Mistero sulla neve di cabol (/viewuser.php?uid=15027)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1
Lord Bailey Windström, gentiluomo di Elosbrand.
Deckard Caine, barbaro Ariaken.
Stanley Cannon, oste del “gatto nero”.
Monia, cameriera, figlia di Cannon.
Cedric Faulkner, commerciante.
Miss Lilian Faulkner, figlia di Cedric.
Ross Calides, taglialegna.
Vernon Calides, taglialegna, fratello di Ross.
William “whip” Pasterron, domatore.
Kira, splendido esemplare di pantera nera.
Jorg Stone
(Jorgelinapgregolinapfelderinapmiliterapcaulderinaplienanapjorgelinaplilimipapcaulderinapgregolinapmiliteraplienan),
gnomo, assistente (schiavo) di William.
Jeff “blade” Barthington, acrobata.
Miriam “sugar” Deekin, acrobata, moglie di Jeff.
Oliver “Ollie” Laurel, istrione, attore, ciarlatano.
La neve turbinava, in candide volute, sulla
tenue traccia della pista che attraversava i monti, tagliandoli come un preciso colpo d’ascia. Il vento mulinava e trasportava fiocchi
mordaci e silenziosi su due viaggiatori stanchi, avvolti nei mantelli e
sulle loro bestie tremanti, costrette dalle briglie a seguire,
riottose, quel cammino. Alti abeti, torreggianti e cupi, osservavano
impassibili i penosi sforzi e i pesanti passi delle intirizzite e
fragili creature che, sfidando il gelo, osavano percorrere quei luoghi.
La voce gelida e lontana, ora cupa, ora stridula, del vento pareva
motteggiare la fatica che uomini e bestie profondevano sulla strada
montana. Tuoni lontani brontolavano ogni tanto, ammonendo i viaggiatori
che la notte, ormai prossima, sarebbe stata ancora peggiore di quel
giorno gelido e spietato.
«Non manca molto, ormai». Il viaggiatore più
alto sollevò la testa, come annusando l’aria gelida del tramonto. La
voce, bassa e profonda, s’intonava perfettamente a quell’ambiente,
quasi fosse stata l’antico accento delle conifere innevate.
«Al passo o al nostro trapasso?». Una voce
tenorile, decisamente ironica, emerse dal cappuccio più basso.
«La locanda è vicina. Sento odore di fumo».
La voce profonda echeggiò fra gli alberi, appena increspata da una nota
d’esasperazione.
«Non ti arrabbiare, vecchio mio. Se non
avessi avuto fiducia in te non sarei certamente qui, ora». La nota
beffarda era scomparsa lasciando il posto a un tono evidentemente
divertito, che fece irritare ancora di più il suo compagno.
«Non ti ho chiesto io di seguirmi».
«Questa era la via più rapida per tornare a
casa, Deckard. E tu sai che ho fretta di riprendere i miei affari. La
nostra gita è stata una piacevole digressione ma ora bisogna tornare al
lavoro. Via, non sprechiamo fiato. Sbaglio o quella è una luce?».
Indicò un punto in lontananza, seminascosto dai rami degli alberi,
dietro un’ampia curva della strada. Un punto luminoso che appariva e
spariva col vento.
«Sì. È certamente la locanda. Ci arriveremo
prima del buio». La voce bassa era ora riscaldata dalla speranza e dal
sollievo.
«Telgëa ci assiste, amico mio. Minaccia tempo da lupi per stanotte».
Un piccolo gruppo di case di sasso, strette
fra loro come freddolose comari, inghiottiva la strada montana,
succedendo agli alberi quasi senza interruzione, separato dalla foresta
imbiancata solo da uno stretto fossato. Quei poveri tetti di paglia
parevano, tuttavia, caldi e rassicuranti, in quella notte che avrebbe
certamente coperto di un gelido manto tutto ciò che circondava il
paesello.
Lo stretto cerchio di case racchiudeva una
piccola piazza, poco più di un cortile, al centro del quale troneggiava
un pozzo di pietra, già quasi totalmente innevato. In quella stagione,
sarebbe rimasto inoperoso a lungo, giacché per i paesani era
decisamente più semplice riempire i mastelli di neve, piuttosto che
manovrare la pesante e ghiacciata catena del pozzo.
Una tiepida luce filtrava dalle imposte
socchiuse di una casa, decisamente più grande delle altre,
accanto al ponticello che scavalcava il fossato. Sulla porta
pendeva una logora insegna, raffigurante un gatto nero acciambellato.
Una stalla, proprio lì accanto, offriva un rifugio anche per le
cavalcature di eventuali viandanti.
«Orsù, pensavo peggio. C’è anche ristoro per
i cavalli. Potremo fermarci finché questa maledetta tempesta non sarà
cessata del tutto». Il viaggiatore più basso si era fermato sul
ponticello, osservando soddisfatto l’edificio della locanda. «Un bel
fuoco e una cena calda ci rimetteranno in sesto, amico mio».
«Ci deve essere gente alla locanda. Qui ci
sono almeno sei cavalli. E prima del ponte ho visto alcune carrozze.
Speriamo ci sia una stanza. E la cena…». La gigantesca figura si
rivolse desolata al suo compagno, con un gesto che indicava chiaramente
i suoi dubbi di riuscire a soddisfare il suo robusto appetito.
«In qualche modo ci arrangeremo, l’oro non
ci manca e un riparo al caldo possiamo assicurarcelo. Quanto alla cena…
temo che ci vorrebbe un cinghiale tutto per te, amico mio… dovrai
accontentarti».
Luce, calore e voci chiassose vacillarono
quando la porta della locanda si spalancò. L’odore di fumo, vino e
vivande venne spazzato dal vento gelido accompagnato da tenui fiocchi
candidi. Volti curiosi fissarono gli occhi sui nuovi arrivati.
Scivolando giù dalle spalle, i mantelli innevati rivelarono quanto
fossero diversi quei due viaggiatori. Uno era molto alto, dai lunghi
capelli scuri che ricadevano sulla muscolatura possente dell’ampio
torace, vestito come usavano i barbari, con una corazza di cuoio orlata
di pelliccia e pantaloni di pelle, dai quali spuntavano morbidi stivali
di renna. Portava sulle spalle un’arma formidabile, la tradizionale
ascia doppia degli Ariaken. L’altro di statura media e corporatura esile, indossava
un’elegante guarnacca di lana azzurra bordata d’ermellino, pantaloni e
stivali di pelle nera e portava al fianco un elegante stocco dall’elsa
riccamente lavorata. Pareva un ricco gentiluomo diretto a un
appuntamento mondano, più che un viandante costretto dal gelo a cercare
rifugio nella locanda.
Monia si voltò, come tutti, a osservare i
nuovi arrivati, rischiando di far cadere i boccali di birra che stava
portando. Un gentiluomo affascinante (e probabilmente ricco) e un
guerriero ariaken, certamente la sua scorta o la sua guida. Questi
pagano, rifletté e si liberò rapidamente dei boccali. Ignorò gli
sguardi bramosi degli avventori, più interessati alle sue forme che
alla birra, si rassettò le vesti e corse incontro ai nuovi potenziali
clienti. Raggiunse agilmente quello che pareva un giovane gentiluomo e
gli si rivolse con una seducente, se non perfettamente educata,
riverenza.
«Buongiorno milord. Come posso servirvi?».
Due occhi color smeraldo si fissarono in quelli della giovane
locandiera. Due occhi che potevano accarezzare ma anche ferire. Due occhi pericolosi, valutò l’esperta ragazza.
«Col vostro sorriso, madamigella. E, se è
possibile, con una camera e una buona cena». Una voce tenorile,
musicale e dolce, scaturì dalla sua bocca ben disegnata e sorridente,
ornata da due baffetti sottili alla moda.
Monia sorrise, un’attività che le riusciva
naturale e che le tornava utile nella maggior parte delle situazioni,
poi si esibì in un nuovo elegante inchino che espose la sua
interessante scollatura agli occhi dell’interlocutore. Sapeva giocare a
quel gioco.
«Sorridere a un così bel signore è la cosa
più facile del mondo, milord. Quanto alla camera, ne abbiamo ancora
una, non è grandissima ma è pulita e calda. Accomodatevi e la cena
arriverà subito».
Indicò un tavolo abbastanza vicino al grande
camino, fece un’altra procace riverenza e si diresse verso il banco
ancheggiando agilmente fra i tavoli, seguita dallo sguardo ammirato di
molti avventori. Raggiunse il bancone, dove il locandiere, suo padre,
era alle prese con un barilotto di birra che non voleva stare sul suo
cavalletto. Lo guardò un attimo, fra il divertito e l’esasperato, poi
si avvicinò al suo orecchio.
«Pa’, questi due che sono arrivati, hanno
l’aria di gente che paga bene. Ci vai tu o me ne occupo io?».
Stanley Cannon, alto quasi due metri e largo
in proporzione, era ancora un uomo vigoroso, nonostante l’età non più
verde. Piazzò il barilotto sul cavalletto, stroncandolo, e si voltò a
osservare la
sala. Individuò immediatamente i nuovi arrivati e
sorrise all’indirizzo della ragazza.
«Un gentiluomo in viaggio con la sua guida e
guardia del corpo. Vestiti eleganti, belle armi. Brava bimba. Vado a
farci due chiacchiere ma è meglio se poi te ne occupi tu. Il tuo
fascino ci frutterà qualche moneta in più. Restano a dormire?».
«Sì. D’altronde, solo dei pazzi si
metterebbero in viaggio con questo tempo».
L’oste si passò una mano sui radi capelli
grigi e ammiccò.
«Allora, al tavolo degli artisti, ci deve
essere qualcuno abbastanza pazzo. Quell’idiota non era ancora arrivato
che aveva già litigato con Ross e Vernon e ora sta piantando grane ai
suoi compagni».
Al tavolo vicino alla parete di fondo, in
effetti, pareva essere sorta un’animata discussione. Un uomo biondo,
alto, e atletico dal volto bello e arrogante, probabilmente sulla
trentina, stava parlando concitatamente con un uomo più anziano,
decisamente sovrappeso, i cui pochi capelli neri erano abbondantemente
macchiati di grigio. Questi parlava quietamente, con un’espressione
paziente nei piccoli occhi scuri, affondati nel grasso del viso. La sua
voce suonava ragionevole ma venata di autorità, anche se non si udivano
chiaramente le parole. Una bella ragazza dai capelli rossi interloquì
vivacemente, probabilmente schierandosi dalla parte dell’uomo biondo ma
il suo intervento provocò una brusca reazione da parte del giovane
seduto al suo fianco. Questi era di statura media, all’incirca coetaneo
della ragazza dai capelli rossi, muscoloso ma snello, il fisico che
frequentemente si ritrova negli acrobati. Col suo intervento, la
conversazione si trasformò in alterco e cominciarono a volare
apprezzamenti vivaci e coloriti fra i due giovani uomini. La situazione
degenerò quando un ometto di statura quasi infantile, dal fisico minuto
e la testa sproporzionatamente grossa rispetto al corpo, evidentemente
uno gnomo, provò timidamente a dire qualcosa. La reazione del biondo fu
violenta e improvvisa: uno schiaffo che fece ruzzolare lo gnomo dalla
sedia.
«Non permetterti mai più di contraddirmi,
schiavo! Vattene! Torna nella tua tana e aspettami lì. Partiremo appena
sorgerà il sole».
Altre voci concitate si alzarono dal tavolo,
dove tutti parvero disapprovare il gesto dell’uomo. Il piccolo gnomo
sgattaiolò lontano dal tavolo, mentre il gigantesco barbaro, che aveva
osservato attentamente la scena, si alzò scuro in volto. Il suo
compagno di viaggio si accomodò meglio sulla sedia, come per gustarsi
l’imminente spettacolo.
«Deckard, vedi di non esagerare. Il signore
deve alzarsi presto, domattina». Il suo compagno non rispose, mentre si
avvicinava a grandi passi verso il tavolo degli artisti, con gli occhi
minacciosamente puntati sull’uomo che aveva colpito lo gnomo.
«Perché non provi a prendertela con uno più
grosso? Sei uno sporco vigliacco!».
Lo sguardo arrogante dell’uomo si fissò
sull’importuno. Il suo bel viso si contrasse in una smorfia di
disgustato furore e la sua voce suonò incrinata dall’ira.
«Di cosa t’immischi, bestione? Queste cose
riguardano me e il mio schiavo. Se il tuo padrone ti schiaffeggia, io
non m’immischio di certo. Cerca di fare altrettanto. Sono un tipo
pericoloso».
Gli occhi del barbaro lampeggiarono come un
cielo cupo prima di una tempesta e come un tuono echeggiò la sua voce:
«Io non ho padroni. E sono molto più pericoloso di te». Nel dir questo,
il suo pugno piombò sul tavolo, spezzandolo in due e facendo ruzzolare
dalla seggiola l’uomo grasso. Tutti si allontanarono precipitosamente
dai rottami del tavolo. Il biondo impugnò la frusta che portava al
fianco, minacciando Deckard.
«Fatti sotto, idiota. Facci vedere come sai
ballare!».
«Whip, piantala subito!».
Nonostante fosse disteso al suolo, in una posizione ben poco dignitosa,
la voce dell’anziano capo della compagnia di acrobati, risuonò
autoritaria, nella sala.
«Questo bestione ha bisogno di una lezione, Ollie, non preoccuparti, sono abituato a domarne di più
grossi». La frusta schioccò nell’aria e subito dopo saettò sul braccio
del barbaro, strappandogli una striscia di pelle.
Il guerriero non fece una piega, ma nei suoi
occhi cominciava a montare una collera che pareva poter diventare
devastante.
Avanzò di un passo.
La frusta saettò nuovamente, colpendolo.
Deckard avanzò ancora.
Un’altra frustata partì, ma il barbaro
afferrò al volo il cuoio, strappandolo bruscamente verso di sé.
L’avversario, sorpreso, non lasciò la presa con sufficiente prontezza e
si trovò trascinato verso il gigantesco barbaro, le cui mani si
strinsero inesorabili intorno al suo collo.
«Ti piace giocare? Fai saltare le bestie con
la tua frusta? Ora tocca a te saltare, sacco di letame!». La mano
sinistra di Deckard rimase stretta sul collo dell’uomo, mentre la
destra lo afferrò per la cintura, sollevandolo da terra come un
fuscello.
Un attimo dopo, il malcapitato volava per la
sala, atterrando rovinosamente davanti alla porta d’ingresso del locale.
«È inaudito! Questa cosa è inaccettabile».
Un uomo piccolo e magro, sulla cinquantina, elegantemente vestito, si
alzò rosso in volto dal tavolo accanto alle rovine
di quello degli artisti, rivolto all’oste, vanamente trattenuto dalla
giovane ragazza bionda seduta di fronte a lui.
Deckard ignorò completamente le sue proteste
e raccolse l’avversario ancora mezzo stordito, sollevandolo di peso per
attaccarlo, a un gancio che penzolava a circa due metri dal pavimento,
di quelli usati per i salumi.
«Fate cessare questa barbarie o chiamo le
guardie!». L’ometto elegante alzò la voce, portandola a un tono
alquanto stridulo.
L’oste, per la verità, pareva piuttosto
divertito, nonostante il tavolo fracassato, però non poteva ignorare le
proteste dei suoi avventori. Specie di quelli paganti, anche se poco
simpatici. Si avvicinò al barbaro che osservava soddisfatto la propria
opera.
«Per favore, signore, credo che quest’uomo
ne abbia avuto abbastanza. Rimettetelo a terra».
Deckard lo osservò distrattamente.
«Tornerà a terra appena avrà chiesto scusa
allo gnomo». Sorrise, guardando verso l’uomo appeso. Con un gesto della
mano richiamò accanto a sé la piccola creatura, ancora tremante.
«Come vi chiamate, messer gnomo?».
L’interpellato guardò il gigantesco uomo di fronte a sé e poi il suo
padrone, che dondolava appeso come un salame, rosso in volto ed
evidentemente spaventato.
«Jorgelinapgregolinapfelderinapmiliterapcaulderinaplienanap…».
Qualcuno, fra gli artisti, si schiarì rumorosamente la gola, ricordando
allo gnomo che gli umani, generalmente, non amavano sentir declamare i
nomi secondo l’usanza del suo popolo. Anche perché quei nomi
comprendevano numerosi ascendenti che, nella migliore delle ipotesi,
risalivano alla ventesima generazione.
«… ehm… tutti mi chiamano Jorg, chiamatemi
così, anche voi, milord». Il barbaro trattenne una risata e si voltò
un’altra volta verso la propria vittima.
«Chiedigli scusa o passerai la notte così».
L’uomo che rispondeva al nomignolo di whip non rispose, restando con lo sguardo fisso nel
vuoto, ancora stordito dal volo attraverso la sala e dall’umiliazione
subita.
L’omino elegante si avvicinò con fare
minaccioso.
«Ora basta. Siete solo un servo e non avete
il diritto di trattare così un signore. Ho fatto il viaggio da
Elosbrand a qui con questi artisti e posso assicurarvi che sono persone
assai più rispettabili di un selvaggio come voi».
Deckard si voltò lentamente verso l’incauto
interlocutore. Le mani si erano serrate a pugno e parevano due magli
pronti a entrare in azione. Quasi certamente avrebbe colpito l’azzimato
individuo che osava parlargli in quel modo arrogante, se il suo
compagno di viaggio non si fosse intromesso rapidamente.
«Messer Faulkner! Ma che sorpresa! Anche voi
in viaggio con questo tempo da lupi?».
L’omino rimase interdetto, osservando il
gentiluomo che lo aveva apostrofato così. Lentamente nei suoi occhietti
comparve una luce di comprensione. Aveva visto già da qualche parte
quel damerino.
«Lord… Windström?».
«Sono proprio io, messere, lord Bailey
Windström. Sono lieto che vi ricordiate di me. Ci siamo conosciuti al
ricevimento di lady Imbert, questa primavera».
Monia per poco non si mise a ridere. Un
gentiluomo di nobile famiglia che si dichiarava contento di essere
ricordato da un borghese! Eppure le parole del giovane dovettero
sortire l’effetto voluto, dal momento che messer Cedric Faulkner gonfiò
il petto e quasi arrossì di piacere, salutando con calore l’elegante
aristocratico. La rissa era scongiurata.
«Ma come potrei mai dimenticare uno dei
gentiluomini più apprezzati di Elosbrand! La vostra cortesia e
generosità sono quasi leggendarie, sapete?». Così, messer Faulkner
cominciò a chiacchierare fittamente col giovane lord, invitandolo al
proprio tavolo e dimenticandosi completamente del povero domatore,
tristemente appeso al gancio da salumi. Monia corse in cucina dove,
finalmente, poté sciogliere la risata che minacciava di farle scoppiare
il petto. Una risata con una punta d’amaro, però: che
gente meschina c’è al mondo!
Pure Stanley Cannon aveva osservato la scena
con evidente divertimento ma si stava chiedendo se realmente il barbaro
avrebbe lasciato quel tipo appeso al gancio per tutta la notte. Sospirò.
Sospettava di sì.
L’anziano capo della compagnia girovaga gli
si avvicinò con aria imbarazzata.
«Signor Cannon, Whip, ehm,
William ha un gran brutto carattere ma forse non è il caso di lasciarlo
davvero lì fino a domani».
«Signor Laurel, convincetelo a chiedere
scusa allo gnomo, perché quella specie di gigante non credo proprio che
cambierà idea. Io non ci litigo di certo, ho passato l’età delle
risse!».
«D’accordo, proverò a convincere Whip
a ragionare. Vedrete che ci riuscirò. È cocciuto ma non stupido. Voi
mettete una buona parola con quel barbaro, mi raccomando».
Il grassoccio attore si avvicinò al collega
appeso e incominciò a parlargli quietamente. Il domatore, sulle prime
sembrò disinteressato alle parole di Laurel ma, poi, la sua attenzione
parve crescere, sicché il locandiere cominciò a sperare. Quando, però,
il gigante se ne tornò al tavolo ignorando la sua vittima e dedicandosi
alla cena, riprese a preoccuparsi.
Monia tornò nella sala con ancora le lacrime
agli occhi e si avvicinò all’oste sorridendo.
«Allora? Pace fatta?».
«Per quel che riguarda il mercante, direi di
sì. Per quell’idiota appeso, invece, le trattative sono ancora in
corso. Porta un’altra razione abbondante a quel barbaro, chissà che non
lo rabbonisca».
Al tavolo di messer Cedric Faulkner,
intanto, la conversazione era sempre vivace e cordiale, con la loquace
miss Faulkner che teneva banco riferendo gli ultimi pettegolezzi di
Elosbrand da dove era partita una settimana prima.
«…e pare che Blackwind continui a depredare
i più ricchi della città!». La ragazza parlava quasi sottovoce, con
aria di chi la sa lunga.
Lord Windström le rivolse un sorriso
affascinante. Non era bella, miss Lilian Faulkner, con un naso troppo
aquilino e le labbra troppo sottili, eppure i suoi occhi grandi e
vivaci sapevano colpire chi l’avesse osservata con attenzione. Era
magra, anche troppo, con forme appena (o forse non ancora) accennate e
un po’ troppo poco femminile nell’atteggiamento ma sapeva affascinare
con una conversazione brillante, acuta e intelligente a dispetto dei
suoi diciassette anni appena compiuti. Non era bella ma aveva un suo
fascino.
«Davvero? Raccontate, mia cara».
L’aristocratico giovane pareva divertirsi un mondo, mentre il suo
compagno aveva assunto un’aria perplessa che strappò un sorriso alla
biondissima damigella.
«Non ci credete, vero? Eppure un gioiello
preziosissimo è sparito e, visto che non si capisce come abbiano fatto,
sembra proprio opera sua. Pare che sia stato rubato, proprio il giorno
prima della nostra partenza, un gioiello famosissimo: il “collare di
fuoco”, un meraviglioso girocollo di rubini che apparteneva a lady
Bracknell».
«Lady Bracknell? La moglie di lord Mark
Bracknell, il senatore?».
«Proprio lei, milord! La moglie dello
“sparviero”. Quello che si è arricchito sui fallimenti degli armatori».
Disse le ultime parole quasi sussurrando, come una cospiratrice.
«Lilian, ti prego!». Messer Faulkner parve
scandalizzato.
«Non mi interesso molto di affari economici,
miss Faulkner, perdonatemi ma non so di cosa parliate… Ma raccontateci
di questo furto mirabolante, vi prego».
La ragazza parve dispiaciuta di non essere
stata seguita sul terreno dei pettegolezzi ma era troppo contenta di
poter raccontare una storia piena di mistero, sicché proseguì con tono
professionale.
«Un colpo veramente nel suo stile: il
gioiello era chiuso in una stanzina con una porta blindata che, badate,
non è stata forzata, e senza altre aperture che una finestrella dalla
quale non sarebbe potuto passare nessun uomo».
«Se è stato davvero rubato il gioiello,
qualcuno deve pur essere entrato in quella stanza. Avranno usato una
chiave falsa o qualche altra diavoleria. Se la finestra è troppo
piccola, devono essere per forza passati dalla porta!». Obiettò il
gentiluomo. Stava per fare un’altra osservazione, quando vide l’oste
avvicinarsi al tavolo, con aria imbarazzata.
«Ehm… miei signori, quell’uomo si è scusato…
sarebbe possibile farlo scendere da lassù?».
Messer Faulkner fece un gesto infastidito
con la mano, come a significare che non era il caso di disturbarli per
una questione tanto futile. Deckard, impegnato con un’enorme bistecca,
fece finta di non aver sentito. Lord Windström sorrise e si scusò con i
commensali.
«Perdonatemi, signorina. Messer Faulkner.
Torno subito». Si alzò da tavolo e si diresse con noncuranza verso
l’uomo appeso.
«Vedo con piacere che siete una persona
ragionevole. Vogliate continuare a esserlo, signore, e badate che
questa discussione col mio amico non abbia ripercussioni sul vostro
servitore». Sguainò la spada e la fece scorrere lungo l’addome
dell’uomo. «Dovesse giungermi alle orecchie potrebbe accadervi di
perdere qualcosa di prezioso».
William whip Pasterron, domatore, acrobata
e molto altro ancora, divenne, se possibile, più pallido e fece cenno,
col capo, di aver capito.
«N-non ci saranno co-conseguenze, mi-milord.
Ve lo g-giuro».
«Bravo ragazzo!». La spada del gentiluomo
scattò come un serpente recidendo la cintura del malcapitato che rovinò
al suolo fra le risa degli astanti. Lord Windström non lo degnò di uno
sguardo e se ne tornò al tavolo dove messer Faulkner si stava
sbellicando dalle risa.
Il capo degli artisti si avvicinò
timidamente all’aristocratico giovane, proprio mentre questi stava per
riprendere il proprio posto.
«Milord, perdonate il mio uomo se vi ha
procurato disturbo. William non è cattivo. Solo un po’ arrogante, ma
dovete capirlo, è la stella del nostro spettacolo, si sente un reuccio».
«Non preoccupatevi messere. Capisco
perfettamente. Vi prego però di consigliare al vostro reuccio una
riposante dormita e di non provarsi minimamente a vendicarsi sullo
gnomo. Posso sapere con chi ho l’onore di parlare?».
«Eh? Oh, eccellenza, perdonatemi. Sono
Oliver Laurel, capocomico, cantante, alchimista e guaritore e questa è
la mia compagnia».
«Artisti girovaghi, eh? È un vero peccato
che abbiate soggiornato a Elosbrand proprio durante la mia assenza.
Avrei gradito davvero ospitarvi nel mio palazzo, amo molto l’arte, caro
mastro Laurel».
«Torneremo in primavera nella vostra bella
città, lord Windström. Permettete che vi presenti i miei compagni,
milord?».
«Ma certamente, mastro Laurel, con sommo
piacere».
«Questi è Jeff “blade”
Barthington, acrobata e giocoliere, un giovane che ha uno splendido
futuro nell’arte, credetemi, milord». Il giovane dal promettente futuro
era il ventenne di piccola statura, di bell’aspetto, snello e agile,
con glaciali occhi glauchi che si era quasi azzuffato col collega.
Guardò con sospetto l’aristocratico gentiluomo ma si esibì in un
inchino educato, dimostrando rispetto per l’anziano capocomico.
«… e questa è sua moglie, l’affascinante
Miriam “sugar” Deekin. Acrobata, ballerina, cantante e
attrice, la perla della nostra compagnia».
Una splendida donna dai capelli fulvi e gli
occhi verdi si esibì in un inchino, sollevando poi gli occhi per
sorridere sfacciatamente all’indirizzo del nobile.
«È un onore, conoscere il più affascinante
aristocratico di Elosbrand, milord. Consideratemi a vostra… completa
disposizione».
«Onoratissimo e lusingato, madama, sono
certo che apprezzerò assai la vostra arte». Lord
Bailey restituì l’inchino, fissando negli occhi la procace ballerina.
Lei ammiccò maliziosamente, ricevendo un divertito sorriso per risposta.
«William “whip” Pasterron
lo… ehm… conoscete già, è un acrobata e domatore di gran fama, la
stella del nostro spettacolo e Jorg è il suo assistente».
«Sono certo che messer Pasterron sia un
artista di valore. Deve solo imparare a controllarsi meglio e a
rispettare i suoi collaboratori. Mi dispiace per quanto è accaduto ma
il mio amico non tollera le angherie verso i più deboli».
«Avete ragione, milord. Ma whip aveva bevuto
ed era già contrariato perché avevamo rifiutato di ripartire all’alba
di domani, con questo tempo… spero vogliate ritenere chiusa la
questione».
«Certamente, messer Laurel. Perdonatemi ora
ma desidero terminare la cena e andare a riposare, dopo una giornata
davvero pesante».
Sono a vostra completa
disposizione. Monia trattenne un sorriso di fronte a tanta goffa
sfrontatezza. Anche lei sapeva sedurre un uomo ma era abbastanza
intelligente da capire che un tipo come quel gentiluomo difficilmente
sarebbe stato davvero tentato da una proposta tanto volgare. Comunque
l’incidente era chiuso e, poco dopo, tutti erano tornati a sedere ai
propri posti. La serata volgeva finalmente al termine.
Lentamente, i tavoli si svuotarono e gli
avventori si ritirarono nelle loro camere. Il silenzio scese nella
grande sala da pranzo mentre fuori la neve continuava a cadere
fittamente. Monia rimase a lungo fra gli scuri e la pesante tenda ad
ascoltare il vento.
Qualcuno bisbigliava nel buio.
Che ora era? Doveva essersi addormentata
dietro la
finestra. Il vento pareva molto meno intenso. Il
tendaggio che la separava dalla sala le impediva di vedere chi era
alzato a quell’ora di notte.
«Non andare!». Una donna,
giovane.
«Vieni con me, allora». Un uomo.
«È pericoloso con questo tempo!». La donna . Monia
non avrebbe saputo dire chi fosse.
«Non intendo restare ancora. Vieni con me e
sarai la donna più ammirata e invidiata del Kaardir, ormai sono ricco, credimi». Il domatore. Ecco.
Certamente era lui.
«Io ti seguo perché ti amo, non perché sei
diventato ricco. A parte che non capisco come avresti fatto». Nulla da fare. La ballerina o la figlia del mercante?
Monia non riusciva a capire.
«Te lo dirò lungo il viaggio! Andiamo, ha
smesso di nevicare».
«Devo prendere le mie cose!».
«Sei pazza? Potrebbe svegliarsi! Andiamo
via, ora».
«Non si sveglierà, ha il sonno pesante. Vai
al carro, ti raggiungerò subito».
«Mi raccomando! Aspetterò al massimo
mezzora. E se lui ci dovesse seguire?».
«Non ci seguirà. Quando si sveglierà saremo
già lontani. E saremo felici». Una pausa. Un bacio?
«Vai, e sbrigati». Passi leggeri sulla
scala. Lo scorrere della catena. Il gelo aveva fatto irruzione nella
sala. Monia lo avvertiva anche dietro quel tendaggio. Perché
non l’ho scostato? Alzò le spalle. Forse perché era buio pesto e
non avrebbe visto nulla rischiando, al contempo, di farsi scoprire. E
quell’uomo dai modi gentili ma dai violenti scoppi d’ira
e dalla frusta facile le faceva paura.
Attese qualche minuto. Silenzio. Provò a
sporgersi verso la tenda. Silenzio. Spostò
la tenda con cautela. Silenzio. Buio fitto. La curiosità la rodeva: chi
era la ragazza che voleva fuggire col domatore? La vivace figlia del
mercante o la seducente ballerina? Doveva trovare un posto da dove
poter vedere chiaramente la porta della locanda. Il sottoscala. I
gradini avevano ampie fessure dalle quali osservare cosa accadeva nella
sala e la scala arrivava fin quasi alla porta. Sarebbe stata abbastanza
vicina da poter riconoscere quantomeno il colore dei capelli. La bionda
o la rossa? Si mosse in silenzio in quell’ambiente che conosceva alla
perfezione e raggiunse la porticina che conduceva allo sgabuzzino
ricavato sotto la scala di legno. Entrò e attese.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
Deckard si svegliò – o, per dir meglio, fu
svegliato – prima del solito, quel giorno. Era mattiniero per lunga
abitudine ma stavolta qualcuno doveva esserlo stato più di lui perché
in strada si udivano voci concitate. Bestia. Cercò di
allontanare i fumi del sonno e tese l’orecchio. Due voci. Troppo
confuse per capire qualcosa. Solo quella parola gli era giunta
chiaramente: bestia. Che bestia? Di cosa stavano
parlando? Cercò di riprendere sonno ma la curiosità e l’istinto lo
spinsero a chiedersi cosa stesse accadendo.
Si
alzò silenziosamente dal pagliericcio e si avvicinò alla finestra. Le
voci erano sempre confuse. Provò a scostare gli scuri e subito la luce
bianchissima e gelida dell’alba innevata irruppe nella camera. Ammazzata. Chi era stata ammazzata? Il suo compagno si
voltò verso il muro e si avvolse più strettamente nel mantello. Come
diavolo facesse quello a dormire placidamente ovunque si trovasse, era
un mistero che aveva sempre incuriosito il barbaro. Come era possibile
che un sofisticato damerino si trovasse a proprio agio praticamente
dappertutto? Quel mattino, comunque, era più attratto da quel che
accadeva in strada. Due uomini, evidentemente abitanti del villaggio,
erano riuniti nella piazzetta del pozzo, a pochi metri dalla locanda, e
parlavano fra loro come se fosse accaduto qualcosa di straordinario.
Nulla da fare, non si capiva che qualche parola smozzicata. Ormai il
sonno era scomparso e la curiosità scatenata. Si vestì rapidamente,
prese il mantello e fece per uscire.
«Che
diavolo succede? Deckard, ci sono problemi?». Il giovane aristocratico
si era seduto sul letto e lo guardava con aria perplessa, ammiccando.
Ancora semiaddormentato, pareva abbagliato dal riverbero della luce del
mattino.
«Deve
essere successo qualcosa di strano, al villaggio. Pare abbiano
ammazzato qualcosa o qualcuno. Vado a vedere».
Il
giovane si stiracchiò come un gatto, poi si alzò pigramente in piedi.
Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e rabbrividì.
«Vai,
ti raggiungo subito».
Deckard
uscì rapidamente sul corridoio che conduceva alle scale. La porta di
una camera si aprì e il viso rotondo di Laurel sbucò fuori, ancora con
gli occhi ancora socchiusi dal sonno.
«Sta
succedendo qualcosa là fuori?».
Il
barbaro trattenne a stento un sorriso nel vedere il grasso artista con
una buffa papalina sulla sommità del capo e una camicia da notte dalla
quale il pingue addome dell’uomo pareva volesse evadere a ogni
movimento.
«Non
so. Ci sono due che discutono in piazza, sembrano molto eccitati. Vado
a vedere di che si tratta». Salutò l’attore con un cenno del capo e si
avviò lungo il corridoio. Un altro uscio parve schiudersi ma nessuno si
fece vedere e Deckard proseguì a grandi passi. Era curioso e non amava
molto le chiacchiere. Scese rapidamente le scale che gemettero sotto il
suo peso, raggiunse la porta e uscì nel gelo nevoso del mattino,
dirigendosi verso la piazza.
Monia
si svegliò allarmata. Il soffitto pareva doverle crollare in testa da
un momento all’altro. Ma dove diavolo era? Che ci faceva nel
sottoscala? Dei santissimi! Si era addormentata di
nuovo. E la misteriosa ragazza? Era uscita senza che lei sentisse
nulla? E ora cosa stava accadendo? Volle uscire ma prese una ramazza
per darsi un contegno. Sarebbe stato seccante spiegare che aveva
dormito nel sottoscala per spiare, peraltro inutilmente, un convegno
amoroso. Uscì dalla porta dello sgabuzzino appena in tempo per vedere
allontanarsi Deckard. Si avvicinò alla soglia e udì le voci che
provenivano dalla strada. L’aria fredda finì di svegliarla del tutto.
Incuriosita, girò attorno alla scala, acchiappò un pesante mantello di
lana e corse dietro al barbaro.
Oliver
Laurel impiegò un minuto a rendersi conto che qualcosa non quadrava. Un
irrazionale senso d’inquietudine lo attanagliava, rendendogli penosi
anche i movimenti più semplici. Cercò di rassettarsi un po’. Si lavò il
viso con l’acqua gelida del bacile e uscì nel corridoio vestito meglio
che poteva. La curiosità lo spingeva a uscire sulla strada ma quella
strana angoscia lo trattenne. Bussò alla porta accanto alla propria
camera.
«Chi
è?». La voce di Jeff pareva ancora impastata dal sonno.
«Sembra
che ci sia un po’ di agitazione in paese, vado a vedere cosa succede».
«Vai,
ma se è quel cretino che ne ha fatta qualcuna delle sue non ci
svegliare. Sugar ed io abbiamo ancora sonno».
Attività notturna, pensò l’anziano capocomico,
sorridendo. Poi esitò. Whip ne aveva davvero combinata
un’altra? Raggiunse la camera del domatore e bussò. Silenzio. Bussò
ancora. Nessuno rispose. Spinse la porta che si rivelò aperta. La
stanza era buia, dunque spalancò la porta e, alla tenue luce che
giungeva dal corridoio, si diresse alla finestra e la aprì.
Nulla.
Era deserta. William se ne era andato davvero. E Jorg? Allarmato,
Laurel raggiunse lo sgabuzzino dove lo gnomo si era arrangiato a
ricavare un giaciglio, giacché il suo padrone non lo aveva voluto con
sé nella camera. Una specie di squittio lo accolse, facendolo
trasalire. Un sospiro di sollievo gli sfuggì nel vedere gli occhi
spalancati e il volto terrorizzato dello gnomo, ancora sdraiato su una
coperta gettata al suolo, dietro un baule.
Deckard
raggiunse in un attimo la piazzetta centrale del paesello, dove il
pozzo di pietra, quasi completamente coperto di neve, torreggiava nel
centro, sormontato da un arco metallico dal quale pendeva una
carrucola. Da qualche parte, sotto la neve, doveva esserci un secchio,
pensò il barbaro. Un gruppo di persone stava discutendo animatamente
all’ingresso della piazza, dove la strada attraversava un arco ricavato
fra due case, proprio nei pressi della locanda.
«Cos’è
successo?».
Due
uomini robusti guardarono con sospetto l’enorme barbaro. Uno dei due
brandiva un’accetta e l’altro una roncola. Parevano decisamente
eccitati. Quello armato di accetta si avvicinò minacciosamente allo
sconosciuto.
«Da
dove venite straniero?». La voce dell’uomo era arrogante e sgradevole.
«Dalla
locanda. Ho raggiunto il passo ieri sera con un mio compagno e ci siamo
fermati per via della bufera». Deckard parlava con calma. Quei due
erano evidentemente agitati e avrebbero potuto fare qualche
stupidaggine e lui non aveva voglia di una rissa. Almeno, non prima di
colazione.
«E
non avete visto nulla?». Stavolta era stato l’uomo con la roncola a
parlare. Anche nella sua voce c’era un che di accusatorio che infastidì
il barbaro.
«Neve
e alberi. Cos’altro avrei dovuto vedere?». L’uomo con la roncola fece
per rispondere ma fu bruscamente zittito dall’altro.
«Ma
davvero? Che cosa avete portato con voi? Ne riparleremo con le guardie.
Tornate coi vostri amici girovaghi e non lasciate la locanda». C’era un
ridicolo tono di superiorità nella sua voce, forse si sentiva
rassicurato dalla presenza del compagno, oppure dal fatto che il
barbaro era disarmato.
Deckard
stava per perdere la pazienza con quei due, quando la giovane
locandiera sbucò al suo fianco.
«E
le guardie dove le trovi, Ross? A Mer? Lo sai che ci vogliono due
giorni con questa neve, ammesso che non ne cada altra? Questo signore è
un mio cliente ed è un tipo a posto». La voce di Monia era tagliente,
sarcastica e lo sguardo di disapprovazione che accompagnava le sue
parole avrebbe ferito chiunque. L’individuo con l’accetta, che
rispondeva al nome di Ross, si fece di mille colori e abbassò il capo.
«Monia,
che ne sapevo? Questo è uno straniero. E anche se non è uno di quegli
attori di strada? Qui sono successe cose strane. Hanno portato i
diavoli…». Imbarazzo e forse paura: Deckard cominciò a sospettare che
quell’uomo fosse combattuto fra un inspiegabile senso di trionfo e di
timore.
«Insomma,
Ross, vuoi dirci che diamine è accaduto?». La ragazza pareva esasperata.
«Un
gatto…». L’imbarazzo nella voce raggiunse vette straordinarie.
«Che?».
Monia spalancò gli occhi.
«Un
gatto, enorme, nero come l’inferno… forse un diavolo?». L’uomo era
sempre più impacciato ma anche confusamente orgoglioso di avere
scoperto qualcosa di insolito.
«Ross,
sei ubriaco di prima mattina? O è ancora la sbronza di ieri sera?». La
ragazza si accigliò, chiedendosi cosa mai avesse potuto aver visto
effettivamente quell’uomo. Era un taglialegna di scarsa fantasia, media
intelligenza e nessuna cultura, sia da sobrio, sia da ubriaco. La
classica persona incapace di raccontare frottole credibili.
«Monia,
vai a vedere! È sul ciglio della strada, mezzo coperto di neve, subito
di là dal ponte!». Stavolta, la voce dell’uomo pareva soprattutto
esasperata. Deckard sospettò che Ross dovesse tenere particolarmente
alla considerazione della locandiera.
«Ross,
sarà stato un orso! Che razza di gatti hai visto per confonderli con un
orso?».
«Monia,
gli orsi, in questa stagione dormono nelle grotte. Questo è un gatto
enorme. Ed è morto». Qualcosa di ragionevole c’era, nei discorsi di
quell’uomo. Il barbaro cominciò a credere che effettivamente fosse
accaduto qualcosa di strano.
Lord
Bailey Windström, elegantissimo come sempre, apparve sulla strada,
sotto l’arco. La sua voce armoniosa echeggiò nella piazza con
un’evidente nota di divertimento.
«Andiamo
a vedere questo gattone, Deckard. Il signore mi sembra sincero e
perfettamente sobrio. Un po’ maleducato ma sobrio».
Non
attese nemmeno la risposta degli altri e si diresse verso il ponticello
che scavalcava il fossato intorno al paese, ancora coperto di neve
intatta, con solo le impronte di Ross e del suo compagno. Camminava
sicuro, anche se in modo faticoso nella neve alta, attento a non
avvicinarsi troppo alle poche tracce che macchiavano il candido manto
che copriva la
terra. Deckard si mise in marcia seguendo le orme del
suo agile compagno e Monia fece altrettanto.
Poco
fuori dal paese, sul ciglio destro della strada, una grossa macchia
nera spiccava sulla neve che la circondava e, in parte, la ricopriva. Il
giovane aristocratico si avvicinò con circospezione alla figura che,
effettivamente aveva un aspetto felino. Si fermò, osservò attentamente
la scena e, solo dopo qualche istante, si accovacciò accanto alla
creatura sulla neve.
Anche
Deckard si avvicinò con prudenza, con gli occhi fissi sul terreno
innevato. Poi si allontanò di una decina di passi, fermandosi
dall’altra parte della strada, nei pressi di un piccolo gruppo di
alberi e di un muretto che racchiudeva un’icona di Telgëa, vicino al
quale c’erano due carrozze, di quelle usate dagli
artisti girovaghi per viaggiare da un punto all’altro del mondo, col
loro carico di storie, sogni, inganni e magie. Il barbaro si era
fermato accanto ai carri, in un punto dove lo spessore della neve
pareva minore.
Monia
rimase indietro, sulla strada, temendo di ostacolare i due uomini.
Ordinò a Ross e all’altro uomo, che si chiamava Vernon ed era il
fratello di Ross, di fare altrettanto.
«Allora,
milord? Cos’è?».
«Il
vostro amico non aveva tutti i torti, Monia. Questo è davvero un grosso
gatto nero».
Il
gentiluomo si alzò in piedi e si diresse verso la ragazza che lo
guardava con gli occhi sgranati. Il suo viso, sempre sorridente, era
ora atteggiato a una profonda preoccupazione, i suoi occhi verdi,
sempre arguti e seducenti, erano lontani, persi chissà dove.
«Come?
Un gatto?».
La
mente del giovane era evidentemente impegnata in ragionamenti
complessi, perché non rispose. La ragazza dovette ripetere la domanda
per farsi capire.
«Un
gatto?».
Lord
Bailey si riscosse, posando i suoi occhi profondi sulla ragazza e
sorridendole dolcemente. Ma in quegli occhi c’era tanta preoccupazione.
La sua voce suonò grave, quando le rispose.
«In
effetti, si tratta di una pantera dal manto nero. Un animale che non
vive certamente da queste parti. Temo che questa sia una faccenda
piuttosto seria, signorina».
«Ma,
a parte il fatto insolito della presenza di questo animale, non vedo
cosa ci sia da preoccuparsi».
«Questa
bestia non è arrivata qua da sola, Monia. Qualcuno l’ha portata, aveva
un padrone. Sarei più tranquillo se quel qualcuno fosse qui, ora».
«Volete
dire il domatore?». Improvvisamente, la ragazza si ricordò del
colloquio udito quella notte. «Stanotte diceva di volersene andare…».
«Vi
ha confidato questo?».
«Beh…
no. Ho udito per caso certi discorsi…». La giovane locandiera vide lo
sguardo allarmato di lord Bailey, dunque gli raccontò tutto.
«…
e siete certa che nessuno sia uscito dopo di lui?».
«Purtroppo
mi sono addormentata… non sono certa, anche se mi sembra difficile».
In
quel momento, Oliver Laurel si avvicinò, camminando goffamente sulla
neve fresca. Anche il suo volto, in genere gioviale, appariva segnato
dalla preoccupazione. Appena vide il cadavere della pantera corse verso
il povero animale, con un gemito soffocato.
«Santi
Dei! È Kira… ma cosa è accaduto?».
Lord
Bailey si avvicinò al corpulento attore. In lontananza, il brontolio
del tuono ricominciava a farsi sentire.
«Immagino
si tratti della pantera del signor Pasterron, vero?».
Laurel
si volse verso il gentiluomo, con gli occhi offuscati di lacrime e la
voce piena d’angoscia.
«Sì,
milord. E lui è scomparso».
Lord
Bailey non parve sorpreso della scomparsa del domatore. Annuì
gravemente col capo e indicò Deckard, ancora
chino sulla neve, intento a cercare chissà cosa.
«Il
suo carro era fermo là dove si trova il mio amico?».
L’anziano
attore guardò nella direzione indicata, riconoscendo immediatamente il
posto dove il suo domatore aveva fermato il carro, al riparo di un
gruppo di alberi e del muretto con l’immagine votiva.
«Allora
è partito… ma come ha fatto a lasciare qui Kira? Non l’avrebbe
abbandonata mai, era sinceramente affezionato a questo animale… e chi
l’ha uccisa?».
«Tre
colpi di balestra». Il giovane lord si voltò verso l’attore. «Anche lo
gnomo è scomparso?».
«No,
milord. Non sa cosa pensare. Dormiva e non si è accorto di nulla. Ma
ora come faccio a dirgli della pantera? Povero Jorg… Mi sembra un
brutto sogno». Laurel pareva sinceramente costernato e la sua voce
stava prendendo un tono lamentoso, insolito in un tipo apparentemente
sempre allegro. I suoi occhi vagavano smarriti dalla carcassa della
pantera al punto dove avrebbe dovuto trovarsi il carro del suo padrone.
«Sono stati quei due!». Si era rivolto a Ross e Vernon, paonazzo in volto, e li indicava al giovane lord.
«Calmatevi,
Laurel, non c’è nessuna prova che siano stati loro».
«Si
sono vendicati! Ieri, appena siamo arrivati, hanno attaccato briga con whip! Lui li ha scacciati e loro si sono vendicati».
«Laurel».
La voce di Lord Bailey era sempre calma e paziente. «se fosse così,
avrebbero ammazzato la pantera nella gabbia. Non l’avrebbero certamente
liberata. E Pasterron è sparito. Non avrebbe abbandonato la sua
pantera, vero?».
«No,
avete ragione. Mi sono fatto prendere dalla
disperazione. Scusatemi. Anche voi, signori».
I
due uomini, imbarazzati, borbottarono qualcosa che fece intendere che
l’incidente poteva ritenersi chiuso e fecero per allontanarsi. Monia li
trattenne seccamente.
«La
pantera portava un collare, di solito?». La voce pacata di Lord Bailey
riscosse lo sconvolto capocomico.
«Eh?».
Laurel guardò perplesso il suo interlocutore, poi comprese e annuì.
«Sì,
milord, un collare di cuoio con borchie di bronzo. Whip
diceva che la rendeva ancora più minacciosa, anche se, in realtà, era
un animale piuttosto mansueto». Sorrise, preso da chissà quali ricordi,
poi le lacrime tornarono a rigargli le guance paffute.
«Non
aveva mai aggredito nessuno?». Il giovane gentiluomo proseguiva nel suo
interrogatorio con voce dolce e rassicurante, gli occhi verdi pieni di
compassione per quell’anziano artista.
«Assolutamente
no, whip la trattava benissimo. Ovviamente, era pur
sempre un animale pericoloso, dunque nessuno osava avvicinarsi senza
che Jorg o William fossero nei paraggi, però non erano mai accaduti
incidenti di nessun genere». Esitò un attimo. «Perché mi avete chiesto
del collare?».
«Perché
ne vedo i segni sul collo, ma il collare non c’è». Lord Bailey gli
indicò il collo dell’animale dove la splendida pelliccia nera mostrava
i segni del continuo sfregamento contro qualcosa che lo circondava
completamente. Laurel seguì meccanicamente le indicazioni del
gentiluomo ma pareva che la sua mente fosse altrove.
«Evidentemente,
ha davvero voluto liberarla… non capisco perché».
Nel
frattempo, Deckard aveva raggiunto il piccolo gruppo. Il vento riprese
a lamentarsi fra gli alberi.
«Credo
sia partito un po’ prima dell’alba. Nevicava ancora, deve aver smesso
circa un’ora dopo. Mi chiedo che fretta avesse… Hai esaminato la
pantera?».
Lord
Bailey riferì all’amico quanto aveva ricavato dall’esame della carcassa
della povera Kira, poi si rivolse a Monia.
«Andate
a chiamare vostro padre, miss Monia. Mi pare di capire che sia il
personaggio più autorevole del villaggio, dunque è giusto che venga
informato di quanto è accaduto».
La
ragazza fece un inchino e lanciò un’occhiata maliziosa al giovane
aristocratico, prima di voltarsi e correre verso la locanda.
«Le
piaci». Osservò sottovoce Deckard, mentre la ragazza si allontanava
ancheggiando. Poi si avvicinò alla pantera, esaminandola attentamente.
«Davvero?».
Lord Bailey sorrise all’amico. Era assai apprezzato dalle donne, lo
sapeva e sapeva approfittarne. Eppure, sentiva che con quella ragazza
tutto doveva restare un gioco. Andare oltre sarebbe stato pericoloso. E
il suo cuore era rivolto altrove, fra le strade e i vicoli di
Elosbrand, dove una donna bella e micidiale lottava contro il mondo,
forse macchiandosi di nuovi delitti. E lui ignorava pure quale fosse il
suo nome.
«Signor
Laurel credo che sia opportuno tornare alla locanda. La tregua che il
tempo ci ha concesso temo sia agli sgoccioli».
Le
nuvole erano tornate a farsi basse e minacciose e qualche fiocco di
neve stava ricominciando a cadere pigramente dal cielo plumbeo. Laurel
tornò verso il villaggio scuro in volto e con un sospetto tremolio
sugli occhi. La delusione di essere stato abbandonato da uno dei suoi
artisti lo aveva ferito profondamente. Il nobiluomo lo osservò mentre
si allontanava ed ebbe compassione per l’anziano artista. Si riscosse
quando il gigantesco barbaro si alzò in piedi e si avvicinò nella sua
direzione a grandi passi. Anche Ross e il fratello tornarono verso il
villaggio e il giovane aristocratico li ignorò.
«Hai
ragione. Almeno due balestre diverse. Una leggera e una pesante.
Francamente non capisco. Se è stato il domatore, chi lo ha aiutato? E
perché ammazzare la sua pantera? E se sono stati quei due, chi ha
liberato la pantera? E, poi, cosa gli è saltato in mente a quello
sconsiderato di andarsene con questo tempo? Lo ritroveranno in fondo a
qualche scarpata!».
«Temo
che tu abbia spaventosamente ragione, amico mio». Lord Bailey aveva
un’espressione assorta, inseguendo chissà quali pensieri. «Però c’è
un’altra domanda, da porsi. La più critica, perché dalla risposta
deriva la soluzione di tutto quest’arcano… perché il collare è
scomparso?».
La
neve continuava a cadere, sempre più fitta, ottundendo suoni e immagini
di quel mattino gravido di mistero. Il gigante sentiva il desiderio di
tornare al riparo, nei pressi del grande camino della locanda. Guardò
il suo amico con aria confusa.
«Cosa?
Forse semplicemente non lo aveva al collo, magari la lasciava senza,
quando non c’erano spettacoli in vista… non capisco perché sia tanto
importante…».
«Non
credo. Hai visto i segni sul collo? Questa bestia portava sempre il
collare, ci scommetto la camicia. Non aveva
senso toglierlo, a meno che…». Un’espressione allarmata comparve sul
volto del giovane che si diresse rapidamente verso il posto dove il
carro doveva aver trascorso larga parte della notte.
Nel
frattempo, Stanley Cannon era sopraggiunto a grandi passi, seguito
dalla giovane figlia e da un Cedric Faulkner accigliato come non mai.
L’imponente locandiere si fermò accanto a Deckard. Aveva simpatia per
quel barbaro, forse per l’episodio della sera precedente o forse,
semplicemente, perché gli ricordava i tempi gioiosi della sua
giovinezza. Guardò perplesso l’animale ucciso e il gentiluomo che
camminava in mezzo alla neve con gli occhi fissi al suolo.
«Ma
cosa diamine è successo? Hanno ammazzato quella bestia e il suo padrone
è scomparso? Ma dove può essere andato, con questo tempo?».
Il
barbaro era altrettanto confuso ma cercò di rassicurare il locandiere.
«Forse la faccenda di ieri sera l’ha esasperato… forse meditava da
tempo di lasciare la compagnia. Certo ,
con questo tempo… Non capisco però perché abbandonare la pantera».
Faulkner
lo interruppe con voce querula. Era seccato per tutta quell’agitazione,
per il freddo che gli toccava patire, per la neve che stava nuovamente
cadendo, per un’altra giornata persa in quel posto dimenticato dagli
Dei.
«Ma
cosa ci interessa di quella bestia?».
Deckard
sentì prudergli le mani, sicché decise che era meglio allontanarsi da
quell’individuo così odioso. Cannon ebbe lo stesso impulso ma si
trattenne e si rivolse al mercante.
«Signor
Faulkner, a parte il problema della pantera, è scomparso il suo
proprietario. Per me, questo è un motivo sufficiente per cercare di
chiarire questa faccenda».
«Ma
aveva detto che se ne sarebbe andato. Che c’è di male se una persona,
una volta tanto a questo mondo, mantiene la parola data? L’aveva detto
e l’ha fatto. Forse ora è già a valle. Certamente in un posto migliore
di questo. E, ripeto, che c’importa di quella bestia?».
La
voce di lord Bailey lo interruppe.
«Temo
che sia andato poco lontano signori. E non ha abbandonato il suo
animale».
Fece
cenno agli altri di raggiungerlo e, mentre si avvicinavano, il
locandiere e sua figlia si accorsero che il suo volto era diventato, se
possibile, più grave.
Era
chino sulla neve, dove pareva aver scavato delicatamente e ora
osservava con espressione pensierosa il fondo della piccola buca
candida. Laurel e Deckard si avvicinarono perplessi, poi sgranarono gli
occhi nel vedere una larga macchia scarlatta emergere da sotto la neve.
«Santi
numi! Ma questo è sangue!». Cannon sgranò gli occhi e, istintivamente,
strinse a sé la figlia che era decisamente impallidita. Deckard si era
immediatamente inginocchiato accanto all’amico. Faulkner, pallido e
spaventato, pareva sul punto di svenire.
Il
giovane aristocratico alzò gli occhi verso di loro. Era scuro in volto
e i suoi occhi verdi palesavano un’intensa preoccupazione.
«Esattamente,
signor Cannon. E non credo affatto sia della povera Kira».
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
L’ampia sala da pranzo della locanda era
invasa da un gelo che neppure il fuoco vivace del grande camino
riusciva a scacciare. Volti pallidi e tesi si guardavano con reciproco
sospetto mentre fuori la tormenta infuriava, ululando lugubremente fra
le case spaurite del piccolo villaggio. Candele e lucerne proiettavano
ombre paurose e tremolanti sui gelidi muri di pietra. Sui tavoli spogli
poggiavano solo gomiti irrequieti e piedi nervosi picchiettavano sul
pavimento della sala. Nessuno parlava, nessuno osava muoversi. Nessuno
aveva voglia di mangiare, sebbene l’ora di pranzo fosse passata da un
pezzo. Quando la porta del locale si spalancò improvvisamente, seguita
dal vento ghiacciato della tormenta, tutti gli occhi si puntarono
sull’imponente figura di Stanley Cannon, coperto di neve e scuro in
volto. Con lui entrarono Deckard e Ross, e il gelo divenne ancora più
intenso.
«Era laggiù, in fondo alla scarpata, insieme
al carro e al cavallo». Cannon rispose con voce lugubre alla muta
domanda che tutti quegli occhi gli avevano posta. «Lo recupereremo
quando il tempo ce lo permetterà. Ucciso da un colpo di pugnale.
Milord, avevate ragione».
«Speravo di essermi sbagliato, signor
Cannon». La voce quieta di lord Bailey suonò tristemente lieve nella
sala silenziosa. Gli occhi del gentiluomo percorsero i tavoli e i volti
grigi degli avventori. «Questo significa che probabilmente, fra noi,
c’è un assassino. Più d’uno, forse».
Numerose voci suonarono concitate in una
cacofonia di domande e proteste, emozioni che si mescolarono al gelo e
alle ombre. Paura, indignazione, confusione, stupore, sospetto,
minaccia, sconcerto. E un gelo ossessionante che invadeva le menti e i
cuori. Il gelo dell’orribile consapevolezza di essere rinchiusi insieme
a chi aveva ucciso uno di loro. Il gelo dell’anima del colpevole. Il
gelo di chi temeva per la propria vita. Il gelo di chi si sentiva
responsabile di quanto era accaduto e sarebbe accaduto nella sua casa.
Il gelo era ovunque.
«Ora basta, maledizione!». La voce di Cannon
tuonò nella sala spegnendo il turbinare di parole che la soffocava. Il
suo sguardo furente frustò i volti delle persone radunate intorno ai
tavoli. «Ma l’avete capito che è stato ammazzato un uomo? Uno di noi! E
l’assassino è qui».
Il piccolo gnomo, pallido come un cencio,
pareva respirare a fatica, con gli occhi pieni di lacrime. Teneva gli
occhi fissi sulla massiccia figura di Laurel, il capocomico, salvo
lanciare in qua e là qualche fugace sguardo spaventato.
«Ma come fate a dire che l’assassino è qui?
Non potrebbero essere stati dei briganti che hanno sorpreso Will… ehm,
il signor Pasterron mentre stava lasciando il paese?». La ragazza dai
capelli rossi, si era alzata e aveva preso a camminare nervosamente fra
i tavoli. Indossava un abito sgargiante e ancora più scollato di quello
della sera precedente, che attirava molti degli sguardi dei presenti.
La chioma leonina si muoveva a scatti e i suoi occhi chiari vagavano
sui visi della gente, apparentemente vedendo, però, cose ben più
lontane. Cannon sorrise un po’ a forza, poi rispose alla donna.
«Se Pasterron fosse stato ucciso da un colpo
di balestra, come la sua pantera, l’ipotesi dei briganti poteva avere
un senso. Ma lui è stato pugnalato, signora. Dunque, l’assassino gli si
è potuto avvicinare tanto da poterlo colpire. È chiaro che il signor
Pasterron conosceva il suo assassino e riteneva di non doverlo temere».
Il giovane marito di Miriam prese la parola
balzando in piedi su un tavolo. Tutti gli sguardi si fissarono su di
lui che sorrise alla moglie, prima di rivolgersi al locandiere.
«E allora, perché ha liberato la pantera?
Evidentemente l’ha fatto per scatenarla contro i suoi aggressori, nel
tentativo di salvarsi. Fra l'altro whip aveva una balestra da mano
nascosta sotto la cassetta del carro. E sapeva usarla bene. Dovevano
essere in tanti, hanno ucciso la pantera, sono saltati sul carro e
l’hanno ammazzato. E noi perdiamo tempo qui dentro».
Un’ondata
di sollievo percorse la locanda. L’ipotesi era
credibile. Doveva esserlo. Se gli assassini si fossero rivelati dei
misteriosi briganti, la faccenda avrebbe preso tutto un altro aspetto,
decisamente meno angosciante. La maggior parte dei presenti sperò
fortemente che le cose fossero effettivamente andate così.
Deckard guardò lord Bailey che pareva perso
dietro chissà quali pensieri e non sembrava granché interessato alla
discussione che stava svolgendosi nella locanda. Il barbaro aveva molta
fiducia nel giudizio del suo amico e aveva la netta impressione che non
concordasse affatto con quella ricostruzione dei fatti. Provò a porre
un’obiezione.
«Se le cose sono andate così, perché i
briganti avrebbero sottratto il collare alla pantera?». Il suo amico
aveva dato molta importanza a quel particolare, sicché provò a usarlo
per vedere che effetto avrebbe fatto.
«Ebbene? Che cosa ci importa del collare,
adesso? L’avranno preso come una sorta di trofeo… che cosa volete che
cambi la presenza o l’assenza di un collare?». Era stato Faulkner a
rispondere. Quel barbaro gli stava antipatico. Assurdo che un uomo di
classe come lord Windström si fosse scelto una guida rozza e brutale
come quell’individuo. «Che valore volete che abbia un collare di una
bestia? Ovviamente nessuno!».
«Ovviamente, signor padre. A meno che quel
collare non celasse qualcosa…». Miss Faulkner si era avvicinata al
padre, mettendogli dolcemente una mano sulla spalla e spingendolo a
sedersi. «… qualcosa di molto prezioso. Qualcosa per cui varrebbe la
pena uccidere». I vivaci occhi della fanciulla girarono per la sala,
incrociando tensione, confusione, paura.
«Ma che razza di stupidaggini dici,
Lilian?». Cedric Faulkner non credeva alle sue orecchie. La sua dolce e
obbediente figliola che si permetteva di mettere in dubbio la sua
opinione? Una cosa mai vista alla quale si doveva immediatamente porre
termine.
«Perché stupidaggini?». La giovane
locandiera intervenne con la sua solita disinvoltura. «Avete la fortuna
di avere una figlia capace di usare la testa e vorreste farla tacere?
L’ipotesi di miss Faulkner regge quanto l’altra, se non di più». Monia
sfoderò un sorriso seducente che fece arrossire violentemente messer
Faulkner.
«D’altra parte, se la mia ipotesi ha un
fondamento, lo si può verificare facilmente». Miss Faulkner, forte
della nuova alleata, si rivolse agli astanti con fare un po’ teatrale.
«Basta controllare i bagagli di ciascuno di noi. Nessuno di noi,
immagino, viaggia con oggetti di gran valore che potevano essere
nascosti nel collare di quella bestia. Se qualcuno ha qualcosa del
genere, vuol dire che è l’assassino».
«Lilian! Sei impazzita? Io non ti
permetto…». Messer Faulkner era diventato rosso come un tacchino,
travolto da un misto di rabbia, indignazione e vergogna. Quella
figliola aveva davvero perso il senno. E stavolta non sarebbe bastata
una scollatura a farlo star zitto.
«Perché no?». Il giovane acrobata interruppe
l’iracondo mercante. «Io sono d’accordo con miss Faulkner. Perché
dobbiamo mantenere dei dubbi? Per quanto mi riguarda, la mia stanza è a
disposizione». Jeff guardò la bionda damigella e le sorrise
galantemente. Miss Faulkner rispose distrattamente al sorriso, con lo
sguardo che corse subito altrove, cercando due occhi verdi che, però,
parevano rivolti chissà dove.
«Anche la mia». Oliver Laurel sembrò lieto
di accettare la proposta che avrebbe potuto fugare i dubbi e le paure
che popolavano la sua mente. Il locandiere approvò subito la proposta,
poi si rivolse al gentiluomo che pareva sonnecchiare davanti al camino.
«Milord?».
Lord Bailey si riscosse e si rizzò sulla
sedia, volgendo lo sguardo sul locandiere e incrociando gli occhi
trepidanti di miss Faulkner. Sorrise affabilmente.
«Eh? Ah, certo! Ovviamente, potete frugare
anche nella mia stanza. Ed anche sulla mia persona. Credo che miss
Faulkner abbia avuto un’ottima intuizione. Sei d’accordo, Deckard?».
Il barbaro guardò incuriosito il suo amico.
Cosa stai macchinando? Ovviamente non ebbe obiezioni di sorta.
«Be’… sì, va bene».
Cannon sorrise soddisfatto. Poi si volse
verso i due fratelli che stavano parlottando fra loro, in piedi, presso
la porta della locanda.
«Bene, siamo tutti d’accordo. Anche Ross e
Vernon, ci permetteranno di frugare in casa loro, ovviamente».
«Cosa?». Ross sgranò gli occhi. Vernon
rimase a bocca aperta.
«Mi pare ovvio,» rispose Cannon, «siete
anche voi parte in causa. Non siamo ancora certi che non siate stati
voi a uccidere il signor Pasterron». L’imponente figura del locandiere
torreggiò sui due fratelli che parvero rimpicciolire nella grande sala
da pranzo.
«Ehm, va… bene». Ross aveva la bocca
inspiegabilmente asciutta. «Non… non ci sono problemi… potete
perquisire anche casa nostra».
Cannon lanciò un’occhiata sospettosa ai due
fratelli che avevano assunto un’espressione torva e guardinga, poi si
rivolse agli avventori della locanda.
«Bene, signori, ora non resta che perquisire
le camere. Ovviamente, non possiamo farlo tutti e sarebbe opportuno che
non lo facesse uno solo. C’è qualche volontario? Uno sarò io, chi mi
accompagna?».
Un silenzio imbarazzato accolse il suo
invito. Poi, in una babele di voci, si offrirono tutti, fuorché lord
Bailey che continuava a sedere nei pressi del camino con lo sguardo
perso fra le fiamme.
«Signori, per favore, non possiamo entrare
tutti nelle camere. Milord, volete accompagnarmi voi?».
«Eh? Oh, no, signor Cannon, non mi sembra il
caso. Suggerirei, piuttosto, che vi faceste accompagnare da miss
Faulkner che mi sembra dotata di un notevole spirito d’osservazione, e
dall’ospite della camera in questione. Così eviterete proteste e
assembramenti. Che ne dite?».
L’idea venne approvata volentieri. Miss
Faulkner fu decisamente orgogliosa della responsabilità e dalla fiducia
accordatele dal gentiluomo, sicché gli rivolse un sorriso di
gratitudine che fu ricambiato da un allegro ammiccamento.
Pochi minuti dopo, il piccolo comitato si
avviò sulle scale per scomparire nel buio corridoio che conduceva alle
camere, seguito, alla spicciolata da quasi tutti. Rimasero nella sala
solo messer Faulkner e il giovane lord. Dopo qualche istante, il
mercante ruppe il silenzio.
«Non capisco cosa sia saltato in testa a mia
figlia, sapete? Mi ha messo in grave imbarazzo, eppure ho fatto di
tutto perché ricevesse una buona educazione».
Il giovane guardò pensieroso il mercante.
«Infatti, è una ragazza ammirevole. Dovete
esserne orgoglioso, sapete? Ha cultura, intelligenza, molto buon senso
e spirito di osservazione».
Il mercante sembrò infastidito da quelle
parole. Intanto, dalla cucina giunsero rumori di pentole.
Evidentemente, la giovane cameriera non riusciva a restare inoperosa.
«Una donna deve essere prima di tutto
ubbidiente! Il suo posto è la casa e la cucina! Che se ne fa della
cultura o dell’intelligenza? Temo che sarà davvero difficile trovarle
marito».
Il lord sorrise, alzandosi in piedi e
allontanandosi dal camino. Avrebbe avuto tante cose da dire a
quell'individuo ottuso ma si rese conto che sarebbe stato inutile. E
c'erano cose più importanti da fare.
«Molto dipenderà da voi, messere». I suoi
occhi si fissarono in quelli del mercante, che tentarono immediatamente
di volgersi altrove.
«Come? Cosa avrei potuto fare di più?».
«Quel che avete fatto finora va bene, direi.
Ora dovrete solo darle fiducia. In quella testolina c’è qualcosa che
funziona bene e, se la lascerete fare, vedrete che vi darà molte
soddisfazioni».
Il mercante trasecolò.
«Non vorrete dire che… dovrei lasciar
scegliere a lei, vero? Una ragazza di quell’età non ha la più pallida
idea di come scegliere un marito! Hanno la testa piena di stupide idee
sull’amore. Che c’entra il matrimonio con l’amore?».
Il nobiluomo scoppiò a ridere.
«Non saprei proprio dire, messer Faulkner.
Non sono mai stato sposato».
Sorrise ancora all’indirizzo del mercante e
si diresse verso la porta del locale. Prese il mantello e spalancò la porta. Fuori
nevicava ancora.
«Uscite, milord? Con questo tempo?».
«Il vento pare essersi calmato. Vorrei solo
fare due passi all’aria fresca. Qui c’è odore di chiuso».
Il mercante si avvicinò alla porta
spalancata, poi rabbrividì e guardò il giovane che si allontanava con
passo lento verso la piccola piazza del paese. Rabbrividì ancora e
chiuse la porta per precipitarsi vicino al fuoco. Questi ragazzi! Pieni
di idee assurde. Anche i nobili cominciano a farsi conquistare da
queste stupidaggini. Che mestiere
difficile quello di genitore! Rifletté il mercante. Sospirò
mentre si accomodava sulla sedia più vicina al fuoco. Quella figliola
gli avrebbe dato un sacco di grattacapi se si fosse ostinata a usare
tanto la testa.
Dopo una decina di minuti trascorsi fra
queste riflessioni, messer Faulkner sentì la porta della locanda
aprirsi, mentre entravano un sacco di freddo e lord Bailey.
«Non si resiste, messer Faulkner! Fa davvero
troppo freddo». La voce allegra del gentiluomo si avvicinò e il
mercante se lo vide spuntare accanto che si stropicciava le mani
davanti al fuoco.
«Il vento si sarà anche calmato, milord, ma
la neve basta a far raggelare». Messer Faulkner sfoggiò con orgoglio la
sua saggezza di fronte alla gioventù scapestrata.
«E avanza, anche!». Rise il giovane
aristocratico. «Sarà aria viziata ma almeno è calda. Dubito assai che
ritenterò un’impresa simile finché non cessa di nevicare. Ho rischiato
la pelle là fuori».
Il borghese e il gentiluomo erano ancora in
conversazione, quando l’anziano capo della compagnia ambulante scese
dalle scale.
«Messer Faulkner, tocca alla vostra stanza.
Desiderate esserci?».
Il mercante balzò vivacemente in piedi.
«Potete scommetterci, mastro Laurel. Anche
perché mia figlia pare aver perso il senno ed è bene che qualcuno con
la testa sulle spalle si curi che tutto resti in perfetto ordine».
Messer Faulkner corse su per le scale
brontolando ancora contro le sciocchezze che infestano i cervelli dei
giovani, seguito dagli sguardi divertiti di lord Bailey e dell’anziano
attore. Laurel si grattò i radi capelli grigi.
«Dovrebbe essere contento. Ha una figlia in
gamba».
«Sono le stesse cose che gli ho detto io. Ma
temo sia troppo pieno di preconcetti per capirlo. Speriamo che non
debba avere rimpianti, il giorno che lo capirà». Lord Bailey tornò a
sedersi sulla seggiola vicino al fuoco e invitò l'anziano istrione a
fare altrettanto.
«Milord, avete idea del perché abbiano
ammazzato whip?».
«Possiamo fare tante ipotesi, mastro Laurel.
Il signor Pasterron non godeva di grande popolarità, mi sembra. E non
possiamo neppure escludere l’ipotesi che siano stati dei banditi».
Laurel non parve molto convinto.
«Ma quando mai dei banditi escono con un
simile tempo? Per avvicinarsi tanto a un villaggio, poi. A meno di non
tentare di assalirlo ma allora sarebbero già qui». Un brivido scosse
l'anziano attore che si avvicinò di più al fuoco.
«Lo so. Ma non possiamo escluderlo del
tutto. Come non possiamo escludere che miss Faulkner abbia ragione.
Oppure, potreste aver avuto ragione voi, accusando quei due
attaccabrighe».
L'aristocratico si voltò verso il suo
interlocutore, fissando i suoi occhi in quelli dell'uomo anziano che
parve stranamente a disagio. Laurel grattò nuovamente i suoi pochi
capelli grigi, poi scosse il capo.
«Non so che pensare. Lì per lì mi sembrava
plausibile ma ora ci credo poco. Sono due teste calde ma un omicidio è
una cosa grossa». Sembrava sinceramente perplesso. Il giovane lord
tornò a fissare il camino. La sua voce suonò lontana. Un gran gelo gli
correva lungo la schiena.
«Avete ragione. Ma, talvolta, le cose
sfuggono alla volontà degli uomini e diventano più grosse di quanto
vorremmo».
«Ma voi, cosa credete davvero, milord?». La
domanda scaturì impetuosamente, come se non riuscisse più a
trattenerla. Negli occhi dell'anziano attore c'era apprensione. Per la
risposta che avrebbe ricevuto o per cos'altro? Il nobiluomo non avrebbe
saputo dirlo. Esitò un attimo, prima di rispondere. Un ciocco si
spezzò, nel camino, riempiendo l'aria di scintille. Una vampa di calore
nel gelo.
«Io? Io credo che il vostro domatore sia
stato tradito, mastro Laurel. Da qualcuno di cui si fidava ciecamente.
Sarà una grave perdita per la vostra compagnia, temo».
Lord Windström fissò nuovamente gli occhi
dell'attore. C'era tristezza. E, forse, l'ombra di una lacrima.
«Solo per certi aspetti. William era aitante
e affascinante e la gente lo adorava mentre si esibiva con la pantera. Ma
il vero domatore è Jorg. Lui sa trattare le bestie senza violenza e
riesce a convincerle a fare praticamente qualsiasi cosa. Il lavoro lo
faceva Jorg e whip si prendeva gli onori. Ma allo gnomo va…
ehm, andava bene così. Non si è mai lamentato, nonostante whip
talvolta esagerasse».
Il giovane gentiluomo ascoltò quelle parole
con enorme interesse, osservando attentamente il suo interlocutore. I
suoi occhi non persero un solo movimento delle labbra dell'anziano
attore. Rimase un attimo in silenzio, prima di commentare.
«Questa cosa è molto interessante, mastro
Laurel. E spiega molte cose. Jorg non si è davvero mai ribellato o
lamentato?».
«Mai con me, almeno. Spero non sospettiate
di lui. Vi assicuro che è incapace di far del male a una mosca».
Lord Bailey rimase in silenzio, con lo
sguardo perso fra le fiamme del camino. Poi si riscosse e sorrise
all’anziano attore.
«A volte, anche un buono perde la pazienza. A
volte, le cose vanno oltre quello che ci aspettiamo. E, a volte, i
buoni sono capaci di fare cose terribili quando diventano cattivi. Non
possiamo escludere nulla, mastro Laurel, ma abbiate fiducia. Credo che
verremo a capo di questa faccenda».
Lacrime rigavano le guance dell'anziano
attore e il capo canuto era chino sul petto, scosso da silenziosi
singulti. Il gentiluomo immaginò che Laurel avesse impiegato anni a
costruire la sua compagnia, anni di sacrifici e umiliazioni. Negli
ultimi tempi, finalmente, le cose dovevano essere andate per il verso
giusto. Gli spettacoli avevano successo e il denaro era sufficiente a
garantire a tutti una vita dignitosa e serena. Almeno, fino a poche ore
prima. Ora tutto era finito. Tutto doveva ricominciare. Ma lui, forse,
non aveva più la forza di ripartire. Monia comparve sulle scale per
avvisare il nobiluomo che toccava alla sua stanza. Rimase perplessa nel
notare lo sguardo sorpreso del giovane, quasi avesse visto un fantasma.
«Milord?».
«Monia! Ma siete stata su... finora?». Uno
sguardo allarmato di lord Bailey si spostò dalla cameriera alla porta
della cucina.
«Ma certo... non capisco... perché siete
così sorpreso?». La ragazza rimase allibita, vedendo il giovane correre
verso la porticina dietro il bancone. Chiaramente, c'era qualcosa che
non andava, sicché gli corse dietro. Quando entrò nella stanza, trovò
il nobiluomo davanti alla finestra semiaperta, che guardava qualcosa
fuori.
«Milord, che succede? Perché avete aperto la
finestra?».
Il giovane gentiluomo si voltò verso di lei,
scuro in volto.
«Era già aperta, Monia. C'era qualcuno,
prima. Qualcuno che ha ritenuto più prudente uscire da questa parte».
La ragazza spalancò i suoi grandi occhi. Poi
corse accanto al giovane per guardare fuori. Orme indistinte si
allontanavano dalla finestra, già quasi completamente cancellate dalla
neve che continuava a fioccare abbondante.
«Ma chi può essere stato?». Monia trovava
assurda quella fuga in mezzo alla tormenta. Nessuno sarebbe
sopravvissuto a lungo con quel tempo.
«Manca qualcuno?».
«No... almeno... in quella confusione... può
darsi, milord. Ripensandoci, non posso escluderlo». Erano tutti pigiati
nel corridoio. Qualcuno nelle camere. Qualcuno era sceso e qualcun
altro era salito. Come avrebbe potuto dirlo?
«Forse è meglio farli scendere tutti nella
sala della locanda. Anche se...». Lord Bailey aveva di nuovo
un'espressione assorta.
«Cosa?».
«No, nulla. Andate, Monia. Ritroviamoci
tutti intorno al camino. E portate uno specchio».
La ragazza corse sulle scale, troppo curiosa
di assistere agli sviluppi di quella faccenda per chiedersi che diavolo
ci volesse fare il gentiluomo con uno specchio. Erano tutti nel
corridoio e Monia piombò in mezzo agli ospiti come un tornado.
Il fuoco del camino scoppiettava
vivacemente, proiettando lunghe ombre nella grande sala della locanda,
arrossando i visi delle persone radunate lì attorno. Scuro in volto,
l'imponente locandiere guardava quelle facce, cercando invano
un'emozione, un indizio, qualsiasi cosa lo potesse condurre a capire
chi fra quelli potesse essere l'assassino. C'erano sconcerto e paura,
indignazione e rabbia ma nulla che gli permettesse di scoprire la
verità.
«Allora. Chi di voi è uscito dalla finestra
della cucina?». Silenzio.
«Permettete, signor Cannon?». Il giovane
aristocratico si alzò dalla seggiola per porsi di fianco al locandiere.
«Certamente, milord».
Lord Bailey guardò i visi intenti delle
persone radunate intorno al camino. Sollevò la mano sinistra, che
impugnava un piccolo specchio di bronzo. Sorrise.
«Miei cari signori, è indubbio che, poco fa,
qualcuno di voi è uscito di soppiatto dalla cucina. Dal momento che ci
siamo tutti, è inevitabile che questi sia anche rientrato, da qualche
altra finestra. Ovviamente, possiamo escludere che qualcuno sia entrato
e poi uscito dalla cucina perché c'era solo una serie di impronte, che
si allontanavano dalla locanda».
Il grasso capocomico si agitò sulla seggiola
che scricchiolò pericolosamente sotto il suo peso.
«Ma se è rientrato, perché è uscito? Intendo
dire, evidentemente non pensava di scappare. E allora, che motivo
poteva avere per uscire con questo tempo?».
«Ce lo faremo dire da lui, mastro Laurel».
Miss Faulkner spalancò gli occhi, guardando
stupita il giovane.
«E come?».
«Semplice, signorina Faulkner. Avvicinerò
questo specchio a tutti i presenti. Chi è uscito deve avere ancora le
vesti umide, quantomeno le calzature. Lo specchio si appannerà e ci
dirà chi è stato». La voce di Lord Bailey era diventata decisa e dura.
Ora faceva pesare come il comando delle operazioni fosse passato
completamente in mano sua. I suoi occhi non sorridevano più, mentre
sollevava lo specchio davanti a sé, avvicinandosi alle persone sedute
accanto al fuoco, guardando i loro volti smarriti, i loro occhi
spalancati. Solo il piccolo Jorg sostenne sorridendo il suo sguardo,
forse il primo sorriso di quella giornata, per lui.
Improvvisamente, Ross e Vernon cominciarono
a correre verso la porta.
Deckard si lanciò sulle loro tracce ma si
rese subito conto che non sarebbe stato capace di annullare lo
svantaggio prima che quei due riuscissero a uscire. Fu il giovane
acrobata a scattare accanto a lui e balzare sui due fuggiaschi,
rallentandone la
fuga. Una breve zuffa e due formidabili pugni del
barbaro chiusero definitivamente l'inseguimento.
«Complimenti, ragazzo, bello scatto».
Deckard sorrise al giovane Jeff.
«Grazie. Non so come avrei potuto fermarli,
senza il vostro aiuto, però». Un pugno di uno dei due fratelli lo aveva
colto al viso e il suo labbro inferiore sanguinava abbondantemente. La
moglie accorse accanto a lui, pallidissima, cercando di detergergli il
sangue.
«Come stai, Jeff? Sei stato davvero
coraggioso, amore».
«Non è nulla, Miriam. L'importante è averli
presi». Il sorriso del giovane parve rassicurare la rossa ballerina che
riprese subito colore e abbracciò entusiasticamente il marito. Gli
altri si erano fatti intorno a loro e il locandiere stava legando i due
fratelli con delle corde robuste. Gli stivali di Ross erano
evidentemente bagnati e così i calzoni, fino alle ginocchia. I due
fratelli erano stati storditi dai micidiali pugni di Deckard e appariva
probabile che sarebbe occorso diverso tempo, prima che si riprendessero
del tutto.
Vicino al camino, lord Bailey osservava
pensieroso la scena, mentre, a sua volta, era osservato dai grandi
occhi di miss Faulkner. Si dovette accorgere dello sguardo della
ragazza perché si riscosse e le rivolse uno dei suoi affascinanti
sorrisi.
«Siete stato formidabile, milord».
«Davvero?». Il gentiluomo ridacchiava.
«Avete condotto il colpevole, anzi i
colpevoli, a tradirsi. Certo, non avrei mai pensato al trucco dello
specchio». La fanciulla pareva un po' dispiaciuta di non aver avuto lei
quell'idea.
«Avreste fatto bene». Lord Bailey ora rise
apertamente.
«In che senso?». Miss Faulkner assunse
un'aria sospettosa.
«Non avrebbe funzionato mai. Si sarebbe
appannato davanti a chiunque. Però era una cosa verosimile e l'hanno
bevuta».
I grandi occhi della fanciulla si
spalancarono pieni di stupore. Poi, lentamente, comparve il riso. Prima
sul fondo delle pupille, per poi espandersi a tutto il suo viso
affilato e intelligente. Rise di gusto, a lungo, ignorando gli sguardi
di disapprovazione di suo padre, mentre il giovane lord parlava
sottovoce col barbaro. Avrebbe continuato a lungo se un improvviso
trambusto e alcune voci concitate non l'avessero richiamata bruscamente
alla realtà.
«Smettetela!». Era Monia. La ragazza aveva
la voce rotta di pianto.
«Sono stati loro! Che aspettiamo?». Questo
era il giovane acrobata.
«Ma sì! Che aspettiamo? Prendete una
corda!». Eccolo. Lilian sospirò, riconoscendo la voce di suo
padre.
«Ma che siete impazziti?». Finalmente, la
voce autoritaria di Laurel riuscì a sovrastare le urla degli altri. «Li
volete ammazzare così? Dobbiamo consegnarli alle guardie».
«Hanno ammazzato whip! Questi due
bastardi devono morire! Impicchiamoli ora!». La rossa intervenne con
voce resa stridula dall'odio. Pareva che dovesse scoppiare a piangere
da un momento all'altro, presa da una furia incontenibile e una
profonda disperazione. Laurel si parò di fronte ai due fratelli che
erano coperti di sangue e lividi, entrambi esanimi dopo i colpi
ricevuti dalla coppia inferocita e da Faulkner.
«Li state ammazzando di botte! Ma siete
diventati delle bestie?».
Cannon si mise a fianco del capocomico. La
sua statura imponente e il nodoso bastone che teneva fra le mani furono
sufficienti a far calmare gli animi più esagitati.
«Adesso finitela. Questi due li prendo in
consegna io. Staranno rinchiusi in cantina fino all'arrivo delle
guardie. In ogni caso, non sono più in grado a rispondere a qualsiasi
domanda e, se volete linciarli, farete i conti con me».
«Ed anche con me, signor Cannon». Miss
Faulkner, fieramente eretta, con la chioma aurea che le circondava il
volto corrucciato si schierò accanto al locandiere. «E voi, signor
padre, ricordatevi chi siete e non date altri spettacoli indecorosi di
fronte a me».
Cedric Faulkner impallidì visibilmente. Si
era reso conto di cosa stava facendo e che quella figlia ribelle stava
dimostrando assai più buon senso di lui. In altri momenti l'avrebbe
forse rimproverata ma le sue vesti erano macchiate del sangue dei due
sventurati sui quali aveva infierito e non seppe far altro che
arrossire e lasciarsi cadere su una sedia, col volto fra le mani.
Deckard, che era evidentemente uscito fuori
dalla locanda dopo aver catturato i due fratelli, rientrò nella sala.
Si tolse il mantello e fece per raggiungere il suo amico, quando vide
Cannon che stava portando in cantina Ross ancora esanime e col volto
tumefatto.
«La tormenta è cessata. Presto la strada
tornerà transitabile. Ehi, che cosa è successo?». Guardò Vernon e
sbarrò gli occhi. «Ma io li ho colpiti con solo due pugni... come hanno
fatto a ridursi così?».
La cena, quella sera, fu particolarmente
silenziosa. Non c'era sollievo nella piccola comunità assediata dalla
neve. Neppure il sapere che l'indomani sarebbe stato possibile
ripartire pareva alleviare il senso d'oppressione che si respirava
nella sala. I tavoli erano silenziosi e spogli. Pochi parevano aver
voglia di mangiare. Meno ancora di parlare.
Monia guardò con apprensione la porta della
cantina. Aveva avuto cura di portare uno scaldino ai due prigionieri
che erano ancora privi di sensi, quando lei era scesa giù, accompagnata
dalla rassicurante scorta del robusto barbaro. Non riusciva a togliersi
dalla testa i loro volti tumefatti. E i visi sconvolti dall'ira delle
persone che avevano tentato di linciarli. Anche suo padre, sulle prime,
era stato tentato di partecipare al tentativo di fare giustizia
sommaria ma era bastato un solo sguardo alla sua adorata figliola per
farlo schierare dalla parte opposta. Stanley Cannon era un uomo facile
all'ira ma dal cuore buono e profondamente onesto.
Solo miss Faulkner pareva aver conservato la
sua loquacità. Stava tempestando il nobiluomo di domande e ipotesi,
alle quali giungevano risposte cortesemente evasive che, però, non la
facevano demordere. Monia sorrise. Aveva simpatia per quella
vitalissima ragazza. Lei stessa si reputava, a ragione, intelligente ma
quella fanciulla aveva un acume che Monia trovava impressionante.
Inoltre, pur essendo una giovane di buona famiglia, era assolutamente
priva della spocchia che, invece, il padre non mancava mai di esibire.
La cameriera pensò che sarebbe stato bello avere quella ragazza per
amica.
La porta della locanda si aprì e Stanley
Cannon rientrò nel locale. Pareva assai pensieroso. Si diresse a grandi
passi verso il tavolo dei Faulkner e di lord Bailey e sussurrò qualche
parola all'orecchio del giovane gentiluomo. Questi si alzò dal tavolo,
scusandosi con i suoi commensali, e seguì il locandiere in cucina.
Monia non seppe resistere. Acchiappò un vassoio vuoto e si diresse
verso la porta dietro il bancone.
«...immaginavo qualcosa del genere, signor
Cannon».
«Ma, allora? Cosa facciamo?».
«Temo che dovremo... oh, signorina Monia,
che piacere! Siete sempre splendida!».
La ragazza era convinta di non aver fatto il
minimo rumore, sicché sorrise, troppo sorpresa per replicare
convenientemente, e raccolse qualcosa dal bancone per metterla sul
vassoio e dirigersi poi verso la sala, con la netta sensazione di non
averci capito nulla. Cosa stavano complottando quei due? Uscì
dalla sala con passo svelto, decisamente seccata per non essere
riuscita a scoprire di più. Però aveva visto qualcosa. Suo padre aveva
in mano un pugnale e lo stava mostrando al giovane lord. Un sottile
stiletto dal manico d'avorio. Un oggetto di un certo valore,
certamente. Ma cosa c'entrava con quella storia? C'era solo una cosa da
fare: parlarne con la signorina Faulkner.
Quella ragazza aveva un cervello di prim'ordine e,
forse, avrebbe saputo interpretare meglio di lei quel che stava
accadendo.
Lilian Faulkner, non
vedendo tornare lord Windström, teneva d'occhio la porta della cucina,
chiedendosi cosa mai avesse da discutere col locandiere, quando vide la
cameriera uscire dalla stanza con aria perplessa. Come si accorse che
gli occhi di Monia la stavano cercando, la giovane si alzò con una
scusa dal tavolo e si recò sulle scale, sempre tenendo lo sguardo
incollato sulla bella locandiera. Monia si rese conto della manovra e
sorrise. La
piccola Faulkner aveva il cervello sempre pronto. La
seguì sulle scale, trovandola in attesa, nel corridoio.
«Monia, volevate dirmi qualcosa?». La
cameriera non si fece pregare e riferì tutto quel che aveva visto e il
poco che aveva udito. La ragazza bionda l'ascoltava col massimo
interesse, interrompendola, di tanto in tanto, con qualche domanda.
Alla fine, rimase silenziosa, assorta nelle sue riflessioni.
«Lord Windström è veramente un uomo in
gamba. Ha capito tutto. Ma ora, credo di avere capito tutto anch'io».
Ammiccò alla cameriera, con aria complice. «Perché non smascheriamo noi
gli assassini?».
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4
La mesta serata volgeva al termine. L’odore
delle vivande era ormai svanito da tempo, sostituito da quello acre del
fuoco che continuava a scoppiettare allegramente, quasi irreale
nell’atmosfera greve che permeava la sala della locanda. Le voci degli
ospiti erano sommesse e la conversazione languiva nel disagio.
La figuretta affilata di Lilian Faulkner
discese le scale lentamente, osservando la stanza con un curioso misto
di apprensione ed eccitazione, con i grandi occhi che brillavano e le
labbra sottili strette in un teso sorriso.
Monia la seguiva, decisamente a disagio,
cercando di evitare gli sguardi degli ospiti mentre si muoveva
agilmente fra i tavoli, diretta in cucina. Notò che il giovane lord era
nuovamente seduto al tavolo, sicché suo padre avrebbe dovuto trovarsi
dietro il bancone. Dal momento che non c’era, era verosimile che fosse
affaccendato in cucina.
Quando la cameriera scomparve dietro la
porta, Lilian si avvicinò al tavolo cercando di assumere l’aria più
innocente del mondo.
«Lord Windström, avete chiarito tutto,
vero?».
Il giovane la guardò con aria perplessa. Nei
suoi occhi espressivi c'era, però, una luce divertita.
«A proposito di cosa, signorina?».
«Ma dell’omicidio! Voi sapete benissimo che
quei due non hanno fatto altro che impadronirsi di un oggetto che
ritenevano di valore».
«Davvero?». Adesso il giovane lord stava
ascoltando con estrema attenzione e i suoi occhi erano fissi su miss
Faulkner, intenti a studiarne ogni minimo particolare. Quello sguardo
indagatore e vagamente preoccupato mise un certo disagio addosso alla
ragazza.
«Ma certo». Monia uscì dalla cucina,
lanciandole uno sguardo ammiccante. La giovane sorrise e proseguì a
voce più alta, in modo che tutti potessero udire. «Noi sappiamo che il
signor Pasterron è stato assassinato con un pugnale. Un pugnale dalla
lama sottile e il manico d’avorio».
Molti volti, dai tavoli vicini, si rivolsero
verso la ragazza.
Il sorriso della biondissima miss Faulkner si allargò,
nel veder sbucare il locandiere fuori dalla porta della cucina.
«Quel pugnale, è stato trovato. Non così le
due balestre che hanno ucciso la pantera. Ma perché è
stata ammazzata la pantera? Chiaramente, il signor Pasterron doveva
averla liberata per difendersi da qualcuno che lo aveva aggredito».
«Lilian, ma sei impazzita? Stai dando
spettacolo! È chiaro che quei due hanno aggredito il domatore e lui ha
liberato la pantera». Il signor Faulkner era pallido d’indignazione.
«Signor padre, avreste ragione se il signor
Pasterron fosse stato ucciso a colpi di balestra. Ma il domatore è
stato pugnalato. Da qualcuno che sedeva a cassetta con lui». La
fanciulla fece una pausa. Nella sala regnava il più profondo silenzio.
I suoi grandi occhi esplorarono i volti intenti degli ascoltatori, poi
riprese.
«Se gli aggressori fossero stati i due
fratelli, inoltre, difficilmente avrebbero sottratto il collare alla
pantera, dal momento che ne ignoravano il valore».
Messer Faulkner si agitò sulla sedia.
«Ancora questa storia? Che valore poteva
avere il collare?».
«Nel collare era nascosto un gioiello. Quasi
certamente il collare di fuoco, rubato a Elosbrand il giorno prima
della partenza della compagnia della quale faceva parte il signor
Pasterron».
«Ma non era stato Blackwind?». Il mercante
era allibito.
«A questo punto penso di no. Evidentemente
il nostro domatore aveva anche altri talenti inespressi».
«Ma allora avremmo dovuto trovare il
gioiello in una delle stanze, invece non è stato trovato nulla». Quella
figlia lo avrebbe portato alla pazzia. Messer Faulkner temette di
svenire.
«Perché il gioiello era stato nascosto fuori
di qui. In un posto dove difficilmente qualcuno lo sarebbe andato a
cercare».
Il volto di lord Bailey si distese in un
sorriso. I suoi occhi non si staccavano dalla ragazza. Miss Faulkner se
ne accorse e ricambiò il sorriso. Evidentemente, il nobiluomo
concordava con la sua ricostruzione.
«Ma questo è un problema di cui parleremo
dopo. Volete darmi quel pugnale, Monia?». La locandiera si avvicinò
alla ragazza e le porse un piccolo involto dal quale la ragazza
estrasse un sottile stiletto.
«Questo, come vedete, è un oggetto molto
particolare. Certamente di un discreto valore venale. Sufficiente ad
attirare la curiosità e l’avidità di un taglialegna privo di fantasia,
che l’ha trovato sulla neve, dopo aver visto il cadavere della pantera».
«Cosa?». Laurel guardò con aria sorpresa la
ragazza.
«Signor Cannon, dove avete trovato questo
stiletto?».
«Nella casa di Ross e Vernon, nascosto in
una catasta di legna. Lord Windström mi aveva chiesto di cercare
qualcosa del genere e, conoscendo quei due, non è stato difficile
immaginare dov’era». Il locandiere sorrise alla figlia. Aveva avuto
ragione a fidarsi di lei.
«Ecco perché uno di loro era uscito di
soppiatto: per nascondere il pugnale che avevano trovato e che avrebbe
potuto metterli in una posizione difficile. Posizione nella quale,
però, si sono trovati lo stesso».
Ora Lilian si era alzata, consapevole che
tutti gli sguardi erano fissi su di lei. Non sembrava trovarsi troppo a
suo agio, in quella situazione, però si fece forza e continuò.
«Il signor Pasterron aveva un sistema per
aprire la gabbia dalla cassetta del carrozzone, signor Jorgelin?».
Lo gnomo esitò, guardandosi nervosamente
intorno. Poi annuì.
«C’era un pedale. Serviva in caso di
incontri con malintenzionati». Guardò di sottecchi i suoi compagni,
poi, lentamente, cominciò ad allontanarsi dal tavolo. La ragazza si
rivolse nuovamente agli altri.
«E così fu questa mattina. Il signor
Pasterron stava partendo col carrozzone quando fu fermato da qualcuno
che lo minacciava. Accanto a lui era seduto qualcun altro».
Si avvicinò al tavolo degli artisti.
Un'espressione decisa era comparsa sul suo volto. Non sorrideva più.
«Volete riconoscere il vostro pugnale, miss
Miriam?».
«COSA?». La ballerina balzò in piedi,
pallidissima. Il marito l'abbracciò, come per confortarla.
«Avete finto una tresca col signor
Pasterron, in modo da attirarlo in una trappola. Avete finto di
accettare di fuggire con lui ma avete organizzato l’agguato con vostro
marito. Basterà controllare sul vostro carrozzone per trovare
certamente le balestre. Quando il signor Pasterron si è reso conto
dell’agguato, ha liberato la pantera. Ma voi
l’avete pugnalato. E avete usato la sua balestra da mano per colpire la
pantera e aiutare vostro marito».
«Ma questo è assurdo!». Il giovane acrobata
balzò in piedi col viso distorto dall'ira. Lo gnomo si era lentamente
portato verso il fondo della stanza, lontano dal tavolo.
«Non tanto, signor Barthington. Voi avete
fatto il viaggio con il domatore, lo conoscevate bene e non lo
sopportavate più. Solo voi potevate scoprire il suo furto e, allora,
avete deciso di vendicarvi di lui… Oh, santi numi!».
Jeff Barthington aveva sguainato il pugnale
e lo teneva minacciosamente puntato sul collo di Laurel che era
impallidito vistosamente. Deckard si alzò in piedi. Cannon afferrò un
bastone.
«Non provate ad avvicinarvi, o il ciccione
crepa! Miriam, vai a prendere le nostre cose. Ce ne andiamo!». La
ballerina prese un mantello e uscì fuori dalla locanda.
«Jeff… come puoi farmi questo?». La voce
lamentosa di Laurel suonò flebile da dietro la lama del pugnale.
«Spiacente, Ollie. O il tuo
collo o il mio. State lontani!».
Deckard guardò il suo amico che era rimasto
seduto, con gli occhi puntati su Laurel. C’era un’espressione avvilita
in quello sguardo. Il barbaro rimase perplesso. Difficilmente il
giovane gentiluomo si faceva trovare impreparato ma, stavolta, sembrava
decisamente che non avesse intenzione di reagire.
«Barthington, se lo tocchi sei un uomo
morto».
«Barbaro, se ti avvicini, LUI è un uomo
morto. Io non ho nulla da perdere. Lo capisci?».
Deckard tacque, guardandolo cupamente.
L’acrobata sarebbe finito certamente impiccato se fosse stato
catturato. Era evidente che un morto in più non avrebbe cambiato il suo
destino. Laurel era davvero in pericolo. Guardò lord Bailey. Era sempre
immobile, come una statua di cera, gli occhi che vagavano per la
stanza, come in cerca di qualcosa, ma che si fermavano spesso sui due
che, camminando all'indietro, stavano avvicinandosi alla porta.
«Signor Barthington, siete un vile!». La
bionda signorina Faulkner era pallidissima e la sua voce era diventata
glaciale.
«Signorina Faulkner, siete una stupida.
Avete fatto questa bella sceneggiata dandomi il tempo di prendere le
mie contromisure. Avete capito quasi tutto. Ma avete sottovalutato i
vostri avversari».
«Jeff, possiamo andare». La chioma rossa
balenò dietro la
porta. Il giovane acrobata sorrise.
«Ora usciremo. E chiuderemo la porta. Se
provate a seguirci. Ollie è morto. Non voglio vedere
aprire la porta della locanda finché il villaggio sarà in vista».
Sempre parlando, il giovane acrobata indietreggiò fino a varcare la
soglia della locanda.
«Addio, signori!». La porta si chiuse sui
volti lividi e corrucciati. Una risata echeggiò nell’oscurità della
notte. Solo il fuoco continuava a farsi sentire, senza però riuscire a
scacciare il gelo dalla sala.
«Cosa facciamo?». La voce di Cannon ruppe il
silenzio.
«Temo che non si possa fare nulla, signor
Cannon. Sono stata una stupida e ho lasciato loro una possibilità di
beffarci». Le parole della ragazza uscirono lentamente, flebili e
cariche di pianto.
«Non esagerate signorina. Siete stata
davvero molto acuta, invece. Non c’è nulla di male in quel che avete
fatto». Il giovane aristocratico si alzò e si avvicinò alla ragazza
bionda.
«Milord, così sono scappati». Una lacrima si
affacciò sugli occhi della giovane.
«Ebbene? Non ci sono stati altri morti, e
non è poco, in questa situazione. Avvertiremo le guardie che daranno
loro la caccia.
Non andranno lontano». Le sorrideva con quegli occhi
affascinanti. Miss Faulkner distolse lo sguardo.
«Avrei voluto essere io a catturarli». Sulle
labbra serrate, però, era comparsa l’ombra di un sorriso.
«Li avete smascherati. Non è poco.
Complimenti, signorina Faulkner. Non so quanti sceriffi avrebbero
saputo fare di meglio». Il giovane si spostò per far posto al padre
della ragazza che si era accostato con gli occhi lucidi.
«Sei stata... fenomenale, figlia mia. Scusa
questo vecchio caprone che non si fidava di te». Messer Faulkner pose
una mano sulla spalla della figlia e l'attirò verso di sé per
abbracciarla.
«Oh, padre... sono felice di non avervi
deluso». Miss Faulkner era decisamente commossa.
«Deluso? Sono orgoglioso di te, figlia mia!».
Lord Windström si allontanò silenziosamente
dalla coppia abbracciata, fece un cenno di saluto al locandiere e uscì
fuori, seguito da un Deckard semplicemente fuori di sé. La notte aveva
inghiottito il carrozzone degli artisti, del quale non si udiva più
neppure il rumore delle pesanti ruote. Il giovane aristocratico sorrise
tristemente e alzò le spalle, voltandosi verso la piazza del paesello.
Giunse a passi lenti accanto al pozzo e si sedette sul bordo di questo,
in un punto dove qualcuno aveva rimosso la neve. Guardò l'amico,
senza parlare.
Deckard si aggirava nella piazza come un
leone in gabbia. Avrebbe voluto lanciarsi all’inseguimento dei
fuggitivi ma le condizioni della pista erano ancora troppo brutte. I
rischi di azzoppare un cavallo o finire in una scarpata erano ancora
troppi. Vide il suo amico seduto sul bordo del pozzo e la sua
espressione malinconica lo fece sbottare.
«Maledizione! Farsi giocare così fa
veramente rabbia. Se non avessero avuto un ostaggio li avrei rincorsi.
Che ne sarà di quel poveraccio?».
Il giovane lord alzò gli occhi verso di lui
e sorrise senza allegria. Il suo sguardo tornò a scrutare nel vuoto,
nella direzione presa dal carro dei fuggitivi.
«Immagino che starà facendosi grasse risate
alle nostre spalle».
«COSA?». Il barbaro spalancò gli occhi e li
fissò sul suo giovane amico. Si rese immediatamente conto che non stava
scherzando.
«Laurel era il capo del gruppo, Deckard. Lui
ha organizzato tutto. Compreso lo stratagemma che ha permesso loro di
scappare. Dobbiamo riconoscere che è veramente un bravissimo attore».
«Tu lo sapevi». Era una constatazione.
«Naturalmente. L’ho capito quando ho
compreso il significato della scomparsa del collare». Un lampo di
vanità comparve negli occhi del giovane, subito cancellato da un'ondata
di tristezza.
«Mi stai prendendo in giro?».
«Niente affatto. Era evidente che Laurel era
sempre stato il capo riconosciuto di quel gruppetto di lestofanti.
Pasterron ha pagato con la vita forse anche l'aver messo in discussione
la sua autorità, anche se non credo che Laurel avesse voluto la sua
morte. Aveva deciso di andarsene per conto proprio. Ma, probabilmente,
quella era stata solo l'ultima di numerose ribellioni».
«Ma come hai fatto a capirlo?». Il barbaro
era sinceramente stupito.
«C'erano due questioni critiche, Deckard. La
prima era: cosa ci faceva la pantera fuori dalla gabbia? E la seconda
era: perché è stato sottratto il collare. La risposta alla prima era
ovvia, il domatore aveva liberato la pantera per difendersi. Ma da chi?
Questo ci riporta al collare. L’unica ragione plausibile perché fosse
stato sottratto era che doveva contenere qualcosa di prezioso,
esattamente come la nostra miss Faulkner ha intuito. Quello che ha
compreso troppo tardi è stato il ruolo di Jorg nella faccenda. E non ha
capito che Laurel era stato la mente di tutto il complotto». Il giovane
sospirò. «Ma, forse, è stato meglio così».
«Non ti seguo».
«Ti ricordi il misterioso furto? Una stanza
con una finestra troppo piccola perché ci potesse passare un uomo. Un
uomo. Ma uno gnomo è riuscito a passare di lì. Jorg ha commesso
materialmente il furto, anche se il piano era quasi certamente di
Barthington».
«Così anche lo gnomo… ed io che l’ho
difeso!».
«Era uno schiavo, amico mio. Doveva fare
quel che il suo padrone ordinava. In realtà, lui è la vera vittima di
tutta questa faccenda».
«Perché?».
«Perché ha perso tutto. Il lavoro, le
persone di cui si fidava, la sua adorata pantera. E rischia il capestro
come gli altri, per quel furto».
«Forse hai ragione. Ma io non capisco ancora
come hai ricostruito tutto».
«Pensaci, amico mio, chi poteva essere a
conoscenza del contenuto del collare, oltre alla vittima? Ovviamente
Jorg, che era al corrente del furto. Ma Jorg non poteva essere
l'aggressore e non avrebbe mai ucciso la pantera, dal momento che
poteva avvicinarcisi senza alcun timore. Allora doveva essere qualcun
altro. Qualcuno che aveva raccolto una confidenza dello gnomo».
«Laurel?». Deckard cominciò a comprendere la
verità.
«Certamente. Laurel godeva della fiducia e,
forse, della riconoscenza di Jorg. Inoltre, quando Monia ha sentito
Pasterron parlare con la misteriosa donna, lo ha sentito vantarsi di
essere diventato ricco ma non di come lo fosse diventato. La donna, che
ovviamente era Miriam, secondo Pasterron, era all'oscuro del furto.
Dunque, l'informazione poteva provenire solo dallo gnomo. Immagino che
Jorg, dopo l’ennesima umiliazione, abbia confidato il segreto a Laurel,
durante il viaggio da Elosbrand a qui. E lui ne ha parlato con gli
altri. Così, insieme a Miriam e Jeff hanno organizzato il colpo. Lei si
è finta innamorata, lui si è finto geloso ed hanno atteso l’occasione
giusta. Quando Pasterron, però, fece capire che voleva partire con la
bella ballerina, non hanno potuto attendere. Sinceramente, immagino che
non volessero ammazzarlo. Posso sbagliarmi ma credo che le cose siano
precipitate quando Pasterron ha liberato la pantera. Jeff lo
minacciava con la balestra e, forse, Miriam col pugnale. La rabbia per
il tradimento lo ha sopraffatto e lui ha aperto la gabbia col pedale,
senza che gli altri se ne accorgessero. Quando Kira si è presentata di
fronte a Barthington, questi ha temuto per la propria vita e ha usato
la balestra contro
la belva. Un solo colpo non sarebbe bastato a
ucciderla, sicché Miriam, disperata, ha colpito il domatore col
pugnale, ha afferrato la sua balestra da mano, che Jorg ci ha detto era
sempre nascosta sotto la cassetta, e ha tirato sulla pantera. La povera
bestia si è fermata quel tanto da dare a Jeff il tempo di ricaricare e
finirla. Se Pasterron non avesse scatenato Kira contro Jeff,
probabilmente sarebbe ancora vivo. Costretto a dividere il bottino con
gli altri, ma vivo».
Il barbaro si sedette accanto all'amico. La
rabbia era ormai sfumata.
«Poveraccio. Credeva di essere un tipo in
gamba e si è fatto infinocchiare così».
«Era vanitoso. Ma era anche uno che
sfruttava gli altri per fare tutto. Il vero domatore era Jorg, me l'ha
confidato lo stesso Laurel e non aveva alcun motivo di mentirmi a
questo proposito».
Deckard si alzò nuovamente in piedi per
porsi di fronte all'amico. Lord Bailey lo guardò negli occhi,
leggendovi gli ultimi bagliori dell'ira.
«Ma perché non me l’hai detto prima? Avremmo
mandato all'aria il bluff e li avremmo presi. Mi spieghi perché li hai
lasciati fuggire?».
«Cosa avrei dovuto fare, secondo te?». Un
sorriso stanco accompagnò le parole del giovane.
«Mi pare chiaro: smascherarli e fare in modo
che venissero consegnati alla giustizia».
«E, magari, impiccati seduta stante al primo
albero, vero?». La voce, generalmente allegra, del nobiluomo era
permeata di rabbiosa tristezza.
«Se lo sarebbero meritato».
Lord Bailey si alzò in piedi e sollevò i
suoi occhi profondi sul volto dell'amico.
«Hai mai visto un impiccato, Deckard?».
«Be’… no. Ho visto gente ammazzata in guerra
e nell’arena dove combattevo anni fa… ma impiccati no».
«Io ho visto tutta la mia famiglia impiccata. Mio padre, mia madre, mia sorella. I volti tumefatti negli
spasimi dell’agonia, gli occhi fuori dalle orbite, la lingua vomitata
fuori dalla bocca, urine e feci che colano lungo le gambe. Tutto ciò in
nome della giustizia, Deckard. Eppure erano tutti innocenti. Vittime
dei pregiudizi e delle calunnie».
«Ma quelli sono colpevoli». Il barbaro era
sorpreso dalla passione che accompagnava le parole dell'amico.
«E io sono un ladro. Devo ricordartelo? Io
sono Blackwind». Parlava sommessamente, quasi a se stesso, eppure
Deckard si voltò a guardarsi intorno temendo che qualcuno potesse udire
le parole del giovane. Erano soli, dunque si tranquillizzò.
«Va bene, ma questo che c’entra? Quelli sono
tre assassini».
«Inoltre, consegnando loro, avrei messo
sulla forca anche Jorg».
«Lui? Perché?».
«Perché la giustizia lo avrebbe ritenuto
complice, quantomeno del furto. Figurati se si sarebbero preoccupati di
distinguere la sua posizione! Un impiccato in più fa sempre bene alla
giustizia». C'era un'amarezza insolita nella sua voce.
«Mi spieghi dove vuoi arrivare?».
«Cosa cambia? Innocenti o colpevoli. Io non
credo che volessero davvero uccidere. E poi, chi è davvero innocente, a
questo mondo? Che differenza c’è fra un morto assassinato e uno
giustiziato? Il primo muore nascosto, il secondo offre un edificante
spettacolo alla popolazione. E quanti sghignazzano, davanti a
quell’agonia! Chissà se a loro interessa se si tratta di un colpevole o
un innocente… forse gli basta soddisfare la propria sete di sangue. Ma
un morto è sempre un morto. No, amico mio. Uccidere mi fa orrore. Fare
uccidere, altrettanto».
«Ma è una questione di giustizia! Gli Dei…».
Deckard si interruppe, guardando gli occhi lampeggianti del giovane.
«Gli Dei stanno lassù. Qui la giustizia la
amministrano gli uomini. E gli uomini bramano il sangue».
«Ma questo è il mondo! Come puoi pretendere
di cambiarlo?». Deckard si rese conto che sarebbe stata una discussione
inutile. Il suo amico parlava sinceramente e lo conosceva troppo bene
per sperare di spuntarla.
«Non m’illudo di cambiarlo. Ma non mi
renderò complice di questo sistema che chiamano giustizia. Io sono un
fuorilegge. Fuorilegge, capisci? Io rubo. Quelli che assicurano i
fuorilegge alla giustizia stanno dall’altra parte della barricata. Loro
sono le guardie. Io il ladro».
«Ma non sei un assassino».
L'ombra di un sorriso comparve negli occhi
di Blackwind.
«No. Non lo sono. Ma c’è mancato poco che lo
diventassi in nome della giustizia. Di una giustizia che è solo
vendetta. Mi dispiace, Deckard. Credo di essere un giusto. Non sarò mai
un giustiziere».
Ora Blackwind era nuovamente nascosto sotto
le spoglie dell'elegante lord Bailey. I lampi nei suoi occhi si
quietarono e la sua voce era nuovamente ferma e controllata.
«Io cerco di capirti. Mi fa solo rabbia che
quei due siano scappati con il gioiello».
Un sorriso divertito irruppe negli occhi del
giovane.
«Ti sbagli, amico mio. Il gioiello è qui».
«COSA?».
«Ma ti pare che li avrei lasciati scappare
col bottino?». Ora sorrideva apertamente.
«Come hai fatto?». Il barbaro sprofondò
nuovamente nella confusione.
«Facile, mentre stavate perquisendo le
stanze, io sono uscito, l’ho recuperato e l’ho sostituito con un pezzo
di catena».
«Ma dov’era? Com'è possibile che tu sapessi
dove cercare?».
«Ho pensato cosa avrei fatto nei loro panni.
Giustamente, l’hanno nascosto in un posto dove nessuno va, in questo
periodo ma dove non c’è nulla di strano se qualcuno ci gira intorno.
Nel pozzo, questo pozzo, in un sacchetto appeso a una corda. La gente
di qui, in questa stagione, usa la neve per procurarsi l’acqua, che è
meno faticoso e più rapido di andare al pozzo e manovrare una catena
ghiacciata. D’altra parte, nessuno ci fa caso se qualcuno si appoggia
al pozzo».
«E nessuno si era accorto della corda?».
«Chi se ne poteva accorgere?, era coperta
dalla neve, come tutto il bordo. Bisognava andarla a cercare per
trovarla. Era proprio qui, dove Miriam ha rimosso la neve per
recuperare il bottino, dove ci siamo seduti».
«E tu sapevi che l’avresti trovata. E loro
sono partiti a mani vuote». Ancora una volta, Deckard si limitò a
constatare che il suo amico aveva interpretato nel modo più semplice e
logico i pochi indizi a disposizione.
«Esattamente».
Rientrarono nella locanda, accolti dal
tepore del fuoco. Il gelo della notte cominciò a sciogliersi anche
dentro di loro. Erano stanchi per le emozioni della giornata. Si resero
conto che anche gli altri dovevano essersi sentiti allo stesso modo ed
erano andati a dormire. La grande sala era quasi deserta, ormai. Solo
una piccola figura era ancora seduta davanti al camino. Non si voltò
sentendoli entrare.
Lord Bailey si avvicinò al fuoco e si
sedette accanto allo gnomo.
«Quanto costano certe vendette, vero, messer
Jorg?».
Lo gnomo si voltò di scatto, fissando i suoi
occhi velati di lacrime in quelli limpidi del giovane aristocratico. Un
lampo di paura passò nel suo sguardo, seguito da una quieta
rassegnazione.
«Lo… sapevate?». Chiese, con voce piatta.
«Chi altri avrebbe potuto informare Laurel
del collare? D’altronde, mi sembrava impossibile che il signor
Pasterron fosse stato capace di rubare da solo quel gioiello. Era
racchiuso in una stanza con solo una piccolissima finestra. Troppo
piccola per un uomo. Non per voi, però».
«Siete acuto, milord. Ora mi consegnerete
alle guardie?». Non c'era più paura nella voce di Jorg. Solo
rassegnazione.
«Non ho consegnato quei tre. Anche per non
coinvolgere voi». La voce del gentiluomo era calma e gentile. Una
carezza dopo tanti schiaffi.
«E allora?». Gli occhi scuri dello gnomo si
fissarono in quelli del giovane che lo guardava sorridendo.
«Allora, siete libero. Vi è costata cara,
questa libertà. Fatene buon uso».
Lo gnomo lo guardò con un’espressione piena
d’incredulità. Poi le lacrime tornarono a sgorgare.
«Scusate… non è dignitoso… ma sono un
semplice schiavo… perdonatemi milord».
«Non siete più uno schiavo. Kira non c’è più
ma siete libero. Lei sarebbe contenta così». La voce del giovane
accarezzò ancora la piccola creatura, addolcendo l'amarezza che Jorg
sentiva dentro il cuore.
«Voi… oh, milord! Kira è stata l’unica amica
da non so più quanto tempo… non avrei mai barattato la mia libertà con
la sua vita. Preferivo essere uno schiavo… insieme a lei».
«Non possiamo cambiare quel che è accaduto,
Jorg.». Da quanto tempo non era stato trattato da pari a pari da
qualcuno? Laurel era gentile ma condiscendente, Miriam lo considerava
buffo e lo trattava bene ma come avrebbe trattato un cagnolino. Per gli
altri, lui era sempre e solo uno schiavo. Si sentì in dovere di
scusarsi con quel gentiluomo che lo trattava con tanto rispetto.
«Non avrei mai immaginato…».
«Ne sono certo. Altrimenti non sarei qui.
Volevate che qualcuno desse una lezione al vostro padrone e vi siete
confidato con Laurel. Gli avete raccontato del furto e di dove fosse
nascosto il gioiello. Lui vi promise di dargli una lezione. Non
potevate immaginare che Miriam e Jeff lo avrebbero ucciso per
impadronirsi del gioiello. Non credo volessero farlo ma la situazione è
precipitata, anche per l'odio fra Jeff e William».
«Avevo promesso che avrei consegnato loro il
gioiello, purché gli dessero una bella lezione. Mi hanno tradito». Non
c'era rabbia nella sua voce. Solo una profonda tristezza.
«Forse. Forse sono stati trascinati dagli
eventi. In ogni caso pensavano di essere al sicuro. Voi non avreste
potuto denunciarli perché sarebbe saltata fuori la storia del furto.
Rischiavate la forca, al pari loro».
«E ora? Che sarà di loro? E di me?».
«Di loro non c’interessa. Non credo andranno
lontano. Quanto a voi, siete un domatore. Potete ricominciare daccapo.
Tornate con me a Elosbrand. Sono certo di potervi garantire un ingaggio
degno del vostro talento».
«Milord?». Lo gnomo si voltò verso il
giovane, gli occhi pieni di stupore.
«Conosco molti che apprezzerebbero un
domatore con le vostre qualità. E posso assicurarvi che nessuno oserà
più trattarvi da schiavo».
«Ma io...».
«Andate a dormire, messer gnomo. Domattina
dobbiamo partire presto. Sempreché accettiate la mia offerta,
naturalmente». Il sorriso sincero del nobiluomo restituì un po' di
serenità al piccolo domatore che sorrise e si congedò cerimoniosamente
per sgattaiolare su per le scale e sparire nel corridoio.
«Gli hai dato più ancora della libertà. Ora
ha una speranza». Deckard sorrise all'amico.
«Mi auguro che abbia più fortuna di quanta
ne abbia avuta finora. Sono certo che ha le carte in regola per rifarsi
una vita».
La mattina dopo, Deckard si alzò, come al
solito, all'alba e guardò subito fuori dalla finestra. Il cielo era
terso e non era più caduto un fiocco di neve dalla sera prima. Il
viaggio poteva proseguire. Quell'altro dormiva beato, come al solito.
Si lavò e uscì dalla stanza attirato dal profumo che arrivava dalla
cucina. Giunto ai piedi delle scale, trovò Monia ad accoglierlo con un
sorriso sfolgorante. Accanto a lei, a testa china, stavano i due
fratelli, ancora malconci.
«Buongiorno messer Deckard! Volete fare
colazione?».
«Volentieri, Monia». Uno dei due fratelli
emise una specie di grugnito. Poi Ross si rivolse al barbaro.
«Vorremmo chiedere scusa... ci rendiamo
conto che abbiamo fatto una figura da stupidi».
Deckard li guardò seriamente. Dovette
sforzarsi, però, per trattenere un sorriso nel vedere i loro volti
ancora tumefatti.
«Alla fine, credo che voi due siate fra
quelli che ne escono meglio. Siate più prudenti in futuro, però. Avete
rischiato la forca per un coltello da donna».
Rimasero a chiacchierare per circa un'ora,
davanti alla ricca colazione. Alla fine, Deckard aveva riacquistato il
buonumore. Così, accolse con un largo sorriso il suo elegantissimo
amico che scese la scala chiacchierando fittamente con miss Faulkner e
suo padre. Tutti fecero colazione con appetito, dimostrando che la
disavventura del giorno precedente era stata quantomeno archiviata, se
non sepolta del tutto. I Faulkner avevano deciso di fermarsi ancora
qualche giorno alla locanda, in attesa di potersi aggregare a qualche
altro gruppo di viaggiatori diretto a nord. Lord Windström e Deckard,
invece, sarebbero ripartiti subito, accompagnati da un raggiante Jorg.
Al momento della partenza, i Cannon e i
Faulkner accompagnarono alla stalla i due amici, salutandoli
cordialmente. Il locandiere abbracciò vigorosamente il barbaro mentre
Monia gli elargì uno schioccante bacio sulla guancia che lo fece
diventare rosso come un pomodoro. Anche messer Faulkner strinse
vigorosamente la mano di Deckard. Non ci si poteva attendere nulla di
più ma, da uno così, quel gesto significava più di un fiume di scuse.
Miss Faulkner parve colpita dal vedere lo
gnomo prepararsi a partire col gentiluomo. Si avvicinò a lord Bailey
elargendogli uno dei suoi sorrisi più smaglianti. Una rarità sul volto
severo di quella ragazza.
«Così gli avete proposto di tornare con voi
e di trovargli un lavoro?».
Il gentiluomo le sorrise col suo solito fare
affascinante.
«Lavorerà per me, finché non gli avrò
trovato qualcosa di adatto al suo talento».
« Tutto sommato, sono contenta che sia
finita così. Quel poverino, almeno, potrà avere un futuro sereno. Se
solo l'avessi capito prima, mi sarei consigliata con voi. Siete un uomo
estremamente generoso, milord. Spero di rincontrarvi al mio ritorno a
Elosbrand». La ragazza arrossì.
«Ne sarò lietissimo, madamigella. Voi e
vostro padre siete invitati a cena nel mio palazzo, al vostro ritorno.
Ci conto».
Un altro sorriso illuminò il viso affilato
della ragazza.
«Buon viaggio, milord».
«Grazie, Lilian. A presto».
Lord Bailey li guardò allontanarsi,
sorridendo, poi rientrò nella stalla per sellare il suo cavallo. Il
barbaro era lì che lo guardava sornione, con le mani sui fianchi.
«Siete un uomo estremamente generoso,
milord! Ma lo sa che hai preso tu il gioiello?». Deckard era fra
l’indignato e il divertito. «Un po’ d’oro in cambio di sette rubini che
valgono ognuno tre volte tanto!».
«Quel gioiello non ha mercato, Deckard.
Chiunque cercasse di venderlo rischierebbe la galera».
«E tu cosa vuoi farne, allora? Non hai paura
di finire in prigione?».
«Ma io sono Blackwind. E posso fare quel che
agli altri non riesce». Ora lord Bailey rideva allegramente.
«Ah sì? E come risolvi questo problema?».
«Ma è facile, amico mio. Lo restituisco al
suo proprietario. Ovviamente, dietro il compenso che mi spetta per
averlo ritrovato».
«Hai davvero una gran faccia tosta! Quindi
scambieresti quel magnifico gioiello con del volgare denaro?».
«Quel gioiello non vale il sangue che è
stato versato, Deckard. E poi ricorda i versi del grande bardo Faber: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
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