostenevano numerose splendide armi.

«Santi Numi, che meraviglia! Queste armi valgono un patrimonio! Ma le statue e le anfore? Non capisco perché siano insieme alle armi».

Elowen si aggirava nella stanza con le sue movenze eleganti, esaminando tutti quei tesori con un’espressione incantata.
Blackwind si dedicò immediatamente a studiare quelle opere d’arte, mentre Calyon esaminava le armi sulle rastrelliere.

«Falsi. Di discreta fattura, ma falsi. E piuttosto recenti, direi. Forse ho capito il giochino di Brook».

«Queste, invece, sono vere. E tutte incantate, direi. Armi veramente superbe».

Calyon stava impugnando una spada meravigliosa, la cui lama pareva soffusa di una luce argentea. La roteò nell’aria e mimò alcuni fendenti. Era leggera e straordinariamente equilibrata. Il giovane elfo non aveva mai maneggiato un’arma simile. Sorrideva decisamente soddisfatto.

«Spiacente per l’eccellente signor Brook, ma io da questa spada non mi separo più».

«Bene. Credo che faremo tutti lo stesso, se troviamo un’arma che ci vada bene. Poi faremo meglio a muoverci».

Blackwind si mise a studiare uno scrittoio che si trovava in un angolo della stanza. Dopo che ci ebbe brevemente armeggiato, lo aprì e cominciò a esaminarne il contenuto. Rimase un bel po’ assorto a leggere carte e aprire buste.
Nel frattempo, Elowen aveva individuato una spada corta dalla lama splendidamente istoriata, curiosamente tiepida al tocco. Anche quell’arma pareva meravigliosamente equilibrata e maneggevole. Quando provò a colpire una delle rastrelliere, la ragazza rimase sorpresa nel vedere guizzare una lingua di fiamma lungo la lama.

«Per gli Dei! Questa spada arde quando colpisce! È meravigliosa!».

«D’accordo ma gira al largo da me: non ho voglia di finire arrosto per qualche tuo movimento inconsulto!».

Calyon ridacchiò guardando la giovane elfa che ammirava la spada con lo stupore di una bambina.

«L’unica occasione in cui farei movimenti inconsulti sarebbe quando tu mi sbucassi improvvisamente di fronte dal buio. Non sono sicura di essere preparata a simili spaventi…».

«Simpaticona!».

«Bene, ragazzi! Se avete finito di divertirvi, credo proprio che possiamo andare».

Blackwind aveva terminato di esaminare le carte trovate nello scrittoio e si era avvicinato ai due amici. Rapidamente scelse uno splendido stocco da una delle rastrelliere e, senza nemmeno guardarlo, si avvicinò alla porta, ascoltando attentamente. Dopo qualche istante, fece segno che tutto era a posto, aprì la porta e i tre amici uscirono dalla stanza per avviarsi lungo il corridoio.
Ripresero a muoversi in assoluto silenzio, fidando nella loro vista notturna e nei loro sensi sempre all’erta.
Mentre avanzavano, il chiarore incerto si delineava sempre più manifestamente come la luce di grandi fornaci, davanti alle quali si muovevano alcune figure massicce ma di bassa statura. Il clangore di alcuni martelli giungeva ritmicamente alle loro orecchie.

«Nani?».

Blackwind si avvicinò con prudenza alla grande sala che si apriva in fondo al corridoio. Dopo pochi istanti, i due amici lo videro tornare, scuro in volto.

«Allora?».

«Nani Grigi. Sono in quattro. E c’è anche un mago di Uytolgoth[8]».

[8] Isola a occidente di Ainamar, retta da una casta di principi-stregoni

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10: la spada e la magia

Sfi’Hak era estremamente concentrato. Richiamò alla mente le parole arcane dell’incantesimo e, nel pronunciarle, avvertì l’immenso potere magico che lo pervadeva e scaturiva dalle sue mani protese su una scure dalla lama meravigliosamente istoriata. Questa parve quasi tremare, investita dalla magia, e prese a rifulgere come impregnata da una luce gelida e intensa. Poi, lentamente, il fulgore diminuì d’intensità, fin quasi a scomparire.
Il mago allungò la mano sulla lama e rabbrividì al contatto col metallo diventato freddo come il ghiaccio. Un sorriso soddisfatto comparve sul suo piccolo volto malevolo.
 
«Bene! Anche questa è fatta».

«Grande potere, maestro! Io porto scure in deposito».

Uno dei nani grigi si era avvicinato al tavolo dove il mago operava i suoi incantamenti e aveva rivolto la parola a Sfi’Hak in un comune rozzo ma efficace, insieme a un sorriso stentato di untuosa piaggeria. In realtà gli sarebbe piaciuto piazzare quell’arma esattamente fra i tatuaggi che ricoprivano il capo rasato del crudele piccolo mago. Il nano sopportava il continuo sarcasmo di Sfi’Hak solo per il timore del potere di quel piccolo uomo e per la lunga consuetudine a servire un padrone. Lui e i suoi compagni erano stati venduti ai maghi di Uytolgoth dai loro precedenti padroni elfi scuri e, nel cambio, ci avevano decisamente guadagnato. Ciononostante, covava nei loro animi il desiderio di riconquistare la libertà perduta.

«Attento a non stancarti, mangiasassi. E vedi di tornare subito, c’è ancora parecchio lavoro da fare. Domani il carico partirà e dopo potrete battere la fiacca finché vorrete».

Il mago ignorò lo sguardo d’odio lanciatogli dal nano e concentrò la sua attenzione sugli altri tre schiavi. Stavano lavorando a ritmo sostenuto e, continuando così, c’erano fondate speranze di terminare il lavoro entro l’alba. Poi ci sarebbe stato solo da portare le armi nella stanza del tesoro, nascoste dentro le anfore e le antiche statue. Al resto avrebbe pensato Brook. Almeno in quelle cose era efficiente.
Chissà se è riuscito a eliminare il ficcanaso…
Ne dubitava assai. Erano parecchi i dubbi che nutriva nei confronti del suo alleato cui riconosceva solo il merito di essere ricco, ben introdotto in certi ambienti e sufficientemente privo di scrupoli. Per il resto, meglio lasciar perdere.
Comunque, appena finito quel lavoro, si sarebbe dedicato a sistemare quel ladro importuno e capire cosa stesse macchinando il suo poco affidabile alleato. Più ci pensava, più era certo che Brook gli stava nascondendo qualcosa. E Sfi’Hak non era abituato a permettere ai propri alleati di giocare a carte coperte.

«Allora? Quella spada è pronta? Forza bestiacce, guadagnatevi il pane o metterò mano alla frusta!».

I nani lo guardarono corrucciati ma non osarono far nulla di più di aumentare il ritmo dei loro martelli.
Una splendida spada stava prendendo forma su una delle incudini e pochi istanti dopo, si sarebbe trovata sul bancone del mago.

«Dov’è quell’idiota di Kruk? Quanto ci mette a portare un’ascia nel magazzino? Qualcuno lo vada a cercare!».

Il mago cominciava a innervosirsi per il ritardo del suo assistente e, con lo sguardo, cercava invano di scrutare nel buio del corridoio dove il nano era sparito poco prima. Proprio quando un altro nano stava per andarlo a cercare, Kruk  emerse dal corridoio.

«Ma che diavolo stavi combinando? Ti sei addormentato?».

«Padrone Brook ti cerca, maestro. In magazzino ti attende. Cose gravi, lui dice».

Il nano pareva nervoso, decisamente a disagio.

«Cosa mai potrà esserci di tanto grave da interrompermi mentre sto lavorando? Maledizione a quell’altro idiota! Preparami gli ingredienti per l’incantesimo del fulmine, mangiasassi. Tornerò subito e voglio trovare tutto sul bancone, chiaro?».

Sfi’Hak si diresse verso il corridoio con passo svelto. Arrivato all’imboccatura del passaggio buio, pronunciò una secca parola e una vivida luce azzurrina comparve intorno a uno dei suoi anelli, illuminandogli il cammino.

Spero che Brook abbia un valido motivo per disturbarmi… sennò stavolta lo trasformo davvero in un tacchino. E non è escluso che poi lo faccia arrosto.

Aprì la porta del magazzino senza bussare.

«Allora, che diavolo vuoi?».

«Benvenuto, mago. Ora non fiatare e non provarti a muovere neanche un pelo o sei morto».

Una spada si era poggiata improvvisamente sulla sua gola. Due figure comparvero ai suoi fianchi, emergendo dal buio. Un’altra, completamente vestita di nero, era seduta sullo scrittoio e sorrideva beffardamente.
Sfi’Hak era un uomo abituato a essere temuto e rispettato da chiunque. E sapeva come incutere timore e rispetto. In un lampo si rese conto della situazione e agì come era stato addestrato a fare. Roteò gli occhi e si lasciò cadere al suolo, come se avesse perduto i sensi per lo spavento. I suoi avversari rimasero sorpresi per un attimo, un breve istante che gli permise di attaccare a modo suo. Una parola in una lingua misteriosa e Calyon si trovò completamente avvolto da una ragnatela appiccicosa. Un attimo dopo, il mago rotolò fuori dalla portata di Elowen, si alzò agilmente e puntò la mano destra verso Blackwind. Un comando secco e una folgore partì in direzione del ladro. Senza nemmeno guardare il suo avversario, Sfi’Hak si voltò verso Elowen.
La giovane elfa vide il suo nemico che rivolgeva le mani verso di lei e scacciò dalla mente il terrore per la sorte dei suoi amici. Il mago congiunse i pollici ed estese le dita di entrambe le mani. Elowen capì di non avere scampo e, istintivamente, frappose fra sé e l’avversario la lama della spada.

«Così bella! Un vero peccato!».

Ancora una parola arcana e dalle dita delle mani del mago scaturì una vampata che avvolse in pieno la terrorizzata ragazza.
Il sorriso malevolo del mago si spense immediatamente. Elowen, con un’espressione assolutamente stupita, rossa in volto per il calore che l’aveva circondata, non pareva aver subito neppure una minima scottatura. La spada era ancora levata fra lei e il mago e la sua lama pareva ardere come brace. Sfi’Hak riconobbe, ormai troppo tardi, l’arma che la ragazza impugnava. Era una delle sue creazioni meglio riuscite.
Si riscosse. Doveva colpire in un altro modo. Puntò ancora le braccia verso Elowen ma la ragazza era scomparsa. Un attimo dopo, un violento urto alla bocca dello stomaco gli levò il fiato e gli fece capire che la giovane elfa aveva reagito un attimo prima di lui. Poi non capì più nulla.

«Ardis! In nome del cielo, stai bene?».

Il ladro si alzò lentamente sulle ginocchia, col volto fra le mani. Pareva incolume.

«Sì… credo di sì. Sono scattato via in tempo e credo di essere solo un po’ stordito. Che brutto cliente, quel tipo!».

Nel frattempo, Calyon stava finendo di districarsi dai fili appiccicosi che il mago gli aveva materializzato addosso. Sorrideva ma il suo volto era pallido e la voce incerta.

«Credo che dobbiamo la vita alla tua spada e ai tuoi riflessi, bellezza. Anche se non ho capito molto di cosa sia accaduto».

Elowen rimase un attimo soprappensiero. Poi sorrise.

«Per la verità non ci ho capito molto neanche io. Ho visto il fuoco che mi avvolgeva. Ho avuto caldo ma nessun danno. Evidentemente, questa spada protegge dal fuoco, almeno in una certa misura. Quando ho visto che stava per lanciare un altro incantesimo, mi sono buttata addosso a lui e l’ho colpito con una testata. È andata bene, direi».

Blackwind la abbracciò affettuosamente.

«Complimenti, amica mia. Se siamo vivi è solo grazie a te».

Un gemito li fece voltare. Il piccolo mago stava riavendosi. Calyon non si fece pregare. In un salto fu accanto al pericoloso avversario e, con un poderoso calcione, lo rispedì nel mondo dei sogni. Dopodiché si dette da fare per legarlo e imbavagliarlo.

«Padrone è vinto. Liberi noi siamo?».

Kruk era comparso sulla soglia della stanza, seguito dai suoi compagni. La sua voce era incerta e guardava il mago con un misto di odio e terrore. Blackwind si voltò verso di lui.

«Sì. Ti ho dato la mia parola. Non avete più un padrone, ora. Al contrario, è lui vostro prigioniero. Siete liberi».

Il nano appariva alquanto diffidente. Aveva vissuto troppi tradimenti per potersi fidare della parola di qualcuno. Si avvicinò al mago ancora privo di sensi con la prudenza che avrebbe avuto maneggiando un serpente velenoso. Controllò il bavaglio e i legacci che imprigionavano Sfi’Hak, poi, soddisfatto, si caricò sulle spalle il suo ex-padrone e raggiunse i suoi compagni che lo attendevano nel corridoio.

«Ricorderò te, se incontrerò ancora. Tu ha rispetto di noi. Noi rispetto di te. Addio».

«Addio. Yavië vi protegga».

Un attimo dopo, i nani scomparvero letteralmente. Era un potere innato della loro razza, quello di rendersi invisibili. Come il loro orgoglio e la volontà indomita che condividevano con tutte le razze di nani. Calyon li osservò sparire, poi si rivolse all’amico.

«Non sarà un rischio lasciarli andare? Sono pur sempre dei nani grigi!».

«Non so. Ho avuto la netta sensazione che siano sì pericolosi ma non particolarmente sleali. Inoltre, una razza orgogliosa come la loro non tollera facilmente la schiavitù».

«A proposito Ci pensi alla faccia del mago quando si sveglierà? Non credo che sarà troppo contento».

«Questa è la cosa che più mi tormenta. Non vorrei che quel mago dovesse rimpiangere di non essere stato ucciso da noi».

Elowen si avvicinò sorridendo al giovane ladro e gli posò affettuosamente una mano sulla spalla.

«Non credo che lo tratteranno in modo più disumano di quanto lui abbia trattato loro. Inoltre, Kruk è stato irremovibile. Quel mago gli aveva fatto patire troppe umiliazioni».

Anche Calyon si rivolse all’amico con un sorriso e una strizzata d’occhio.

«Senza trascurare il fatto che, se fosse stato per lui, noi tre saremmo già morti… Ora che si fa?».

«Ce ne andiamo. Abbiamo scombinato abbastanza gli affari del rispettabile signor Brook, direi. Ci siamo meritati una bella dormita. La partita è chiusa».

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11: risvegli

Si ridestò al lieve chiarore di una candela. La mano corse alla testa dolente. La bocca era amara. Le dovevano aver fatto bere un narcotico. Si appoggiò sul morbido materasso e scostò le coltri. Si sentiva tutta scombussolata, il mondo intorno a lei pareva muoversi e dondolare. Eppure era su un comodo letto e indossava una splendida vestaglia di seta. Cercò di ricordare. Il buio, la vittima, il pugnale… il polso le doleva ancora. E la testa… cosa l’aveva colpita? Cos’era accaduto? Cosa ci faceva in quel letto? Dov’erano i suoi abiti? Dov’erano le sue armi?

«Gran brutto mestiere per una gran bella ragazza».

Una voce armoniosa con una nota beffarda le fece capire che non era sola in quella stanza.
Le parve di intravedere una figura vestita di nero, seduta nei pressi del letto. Da sotto un cappello a tese larghe, scorse due occhi brillanti fissi su di lei. Un inspiegabile brivido le percorse la schiena. Cercò il suo pugnale senza trovarlo e questa cosa le sembrò orribilmente frustrante. Si sentiva inerme. Da tanti anni si era liberata da quella odiosa sensazione e sperava di non doverla provare mai più. La mano sfiorò la seta che la fasciava e un moto di paura la colse.

«Chi mi ha spogliata?». La sua voce tremava.

«Ha davvero importanza? Di cosa ha paura un’assassina?».

La nota beffarda suonò insopportabile.

«Se mi hai toccata con le tue mani schifose…».

«Gran bella ragazza, ma decisamente volgare».

La voce era diventata più dura.

«Cosa rende schifose le mani di una persona? Esiste davvero qualcosa di schifoso per chi lorda le sue mani di sangue innocente? Di cosa ha paura un’assassina?».

La voce aveva perso ogni nota beffarda e si era fatta tagliente. I profondi occhi verdi brillavano nel buio.
Un nuovo brivido le corse per la schiena. Aveva scelto di diventare quel che era per liberarsi dai lacci della povertà, per non cedere se stessa, per essere temuta e rispettata dopo anni di terrore. Come osava giudicarla quell’uomo? Cosa le aveva fatto mentre era incosciente? Avrebbe voluto balzargli addosso e portare a termine in suo compito eppure non osava. Doveva capire. Doveva sapere chi era quell’avversario che l’aveva beffata così abilmente. Doveva guardare dentro quegli occhi verdi.

«Non ho paura di morire. Uccidimi o ti ucciderò io».

Quegli occhi verdi afferrarono saldamente i suoi, con la forza di una catena e la dolcezza di un bacio. La ragazza ebbe il terrore di non riuscire a distogliere lo sguardo.

«Neanch’io ho paura di morire. Non per questo invito gli altri a uccidermi. Peraltro, se per vincere devo uccidere, preferisco perdere. Ma non è questo il caso. Non oggi, perlomeno».

«Sei troppo vigliacco per uccidere?».

«Forse. O forse non abbastanza. Comunque, la tua vita non è affatto in pericolo, rassegnati».

La voce aveva ripreso il suo tono beffardo.

«La tua sì, miserabile…».

«Sempre più maleducata, ragazza mia. Posso sapere cosa ti ho fatto per meritarmi tanto astio?».

Rimase un po’ sorpresa da quella domanda. Non provò a ribattere ma restò in silenzio mentre la melodiosa voce tenorile continuava a parlare.

«Non ti conosco e credo che tu non conosca me. Possibile che un po’ d’oro possa scatenare tanto  odio verso qualcuno che, per te, è un perfetto sconosciuto? Sai almeno il mio nome?».

Non lo sapeva. Sapeva solo che le avevano dato l’incarico di uccidere l’uomo che quella sera si sarebbe aggirato nei dintorni di quella casa. E che quella voce melodiosa, tranquilla e beffarda la stava facendo impazzire di rabbia.
No. Effettivamente non aveva altro motivo valido per odiare quell’uomo all’infuori del fatto che l’aveva beffata e sconfitta.
E del fatto che non prendeva affatto in considerazione l’idea di ucciderla.
Era un comportamento irragionevole. E umiliante. Evidentemente riteneva che non potesse costituire un reale pericolo e lasciarla viva non gli pareva un’imprudenza.

«Taci? Va bene, posso capire. Comunque, sappi che è stata una mia cara amica a spogliarti delle armi e rivestirti da donna. Le mie mani schifose ti hanno solo trasportato qui. Con rispetto, s’intende».

Ancora quella nota beffarda ma c’era uno strano calore in quella voce.

«Puoi stare tranquilla perché non ti capiterà nulla. Siamo salpati per Soltë, con l’ultima nave della stagione».

«COSA?»

La sua mente riprese lucidità. Quel senso di instabilità non era legato alla botta in testa. Era il rollio di una nave in movimento. Era l’esilio dopo una bruciante sconfitta. Eppure non era arrabbiata. Almeno, non quanto si sarebbe aspettata.

«Purtroppo non posso trattenermi a farti compagnia in questa crociera, ho affari urgenti a Elosbrand. Sarai trattata con ogni riguardo. Mi dispiace farti svernare laggiù ma non intendo correre dei rischi stupidi. C’è una borsa, vicino al tuo letto. Contiene abbastanza oro da permetterti di vivere per un bel po’ senza ammazzare innocenti. Se invece non sai stare senza versare sangue e in primavera avrai ancora tanta voglia di uccidermi, potrai tornare. Ti aspetterò».

La figura vestita di nero si alzò, la salutò con un elegante inchino e si voltò per allontanarsi. La ragazza si sentì assalire dal panico. Avrebbe voluto fermarlo, chiedergli di lasciarla tornare a terra con lui, giurare che non avrebbe più tentato di fargli del male.
Si trattenne.

«Chi devo cercare, quando tornerò a Elosbrand?».

Il gentiluomo vestito di nero si voltò. I suoi occhi verdi la trafissero un’altra volta. Stavolta c’era un velo di malinconia sul suo sorriso.

«Chiedi di Blackwind. Qui mi conoscono tutti… almeno in un certo senso».

***

Luce. L’alba?
La testa gli doleva particolarmente. E anche la schiena non era messa meglio. Si rese conto di essere seduto su una poltrona. Perché?
Lentamente nella sua mente tornarono i ricordi confusi della sera precedente. Una sensazione di panico si fece strada nelle sue viscere, torcendogli violentemente lo stomaco.

Blackwind. Il vino era drogato!

Avrebbe voluto alzarsi di scatto e chiedere aiuto ma gli tornò in mente il misterioso complice del ladro, nascosto dietro la tenda. Aguzzò lo sguardo, senza fare movimenti bruschi. Le punte degli stivali erano sempre lì e così quella maledetta balestra, puntata verso di lui. Non poteva ancora fare nulla. Poteva solo continuare a guardare la tenda che nascondeva il suo misterioso carceriere.
Si era nuovamente addormentato. La luce ora era intensa. Doveva essere mattino inoltrato. Quel maledetto era sempre lì. Sempre con quella balestra rivolta verso di lui. Ma non si stancava mai? Come poteva essere stato tante ore immobile a sorvegliarlo? Quale misteriosa disciplina poteva dargli tanta forza? Brook era frastornato. Con chi aveva a che fare? E cos’era accaduto quella notte?
Doveva assolutamente scoprirlo e si rese conto che non avrebbe potuto restare ancora a lungo in quella posizione di scacco. Era un uomo coraggioso e decise che era giunto il momento di rischiare il tutto per tutto.
Lentamente, in assoluto silenzio, fece scivolare la sua mano lungo il bordo del bracciolo. Impiegò alcuni lunghissimi minuti a trovare ed afferrare il bicchiere che l’aveva drogato. Avrebbe avuto una sola occasione e non poteva farsela sfuggire. Prese attentamente la mira, e calcolò con precisione tutti i movimenti che gli avrebbero permesso di saltare addosso al suo misterioso guardiano.
Improvvisamente scattò: lanciò il bicchiere verso la punta della balestra e si scagliò giù dalla poltrona. Vide il calice infrangersi e la balestra cadere. Esultò selvaggiamente e balzò contro il misterioso individuo, deciso ad abbatterlo.
Si schiantò contro il muro.
Riprese conoscenza dopo un tempo indefinito. Era sdraiato fra cocci di cristallo. Poco più in là c’era la balestra. La tenda che aveva mascherato il suo guardiano era parzialmente abbattuta e le punte degli stivali continuavano a spuntare da sotto di essa. Finalmente comprese.
Il misterioso individuo che lo aveva vegliato tutta la notte era un paio di vecchi stivali e una balestra appoggiata sul davanzale.
Una violentissima e roboante salva di bestemmie echeggiò per il palazzo dell’eccellentissimo signor Brook.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12: fuga

Algernon era rientrato a casa di cattivo umore, la sera prima. La cena col suo figliolo era stata funestata dalle continue chiacchiere di Robert che gli aveva raccontato una serie di storie di assassini da far accapponare la pelle. Le aveva lette in un libro sul culto di Dhela trovato in casa del suo padrone e si era evidentemente impressionato a tal punto da raccontargli tutto quell’orrore per tutta la sera. Per fortuna, almeno aveva avuto il buon senso di chiedere al suo padrone il permesso di leggere quel libro.
Una marea di sciocchezze.
Insomma… 
Comunque, appena tornato a palazzo, si era chiuso nella sua stanza a doppia mandata. Qualunque cosa fosse accaduta quella sera, Algernon non avrebbe osato uscire dalla sua camera e, sebbene avesse fatto molta fatica ad addormentarsi, dormì fino ad un’ora alquanto tarda, per le sue abitudini.
Quando si alzò, si rese subito conto che il sole era alto e si affrettò ad incominciare le sue consuete attività mattutine, sperando che il suo padrone non si fosse accorto del suo imperdonabile ritardo.
Fortunatamente, pareva che il signor Brook non si fosse ancora svegliato, sicché Algernon cominciò a sperare di averla fatta franca. Ad un tratto, udì un tonfo proveniente dalle stanze del signor Brook. Si aspettò di essere chiamato ma non ci furono altri rumori per alcuni minuti, dunque, il maggiordomo si avvicinò alla studio del suo padrone, da dove gli sembrava fosse giunto il rumore.

«Signore? Avete bisogno di qualcosa?».

Non ci fu risposta. Algernon tese l’orecchio ma non riuscì ad unire alcun rumore. Attese ancora un po’, poi ritenne di non dover dare peso alla cosa e riprese le sue occupazioni.
 Quando, circa dieci minuti dopo, la voce del suo padrone lo raggiunse, recando con sé parole delle quali l’anziano maggiordomo non si sognava neppure l’esistenza, Algernon si sentì morire.
Se lo vide piombare addosso col volto sconvolto di rabbia, gli abiti sgualciti come se ci avesse dormito dentro, un bernoccolo come un uovo di gallina sulla fronte.

«Dormivi eh? Vecchio fannullone! E quegli altri idioti che dovrebbero vegliare su questa casa che diavolo fanno? Per gli Dei, stavolta vi sbatto tutti in mezzo ad una strada!».

Algernon non riusciva a spiegarsi come il signor Brook si fosse accorto del suo ritardo. La sua voce balbettò nel formulare un tentativo di scuse. L’idea di poter essere ignominiosamente licenziato lo terrorizzava più dei pugni serrati del suo padrone.

«Ah maledetto! Osi accampare scuse? Ma questa me la paghi, schifosa mummia! Levati dai piedi, immediatamente!».

Un violento pugno colpì in pieno volto l’anziano servitore, scaraventandolo contro la parete e lasciandolo privo di sensi, col viso coperto di sangue. Brook non se ne curò e si precipitò alla stanza del tesoro.
Appena dentro, vide il passaggio segreto ancora spalancato e si sentì raggelare. Cosa aveva osato fare quel maledetto ladro? Accese la lampada ad olio, chiuse la porta e scese rapidamente giù nei sotterranei. Il silenzio assoluto che vi regnava gli fece temere il peggio. Sguainò la spada e avanzò con prudenza.
Nel magazzino c’erano segni di lotta ma il mercante non fu in grado di capire esattamente chi avesse prevalso. Febbrilmente, esplorò il dormitorio e la sala delle forge, senza trovare nessuno. Non riusciva assolutamente a capire cosa potesse essere accaduto. L’unica cosa certa era che Sfi’Hak e i suoi schiavi erano scomparsi senza lasciar traccia.
Fuggiti? Catturati?
E da chi?
Blackwind, certamente; e chi altri, ancora? Non poteva certamente aver messo fuori combattimento da solo un mago come Sfi’Hak e quattro nani grigi armati fino ai denti.
Tornò nel magazzino. Lo scrittoio era stato forzato. Erano scomparsi alcuni documenti che avrebbero potuto diventare pericolosi se fossero caduti in mani sbagliate. Cominciò a sentirsi perduto. Voleva fuggire.
Sì, fuggire era la soluzione migliore. Era ricco. Dovunque fosse andato avrebbe saputo rimettere in piedi la sua attività, almeno per quanto riguardava le armi normali. E quella sera, sarebbe dovuta partire una nave diretta verso sud, col carico di opere d’arte che nascondevano le armi di contrabbando. Decise in fretta. Su quella nave sarebbe salito anche il ricco e rispettato (almeno fino ad allora) signor Brook.
Ma c’erano diversi problemi da risolvere. Senza i nani, portare le statue e le anfore piene di armi nella stanza del tesoro, sarebbe stata un’impresa improba. Aveva bisogno di alleati che non lo potessero tradire. Poi c’era da chiedersi quanto tempo gli sarebbe restato prima che la lettura di quei documenti da parte di uno dei senatori scatenasse le guardie sulle sue tracce. E, infine, voleva farla pagare a quel maledetto Blackwind.
Scacciò i propositi di vendetta. La situazione stava precipitando e non c’era tempo per le rivincite. Ora doveva salvare il salvabile, poi, una volta al sicuro, avrebbe pensato al resto. L’importante era riuscire ad imbarcarsi quella sera.
Bisognava organizzare le cose per bene. Si sedette allo scrittoio, cercando di riflettere con calma. Soffocò la rabbia, tentò di rilassarsi. Lentamente, sentì di stare riacquistando lucidità. Rimase quasi due ore a pensare alle varie possibilità, cercando di ponderare bene i vantaggi e gli svantaggi di ogni soluzione.
Infine scelse il piano che riteneva più sicuro. Non c’era da farsi scrupoli di alcun genere. Era in ballo tutto quello che aveva realizzato in quegli anni. Avrebbe chiesto aiuto ai marinai della nave contrabbandiera. Sarebbero salpati con lui, dunque non sarebbero stati in grado di rivelare alcunché ad estranei. Per maggior precauzione si sarebbe procurato un lasciapassare che gli avrebbe garantito qualche ora d’impunità, oltre a distrarre le guardie. Non avrebbe certamente più potuto metter piede a Elosbrand ma almeno avrebbe avuto la possibilità di ricominciare altrove.
Tornò nella stanza del tesoro. Chiuse il passaggio segreto e si diresse verso il museo. Lanciò un’occhiata distratta al punto dove aveva lasciato il vecchio maggiordomo. Non c’era. Solo una macchia di sangue sul muro ricordava cos’era accaduto. Non se ne curò. Quel vecchio idiota poteva andarsene al diavolo. Ora gli sarebbe stato solo d’impaccio.
Si cambiò e ripulì, gettò un mantello sulle spalle e uscì, ignorando il guardiano al portone che lo salutava deferente. Probabilmente non si era accorto di nulla di quel che era accaduto durante la notte. Certamente non s’immaginava che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di lavoro.

***

Una figura incappucciata si avvicinò con passo malfermo al palazzo di Lord Bailey Windström. Non c’era nessuno, nei pressi. Lentamente, come trascinandosi a malapena, raggiunse il portone e sollevò il battente con enorme fatica. Lo lasciò ricadere e scivolò al suolo, rotolando poco davanti al portone.
Una voce limpida risuonò poco dopo.

«Chi bussa?».

Non si udì risposta.

«Ehi? Chi bussa?».

Lo spioncino si aprì. Qualcuno guardò fuori, senza vedere nessuno. Il portone venne spalancato e un giovane in splendida livrea da maggiordomo uscì dal palazzo. Sobbalzò nel vedere la figura accasciata al suolo, sui gradini lì accanto. Corse a soccorrere quello sconosciuto e gli tolse il cappuccio per vederlo in volto. Sbiancò.

«Padre! Cosa vi è successo?».

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13: rapimento

Era passato mezzogiorno e Lord Bailey dormiva ancora. Robert esitava, davanti alla porta della camera del suo padrone. Era pallido, agitato. Il suo autocontrollo e la sua professionalità si erano sciolti come neve al sole di fronte al viso ferito del suo anziano padre. Aveva urgente bisogno di parlare col suo padrone per accompagnare il genitore da chi avrebbe potuto curarlo. Però esitava. In realtà, Lord Bailey era sempre stato estremamente gentile e disponibile, trattandolo come un suo pari e non come un sottoposto. Eppure, l’educazione lo tratteneva dal bussare a quella porta.
Un passo nel corridoio lo fece voltare. Era Calyon, scuro in volto, che aveva appena finito di parlare con il malconcio Algernon.
 
«Robert, che fai? Lo svegliamo o no?».

«Non so, signore… Milord dorme… mi dispiace svegliarlo».

«Ma che scherzi? Ci penso io».

Il cacciatore spalancò la porta della camera.

«Sveglia, marmotta!».

Il letto era disfatto e vuoto. La punta di una spada si appoggiò al suo fianco.

«Accidenti a te, Calyon! Ma che vi viene in mente di stare dietro la porta a cospirare? Per poco non ti ho fatto male, pensavo ci fosse qualcuno con brutte intenzioni».

La voce di Lord Bailey aveva un tono divertito che contrastava con l’esasperazione delle sue parole. Il gentiluomo, sorrideva ma nel vedere il viso del suo amico, prima e quello di Robert poi, si fece subito serio.

«Cosa è successo? Qualcosa di grave?».

«Hanno picchiato il padre di Robert. È stato quel bel campione di Brook. Credo che quella famosa partita sia ancora aperta».

«Cosa? Robert, racconta tutto».

Il giovane maggiordomo non si fece pregare e riferì come aveva trovato suo padre subito fuori dal portone e come questi si era trascinato in cerca del figlio, dopo l’aggressione subita a opera del suo padrone. Lord Bailey ascoltava con estrema attenzione  mentre si rivestiva rapidamente.

«Come sta tuo padre?».

«Non sembra una ferita grave, milord, ma è anziano e sarebbe meglio che qualcuno più esperto di me gli desse un’occhiata».

Calyon intervenne.

«Elowen è già andata al tempio di Mirpas. Stai tranquillo che tornerà qui con un guaritore».

«Meglio così. Gli eviteremo inutili strapazzi. Ascolta Robert: stai vicino a tuo padre e fidati di me. Assecondatemi entrambi, qualsiasi cosa io faccia o dica, e tuo padre entro domani avrà giustizia e una bella ricompensa».

«Ho piena fiducia in voi, milord. Farò come dite».

Lord Bailey era già vestito di tutto punto. Prese il bastone, si gettò un elegante mantello sulle spalle e si diresse verso la porta.

«Andiamo Calyon. Brook avrebbe potuto cavarsela con relativamente poco ma pare che sia in cerca di guai. E noi lo accontenteremo».

«Dove andiamo?».

«Intanto a fare una passeggiata dalle parti del palazzo di Brook. Poi vedremo».

Venti minuti dopo, i due amici erano davanti al palazzo del mercante d’arte, mescolati alla gente che affollava le vie della città. Lord Bailey si avvicinò e scambiò alcune parole con la guardia che sorvegliava il portone del palazzo. Un attimo dopo tornò da Calyon con aria pensierosa.

«Brook è uscito e non è ancora rientrato. Mi chiedo cosa stia macchinando. Aggredire così quel bravuomo! Roba da autentici vigliacchi».

«Algernon sostiene di non averlo mai visto così fuori di sé».

«Beh, questo posso capirlo, gli abbiamo mandato all’aria i traffici. Vorrei solo capire dov’è andato».

«Magari è scappato».

«Eh, scappato. Uno così scappa portandosi dietro mezza casa, mica solo quel che ha addosso… Sei un genio!».

«Che?».

«Ma certo. Ora credo di sapere dov’è il nostro amico. Vieni con me, dobbiamo cambiar faccia per un po’».

Un’ora dopo, un vecchio marinaio sciancato arrancava sostenendosi a un bastone nelle stradine del porto, diretto verso il molo. Accanto a lui c’era un altro marinaio decisamente più giovane dal passo sicuro ma che pareva decisamente a disagio. Il vecchio faceva fatica a seguire il compagno.

«Ehi, rallenta, giovinastro!».

«Ma era necessaria questa mascherata?».

«Sì, se non vogliamo dare nell’occhio. Siamo quasi arrivati».

«Sei sicuro che la nave sia quella che dici tu?».

«Dalle carte che ho letto, direi proprio di sì, comunque, ce ne accerteremo presto. Vediamo, dovrebbe essere la Lanterna Gialla».

Indicò una nave dalle forme massicce, equipaggiata come se stesse per salpare da un momento all’altro. C’era molto movimento di uomini sulla tolda e sul sartiame. Evidentemente si stavano terminando i preparativi per la partenza. Sul molo, un paio di falconi[9] caricavano a bordo alcune casse che venivano scaricate da un carro fermo lì vicino.
A un tratto, i due amici videro scendere dalla nave il rispettabile signor Brook che si muoveva guardingo, come se temesse un pericolo. Quattro marinai lo seguirono e si diressero verso un carro. Il vecchio marinaio li osservò attentamente.

«Guarda che ceffi! L’equipaggio ideale per una banda di contrabbandieri. Scommetto di sapere dove vanno».

Calyon sorrise.

«A prendere le armi rimaste nei sotterranei. A questo punto è chiaro. Mi chiedo se partirà anche Brook».

«Fossi in lui lo farei senz’altro. Troppo grande il rischio che le carte che gli ho sottratto finiscano in mani sbagliate. E questa è l’ultima nave che possa fare un viaggio abbastanza lungo da portarlo fuori dai guai».

«E ora che si fa?».

«Cerchiamo di scoprire quando leveranno l’ancora. Anzi, fallo tu. Io devo correre da un vecchio amico».

Rapido come un gatto, il marinaio sciancato sparì in uno dei vicoli del porto, lasciando l’amico a osservare pensieroso la nave e il suo indaffarato equipaggio.
Un’ora dopo, un Lord Bailey Windström particolarmente elegante si presentava al quartier generale della Guardia di Elos. Al piantone di guardia chiese di poter parlare col capitano Tyron, della seconda compagnia.
Tyron non amava particolarmente i tipi come quel damerino che aveva già conosciuto in alcune occasioni e che gli stava alquanto antipatico. Ma era un personaggio di rango sarebbe stato scortese e poco prudente non riceverlo. Inoltre, le cose che quel tipo era venuto a sapere da un vecchio maggiordomo gli parvero decisamente interessanti. Gli rivolse alcune domande per meglio capire la situazione, poi decise che era effettivamente il caso di intervenire, possibilmente subito.
Proprio mentre stava per congedare Lord Bailey, il capitano vide irrompere nella sua stanza un sottufficiale di proporzioni quasi gigantesche. Era il sergente Burt “ogre” Waster, noto a tutta Elosbrand per la sua arroganza e avidità e per la scarsa dotazione intellettuale.

«Sergente Waster! È questo il modo di presentarsi a un superiore? Non vi hanno insegnato a bussare?».

«P-perdonate c-capitano. È una cosa urgente e gravissima. La signorina Irlentree è scomparsa!».


[9] Strumenti per sollevare pesi, simili alle gru, manovrati da argani

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14: rivincita

La nave veleggiava placidamente nel chiarore mattutino, la prora rivolta a nordest, sfruttando la brezza fresca che soffiava da ovest, increspando lievemente la superficie azzurra del mare. Il capitano Stark guardava con l’affetto di un padre verso la propria creatura, le vele gonfie di vento e il sartiame teso fin sulla cima degli alberi. Era un uomo alto e robusto, dai lineamenti gradevoli e dai modi leggermente arroganti. Quel genere di arroganza che fa perdere la testa alle donne. E di ciò era particolarmente fiero.
Ancora poche ore e avrebbero rivolto la rotta decisamente verso occidente. Se il tempo non fosse cambiato, e tutto faceva presagire che non sarebbe accaduto, entro una settimana sarebbero arrivati in vista di Nolarbar, il grande porto dell’isola di Soltë, la più grande delle isole orientali. E finalmente si sarebbe liberato della passeggera.
Nulla contro le donne, per carità. Soprattutto se sono belle e pagano bene. Però sulla terraferma. A bordo portano sventura. Anche se pagano bene e sono belle.
Guardò, oltre la murata di babordo, la linea sottile della terraferma che si allontanava lentamente. Presto si sarebbero visti i primi picchi dei monti del Kaardir e quello sarebbe stato il segnale di volgere la rotta verso oriente. Anche perché costeggiare quella regione poteva essere decisamente poco igienico.
 
«Buongiorno, capitano».

Una voce dolcemente musicale lo fece voltare. Beata Telgëa, com’era bella! Un corpo perfetto avvolto da una splendida veste di seta verde, un ampio spacco della quale mostrava una gamba perfettamente tornita, inguainata in una calza di seta che spariva dentro un elegante stivaletto appena sopra la caviglia. Il viso era splendido, con lineamenti regolari, una bocca sensuale e altera, due occhi nerissimi e ammalianti, una cascata di splendidi capelli d’oro.
Il capitano Stark dimenticò immediatamente tutte le superstizioni marinare e pregò ardentemente che quel viaggio potesse durare ben più di una settimana e, magari, trasformarsi in qualcosa di estremamente piacevole.

«Bu-buongiorno milady. O-onoratissimo di avervi a bordo della mia nave. Sono il capitano Stark e sono completamente al vostro servizio».

Il capitano, che aveva già un paio di mogli in porti diversi, avrebbe voluto aggiungere “anima e corpo” ma temette di essere troppo audace e giocarsi stupidamente un’occasione straordinaria. Il tempo non gli sarebbe mancato e avrebbe avuto tutte le possibilità di mettere a frutto i suoi talenti seduttivi.

«Grazie, capitano. È un… piacere conoscervi. Sono Lady Lavinia Florence».

Il capitano la guardò perplesso. Si sbagliava, o aveva sottolineato la parola “piacere”?

«Il piacere è mio, milady. Spero che questo viaggio possa essere di vostro gradimento».

«Sono certa che voi abbiate tutte le qualità per rendere decisamente… piacevole questo viaggio».

Il tono della parola “piacevole” e lo sguardo della ragazza lasciavano decisamente poche possibilità d’equivoco e il signor Stark si sentì girare la testa, mentre i suoi ormoni si distribuivano impetuosamente in ogni recesso del suo corpo.

«Spero che la cabina sia di vostro gradimento, milady».

Ormai era in ballo, decise di lanciare l’amo e vedere se l’impressione che l’atteggiamento di quella splendida donna gli aveva dato era corretta o se si stava facendo pericolose illusioni. L’istinto (o la vanità) gli diceva che la ragazza stava provando a sedurlo e lui non intendeva opporre troppa resistenza se davvero era lei a condurre il gioco.

«Oh, capitano, è veramente splendida. Però, ora che me lo chiedete, c’è un cassetto che non si apre… potreste aiutarmi?».

Abbocca!

Il capitano Stark era già al settimo cielo. Raggiunse l’ottavo quando sentì cingersi la vita dal braccio della giovane splendida dama che lo condusse verso il castello di poppa. Precipitò nel più profondo degli abissi quando, appena entrati nella cabina, si accorse che il suo pugnale era nella mano della donna e premeva pericolosamente contro il suo pomo d’Adamo.

«Che pena voi uomini. Uno sgonnellìo, un po’ di moine e non capite più nulla. Ora, mio affascinante capitano, farete calare a mare la lancia e mi farete l’onore di scortarmi a riva. Senza scherzi o la vostra carriera di seduttore e di marinaio troverà una fine ingloriosa».

Era sempre bellissima ma la crudeltà del suo sorriso e la durezza della voce non lasciavano adito a dubbi sulle capacità di quella donna di mettere in pratica le sue minacce.
Mezzora dopo, una lancia con a bordo il capitano e la bellissima dama si staccava dalla nave, rapidamente messa all’ancora, seguita dagli sguardi perplessi di quasi tutto l’equipaggio.
L’agile imbarcazione toccò terra un’ora dopo e il capitano Stark, rosso di sudore e di un misto fra ira e umiliazione, guardò la sua passeggera gettare una borsa sulla spiaggia e scendere con un balzo felino.

«Buon viaggio, capitano. Vi assicuro che questo è stato il viaggio per mare più… piacevole della mia vita. Come amante non so come siate ma, come rematore, avete un futuro».

Il furente capitano Stark riprese a remare, senza dire una parola, allontanandosi dalla riva con formidabili colpi di remo, resi ancor più efficaci dal furore che gli torceva le viscere.

Le donne, a bordo, portano sventura.

Non aveva più alcun dubbio. Non ne avrebbe accettate mai più sulla sua nave, nemmeno se l’avessero coperto d’oro.
Ovviamente, l’idea di essere stato di una stupidità disarmante non gli passo neppure un attimo per la mente.

La ragazza lo guardò allontanarsi, poi prese la borsa e si diresse verso l’interno. Dopo un centinaio di metri si fermò e tagliò la gonna col pugnale, scoprendo entrambe le splendide gambe e guadagnando una maggiore libertà di movimento. Si allontanò verso le colline con passo fermo e rapido. Il pugnale assicurato in vita e un sorriso gioioso sulle labbra sensuali. Solo gli occhi erano duri e spietati come l’acciaio.
Non temeva affatto quelle campagne selvagge. Difficilmente avrebbe incontrato qualcuno o qualcosa più pericoloso di lei. La chiamavano Oleandro Nero, il fiore bellissimo e letale. Camminò ore senza minimamente fermarsi, sempre avvolta in quegli abiti ingombranti ma che avrebbero spinto eventuali predoni a tener bassa la guardia davanti a una ragazza bella e sola, a spasso sulle colline.
Si fermò in un piccolo villaggio per mangiare qualcosa e cercare di procurarsi una cavalcatura. L’oro, grazie a quell’odioso individuo che l’aveva beffata, non le mancava. Riuscì a rifocillarsi ma nessuno possedeva animali di taglia superiore a quella di una pecora. Rinunciò e riprese la marcia.
A metà del pomeriggio due briganti (o, forse, solo due contadini ubriachi) l’avvicinarono con apprezzamenti pesanti e, visto che lei non li considerava nemmeno di striscio, tentarono di metterle le mani addosso. Caddero in pochi secondi, con la gola squarciata da due colpi di quel pugnale che quella splendida creatura adoperava con veramente rara rapidità ed efficacia.
Al tramonto, le mura di Elosbrand si stagliarono davanti ai suoi occhi freddi e determinati. Mezz’ora dopo entrava in città, diretta verso il quartiere nobiliare.
Era l’ora della rivincita.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15: caccia

Quella notizia lo aveva completamente colto di sorpresa. Si immaginava che Brook sarebbe scappato cercando di portarsi dietro la maggior parte delle proprie ricchezze e il carico d’armi, ma non aveva minimamente pensato alla ragazza. Perché Lord Bailey non aveva dubbi su chi fosse il responsabile di quella sparizione, né su come questa fosse avvenuta. Erano ben altre le domande che si poneva. Brook aveva rapito la ragazza o quella l’aveva seguito spontaneamente? Era una complice od un ostaggio? Od entrambe le cose?
In ogni caso, rivelare al capitano Tyron quel che sapeva sul passaggio sotterraneo sarebbe stato come consegnarsi spontaneamente alle guardie. Come poteva conoscere tali particolari?
Il giovane elfo che, nei panni di Lord Bailey, stava rapidamente percorrendo le strade affollate di Elosbrand non smetteva un attimo di riflettere sugli ultimi avvenimenti.
L’unica cosa certa era che quella ragazza, complice o vittima, avrebbe legato le mani alle guardie di Elos.
Si era illuso di non dover intervenire di persona ma si rendeva conto di non avere molta scelta. A meno di non lasciare che Brook la facesse franca. Cosa da non prendere nemmeno in considerazione, soprattutto dopo quel che era accaduto al padre di Robert.
Giunse al proprio palazzo in preda a un’agitazione insolita per un tipo calmo come lui. Doveva scoprire immediatamente dove Brook poteva aver condotto la ragazza. Certamente non direttamente alla nave, né era verosimile che il mercante si fosse trattenuto a lungo nel sotterraneo, dal momento che poteva essere oggetto di un’irruzione da parte delle guardie. Si rimproverò duramente per non aver esplorato quel passaggio fino in fondo. Quasi sicuramente doveva esserci un’altra uscita. Il problema era riuscire a capire dove portasse. Provare a tornare nel passaggio sotterraneo sarebbe stato assai pericoloso, senza considerare il fatto che il mercante doveva averne bloccato l’apertura,  a meno di non essere uno stupido totale.
Varcato il portone, incontrò subito Robert che lo rassicurò sulle condizioni dell’anziano padre. Di Calyon nessuna notizia. Salì nel suo studio e si dedicò a esaminare numerosi volumi e pergamene che trattavano della città e la sua storia.
Due ore dopo era pomeriggio inoltrato, conosceva a memoria l’intero quartiere nobiliare ma non aveva la minima idea su dove potesse essere nascosto Brook.

Adesso calmati. Rifletti. Cosa sai di sicuro? Che Brook si imbarcherà sulla “Lanterna Gialla”. Quasi certamente stasera. Dunque è assolutamente necessario trovare dov’è ora, se sai dove sarà più tardi? La ragazza, consenziente o no, non corre pericoli di alcun genere perché se è complice, lui non le torcerà un capello, se l’ha rapita per usarla come ostaggio, le serve viva almeno fino a quando non saranno bene al largo.

Lentamente, la calma cominciò a tornare nell’anima del giovane elfo. La calma e la sua consueta freddezza. L’unico punto fermo della questione era la nave e da lì avrebbe dovuto partire. Bisognava vedere se, e come, era possibile fermare Brook poco prima del suo imbarco. Una volta a bordo, gli sarebbe sfuggito, forse per sempre.
Si preparò all’azione, indossando gli eleganti abiti neri che gli permettevano di nascondersi meglio nell’oscurità e il magico mantello degli elfi, capace di renderlo quasi completamente invisibile. Cinse la splendida spada che aveva trovato nella fucina di Brook e calzò il cappello a larghe tese che gli manteneva in ombra il volto. Rimpianse di non poter avvertire i suoi amici, anche se manteneva la speranza di poter trovare Calyon nei pressi della “Lanterna Gialla”.
Un quarto d’ora dopo era già nella zona del porto.

***

Rimasto solo, Calyon cercò di capire se fosse possibile avvicinare qualcuno dei marinai della “Lanterna Gialla”. A prima vista parevano indaffarati come api ma il cacciatore elfo individuò rapidamente un paio di marinai che parevano cercare ogni scusa possibile per evitare il lavoro. Quando erano di turno ai “Falconi”, giravano l’argano con poca lena e i carichi rallentavano visibilmente. Spesso fingevano di essere stati chiamati da qualcuno e sparivano per interi quarti d’ora a bordo della nave. Addirittura, uno dei due, che si era attardato una buona mezzora, fu scaraventato sul molo dal nostromo infuriato. Dalle urla che lo accompagnarono, comprese che il suo nome era Jack Oblomov.
Bene, bene. Questo ha l’aria di essere proprio il tipo adatto.
Rapidamente, Calyon raggiunse la taverna più vicina e acquistò una fiasca di rum. Poi tornò nei pressi dell’argano, dove il marinaio, con aria afflitta, sbuffava spingendo la ruota alla velocità minima che poteva mantenere senza incorrere nelle ire del nostromo. Passò una buona mezzora, durante la quale Oblomov parve patire pene infernali mentre spingeva la barra dell’argano sotto l’occhio attento e malevolo del suo aguzzino.
Finalmente, un altro marinaio giunse a dare il cambio al poco industrioso collega che si diresse con passo lento verso il molo, con l’evidente intento di andare a riposarsi da qualche parte.

«Un goccio?».

L’esausto marinaio guardò estasiato la paradisiaca visione di una fiasca di rum che gli veniva agitata davanti al naso, il quale fremette nel percepire l’aroma proveniente dal collo stappato. Non ebbe dubbi che la persona che gli offriva quell’insperato ristoro dovesse essere la migliore e più generosa di tutta la costa.

«Grazie, amico, mi stai salvando la vita!».

«Prendi e ristorati, vecchio mio. Ho visto che quel brutto arnese non ti ha perso di vista un attimo. Ne hai proprio bisogno, dopo tutta quella fatica».

Il marinaio si attaccò alla fiasca e trasse due lunghi sorsi, prima di staccarsene con aria decisamente soddisfatta.

«Grazie davvero, amico. Ma ci conosciamo?».

«Per le squame di Ascaris! Certamente, Jack! Sono il cugino del vecchio Fred!».

Ora, Fred non era esattamente un nome insolito da quelle parti e il marinaio ne passò in rassegna una mezza dozzina nella sua mente esausta, prima di riconoscere che, in fondo, non gli importava un accidente di chi mai fosse quel tizio. L’importante era continuare a svuotare quella fiasca.

«Ah, certo! Sta bene quel vecchio furfante?».

«Benissimo. Bevi, amico mio, anzi, perché non festeggiamo l’incontro in quella taverna? Ti offro un’altra bottiglia».

Oblomov guardò la fiasca, il suo interlocutore e l’argano del Falcone che girava di buona lena, spinto dal marinaio che gli aveva dato il cambio. Decise in un attimo.

«Ottima idea. Questo è un incontro che va festeggiato».

Un’ora dopo, Oblomov era ubriaco fradicio e Calyon sapeva che la “Lanterna Gialla” doveva salpare quella sera, a notte fonda. Al massimo prima dell’alba. A bordo erano attesi passeggeri di riguardo e, dopo cena, si sarebbero caricate delle casse di opere d’arte delicatissime che avrebbero dovuto essere trasportate alla nave da un magazzino nei pressi del porto.
Lasciò il marinaio ubriaco al tavolo, pagò il conto e si diresse verso la parte settentrionale della zona portuale, dove si sarebbe dovuto trovare il magazzino in questione. Era quasi il tramonto, sicché immaginò che stessero per cominciare le operazioni di carico delle armi. Sarebbe bastato trovare un magazzino che veniva svuotato a quell’ora insolita. Poco dopo, era ragionevolmente certo di averlo trovato, avendo riconosciuto il nostromo. Il sole tramontava proprio allora.

***

La guardia sentì bussare al portone e aprì lo spioncino. Era buio ma le due torce accese davanti al portone illuminavano abbastanza la figura davanti all’ingresso da permetterle di rendersi conto che si trattava di una donna. Probabilmente giovane. Non era la prima volta che il padrone di casa riceveva simili visite serali, però, quella sera, il signor Brook non era ancora rientrato. La guardia aprì il portone e verificò che era veramente una giovane donna di rara bellezza. Ed era lì per conferire con il signor Brook. Conferire, come no?
L’uomo sospirò e spiegò alla giovane che il signor Brook non era in casa e che no, non c’era nemmeno il suo maggiordomo, anzi, il palazzo era deserto e che no, non poteva assolutamente farla entrare.
Lo sguardo dell’uomo era completamente perso nello scollo generoso della sconosciuta, dunque non vide il pugnale che lei gli appoggiò sulla gola, se non quando sentì il gelo della lama.

«Il signore non è in casa? Bene, ci divertiremo noi due, allora. Vuoi farmi entrare o devo proprio ucciderti?».

La guardia ubbidì tremando e fece entrare la donna, cercando di tenere il collo staccato dal coltello della sconosciuta. Questa, una volta entrata nell’ingresso del palazzo, colpì decisamente il poveretto sotto la cintura, inducendolo a piegarsi. Un attimo dopo, l’elsa del pugnale piombò violentemente sulla nuca dell’uomo che cadde al suolo, incosciente.
La giovane donna aprì la porta dello stanzino delle guardie e controllò che fosse deserto, poi vi trascinò il corpo esanime dell’uomo e lo chiuse dentro a doppia mandata, dopo averlo spogliato delle armi.
Non conosceva bene il palazzo ed impiegò una mezzora a trovare le stanze di Brook, al piano superiore. Si mise a frugare fra le carte con somma pazienza, senza trovare nulla di veramente indicativo. Nessun appunto su quel maledetto individuo. Solo un’annotazione: “Lanterna Gialla”. Cosa poteva essere?
Rifletté con calma. Una taverna? Un segnale? Una nave? Conosceva la maggior parte delle taverne della città ma non ricordava di averne vista una con quel nome. La cosa più facile era che si trattasse di una nave. Non aveva alcun’altra traccia, dunque doveva seguire questa.
Lasciò silenziosamente il palazzo, diretta verso il porto.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

Capitolo 16: la beffa

Il nostromo pareva decisamente alterato e passeggiava su e giù per il magazzino, brontolando rumorosamente. Era un uomo massiccio, non molto alto, dai radi capelli biondi che andavano sempre più ingrigendo. Il volto, dalla carnagione giallastra denotava chiaramente il suo pessimo umore: le folte sopracciglia erano aggrottate e gli occhi piccoli erano ridotti a fessure.
Il comandante della “Lanterna Gialla” lo osservava perplesso, spostando spesso lo sguardo sugli altri marinai che parevano appoggiare le tesi del sottufficiale. Era un uomo alto e magro, dai lineamenti affilati che ricordavano un po’ una faina. Le argomentazioni del nostromo non lo avevano affatto convinto e l’oro promesso da Brook lo allettava ma si rendeva conto di essere in una posizione difficile.
Seduto su una cassa, lì nei pressi, Brook era furente. Paonazzo in volto, lanciava sguardi irati alla ciurma e alla giovane donna che, pallidissima, sedeva con le mani giunte e gli occhi bassi accanto a lui.
 
«Le donne a bordo portano disgrazia. Il comandante siete voi ma io devo ricordarvelo capitano, giacché parete essere accecato dal miraggio dell’oro. In fondo al mare l’oro non serve!».

Il nostromo si rivolgeva al suo capitano, forte dell’appoggio della maggior parte della ciurma, composta da marinai coraggiosi e senza scrupoli ma profondamente superstiziosi.

«Maledetto gallinaccio, lo volete capire che questa ragazza è il nostro lasciapassare più sicuro?».

«Signor Brook, cercate di ragionare. Il nostromo parla a nome dell’intero equipaggio e non mi sembra un buon viatico per la nostra spedizione partire con tanto malumore a bordo».

Le parole pacate del capitano incoraggiarono il nostromo che si affrettò a sottolineare le sue convinzioni.

«Signor Brook, finché si tratta di opere d’arte o merci di contrabbando, non mi interessa affatto cosa portate a bordo della nostra nave. Ma, se si tratta di donne, io non posso stare zitto. Le sottane devono stare sulla terraferma. Anche se sono belle!».

«Ma lo sapete quanto sarebbe disposto a pagare il padre di questa ragazza, per riaverla? Io dico almeno ventimila monete d’oro. E, se ve lo dico io, potete crederci!».

A queste parole, la giovane impallidì ulteriormente, guardando con occhi sgranati quello che aveva creduto un appassionato spasimante e che, invece, la aveva portata via dalla sua casa con la violenza.

«E, di grazia, perché proprio ventimila?».

Tutti si voltarono. Dal fondo del magazzino un’elegante figura vestita di nero avanzava con passo fermo, nella voce una nota beffarda.
Brook balzò in piedi.

«Blackwind! Prendetelo! Duemila monete d’oro a chi lo cattura!».

«Fermi!». La voce di Blackwind tuonò autoritaria nell'ampio locale, fermando un attimo i marinai, mentre lui continuava ad avvicinarsi tranquillamente.

«Capitano, permettete che mi presenti. Mi chiamano Blackwind, passavo da queste parti e non ho potuto fare a meno di udire le voci sommesse del vostro nostromo e del signor Brook…».

Qualcuno dei marinai sghignazzò, considerando il gran vociare che avevano fatto quei due fino ad allora.

«… Mi dispiace tanto sentir litigare due personcine così ammodo, dunque ho pensato che ci sarebbe una soluzione per togliervi da queste ambasce».

«Cosa intendete dire?».

«Che compro io la ragazza. Qui e ora. Così potrete imbarcarvi senza altre preoccupazioni».

La giovane Irlentree, a quelle parole, parve rianimarsi e cominciò ad osservare quello sconosciuto con estrema attenzione e trepidazione. Era la salvezza o un destino ancora peggiore? Il capitano trasecolò.

«State scherzando?».

«Affatto. Signor nostromo, avete la bontà di avvicinarvi?».

Il nostromo guardò il suo comandante che annuì con il capo, poi guardò Brook che pareva volerlo incenerire con lo sguardo, dunque sorrise soddisfatto e si avvicinò allo sconosciuto.

«Vi intendete di pietre preziose, immagino».

«Un po’…». Rispose il marinaio, intimidito.

«Bene, cosa mi dite di questo rubino?».

Nella mano inguantata di Blackwind era comparso, come per magia, l’Occhio della Regina, il favoloso rubino sottratto a Brook. Il nostromo impallidì e si avvicinò per guardarlo meglio.

«Ma è… è… stupendo! Vale una fortuna!».

«Sì, ma non riuscireste a rivenderlo. Però potete farlo tagliare in due o tre gemme che vi renderanno almeno il doppio delle ventimila monete d’oro di cui parlava il signor Brook».

Il signor Brook si avvicinò al capitano col volto in fiamme.

«Maledetto! Capitano, prendetelo! Avrete la gemma e anche il riscatto!».

«Non fate sciocchezze, capitano. Vi offro una scappatoia onorevole. Io prendo la ragazza, voi la gemma e vi potrete imbarcare senza problemi. In caso contrario, devo avvisarvi che l’edificio è circondato dai miei uomini e che molti potrebbero farsi male. Potrei prendere la ragazza con la forza ma detesto la violenza».

«State cercando di giocarmi?».

«Come preferite. L’alternativa è imbarcarvi senza il gioiello e con la donna».

Un brusio si levò dai marinai. La cupidigia e la superstizione li portavano naturalmente a considerare con molto favore l’offerta di Blackwind. Il nostromo si avvicinò al capitano.

«Capitano, mi sembra un’offerta ragionevole».

«Va bene, Blackwind. Accetto. Datemi il rubino».

«Quando la ragazza sarà qui, accanto a me. La scorterete voi, capitano, e metterò io stesso la gemma nella vostra mano, potete fidarvi della mia parola».

Il capitano si avvicinò alla ragazza che lo seguì senza dire una parola, come una sonnambula.

«Scelta saggia, capitano, eccovi il rubino e addio».

Brook si lanciò con la spada sguainata verso l’avventuriero ma fu immediatamente bloccato dai marinai più vicini.

«Eh no! Maledetto bastardo non te la caverai così facilmente! Ridammi il rubino!».

Il capitano lo guardò con aria severa.

«Brook, non insistete a fare sciocchezze. Imbarchiamoci subito. Voi avete le vostre ricchezze e il vostro carico, noi una ricca ricompensa e questo signore la ragazza».

«La ragazza! Ah cagnaccio! Ora ti faccio vedere io!».

L’eccellentissimo signor James Brook si esibì in una sequela di bestemmie che sorprese anche molti dei marinai presenti. Il capitano si fece minaccioso.

«Ora basta, Brook. Oppure vi lascio sul molo».

«Addio, signori, è stato un vero piacere».

Blackwind, giunto alla porta del magazzino, si allontanò a passo svelto nella nebbia del porto, quasi trascinando la ragazza per il braccio e lasciando Brook a discutere animatamente con il capitano, sotto gli occhi soddisfatti del nostromo.

«Venite signorina Irlentree, sarà meglio sbrigarci. Non siamo ancora al sicuro».

«Ma… i vostri uomini?».

«Sono due. Valgono tanto oro quanto pesano e dovete dire loro grazie se vi abbiamo trovata e vi ho potuta sottrarre a quei pirati, ma sono solo due. E quelli fra poco ci verranno dietro».

«E perché? Non li avete pagati?».

«Ehm… non crederete che abbia lasciato un  rubino di quel valore nelle mani di quella gente? L’ho sostituito con una copia proprio mentre lo consegnavo al capitano».

«Cosa?».

«Chi la fa l’aspetti. Il falso è opera dello stesso vostro spasimante, signor James Brook».

«Non nominatemi quel mostro! Credevo fosse venuto a prendermi per portarmi in qualche posto meraviglioso, come i cavalieri eroici… invece ha quasi ammazzato la mia cameriera che mi sconsigliava di andare con lui. Aveva ragione. Gli servivo solo da ostaggio».

«Ma non ha considerato le superstizioni dei marinai. Così mi ha offerto l’occasione giusta per liberarvi».

«Allora… non devo considerarmi una vostra proprietà?».

Blackwind scoppiò a ridere nel vedere l’aria sollevata della ragazza che stava rapidamente riprendendo colore.

«Assolutamente no, signorina. Siete libera come l’aria… però cerchiamo di muoverci o saremo nei guai. Temo si siano accorti del mio giochino di prestigio».

Urla e maledizioni giungevano dalla direzione del magazzino ed era chiaro che i marinai si stavano riversando sulle tracce dei fuggitivi.

«Peccato, però…». Mormorò la ragazza, apprestandosi a seguire l’avventuriero vestito di nero.

Si affrettarono nei vicoli del porto, finché due ombre non emersero dalla nebbia. Erano Calyon ed Elowen. Per l’occasione, Calyon sfoggiava uno splendido cappello a tese larghe e un mantello nero ed Elowen era vestita come una dama, in modo abbastanza simile alla giovane Irlentree.

«Eccoci! Grazie, amici miei».

«Andate. Ora faremo da esca per un po’ e li porteremo a spasso per il porto. Quando si accorgeranno dell’errore sarà troppo tardi».

«Venite signorina, vi riaccompagno a casa. Amica mia, hai fatto quel che ti avevo detto?».

Elowen sorrise, ammiccando.

«Alaum è pronto. L’ultimo atto può andare in scena».

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17

Capitolo 17: la trappola

La nebbia avvolgeva le stradine di Elosbrand, rendendo indefiniti i contorni delle abitazioni, delle taverne e dei magazzini ed attutendo i suoni e gli odori del porto, quasi deserto a quell’ora tarda. In genere, quei pochi suoni e luci che turbavano il silenzio ed il buio della notte provenivano dalle ultime bettole ancora aperte, a opera di marinai ormai preda dei fumi dell’alcol. Quella notte, però, una piccola folla di uomini percorreva i vicoli e le strade tortuose, alla luce di numerose torce, accompagnata da rabbiose espressioni di frustrazione e sconcerto.
 
«Maledizione! Avrei giurato di averli visti svoltare da questa parte! Eppure non possono essere scomparsi».

Un marinaio dal fisico tarchiato guidava la piccola ciurma, affiancato da un giovane uomo di alta statura, elegantemente vestito, dall’apparenza di un ricco mercante o di un avventuriero. Un giovane uomo dallo sguardo furente.

«Nostromo, siete sicuro di sapere dove ci state portando?».

«Maledizione a voi, Brook! Se conoscete il porto meglio di me, guidateci! In fondo quel bastardo ha fregato voi tanto quanto noi. Forse anche di più».

Il mercante avvampò in viso e la sua mano corse alla lunga spada che cingeva al fianco.

«Pezzo d’idiota! Ora vi faccio…».

Una voce interruppe il litigio.

«Eccoli! Laggiù, verso il molo!».

Due figure erano passate davanti alle luci di una taverna ed erano chiaramente apparse come un uomo con un mantello scuro e una dama in abiti eleganti.

«Avanti! Prendiamoli!».

L’intera ciurma si gettò all’inseguimento dei due che, immediatamente, si erano messi a correre per le stradine del porto, diretti verso il molo.

«Forza! Non lasciamoli scappare!».

Corsero dietro ai due fuggitivi, guidati da fugaci ombre emerse dalla nebbia, talora simili a un uomo ammantato, talaltra a una donna avvolta in sete pregiate. A volte, quando la nebbia frustrava i loro occhi, dovevano fermarsi per ascoltare i passi della coppia, nella speranza di non perdere nuovamente le loro prede.
Dopo un tempo indefinibile, dilatato dalla nebbia e dall’ansia, i passi degli inseguiti condussero i marinai e il mercante sul molo. Grida trionfali eruppero quando videro emergere dalla nebbia la sagoma della “Lanterna Gialla”.

«Ascaris li ha accecati! Sono in trappola!».

«Circondateli! Non facciamoli scappare!».

La coppia fuggitiva si era fermata nei pressi di uno dei due Falconi dal quale penzolava ancora una delle casse di opere d’arte destinate a essere imbarcate sulla nave.
I marinai circondarono agevolmente i due che si erano addossati all’argano della macchina da carico e che apparivano senza via di scampo. L’uomo sguainò una lunga spada.

«Chi siete? Banditi forse? Qui, in mezzo alla città?».

«Non fare il furbo, Blackwind. Siete in trappola!».

«Cosa? Non so chi cerchiate, signore. Non conosco quel nome. Di certo non è il mio».

Brook sghignazzò soddisfatto. Il suo nemico non aveva più scampo e quei patetici tentativi lo divertivano.

«Non ci faremo giocare un’altra volta. Gettate le armi o per voi sarà la fine».

«Ma insomma! Sono una dama e quest’aggressione la pagherete assai cara!».

Una lama di gelo spezzò le certezze del mercante. Quella non era affatto la voce della giovane Irlentree. Fu preso da un sospetto atroce. Possibile che si fossero sbagliati?

«Portateli qui!».

«Ma… questi non sono quei due!».

Il nostromo, che si era avvicinato alla coppia, si voltò stupefatto verso gli altri marinai.

«Maledizione! E allora perché scappavano?».

«Cosa avreste fatto voi, se vi foste visto correre addosso una torma di brutte facce armate e minacciose?».

Brook era basito. Come diavolo poteva essere accaduta una cosa del genere? Una voce limpida e potente, simile al suono d’una canna d’organo, proveniente da dietro le sue spalle, lo fece trasalire.

«Cosa succede qui, a quest’ora? Fatevi riconoscere, nel nome di Mirpas, o vi porteremo  tutti in prigione!».

Dalla nebbia emerse l’alta figura di un uomo in armatura completa, con la spada in pugno e un grande scudo sul quale campeggiava l’emblema di Mirpas. Si avvicinava con passo fermo e cadenzato, mettendo bene in evidenza lo stemma che lo qualificava come un campione del Signore dell’Armonia. Dietro di lui veniva un folto drappello di armati che portavano le insegne della Guardia di Elos.
Qualcuno dei marinai fu preso dal panico e tentò di fuggire, immediatamente bloccato dai mercenari. Il paladino si avvicinò al gruppo di Brook. Dalla visiera alzata, due brillanti occhi color dell’oro si fissarono sul mercante.

«Ebbene, chi siete signore? E questi marinai armati?».

«Sono James Brook, mercante d’arte, e questi marinai sono armati solamente per proteggere le preziose opere d’arte che vengono caricate sulla nave. Io protes…».

Fu interrotto da uno schianto terribile. Qualcuno aveva tolto il fermo dell’argano e il carico del Falcone si era schiantato al suolo. Brook impallidì a quella vista. I due fuggitivi erano ancora nei pressi dell’argano, con un sorriso soddisfatto sul volto.

«Sir Alaum, capitano, venite a vedere».

Una guardia si era avvicinata ai resti della cassa schiantata al suolo e stava sollevando una scure, evidentemente raccolta da quel che restava del carico. Il paladino si diresse verso i rottami, mentre un mormorio allarmato si levava fra i marinai. Insieme a un ufficiale della Guardia, Alaum si mise a esaminare le statue e le anfore fracassate.

«Bene, bene. Sono queste le opere d’arte signor Brook? Fate aprire le altre casse, capitano, credo che queste non siano le sole sorprese che ci riserverà questo carico».

Brook riprese colore. Le guardie intorno a lui stavano osservando le armi che venivano raccolte da quel che restava della cassa, sforzandosi di penetrare la nebbia con lo sguardo, e non gli prestavano molta attenzione. Decise che non poteva farsi sfuggire quell’occasione.
La spada del mercante saettò colpendo la guardia più vicina e Brook scattò oltre il cerchio dei mercenari, fuggendo fra la nebbia e le stradine del porto.

«Prendetelo! Capitano, non fatevelo sfuggire!».

La voce di Alaum tuonò nella nebbia, col suo caratteristico timbro metallico, pervasa da un’autorità che pochi avrebbero osato discutere. Immediatamente, un drappello di mercenari corse dietro al mercante, guidati dall’ufficiale.

«Sergente, mettete agli arresti l’intero equipaggio di quella nave e perquisite il carico».

Una massiccia figura si staccò dal gruppo delle guardie e si avvicinò al paladino.

«Subito, signore. Bella retata, signore!».

«Sergente Waster, devo avvertirvi che detesto gli adulatori. E che le opere d’arte sono verosimilmente false, dunque evitate di intascarvi qualcosa. Lo scoprirei. E non vi piacerebbe».

Il grosso sottufficiale corse immediatamente a eseguire gli ordini, senza più proferire una sola parola. Il paladino si avvicinò ai due amici, nei pressi dell’argano.

«Ciao, Calyon. Siete stati veramente in gamba. Soprattutto tu, mia cara».

Elowen si inchinò graziosamente, mentre Calyon abbracciava il vecchio amico.

«Splendido lavoro, Sir Alaum, le mie congratulazioni».

«Fai poco lo spiritoso, mezzo furfante. Non voglio sapere come avete fatto a scoprire questa faccenda. Piuttosto, dov’è il re dei malandrini?».

«Ha accompagnato miss Irlentree dall’augusto genitore ma dovrebbe essere qui a momenti».

«Lo immaginavo. Dove c’è una gonna, il nostro amico è sempre nei paraggi…».

Rise, di un riso sonoro e lieve, mentre gli occhi color dell’oro si illuminavano nel fissarsi sul sorriso di Elowen.

«Va bene… lo aspetteremo ancora un po’, ma potrebbe aver trovato qualcosa di meglio da fare. Se non arriva me lo saluterete voi».

***

Brook correva a perdifiato fra i vicoli. Conosceva bene quei paraggi ed era abbastanza certo di essersi liberato dei suoi inseguitori. Dopo averli portati a spasso nei dedali della parte più vecchia e malridotta del porto, si era nuovamente diretto verso il molo, dove le barche dei pescatori stavano rientrando dalla nottata di lavoro e presto sarebbe cominciata la vendita del pesce. Ormai non gli restava altra via di fuga che il mare ed era certo che avrebbe saputo convincere uno dei pescatori a portarlo da qualche parte, dove sarebbe stato al sicuro.
Dietro di lui l’eco dei passi degli inseguitori si era spenta da un po’, dunque riteneva di essere ragionevolmente al sicuro. Almeno per quel tanto che gli occorreva per salpare con uno dei pescherecci. Si ricompose e riprese l’apparenza del ricco mercante, apparenza che gli avrebbe facilmente fatto trovare l’imbarco che desiderava. Stava per avvicinarsi al molo quando una figura vestita di nero gli sbarrò la strada.

«Non dimenticate qualcosa, eccellentissimo signor Brook?».

Il mercante avvampò e snudò la spada. La sua voce tremava per la rabbia e l’odio.

«Sei un uomo morto, bastardo schifoso!».

«Come già vi avevo detto, avrei preteso soddisfazione dei vostri insulti, signor rapitore di ragazzine. È giunto il momento di regolare la questione».

Con grande calma e sempre sorridendo, Blackwind sguainò lo stocco, disponendosi in guardia. Brook caricò violentemente, menando un terribile fendente che, però, trovò solamente l’aria. Immediatamente provò un altro attacco, ancora senza trovare l’avversario. Il mercante contava sulla sua forza, indubbiamente maggiore, e sul peso della sua arma che avrebbe potuto spaccare facilmente quella del suo rivale. Questi, fino ad allora, si era solo lievemente spostato, evitando l’impeto del mercante e limitandosi a cambiare guardia. Brook, invece, nei suoi assalti senza costrutto era arrivato quasi a cadere su un carretto carico di pesce. La poca gente presente sul molo si stava accorgendo di quanto accadeva e si stava avvicinando. Qualcuno, al vedere balenare le armi, si mise a chiedere aiuto.

«Troppa foga, Brook. Rischiate di farvi male».

Brook non rispose alla voce beffarda del suo avversario ma si esibì in un paio di finte, seguite da un violento affondo. Questa volta, Blackwind non si scansò ma parò con un movimento semicircolare, verso l’esterno, colpendo la punta della lama avversaria con il “forte”[10] della sua e portando l’arma di Brook all’esterno. In questo modo, la difesa di Brook si era aperta e Blackwind vi penetrò rapidamente, con una piroetta che concluse con una secca gomitata sul volto dell’avversario.
Brook barcollò all’indietro, sorpreso dalla mossa del ladro, arrivando sul bordo del carretto. Un affondo di Blackwind lo costrinse a una goffa parata che finì per fargli scoprire nuovamente la guardia. Un violento calcio lo raggiunse al volto, facendolo cadere all’indietro, sul carretto, in mezzo ai pesci.

«Mi ritengo soddisfatto, eccellentissimo signor Brook. Addio».

Brook udì le parole del suo avversario come in un sogno. Vedeva tante facce avvicinarsi curiose, formando un capannello di volti, occhi, rughe e bandane. Un curioso olezzo di pesce gli solleticava le nari. Lentamente, il mercante cercò di scuotersi. Poi udì una voce.

«Alzatevi signor Brook. Siete in arresto».

Quelle parole ebbero l’effetto di un secchio d’acqua sul mercante che si sollevò su un gomito, cercando di liberarsi dei pesci e riprendere un minimo di dignità. A parlare era stato un ufficiale della Guardia di Elos, un biondino baffuto che aveva l’aria di essere appena stato promosso al suo grado.

«Arrestate Blackwind, piuttosto. Io sono uno dei più stimati cittadini di Elosbrand!».

«Siete accusato di traffico d’armi e di aver ferito gravemente una guardia. Seguitemi immediatamente, senza opporre resistenza».

Brook riprese il colorito paonazzo e si rizzò sulle ginocchia.

«Esigo di parlare col capitano Ernest Tyron!».

Il giovane ufficiale lo guardò incuriosito.

«E perché, scusate?».

«Sono certo che garantirà per me. Sono un cittadino onesto, io».

L’ufficiale scoppiò a ridere.

«E perché mai il capitano Tyron dovrebbe garantire per voi, se non vi ha mai visto finora?».

«Il capitano Tyron mi conosce bene!».

«Ne dubito fortemente, signor Brook. Prova ne sia che voi chiedete di lui avendolo di fronte. Io sono il capitano Ernest Tyron».

Brook spalancò gli occhi, farfugliò qualcosa, poi li roteò e cadde riverso in mezzo ai pesci, privo di sensi.


[10] Il “forte” di una lama è la parte più vicina all’elsa, più robusta e meno elastica. Contrapponendolo alla punta dell’arma avversaria, si crea una leva favorevole, capace di equilibrare eventuali differenze di forza fra i duellanti.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18: conclusione

Blackwind amava il buio della notte. Nel buio le strade di Elosbrand gli appartenevano quasi completamente, prive di rumori, percorse solo dai gatti e dagli innamorati. E dai ladri, ovviamente. Nel buio lui sapeva muoversi come in pieno giorno, invisibile e silenzioso come il vento. La notte lo avvolgeva con un mantello nero capace di renderlo invisibile e quasi invulnerabile. Capace di dissipare la parte oscura della sua anima, sperdendola nelle sue profondità, trapuntandola delle stelle dei suoi ricordi, dolci e amari. Capace di cancellare quel desiderio di vendetta che, anni prima, lo aveva consumato come una febbre e portato quasi sull’orlo della follia.
Aveva sconfitto il suo nemico, lo aveva deriso e abbandonato, vinto e umiliato. Ma non gli aveva sottratto la vita. Mai l’idea di ucciderlo lo aveva sfiorato. Era contento di questo. Era la conferma che l’ira faceva fatica a impossessarsi della sua anima. Era la conferma della sua forza. E del fatto che il suo nemico peggiore, quello che condivideva il suo stesso involucro, era sconfitto, forse per sempre.
Presto l’alba avrebbe cancellato la notte e la città si sarebbe riempita di gente e rumori. Era stanco ma l’eccitazione della vittoria non gli avrebbe permesso di dormire. Volle godere ancora del silenzio e dell’oscurità.

«Aiuto!».

La voce di una donna. Forse in pericolo. Cercò di capire da dove provenisse e rapidamente individuò un vicolo poco lontano. Non poteva che andare a vedere cosa stesse accadendo. Un brivido gelido percorse la sua schiena. Cosa lo attendeva ancora, in quella notte?
Corse verso la voce. Raggiunse il vicolo. Nessuno. Nessun rumore. Nessuna traccia di lotta. Solo quel brivido lungo la schiena.
Non vide partire il colpo. Un gran dolore alla testa. Poi un buio freddo e vuoto. Diverso dal buio che amava.
Si risvegliò in una stanza umida. Larghe strisce di cuoio agli avambracci, sotto le ascelle, sulla vita e alle caviglie lo trattenevano in piedi appoggiato a una parete di legno. Davanti a lui, una figura femminile sedeva su una seggiola malridotta.
La riconobbe subito. Cercò di mascherare il dolore che gli aveva stretto il cuore.

«Già di ritorno? Sei veramente un tipo determinato!».

La donna si alzò in piedi, avvicinandoglisi. Era bellissima, avvolta dai capelli color dell’oro, con due occhi neri che fiammeggiavano verso di lui.

«Come vedi, sono più in gamba di quanto ti potessi aspettare. Ti ho reso la cortesia».

Il giovane ladro risentì più forte il dolore alla testa. Sorrise.

«In effetti, colpirti è stata una grave mancanza di educazione. Purtroppo non mi ero accorto che tu fossi una donna».

«Perché, se te ne fossi accorto, ti saresti lasciato uccidere?».

«Non so. Penso però che, se proprio dovessi morire, preferirei fosse per mano di una donna. Meglio se bella come te».

La giovane assassina impallidì. I grandi occhi si dilatarono, per poi restringersi fino a diventare due fessure.

«Potrei esaudire il tuo desiderio, lo sai?».

«Non ne dubito assolutamente. Semmai mi chiedo perché tu non l’abbia già fatto».

«Perché ucciderti e basta non servirebbe a nulla. Chi mi ha assoldato è in prigione e non ne uscirà molto presto. Non ho convenienza a ucciderti».

«Uccidi solo per denaro o anche per passione?».

Un pugnale saettò nell’aria, piantandosi accanto al braccio destro di Blackwind, subito sopra la striscia di cuoio che lo bloccava.

«Non osare prenderti gioco di me!».

«Voglio solo capire perché uccidere è così importante per te».

«Perché uccidere mi ha resa forte e temuta. Mi ha tolta dalla fame e dalla miseria. Mi ha dato un lavoro e ricchezza. Mi ha reso possibile vivere senza dovermi appoggiare a qualcuno».

La ragazza aveva pronunciato le sue parole ad alta voce, quasi gridando, appassionatamente. Blackwind rispose dolcemente.

«E queste cose sono tanto importanti da sacrificare delle vite, per ottenerle?».

Un altro pugnale si piantò accanto al braccio sinistro.

«Sì. Sono le cose più importanti dell’universo».

«C’è ben poco nel tuo universo».

«Ci sono io».

«Appunto».

Un coltello sfiorò il fianco destro del giovane ladro.

«Hai tanta fretta di morire?».

«No. Ma, se devi uccidermi, fallo subito. Questa conversazione mi sembra assolutamente inutile. Altrimenti liberami. Ho molte cose da fare».

«Già. Sei stato bravo a liberare la ragazza. Li hai beffati».

«Hai visto cos’è successo?».

«Non ho perso una parola. Non ti ho perso di vista tutta la sera. Devo riconoscere che è stato un bello spettacolo».

«Sono lieto che ti sia piaciuto».

«Perché non l’hai ucciso?».

«Perché detesto uccidere».

«Però non ti fai problemi a rubare».

«Io rubo solo il superfluo mal guadagnato. Non rubo quel che serve per vivere. Né, tantomeno, rubo la vita».

«E io uccido chi non è degno di vivere. E chi non sa difendere la propria vita non lo è».

Aveva alzato nuovamente la voce.

«Non ti ho chiesto di giustificare la tua vita. Mi sembra che le tue argomentazioni siano piuttosto superficiali. Francamente, non credo a una sola di queste tue parole».

«Allora, visto che sai tutto, dimmi perché uccido».

Ancora una volta, la voce di Blackwind suonò dolce e tranquilla nel silenzio della stanza.

«Perché ti odi. Perché non ami nessuno, meno che mai te stessa».

Un altro pugnale sfiorò il giovane legato alla parete. Questi sorrise dolcemente alla ragazza.

«Hai fretta di morire, signor ladro?».

«No. E tu hai paura di guardare dentro la tua anima?».

La giovane donna esitò.

«No. Perché dovrei?».

«Perché potrebbe essere ancora peggio di morire».

Questa volta, il coltello morse la carne del braccio del giovane elfo, insieme a un pezzo di cuoio. Blackwind strinse i denti ma non emise alcun lamento.

«Stai giocando col fuoco, Blackwind. A nessuno ho mai permesso tanto».

«Perché a me sì?».

«Perché…».

«Ebbene?».

La giovane donna si avvicinò al prigioniero e gli puntò il pugnale alla gola. Gli occhi scuri brillavano. Qualcosa tremava sul suo ciglio. La voce rimase ferma e decisa.

«Perché tu sei tu».

Gli afferrò i capelli, sollevandogli il viso, fissando i suoi occhi neri nei profondi occhi verdi del giovane avventuriero. E lo baciò a lungo, appassionatamente. Poi si voltò e fuggì fuori dalla stanza, lasciandolo senza fiato e col cuore in tumulto.
Blackwind non impiegò molto a liberarsi dalle cinghie che lo trattenevano. Prima liberò il braccio ferito, spezzando facilmente il cuoio già parzialmente inciso, poi, con l’aiuto del coltello, tutto fu facile.
Uscì all’aperto. La notte moriva nei primi chiarori dell’alba. Della giovane donna, nessuna traccia. Era stanchissimo e le ferite gli dolevano. Ma soprattutto, aveva bisogno di restare al buio. Rimpianse la notte, ormai finita.
Perché Blackwind amava la notte e il suo buio. Nel buio si sentiva forte e quasi invincibile. Nel buio si sentiva al sicuro.
Perché nel buio nessuno poteva vederlo piangere.

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