Restless heart syndrome di Kiki75 (/viewuser.php?uid=29112)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Jack ***
Capitolo 2: *** 2 - C.J. ***
Capitolo 3: *** 3 - Ennis ***
Capitolo 4: *** 4 - Epilogo (See the light) ***
Capitolo 1 *** 1 - Jack ***
Restless heart
Restless heart syndrome
1 - Jack
Aprile 1973
La neonata non somigliava né a Cassie, né a Thompson. A
Jack ricordava piuttosto un ranocchio. O un grosso ragno. O un
coniglietto scorticato, a voler essere gentili.
Quella era la figlia di Cassie. Quel povero coniglietto scorticato che
lottava contro la morte, con la pelle rossa e grinzosa, gli occhi
grigio bluastri aperti ma ciechi, il respiratore nel naso per aiutare i
polmoni non ancora abituati all'aria.
Sarebbe sopravvissuta? E se fosse sopravvissuta, sarebbe mai stata una
bimba normale? Un neonato di ventotto settimane, che riuscisse a
sopravvivere, poteva andare incontro a chissà quanti problemi. A
volte, talmente tanti da preferirne la morte.
Jack sentì lo stomaco ribaltarsi, la cena della sera prima,
già digerita, tornargli acida nella gola, e dovette portarsi la
mano sulla bocca per reprimere un conato. Poi, lentamente, si
passò la mano sugli occhi.
"Jack? Tutto bene?" la voce di Janice, come da lontano.
"No. Per niente."
"Dovresti farti visitare, adesso", disse lei.
"Non ne ho bisogno", replicò lui.
"Non hai per niente una bella cera", Janice gli accarezzò una spalla. "Prima non ho insistito, ma ora..."
"Non ne ho bisogno", ripeté lui.
"E io non ho bisogno che tu mi svenga. Abbiamo già troppe gatte da pelare."
"Non sverrò."
Janice sospirò. "Come vuoi."
"Che posso fare, Jan?" quella di Jack suonò come una supplica. "Che posso fare per lei?"
"Quello che puoi fare per Ennis", disse Jan "Pregare. E sperare."
"Quindi niente, in sostanza. Non posso fare un accidenti di niente."
"Jack..."
"Bell'uomo che sono", sbottò lui. Si sentiva impotente e di
nuovo sull'orlo delle lacrime, ma non avrebbe più pianto davanti
a Janice, a costo di strapparsi via gli occhi. "Non sono stato nemmeno
capace di difendere la mia famiglia. Proprio un bell'uomo, come no."
"Non è stata colpa tua. Tu non potevi fare niente."
"Le avevo promesso..." il senso di colpa gli stava strozzando la gola,
impedendogli di respirare, peggio delle mani di Thompson poche ore
prima. Si strofinò gli occhi, sentendoli bagnati e brucianti,
poi rivolse lo sguardo al vetro della nursery, all'unica incubatrice,
che sembrava enorme in confronto al suo minuscolo contenuto. Era una
vista straziante, ma non voleva che Janice lo guardasse in faccia,
né voleva abbassare lo sguardo, mostrandosi ancora più
debole di quanto si era già mostrato. "Avevo promesso a Cassie
che sarebbe andato tutto bene... e invece... lei è morta."
"E' morta, sì. Ma era serena."
"E che differenza fa?"
"La fa eccome. Prima di entrare in sala operatoria, quando mi ha detto
che avrebbe voluto che voi allevaste il suo bambino, sapeva che
probabilmente ci avrebbe rimesso la pelle, ma era tranquilla. Sapeva
che ti prenderai cura di questa bimba, proprio come ti sei preso cura
di lei. Sapeva di potersi fidare di te."
"Ma tu credi proprio che io potrò tenere questa bimba, se anche
sopravvive?" domandò Jack. Dopo il primo momento di sconcerto,
l'idea di allevare la figlia di Cassie l'aveva entusiasmato. Ma
purtroppo c'era più di un ma. "Non me la lasceranno mai. Io non
sono sposato, vivo con Ennis... e molta gente sa, o comunque sospetta,
che stiamo insieme. E credo che quando questa storia farà il
giro del paese, perché lo farà, tutti quanti lo verranno
a sapere. Verranno i servizi sociali, no? E quando vedranno
quest'orfana, bastarda, la porteranno in un orfanotrofio, non la
lasceranno nelle mani di una coppia di uomini, anche se sua madre l'ha
espressamente chiesto prima di morire, anche se non è scritto da
nessuna parte che Ennis e io siamo una coppia." Fece una pausa, poi
aggiunse, amareggiato: "Anzi, è scritto... e ormai le prove
saranno già in mano proprio alle persone più sbagliate."
"Che intendi dire? Casa vostra?"
Lui annuì. "Prima ho chiamato Don a casa sua, per dirgli che
cos'era successo e chiedergli di organizzare il lavoro finché
questa storia non si sistema. Poi l'ho richiamato al ranch, e lui mi ha
detto che la polizia sta controllando nel portico, e nel resto delle
stanze. E' naturale, è nelle loro procedure... ma se vanno in
camera da letto, e ci andranno... non che ci sia niente di strano, ma
credo che un letto matrimoniale in una casa dove vivono due uomini sia
già una cosa sufficientemente strana."
Jan rivolse lo sguardo al vetro, all'incubatrice. Poi, risoluta: "Ascoltami bene. Quella è tua figlia."
"Jan, per quanto io lo voglia, non me la lasceranno mai."
"Non hai capito", lei si voltò di nuovo verso Jack. "E' tua figlia, tua figlia biologica."
"Cosa..." ora che stava iniziando ad afferrare quello che Jan gli stava dicendo, Jack avrebbe preferito continuare a non capire.
"Ti sei scopato Cassie", asserì lei. "E l'hai messa incinta."
"Che cosa? Io non ho mai..."
"Lo so", Jan lo fissò. "Io so com'è andata, lo sai tu, lo sa Ennis, e lo sapeva anche Cassie."
"Io..."
"Se vuoi occupartene, la riconoscerai come tua figlia. Tua figlia biologica. Altrimenti te la porteranno via."
"Me la porteranno via comunque."
"Probabile. Avrai tutti addosso, servizi sociali, polizia...
indagheranno, sospetteranno che tu ed Ennis siete amanti, sospetteranno
che la piccola non sia tua figlia, probabilmente lo verranno a sapere
di per certo... ma se vuoi avere una possibilità di tenerla con
te, dovrai dire che lo è."
"Un sacco di gente sa che è Thompson il padre di quella bambina."
"Nessuno può provarlo, lui e Cassie sono morti. Tu dirai che
Cassie andava sì con Thompson, ma che contemporaneamente non
disdegnava di divertirsi anche con te."
"Cassie non era così", disse Jack, cupo. "E nemmeno io."
Jan alzò le spalle. "A volte bisogna mostrarsi peggiori di
quello che si è. Decidi tu, se il gioco vale la candela.
Preferisci che questa creatura finisca in un istituto, per mantenere
intatto il tuo onore e quello di Cassie? L'onore di quello che la gente
sa essere un finocchio... e di quella che considerava una puttana?"
"Grazie del complimento."
"E' brutto, però è così. Non hai un grande onore da mantenere intatto. E Cassie meno ancora."
Jack sospirò. Si sentiva esausto, abbattuto, come se tutto il peso del mondo gli fosse piombato sulle spalle.
Dovrò dire che è mia figlia, che sono un frocio traditore
che si è scopato una donna e l'ha messa incinta. E per cosa?
Forse non servirà a niente, forse non me la lasceranno comunque,
forse morirà.
Questo coniglietto scorticato.
Forse anche Ennis morirà.
E Cassie è già morta.
Quanto avrebbe voluto andare a casa, mettersi a letto, rannicchiarsi in
posizione fetale sotto le coperte e restare lì, in attesa che
succedesse qualcosa, qualsiasi cosa, che quel coniglietto tirasse
l'ultimo respiro o fosse dichiarato fuori pericolo, che Ennis morisse o
uscisse dal coma.
Tanto, non poteva fare molto altro.
Si voltò verso Janice per dirle quello che aveva intenzione di
fare, andare a casa, fare una doccia bollente, farsi una sigaretta e
magari un bicchiere o due e mettersi a letto in attesa della tragedia
finale, e si vide negli occhi di lei: gli occhi cerchiati di nero e
iniettati di rosso, l'aria smarrita di una persona che spera di
trovarsi in un brutto sogno malgrado sappia benissimo di essere nella
realtà, l'abbigliamento trasandato di chi si apprestava a trascorrere una tranquilla
serata casalinga e si è invece trovato ad affrontare
un'aggressione improvvisa. Niente cappello e, a completare il quadro,
il labbro superiore spaccato e tumefatto, un'ecchimosi sullo zigomo
destro, una collana di lividi al collo.
Un quadro davvero misero.
Il quadro di un poveraccio che non era stato in grado di difendere la
propria famiglia, e ora non trovava di meglio da fare che commiserarsi.
Poveraccio era un eufemismo.
La parola giusta era finocchio.
Ci tieni tanto a dimostrare che sei un uomo, no? Eccotene l'occasione.
Come aveva previsto Janice, l’assistente sociale non tardò
ad arrivare, presentandosi nel tardo pomeriggio. Quel mattino, prima di
entrare nella nursery, Jack aveva dichiarato all’ostetrica di
essere il padre della piccola, che avrebbe voluto chiamare Cassandra
Junior, C.J., e lo ripeté alla signora Emily Jameson, una megera
sui sessant’anni, o forse cinquantacinque mal portati, magra e
rugosa come un arbusto secco, con il seno tanto floscio da arrivarle
alla pancia, che più di un’assistente sociale sembrava una
strega delle fiabe.
Da sopra gli occhialetti rotondi, la Jameson squadrò Jack
dall’alto in basso, poi guardò Janice, di fianco a lui.
"Non prendiamoci in giro, signor Twist", disse. "Quella non è
sua figlia."
Jack non si fece intimidire. "E come può dirlo?"
"Abbiamo trovato una lettera, nell’appartamento del signor
Thompson", rispose la Jameson, gelida. “Scrive di essere il
padre della bambina, di volersi vendicare della signorina Cartwright
che l’ha incastrato rimanendo incinta, come di lei e del signor
del Mar che l’avete protetta… di volersi vendicare di sua
moglie che l’ha cacciato di casa e alla quale deve il denaro del
locale… e poi scappare in Messico."
"Grandioso", replicò Jack. "E lei si fida di quello che ha scritto un pazzoide del genere?"
“Francamente no. Ma se tutto questo fosse successo perché
il signor Thompson credeva di essere il padre della bambina della
signorina Cartwright, mentre il padre era in realtà un
altro… mi capisce, signor Twist?”
“La capisco benissimo. Ma…”
"Signor Twist, nella lettera Thompson si riferiva a lei e al signor del Mar definendovi…”
Si metteva male. Ma Jack non avrebbe mollato, anzi avrebbe giocato
d’anticipo. "Luridi froci”, terminò per la
donna. "O forse maledetti culattoni?”
"Invertiti”, lo corresse lei.
"Dubito che George Thompson ci abbia definiti in un modo così raffinato.”
"Non faccia lo spiritoso, signor Twist.”
Jack allora iniziò a scaldarsi. "Ah, certo, come
no”, sbuffò. Forse sarebbe stato controproducente, la sua
impulsività spesso l’aveva danneggiato, ma ormai non aveva
più nulla da perdere. Come aveva detto la Jameson, era inutile
stare lì a prendersi in giro. "Quel Thompson non aveva
alcun diritto di farci una cosa del genere, che fosse o no il padre
della bambina. E’ entrato in casa mia, ha ammazzato il mio cane,
ha ammazzato la mia migliore amica e l’ha fatta abortire, poi ha
sparato anche al mio…”
"Jack…” tentò Janice.
Jack la guardò, e lei capì e tacque. Lui si rivolse
nuovamente alla Jameson, che lo ascoltava, zitta, il volto
inespressivo: "Ha tentato di ammazzare il mio compagno, cazzo,
che si trova in coma e probabilmente non ce la farà… e
quella piccola di là, forse anche lei non arriverà a
domani… e lei mi viene a dire di non fare lo spiritoso. Sa cosa
le dico? Che non ho alcuna voglia di fare lo spiritoso, non ho bisogno
che me lo dica lei. Quello di cui ho veramente voglia è piangere
e gridare e sbronzarmi fino a perdere i sensi, porca puttana, ma non
posso fare neanche questo.”
"Ha finito?" domandò la Jameson.
"Sì, dannazione", sbottò Jack.
"Dovrebbe imparare a controllarsi e moderare il linguaggio”, l’ammonì la Jameson, calma.
Jack alzò le spalle.
"Signor Twist”, fece la Jameson. "In trent’anni
di lavoro, non mi era mai capitata una situazione come questa. Vediamo
di non complicarla ulteriormente.”
"Io voglio tenere la bambina”, insisté Jack. "Ne ho tutto il diritto. E’ mia figlia.”
"Lei è… un deviato. Le piacciono gli uomini.”
"Sono innamorato di Ennis, sì. Io non la vedo come una devianza.”
"Se è tanto innamorato del signor del Mar, perché ha messo incinta la signorina Cartwright?”
Jack sussultò come se la Jameson gli avesse tirato un
manrovescio. "E’… è stato un errore.”
"Quella non è sua figlia, neanche per sbaglio.”
"Lei non può dimostrarlo.”
"Via, signor Twist. Non lo è, quanto non si può mungere un toro.”
"Okay”, concesse Jack: era inutile continuare a insistere.
"Non lo è. Ma voglio tenerla con me. Me l’ha chiesto
Cassie, e sono perfettamente in grado di poterlo fare. Sarò
anche un maledetto finocchio, ma mi ritengo molto migliore di quel
figlio di puttana di George Thompson.”
La Jameson si rivolse a Janice: "Signora Hamilton, lei cosa ne pensa?”
"Io penso che Jack sarebbe un ottimo padre”, rispose Jan, senza esitare. "E anche Ennis.”
"Signora, sta parlando di una coppia di…”
Jan annuì. "Di omosessuali. Già. Ma stanno insieme
da dieci anni, vivono insieme, hanno un’attività
insieme… sono una coppia più collaudata e più
unita della maggioranza delle coppie che comunemente definiamo
normali.”
La Jameson alzò gli occhi: Diosanto, questa è più svitata di quell’altro.
"Sono due ragazzi perfettamente sani di mente, glielo posso
garantire”, aggiunse Janice. "Gli omosessuali non sono
tutti dei travestiti o delle drag queen come si vedono alla televisione
o ai raduni. Anche mio marito e io… bè, immagini come mi
sono potuta sentire quando mio fratello mi ha detto che aveva un
ragazzo. Ma poi mi hanno fatto cambiare idea.”
"Allora”, disse la Jameson. "L’alternativa
sembra essere mettere quella bambina in un istituto, o affidarla al
signor Twist. Non ho molta scelta. Lei che farebbe se fosse in me,
signor Twist?”
"Io… l’affiderei a me.”
"A un deviato.”
"Mi guardi”, esclamò Jack, allargando le braccia. "Cosa le sembro?"
La Jameson abbassò lo sguardo.
"No, mi guardi", ripeté Jack. Era stufo di
quell’assurda conversazione. "Perché abbassa gli
occhi? Sono così strano? Ho due braccia, due gambe, due occhi,
un naso… cos’ho di tanto diverso dagli altri?"
"Signor Twist…"
"Vada pure anche a casa mia, tanto a quest’ora ci
sarà anche la polizia. Non ho niente da nascondere, guardi pure
dappertutto, anche in cantina, anche nelle stalle, nelle scuderie, dove
le pare. Non troverà niente di strano, proprio niente di niente,
a parte un lago di sangue nel porticato e nel corridoio da basso."
"Signor…"
"No, scusi," continuò Jack. "Ho dimenticato
alcune cose che potrebbero disturbarla. Troverà un letto
matrimoniale, è quello in cui dormiamo Ennis e io, e spesso ci
facciamo anche sesso. A proposito, nel secondo cassetto del mio
comodino c’è anche un tubo di lubrificante…"
Jan lo tirò per la manica, e la Jameson fece una smorfia, ma lui
ignorò entrambe: il pensiero di tutto il sangue sparso, della
propria abitazione violata da Thompson e dalla polizia che la stava
perquisendo, del letto in cui dormiva con Ennis e nel quale, forse,
d’ora in poi avrebbe dovuto dormire da solo, lo stava riempiendo
di angoscia, e se non si fosse sfogato sarebbe impazzito. "Sa,
è necessario, altrimenti può fare un male cane,
specialmente quando si fa sesso per la quarta volta dietro fila…
non sa che noi froci siamo anche ninfomani? Non pensiamo altro che a
scopare, facciamo sesso tutti i giorni, almeno due volte." rise
amaramente. "Ah, e la stanza accanto… è la stanza
di Cassie. Tutta la roba in quell’armadio è la sua…
era la sua, così come i cosmetici nel comò. A essere
sincero, ho provato a farmi prestare una guepière, ma purtroppo
non era della mia taglia… e nessuno dei suoi rossetti si
abbinava al colore dei miei occhi."
"Molto divertente", osservò la Jameson.
"Vada pure, se vuole", ripeté Jack. "Ma non
troverà materiale pornografico, o chissà cos’altro
crede di trovare. Immagino che idea lei abbia di me, e degli
omosessuali in generale. Posso capirla. Ma non siamo orchi, non siamo
pervertiti, non siamo ninfomani e non siamo pedofili. Non siamo persone
malvagie. Siamo persone come le altre, e siamo malvagi nella stessa
misura in cui lo sono gli eterosessuali."
"Il signor Thompson stava per strangolarla", lo
apostrofò la Jameson. "Ma vedo che non è riuscito a
toglierle il fiato… anche se ha una voce che sembra venire
dritta dall’oltretomba."
"Me la lasci, la prego", mormorò Jack. Non sapeva
più cos’altro tentare. Non aveva mai supplicato nessuno,
nemmeno suo padre quando lo picchiava, quando picchiava sua madre. Ma
questa volta aveva già deciso di mettere da parte l’onore.
"La prego, io… la supplico. Non la faccia finire in un
istituto. Cassie… le ho promesso che sarebbe andato tutto bene.
E se quella piccolina finisce in orfanotrofio… io… non
potrei mai perdonarmelo."
"Non c’è bisogno di supplicare", disse lei. "In casi come questo, non serve a molto."
"Io… io potrei farla stare bene", insisté
Jack. "Le potrei garantire una vita migliore di quella che
avrebbe in un istituto. Ennis e io… abbiamo un ranch, un
maneggio… starebbe bene, potrebbe stare all’aria aperta,
con gli animali… e non le farei mancare niente, non abbiamo
problemi di denaro…"
"Non mi faccia quegli occhioni da cane abbandonato", disse
la Jameson. "Non è per nulla convincente, dati i suoi
gusti sessuali… e io sono troppo vecchia per farmi abbindolare
da uno sbarbatello."
"Mi scusi, non intendevo… ma…"
Lei guardò l’incubatrice, al di là del vetro della
nursery. "La cosa più probabile è che quella
bambina muoia entro una settimana", sentenziò. "E
anche se non morisse, probabilmente resterà ritardata. Dubito
che capirà di abitare con due uomini, dubito che
conoscerà mai il significato della parola omosessuale… e
ci sono tre orfanotrofi qui nella contea, ma sono già affollati
a sufficienza e non si possono sobbarcare un’handicappata."
"Mi sta dicendo…"
"Quella è sua figlia, signor Twist."
Jack non era preparato. Sentì il cuore esplodere di gioia, e
d’impulso strinse la Jameson in un abbraccio: "Grazie… grazie!"
"Signor Twist!" lei cercò di divincolarsi, inutilmente.
Lui la lasciò, rendendosi conto di avere abbondantemente
superato il limite: "Mi scusi… grazie…
io…"
Lei si scrollò la giacca come se fosse appena uscita da un
fossato pieno di insetti. "Non creda che sarà facile. Se
anche quella bambina non muore, potrà restare ritardata,
fisicamente o mentalmente o tutte e due."
"Lo so. Ma la curerò, farò tutto il possibile per…"
"Appena uscita da qui, andrò a casa sua e
controllerò tutto quanto. Se vedo qualcosa che non va, a parte
quello che mi ha anticipato, tornerò qui e farò
stracciare quello stato di famiglia."
"Va bene. Non ce ne sarà bisogno."
"Ogni due settimane verrò a casa sua e controllerò che le cose vadano come devono andare."
"Sissignora. Certamente."
"E se vedo o sento qualcosa che non mi piace, non esiterò
a toglierle la bambina, e la patria potestà. Se lo ricordi
bene."
"Certo."
"La minima cosa. Intesi? Non le lascerò scappare niente."
"Sì, intesi. Grazie. Grazie mille."
"Signora Hamilton… mi può garantire che lo sorveglierà?"
"Ma certamente", confermò Jan, sorridendo. "Dovrò farlo per forza. Jack non ha idea di come si tratta
un neonato, dovrò insegnargli tutto quanto. Non sa nemmeno come
si cambia un pannolino. Dovrà rassegnarsi ad avermi sempre in
giro per casa, insieme a mia figlia grande."
Ottobre 1976
La signora Jameson si era sbagliata riguardo a C.J.: non solo era
sopravvissuta, ma aveva sempre goduto di ottima salute, sia mentale sia
fisica, malgrado un leggero sottopeso durante i primi anni di vita. Era
anche naturalmente curiosa, e presto aveva iniziato a fare domande a
proposito della sua famiglia piuttosto atipica. Dapprima innocenti e
generiche, compatibilmente con l'età e con l'esperienza, poi
sempre più dettagliate e approfondite.
Testarda com'era, non ci si poteva salvare: aveva sempre preteso una risposta.
E una risposta aveva sempre avuto.
Talvolta le spiegazioni l'avevano accontentata, più spesso
l'avevano lasciata perplessa o spiazzata, se non addirittura addolorata
o fatta arrabbiare. Ma Jack ed Ennis erano sempre stati d'accordo nel
non nasconderle nulla, vista la situazione a dir poco particolare in
cui si trovavano. Avevano sempre cercato di risponderle con parole il
più possibile adatte alla sua giovane età, chiedendo
l'aiuto femminile di Janice e Hope per le questioni più
delicate, a volte anche quello di Emily Jameson, ma la regola era
essere sinceri. In quel modo, credevano potesse essere pronta a tutto,
dai pettegolezzi dietro le spalle a quelli più aperti, dalle
calunnie infondate e insensate a quelle con una base di verità.
Perché la vita fuori da quel rifugio sicuro che era il ranch,
per C.J., poteva rivelarsi molto, molto difficile: proprio come quella
che Ennis e Jack avevano sperimentato dopo che il fermento per la
follia di Thompson si era spento, la sua ex moglie andata ad abitare a
Riverton con i tre figli (non prima di essere andata a trovare Jack,
bisognava dargliene atto: ma l’incontro si era risolto in una
patetica inondazione di lacrime da parte di entrambi, che a Jack non
piaceva affatto ricordare, al pari del giorno dei funerali di Cassie),
ed era rimasto solo il brusio di sottofondo che indicava il fratello di
Janice Hamilton e suo cugino come amanti senza più
alcun’ombra di dubbio, facendo spegnere la simpatia nei riguardi
delle vittime dell'aggressione.
Jack aveva potuto notare come una minoranza avesse sentenziato che lui,
Ennis e Cassie se la fossero cercata, non giustificando Thompson ma
nemmeno condannandolo. Altri, più numerosi, avevano iniziato a
guardarlo, a guardare lui ed Ennis, in modo strano: e non era solo una
paranoia insensata come quelle di Ennis, questa volta Jack ne era
proprio sicuro. C'era chi si scansava al supermercato, o in fila per il
cinema; una cameriera al ristorante, dopo avere domandato loro se erano
i due del ranch sulla strada per Edgerton, si era eclissata e aveva
spedito al loro tavolo una collega - al che, si erano scambiati uno
sguardo ed erano usciti senza una parola dal ristorante, con Ennis nero
di rabbia e Jack colmo di delusione e insieme rassegnazione: sapeva che
situazioni del genere sarebbero capitate, ma quando capitavano non si
era mai pronti.
Avevano inoltre perso due clienti buoni, uno meno buono, e il fornitore
del materiale per il maneggio - telefonate su telefonate e fax su fax
non avevano risolto nulla, al che Jack, certo del motivo delle
defezioni, aveva deciso di lasciare perdere.
Inoltre, Anthony Mustang, uno degli operai, assunto l'anno precedente, aveva dato le dimissioni.
Jack si consolava pensando che avrebbe potuto andare molto, molto
peggio. Era seccante, certo, ma si trattava di casi isolati, non della
quotidianità: eccezioni, non regole. La maggior parte degli
abitanti di Casper aveva continuato a comportarsi come se nulla fosse
successo, al massimo sollevando un sopracciglio o storcendo la bocca,
niente di più. Seccante anche questo, ma niente a che vedere con
le aggressioni, verbali e fisiche, che Ennis aveva sempre temuto, e che
in un passato non troppo lontano erano quasi all'ordine del giorno
verso le coppie omosessuali.
Alla fine, anche nella sfiga, può sempre andare peggio, aveva
spesso considerato Jack. Ennis è sopravvissuto e sta bene, C.J.
è sopravvissuta e non è ritardata e sta bene. Al diavolo
tutto il resto.
In ogni caso, molte persone gli erano rimaste amiche e gli avevano
dimostrato solidarietà: il fatto che stesse o no con Ennis non
aveva cambiato nulla per loro, anzi Jack aveva scoperto che c'era chi
lo sapeva già da prima, e gli era stata amica comunque. Tutti i
loro operai, per esempio, eccetto Tony: quando Jack era tornato a casa
stremato, dopo cinquantotto ore di ospedale accanto a Ennis e C.J. e
più che altro in sala di aspetto, cinquantotto ore che avevano
incluso l’arrivo di K.E. e di Emily Jameson, aveva trovato tutti
quanti ad attenderlo alla fine del vialetto ghiaiato, nel giardino
davanti al portico di fronte. Don gli aveva riferito che, dopo avere
chiesto l'autorizzazione a Janice, avevano riordinato e pulito la casa,
e tirato a lucido il portico sul retro, lavato dal sangue di Cassie, di
Ennis, di Thompson.
"Spero che la cosa non ti dispiaccia", aveva aggiunto Don. "Abbiamo
pensato che non sarebbe stato piacevole per te ritornare a casa, da
solo, e trovare tutto in disordine."
Quello dei suoi operai era stato solo un atto di gentilezza,
benché
sapere che anche loro gli fossero entrati in casa e avessero messo le
mani sui suoi effetti personali gli avesse rimescolato lo stomaco.
"Avete pensato bene", aveva risposto Jack, cercando di sorridere. "Ho
una voglia matta di una doccia e di una dormita... ma allo stesso
tempo, avevo una fifa boia di entrare in casa, di quello che ci avrei
trovato."
"Qualsiasi cosa ti serva", aveva continuato Don. "Davvero, Jack, noi siamo tutti qui."
Jack si era sentito più stanco che mai e sul punto di piangere,
non per la prima né per l'ultima volta in quei giorni. "Don,
io... grazie. Davvero."
"E di che?"
"Io..." ora o mai più. "Devo dirvi una cosa. A tutti. Forse lo sapete già, ma..."
"Tu ed Ennis", aveva detto Megan Norton, l'istruttrice di equitazione.
Jack aveva sospirato. "Lo sapete. Se non vi va bene, se per voi è un problema, io... io non posso trattenervi."
"Certo che lo sappiamo", aveva ribattuto Meg. "Ma non da oggi."
"Cosa?"
"Via... credi sul serio che, dopo tanti anni che ci conosciamo, ormai non ce ne siamo resi conto?"
Jack era sbalordito. Che idiota… davvero aveva pensato che i
suoi uomini non se ne fossero accorti? "E... per voi non è un
problema?"
Don gli aveva battuto una spalla. "Sei un ottimo capo, Jack. E anche
Ennis. Lavorare per voi è un piacere, non un problema."
"Grazie, Don, veramente. Mi dispiace di non avervi detto niente per così tanto… ma…"
"Lascia perdere", aveva detto Meg. "E’ normale che non ce lo voleste dire."
Era stato allora che Jack aveva notato l'assenza di Tony, e ne aveva domandato il motivo.
"Per lui evidentemente era un problema", aveva sbuffato Ellen Butler, la giovane impiegata part-time. "Che stronzo."
Uno su nove. Jack non si era aspettato una sola defezione su nove
lavoranti: se ne era aspettate nove. Non si era aspettato tutta quella
solidarietà, specialmente da persone che conosceva da anni e a
cui aveva sempre cercato di nascondere, invano, il suo rapporto con
Ennis. "Grazie, ragazzi", era riuscito a mormorare. "Grazie a tutti."
"Andrà tutto bene", l’aveva rassicurato Meg,
mettendogli la mano su una spalla. "Ora vai a fare una doccia.
Poi, se hai fame, mi sono permessa di lasciarti qualcosa di pronto nel
frigorifero. So che vai matto per il mio pollo ripieno."
"Meg…"
"Ma guai a te se ti sbronzi", l’aveva ammonito lei.
Accidenti, se lo conosceva: lo conosceva più di quanto lui
avesse mai potuto credere. "Ti concedo un bicchierino per dormire
tranquillo, anche due. Ma non ubriacarti. Ci servi intero, Jack. A noi
e a Ennis, e a quella creatura."
E Jack non era riuscito a toccare il pollo, ma aveva bevuto solo due
dita di whisky e poi si era messo a letto. Meg aveva ragione, doveva
farsi forza per tutti quanti. Se le cose fossero precipitate, avrebbe
avuto fin troppo tempo per disperarsi e ubriacarsi.
A Casper, la storia di Jack come vero padre di C.J. era venuta fuori
solo alla stregua di un pettegolezzo, non del tutto certo ma neanche
del tutto da escludere. Certo, Jack Twist aveva dato il suo cognome
alla piccola, ma bisognava pur darle un cognome, e siccome Jack l'aveva
voluta tenere con sé...
Chissà poi come avevano fatto a lasciargliela, a lasciarla a un
omosessuale: forse, l'unica spiegazione era che fosse davvero sua
figlia. Ma se era omosessuale, come aveva fatto a portarsi a letto
Cassie Cartwright? Forse che fosse addirittura bisessuale? Ma Cassie
non era rimasta incinta di George Thompson, che per questo l'aveva
ammazzata?
La gente di Casper aveva spettegolato per un po’ sulla questione,
poi, dopo qualche tempo, se n’era stancata, passando a calunnie
di altro genere su altre persone, come poi sempre accade nelle piccole
comunità. Speculare sulla paternità di C.J. Twist era
come arrovellarsi sul sesso degli angeli, e c’erano molti
avvenimenti più eccitanti ai quali interessarsi.
E Jack ed Ennis, siccome la questione non era di primaria importanza,
avevano deciso di non rivelarle la verità. Jack avrebbe voluto
dirglielo, ogni volta che C.J. lo chiamava papà gli si
scioglieva il cuore, mentre ogni volta che sentiva la piccola chiamare
il suo compagno semplicemente En, era come ricevere una pugnalata. Ma
Ennis era irremovibile. Era convinto che C.J. ne sapesse già
troppa per essere una bambina: le era più che sufficiente sapere
di essere figlia di Jack e Cassie, sapere che Jack ed Ennis formavano
una coppia, e che Thompson aveva ucciso sua madre. Per il momento, non
doveva sapere niente altro riguardo a Thompson. Glielo avrebbero detto
quando avrebbe potuto capirlo.
Aprile 1978
"Allora, questa era la mia ultima visita ufficiale",
annunciò Emily Jameson, accomodandosi sul divano del salotto e
appoggiando la borsa accanto a sé. "Finalmente si sono
decisi a mettermi in pensione."
"Cosa?" esclamò Jack, sorpreso, facendosi quasi sfuggire il vassoio con le tazze e la caffettiera.
"Ho finito di lavorare", ribadì lei. "Era ora, no? Direi che me la sono guadagnata."
Emily Jameson aveva sessant’anni, era naturale che presto sarebbe
andata in pensione, ma non gliene aveva mai parlato. Cos’era
questa novità, così all’improvviso?
Nel corso del tempo, le sue visite erano passate da una ogni quindici
giorni nel primo anno, a una al mese nei tre successivi, a una ogni due
mesi nell’ultimo: quelle ufficiali almeno, perché la
Jameson si era talmente affezionata a C.J., e C.J. alla Jameson, che la
donna, zitella e con nessun altro passatempo che l’uncinetto, il
giardinaggio e la lettura, passava al ranch per una visita non
ufficiale almeno due volte alla settimana.
Adesso ci sarebbe stata una nuova assistente sociale da ingraziarsi
–la Jameson era diventata una sorta di nonna per C.J., ma
all’inizio era stata dura da cuocere. Ogni visita era stata un
incubo, peggio di un’ispezione della polizia, e nei due giorni
che la precedevano, Jack aveva corso per tutta la casa come un tarantolato
per lavare, pulire, spolverare e lucidare e mettere in ordine: invano,
poiché la Jameson trovava sempre immancabilmente qualcosa da
ridire, benché mai avesse trovato qualcosa per cui portarsi via
C.J..
Alla fine, Jack aveva imparato a volerle bene e a stimarla, e lei
sembrava averlo preso in simpatia, mentre Ennis, ricambiato, la
detestava cordialmente.
"Sicuro", Jack appoggiò il vassoio sul tavolino. "Ma, ehm… sa mica chi la sostituirà?"
"Sostituirmi?" lei prese una tazza, ci versò il caffè e un rivolo di latte.
"Sì… chi verrà per i soliti
controlli", Jack era sulle spine. "Se è una persona,
come dire… "
"E perché mai qualcuno dovrebbe sostituirmi?" lei
sorbì un sorso di caffè, posò la tazza e ci
aggiunse un cucchiaino di zucchero. "Sono cinque anni che vengo
qui, e non ho mai trovato niente da ridire… a parte qualche
inezia, naturalmente. Ormai è certo che la bambina cresce bene,
e che qui con voi non ha nessun problema."
"Buono a sapersi", commentò Ennis, entrando nel salotto con una bottiglia di birra in mano.
"Ennis, non dovrebbe bere a quest’ora del pomeriggio", lo redarguì lei.
Lui rispose con un grugnito, si sedette sulla poltrona di fronte e bevve un sorso.
"Quindi", riprese Jack, "Nessuno verrà più a controllare come sta C.J.?"
"Verrò io", disse la Jameson. "Non credere che
ti libererai tanto facilmente di me, anche se sono in pensione. Mi sono
talmente affezionata a quella bambina…"
"E C.J. si è affezionata a lei."
"Già", sospirò la Jameson. "Un’assistente sociale non dovrebbe farsi coinvolgere in
questo modo dai casi che segue. Sono diventata davvero troppo vecchia
per fare questo lavoro."
"Ma no, che dice?" ribatté Jack. "E’ in
perfetta forma. Non si ricorda quando ci siamo conosciuti?"
Lei sorrise: "Accipicchia se me lo ricordo. Mi hai tenuto un
comizio sugli omosessuali da fare impallidire Harvey Milk."
"Lei era prevenuta", protestò Jack, imbarazzato.
"Sì, lo ero. Ma mi hai fatto ricredere… anche se non grazie a quel comizio."
"Allora, come mai ha deciso di lasciarmi C.J.?"
"Non lo so", ammise lei. "Forse mi hai fatto pena."
"Uh… grazie."
"Non prenderla come un’offesa", disse la Jameson. "Le hai provate tutte, si vedeva che avevi davvero voglia di
tenere quella bambina. Hai provato a dire che era tua figlia.... mi hai
persino supplicata."
Ennis guardò Jack, che abbassò la testa, rosso in viso.
"Non c’è nulla di cui vergognarsi", disse la
Jameson. "E comunque, se avessi pensato che non ne eri in grado,
per una ragione o per l’altra, non te l’avrei lasciata.
Come se fossi stato… diciamo, un altro genere di
omosessuale."
"Come Harvey Milk."
"Esatto."
"Dio non voglia", bofonchiò Ennis, e lei rise. Poi
seguitò: "In ogni caso, ogni due settimane ero qui, potevo
controllare quel che avresti fatto."
"Lo so", confermò Jack. "E’ stato un
vero incubo. Ma mi è stata utile... mi ha anche consigliato,
quando non sapevo dove sbattere la testa. Non è facile allevare
un bambino."
"Sei stato bravo, invece. E C.J. diventata una brava bambina.
E’ merito tuo…" poi guardò Ennis, e si
corresse: "Merito vostro."
"Accidenti, è davvero invecchiata", bofonchiò
Ennis. "Il primo complimento che mi concede in cinque anni."
"Mi secca doverlo ammettere", sbuffò lei. "Ma è un buon padre anche lei, Ennis del Mar."
Jack ridacchiò.
Novembre 1979
Come Jack ed Ennis avevano previsto, C.J. aveva dovuto imparare presto
a difendersi: per la precisione, fin dalla prima elementare, a sei
anni. All'asilo, lei e i suoi compagni erano troppo piccoli per
attaccarsi a causa della famiglia di origine, al massimo i diverbi
avevano avuto come oggetto un giocattolo ambito da più bambini,
o al massimo l'aspetto fisico o un difetto di pronuncia - da quel punto
di vista, C.J. era fortunata: era sempre stata una ragazzina forte e
sana, di aspetto gradevole, e non aveva altro difetto di pronuncia che
il lieve accento del Wyoming sudorientale, comune al novantanove per
cento delle persone con le quali aveva a che fare.
Alle elementari invece, si era presto dovuta rendere conto che avere un
padre omosessuale che vive con il compagno può portare non pochi
problemi, anche se si è bionde e carine e non si hanno difetti
di pronuncia. Alcuni dei suoi compagni erano dei veri mostri di
ignoranza (Jack sospettava che non fosse tanto colpa loro, quanto dei
genitori che li avevano educati in quel modo), ma C.J. non si era mai
fatta intimidire da nessuno: né da Michael Blunt, che all'inizio
dell'anno le aveva detto che i suoi genitori non volevano che le
parlasse, perché viveva con quei due cowboy finocchi, né
da quella viziatella di Amanda Owen, che una volta la liquidò
dicendole che lei non avrebbe mai giocato con una bastarda che non si
sapeva bene di chi fosse figlia, abitava con due culattoni e puzzava di
stalla.
C.J. aveva risposto a Michael che quelli che lui aveva definito cowboy
finocchi almeno si amavano, mentre suo padre aveva picchiato sua madre
a tal punto che, dopo l'ultimo ricovero in ospedale, lei si era stufata
e aveva chiesto il divorzio: questo, Jack lo era venuto a sapere da una
delle bidelle, che aveva assistito al diverbio, e glielo aveva
raccontato quando era andato a prendere la figlia, alla sera,
aggiungendo: "Quella ragazzina si sa difendere, eh?"
"Bè..."
"Meglio così", aveva sentenziato la bidella. "E' giusto che non
si faccia mettere i piedi in testa... specialmente da ragazzini
spocchiosi come il figlio dei Blunt."
A casa, C.J. non aveva fatto parola dell'accaduto, e Jack aveva deciso
di non entrare nei suoi affari e tenere per sé quello che
sapeva.
La faccenda di Amanda invece fu più grave: C.J. non stette
nemmeno a sprecare fiato e le tirò un pugno in faccia,
stendendola a terra.
La maestra mise sia C.J. sia Amanda in punizione, e la direttrice ne
convocò i genitori, mentre C.J. strepitava che Amanda aveva
insultato la sua famiglia e aveva solo avuto quel che si meritava,
mentre Amanda si difendeva dicendo che erano stati i suoi genitori a
dire per primi quelle cose su C.J. e la sua famiglia.
Venne poi fuori che era stata la madre di Amanda a definire C.J. nel
modo in cui l'aveva chiamata la compagna - impossibile che una bambina
di sei anni e mezzo potesse dire una cosa del genere di propria
iniziativa - e la cosa si chiuse lì, senza altre punizioni verso
le due bambine, quella che aveva ferito con la lingua altrettanto
innocente di quella che aveva colpito con un pugno.
Gli Owen, però, anche se imbarazzati, non si scusarono né
con C.J., tantomeno con Ennis e Jack. Segno che erano convinti di
quello che si erano lasciati sfuggire in presenza della figlia, e che
in futuro si sarebbero lasciati sfuggire qualcosa di ancora peggiore.
Di ritorno a casa, sul furgoncino, Ennis, nero di rabbia, si
lasciò sfuggire: "Bell'educazione che quei due figli di puttana
danno alla figlia."
"Ennis", sospirò Jack. Poi tacque, anziché replicare, o
semplicemente redarguire Ennis per avere usato un'espressione indecente
davanti a C.J..
"Non si sono nemmeno scusati con noi", rincarò Ennis.
Jack sospirò di nuovo, guardando la strada.
"Allora, non dici niente?" domandò Ennis, innervosito dal silenzio di Jack.
C.J., in mezzo a loro, tentò di calmare le acque: "Avete visto,
però?" intervenne. "Ho dato una bella lezione a quella stronza."
"Modera il linguaggio, signorina", la rimproverò Ennis. "E non
mi pare che ti abbiamo mai insegnato a picchiare la gente."
"Ma lei ha detto che io sono una bastarda che..."
Jack accostò al lato della strada, inchiodando, facendo stridere
i freni e le ruote, sollevando una nuvola di polvere. Si voltò
verso di lei e la prese per le spalle, dolce ma fermo: "Ascoltami bene.
Tu non sei una bastarda, okay? Tu sei mia figlia."
"S-sì", rispose C.J., sorpresa.
"E non si picchia la gente. Ma se qualcuno osa di nuovo dirti una cosa
del genere, sei autorizzata a spaccargli tutti i denti. Intesi?"
"Intesi."
A casa non parlarono più dell'accaduto, ma alla notte, dopo che
C.J. fu andata a letto, Jack chiuse la porta del salotto, prese il
pacchetto di Camel e l’accendino dal cassetto del mobile,
aprì la finestra e si accese una sigaretta.
"Sapevamo che sarebbe successo, prima o poi", disse, sbuffando fumo verso l'esterno.
"Questo non significa che sia giusto che succeda", replicò Ennis, seduto sul divano.
"Da quando ti preoccupi di quel che è giusto o no? Non sei tu
quello che dice che se non puoi cambiare le cose, devi fartene una
ragione?"
"Da quando c'è lei", Ennis si alzò e raggiunse Jack alla
finestra. Prese una sigaretta dal pacchetto di Jack, se l'accese, prese
un tiro, espirò una nuvola di fumo. "Non è giusto che una
bambina di sei anni debba essere insultata in quel modo."
"Ma succederà di nuovo, e lo sai. Per questo le abbiamo sempre
detto tutto... o quasi. Perché si sappia difendere se la
attaccano. Anzi, forse sarebbe meglio che le dicessimo anche che
Thompson è..."
"No."
"Ennis..."
"No", ripeté Ennis. "Ogni cosa al suo momento, e adesso non è il momento. Anche la Jameson dice…"
"Ma non è giusto", sbottò Jack. "Non è
giusto per lei, e non è giusto per te. Tu hai diritto quanto me
di essere chiamato papà, sei suo padre quanto me."
"Fregatene di me. A me basta che C.J. sia qui con noi."
"Io vorrei che fosse felice... e tranquilla."
"Lo è."
"Ma se continuano ad attaccarla..."
"E' tosta. Si sa difendere. Non hai visto oggi? Ha steso quella stronzetta della figlia degli Owen."
"Ennis!"
"Non dire che non ne sei orgoglioso. Sei stato tu a dirle che se
qualcuno la insulta in quel modo, gli può spaccare tutti i
denti."
Colpito. Jack tacque, imbarazzato. Raggiunse il tavolo, spense la
sigaretta nel posacenere di alabastro bianco, poi lo portò sul
davanzale. Ennis spense la propria, poi se ne accese un’altra,
brontolando: "Ma quand'è che ti deciderai a fumare della roba
seria?"
Jack l'ignorò: c'era altro a cui pensare, invece delle marche di
sigarette. E in ogni caso, Ennis denigrava tanto le Camel, ma quando
non aveva le sue Marlboro a portata di mano riusciva a fumare di tutto,
anche delle Philip Morris Light.
"Mi dispiace", riprese Jack. "Io vorrei solo che fosse felice… che non dovesse subire delle offese a causa nostra."
"Succederà ancora, purtroppo, lo sai. Ma quella ragazzina è una dura. E noi ci saremo sempre, per lei."
"Ennis... sei sicuro che non glielo vuoi dire?"
"Che cosa?"
"Che suo padre non sono io", Jack sospirò. "Che suo padre è lo stesso tizio che ha ammazzato sua
madre."
"E' presto", Ennis prese un tiro dalla sigaretta. "Non capirebbe."
"Ma se qualcuno glielo dice, come le hanno detto che è una bastarda... se qualcuno anche solo insinuasse..."
"Tu sei suo padre, punto. Nessuno può affermare il contrario."
"Anche tu lo sei, allora. Esattamente come me."
"No. Fossi stato io al tuo posto, non so se l'avrei tenuta. No, niente
non lo so, non l’avrei tenuta e basta, me la sarei fatta sotto.
E' giusto che chiami papà solo te."
Jack guardò Ennis, dritto negli occhi. "No. Non è
giusto, non lo è per niente. Non puoi dire che non
l’avresti tenuta, non puoi sapere cos’avresti fatto al
posto mio."
"Sì che lo so. Non mi conosci?"
"Sì che ti conosco. Ma in certe situazioni bisogna
trovarcisi, non si può dire a priori cosa si farebbe.
Anch’io avevo una paura matta, non sapevo di fare la cosa
giusta…"
"L’hai fatta", Ennis schiacciò la sigaretta
nel posacenere. "Non vedi? Lei è… la nostra
luce."
"Sì", confermò Jack. "E’ la
nostra luce, la nostra gioia… ma lei è davvero felice?
Quando ho deciso di tenerla con noi, ho pensato a quel che avrebbe
dovuto sopportare... ma poi ho anche pensato... l'alternativa era
lasciare che finisse in un istituto, e mi sono detto, Io posso farla
stare meglio. A volte però... non sono sicuro di avere preso la
decisione giusta. Forse sono stato solo egoista, Cassie mi aveva
chiesto di occuparmi di C.J. e io desideravo farlo… ma C.J. non
poteva dirmi cosa preferiva, e tu non c'eri, ho dovuto per forza fare
da solo, non potevo chiederti..."
Ennis gli passò entrambe le mani intorno alle spalle e lo
strinse a sé. "Tranquillo, piccolo. Hai preso la decisione
migliore."
Jack si lasciò abbracciare, appoggiò la fronte sulla
spalla di Ennis, gli passò le mani intorno alla vita. Ogni volta
che si trovava fra le braccia di Ennis, si sentiva protetto, al sicuro:
proprio quello che gli era mancato quell’aprile di sei anni prima
quando, solo e frastornato e distrutto, aveva dovuto prendere una
decisione che non solo avrebbe cambiato la propria vita, ma che avrebbe
influito anche sulla vita di Ennis, il quale non poteva dire la sua, e
su quella di una piccola bambina innocente e inconsapevole che nemmeno
aveva chiesto di nascere.
"Sai una cosa?" disse a un tratto Ennis. "Quando sono
uscito dall’ospedale, e sapevo che tutti sapevano di noi…
avrei voluto seppellirmi. Mi vergognavo come un infame… me la
sono fatta sotto, davvero."
"Me n’ero accorto."
"Avevo paura ad uscire di casa… e avrei voluto chiederti
di piantare tutto qui e scappare via. In Africa, in Cina, in
Australia… il più lontano possibile."
"Però non me l’hai mai chiesto."
Ennis ridacchiò, imbarazzato. "E’ stato per lei.
C’era questa piccola ranocchietta che aveva bisogno di
noi… e tu, pur di tenerla, avevi dichiarato che era tua figlia,
con tutto quello che comportava… e io, con che diritto potevo
tornare fuori con le mie solite, vecchie paranoie?"
Anche Jack ridacchiò: "Vedi che non sei così codardo come pensi, cowboy?"
"No", disse Ennis. "Quella ragazzina ha fatto un miracolo."
Aprile 1980
Quel pomeriggio, Jack era nello studio, alle prese con il libro dei
conti. Quel mese, le cose erano andate piuttosto bene: c'era chi non
voleva trattare con due uomini che vivevano insieme, è vero, ma
c'era anche chi se ne fregava, a patto che i due uomini in questione
sapessero fare il proprio lavoro e fornissero carne, latte e derivati
di prima qualità.
"Papà?"
"Sì?" Jack alzò la testa, tolse gli occhiali che,
già da due anni, usava per leggere. In fin dei conti non andava
male: a trentaquattro anni, il suo viso aveva solo pochi segni
d’espressione, i suoi capelli erano tutti ancora neri e ben
piantati in testa, e i vecchi jeans di dieci anni prima gli stavano
alla perfezione. Se il prezzo da pagare era un lieve astigmatismo,
nessun problema.
"Posso chiederti una cosa?" C.J. entrò nello studio, quasi
tentennante, le mani dietro la schiena. Era diventata una bella
ragazzina, aveva ereditato la corporatura tornita di Cassie, i suoi
occhi scuri e i suoi lineamenti morbidi, mentre grazie al cielo dal
padre aveva preso solo i capelli biondi e crespi, tagliati in un
caschetto all’altezza del collo. Nel complesso, somigliava molto
più ad Ennis che a Jack, e Jack sapeva che le malelingue, in
città, avevano pane per i loro denti anche da quel punto di
vista: non solo non era chiaro se la bimba fosse figlia di George
Thompson o di Jack Twist ma, considerata la somiglianza, poteva
benissimo essere anche di Ennis del Mar.
Assolutamente ridicolo.
E pure piuttosto buffo: Ennis, altrimenti detto Mister Lungo e Duro, il
signor Io-non-sono-un-maledetto-finocchio, non aveva praticamente mai
toccato una donna in vita sua, il suo primo e unico partner era stato
un altro uomo, eppure poteva essere indicato come il padre di una
bambina semplicemente a causa di una presunta somiglianza.
"Non sapevo che Ennis fosse un tale drago", aveva
commentato Jack quando Megan gli aveva riferito del pettegolezzo. "Mette incinte le donne senza neanche guardarle. Devo stare
attento, o prima o poi rimarrò incinto anch’io."
Meg, che come gli Hamilton e tutti gli altri operai ben sapeva di chi fosse realmente figlia C.J., aveva riso fino alle lacrime.
"Certamente", disse Jack. "Dai, vieni qui."
C.J. raggiunse Jack, si sedette sulle sue ginocchia. "Come nascono i bambini?"
Jack inarcò le sopracciglia. "E che domanda sarebbe?"
"Così. Oggi Angela Lewis ha detto che sua madre e sua padre le
regalerà un fratellino o una sorellina... sua madre le ha detto
che il suo fratellino è nella pancia, e che fra circa sei mesi
verrà fuori. Più o meno come gli animali, no?"
Ops.
C.J. aveva visto nascere tanti animali al ranch, cavalli, vitelli,
anche gattini e pulcini, ma era sempre solo rimasta intenerita dalle
bestioline e non aveva mai domandato niente. Ormai però stava
per compiere sette anni, era naturale che si ponesse certe domande.
Jack si maledisse per non avere previsto una domanda del genere, e non
avere mai pensato ad una risposta.
"Sì, più o meno è come per gli animali",
confermò. "Hai visto delle donne incinte, con il pancione,
no? Il pancione conteneva un bambino tutto raggomitolato."
"Sì, lo so. Me l'ha detto Angie. Ma come ha fatto il bambino ad
andare nella pancia della mamma? Non è troppo grande? Da dove
è passato?"
"Bè... non è che ci vada proprio un bambino. Ci va...
ecco, hai presente le uova delle galline? Il bambino, prima di
diventare un bambino, è un uovo piccolissimo."
"Un... uovo?" C.J. era poco convinta.
"Sì, un uovo... piccolissimo, microscopico... che piano piano, in nove mesi, si trasforma in un piccolo bambino."
Uff, andata.
"Ma come fa quest’uovo ad andare dentro alla mamma?"
Jack quasi sussultò sulla sedia. Come si fa a spiegare a un bambino come nascono i bambini?
O meglio, come fa un papà omosessuale a spiegare a sua figlia,
che poi sua figlia non è ma lei non lo sa, come nascono i
bambini? Gesù, che casino. C.J. aveva accettato di buon grado il
fatto che lui ed Ennis stessero insieme, per lei era una cosa naturale
avendoli sempre visti così, fin da quando era nata, ma vai a
spiegarle…
Che casino. Ne sarebbe bastato la metà.
"Allora?" insisté C.J., seria. "Le galline le fanno,
le uova, e poi le covano e nascono i pulcini. I cavalli, i gatti, le
mucche, no. Perché?"
"Le galline sono uccelli, fanno le uova e le covano. Gli esseri umani,
i cavalli, i gatti, le mucche, sono mammiferi, e non fanno le uova."
"E allora cosa fanno?"
"Ehm... le femmine dei mammiferi... e anche le donne... le uova le hanno dentro, e..."
"Anch'io?"
"Bè, ancora no. Tu sei una bambina. Quando diventerai una donna, però, sì."
"E quando diventerò una donna?"
"Più o meno... quando avrai dodici, quattordici anni... forse
anche di più." Cristo, cosa le avrebbe detto per prepararla al
ciclo mestruale? A questo avrebbe decisamente dovuto pensare in anticipo.
Anzi, l’avrebbe mandata da Janice, e che se la sbrigasse lei. Ci
voleva una donna, per le cose da donne.
"E allora avrò un bimbo anch'io nella pancia?"
"Ma no... l'avrai quando sarai più grande."
"Ah. Quando?"
"Fra tanto, tanto tempo, e solo se lo vorrai. Quando avrai più
di vent'anni, credo... Tua madre aveva trentadue anni. Mia madre, tua
nonna, ne aveva ventitre, e la mamma di Ennis..."
"Ah." C.J. rifletté un momento. Poi: "Ma come fa l'uovo a trasformarsi in un bambino?"
Gesù. "Bè... ehm… ci vuole un seme, che gli entri dentro e..."
"Un seme? E di che?"
Jack stava sudando freddo. "Un seme... come quelli dei soffioni. Più o meno."
"Sì, ma da dove viene questo seme?"
"C.J., non è che vuoi andare a giocare?"
"Papà." Quando assumeva quell’espressione contrita, C.J. somigliava sorprendentemente ad Ennis.
"Allora... viene... di solito viene da un uomo."
C.J. rifletté di nuovo, pensierosa. "Ma come fa il seme dell'uomo ad andare dall'uovo della donna? Lo mangia?"
"Ma no!" Nonostante la situazione a dir poco imbarazzante, Jack per
poco non scoppiò a ridere. Se le donne avessero potuto rimanere
incinte anche in quel modo, la terra sarebbe stata decisamente
sovraffollata.
"E allora come?"
"Bisogna che l'uomo e la donna vadano..." Jack esitò, "Ehm, a letto insieme."
"Così poco?"
"Non è poco."
"Come no. Se basta che dormano insieme…"
Jack colse l’occasione per chiudere il discorso, o almeno provarci: "Effettivamente…"
"Tu quindi hai dormito con la mamma", concluse C.J..
"Bè…"
"E dormi anche con Ennis."
Jack deglutì. C.J. stava finendo in un discorso che non gli
piaceva per niente. Se gli avesse chiesto perché aveva dormito
con Cassie mentre, contemporaneamente, dormiva con Ennis…
Forse era una buona occasione per dirle che no, lui non aveva affatto
dormito con Cassie, un pensiero del genere non gli aveva mai nemmeno
sfiorato l’anticamera del cervello. Cassie, sua madre, aveva
dormito con Thompson, che per quanto terribile fosse, poi l’aveva
mollata e licenziata, e poi l’aveva ammazzata. Suo padre non era
Jack Twist, come aveva sempre creduto: suo padre era quel fuori di
testa di George Thompson, lo stesso uomo che aveva poi ammazzato sua
madre.
Avrebbe capito, C.J.?
No. Probabilmente no. O forse sì, se avesse usato le parole
giuste avrebbe capito, era una ragazzina sveglia… ma non
l’avrebbe accettato tanto facilmente.
Chi potrebbe accettare facilmente una realtà simile?
"Ma allora perché non mi date un fratellino?"
Jack, che stava per prendere fiato e cominciare uno dei discorsi
più difficili della sua vita, rimase spiazzato. Ma certo: per
C.J. andare a letto insieme significava letteralmente dormire insieme.
Non c’era alcuna malizia in lei, non sapeva che andare a letto
insieme fosse un sinonimo di fare sesso.
Non sapeva nemmeno cosa fosse, il sesso: l’unica cosa che sapeva
era che esistevano i maschi e le femmine, i maschi avevano il pisello e
le femmine la farfallina. Stop, punto, fine dell’argomento.
Discorso rimandato. Perfetto, ci penserò un’altra volta,
quando sarò più preparato, quando lei sarà
più grande e magari lo capirà meglio. Un discorso del
genere non si può improvvisare così, su due piedi. Glielo
dirò in presenza di Ennis, quando anche lui sarà
d’accordo, e magari chiameremo anche Jan ed Emily.
"Perché siamo due maschi", rispose. "Ci
vogliono un maschio e una femmina, per fare un bambino. La femmina che
ha l’uovo, e il maschio che le dà il seme e lo
feconda."
"Ah", concluse lei. "Bè, meglio così.
La sorellina di Norma Dugan è una vera rompiscatole, è
solo capace di piangere e di fare cacca e pipì."
Jack rise apertamente: "Anche tu eri così, da piccola."
"E voi come facevate?"
"A fare cosa?"
"A sopportarmi."
"Vieni qui", Jack l’abbracciò, aspirando il
suo buon profumo. Aveva sempre avuto quel buon odore, C.J.: un odore di
pulito, di nuovo, di innocenza… di vita che si schiude.
Chissà se tutti i bimbi odoravano così. Se avesse potuto,
a Jack non sarebbe dispiaciuto regalarle un fratellino, o anche due.
"Io non ti ho mai sopportata, principessa. Io ti ho sempre solo
voluto bene."
"Lo so, papà", lei gli passò le braccia
intorno al collo. "Anch’io ti voglio tanto bene."
Jack sorrise, con il naso nei suoi capelli. Quando aveva iniziato a
parlare, verso i tredici mesi, il termine che C.J. aveva usato per dire
che voleva bene a qualcuno era ‘ende. Baciava la persona scelta,
o la bestia, o il giocattolo, si stringeva a lei e infine diceva
‘ende, con un’espressione che a Jack aveva sempre sciolto
il cuore. Non che il cuore di Jack fosse difficile da sciogliere,
specialmente quando si trattava di C.J..
Com’era cresciuta. Era stato faticoso, e lo sarebbe stato ancora,
ma quando lei gli diceva che gli voleva bene, tutte le fatiche e i
dubbi e le paure svanivano come per incanto.
Nota: alla fine, ho scritto un seguito – l'avevo in mente
già da un po’, il problema era che non credevo di
potercela fare, per mancanza di tempo, mentre sapevo che di tempo ne
avrei avuto bisogno per affrontare la trama con calma. C'era abbastanza
carne al fuoco per un romanzo, figuriamoci per una semplice fic, e non
volevo che venisse fuori una soap opera, né avevo voglia di
scrivere qualcosa tirandolo via. Ero inoltre indecisa sul fatto che
Jack ed Ennis raccontassero a C.J. tutta, o in parte, la storiaccia di
Cassie e Thompson e, da mamma, ho deciso che al loro posto avrei scelto
di essere sincera, ovviamente nei limiti del possibile. I limiti qui
sono dati dal fatto che nessuno si sente di parlare della
paternità di Thompson, e come al solito, più si va avanti
a nascondere qualcosa, più è difficile confessare la
verità.
Piuttosto... questa serie di storie si sta allungando, spero di non diventare ripetitiva!
Nota 2: alla "veneranda" età di trentaquattro anni,
Jack è ancora il solito ragazzotto passionale, emotivo e
sognatore che vorrebbe cambiare il mondo: ogni tanto ci riesce (non a
cambiare il mondo, ma insomma…), più spesso sbatte la
testa, raccoglie i cocci e ci riprova – in questa parte della fic
mi ci sono abbastanza identificata, lo ammetto. Non so ancora bene come
si evolverà Ennis (anche se so bene quello che deve
succedere)… ma prima, devo dedicarmi alla vera protagonista di
questo racconto, cioè Cassandra Junior Twist.
Nota 3: Harvey Milk, primo politico gay dichiarato, ha iniziato la sua
carriera nel 1973 ed è stato assassinato il 27 novembre 1978.
Credits: "Restless heart syndrome" è una canzone dei miei
adoratissimi Green Day, che mi hanno aiutata a tornare a casa da Milano
guidando con un piede rotto (che strizza ho avuto!).
Disclaimer: I personaggi di Jack Twist, di Ennis del Mar e dei suoi
fratelli e di Cassie Cartwright, appartengono ad Annie Proulx.
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua
proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto
apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
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Capitolo 2 *** 2 - C.J. ***
Come sei veramente
Restless heart syndrome
2 – C.J.
Febbraio 1981
"Papà, Ennis… perché non siete sposati?"
Se avesse potuto prevedere la reazione di suo padre, che quasi si era
strozzato con il boccone di broccoletti, e soprattutto quella di Ennis,
che aveva iniziato a tossire fino alle lacrime, sbruffando il tavolo
con il sorso d’acqua che aveva in bocca, C.J. non si sarebbe
nemmeno sognata di fare quella domanda.
"Ehi", esclamò, non sapendo se preoccuparsi
più di suo padre o di Ennis. "Ma che ho detto?"
"Principessa, ma che domande sono?" chiese Jack, dopo avere
deglutito i broccoli, imbarazzato e rosso in faccia, ridendo.
"Le persone che si vogliono bene si sposano", spiegò lei. "Perché voi non siete sposati?"
Ennis si asciugò la bocca con il tovagliolo a quadretti. Era, se possibile, ancora più paonazzo di Jack.
"Perché non ci possiamo sposare", rispose Jack.
"E perché no?"
"Perché alle persone dello stesso sesso non è permesso sposarsi."
"Chi è che non lo permette?"
"La chiesa, innanzitutto. E anche lo stato."
"E perché no?" domandò nuovamente lei. Proprio non riusciva a capire.
"Perché…" Jack esitò. Sembrava che
neanche lui conoscesse la risposta. "Perché dicono che
è scritto nella Bibbia."
"Nella Bibbia sono scritte un mucchio di cavolate", asserì C.J..
"Un po’ di rispetto, ragazzina", l’ammonì Ennis. "Piuttosto, finisci i broccoli."
"Ma davvero", insisté lei, ormai per nulla
interessata ai broccoli al burro piccanti e alla bistecca alla brace
che costituivano la portata centrale di quella sera.
"E perché mai ci sarebbero delle cavolate nella Bibbia?" domandò Jack, conciliante.
"Perché se Dio ci ama", rispose C.J., seria, "Allora non dovrebbe avere mandato il diluvio. E non avrebbe
dovuto ordinare ad Abramo di sacrificare suo figlio. E non avrebbe
dovuto nemmeno mandare Gesù, suo figlio, sulla terra a farsi
ammazzare."
"Accidenti, abbiamo una teologa", esclamò Ennis.
"Però è vero", disse lei. "Se Dio ci
ama, non dovrebbe lasciare che succedano cose tanto ingiuste. E
dovrebbe permettere anche a voi di sposarvi."
Jack sospirò. "Principessa, ci sono tante cose ingiuste da
risolvere, ben più gravi del matrimonio fra persone dello stesso
sesso."
"Sì, però…"
"E poi… sai, noi siamo sposati."
"Davvero?" gli occhi di C.J. s’illuminarono.
"Jack", intervenne Ennis.
"No, perché?" fece Jack. Poi, verso C.J.: "Sai, è un segreto. Nessuno lo sa, ma ci siamo sposati la
prima notte che abbiamo trascorso qui al ranch."
"E quando?"
"Era il cinque febbraio 1967. Abbiamo fatto quattordici anni la settimana scorsa."
"Uao. Ma come avete fatto, se non si può?"
"Bè, non siamo andati in chiesa, e non c’era il prete… abbiamo fatto fra di noi."
"Jack", brontolò di nuovo Ennis.
"Era il primo giorno che abitavamo qui", ricordò
Jack, assorto. "Eravamo stanchi morti, avevamo lavorato tanto per
costruire il ranch e preparare tutto… e alla sera, siamo andati
in un locale a Casper per festeggiare, lo stesso dove poi avremmo
conosciuto tua madre, e abbiamo bevuto un po’ troppo.
Così, quando siamo arrivati a casa, Ennis…"
"Jack, falla finita!" esclamò Ennis, più imbarazzato che arrabbiato.
"Non sto dicendo niente di male", rispose Jack.
"Sì, dai, En, lascia che me lo racconti", insisté C.J..
"Io non mi ricordo niente", sbuffò Ennis. Poi
indicò Jack con le punte della forchetta: "E neanche tu
dovresti ricordartelo."
Jack alzò le spalle. "Fa così perché si
vergogna", spiegò a C.J., con aria da cospiratore. "Fa tanto il duro, ma è stato lui a chiedermi di
sposarlo."
Ennis tornò a dedicarsi alla sua bistecca: "Io non me lo ricordo."
C.J. ridacchiò, pensando ad Ennis, brillo, che si lasciava
andare fino a chiedere a Jack di sposarlo. Non doveva essere stato
soltanto brillo, doveva essere stato del tutto bevuto per mettere da
parte la sua solita rigidità, il suo solito conformismo. A ben
pensarci, poi, Ennis non era affatto conformista, dal momento che aveva
scelto di andare contro le regole, contro la Bibbia, la chiesa e lo
stato, e stare con un altro uomo.
O non era conformista come voleva far credere… o amava Jack alla
follia, al punto da andare contro le regole che di solito ci teneva a
rispettare.
C.J. propendeva per la seconda ipotesi.
"Allora, papà, come avete fatto?" domandò.
"Siamo tornati a casa, e siamo andati a letto",
raccontò Jack. "Sai, era tutto un po’
speciale… era la nostra prima notte qui, in casa nostra,
capisci? Allora lui mi ha detto… mi ha detto che se il mondo
fosse stato diverso, mi avrebbe sposato dopo una settimana che ci
conoscevamo."
"Ti ha detto proprio così?" fece C.J..
"Io non lo ricordo", grugnì Ennis.
"Certo", confermò Jack. "Poi mi ha chiesto di
sposarlo, anche se ovviamente non potevamo andare in chiesa e fare
festa e tutto il resto, sarebbe rimasto tutto solo fra di noi. E io gli
ho detto sì, che lo volevo, era la cosa che volevo di più
al mondo. E così, abbiamo giurato."
"Che bello", disse C.J.. Era un po’ strano immaginare
suo padre ed Ennis giurarsi amore eterno nel lettone, in pigiama,
ubriachi, anziché in chiesa, davanti a un prete, vestiti in
abiti eleganti, con i testimoni, i parenti e gli amici e la musica e
tanti fiori e tutto il resto, come si vedeva alla televisione e come
aveva visto talvolta in chiesa… ma insomma, poteva andare. Anche
perché, chi mai avrebbe potuto indossare l’abito bianco e
il velo, in una cerimonia regolare? Suo padre, no di certo, ed Ennis
meno che mai.
"Ma non dirlo a nessuno", disse Jack. "Per la chiesa,
noi non siamo sposati, anzi siamo… bè,
siamo…"
"Dei peccatori", masticò Ennis.
"In effetti, dopo che abbiamo giurato…"
"Non dire fesserie", corresse Ennis. "Tu eri ubriaco
fradicio, a momenti non riuscivi nemmeno a baciarmi."
"Davvero?" ghignò Jack. "Eri tu ad essere ubriaco fradicio, caro mio, se non ti ricordi quello che è successo dopo."
"Twist!" esclamò Ennis. "Non si dicono certe cose davanti a una bambina!"
Jack scoppiò a ridere, mentre Ennis continuò, rivolto a
C.J.: "Non stare ad ascoltarlo, ragazzina…"
C.J. ridacchiò. Non aveva capito bene cos’avessero o non
avessero fatto suo padre ed Ennis dopo che si erano sposati, ma era
felice di vedere che si volevano bene come dovevano essersene voluti
allora. C’era solo una cosa che non le tornava. "Ehi, ma se
siete sposati, perché non portate le fedi?"
Ennis e Jack la guardarono, spiazzati.
"Perché no", rispose Ennis, secco.
"E perché no?"
"Perché no, e basta. Tu fai troppe domande."
"Non ce n’è bisogno", intervenne Jack. "Non c’è bisogno di un anello per sentirsi legati
alla persona che si ama."
La voce di suo padre era calma, la risposta era chiara e non faceva una grinza. Ma allora, perché quel sorriso triste?
Maggio 1984
Certo, la sua famiglia era diversa dalle altre. Ma Ennis e suo padre si amavano, e la amavano: quindi, cosa c'era di male?
C.J. non era stupida, e man mano che cresceva, aveva iniziato a capire
perché la gente, o almeno la maggior parte di essa, fosse
dell'idea opposta. Capiva il concetto, con la forza della ragione, ma
non riusciva proprio a condividerlo. Non che avere a che fare con il
resto del mondo fosse sempre uno scherzo, ma la sua famiglia l'aveva
sempre circondata d'amore, e se anche era composta di due uomini invece
di un papà e di una mamma, a lei non importava proprio un bel
fico secco.
A volte, ma proprio solo a volte, aveva sentito la mancanza di una
mamma, anche se in realtà, non avendola mai avuta, non sapeva
dire esattamente cosa le mancasse di una tale figura. Vedeva
però la zia Jan con i tre figli, e le sue amiche con le relative
madri, e non le sarebbe affatto dispiaciuto avere in casa una donna da
poter chiamare mamma... anche se sia Jack sia Ennis avevano sempre
ricoperto entrambi i ruoli che aveva visto ricoprire da Matt e Jan in
casa Hamilton. Solo, i ruoli non erano così strettamente
definiti: essendo entrambi dello stesso sesso, sia Jack sia Ennis
avevano sempre fatto, chi più chi meno, un po’ da padre, e
un po’ da madre, anche a seconda del proprio temperamento.
Entrambi l'avevano coccolata, l'avevano sgridata, le avevano insegnato
cosa poteva e non poteva fare, l'avevano fatta giocare quando stava
bene e vegliata quando era ammalata, le avevano insegnato come fare le
faccende domestiche e come si sella un cavallo, per poi lanciarsi con
lui al galoppo.
Per questo non poteva definirsi una ragazzina infelice, tutt'altro. A
scuola c'era chi la prendeva in giro, ma C.J. si era presto accorta che
tutti quanti, a turno, in un modo o nell'altro, venivano presi in giro:
chi per la corporatura, chi per le lentiggini, chi per i denti storti o l'apparecchio ai
denti, chi per le orecchie a sventola, chi per il mestiere dei
genitori... Laura McKennit, poveretta, era balbuziente, e non riusciva
a spiccicare parola senza che qualcuno scoppiasse a ridere, facendola balbettare ancora di più. C.J. non aveva
mai preso in giro nessuno, anzi si era sempre dimostrata solidale verso
i derisi, e a poco a poco si era conquistata la stima, e l'amicizia, di
diversi suoi compagni e compagne di classe, che aveva invitato al ranch
svariate volte - peccato solo che i genitori di Anna King le avessero
sempre proibito di andare.
Anche il ranch era per C.J. un piccolo paradiso, oltre che un motivo di
orgoglio verso i propri compagni di classe. Adorava gli animali, in
particolare i cavalli, fin da piccola il suo sogno era stato quello di
diventare veterinaria, e non c'era giorno, a meno che le condizioni
meteorologiche non fossero proibitive, che non uscisse con il suo
Hidalgo per una cavalcata, in compagnia di Jack o Ennis o tutti e due,
o spesso anche di Tommy, il figlio sedicenne di Meg Norton,
l'insegnante fissa del maneggio. Aveva imparato a cavalcare subito dopo
avere imparato a camminare, e talvolta Meg, con l'approvazione di Jack
ed Ennis, le aveva persino permesso di affiancarla durante le lezioni
di equitazione ai bambini più piccoli.
No, la sua vita non era affatto malvagia, malgrado tutto: malgrado non
avesse mai conosciuto sua madre, malgrado suo padre fosse innamorato di
un altro uomo e ci vivesse insieme, malgrado le malelingue definissero
suo padre e il compagno con epiteti irripetibili.
Peggio per loro.
L’unica cosa che non le era chiara, e che le girava in testa da
qualche mese, era come avesse potuto suo padre essere andato a letto
con sua madre, mentre allo stesso tempo viveva con Ennis, dormiva con
Ennis, e ne era tanto innamorato.
Si era trattato di un tradimento, in piena regola e con tutti i crismi.
C.J. aveva imparato che andare a letto con qualcuno significava farci
sesso, e benché non sapesse esattamente in cosa consistesse "fare sesso" sapeva che, con il sesso, le donne potevano
restare incinte e, dopo nove mesi, partorire un bambino.
Suo padre ed Ennis si conoscevano dal 1963. Da quando si erano
conosciuti, non si erano mai separati; avevano iniziato a vivere
insieme al ranch dal 1967, Cassie si era stabilita da loro soltanto nel
dicembre 1972, e nel 1973 era stata ammazzata da un pazzo di nome
George Thompson, che si era intrufolato in casa loro.
O almeno, così le avevano raccontato.
Lei non aveva osato chiedere di più.
Come aveva fatto Cassie ad entrare nella vita di Jack ed Ennis, nella loro casa?
Era una barista nel locale che frequentavano.
Certamente.
Ma era già incinta di C.J., quando l’avevano ospitata al ranch: la matematica non era un’opinione.
E allora, Jack aveva fatto sesso con lei mentre, contemporaneamente, dormiva, faceva sesso, anche con Ennis.
Perché?
Perché, maledizione, se amava tanto Ennis? Ed era vero che lo
amava, C.J. lo poteva vedere con i propri occhi. Ci litigava, ma era
solo perché il suo carattere era diametralmente opposto a quello
del compagno. A volte, C.J. si era chiesta come si potesse amare una
persona tanto diversa da te, ma non si era saputa dare una risposta.
Però era vero che quei due si amavano, non c’era alcun
dubbio in proposito. Ennis amava suo padre, e suo padre amava Ennis.
E allora, com’era successo?
Suo padre non era un traditore. Come aveva potuto tradire Ennis,
tradire la persona che amava e che aveva sposato, seppur in segreto?
Suo padre aveva tanti difetti, ma per come lo conosceva lei, non era
né inaffidabile, né bugiardo. Forse che avesse dei lati
nascosti, che a lei non era dato conoscere?
E come aveva fatto Ennis, tanto duro e orgoglioso, a perdonare Jack, e
addirittura ad accettare Cassie in casa con loro? Per perdonare un
tradimento, pensava C.J., tutto l’amore del mondo non poteva
essere sufficiente.
C.J. avrebbe voluto saperlo.
E avrebbe voluto non saperlo.
Avrebbe potuto chiederlo direttamente a suo padre, oppure ad Ennis, o
anche alla zia Jan o allo zio Matt. Sicuramente anche Emily lo sapeva,
avrebbe potuto domandare a lei: ormai, la considerava alla stregua di
una nonna, ed era certa che avrebbe saputo usare le parole più
adatte per spiegarle la questione.
Ma non se l’era mai sentita: se nessuno gliene aveva mai parlato,
come le avevano invece parlato, a volte fin troppo chiaramente, di
altri argomenti, forse era perché si trattava davvero di una
verità poco simpatica.
E in fondo, era andata così, e non era andata male: lei viveva
con Jack ed Ennis, loro si amavano e la amavano, e questa era la cosa
più importante, ora come ora. Quello che era successo più
di undici anni prima, era solo affare di suo padre, di Ennis, e di sua
madre, e sembrava che se lo fossero risolto fra di loro.
Per ora, lei non voleva entrarci.
Già da qualche giorno, C.J. aveva notato quel vecchio pick-up
verde e scassato che si aggirava intorno alla fermata
dell’autobus, di ritorno da scuola, ma non ci aveva mai dato
troppo peso se non per il fatto che il guidatore, un ragazzo sui
vent’anni con i capelli color cioccolato che sfuggivano da sotto
il cappello marrone, sembrava essere piuttosto carino.
"Chissà chi è", aveva commentato Angela Lewis. "Se ne sta sempre qui… chissà chi aspetta."
"Mah", aveva risposto C.J.. "Di sicuro nessuno che prende questo autobus."
"Dici?" aveva detto Angie.
"Forse aspetta qualcuno che arriva con il prossimo… magari, la sua ragazza."
"Ah. Che peccato, è così figo…"
"E’ un po’ grande", aveva osservato C.J.. "E comunque, c’è di meglio."
"Tommy Norton, eh?" aveva detto Angie.
"Ma no!" aveva esclamato C.J..
"Dai, C.J., lo sappiamo tutti che ti piace", l’aveva
apostrofata Angie. "E poi, anche lui è carino."
"Falla finita, Angie… Tommy è solo un amico."
Il discorso era terminato lì. Certo però che era strano:
il ragazzo sul pick-up se ne stava lì, con il finestrino aperto,
a volte fumando una sigaretta, osservava le persone che scendevano
dall’autobus numero tredici, per la maggior parte ragazzini delle
elementari e delle medie usciti da scuola, ma non caricava mai nessuno.
Anzi, quando tutti i ragazzi se n’erano andati per la propria
strada, C.J. aveva notato che il pick-up non si muoveva: restava
lì fermo, al lato della strada.
Sì, di sicuro attendeva una persona, che sarebbe arrivata con
l’autobus quattordici un quarto d’ora più tardi.
Quel pomeriggio, il pick-up era sempre lì, come di solito; ma
C.J. aveva altro a cui pensare. Sull’autobus erano saliti anche
Mark Henderson, di tredici anni, con i suoi due amici: di solito, Mark
si faceva portare a scuola e andare a prendere da sua madre o suo
fratello più grande, e senza di lui i suoi due scagnozzi,
Patrick e James, avevano il coraggio di un gatto davanti a una vasca
d’acqua.
Con Mark, invece, era tutta un’altra storia: Ennis li definiva quei bulletti da quattro soldi,
ma quei tre, insieme, se ti prendevano di mira erano capace di
rovinarti la giornata, o anche l’intera settimana. Per fortuna di
solito si stancavano presto della vittima predestinata, e passavano a
un’altra nel giro di sette giorni.
Questa volta era stato il turno di C.J.. Per tutto il viaggio in
autobus, dall’ultima fila, avevano sghignazzato su suo padre ed
Ennis, che secondo loro non avevano le palle e altre insinuazioni
simili, interrompendosi solamente quando il guidatore gridava loro di
finirla. C.J., seduta a metà dell’autobus, ogni tanto
aveva ribattuto per le rime, ogni tanto li aveva semplicemente mandati
al diavolo, ma non aveva fatto altro che infiammare ancor più le
battute dei tre, al che aveva deciso che la cosa migliore era tacere,
sebbene fosse difficile tenere la bocca chiusa di fronte a simili
offese. In realtà, avrebbe voluto raggiungerli in fondo
all’autobus e prenderli a pugni, ma sapeva benissimo che sarebbe
stata lei a prenderle, così aveva rinunciato. Colmo della
sfortuna, non c’era neanche Angie, a casa con l’influenza.
Con il suo temperamento flemmatico, lei di certo sarebbe stata in grado
di calmare le acque.
"Io scommetto che l’hanno anche fatta partecipare ai loro giochi",
aveva ridacchiato Mark, a un certo punto. "Lo sanno tutti che i
froci si divertono anche con i bambini. Magari ci puoi insegnare
qualche gioco anche a noi, eh biondina?"
E C.J. non ci aveva visto più. Si era alzata per andargli a
tirare un pugno, rompere il naso o la testa o prenderlo di peso e farlo
volare direttamente fuori dal finestrino, ma l’autobus aveva
raggiunto la fermata e Mark e i suoi sgherri erano scesi
dall’uscita posteriore. Lei li aveva rincorsi, gridando: "Siete solo degli stronzi che non capiscono un cazzo!"
"Oh, la biondina si è arrabbiata", disse Patrick. "Perché non chiami tuo papà o il suo amichetto a
darci le sculacciate?"
"Stai zitto!" C.J., furiosa, gli tirò un pugno, che Patrick prontamente parò con una mano.
"Sei carina quando ti arrabbi", l’apostrofò
Mark, tirandole i capelli da dietro e facendole sfuggire
un’esclamazione di sorpresa e dolore. "Dai, arrabbiati di
più."
"Brutto mentecatto figlio di puttana!"
gridò C.J., voltandosi verso di lui e tirandogli un calcio in
mezzo alle gambe. Il colpo questa volta andò a buon fine: Mark
era la mente del gruppo, ma al contrario dei due amici era gracile, con
quelle braccia sottili non sarebbe stato in grado di spezzare un
ramoscello.
Il ragazzino si accartocciò con le mani sui testicoli, gemendo, mentre Patrick e James lo guardavano, sbalorditi.
"Ben ti sta, stronzo", esclamò C.J., con le mani sui
fianchi "Adesso vediamo chi è che non ha le palle."
"Che cazzo avete da guardare?" miagolò Mark. "Prendete quella puttanella!"
Si metteva male. C.J., zaino in spalla, si voltò e prese a
correre verso il ranch – dalla fermata erano dieci minuti a
piedi: in inverno spesso Jack o Ennis l’andavano a prendere, ma
con la bella stagione C.J. preferiva camminare, sgranchirsi le gambe
dopo le lunghe ore trascorse per lo più seduta a scuola.
Cavolo, se qualcuno la fosse andata a prendere anche quella volta… suo padre, Ennis, o anche Tommy.
Invece, naturalmente, non c’era nessuno, la stavano aspettando
alla fattoria, e James, grosso ma non grasso come Patrick, le era alle
calcagna e la stava per raggiungere.
Il rombo di un’auto che si avvicinava e che invece di sorpassarla accostava di fianco a lei.
Il pick-up verde.
Da dentro, il ragazzo carino le aprì lo sportello: "Avanti, sali", disse.
C.J. non se lo fece ripetere e salì.
"Bei figli di puttana, eh?" commentò lui, ingranando la prima e ripartendo in fretta.
"Puoi dirlo forte", rispose lei, guardando nel retrovisore:
Patrick aveva raggiunto James, e i due erano rimasti in piedi, in mezzo
alla strada, a braccia e gambe larghe, increduli. Immaginò
quanto si sarebbe arrabbiato Mark: non solo le aveva prese da una
ragazzina, ma la stessa aveva fatto fessi i suoi due scagnozzi. "Però uno l’ho messo fuori gioco, scommetto che per
un po’ mi lasceranno stare. Ah, a proposito, grazie."
"Di niente", disse lui. Era proprio carino, begli occhi
verdi, bei denti bianchi. Angela Lewis sarebbe morta d’invidia,
quando le avesse raccontato l’accaduto. "Non potevo
lasciare che ti facessero del male."
"Grazie", ripeté lei. "Guarda, io abito in un
ranch poco più avanti… adesso posso anche scendere."
"Tranquilla, ti ci accompagno", disse lui. Poi: "Tu sei C.J. Twist, giusto?"
Lei rimase a bocca aperta. "Scusa, come fai a…"
"Ho sentito che ti chiamavano così, alla fermata",
spiegò lui. "E’ un po’ che ti osservo."
Tutte quelle storie sugli adescatori di bambini… allora erano
vere? Ma no, non poteva essere, questo ragazzo era praticamente un
bambino anche lui… come poteva essere un adescatore?
Sì, poteva non essere un adescatore. Ma non poteva nemmeno essere un suo ammiratore. Un ventenne non si interessa alle undicenni, se non per qualche strano motivo.
C.J. iniziò ad avere paura: "Fammi scendere", disse, cercando di tenere ferma la voce.
"Calma", disse lui. "Non voglio farti del male. Voglio solo conoscerti."
Forse fronteggiare Mark, Patrick e James sarebbe stato meglio. "Conoscermi? E… perché?"
"Perché io sono tuo fratello. Tuo fratellastro. Mi chiamo George Thompson Junior."
"Scusa?" C.J. era allibita: quel tipo stava farneticando.
"George Thompson Junior", ripeté lui. "Ma tutti mi chiamano solo Junior."
"Scusa?" domandò di nuovo C.J.. "Mio… fratellastro? Ma come…?"
"Abbiamo lo stesso padre", spiegò lui. "Va’ a finire che non sei mai stata curiosa di conoscere il
resto della tua famiglia."
"Mio padre non ha altri figli", disse lei. Proprio non
capiva. Che suo padre avesse tradito Ennis e messo incinta una donna
più di una volta? No, impossibile, non era il tipo… senza
contare che Ennis non gliel’avrebbe perdonata tanto facilmente.
"Mio padre vive al ranch con Ennis, e… io sono la sua
unica figlia."
Lui la guardò, interrogativo. Poi sembrò capire: "Non lo sai?"
"Sapere cosa?"
"Tu credi che tuo padre sia… quel Jack Twist?"
"Jack Twist è mio padre."
"Non te l’hanno mai detto", sospirò lui.
"Detto cosa?"
"Tuo padre… nostro padre… non è Jack Twist. Tuo padre si chiamava George Thompson."
"Non è vero", ribatté lei. "George
Thompson è il nome dell’uomo che ha ammazzato mia
madre."
"Appunto", disse lui. "Non capisci? Mio padre
è impazzito a causa di tua madre, che si è fatta mettere
incinta da lui, e poi lo è andata a sbandierare per tutto il
paese. Mia madre lo è venuta a sapere e…"
"Smettila!"
gridò C.J., ancora incredula. Quel tipo stava mentendo. Certo.
Era carino, ma era matto come un cavallo. "Fammi scendere, o mi
butto giù."
"C.J…."
"Fammi scendere!"
"Non arrabbiarti", disse lui, calmo. "Capisco che la
cosa non ti piaccia… io credevo che tu lo sapessi…"
"Tu sei pazzo", esclamò lei. "Fammi scendere."
Erano arrivati all’imbocco del vialetto ghiaiato che, dopo
duecento metri, portava al ranch. Junior fermò il pick-up. "C.J…. sta per Cassie Junior, vero?"
"Cassandra",
corresse lei. Da una parte voleva scendere e scappare a casa,
dall’altra voleva restare seduta ed ascoltare quello che Junior,
se quello era davvero il suo nome, aveva da dire. "Cassie era
solo un soprannome."
"Ascolta, C.J., io non sono pazzo", insisté lui. "Mi dispiace che non ti avessero detto niente."
"Io… come posso crederti?" domandò lei. "Tu vieni qui e ti presenti come mio fratellastro... mi dici che
tuo padre è anche mio padre, ed è la stessa persona che
ha ammazzato mia madre… come faccio a credere a una cosa del
genere?"
"Non vedi quello che tu credi sia tuo padre?" chiese
Junior. "Quello non sa neanche com’è fatta, una
donna."
"Questo non è…" iniziò C.J., ma si
fermò. Stava per dire "questo non è vero", ma
ne era proprio sicura? "Accidenti", sbottò, con un
moto di stizza.
"Jack Twist e il suo compagno, quell'Ennis… loro hanno preso in casa tua madre,
quando era incinta", spiegò Junior. "Ma lei non era
incinta di nessuno dei due. Lei faceva la cameriera nel locale di mio
padre… di nostro padre… e l’ha sedotto."
"Ma perché lui poi l’avrebbe ammazzata?" C.J.
proprio non capiva. Forse era prevenuta, ma se anche fosse stato
davvero suo padre, era George Thompson ad avere tutta la colpa. "Quel Thompson, si è fatto sedurre, ha messo incinta mia
madre, e poi si è intrufolato nel ranch e…"
"Lo so. Era impazzito. Ma è impazzito perché
è venuta fuori tutta la storia, e mia madre ha chiesto il
divorzio e l’ha cacciato di casa. Capisci? Tua madre e
Jack Twist hanno rovinato la mia famiglia."
"Tu sei pazzo", ripeté C.J.. Okay, poteva starci,
poteva essere vero che Thompson fosse suo padre (in quel caso, suo
padre, Jack, non aveva tradito Ennis… ma tutti quanti
le avevano tenuto nascosto un’altra verità, per tutti
quegli anni, ed era un pensiero altrettanto poco simpatico)… ma
che Jack e sua madre avessero rovinato la famiglia di Thompson le
sembrava esagerato. Thompson se l’era andata a cercare, aveva
fatto sesso con Cassie anche se era già sposato e aveva un
figlio, magari più di uno, e poi, per vendetta, l’aveva
uccisa e tentato di uccidere le persone che l’avevano ospitata.
Era Thompson il fuori di testa, non sua madre e suo padre.
Ma… questo Junior le stava dicendo che quel fuori di testa era suo padre.
"C.J…."
"Io me ne vado", disse lei. Aprì lo sportello, saltò giù e si mise a correre verso il ranch.
"C.J.!" gridò Junior, dal finestrino.
"Tu sei pazzo!" ripeté lei, correndo, e sentì le lacrime affiorarle agli occhi. "Sei pazzo come tuo padre!"
Udì il motore mettersi in moto, e il pick-up ripartire. Temette
che Junior volesse raggiungerla, e correndo si voltò verso la
strada, ma il pick-up si stava allontanando verso Edgerton.
"E’ solo un pazzo", ansimò, correndo, sentendo
un nodo in gola. "Solo un pazzo fuori di testa."
Arrivò di corsa al ranch, dove Ennis la stava aspettando sul portico di fronte: "Ehi, ragazzina."
Lei si fermò prima dei tre scalini, si piegò su sé
stessa, ansimando, le mani sulle ginocchia. "En…"
"Chi era quello?" Ennis era inquieto: di certo, aveva visto che era scesa da un pick-up sconosciuto.
"Era…" C.J. avrebbe potuto chiedergli spiegazioni su
quel che le aveva raccontato Junior, ma era davvero sicura di volerlo
fare? Si passò una mano sugli occhi bagnati e rialzò la
testa: "Era… uno."
"Uno, chi?"
"Un ragazzo. Non hai visto?"
"Non fare la spiritosa", Ennis si stava innervosendo.
Gesù, quanto era geloso. "Mi sembrava un po’
grandino per te. Quante volte ti ho detto che non devi salire in
macchina con…"
"Mi ha salvata", l’interruppe C.J.. "Mark e i
suoi sgherri mi stavano molestando, si metteva male, e lui mi ha difesa
e mi ha riportata a casa." Non era andata proprio così, ma
se Ennis avesse saputo che era salita in macchina con un perfetto
sconosciuto di sua spontanea volontà, le avrebbe fatto passare
un brutto quarto d’ora.
"Di nuovo quei tre bulletti?" fece Ennis, ora più
preoccupato che arrabbiato. "Ti hanno fatto del male?"
"No", rispose lei. "Per fortuna c’era… quel tipo."
"Hai pianto", disse Ennis, con insolita dolcezza, e le
carezzò una guancia. "Sei sicura che…"
Lei si scostò: "Non preoccuparti. Non è niente."
"C.J…. sei sicura che vada tutto bene?"
"Sì, En. Tutto a posto."
"Se qualcuno ti molesta ancora…"
"Non preoccuparti. Mi so difendere."
"Lo so, ragazzina. Ma se hai qualche problema…"
"E’ tutto a posto", esclamò lei, quasi
gridando. Se avesse continuato a parlare con Ennis, avrebbe finito per
raccontargli tutto quanto, e non ne aveva per niente voglia. "Vado a cambiarmi, voglio fare una cavalcata."
"E i compiti?"
"Li faccio dopo cena", rispose C.J. correndo in casa, e
ringraziando di non avere avuto subito a che fare con suo padre, che
forse suo padre non era.
Avrebbe voluto farsi una cavalcata da sola, al galoppo per la
prateria,
come faceva di solito quando era arrabbiata o nervosa: ma Tommy Norton
aveva tanto insistito per unirsi a lei, che non aveva potuto dirgli di
no. In effetti, Tommy le piaceva: aveva un bel viso dolce, con gli
occhi color del cielo e le fossette ai lati della bocca, capelli
castano
chiari, e un fisico da paura, dovuto agli allenamenti di pugilato, con
i fianchi stretti e le spalle larghe, e le braccia muscolose al punto
giusto.
Quando era libero da impegni scolastici e sportivi dava una mano con le
bestie: ciò significava che era in giro per il ranch almeno un
paio di giorni alla settimana, oltre al sabato e alla domenica e per
tutte le vacanze estive.
Non fu brutto. Avrebbe avuto bisogno di una cavalcata in solitaria, ma
si lanciò comunque al galoppo con Hidalgo, seguita da Tommy su
Cleopatra, e alla fine, raggiunto un piccolo ruscello che sfociava nel
Platte, si fermarono ad abbeverare i cavalli.
"Accidenti se mi hai fatto correre", esclamò Tommy
sedendosi sull’erba e togliendosi il cappello. "Ma
cos’hai mangiato a pranzo?"
"Sono un po’ giù", rispose lei, sedendosi
vicino a lui a gambe incrociate. "Avevo bisogno di
sfogarmi."
"Che è successo?"
"Io…" C.J. esitò. Forse Tommy era la persona
giusta a cui esporre i propri dubbi, volendo evitare di parlarne a suo
padre, Ennis, Emily o agli zii. Magari quel Junior Thompson le aveva
cacciato solo un sacco di balle. "Senti, secondo te…
è possibile che mio padre abbia tradito Ennis?"
"Scusa?"
"Sì… mio padre stava con Ennis, ma allo stesso
tempo è andato a letto con mia mamma e sono nata io. Secondo te,
è possibile?"
"Certo che lo è, dal momento che sei nata tu."
C.J. sospirò. Che discorso difficile. "Sì,
ma… tu ce lo vedi, mio padre, a tradire la persona a cui vuole
bene?"
Tommy inarcò un sopracciglio: "Non ci ho mai pensato."
"Allora pensaci adesso."
"In effetti… no. Non ce lo vedo."
"Quindi?"
"Quindi, niente", terminò lui. "Io non ce lo
vedo, ma non cambia niente, perché tu sei qui. Quindi,
l’ha fatto. Sai come sono gli adulti… una botta e via.
Magari è stata solo questione di una volta… Cassie gli
piaceva, e lui piaceva a Cassie… non credo che pensasse di
mollare Ennis per mettersi con tua madre. Piuttosto", soggiunse,
"E’ Ennis che non lo vedo proprio per niente a perdonargli
un tradimento, e addirittura accettare Cassie, incinta, in casa
propria."
"Non lo farebbe mai", confermò C.J..
"No, non è da lui."
"Però l’ha fatto, visto che le cose sono andate così."
Tommy rifletté per un attimo. Poi: "E se… sai, ho
sentito al telegiornale di una coppia che non riusciva ad avere un
bambino, perché la moglie era sterile. Allora hanno pagato una
ragazza perché si facesse fecondare dal marito, e poi desse loro
il bimbo. Un utero in affitto, insomma."
"E come mai sono finiti al telegiornale?" domandò
C.J.. "Io non andrei tanto a raccontarla in giro, una cosa come
questa."
"Quando il bimbo è nato, la ragazza non voleva più
lasciarlo e ha restituito i soldi, ma i due signori non volevano
farsene una ragione, hanno continuato a molestarla e lei è
andata alla polizia."
"Scusa, ma questo cosa c’entra con me?"
"Tuo padre ed Ennis sono uomini", spiegò Tommy. "Non possono avere figli. Ma quasi tutte le coppie innamorate,
arrivate a un certo punto, desiderano dei bambini."
"Quindi avrebbero pagato mia madre… Cassie…"
"Non lo so. E’ solo un’ipotesi."
"Ma scusa", disse C.J.. Poteva anche essere, ma sua madre
non sembrava quel tipo di persona, almeno dai racconti di suo padre.
"Mettiamo che mio padre ed Ennis le abbiano proposto una cosa del
genere… lei come può avere accettato?"
"Forse aveva bisogno di denaro. Era una cameriera, un po’ di soldi in più fanno sempre comodo."
"No, non ci sta", obiettò C.J.. "E se invece… lei fosse stata incinta di qualcun altro?"
"Tuo padre… non sarebbe tuo padre", calcolò Tommy. "Via, C.J.!"
"No, perché? Non potrebbe essere?"
"Ma no… è assurdo. Come avrebbero potuto tenertelo nascosto per così tanto tempo?"
"Forse pensavano…" se Junior non aveva mentito, poteva esserci un solo motivo per il quale le era stata
taciuta la verità: "Forse pensavano che io non
capissi."
"Non c’è molto da capire", disse Tommy. "Né niente di tanto orribile da dovertelo nascondere. Tua
madre era incinta, e tuo padre ed Ennis le hanno dato
ospitalità. Poi, quando quel matto di Thompson l’ha
ammazzata, loro si sono presi cura di te."
"Sì, ma…" iniziò C.J. Sì, ma se quel matto che l’ha ammazzata fosse anche il mio vero padre?
Questo non poteva dirlo a Tommy. Lui non ne sapeva niente.
Forse nessuno ne sapeva niente, a parte suo padre, Ennis, Emily e magari zia Jan e zio Matt.
E naturalmente, Junior Thompson e la sua famiglia.
Ma se quel Junior fosse stato pazzo alla stregua di suo padre e le avesse raccontato un sacco di balle?
Sì, ma perché? Solo per il gusto di farla soffrire?
E perché proprio lei?
Pazzo o no, conosceva la sua famiglia. Sapeva che Jack ed Ennis
facevano coppia, che lei era figlia di Cassie, che Cassie era stata
ammazzata da George Thompson.
"Andiamo a casa, Tommy", disse, rialzandosi in piedi.
"Qualcosa non va, principessa?" domandò Jack,
osservando il piatto ancora pieno di C.J.. "E’
cattivo?"
Lei aveva appena piluccato la coscia di pollo arrosto: "No, è buono… ma non ho fame."
"Di solito vai matta per il pollo", disse Jack. "Sicura di sentirti bene?"
"Sì, sto bene. Solo che…"
"Oggi quei tre cretini l’hanno molestata di nuovo", intervenne Ennis.
"Che cosa?" fece Jack.
"En, non dirglielo", disse C.J..
"Mark Henderson e i suoi scagnozzi", precisò Ennis. "Bella forza, in tre contro una ragazzina."
"En…"
"E’ vero, C.J.?" domandò Jack, preoccupato. "Che ti hanno fatto?"
"Niente", rispose lei, laconica.
"A me non sembra", insisté Jack. "Ti hanno detto qualcosa di brutto?"
"Mi insultavano dal fondo dell’autobus",
spiegò lei. "Alla fermata, ho tirato un calcio a Mark e
sono scappata."
"E un tizio l’ha fatta salire sul suo pick-up", aggiunse Ennis.
"Cosa?" esclamò Jack. "Perché non mi avete detto niente?"
Ah, sei tu che chiedi perché non ti abbiamo detto niente, adesso. "Perché non è successo niente, davvero",
rispose lei. "Questo ragazzo era alla fermata, ha visto quei tre
che mi davano noia, mi ha difesa e fatta salire,
e mi ha accompagnata qui. Fine della storia."
"Ma chi era?" volle sapere Jack. "Ennis, tu lo sai?"
Ennis alzò le spalle. Fu C.J. a rispondere: "Non lo so.
Non l’ho mai visto prima. Era uno sui vent’anni, mi ha
detto solo che stava aspettando la sua ragazza sull’autobus
successivo."
"Questa storia non mi piace", sbottò suo padre. "Quei tre teppistelli devono finirla di importunare quelli
più deboli. Che ti hanno detto?"
C.J. abbassò lo sguardo.
"Ti hanno detto qualcosa su di noi, vero?" insisté Jack. "Su me ed Ennis. Ci scommetto."
"Dicevano che non avete le palle", rispose C.J., più
che altro per far smettere suo padre. Mai e poi mai, neanche sotto
tortura, gli avrebbe rivelato dell’accusa, ingiusta e infamante,
di pedofilia e incesto. "E io ho tirato un calcio nelle palle a
Mark."
Jack trattenne una risata, ed Ennis esclamò: "Hai sentito
la ragazzina? Lei sì che ce le ha, le palle."
"E’ quel che si meritava", rincarò C.J., orgogliosa.
"Però non va bene", commentò Jack. "Bisogna che qualcuno ti porti a scuola, e che ti venga a
prendere."
"Cosa?" fece lei.
"Se quelli continuano ad insultarti…"
"Non se ne parla. Se mi portate e mi venite a prendere, capiranno che ho paura e faranno peggio."
"Ma tu hai paura", affermò Jack. "Te la sei
vista brutta e hai avuto paura. Altrimenti, non saresti salita in
macchina con uno sconosciuto. Pensa se fosse stato un…"
"Papà!" esclamò C.J..
Effettivamente, papà caro, era
uno squilibrato. Ma forse no, forse era perfettamente sano di mente,
era solo mio fratellastro come ha detto di essere, ed era mio
papà ad essere uno squilibrato… e mio papà purtroppo non sei
tu.
Ma non aveva il coraggio di dirglielo. Non l’avrebbe mai trovato.
"No, ascolta", disse Jack. "Non mi piace che qualcuno
ti prenda in giro, o peggio, soprattutto per causa nostra. Ma non mi
piace nemmeno che sali in macchina con qualcuno che non conosci, questo
lo sai."
"Lo so", convenne lei. "Ma… sì, ho
avuto paura. James mi stava raggiungendo, e se non ci fosse stato quel
ragazzo, non so come sarebbe finita."
"Allora ti porteremo a scuola", stabilì Jack. "E ti verremo a prendere"
"Non esiste", esclamò lei. "Non ho più sei anni, papà!"
"Questa volta è andata bene", insisté Jack. "Ma se James ti prendeva? O se quel tipo era un pedofilo che
voleva… approfittarsi di te?"
"Ma mi prenderanno tutti in giro!"
Jack sospirò, guardò Ennis.
"Almeno fino alla fermata, allora", propose Ennis. "Come in inverno. Tanto, fra quindici giorni la scuola è
finita, poi il prossimo anno vedremo. Mi sembra un buon compromesso,
no?"
"Aggiudicato", disse Jack.
"Okay", brontolò C.J..
Nei due giorni seguenti, Junior con il suo pick-up verde non si
presentò più alla fermata dell’autobus. Meglio
così, perché Ennis, che ora accompagnava e andava a
riprendere C.J. alternandosi con Jack, aveva già visto il mezzo
e il suo possessore, avrebbe potuto volerlo conoscere anche solo per
ringraziarlo, e C.J. non avrebbe saputo come gestire la situazione.
Il problema era che più di una volta, al diavolo tutto, era
stata sul punto di chiedere spiegazioni a suo padre o a Ennis, o
telefonare ad Emily.
Ma all’ultimo momento, si era sempre morsa la lingua.
La verità era che se la faceva sotto: da una parte voleva sapere, dall’altra no.
Perché se le avevano mentito su una cosa del genere, potevano averle mentito anche su qualcos’altro.
E in ogni caso, questa era una cosa grave. Se Jack era suo papà,
e lei era il frutto di un tradimento, bene: le cose si erano sistemate,
e quello in fondo era l’importante. Era poco simpatico, ma non
grave: o meglio, non così grave, non inaccettabile. Ma se suo padre era invece George Thompson... se era davvero figlia di un uomo simile…
Ogni volta che ci pensava, le si accapponava la pelle e le veniva un groppo alla gola.
Gliel’avevano tenuto nascosto perché la conoscevano, e
sapevano che ci sarebbe stata peggio che male, come in effetti stava.
Questo lo capiva.
Però era lo stesso arrabbiata. In fondo, erano loro gli adulti,
no? Erano loro a doverle spiegare le cose con le parole giuste.
Suo padre ed Ennis avevano notato che c’era qualcosa che non
andava, e più di una volta le avevano domandato
cos’avesse: qualcuno forse l’aveva di nuovo presa in giro?
Lei aveva sempre risposto che andava tutto bene.
"A me non sembra, principessa", obiettò suo padre,
la mattina del terzo giorno successivo al fattaccio di Junior, mentre
l’accompagnava alla fermata dell’autobus.
"Forse sono un po’ stanca", disse lei. "Sta
finendo l’anno… e tutte queste interrogazioni e compiti in
classe…"
"Già, hai studiato molto, ultimamente", convenne
Jack. "Senti, perché oggi pomeriggio non lasciamo perdere
tutto quanto e ci facciamo un giro a Casper?"
"Papà, veramente dovrei…"
"Non mi pare che tu abbia delle interrogazioni o dei compiti in classe, domani."
"Bè, veramente…"
"Allora facciamo così", propose Jack. "Oggi
pomeriggio ti vengo a prendere direttamente da scuola, e ci facciamo un
giro in centro. Dillo anche ad Angela, se vuoi. Possiamo fare
un po’ di acquisti… sei cresciuta tanto nell’ultimo
anno, scommetto che ti serve qualcosa per l’estate."
La proposta non era affatto malvagia. "Sai, mi piacerebbe una gonna lunga come quella di Michelle…"
"Buona idea", convenne suo padre. "E’ ora che
tu la smetta di vestirti come un maschiaccio, ormai sei una
signorina." Sospirò. "Se ci fosse tua madre,
sicuramente per te sarebbe più facile."
C.J. sentì affiorare il nodo alla gola, che negli ultimi giorni
era diventato fin troppo familiare. "Ma no, che dici?"
"E’ la verità", disse Jack. "Non hai una
figura femminile a cui fare riferimento… hai solo un mucchio di
mandriani rozzi e maleducati. Mi dispiace, ma…"
Lei si sentì stringere il cuore. "A me no,
papà", disse, stringendogli il braccio. "Io sto bene
qui con voi. Non avrei potuto chiedere di meglio. E poi
c’è Emily, la zia Jan, e anche Meg e Hope…"
"Principessa…"
L’espressione di Jack la fece sciogliere e qualcosa
scattò
in lei. Capì che nel suo cuore, quello era e sarebbe sempre
stato suo padre, al
diavolo se non l’aveva concepita. Era stato lui, insieme a
Ennis, ad averla allevata e cresciuta, a esserle stato vicino quando
aveva bisogno, senza contare che aveva deciso di prendersi cura di lei
dopo che Cassie era morta, mentre avrebbe potuto benissimo lasciarla in
un istituto. Era stato lui ad aiutarla a diventare quella che era, e se
anche non era suo padre naturale,
per lei non cambiava niente. George Thompson non sarebbe mai stato un
padre per lei, sarebbe sempre solo stato il pazzo che aveva ucciso sua
madre. Il suo vero papà era Jack Twist, punto e basta.
Anzi... a ben pensarci, visto come stavano realmente le cose, anche Ennis poteva essere considerato suo padre.
Si strinse al suo braccio: "Non ti preoccupare, papà. Io
sto bene. Oggi pomeriggio ci facciamo un giro, solo io e te, e facciamo un
po’ di shopping. Anche tu hai bisogno di qualche maglietta
nuova."
"Mi consigli tu?"
"Certamente. I tuoi gusti sono orribili."
Fu divertente. Di solito, C.J. andava a fare acquisti con Hope e
la zia
Janice, ma scoprì di potersi divertire altrettanto con suo
padre. Acquistarono una gonna lunga, ricamata, di seta color indaco, da
far invidia a quella di Michelle Patterson, abbinandola a
una canotta color canna di fucile: nello specchio, C.J. sorrise a
quell’immagine di sé così diversa dalla solita, e
suo padre si complimentò dicendole che sembrava una principessa
indiana. Comprarono poi altre t-shirt da battaglia per entrambi, un
paio di jeans nuovi e uno di stivaletti per C.J., uno di stivali per
Jack, un cappello color panna e due camicie a quadri per Ennis, e
infine, carichi di borse, si fermarono a prendere un gelato,
seduti all'ombra del tendone della gelateria migliore di Casper.
"E’ divertente fare acquisti con la mia bambina",
disse Jack, sereno, appoggiando la sua tazza di caffè e allungandosi sulla sedia.
"E’ divertente fare acquisti col mio papà",
replicò C.J. leccando il suo cono panna e cioccolato. "Dobbiamo farlo più spesso."
"Non troppo, però… altrimenti, Ennis dirà che gli prosciughiamo il conto in banca."
"La prossima volta, facciamo venire anche lui."
"Oddio, no", protestò Jack, e C.J. rise: per Ennis,
andare per negozi equivaleva ad andare all’inferno, e riusciva a
renderlo un inferno anche per chi lo accompagnava. Peccato,
perché con gli abiti giusti, anche Ennis avrebbe fatto la sua
figura: molte delle sue compagne di classe stravedevano per lui, Angela
lo trovava estremamente figo, ed erano rimaste malissimo quando,
all’inizio dell’anno scolastico, C.J. aveva spiegato loro
che faceva coppia con Jack. "Quanto ben di Dio sprecato",
aveva commentato Carla Jenkins. "Ma ne sei proprio sicura, C.J.?"
"Sicurissima", aveva confermato C.J.. "Dormono anche nello stesso letto."
Oooh generale di stupore. Poi Candice Bullock aveva chiesto: "E si baciano?"
"Bè, certo."
Altro oooh di stupore, e
qualcuna delle ragazze se n’era andata a confabulare altrove,
mentre Carla aveva ribattuto: "Cavolo, che fortuna. Vivi in casa
con due maschi del genere…"
C.J. aveva pensato che Carla era un’idiota, non aveva idea
di
cosa significasse vivere con un padre omosessuale e il suo uomo, non
foss’altro che per le compagne che si allontanavano e ti
bisbigliavano dietro le spalle. Ma ora, guardando suo padre,
pensò di essere la
ragazzina più fortunata del mondo.
Di ritorno al ranch, mentre stavano discutendo su cosa cucinare
per
cena - ci voleva qualcosa di veloce da preparare, visto che erano ormai le sette di sera
- C.J. provò un tuffo al cuore: sul lato destro della
strada, ancora in lontananza, proprio vicino al ponte sul Platte, ecco il vecchio pick-up verde. Impossibile
sbagliarsi: era quello di Junior.
"Che c’è?" domandò suo padre.
"Io…" iniziò lei, ma poi tacque: quella di
Junior Thompson era una storia chiusa. Aveva deciso di non pensarci
più, suo padre era Jack e solo Jack, quindi basta
arrovellamenti. "Niente."
Dal pick-up però uscì un ragazzo, un ventenne biondiccio e allampanato: assolutamente non Junior.
E brava. Dici che non vuoi più pensarci, poi te lo vedi dappertutto.
Quando la Hummer di Jack e C.J. gli si avvicinò, il ragazzo
iniziò ad agitare le braccia, facendo loro segno di fermarsi.
"Che fa quello?" chiese Jack. "Forse ha
bisogno." Rallentò, accostò, fermò
l’automobile e abbassò il finestrino: "Serve aiuto?"
"Sì, grazie", rispose il ragazzo, indicando il pick-up che aveva il radiatore aperto. "Per fortuna che siete
passati voi. Sono rimasto a piedi, mi si è spento il motore e
non riesco più a farlo ripartire."
"Nemmeno io ci capisco molto", ammise Jack. "Però posso provare. C.J., tu resta qui, okay?"
"Okay."
Jack scese, raggiunse il pick-up, e nel giro di un secondo accadde
quello che C.J. avrebbe ricordato per sempre come l’incubo
peggiore della sua vita: solo che non era un incubo, era la
realtà.
Da dietro al pick-up spuntarono altri due ragazzi, di cui uno armato di
cacciacopertoni: Junior Thompson. Jack non ebbe il tempo di aprire
bocca che i tre gli furono addosso.
"Papà!" gridò C.J., e senza pensare aprì lo sportello e scese dall’automobile, correndo da lui.
"No, C.J.!" gridò Jack, difendendosi come poteva. "Sta’ indietro, scappa!"
Contro i due a mani nude, anche se la lotta era impari, Jack avrebbe
forse potuto farcela: ma Junior era armato. Il ragazzo si
avvicinò per colpirlo, ma Jack, che se l’era aspettata,
gli tirò un calcio al basso ventre, facendolo boccheggiare e
indietreggiare.
"Maledetto frocio figlio di puttana", rantolò
Junior. Si avvicinò nuovamente a Jack, che questa volta era
troppo impegnato con gli altri due, e gli tirò un colpo sulla
bassa schiena, non troppo potente, ma sufficiente a farlo finire a
terra.
"Papà!"
strillò C.J., con le mani sulla bocca. Corse da Junior, che
stava per sferrare un altro colpo, si aggrappò al suo braccio
destro, fermandolo: "Lascia stare mio padre, figlio di puttana!"
"Questo non è tuo padre", rispose Junior, cercando di scrollarla via. "Mi pareva di avertelo già detto."
"Lascialo stare!"
gridò lei, e gli morse il braccio, stringendo più
che poteva, cercando di penetrare nel bicipite sotto il giubbotto di
jeans.
"AAAAAH!" urlò Junior. "Molla, troia bastarda! MOLLA!"
Prendi, brutto pazzoide figlio di un cane, gioì C.J., soddisfatta, prima di sentirsi afferrare per la vita e per le braccia e tirare indietro.
Già, erano in tre. Come quasi tutti i teppisti, C.J. lo sapeva
bene, Junior non era capace di arrangiarsi da solo e si era portato
dietro gli aiutanti.
"No!" gridò, cercando di resistere. "No, stronzi bastardi, lasciatemi!"
Inutile. Con un ultimo strattone, Junior si liberò di
C.J., che continuava a dibattersi e strillare e piangere. "Maledetta
bastarda", gemette.
Tenendosi il braccio ferito, il ragazzo si chinò su Jack, bocconi a terra. "Ehi,
finocchio di merda", l’apostrofò. "Che ci fai
con la ragazzina? E’ carina, no?"
"N-non ti permettere", mormorò Jack, girando la testa verso di lui. "Quella è mia figlia."
Junior gli sputò su una guancia. "Come no, è tua figlia come la primavera viene a dicembre."
"Tu lasciala stare, mocciosetto", Jack gli mostrò i denti.
"Non mi sembri nella posizione di dare ordini", l’apostrofò Junior.
"Ma che vuoi, dannazione?" ringhiò Jack.
"Darti una lezioncina", disse Junior. "A te e a quella bastarda. Avete
rovinato la mia famiglia. E quel buono a nulla di mio padre non
è nemmeno stato capace di vendicarsi come Dio comanda, ha
lasciato le cose a metà e si è fatto ammazzare."
Gli occhi di Jack s'ingrandirono: "Che cosa? Tu sei...?"
"Mi hai riconosciuto, vedo", disse Junior. "E’ normale che
non ti ricordassi di me, sono passati undici anni. Ci siamo visti solo
quel giorno, quando mia madre è venuta a casa tua per scusarsi. Lei si è scusata con te, pensa un po’."
"Junior… Thompson?"
"In persona."
"Maledetto!" con
una forza e una prontezza che C.J. non si sarebbe mai aspettata da un uomo ferito, Jack
afferrò una caviglia di Junior e tirò, facendolo piombare a terra sul sedere.
"C.J.!" gridò Jack, rialzandosi e correndo verso di lei, tenendosi la schiena colpita. "Lasciatela stare, maledetti bastardi!"
"Dannato finocchio succhiacazzi", ringhiò Junior, rialzandosi e inseguendolo.
"Papà!" gridò C.J., divincolandosi.
Jack raggiunse C.J., trattenuta dagli altri due, e si avventò su
di loro. Dopo una breve colluttazione, C.J. si ritrovò le
braccia libere, e suo padre la spinse via: "Scappa, C.J.,
corri!"
"Non ti lascio qui!" singhiozzò lei.
"Prendete quella puttanella", ordinò Junior.
"Corri, vai a chiamare aiuto!" riuscì a gridare
Jack, prima che Junior lo colpisse alla testa con il cacciacopertoni,
facendolo finire nuovamente a terra.
E C.J. corse.
Grazie 1000 a:
harderbetterfasterstronger: grazie mille, carissima... le tue
recensioni mi fanno sempre sbellicare dalle risate! Sono contenta che
apprezzi quello che scrivo: dopo la bellezza di nove
fic, avevo veramente paura di ripetermi, e mi rendo conto
che in alcuni punti l'ho fatto... ma anche la vita, a volte, è
ripetitiva, quindi credo di potere essere perdonata. Il pezzo in cui
Jack deve fronteggiare la Jameson inizialmente non era previsto, volevo
solo nominare l'assistente sociale e basta, poi mi è venuto
questo dialogo, e questo nuovo personaggio mi ha talmente presa che ho
finito per inserirla anche dopo. Adoro Emily Jameson, adoro
il suo
scontro con Jack (sono contenta che sia piaciuto anche a te, volevo
scrivere qualcosa di tragicomico, e mi sembra di esserci riuscita): lui
ha le sue buone ragioni, ma lei deve fare il
proprio lavoro; lui è un sognatore, emotivo e linguacciuto, che
effettivamente, fosse nato qualche anno più tardi, vedrei
benissimo a combattere in prima linea per i diritti degli omosessuali,
mentre lei, anche a causa della sua professione, è dura e
cinica, il suo sarcasmo spietato. Proprio questo suo comportamento fa
però inalberare Jack che, ben conscio di non avere niente da
perdere, si lascia andare e risponde con sincerità e
ironia: cosa che la colpisce positivamente e la fa decidere per
affidargli C.J..
A proposito: in questa storia ti sto facendo salivare poco... sorry, vedrò di rimediare più avanti!!!
Selenina: grazie, grazie, grazie... ho creato un "mondo" alternativo, ma è decisamente più
improbabile di quello della Proulx. Ho cercato di non renderlo eccessivamente
improbabile, tenendo conto il più possibile del periodo storico
e del luogo in cui si svolgono gli avvenimenti... ma via, ci sono cose
che non stanno in piedi, me ne rendo conto anch'io. Jack ed Ennis
vivono un pò troppo tranquilli, la gente li lascia un pò
troppo stare: sono nel Wyoming del 1960-80, non a San Francisco negli
anni '90... e quale assistente sociale (a parte la terribile-ma-non-poi-così-tanto
Emily Jameson, creata appositamente) affiderebbe mai loro un bambino?
Solo che... come ho scritto nell'introduzione della serie,
è bello sognare, e su certe questioni ho chiuso deliberatamente
gli occhi.
Il piede rotto... avevo un male cane, ma non ero sicura che fosse proprio fratturato, così mi sono fatta coraggio e mi sono fatta due ore e mezzo di autostrada,
andando ai 110-120 al massimo (di sicuro non ho preso degli autovelox,
hahahahaha). E' stata dura, ma per fortuna c'era pochissimo
traffico (e avevo dietro Green Day, Mötley Crüe, Linkin Park e Led
Zeppelin, e... sì, lo ammetto, anche Marco Mengoni), altrimenti mi sarei fermata da qualche parte e avrei messo
un
cartello con scritto SOS!!!.
Poi, arrivata a casa, sono andata al pronto soccorso e dalle
lastre è venuta fuori una bella fratturina al terzo metatarso:
una seccatura che non ti dico, ma poteva andare molto, molto, molto peggio.
Nota: ho deciso di chiamare Tommy Norton in questo modo, e di fargli
praticare pugilato, perché il mio Tommaso, Tommy, adora il
cartone animato "Magica Magica Emi", che trasmettono in
questo periodo su Boing. La protagonista, May, ha un amico più
grande che fa il pugile, e io avevo già avuto l’idea di un
amico
più grande per C.J.: così ho deciso di - ehm - "omaggiare" questo anime. A ben
pensarci, in tutti gli anime in cui le protagoniste sono
ragazzine c’è un amico più grande di cui sono
invaghite: alla faccia dell'originalità (anche mia)...
L’aspetto fisico, comunque, è quello del mio bellissimo bimbo – sigh, cuore di mamma.
Credits: "Restless heart syndrome" è una canzone dei Green Day.
Disclaimer: I personaggi di Jack Twist, di Ennis del Mar e dei suoi
fratelli e di Cassie Cartwright, appartengono ad Annie Proulx.
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua
proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto
apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
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Capitolo 3 *** 3 - Ennis ***
Come sei veramente
Restless heart syndrome
3 – Ennis
Maggio 1984
Jack e C.J. stavano tardando, è vero, ma Ennis mai si sarebbe
aspettato che fosse accaduto loro qualcosa: semplicemente, credeva
avessero perso tempo nei negozi e si fossero fermati a mangiare un boccone. Non sarebbe stata la prima volta.
In precedenza, però, lo avevano sempre chiamato, dal locale
stesso o da una cabina telefonica. Ora, invece, erano le sette
e mezzo e non si erano ancora fatti sentire.
Quando fossero tornati, avrebbe fatto passare loro un brutto quarto
d'ora. O meglio: avrebbe fatto passare un brutto quarto d'ora a Jack. Era
lui l'adulto, era lui che avrebbe dovuto pensare a chiamare a casa e
avvertire del ritardo, e invece a quarant'anni aveva sempre la
stessa testa fra le nuvole di quando ne aveva diciannove.
Accidenti a lui.
Alle otto di sera, quando Ennis si era
ormai fumato un pacchetto
intero di sigarette, indeciso se chiamare la polizia o prendere il
furgoncino e andare verso Casper, sperando di
incontrare Jack e C.J. per strada, squillò il telefono.
Twist, adesso mi senti,
pensò Ennis, in parte sollevato, in parte furioso. Forse Jack e
C.J. si erano davvero fermati a mangiare qualcosa, e per qualche motivo
a lui sconosciuto non avevano avuto la possibilità di
avvisarlo.
"Pronto", disse, con la voce alterata da collera mista ad ansia.
"Signor del Mar?" domandò una voce femminile.
"Sono io", replicò Ennis, colto di sorpresa. "Con chi parlo, mi scusi?"
"Mi chiamo Frances Collins", rispose la voce. "Sono lo sceriffo della contea."
Le gambe di Ennis iniziarono a tremare. Non era Jack, era lo sceriffo, e per di più uno sceriffo donna. "Cosa..." iniziò, non sapendo come continuare.
Calma. Calma, magari vuole solo chiederti gli orari domenicali del maneggio.
"Signor del Mar", disse la Collins. "La chiamo dall'ospedale di Casper. Ora mi ascolti, c'è stato un incidente..."
"Jack e C.J. stanno bene, vero?" l'interruppe Ennis, con la gola chiusa.
"Può raggiungerci qui al pronto soccorso?" domandò lei.
"Come stanno Jack e C.J.?" insisté Ennis, con voce troppo
stridula. Quella donna lo stava facendo innervosire, e già aveva
di che essere nervoso per conto proprio.
"La bambina è in stato di shock, ma sta bene", si arrese lo sceriffo. "E' stata lei a dirmi di chiamare questo numero."
"E Jack? Come sta Jack?"
"Senta, non le posso dire di più. E' stato picchiato, e..."
"Picchiato?" gridò
Ennis. Si accorse di essere scosso da un tremito violento. "Non
è stato un incidente, allora. Che è successo?"
"Mi lasci parlare con lui", la voce di C.J..
"Ma..." obiettò lo sceriffo.
"La prego..."
La Collins passò la cornetta a C.J., che mormorò: "En..."
"Piccola, come stai? Stai bene, vero?"
"Io... io sì..." C.J. stava per scoppiare in lacrime. "Ma papà... En, mi dispiace... m-mi dispiace..."
"C.J., che è successo?" esclamò Ennis, cercando di mantenere
la calma e non riuscendoci. "Come sta tuo padre?"
"Junior Thompson ci ha aggrediti", singhiozzò C.J.. "George
Thompson Junior... erano in tre... lui aveva un cacciacopertone..."
"Cosa?" Proprio come C.J.
un'ora prima, anche Ennis si sentì piombare in un incubo. Non
c'era altra spiegazione: quello che stava succedendo non poteva essere
reale. Doveva essere un incubo, o uno scherzo... magari una Candid Camera, come alla televisione. Fra pochi minuti Jack e C.J. e quella maledetta sceriffa
sarebbero saltati fuori e avrebbero gridato "Scherzetto!", e allora
sì che lo avrebbero sentito: se li sarebbe mangiati vivi.
"Avrei dovuto dirvelo", pianse C.J.. "Lui… io non credevo che potesse… non avrei mai
creduto…"
"Cosa, C.J.?" domandò Ennis. "Cos’è che non
credevi? Come sta tuo padre?"
Lei scoppiò in lacrime disperate, e la Collins le prese il
ricevitore dalle mani: "Signor del Mar, la ragazzina è troppo
sconvolta. Venga
qui al pronto soccorso il prima possibile."
"Mi dica come sta Jack, dannazione!" esplose allora Ennis. Con C.J. si
era trattenuto, per evitare di spaventarla più di quanto
già non lo fosse, ma con la Collins, che avrebbe dovuto essere a casa a far la calza anziché giocare ai pistoleri, poteva tranquillamente lasciarsi andare. "Cosa gli hanno fatto? E' vivo, almeno?"
"Signor del Mar", disse lo sceriffo, con calma. "Capisco che sia
sconvolto, ma..."
"Cazzo, potrà dirmi almeno se è vivo!"
"E' vivo", si arrese lei. "Ma è grave. Davvero, non posso dirle di più... lo stanno visitando proprio ora."
Ennis si rese conto che l'unica cosa da fare era correre all'ospedale.
"Okay, sto arrivando", disse. Buttò giù e si prese la
faccia fra le mani. "Cazzo", bisbigliò. "Cazzo.
Cazzo. Oh, cazzo."
Di nuovo un Thompson. Prima il padre, ora il figlio.
Peggio che una maledizione.
L'incidente, come lo aveva definito quella dannata sceriffa, era
accaduto a poco più di cinque miglia dal ranch, davanti al ponte
sul Platte, a pochi metri da dove iniziava il frutteto dei
Williams. La Hummer blu di Jack era parcheggiata sul lato
opposto della strada, con lo sportello del passeggero aperto, e intorno
ad essa, due agenti di polizia, la cui auto era parcheggiata poco
distante, stavano facendo i loro accertamenti. Stava iniziando a fare
buio, ma c'era luce a sufficienza perché Ennis potesse vedere
una grande chiazza rossa sull'asfalto e, poco distante, lo
Stetson color crema di Jack, quello che C.J. gli aveva regalato
per la
festa del papà. Anche il cappello era tutto macchiato.
Cazzo.
Ennis non avrebbe voluto fermarsi, non avrebbe voluto vedere quel
sangue troppo da vicino, senza contare che avrebbe dovuto correre in
ospedale, ma il
suo corpo, come munito di volontà propria, non diede ascolto
alla sua mente:
fece rallentare il furgone, attraversando la strada, e lo fece
fermare proprio di fianco ai poliziotti, tirando giù del tutto
il finestrino.
"Scusate..."
"Signore?" fece un agente.
"Che è..." Ennis non riusciva a spiccicare parola. Forse
fermarsi era stata una cattiva idea. "Che è successo qui?"
"Lei chi è?" domandò l'agente.
"Io..." Ennis non riuscì a impedirsi di guardare la macchia di
sangue sull'asfalto, e il suo stomaco si contrasse. Deglutì. "Io sono... mi chiamo del Mar.
Sono il... mi hanno chiamato dall'ospedale... quella è la jeep
del mio..." Cristo, se era difficile. "Del mio socio. Jack Twist. Lui e sua figlia... sembra che siano stati..."
"Sono stati aggrediti", confermò il poliziotto.
"Lei sa mica... ha visto niente?" Gesù, sto facendo la figura dell'idiota. "Voglio dire... ha visto Jack? Come..."
"No", fece l'agente. "Noi stiamo solo facendo dei rilevamenti, quando siamo arrivati l'ambulanza era già partita."
"Ah", fece Ennis. "Grazie lo stesso."
"Si figuri. Buona fortuna."
"Grazie", disse Ennis, sollevando una mano in segno di saluto. Ingranò la prima e ripartì sgommando.
Fermarsi era stata una pessima idea.
C.J. era seduta su una panca della sala d'aspetto del pronto soccorso,
vicino a quella che doveva essere Frances Collins, alias la sceriffa, che le teneva un braccio intorno alle spalle. Aveva smesso di piangere, ma il
suo viso era stravolto e pallidissimo. Quando vide Ennis
correrle incontro, si alzò e si rifugiò fra le sue
braccia, e riprese a singhiozzare.
"En… En, mi dispiace…"
"Sst… buona, piccola, buona", sussurrò Ennis,
stringendola e sentendola fragile e tremante. "Va tutto bene, adesso ci sono io. E' tutto a
posto."
"No che non è a posto!" esclamò lei. "Papà… papà è… Junior voleva
ammazzarci tutti e due!"
"Calma, C.J.", disse Ennis. "Dov’è tuo padre?"
La Collins si avvicinò. Era una donna alta, sui trentacinque,
capelli castani tagliati corti sotto il cappello, niente trucco, spalle
larghe, seno inesistente. A completare l'opera, Ennis notò che,
dai risvolti delle maniche, fuoriuscivano alcuni tatuaggi, fra i
quali un pugnale
sull'interno dell'avambraccio sinistro.
Ecco, pensò. Siamo proprio in buone mani.
"Lei è il signor del Mar?" domandò lo sceriffo. "Io sono..."
"Dov’è Jack?" quasi gridò Ennis. Fu
spaventato dal suono della propria voce: stava gridando e stava per
mettersi a piangere, proprio quando avrebbe dovuto fare coraggio a C.J.. "Come sta?"
"E' ancora dentro", rispose lo sceriffo. "Ci hanno detto di aspettare qui."
"Cazzo, dannazione", sbottò Ennis, e C.J.
sussultò fra le sue braccia: "L’hanno
p-p-picchiato", singhiozzò. "Avevano un
cacciac-c-copertoni… e lui mi ha di-difesa… m-ma erano in
t-t-tre…"
"C.J…." Ennis le carezzò la testa.
"Mi ha d-detto di scappare", continuò C.J.. "E io sono… s-sono
scappata… En, io sono scappata e ho lasciato che papà
venisse picchiato!" La sua voce si ruppe, ed Ennis
la strinse: "Tranquilla…
tu non potevi fare niente. Potevi solo scappare."
Con la coda dell'occhio, vide Frances Collins allontanarsi e
raggiungere il suo vice, un uomo corpulento che doveva essere
più anziano di lei, in piedi vicino alla macchinetta delle
bevande, dall'altra parte della stanza. Quella donna doveva avere
guardato un
pò troppi film western, e doveva essersi identificata un
pò troppo con John Wayne anziché con la bella-da-salvare
di turno, ma almeno riusciva a capire quando era il momento di
togliersi dai piedi.
"En..." fece C.J., esitante. "Ti ricordi il tipo che mi ha riaccompagnata a casa?"
"Sì", disse lui, intuendo quello che C.J. gli avrebbe raccontato.
"Era George Thompson Junior", disse infatti lei. "L'ho conosciuto quel giorno... ma non credevo
che potesse farci… una cosa del genere. Mi ha aiutata con Mark e i suoi scagnozzi, sembrava…
sembrava… amichevole. Anche se…"
"Anche se?" la incalzò Ennis.
"Mi ha detto delle cose strane", ammise
lei. "Mi ha detto… che papà non è mio padre.
Mi ha detto che… che io sarei sua sorellastra. Io sarei la
figlia di George Thompson." Poi, guardandolo dritto in faccia: "E'
vero, En? E' così?"
"Piccola mia", riuscì solo a mormorare Ennis.
Lei si sciolse dall'abbraccio: "Perché non me l'avete mai detto? Perché?"
"C.J.... avremmo voluto, ma..."
"Perché, Ennis?"
"Perché non sapevamo come dirtelo", ammise Ennis. Era la verità. "Ci sembrava... troppo."
"Cos'aspettavate, che lo venissi a sapere direttamente da quel bastardo?" C.J. era addolorata e arrabbiata.
"No. Ma... oh, piccola, mi dispiace", Ennis non era mai stato bravo con
le parole, ma doveva cercare, in qualche modo, di rimediare il danno.
"Credevamo che fossi ancora... troppo piccola. Volevamo aspettare
ancora un pò... e più aspettavamo, e più dirtelo
diventava difficile... e..."
"Dannazione!" esclamò C.J., portandosi rabbiosa i pugni alle
tempie.
"Ti capisco, se sei arrabbiata", seguitò
Ennis. Più cercava di calmare C.J.,
più sembrava che lei si innervosisse. Forse avrebbe fatto meglio a
tacere. "Ma... non prendertela con tuo padre, per favore. Non è colpa
sua. Lui avrebbe voluto dirtelo... ero io che..."
Lei lo guardò, gli occhi ancora pieni di lacrime. "C'è qualcos'altro che mi avete tenuto nascosto?"
"Nient'altro", disse lui.
"Nient'altro?" insisté lei.
"Nient'altro", confermò Ennis.
"Come faccio a crederti, En?" domandò lei. "Come faccio, adesso?"
"Non lo so", sospirò Ennis, rassegnato. "Perdonami, se puoi. E non avercela con tuo padre."
Lei tacque per un attimo, la testa bassa. Poi rialzò lo sguardo: "Guarirà, vero?"
Ennis sentì di nuovo le lacrime salirgli alla gola, agli occhi.
Aprì le braccia, accogliente. "Ma certo. E' forte come un
toro."
"Sì, lo so", confermò C.J., con gli occhi lucidi. "Mi ha difesa, da solo contro
quei tre."
si avvicinò ad Ennis, incerta.
"Vieni qui", fece Ennis. Aveva un disperato bisogno di abbracciarla, di farsi abbracciare. "Per favore."
"Il mio papà", mormorò C.J., e si rifugiò di nuovo
fra le braccia di Ennis, nascondendo la faccia nel suo petto. "Io gli
voglio tanto bene. Non m'importa se
non è... il mio vero papà. Sarà sempre il mio
papà lo stesso."
Ennis la strinse. Non sapeva più cosa dire.
Pochi minuti dopo, tornò la Collins, accompagnata dal vice. "Va meglio, C.J.?" domandò.
"Sì, Frances, grazie", rispose C.J..
"Senta, signor del Mar", disse lo sceriffo, tendendogli la mano destra
e
puntandogli addosso un paio di occhi blu. Ennis notò costernato
la farfalla tatuata sulla mano, accompagnata da una rosa all'interno
del polso, il cui
gambo si snodava intorno al braccio come un serpente. Chissà
quanti altri ne aveva addosso... e chissà come avevano fatto a
eleggerla sceriffo. "Non
le sto molto simpatica, questo l'ho capito. Ma devo farvi
qualche domanda, e ho bisogno di tutta la sua collaborazione."
"Avete già trovato quei figli di puttana?" domandò Ennis,
stringendole la mano e mettendoci più energia del dovuto. La Collins non si fece intimidire e rispose con una stretta
che gli lasciò il segno delle cinque dita.
"E' per questo che dovete raccontarmi quello che sapete", disse poi.
"C.J. mi ha già raccontato qualcosa, ma era troppo sconvolta e
non ho voluto insistere. Ora però, che c'è anche lei...
C.J., te la sentiresti di dirmi tutto quello che è successo,
dall'inizio?"
C.J. annuì. Si sedettero tutti e quattro sulle panche, e C.J.,
a volte con calma, a volte con le lacrime agli occhi, raccontò
tutti i dettagli di quello
che era successo: quando aveva conosciuto Junior Thompson, la sua
decisione
di non dire niente a casa, il pomeriggio trascorso con Jack a fare
compere, e infine l'aggressione di Junior e dei suoi due complici. Dopo
che Jack l'aveva fatta scappare, si era messa a correre più
veloce
che poteva in direzione del ranch, inseguita dai due ragazzi. Aveva
quasi raggiunto il campo di grano degli Smith, non ancora mietuto, e
aveva pensato di buttarsi in mezzo alle spighe con la speranza di nascondersi, quando
aveva notato una
Buick arrivare da Edgerton: così si era invece lanciata in mezzo alla
strada, sbracciandosi e gesticolando e gridando, e l'uomo al volante,
un cinquantenne che stava andando a trovare la sorella insieme al
figlio sui venticinque, si era fermato. Quelli che la stavano
inseguendo dovevano avere avuto paura, e si erano dileguati nel
campo alla loro destra proprio come aveva pensato di fare lei.
"Mi dispiace, En", si era scusata C.J.. "Sono di nuovo salita su con degli sconosciuti."
"Non potevi fare altro", aveva detto Ennis. "Anzi, sei stata molto coraggiosa."
"No", aveva detto lei. "Sono scappata, mentre papà veniva picchiato."
"Invece sì. Hai chiamato aiuto e hai evitato che lo massacrassero."
Tornati sul luogo dell'aggressione, avevano trovato la jeep con lo
sportello aperto dalla parte del passeggero, proprio come l'aveva vista Ennis, e Jack a terra bocconi,
incosciente, che perdeva sangue da una brutta ferita alla testa:
nessuna traccia del pick-up verde, né di Junior Thompson. Come in un film, C.J.
si era buttata su suo padre, chiamandolo e piangendo, e mentre l'uomo
che l'aveva aiutata cercava invano di calmarla, suo figlio era risalito
sulla Buick e, dalla fattoria dei Williams, distante meno di un miglio,
aveva chiamato l'ambulanza e la polizia. Dal momento dell'aggressione,
erano trascorsi meno di dieci minuti.
"Bisogna che mettiate sotto sorveglianza il ranch", disse Ennis. "E la stanza di Jack."
"Purtroppo, non ci sono gli estremi per una cosa del genere", rispose la Collins. "Almeno per ora."
"Sta scherzando?" sbottò Ennis. "Quello squilibrato potrebbe voler terminare quello che ha
iniziato, e non c'è dubbio che sia abbastanza fuori di testa per riprovarci."
"En..." fece C.J., stringendosi al suo braccio, spaventata.
"Tranquilla", disse Ennis. "Dì che me lo trovo davanti, e gli faccio ingoiare il pavimento."
C.J. sorrise debolmente.
La Collins sospirò. "L'ospedale è comunque sorvegliato",
spiegò. "E per quanto riguarda il vostro ranch, la zona è
già tutta sotto controllo, e stiamo lavorando per fare
altrettanto con l'abitazione di Junior Thompson e con tutti i luoghi
che frequentava abitualmente."
"Quindi, secondo lei non dobbiamo preoccuparci."
"Direi di no", confermò lei, con un sorriso. "Voi preoccupatevi del signor Twist, che a Thompson ci pensiamo noi."
"Speriamo", fece Ennis.
"Allora, noi andiamo", disse la Collins, alzandosi, seguita dal vice.
"In bocca al lupo per tuo papà, C.J.", lo sceriffo l'abbracciò. "Vedrai che andrà tutto bene."
C.J. ricambiò l'abbraccio, con gli occhi di nuovo lucidi: "Sì..."
Ennis si era aspettato anche un altro tipo di domande: invece, lo
sceriffo non aveva minimamente sfiorato l'argomento. "Scusi",
iniziò.
"Sì?" fece la donna.
"Lei... non vuole sapere chi sono io?" domandò Ennis, non senza imbarazzo. "Voglio dire..."
"Lo so già", disse la donna. "C.J. mi ha detto tutto."
"Tutto?" domandò Ennis, mentre C.J. chinò la testa.
"Lei vive con C.J. e suo padre", asserì la Collins, con un sorriso storto. "Ed è socio in affari del signor Twist dal '67."
Ennis deglutì.
"E' il suo unico parente", continuò lo sceriffo. "Ed è
l'unico a cui C.J. si possa rivolgere, a parte gli Hamilton, in caso di
impedimento di suo padre."
"Bè..."
"Non ci sono documenti che lo certifichino", seguitò la donna.
"A parte l'atto di comproprietà del terreno, credo... e
naturalmente, l'attaccamento che questa bambina ha nei suoi confronti."
C.J. si guardò i piedi, imbarazzata, mentre Ennis si
trovò a corto di parole. Quella donna non era scema, aveva
capito tutto, ma faceva finta di niente.
"Grazie", fece Ennis, e le porse la mano.
"Non c'è di che", rispose la Collins, e ricambiò la stretta. "Abbia cura di C.J. e del signor Twist."
"Lo farò."
Ennis e C.J. rimasero ad attendere seduti, l'uno accanto all'altra,
nella sala d'aspetto del pronto soccorso. Lui le offrì di
prendere qualcosa da mangiare e da bere dai distributori automatici, e
lei disse che non aveva appetito, ma accettò di prendere un
tè, e mentre beveva, Ennis le raccontò di come avevano
conosciuto Cassie, della notte in cui lei aveva tentato di suicidarsi,
e della loro decisione (della decisione di Jack)
di ospitarla al ranch in cambio di qualche faccenda domestica. Non fu
semplice per Ennis, e il fatto che fosse un pessimo oratore non lo
aiutò, ma C.J., almeno apparentemente, sembrò capire.
Forse era talmente sconvolta da quello che era successo due ore prima
da non riuscire ad assimilare appieno il racconto di Ennis, e quando la
situazione fosse tornata normale, lo avrebbe tempestato di domande; ma
avrebbero affrontato la questione al momento opportuno, se fosse
capitato.
Dopo una mezz'ora, arrivò un'infermiera: Jack era
stato
trasportato nel reparto di terapia intensiva, potevano raggiungerlo
là. Era stabile, ma grave: aveva quattro costole incrinate e una
fratturata, e contusioni ed escoriazioni dappertutto. Il peggio
però era la botta che
aveva preso alla testa: dalla TAC risultava un grosso versamento
di sangue nel lobo
parietale.
"Ma... si rimetterà?" domandò Ennis. "Andrà tutto a posto, vero?"
"Questo lo deve chiedere al primario", fu la laconica risposta.
"Andiamo", fece Ennis.
Raggiunsero il reparto, ed Ennis notò un medico e un'infermiera uscire da una delle stanze.
"Dottore", lo chiamò.
"Sì?" il medico si voltò. Era un ometto sui cinquanta, con un assurdo papillon a righe blu e rosse invece della cravatta, e una
capigliatura grigia e scompigliata che lo faceva somigliare a uno
scienziato pazzo.
"Stiamo cercando Jack Twist", spiegò Ennis. "Ci hanno detto che l'hanno ricoverato qui... lei è la figlia."
"E' in questa stanza", rispose il dottore. "L'hanno appena portato."
"Come sta?" domandò C.J., sulle spine.
Il medico esitò: "Signor..."
"Del Mar", rispose Ennis, tendendogli la mano. "Sono un amico di Jack, e suo socio."
"Io sono Sam Kowalski, il primario di questo reparto",
rispose il medico, ricambiando la stretta. "Signor del Mar, forse sarebbe meglio che la ragazzina..."
"No", fece C.J.. "Voglio sapere anch'io."
Kowalski guardò Ennis, che annuì: "Se per lei va bene", disse, accennando a C.J., "Va bene anche per me."
"Il signor Twist è molto grave", spiegò
allora Kowalski, con aria dispiaciuta: la stessa che tutti i
medici assumevano quando dovevano comunicare una brutta notizia ai
parenti del ricoverato. "Per ora, non possiamo sciogliere la
prognosi. Ha quattro costole incrinate e una fratturata... ma questo
è il male minore, purtroppo. Il problema è il colpo che
ha preso alla testa, che gli ha provocato una contusione cerebrale, con
un grosso ematoma al lobo parietale.
Se non inizia a riassorbirsi entro le prossime quarantott'ore,
sarà necessario sottoporlo a un intervento chirurgico piuttosto delicato... e
in questo
caso, dovremo trasferirlo all'ospedale di Cheyenne, perché qui non ci sono le attrezzature necessarie."
C.J. si strinse ad Ennis, e lui le passò un braccio intorno alle
spalle, maledicendosi per non averla fatta allontanare.
Il medico dovette notare che stava impressionando la ragazzina,
perché cercò di indorarle la pillola: "Non è
detto,
naturalmente. L'invervento potrebbe anche non essere necessario, e tuo
padre sopravvivere e guarire senza problemi. E' un uomo giovane e
robusto."
"Ma
se guarisse e avesse
dei problemi", iniziò Ennis, temendo qualcosa che per Jack
sarebbe stato peggio della morte. "Che genere di problemi
potrebbero essere? Il suo cervello... non ha sofferto, vero? Non
resterà..." la parola che gli veniva in mente era ritardato, ma Ennis non riuscì a pronunciarla, e non solo per evitare di spaventare C.J..
"Questo
non lo sappiamo ancora", ammise Kowalski. "Potremo dirlo solo nei
prossimi giorni. Comunque... potrebbe soffrire di perdita della
sensibilità, o
paralisi, soprattutto nel lato sinistro del corpo, e avere
difficoltà di movimento e disturbi del linguaggio."
C.J. chinò la testa, ed Ennis si passò una mano sugli occhi: "Cristo."
"Mi dispiace", sospirò il medico. Non c'era altro da aggiungere.
Ennis sentì l'immagine di Earl Bowers, massacrato e
sanguinante, affiorargli in testa, ma cercò di scacciarla.
Non poteva permettersi di essere debole, c'era C.J. che aveva bisogno
di lui.
Jack era sdraiato supino, la testa bendata, una flebo al braccio sinistro, e
sembrava addormentato. Il suo viso
era tumefatto, escoriato, praticamente irriconoscibile: sembrava quello
di un pugile arrivato all’ultimo round senza essere mai riuscito
a sferrare un pugno. Jack però aveva combattuto, le sue mani
erano gonfie, le nocche escoriate e livide. Aveva difeso C.J., malgrado
si fosse
trovato solo e disarmato contro tre uomini, di cui uno armato di cacciacopertoni.
In tanti anni, Ennis ormai l'aveva visto malato o ferito svariate volte (quando aveva partecipato a quei maledetti
rodei si era infortunato più sì che no, finendo puntualmente al pronto soccorso), ma mai gli era
sembrato così fragile e indifeso.
Forse anch'io sembravo così. Forse tutti sembriamo così, quando siamo in pericolo di vita.
"Jack…"
Jack girò la testa verso la voce, aprì lentamente gli occhi. Quello
destro era normale, benché vitreo; quello sinistro invece era ridotto a una fessura in mezzo alla pelle gonfia.
"Mmm...?"
"Sono io", disse Ennis, avvicinandosi, entrando nella sua visuale e carezzandogli il braccio. "Sono Ennis."
"Ci sono anch'io, papà", intervenne C.J., portandosi di fianco a Ennis.
"Ennis", bisbigliò Jack, con aria confusa. "Ora... di andare..."
"Piccolo", ripeté Ennis, il cuore gonfio di angoscia. "Mi riconosci?"
"Mi dispiace..." mormorò Jack. "Non volevo... farti... male..."
"Ma cosa sta dicendo?" domandò C.J., spaventata.
"Ti ricordi cos'ha detto il dottore?" disse Ennis, cercando di
sembrare calmo. "A causa della botta alla testa e degli antidolorifici,
per qualche giorno potrebbe anche dire delle cose senza senso."
"Sì, ma..."
"Non preoccuparti", Ennis tentò di sorridere. "Gli è già
capitato dopo una gara di rodeo. Pensa, non mi riconosceva, non ricordava nemmeno
il proprio nome. Poi si è addormentato, e quando si è svegliato il mattino dopo, stava di nuovo bene."
Lei non era convinta. "Papà", disse, prendendo la mano di Jack. "Sono io. Sono C.J.."
"Piccolo... coniglietto... scorticato..." biascicò Jack. "Non... non la porti... v-via... prego..."
"Papà", disse lei, stringendogli la mano. "Sono qui, stai tranquillo. Non me ne vado."
"La testa", gemette Jack. "Scoppia..." poi chiuse gli occhi, e sembrò perdere conoscenza.
"En", fece C.J..
"Lasciamolo tranquillo", rispose Ennis. "Lasciamo che si riposi."
"Noi stiamo qui, vero?"
"Non vuoi andare a casa a dormire un pò? Posso chiamare la zia Jan e..."
"No", fece lei, risoluta. "Ho promesso a papà che sarei rimasta. E comunque, non ho voglia di dormire."
"In effetti, nemmeno io."
Ennis chiamò Janice dal telefono a gettoni nella sala d'aspetto, e le spiegò cos'era successo. Lei maledisse i
Thompson fino alla centesima
generazione e si
offrì di andare a prendere C.J. e portarla a casa con sé. C.J. rifiutò di nuovo: preferiva restare in
ospedale, almeno
finché suo padre non l'avesse riconosciuta.
"In ogni caso, adesso veniamo lì", decise Jan.
"No, meglio di no", fece Ennis. "E' tardi, è già quasi mezzanotte. Aspetta domani mattina, Jan."
"Ennis, sei sicuro? Guarda che..."
"Certo. Non preoccuparti. Io e C.J. ce la caviamo."
La notte passò abbastanza tranquilla: Jack rimase quasi sempre
incosciente, solo una volta si portò la
mano alla fronte e si lamentò per il mal di testa e la nausea.
Ennis e C.J., impotenti e silenziosi, lo vegliarono, seduti ai due lati
del letto.
Poi,
verso le cinque e mezzo di mattina, quando Ennis stava per
proporre a C.J. di andare a prendere un caffè e qualcosa da
mettere sotto i denti,
si accorse che Jack si era nuovamente svegliato e li stava guardando. I
suoi occhi erano ancora confusi, ma non sembravano spenti e vitrei
come la
sera prima.
"Jack", tentò Ennis. "Ehi, mi riconosci?"
"Ennis", rispose Jack. "Ciao. Ciao, principessa." Sorrise, e malgrado la sua voce suonasse fioca e debole, Ennis sentì che il cuore gli
veniva liberato da un macigno.
"Ehi, papà", disse C.J., altrettanto sollevata.
"Che è successo?" domandò Jack. "Sono... in ospedale?"
Ennis gli posò una mano sulla testa. "Non ti ricordi?"
"Ricordare... cosa?"
"Junior Thompson ci ha aggrediti", intervenne C.J.. "Io sono riuscita a scappare, ma tu..."
Jack sembrò confuso per un attimo, poi i suoi occhi vennero
attraversati da un lampo di consapevolezza. "Gesù", esclamò. "Come
stai, C.J.? Non ti hanno fatto niente, vero? Non ti hanno..."
"Io sto bene", rispose lei. "Tu mi hai difesa, non ricordi? Mi hai difesa e mi hai fatta scappare."
Jack ridacchiò debolmente: "Insomma. Mi sono fatto legnare di brutto."
C.J. iniziò a piangere, i pugni sulla bocca.
"Sono così inguardabile?" domandò Jack.
Lei gli prese la mano fra le sue, sempre singhiozzando. "Ti fa tanto male?"
"Un po’… non tanto."
"Il dottore ha detto… c-che la tua faccia tornerà
come prima", disse lei, e poi pianse più forte.
"Ehi, principessa… se me lo dici così, non ci credo."
"Scusa… ho avuto… tanta paura", pianse lei.
"Vieni qui, abbracciami", disse Jack, e lei non se lo fece ripetere e l'abbracciò piano.
"Papà, mi dispiace", singhiozzò. "Sono scappata... e ti ho lasciato lì, con quelli..."
"Sst", fece lui, carezzandole la testa. "Te l'ho detto io di scappare,
no? Se ti avessero fatto del male, non avrei mai potuto
perdonarmelo."
"Per fortuna è passata un'auto", disse lei, sciogliendosi
dall'abbraccio e sedendosi sul letto di fianco a lui, tenendogli la mano. "C'erano questo
signore e suo figlio che stavano andando a trovare la zia. Li
ho fermati e siamo tornati indietro, e Junior e i suoi
erano scappati."
"Tu... conoscevi già George Thompson Junior?" domandò Jack.
"Jack, non è il momento", intervenne Ennis. "E' meglio che non
ti stanchi. Avremo tutto il tempo per parlare di questa storia
quando starai meglio."
"Ennis, per favore", protestò Jack. "C.J., lo conoscevi? E che ti ha detto?"
Ennis sospirò, guardò C.J.: "Tuo padre è testardo come un mulo."
"Conoscevo Junior", ammise C.J.. "E' il tipo che mi ha
salvata da Mark e dai suoi scagnozzi. Quella volta, mi aveva detto
tutto. Che io sarei la sua sorellastra... e che quel George
Thompson, quel bastardo che ha ammazzato mia madre, sarebbe mio
padre naturale."
Mentre C.J. parlava, gli occhi di Jack si riempirono di lacrime. "Mi dispiace, C.J.... io... io..." balbettò.
"Stai tranquillo, papà", l'interruppe lei,
carezzandogli la mano, rassicurante. "A me non me ne frega proprio niente di quello che ha detto Junior." passò lo sguardo su di Ennis, poi tornò su Jack. "Io
quel Thompson non lo conosco, è solo
l’assassino di mia madre, e basta. La mia famiglia è un'altra."
Ennis la guardò, stupefatto: in quel momento, C.J. gli sembrò una piccola adulta.
Jack, commosso, era senza parole.
"Il mio vero papà sei tu", riprese lei, sempre rivolta a
Jack. Si portò la sua mano al viso, la baciò piano. "Sei il mio papà, e ti voglio tanto bene."
"Anch'io te ne voglio, C.J.", mormorò Jack. "Non sai quanto."
Lei sorrise. "Piuttosto... posso chiederti una cosa?"
"Spara."
"Visto come stanno le cose, volevo
chiederti… posso chiamare papà anche Ennis?"
"Ragazzina..." fece Ennis.
"Siete tutti e due i miei papà", spiegò lei. "Nessuno mi
ha concepita, ma tutti e due mi avete allevata... senza offesa,
ma penso che sia giusto che chiami così anche Ennis."
"Per me sarebbe più che giusto", sorrise Jack. "Sarebbe bellissimo."
"En", disse lei, "Allora, posso chiamarti papà?"
"Non sai quanto lo vorrei", disse Ennis, con il cuore che straripava di
gioia. Abbracciò C.J. e C.J. lo strinse: "Papà... papà En."
"La mia piccola", sussurrò lui, ringraziando che lei non lo
potesse vedere: aveva di nuovo le lacrime agli occhi, brucianti e
salate, ma questa volta erano di felicità e commozione.
"Guardalo, l'hai commosso", commentò Jack
quando i due si staccarono, Ennis asciugandosi gli occhi. "Ha sempre desiderato che tu lo
chiamassi così, solo che non voleva ammetterlo."
"Non dire fesserie", grugnì Ennis, imbarazzato. Jack sorrise e C.J. ridacchiò.
"Senti, principessa... sto morendo di sete", disse Jack. "Mi porteresti un bicchiere d'acqua?"
"Ma certo, subito", rispose lei, e uscì di corsa.
"E' una brava ragazza", disse Ennis.
"E' meravigliosa", corresse Jack, e chiuse gli occhi con un sospiro, le labbra compresse in una smorfia di dolore.
"Jack, davvero... come stai?" domandò Ennis. Adesso
erano soli, potevano parlare tranquillamente senza il timore di
preoccupare C.J..
"Ho male dappertutto", rispose Jack. "Faccio fatica a respirare... ma soprattutto mi fa male la testa, mi
sembra che me la stiano martellando. Dimmi la verità, Ennis,
sono ridotto tanto male?"
Ennis non sapeva cosa rispondergli, così scelse le stesse parole
che Jack stesso aveva usato con C.J.: "No... non tanto."
"Ennis."
"Bè..."
Ennis decise di essere
sincero: Jack sembrava lucido, e perfettamente in grado
di gestire la situazione. "Hai quattro costole incrinate,
una fratturata, contusioni dappertutto, e una contusione
cerebrale. Il vero problema sembra essere quello... se l'ematoma che
hai
nel cervello non si riassorbe abbastanza in fretta, dovranno operarti."
"Gesù", mormorò Jack.
"Ma non è detto", cercò di rassicurarlo Ennis,
prendendogli la mano. "Anzi, sembra proprio che vada meglio. Ieri sera
deliravi, mentre adesso..."
"E... la faccia?" domandò Jack.
"Sembra quella di un pugile sfigato all'ultimo round", disse Ennis, cercando di sorridere, e gli carezzò
piano una guancia con il dorso di una mano. "Ma non c'è niente
di rotto, tornerà come prima."
"Questa volta ho un pò paura", ammise Jack. "Anzi, no... me la faccio proprio sotto."
"Vedrai che andrà tutto bene. Stai tranquillo."
"L'importante è che C.J. stia bene", disse Jack, chiudendo gli
occhi e sospirando profondamente. "Avrei preferito morire, piuttosto
che facessero del male a lei."
"Jack..."
Jack riaprì gli occhi, guardò Ennis. "Sai Ennis, l'unico pensiero che avevo in testa era, Questa volta no.
Questa volta, se doveva succedere qualcosa a qualcuno, doveva succedere
a me. Questa volta non potevo permettere che facessero del male a
qualcuno a cui tengo tanto.
Piuttosto... quel Junior Thompson..."
"E' matto come suo padre", sentenziò Ennis.
"Voleva vendetta", disse Jack. "Diceva... che io e Cassie e C.J. gli abbiamo distrutto la famiglia."
"Non che ci fosse molto da distruggere."
"Già. Ma dov'è ora?"
"Non si sa. La polizia lo sta
cercando, lui e i suoi due complici. Quando quei bastardi hanno
visto che arrivava gente, se la sono data a
gambe."
"Oh, Signore", fece Jack, portandosi una mano alla fronte. "E se quello psicopatico volesse riprovare a..."
"Non preoccuparti", lo interruppe Ennis. "Lo sceriffo dice che possiamo
stare tranquilli. L'ospedale è sorvegliato, e anche la zona
intorno al ranch."
"Ennis, stai attento", disse Jack. "Guardati le spalle, e non
lasciare mai sola C.J.. Quello è completamente fuori di testa. Aveva due occhi da far paura."
"Tranquillo, piccolo", Ennis gli strizzò l'occhio. "Se me lo trovo davanti, gliene do tante da farlo rinsavire."
Jack ridacchiò, imbarazzato. "Io non ne sono stato capace."
"Sei stato molto coraggioso, invece."
"Nah", sbuffò Jack. "C.J. è stata coraggiosa. Io le ho prese e basta."
Jack si riaddormentò, e per tutta la mattina continuò ad
alternare momenti di incoscienza a momenti di delirio. Alle nove
arrivarono Janice e Matthew: Jan si offrì di dare il cambio a Ennis, che aveva
bisogno di riposare, ma lui volle restare fino a quando non fosse
tornata la Collins ad aggiornarlo sulle ricerche di Junior, mentre C.J.
si rassegnò a tornare al ranch con Matt.
Un'ora dopo, mentre Jack dormiva, arrivò lo sceriffo con il suo vice, Joe
Sutcliffe. Dopo le presentazioni, la Collins domandò subito come stava Jack, accennandogli con la testa.
"Non bene, purtroppo", fece Ennis. "Ha una contusione cerebrale, e se
non inizia a riassorbirsi entro domani dovrà essere operato."
"Mi dispiace", disse la Collins.
"Ogni tanto, riprende conoscenza", spiegò Ennis. "Ma per lo
più, se ne sta qui a dormire, o dice cose senza senso."
"Signor del Mar", disse lo sceriffo. "Mi dispiace. Davvero."
Ennis si strinse nelle spalle: A me, di più. "Piuttosto, lei invece ha buone notizie?"
"In parte", ammise lo sceriffo. Junior Thompson era ancora latitante, ma qualcosa di buono era
successo: i suoi due complici,
Christopher Warner e Brad
Armstrong, quella notte erano stati sorpresi a rubare
un'automobile dalla rimessa della fattoria degli Harper, poco
distante da quella di Jack ed Ennis. Il signor Edward Harper, un arzillo ottantenne, aveva sentito il cane abbaiare in modo
strano, così aveva imbracciato il fucile, era uscito e aveva
sparato
due
colpi in aria mentre i due se la filavano a tutto gas con la sua
Mercedes. Harper aveva chiamato la polizia, che era
già in
allerta e non ci aveva messo molto ad arrivare: e dopo un breve
inseguimento, i due erano stati presi e messi in galera.
Warner e Armstrong, noti a Riverton
per scippi e furti vari, avevano ammesso la loro colpevolezza per
l'aggressione a Jack e C.J., ma avevano dichiarato di non essere
affatto amici di Junior. Erano
semplicemente due avventori dell'Hemingway Café, dove il
ragazzo lavorava come aiuto cuoco: se l'avessero aiutato, Junior aveva
promesso loro un lauto compenso, ma non aveva rivelato loro in cosa
consistesse esattamente il suo piano.
"Ci aveva detto che voleva dare una lezioncina a un frocio che gli stava sulle palle", aveva
spiegato Warner, forse per alleggerire la propria posizione. "Se avessi
saputo che lo voleva ammazzare, e che voleva fare la stessa cosa con una bambina, non avrei mai pensato di partecipare, neanche per tutto
l'oro del mondo."
"Okay", convenne Ennis. "Ma quand'è che riuscirete a prendere quello psicopatico?"
"Presto", rispose la Collins. "Stiamo sorvegliando tutti i luoghi in cui
potrebbe decidere di rifugiarsi, abbiamo diffuso delle foto segnaletiche, e Thompson non è un delinquente
abituale, di sicuro farà un passo falso."
"E se non lo facesse?" Ennis non era tranquillo. Guardò Jack,
incosciente, la testa fasciata, il viso gonfio e tumefatto. "Dovete
fare in fretta, quello voleva ammazzare..." si fermò: stava per
dire qualcosa
che non sarebbe piaciuto alla Collins. Al diavolo, anche a
lui non piaceva quello che lei gli stava dicendo, così terminò: "Il mio compagno e
mia figlia."
Lei sollevò un sopracciglio: "Che il signor Twist sia il suo
compagno lo sapevo", ghignò. "Ma da quando C.J. è
diventata sua figlia?"
"Mi dica piuttosto quand'è che metterete dentro quel figlio di puttana", ribatté Ennis.
"Ennis", fece Jan.
"Signor del Mar", si arrese la Collins. "Gliel'ho detto, lo stiamo
cercando con tutti i mezzi possibili. Siamo andati a casa sua, e...
insomma,
forse abbiamo capito il motivo della sua rabbia."
"Motivo?" sbottò Ennis. "Non c'è motivo per tentare di ammazzare una persona."
"Non ho detto che lo giustifico", disse la Collins.
"E allora?" fece Ennis. "Cos'è successo a quel povero ragazzo per farlo schizzare fuori di testa e decidere di accanirsi sulla mia famiglia?"
"Junior Thompson non è mai
stato un delinquente abituale", spiegò lo sceriffo. "E' sempre
stato un ragazzo fin troppo tranquillo, non sembrava covare alcun tipo
di rancore verso di voi."
"Sono proprio i più tranquilli che esplodono", commentò acida Jan, ed Ennis annuì.
"Pare proprio di sì", confermò la Collins. "Due anni fa, sua sorella
più grande si è
sposata ed è andata ad abitare a Buffalo con il marito, mentre Thompson
e la sorella più piccola sono rimasti a Riverton con la
madre. L'anno scorso, però, sua madre si è ammalata di
cancro, e in meno di tre mesi è morta. La sorellina di tredici anni è andata a vivere con la sorella più
grande e il marito, mentre Thompson è voluto rimanere a Riverton,
da solo, nella casa di proprietà della madre, mantenendosi con il lavoro di aiuto
cuoco all'Hemingway Café."
"E allora, questo dovrebbe giustificare la sua pazzia?" domandò Ennis.
"No", fece lo sceriffo. "Ma come ha detto la signora Hamilton, può darsi che la sua rabbia si sia
talmente accumulata che, infine, è letteralmente esplosa. Ho
parlato con le sue sorelle... sembra che da piccolo venerasse suo
padre, e quello
che è successo undici anni fa lo ha sconvolto oltre misura. La
morte della madre, poi, è stata un colpo tremendo. Le era molto
affezionato, e riteneva suo padre colpevole per la sua malattia. Era
convinto che si fosse ammalata a causa di tutta la sofferenza
che lui
le aveva provocato."
"E allora perché se l'è presa con noi?" sbuffò
Ennis. "Perché suo padre è morto, e non poteva più
prendersela con lui?"
"Forse", convenne la Collins. "Glielo chiederò quando l'avremo preso."
"Voglio chiederglielo io", disse Ennis, duro, e non ebbe bisogno di
voltarsi per sentire su di sé lo sguardo ammonitore di Jan.
Quando lo sceriffo e il suo vice se ne andarono, Ennis si risolse di
andare al ranch a fare una doccia e una dormita, poi verso sera sarebbe
tornato per dare il cambio a Janice per la notte. Finché Jack
non fosse stato fuori pericolo, non voleva lasciarlo solo.
Lo salutò con un lieve bacio sulla bocca, e Jack non reagì.
"Jan, mi raccomando", disse Ennis. "Chiamami, qualunque cosa succeda."
"Tranquillo", rispose lei. "Tu riposati."
Arrivato al ranch, Ennis trovò Matt e Don Wroe ad accoglierlo. C.J.
si era fatta una doccia, aveva mangiato un boccone e ora stava
riposando nella sua stanza, mentre Matt aveva spiegato la situazione a Don, e insieme
avevano organizzato il lavoro per quel giorno.
"Ennis, come va Jack?" domandò Don, con sincera preoccupazione.
"Matt ci ha detto che se l'ematoma che ha in testa non si riassorbe, dovranno trasferirlo a Cheyenne per operarlo."
"E' così", fece Ennis. "Potrebbe rimanerci sotto i ferri... o potrebbe anche rimanere... ritardato...
da ieri sera, è stato coerente solo per una mezz'oretta, questa
notte, e poi..." sentì pungere le lacrime, e le ricacciò
indietro, passandosi l'avambraccio sugli occhi. Non poteva piangere,
non adesso, non davanti a Don e Matt. Avrebbe pianto dopo, da solo.
"Coraggio", disse Matt, e gli batté una spalla. "Andrà tutto bene."
"Matt..."
"Jack è una roccia", confermò Don. "Vedrai che non ci
sarà bisogno di operarlo, e si riprenderà perfettamente."
Ennis sentì le lacrime traboccare, e non fu capace di
trattenerle. "S-scusate", disse, con una mano sulla bocca, e si
precipitò su per le scale, singhiozzando. Si rifugiò in
bagno, e sempre piangendo, come un fiume in piena, si spogliò e
fece una lunga doccia, cercando di tenere la mente sgombra e non
riuscendoci: chissà perché, continuava a venirgli in
mente Earl Bowers, massacrato da Randy Jackson: solo che quello sdraiato a terra, sanguinante, non
era Earl Bowers, era Jack: e colui che lo picchiava non era Randy
Jackson, bensì George Thompson Junior.
Erano quasi le sette di sera: ora di tornare da Jack. C.J. volle andare con Ennis, e lui acconsentì, a
patto che promettesse di tornare indietro con Jan e trascorrere la notte nella
fattoria degli Hamilton.
"Okay", disse C.J.. "Prima di andare, però, dammi cinque minuti.
Voglio andare a salutare i cavalli... oggi non ci sono andata, ero
troppo
stanca."
"Va bene, ma fai presto", fece Ennis, e mentre C.J. usciva, ebbe una folgorazione.
La Beretta 92 che tenevano chiusa a chiave nel terzo cassetto della scrivania, nello studio, da quando George Thompson senior si era intrufolato in casa.
Poteva metterla nel borsone che conteneva gli
effetti personali di Jack e portarla con sé. Giusto per difendersi nel caso quello schizzato di Thompson junior ci avesse riprovato.
Giusto per difendersi. Non voglio ammazzarlo, non ci penso neanche. Io non sono un assassino.
Ne sei sicuro? Se Junior Thompson provasse a finire Jack o a fare
del male a C.J. e tu fossi presente, con una pistola in mano o anche
senza, sei proprio sicuro che non avresti voglia di farlo fuori?
Ennis deglutì. Forse l'idea di portarsi la Beretta era pessima.
Ma se quello psicopatico ci avesse riprovato, una pistola a portata di mano avrebbe fatto parecchio comodo.
Solo per difenderti, pensò Ennis, raggiungendo lo studio. E
comunque, vedrai che non ti servirà nemmeno. Di sicuro,
è già scappato e non pensa neanche lontanamente di
riprovarci.
Ennis prese la chiave dal primo cassetto, ma proprio quando stava per
infilarla nella serratura del terzo, squillò il telefono.
"Pronto", rispose Ennis.
"Signor del Mar?" la voce della Collins. "Sono Frances Collins. Tutto bene lì?"
"Una cosa giusta", fece Ennis. "Io e C.J. stiamo per tornare in
ospedale da Jack. Nessuno ci ha chiamato, quindi suppongo che le sue
condizioni siano..."
"Dov'è C.J.?" lo interruppe la Collins, sbrigativa.
"E' andata nelle scuderie", rispose Ennis. "Senta..."
"Mi ascolti, signor del Mar", disse lei. "Prenda la ragazzina e si
chiuda in una stanza che ritiene sicura. Io e Joe stiamo arrivando
lì."
"Perché, che diavolo..."
"Dieci minuti fa abbiamo ritrovato il pick-up di Junior Thompson. Era
nascosto in mezzo al grano, dove il vostro terreno confina con quello
dei Dickens."
"Oh, Cristo", sibilò Ennis. C.J. era nelle scuderie, da sola: tutti gli operai erano già andati via.
Idiota. L'hai lasciata andare da sola, con quel pazzoide ancora in giro.
"Stia calmo", disse la Collins. "Non è detto che Thompson voglia..."
Ennis buttò giù. Eccome che la Beretta gli sarebbe
servita: se Thompson si fosse ripresentato e avesse anche solo provato
a sfiorare C.J., non avrebbe esitato a sparargli.
Provò ad aprire il terzo cassetto, ma si accorse che non era chiuso a chiave.
E questo cosa...?
Lo aprì di scatto, e per un attimo rimase esterrefatto, come inebetito, la bocca aperta, gli occhi spalancati.
La pistola non c'era.
Quel bastardo è qui in casa.
Ennis alzò la testa, come se qualcuno lo stesse osservando dalla porta.
Sulla soglia non c'era nessuno.
Calma. Magari Jack l'ha spostata perché temeva che C.J. potesse giocarci.
Ma no, te l'avrebbe detto. E C.J. sa bene che non si gioca con le armi.
Quello schizzato è qui da qualche parte, con la mia pistola.
E C.J. è là fuori, da sola.
"Thompson", disse Ennis, avviandosi verso la porta per
raggiungere C.J., guardandosi intorno, attento a ogni minimo rumore.
"Vieni fuori, maledetto bastardo."
Dai, piantala con le paranoie, che non c'è nessuno. Come avrebbe
fatto a entrare, secondo te? Non ci sono segni di scasso da nessuna
parte.
Ennis si portò una mano alla bocca: non c'erano segni di
scasso, perché Thompson poteva essere entrato tranquillamente da
una finestra.
La sera prima, per l'agitazione e la fretta di correre all'ospedale,
aveva dimenticato di chiudere le finestre al piano di sotto: sia gli
scuri che i vetri erano rimasti aperti tutta la notte, e se n'era accorto
Matthew quella mattina.
Idiota. Idiota al cubo. Idiota all'ennesima potenza.
"Papà!" lo strillo di C.J. dalle scuderie gli arrivò chiaro, anche se attutito dalla distanza. "Papà, aiuto!"
Poi uno sparo. E un altro.
"C.J.!" gridò Ennis. Si precipitò fuori
dallo studio, attraversò il corridoio e si fiondò alla porta sul
retro. Uscì e corse verso le scuderie.
Un altro sparo.
"C.J!" ripeté Ennis.
"Papà!" di nuovo C.J..
Per fortuna che potevamo stare tranquilli, pensò Ennis. Maledetta sceriffa dei miei stivali.
Raggiunse le scuderie e spalancò un battente della porta.
Dentro, era tutto un casino. Per difendersi da Junior Thompson, che le
stava puntando contro la Beretta, C.J. gli aveva tirato addosso
tutto quello che poteva: dalle
selle, alle fruste, ai secchi per l'acqua, al fieno dei cavalli, e
infine lo stava minacciando con il forcone, la schiena appoggiata alla
parete. A destra e sinistra, i diciotto cavalli nitrivano e
sgroppavano, terrorizzati e nervosi.
Quando aveva sentito la porta aprirsi dietro di lui, Junior si era voltato. Aveva fieno fra i capelli, sui vestiti.
"Junior Thompson", ringhiò Ennis.
"Papà", fece C.J., fra le lacrime.
"Tu sei Ennis del Mar", disse Junior, puntandogli la
pistola. "Bene. Non pensavo di farti niente, ma dal momento che
sei qui..."
Junior sparò, ma Ennis era preparato. Mentre il ragazzo
parlava, aveva calcolato la distanza che li separava, ed era sicuro di
potercela fare. Spiccò un salto e gli volò addosso, prendendogli il polso
destro e sviando il colpo: la pallottola finì nel soffitto
di legno, mentre Ennis e Junior rotolavano sul pavimento.
"Papà!" gridò di nuovo C.J.. "Papà, stai attento!"
Junior non era forte, Ennis se ne rese subito conto. Uno come lui, un
ragazzo di città che lavorava come aiuto cuoco e al massimo
faceva qualche flessione per tenersi in forma, poteva essere
forte solo con un'arma in mano, e spalleggiato da due
complici. A mani nude non valeva una cicca: ma il
problema era la pistola. Junior non ne voleva sapere di mollarla, e se
un colpo fosse
partito accidentalmente e avesse raggiunto C.J....
Non pensarci. Pensa a disarmarlo, piuttosto.
Ennis riuscì a mettere il ragazzo sotto di
sé, inchiodandolo a terra con il proprio peso, le ginocchia
sulle sue braccia. Lo prese per il collo della camicia e gli
sbatté la
testa sul pavimento, una, due, tre volte.
"Brutto figlio di puttana!" gridò, accecato dal furore. "La prossima volta, prenditela con chi si può difendere!"
Junior stava per perdere conoscenza, e lasciò la
pistola. Ennis, ormai fuori di sé, gli sbatté la testa sul pavimento un'ultima volta, poi
iniziò a tempestarlo di pugni: "Vai all'inferno, maledetto bastardo! Vai all'inferno!"
Sentì C.J. che lo chiamava, che gli diceva di smetterla, ma la
sua voce gli arrivò indistinta, come da lontano: Ennis ormai non
pensava ad altro che picchiare Junior Thompson. Quel figlio di
puttana non meritava nemmeno di finire in galera: avrebbe meritato di
finire come Jack, incosciente in un letto d'ospedale, livido ed
escoriato, con la testa fracassata e le costole rotte.
Il pensiero di Jack gli fece mancare il fiato. Jack, che l'aveva
aiutato a diventare un uomo migliore, che gli aveva fatto capire che a
volte, se si combatte con tutte le proprie forze, i sogni possono
anche diventare realtà... cos'avrebbe detto se avesse saputo
quello che stava facendo a Thompson?
Questo bastardo ha mandato a puttane tutti i nostri sogni, si giustificò Ennis, alzandosi in piedi e asciugandosi il sudore. A terra, Junior Thompson sembrava svenuto. Ha ridotto Jack in fin di vita, e se anche sopravvive, potrebbe rimanere...
Ennis sentì le lacrime pungergli gli occhi, traboccare dalle palpebre e scorrergli sulle guance. "Bastardo",
singhiozzò, tirando un calcio nelle costole a Junior. "Che
ti aveva fatto Jack? Che cazzo ti aveva fatto, eh?"
"Papà!" gridò C.J., prendendolo per un braccio.
Cos'è, del Mar, vuoi che tua figlia ti veda ammazzare un uomo?
Ennis tirò un ultimo calcio a Junior, ma senza più troppa convinzione.
"Papà, basta..." singhiozzò C.J., tirandolo per il braccio. "Smettila..."
Lui si voltò, la guardò.
"Ti prego..." pianse lei.
"C.J...." Ennis la prese fra le braccia, a sua volta incapace di trattenere le lacrime. La
rabbia che provava contro Junior Thompson bruciava più che
mai, ma ammazzandolo di
botte non avrebbe risolto niente; anzi, si sarebbe abbassato al suo
livello, diventando un assassino. E con che coraggio avrebbe potuto
guardare in faccia Jack e C.J.? "Stai bene, piccola?"
"S-sì..."
"Sst", fece Ennis, carezzandole i capelli scompigliati. "Sst... coraggio... fatti coraggio, è finita..."
"Non è finita per niente", disse Junior, dietro di lui, ed Ennis si sentì gelare. Gli dava la
schiena e non poteva vederlo, ma fu sicuro che il ragazzo si fosse
già rialzato e tenesse la pistola in pugno, perché
sentì il rumore del cane che si caricava. "Giù!"
gridò, buttandosi a terra, sopra C.J., stringendola fra le
braccia e tendendo i muscoli della schiena e delle spalle per
proteggerla.
Junior sparò.
Cazzo, stavolta mi ha preso, pensò Ennis.
Poi, un tonfo dietro di sé
"Papà...?" fece C.J..
"Signor del Mar, tutto bene?" la voce della Collins.
Ennis aprì gli occhi, incredulo. Si sollevò sui gomiti,
si voltò. Dietro di lui, Junior Thompson era a terra, bocconi,
immobile, e perdeva sangue da una ferita alla schiena.
Non era stato lui a sparare.
Da una delle
finestre, la sceriffa, con in pugno la pistola ancora fumante, e Sutcliffe accanto, gli domandò di nuovo: "Tutto okay?"
"Potevate arrivare prima, accidenti a voi", ribatté Ennis.
Giugno 1984
Jack si era appisolato, ed Ennis non riusciva a smettere di guardarlo. A due settimane dall'aggressione, le ecchimosi erano ancora tutte nere e
bluastre e marroni,
ma il gonfiore si era attenuato, e le escoriazioni cicatrizzate. Di
quel passo, entro altri quindici giorni il suo viso sarebbe tornato
quello di prima.
Anche le sue condizioni fisiche erano migliorate: la seconda TAC aveva
evidenziato che il versamento di sangue si stava riassorbendo, e non
c'era stato bisogno di alcun intervento chirurgico. Inoltre, i suoi
momenti di
lucidità avevano
iniziato ad allungarsi, facendosi più frequenti, e l'unico
problema di cui sembrava soffrire erano dei forti attacchi
di emicrania, una o due volte al giorno, accompagnati da formicolii al
braccio sinistro. Kowalski
gli aveva assicurato che si
sarebbero ridotti per intensità e frequenza, sebbene difficilmente sarebbero scomparsi: e in ogni
caso, se quello era l'unico strascico causatogli dalla contusione
cerebrale, poteva benissimo ringraziare Dio, la Vergine Maria e tutti gli
Angeli e i Santi.
Junior Thompson invece non era stato altrettanto fortunato: il colpo sparato dalla
Collins gli aveva raggiunto il cuore, ed era morto in pochi secondi. Lo sceriffo aveva
deciso di sparare anziché intimare
a Junior
di buttare la Beretta, poiché visto quello che stava succedendo, aveva temuto che Junior non le avrebbe dato ascolto: e
tutto considerato, se qualcuno doveva rimetterci la pelle, era meglio che toccasse a quello psicopatico.
Certo che è andata bene anche a me, non poteva fare a meno di riflettere Ennis, quando ripensava a quei momenti concitati. Sono
ancora qui, sono vivo, C.J. sta bene, e Jack si sta riprendendo alla
grande. Senza contare che Junior Thompson non ci darà più
fastidio... e non sono stato io ad ammazzarlo.
Carezzò il viso di Jack, in via di miglioramento, e non
poté fare a meno di pensare che, nonostante tutto, era
ancora bellissimo.
Era sempre stato bello, Jack: di una bellezza elegante, come se
fosse stato un attore famoso invece di un mandriano, di un cowboy da
rodeo.
Era... sexy.
Ennis arrossì fra sé: che diavolo stava pensando?
Bè, è il tuo ragazzo.
E' naturale che ti piaccia. Cos'è, te ne
accorgi solo ora, dopo quasi ventun anni che lo conosci?
L'unica altra persona con cui avesse mai fatto qualcosa di definibile
come sesso era stata Alma Beers. Alma aveva i capelli rossi e gli occhi
verdi, era carina e minuta, con il seno piccolo ma sodo e un bel
culetto, ma non aveva mai pensato a lei in quel modo: non aveva mai
pensato che fosse sexy. Tutt'altro: le poche volte che era riuscito ad
accarezzarla e farsi accarezzare, ne aveva sì ricavato
un'erezione, ma aveva sempre pensato: Tutto qui?
Forse, aveva considerato, non era mai stato granché soddisfatto
da quello che facevano, perché quello che facevano era ben poco.
Ma d'altro canto,
non aveva nemmeno mai insistito nell'andare oltre perché, tutto sommato, non gliene importava poi troppo.
Per essere sinceri, non gliene importava un beneamato accidente.
Jack invece... era tutta un'altra storia. Gli era piaciuto fin da subito, fin da subito lo aveva trovato tremendamente sexy, al diavolo quella maledetta parlantina.
Più di una volta, durante le prime settimane sulla Brokeback,
guardandolo o
anche solo pensando a lui, aveva sentito uno strano calore alla pancia,
e alla notte, da solo, spesso si era ritrovato a pensare a cosa gli
sarebbe piaciuto fare
con lui, a parte badare alle pecore e tenere in ordine il campo base e
chiacchierare e bere e fumare: al contrario di quello che aveva
fatto e che avrebbe potuto fare con Alma, questo sembrava interessargli parecchio: a lui, ma soprattutto alle sue parti intime.
Se si era impedito di lasciarsi troppo andare a questo genere di
fantasie, era perché la sua ragione lo aveva ammonito di continuo: Non va bene. Non va affatto bene.
Poi c'era stata quella notte. Jack aveva preso l'iniziativa,
niente più che portarsi la sua mano sulla patta dei jeans e
stringersi a lui, e questo era bastato a fargli perdere la testa e
prenderlo con violenza, in preda a un desiderio, a un bisogno, che non gli avrebbe mai dato pace se lasciato insoddisfatto.
E la notte successiva, quando Jack aveva fugato tutti i dubbi e le sue
paure, almeno momentaneamente... com'era stato dolce. Lo aveva
coccolato con una dolcezza che nessuna persona aveva mai riservato a
Ennis. Ed Ennis quella volta aveva fatto l'amore con lui cercando di
ricambiare la sua tenerezza, la sua passione, cercando di farsi
perdonare per la brutalità della notte precedente.
Aveva mai guardato altri uomini?
Che razza di domande sono queste?
Poteva ammettere di avere desiderato Jack fin dall'inizio, okay, ma questo era un discorso che non gli piaceva, e non intendeva arrovellarcisi.
Ti piacciono gli uomini. Dai, ammettilo.
Non
è vero. Se ho guardato qualcun altro oltre a Jack, è
stato solo... bè, per un motivo concreto. Perché aveva
una bella macchina, o era bravo a cavalcare, o riusciva a scolarsi una
bottiglia intera senza sembrare ubriaco.
O magari aveva
due belle spalle larghe, o un bel culo più rotondo di quello di
Jack. Coraggio, del Mar... non è così?
Queste sono calunnie. Io non ho mai pensato di scoparmi qualcun altro.
Va bene. Tu ami Jack e non lo tradiresti mai, hai i tuoi sani principi,
eccetera eccetera, bla bla bla, ma non cambiare discorso. Con
Alma non erano certo scintille, e da
quando hai conosciuto Jack non hai mai guardato una donna, quelli
che ti è capitato di guardare sono sempre e solo stati uomini.
Senza considerare che se Jack avesse osato flirtare con degli uomini
anziché solo con delle donne, come aveva sempre fatto, Ennis non
gliel'avrebbe lasciata passare liscia: l'avrebbe considerato come un
tradimento in piena regola, anziché come un gioco fastidioso, ma tutto sommato innocente.
E se un uomo avesse osato mettere gli occhi su Jack, come aveva fatto quel maledetto Jimmy Maddocks...
E' ora che tu lo ammetta: sei un finocchio. Sarai anche un finocchio fedele, ma sei un maledetto finocchio, punto e basta.
"Papà?" lo chiamò C.J..
"Cosa?"
"A cosa pensavi?"
"A niente", mentì lui. "Solo... che sono un pò frastornato. Ma sono anche contento."
"Anch'io. Tornerà tutto come prima, vero?"
"Certo", confermò lui.
"Sai, vorrei chiederti una cosa", iniziò lei. "Ma puoi anche dirmi di no se non vuoi, e non ne parleremo più."
"Sputa."
"Hai presente quando papà mi ha raccontato di quando vi siete
sposati?" domandò lei. "E mi ha detto che non serve un anello
per sentirsi legati a chi si ama?"
Ennis annuì.
"Bè, io ho avuto l'impressione che lui, in realtà, un anello lo vorrebbe."
"E' così", ammise Ennis, troppo spiazzato per riuscire a mentire.
"Sei tu che non lo vuoi, vero papà En?"
Ennis avvampò: "Non ti sfugge proprio niente, eh?"
"Sei tu che sei prevedibile", ribatté C.J..
Ennis sospirò. "Hai ragione. Jack ha sempre desiderato che
indossassimo qualcosa di simile a due vere nuziali... ma io non volevo.
Pensavo che fosse... troppo."
"Troppo, cosa?"
"Troppo... troppo, e basta", disse Ennis. Neanche lui sapeva come
spiegarsi. "Eravamo due uomini, ci eravamo fatti un ranch insieme e ci
lavoravamo insieme, e ci vivevamo insieme senza donne...e allo stesso
tempo, cercavamo di far credere che non eravamo altro che amici.
Capisci? Indossare anche due fedi sarebbe stato... troppo."
"Per te, forse", l'apostrofò lei.
"No, non capisci", disse lui. "Sarebbe stato come ostentare che..."
"Allora,
forse", replicò C.J.. "Quando avete iniziato a vivere insieme.
Adesso, che t'importa? Tutti sanno che siete una coppia."
"C.J.!"
"E' la verità", insisté lei. "E io credo che un paio di
anelli uguali sarebbe un bel regalo per papà, quando lo dimetteranno."
"Ascolta, C.J.", disse Ennis. "Hai detto tu che posso chiudere il discorso, se voglio."
"Uhm... sì."
"Allora, chiudiamolo."
C.J. lo guardò, delusa.
"Almeno per adesso", cercò di rimediare Ennis, sentendosi in colpa. "Intanto ci penserò."
"Quando?" domandò lei, ironica. "Fra altri diciassette anni?"
Lui si vergognò profondamente: chissà perché,
quella bambina, che ora poteva chiamare sua figlia, a volte sembrava
essere la voce della sua coscienza.
"Presto, piccola. Te lo prometto."
Grazie 1000 a:
harderbetterfasterstronger: se sei arrivata alla fine di questo
lunghissimo capitolo, avrai visto che le cose si stanno sistemando...
da un lato, volevo riprendere le tematiche del romanzo/film, ma
dall'altro mi dispiace
un sacco avere fatto finire Jack di nuovo in
ospedale, dopo l'aggressione di Hackman in "Thunderbird". Non avrei mai potuto
ucciderlo, né sfigurarlo o peggio... anch'io gli voglio troppo
bene! Piuttosto... non so cosa tu immaginassi, ma hai indovinato: Superennis
in qualche modo entra in azione, anche se riesce a fermarsi prima del patatrac.
Adoro Jack, ma Ennis è il personaggio del quale preferisco
scrivere: è contorto, si contraddice in continuazione e le sue
reazioni sono più che prevedibili, ma a volte ha dei colpi
di testa mostruosi... e mi diverto troppo a metterlo in imbarazzo,
tanto che devo stare attenta a non farlo scadere nel caricaturale.
Nota: cavolo, questo è stato faticoso da scrivere... sapevo
quello che doveva succedere, ma l'avrò revisionato un migliaio
di volte.
Mi piaceva troppo l'idea di
uno sceriffo donna, dall'aspetto androgino, che ovviamente Ennis, maschilista fino al midollo, non
può che disprezzare. Per i tatuaggi, mi sono
ispirata ad alcuni dei miei...
Credits: "Restless heart syndrome" è una canzone dei Green
Day.
Disclaimer: I personaggi di Jack Twist, di Ennis del Mar e dei suoi
fratelli e di Cassie Cartwright, appartengono ad Annie Proulx.
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua
proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto
apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
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Capitolo 4 *** 4 - Epilogo (See the light) ***
Come sei veramente
Restless heart syndrome
4 – Epilogo (See the light)
Come
previsto, venni dimesso alle sei di pomeriggio di un assolato
mercoledì di fine giugno, dopo quarantadue giorni di ospedale. Ormai
mi ero ristabilito, e soffrivo solo di
emicranie una volta o due alla settimana, occasionalmente accompagnate
disturbi visivi e formicolii al braccio sinistro; il dottor
Kowalski però mi aveva assicurato che, col tempo, la frequenza
degli
attacchi si sarebbe diradata ulteriormente. La cicatrice sulla nuca era
invisibile, nascosta dai capelli, le costole quasi a posto, e anche le
tumefazioni e le escoriazioni sul viso erano in via di guarigione:
quello che mi aveva detto C.J. sembrava essere la
verità, con tempo e pazienza - una qualità che purtroppo
mi manca - la mia faccia sarebbe tornata quella di
prima. Avevo perso
qualche chilo, e i jeans mi stavano un
pò troppo larghi: ma mentre mi stringevo in vita la
cintura, Ennis mi assicurò che ero lo stesso un
gran bel pezzo di maschio.
"Ennis!"
esclamai, sorpreso, infilandomi la t-shirt nei jeans: Ennis non faceva
mai battute di quel tipo fuori dal ranch. "Se ti sente qualcuno..."
"Siamo solo noi due, in questa stanza", ribatté lui, con un sorriso furbo.
"Anzi..."
mi prese la faccia fra le mani e mi stampò un bacio sulle
labbra.
"Ehi, ma che ti prende?" domandai, allibito.
"Sono felice che tu torni a casa", rispose lui.
"Sarà."
Ennis continuò a comportarsi in modo strano: ormai lo conoscevo troppo bene e mi accorgevo subito se c'era qualcosa
che non andava. Era come in attesa di dire o fare qualcosa
che temeva: provai a domandargli cos'avesse, e la risposta fu la
solita, era contento che io tornassi a casa, così decisi di
smettere di tormentarlo, ben sapendo che, presto o tardi, mi avrebbe
confessato il motivo del suo disagio.
Credetti di avere capito cosa lo teneva sulle spine quando, appena
arrivati a casa, venni accolto da C.J., Tommy, Don e tutti gli operai,
nonché gli Hamilton al completo, che sotto il portico di fronte
mi avevano organizzato un piccolo party di bentornato con birra e
spumante californiano a fiumi.
Invece, le sorprese non erano ancora terminate, poiché Ennis,
una volta in camera, mi ordinò di fare la valigia: il giorno
dopo avremmo lasciato C.J. dagli zii e saremmo partiti per un week-end,
noi due soli.
"Ennis, ma..." obiettai, sbalordito. L'idea di una vacanza da solo con
Ennis mi allettava parecchio, dopo i lunghi giorni trascorsi in
ospedale, ma mi sembrava incredibile che fosse proprio lui a propormelo.
"Da quando hai smesso di fare rodei, non ci siamo mai presi una pausa
dal lavoro", spiegò Ennis. "Credo che ce lo meritiamo, no?"
"Credo proprio di sì", convenni. "Ma dove avresti intenzione di andare?"
"Indovina."
Non riuscii a indovinare: non avrei mai potuto immaginare che Ennis
aveva deciso di tornare proprio sulla Brokeback, nel luogo dove ci
eravamo conosciuti e innamorati.
E invece, fu proprio là che tornammo, e mi accorsi con stupore
che niente era cambiato da allora: c'erano anche due greggi di
pecore che pascolavano, accompagnati entrambi da un paio di
giovanissimi cowboys - non fosse stato troppo vecchio, avremmo
potuto trovarci davanti persino Joe Aguirre. Piantammo la nostra
canadese
poco distante dal luogo in cui, ventuno anni prima, avevamo organizzato
il campo base, e trascorremmo i nostri quattro giorni di vacanza
facendo lunghe cavalcate per la
montagna, nuotando nel fiume e prendendo il sole; una volta
provammo anche a pescare, sebbene con scarsi risultati. Come ho
già detto, la pazienza non è una delle mie migliori
qualità, e dopo tre quarti d'ora mi stufai di stare ad aspettare
invano che qualcosa abboccasse e domandai ad Ennis, seduto accanto a
me: "Senti, non è che ti andrebbe di fare qualcosa di più
interessante?"
"Tipo?" fece Ennis.
Io abbandonai la canna da pesca, gli tolsi la sua dalle mani e la posai
vicino alla mia, poi mi sedetti a cavalcioni sul suo grembo, iniziando
a sbottonargli la camicia e baciandolo sul collo, dove so che lo
fa impazzire.
"Accidenti", disse Ennis, armeggiando con la fibbia della mia
cintura. "Per essere un convalescente, mi sembri piuttosto in
forma."
"Sono un cowboy da rodeo", dissi, sornione, passando a baciarlo sul viso.
"Fammi vedere quello che sai fare, allora..."
Fu bello; non trovo altro aggettivo per descriverlo. Era
un pò come il viaggio di nozze che non avevamo mai fatto, a
coronamento del matrimonio che non avevamo mai potuto celebrare. Eravamo
solo noi due, proprio come tanti anni prima, ma senza l'incubo delle
pecore da sorvegliare, senza l'incubo che tutto sarebbe finito quando
fossimo scesi. Non era più solo un affare fra di noi, che
sarebbe iniziato e finito su quella montagna: eravamo rimasti insieme
e, contro ogni aspettativa, anche nostra, eravamo riusciti a costruire
una casa, una famiglia, una vita, che per quanto dura, non avrei
scambiato con quella di nessun altro.
La notte del sabato, l'ultima che avremmo trascorso lì, dopo
cena, ci sedemmo davanti al fuoco, in silenzio. Il cielo era color
indaco, terso e senza nubi, e le stelle brillavano più che
mai.
"Jack, io..." esordì Ennis, a un tratto. "Devo dirti una cosa."
"Spara", feci.
"Sì, però", Ennis esitava, lo sguardo basso. "Promettimi
che mi ascolterai senza interrompermi. Non è facile, per me."
Quella strana richiesta mi stava inquietando, tuttavia risposi: "Okay."
"Io... devo chiederti scusa."
Aggrottai le sopracciglia: cosa c'era che non andava, adesso, dopo quei tre giorni assolutamente fantastici?
"In tutti questi anni", seguitò Ennis, "Non ho fatto altro che tirarmi delle paranoie, e
romperti l'anima con tutte le mie fissazioni."
Non mi sarei mai aspettato un discorso del
genere da lui, ed ero del tutto
impreparato. "Ennis..." mi sfuggì.
"Avresti dovuto
mandarmi
a quel paese
un migliaio di volte", proseguì lui, "E invece sei rimasto con me, hai continuato
ad amarmi... e devi amarmi proprio tanto per riuscire a sopportarmi."
"Ehi, smettila", tentai di
tranquillizzarlo, alla malora la promessa di non parlare. "Già il
solo fatto che sei rimasto con me, e che sei ancora
qui dopo tutto quello che ci è successo in tutti questi anni,
per me
significa moltissimo. Lo so che per te non è stato facile, ma
lo hai fatto lo stesso."
"Ma non è abbastanza", fece lui. "Io... voglio che tu sia felice
davvero, Jack. D'ora in poi, voglio... vorrei riuscire a
dimostrarti che ti amo, e che farei di tutto per renderti felice." Infilò la mano nella
tasca del giubbotto e mi
cacciò una piccola scatola nera sotto gli occhi. "Questo è per te."
Presi la scatola. Una scatola tanto piccola poteva contenere solo
un anello... o magari due. Ma cancellai quel pensiero dalla mente, era
impossibile che Ennis fosse arrivato a tanto, anche se ero stato in fin
di vita, anche se mi aveva portato sulla Brokeback e mi stava facendo quello strano discorso.
"Aprilo, dai", Ennis sembrava un ragazzino imbranato. Adoro quando fa
così, mi fa troppa tenerezza. "Spero... spero che ti piacciano."
Io aprii la scatola. In risalto con l'interno di velluto nero, i due anelli, due fedi in
oro bianco battuto con uno zaffiro al centro di ciascuna, luccicavano al bagliore del fuoco, e il mio cuore
saltò un battito. Chiusi gli occhi
un secondo, quando li riaprii gli anelli erano ancora lì, nella
scatola, la scatola nella mia mano. Non era un sogno, era tutto reale.
Aprii la bocca, ma non riuscii a parlare. Sollevai lo sguardo verso Ennis.
"Dovrebbe essere della tua misura", disse Ennis, rosso in faccia, con un sorriso. "Se non lo è, si può adattare."
Io guardai gli anelli, guardai
Ennis, poi guardai di nuovo gli anelli. Proprio, non
riuscivo a spiccicare verbo.
"Che c'è, non ti piacciono?" domandò lui. "E' stata C.J. ad aiutarmi a sceglierli."
Mi coprii la bocca con una mano, rendendomi conto di avere gli occhi
lucidi. "Sono... sono bellissimi", balbettai. "Ennis, non dovevi... se
non ti sentivi, non avresti dovuto..."
"Non c'è bisogno di un anello per sentirsi legati alla persona che si ama", disse Ennis, sorridendo.
"L'ho detto a C.J. quando mi ha chiesto perché non portavamo le fedi", gli ricordai.
"E io concordo pienamente", disse lui. "Ma tu un anello lo desideravi."
"Sono uno stupido romantico e sognatore, lo sai."
"Mi piaci così, piccolo", disse Ennis, e mi arruffò i
capelli. "E scusami per non
avertelo comprato prima." esitò. "A dire la verità, devi
ringraziare C.J.. Era da un pò che ci stavo pensando, ma senza
di lei non avrei mai trovato il coraggio. Quella ragazzina...
nostra figlia... mi ha fatto capire tante cose. Soprattutto, che devo
iniziare ad avere il
coraggio delle mie scelte."
"Facile a dirsi", ribattei.
"Lo so. Però se ce la fai tu, e se ce la fa lei... io devo almeno provarci." Ennis sospirò. "E'
brutto rimpiangere qualcosa perché non hai avuto il coraggio di
provare a farla."
"Grazie, Ennis",
dissi semplicemente. "Ti voglio bene. Tanto."
"Io ti amo", rispose Ennis. Mi prese la mano sinistra, mi infilò l'anello
all'anulare. "Mi sembra che ti vada alla perfezione",
commentò. "C.J. ha deciso la misura, e ha proprio l'occhio clinico."
Mi guardai la mano
sinistra, con gli occhi ormai pieni di lacrime. "E'... bellissimo."
Ennis sorrise, mi batté una spalla: "Allora, mi infili l'anello anche tu, o devo fare da solo?"
Mi asciugai gli occhi, presi l'anello dalla mano di Ennis e
notai l'incisione all'interno. "Ennis e Jack", lessi. "Cinque
febbraio 1967." guardai Ennis, con un sorriso: "Come sei riuscito
a chiedere a qualcuno di incidere una roba del genere?"
"Questo fattelo raccontare da C.J.", rispose Ennis, più
imbarazzato che mai. "Mi ha accompagnato in gioielleria, a Edgerton... e lo
ammetto, è stata tutta da ridere. Se non ci fosse stata lei,
sarei uscito senza riuscire a comprare niente. Quei due poveri
gioiellieri ci
ricorderanno per tutta la vita."
"Lo immagino", ghignai. Conoscevo Ennis e le sue reazioni come le mie
tasche: aveva potuto decidere di comprare due anelli, ma sapevo
benissimo che, all'atto pratico di andare a comprarli e comunicare al
gioielliere i nomi e la data da incidere, avrebbe avuto non poche
difficoltà. "Allora..." presi la mano di Ennis e gli infilai l'anello
all'anulare. "Ti sta proprio
bene."
Lui si guardò la mano. "Già", convenne. "Credevo peggio."
Nota: eh bè... FINE. Quello che succede dopo l'ultima battuta di
Ennis, lo lascio immaginare a voi... mi scuso, ma le lemon non sono il
mio forte.
Credits: "Restless heart syndrome" e "See the light" sono
canzoni dei Green Day, entrambe tratte dall'ultimo album "21st
Century Breakdown". Come sono poco originale... ma sono affezionatissima
a questo cd, che considero la colonna sonora ideale per questo
racconto. A ogni capitolo ho addirittura associato una canzone: forse
sono malata, ma i Green Day mi piacciono troppo!
Disclaimer: I personaggi di Jack Twist, di Ennis del Mar e dei suoi
fratelli, di Cassie Cartwright e di Joe Aguirre, appartengono ad Annie Proulx.
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua
proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto
apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
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