Mistero sulla neve

di cabol
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Personaggi

Lord Bailey Windström, gentiluomo di Elosbrand.

Deckard Caine, barbaro Ariaken.

Stanley Cannon, oste del “gatto nero”.

Monia, cameriera, figlia di Cannon.

Cedric Faulkner, commerciante.

Miss Lilian Faulkner, figlia di Cedric.

Ross Calides, taglialegna.

Vernon Calides, taglialegna, fratello di Ross.

William “whip” Pasterron, domatore.

Kira, splendido esemplare di pantera nera.

Jorg Stone (Jorgelinapgregolinapfelderinapmiliterapcaulderinaplienanapjorgelinaplilimipapcaulderinapgregolinapmiliteraplienan), gnomo, assistente (schiavo) di William.

Jeff “blade” Barthington, acrobata.

Miriam “sugar” Deekin, acrobata, moglie di Jeff.

Oliver “Ollie” Laurel, istrione, attore, ciarlatano.


Capitolo 1: Tormenta

La neve turbinava, in candide volute, sulla tenue traccia della pista che attraversava i monti, tagliandoli come un preciso colpo d’ascia. Il vento mulinava e trasportava fiocchi mordaci e silenziosi su due viaggiatori stanchi, avvolti nei mantelli e sulle loro bestie tremanti, costrette dalle briglie a seguire, riottose, quel cammino. Alti abeti, torreggianti e cupi, osservavano impassibili i penosi sforzi e i pesanti passi delle intirizzite e fragili creature che, sfidando il gelo, osavano percorrere quei luoghi. La voce gelida e lontana, ora cupa, ora stridula, del vento pareva motteggiare la fatica che uomini e bestie profondevano sulla strada montana. Tuoni lontani brontolavano ogni tanto, ammonendo i viaggiatori che la notte, ormai prossima, sarebbe stata ancora peggiore di quel giorno gelido e spietato.

«Non manca molto, ormai». Il viaggiatore più alto sollevò la testa, come annusando l’aria gelida del tramonto. La voce, bassa e profonda, s’intonava perfettamente a quell’ambiente, quasi fosse stata l’antico accento delle conifere innevate.

«Al passo o al nostro trapasso?». Una voce tenorile, decisamente ironica, emerse dal cappuccio più basso.

«La locanda è vicina. Sento odore di fumo». La voce profonda echeggiò fra gli alberi, appena increspata da una nota d’esasperazione.

«Non ti arrabbiare, vecchio mio. Se non avessi avuto fiducia in te non sarei certamente qui, ora». La nota beffarda era scomparsa lasciando il posto a un tono evidentemente divertito, che fece irritare ancora di più il suo compagno.

«Non ti ho chiesto io di seguirmi».

«Questa era la via più rapida per tornare a casa, Deckard. E tu sai che ho fretta di riprendere i miei affari. La nostra gita è stata una piacevole digressione ma ora bisogna tornare al lavoro. Via, non sprechiamo fiato. Sbaglio o quella è una luce?». Indicò un punto in lontananza, seminascosto dai rami degli alberi, dietro un’ampia curva della strada. Un punto luminoso che appariva e spariva col vento.

«Sì. È certamente la locanda. Ci arriveremo prima del buio». La voce bassa era ora riscaldata dalla speranza e dal sollievo.

«Telgëa[1] ci assiste, amico mio. Minaccia tempo da lupi per stanotte».

Un piccolo gruppo di case di sasso, strette fra loro come freddolose comari, inghiottiva la strada montana, succedendo agli alberi quasi senza interruzione, separato dalla foresta imbiancata solo da uno stretto fossato. Quei poveri tetti di paglia parevano, tuttavia, caldi e rassicuranti, in quella notte che avrebbe certamente coperto di un gelido manto tutto ciò che circondava il paesello.

Lo stretto cerchio di case racchiudeva una piccola piazza, poco più di un cortile, al centro del quale troneggiava un pozzo di pietra, già quasi totalmente innevato. In quella stagione, sarebbe rimasto inoperoso a lungo, giacché per i paesani era decisamente più semplice riempire i mastelli di neve, piuttosto che manovrare la pesante e ghiacciata catena del pozzo.

Una tiepida luce filtrava dalle imposte socchiuse di una casa, decisamente più grande delle altre, accanto al ponticello che scavalcava il fossato. Sulla porta pendeva una logora insegna, raffigurante un gatto nero acciambellato. Una stalla, proprio lì accanto, offriva un rifugio anche per le cavalcature di eventuali viandanti.

«Orsù, pensavo peggio. C’è anche ristoro per i cavalli. Potremo fermarci finché questa maledetta tempesta non sarà cessata del tutto». Il viaggiatore più basso si era fermato sul ponticello, osservando soddisfatto l’edificio della locanda. «Un bel fuoco e una cena calda ci rimetteranno in sesto, amico mio».

«Ci deve essere gente alla locanda. Qui ci sono almeno sei cavalli. E prima del ponte ho visto alcune carrozze. Speriamo ci sia una stanza. E la cena…». La gigantesca figura si rivolse desolata al suo compagno, con un gesto che indicava chiaramente i suoi dubbi di riuscire a soddisfare il suo robusto appetito.

«In qualche modo ci arrangeremo, l’oro non ci manca e un riparo al caldo possiamo assicurarcelo. Quanto alla cena… temo che ci vorrebbe un cinghiale tutto per te, amico mio… dovrai accontentarti».

Luce, calore e voci chiassose vacillarono quando la porta della locanda si spalancò. L’odore di fumo, vino e vivande venne spazzato dal vento gelido accompagnato da tenui fiocchi candidi. Volti curiosi fissarono gli occhi sui nuovi arrivati. Scivolando giù dalle spalle, i mantelli innevati rivelarono quanto fossero diversi quei due viaggiatori. Uno era molto alto, dai lunghi capelli scuri che ricadevano sulla muscolatura possente dell’ampio torace, vestito come usavano i barbari, con una corazza di cuoio orlata di pelliccia e pantaloni di pelle, dai quali spuntavano morbidi stivali di renna. Portava sulle spalle un’arma formidabile, la tradizionale ascia doppia degli Ariaken[2]. L’altro di statura media e corporatura esile, indossava un’elegante guarnacca di lana azzurra bordata d’ermellino, pantaloni e stivali di pelle nera e portava al fianco un elegante stocco dall’elsa riccamente lavorata. Pareva un ricco gentiluomo diretto a un appuntamento mondano, più che un viandante costretto dal gelo a cercare rifugio nella locanda.

Monia si voltò, come tutti, a osservare i nuovi arrivati, rischiando di far cadere i boccali di birra che stava portando. Un gentiluomo affascinante (e probabilmente ricco) e un guerriero ariaken, certamente la sua scorta o la sua guida. Questi pagano, rifletté e si liberò rapidamente dei boccali. Ignorò gli sguardi bramosi degli avventori, più interessati alle sue forme che alla birra, si rassettò le vesti e corse incontro ai nuovi potenziali clienti. Raggiunse agilmente quello che pareva un giovane gentiluomo e gli si rivolse con una seducente, se non perfettamente educata, riverenza.

«Buongiorno milord. Come posso servirvi?». Due occhi color smeraldo si fissarono in quelli della giovane locandiera. Due occhi che potevano accarezzare ma anche ferire. Due occhi pericolosi, valutò l’esperta ragazza.

«Col vostro sorriso, madamigella. E, se è possibile, con una camera e una buona cena». Una voce tenorile, musicale e dolce, scaturì dalla sua bocca ben disegnata e sorridente, ornata da due baffetti sottili alla moda.

Monia sorrise, un’attività che le riusciva naturale e che le tornava utile nella maggior parte delle situazioni, poi si esibì in un nuovo elegante inchino che espose la sua interessante scollatura agli occhi dell’interlocutore. Sapeva giocare a quel gioco.

«Sorridere a un così bel signore è la cosa più facile del mondo, milord. Quanto alla camera, ne abbiamo ancora una, non è grandissima ma è pulita e calda. Accomodatevi e la cena arriverà subito».

Indicò un tavolo abbastanza vicino al grande camino, fece un’altra procace riverenza e si diresse verso il banco ancheggiando agilmente fra i tavoli, seguita dallo sguardo ammirato di molti avventori. Raggiunse il bancone, dove il locandiere, suo padre, era alle prese con un barilotto di birra che non voleva stare sul suo cavalletto. Lo guardò un attimo, fra il divertito e l’esasperato, poi si avvicinò al suo orecchio.

«Pa’, questi due che sono arrivati, hanno l’aria di gente che paga bene. Ci vai tu o me ne occupo io?».

Stanley Cannon, alto quasi due metri e largo in proporzione, era ancora un uomo vigoroso, nonostante l’età non più verde. Piazzò il barilotto sul cavalletto, stroncandolo, e si voltò a osservare la sala. Individuò immediatamente i nuovi arrivati e sorrise all’indirizzo della ragazza.

«Un gentiluomo in viaggio con la sua guida e guardia del corpo. Vestiti eleganti, belle armi. Brava bimba. Vado a farci due chiacchiere ma è meglio se poi te ne occupi tu. Il tuo fascino ci frutterà qualche moneta in più. Restano a dormire?».

«Sì. D’altronde, solo dei pazzi si metterebbero in viaggio con questo tempo».

L’oste si passò una mano sui radi capelli grigi e ammiccò.

«Allora, al tavolo degli artisti, ci deve essere qualcuno abbastanza pazzo. Quell’idiota non era ancora arrivato che aveva già litigato con Ross e Vernon e ora sta piantando grane ai suoi compagni».

Al tavolo vicino alla parete di fondo, in effetti, pareva essere sorta un’animata discussione. Un uomo biondo, alto, e atletico dal volto bello e arrogante, probabilmente sulla trentina, stava parlando concitatamente con un uomo più anziano, decisamente sovrappeso, i cui pochi capelli neri erano abbondantemente macchiati di grigio. Questi parlava quietamente, con un’espressione paziente nei piccoli occhi scuri, affondati nel grasso del viso. La sua voce suonava ragionevole ma venata di autorità, anche se non si udivano chiaramente le parole. Una bella ragazza dai capelli rossi interloquì vivacemente, probabilmente schierandosi dalla parte dell’uomo biondo ma il suo intervento provocò una brusca reazione da parte del giovane seduto al suo fianco. Questi era di statura media, all’incirca coetaneo della ragazza dai capelli rossi, muscoloso ma snello, il fisico che frequentemente si ritrova negli acrobati. Col suo intervento, la conversazione si trasformò in alterco e cominciarono a volare apprezzamenti vivaci e coloriti fra i due giovani uomini. La situazione degenerò quando un ometto di statura quasi infantile, dal fisico minuto e la testa sproporzionatamente grossa rispetto al corpo, evidentemente uno gnomo, provò timidamente a dire qualcosa. La reazione del biondo fu violenta e improvvisa: uno schiaffo che fece ruzzolare lo gnomo dalla sedia.

«Non permetterti mai più di contraddirmi, schiavo! Vattene! Torna nella tua tana e aspettami lì. Partiremo appena sorgerà il sole».

Altre voci concitate si alzarono dal tavolo, dove tutti parvero disapprovare il gesto dell’uomo. Il piccolo gnomo sgattaiolò lontano dal tavolo, mentre il gigantesco barbaro, che aveva osservato attentamente la scena, si alzò scuro in volto. Il suo compagno di viaggio si accomodò meglio sulla sedia, come per gustarsi l’imminente spettacolo.

«Deckard, vedi di non esagerare. Il signore deve alzarsi presto, domattina». Il suo compagno non rispose, mentre si avvicinava a grandi passi verso il tavolo degli artisti, con gli occhi minacciosamente puntati sull’uomo che aveva colpito lo gnomo.

«Perché non provi a prendertela con uno più grosso? Sei uno sporco vigliacco!».

Lo sguardo arrogante dell’uomo si fissò sull’importuno. Il suo bel viso si contrasse in una smorfia di disgustato furore e la sua voce suonò incrinata dall’ira.

«Di cosa t’immischi, bestione? Queste cose riguardano me e il mio schiavo. Se il tuo padrone ti schiaffeggia, io non m’immischio di certo. Cerca di fare altrettanto. Sono un tipo pericoloso».

Gli occhi del barbaro lampeggiarono come un cielo cupo prima di una tempesta e come un tuono echeggiò la sua voce: «Io non ho padroni. E sono molto più pericoloso di te». Nel dir questo, il suo pugno piombò sul tavolo, spezzandolo in due e facendo ruzzolare dalla seggiola l’uomo grasso. Tutti si allontanarono precipitosamente dai rottami del tavolo. Il biondo impugnò la frusta che portava al fianco, minacciando Deckard.

«Fatti sotto, idiota. Facci vedere come sai ballare!».

«Whip, piantala subito!». Nonostante fosse disteso al suolo, in una posizione ben poco dignitosa, la voce dell’anziano capo della compagnia di acrobati, risuonò autoritaria, nella sala.

«Questo bestione ha bisogno di una lezione, Ollie, non preoccuparti, sono abituato a domarne di più grossi». La frusta schioccò nell’aria e subito dopo saettò sul braccio del barbaro, strappandogli una striscia di pelle.

Il guerriero non fece una piega, ma nei suoi occhi cominciava a montare una collera che pareva poter diventare devastante.

Avanzò di un passo.

La frusta saettò nuovamente, colpendolo.

Deckard avanzò ancora.

Un’altra frustata partì, ma il barbaro afferrò al volo il cuoio, strappandolo bruscamente verso di sé. L’avversario, sorpreso, non lasciò la presa con sufficiente prontezza e si trovò trascinato verso il gigantesco barbaro, le cui mani si strinsero inesorabili intorno al suo collo.

«Ti piace giocare? Fai saltare le bestie con la tua frusta? Ora tocca a te saltare, sacco di letame!». La mano sinistra di Deckard rimase stretta sul collo dell’uomo, mentre la destra lo afferrò per la cintura, sollevandolo da terra come un fuscello.

Un attimo dopo, il malcapitato volava per la sala, atterrando rovinosamente davanti alla porta d’ingresso del locale.

«È inaudito! Questa cosa è inaccettabile». Un uomo piccolo e magro, sulla cinquantina, elegantemente vestito, si alzò rosso in volto dal tavolo accanto alle rovine di quello degli artisti, rivolto all’oste, vanamente trattenuto dalla giovane ragazza bionda seduta di fronte a lui.

Deckard ignorò completamente le sue proteste e raccolse l’avversario ancora mezzo stordito, sollevandolo di peso per attaccarlo, a un gancio che penzolava a circa due metri dal pavimento, di quelli usati per i salumi.

«Fate cessare questa barbarie o chiamo le guardie!». L’ometto elegante alzò la voce, portandola a un tono alquanto stridulo.

L’oste, per la verità, pareva piuttosto divertito, nonostante il tavolo fracassato, però non poteva ignorare le proteste dei suoi avventori. Specie di quelli paganti, anche se poco simpatici. Si avvicinò al barbaro che osservava soddisfatto la propria opera.

«Per favore, signore, credo che quest’uomo ne abbia avuto abbastanza. Rimettetelo a terra».

Deckard lo osservò distrattamente.

«Tornerà a terra appena avrà chiesto scusa allo gnomo». Sorrise, guardando verso l’uomo appeso. Con un gesto della mano richiamò accanto a sé la piccola creatura, ancora tremante.

«Come vi chiamate, messer gnomo?». L’interpellato guardò il gigantesco uomo di fronte a sé e poi il suo padrone, che dondolava appeso come un salame, rosso in volto ed evidentemente spaventato.

«Jorgelinapgregolinapfelderinapmiliterapcaulderinaplienanap…». Qualcuno, fra gli artisti, si schiarì rumorosamente la gola, ricordando allo gnomo che gli umani, generalmente, non amavano sentir declamare i nomi secondo l’usanza del suo popolo. Anche perché quei nomi comprendevano numerosi ascendenti che, nella migliore delle ipotesi, risalivano alla ventesima generazione.

«… ehm… tutti mi chiamano Jorg, chiamatemi così, anche voi, milord». Il barbaro trattenne una risata e si voltò un’altra volta verso la propria vittima.

«Chiedigli scusa o passerai la notte così».

L’uomo che rispondeva al nomignolo di whip non rispose, restando con lo sguardo fisso nel vuoto, ancora stordito dal volo attraverso la sala e dall’umiliazione subita.

L’omino elegante si avvicinò con fare minaccioso.

«Ora basta. Siete solo un servo e non avete il diritto di trattare così un signore. Ho fatto il viaggio da Elosbrand a qui con questi artisti e posso assicurarvi che sono persone assai più rispettabili di un selvaggio come voi».

Deckard si voltò lentamente verso l’incauto interlocutore. Le mani si erano serrate a pugno e parevano due magli pronti a entrare in azione. Quasi certamente avrebbe colpito l’azzimato individuo che osava parlargli in quel modo arrogante, se il suo compagno di viaggio non si fosse intromesso rapidamente.

«Messer Faulkner! Ma che sorpresa! Anche voi in viaggio con questo tempo da lupi?».

L’omino rimase interdetto, osservando il gentiluomo che lo aveva apostrofato così. Lentamente nei suoi occhietti comparve una luce di comprensione. Aveva visto già da qualche parte quel damerino.

«Lord… Windström?».

«Sono proprio io, messere, lord Bailey Windström. Sono lieto che vi ricordiate di me. Ci siamo conosciuti al ricevimento di lady Imbert, questa primavera».

Monia per poco non si mise a ridere. Un gentiluomo di nobile famiglia che si dichiarava contento di essere ricordato da un borghese! Eppure le parole del giovane dovettero sortire l’effetto voluto, dal momento che messer Cedric Faulkner gonfiò il petto e quasi arrossì di piacere, salutando con calore l’elegante aristocratico. La rissa era scongiurata.

«Ma come potrei mai dimenticare uno dei gentiluomini più apprezzati di Elosbrand! La vostra cortesia e generosità sono quasi leggendarie, sapete?». Così, messer Faulkner cominciò a chiacchierare fittamente col giovane lord, invitandolo al proprio tavolo e dimenticandosi completamente del povero domatore, tristemente appeso al gancio da salumi. Monia corse in cucina dove, finalmente, poté sciogliere la risata che minacciava di farle scoppiare il petto. Una risata con una punta d’amaro, però: che gente meschina c’è al mondo!

Pure Stanley Cannon aveva osservato la scena con evidente divertimento ma si stava chiedendo se realmente il barbaro avrebbe lasciato quel tipo appeso al gancio per tutta la notte. Sospirò. Sospettava di sì.

L’anziano capo della compagnia girovaga gli si avvicinò con aria imbarazzata.

«Signor Cannon, Whip, ehm, William ha un gran brutto carattere ma forse non è il caso di lasciarlo davvero lì fino a domani».

«Signor Laurel, convincetelo a chiedere scusa allo gnomo, perché quella specie di gigante non credo proprio che cambierà idea. Io non ci litigo di certo, ho passato l’età delle risse!».

«D’accordo, proverò a convincere Whip a ragionare. Vedrete che ci riuscirò. È cocciuto ma non stupido. Voi mettete una buona parola con quel barbaro, mi raccomando».

Il grassoccio attore si avvicinò al collega appeso e incominciò a parlargli quietamente. Il domatore, sulle prime sembrò disinteressato alle parole di Laurel ma, poi, la sua attenzione parve crescere, sicché il locandiere cominciò a sperare. Quando, però, il gigante se ne tornò al tavolo ignorando la sua vittima e dedicandosi alla cena, riprese a preoccuparsi.

Monia tornò nella sala con ancora le lacrime agli occhi e si avvicinò all’oste sorridendo.

«Allora? Pace fatta?».

«Per quel che riguarda il mercante, direi di sì. Per quell’idiota appeso, invece, le trattative sono ancora in corso. Porta un’altra razione abbondante a quel barbaro, chissà che non lo rabbonisca».

Al tavolo di messer Cedric Faulkner, intanto, la conversazione era sempre vivace e cordiale, con la loquace miss Faulkner che teneva banco riferendo gli ultimi pettegolezzi di Elosbrand[3] da dove era partita una settimana prima.

«…e pare che Blackwind continui a depredare i più ricchi della città!». La ragazza parlava quasi sottovoce, con aria di chi la sa lunga.

Lord Windström le rivolse un sorriso affascinante. Non era bella, miss Lilian Faulkner, con un naso troppo aquilino e le labbra troppo sottili, eppure i suoi occhi grandi e vivaci sapevano colpire chi l’avesse osservata con attenzione. Era magra, anche troppo, con forme appena (o forse non ancora) accennate e un po’ troppo poco femminile nell’atteggiamento ma sapeva affascinare con una conversazione brillante, acuta e intelligente a dispetto dei suoi diciassette anni appena compiuti. Non era bella ma aveva un suo fascino.

«Davvero? Raccontate, mia cara». L’aristocratico giovane pareva divertirsi un mondo, mentre il suo compagno aveva assunto un’aria perplessa che strappò un sorriso alla biondissima damigella.

«Non ci credete, vero? Eppure un gioiello preziosissimo è sparito e, visto che non si capisce come abbiano fatto, sembra proprio opera sua. Pare che sia stato rubato, proprio il giorno prima della nostra partenza, un gioiello famosissimo: il “collare di fuoco”, un meraviglioso girocollo di rubini che apparteneva a lady Bracknell».

«Lady Bracknell? La moglie di lord Mark Bracknell, il senatore?».

«Proprio lei, milord! La moglie dello “sparviero”. Quello che si è arricchito sui fallimenti degli armatori». Disse le ultime parole quasi sussurrando, come una cospiratrice.

«Lilian, ti prego!». Messer Faulkner parve scandalizzato.

«Non mi interesso molto di affari economici, miss Faulkner, perdonatemi ma non so di cosa parliate… Ma raccontateci di questo furto mirabolante, vi prego».

La ragazza parve dispiaciuta di non essere stata seguita sul terreno dei pettegolezzi ma era troppo contenta di poter raccontare una storia piena di mistero, sicché proseguì con tono professionale.

«Un colpo veramente nel suo stile: il gioiello era chiuso in una stanzina con una porta blindata che, badate, non è stata forzata, e senza altre aperture che una finestrella dalla quale non sarebbe potuto passare nessun uomo».

«Se è stato davvero rubato il gioiello, qualcuno deve pur essere entrato in quella stanza. Avranno usato una chiave falsa o qualche altra diavoleria. Se la finestra è troppo piccola, devono essere per forza passati dalla porta!». Obiettò il gentiluomo. Stava per fare un’altra osservazione, quando vide l’oste avvicinarsi al tavolo, con aria imbarazzata.

«Ehm… miei signori, quell’uomo si è scusato… sarebbe possibile farlo scendere da lassù?».

Messer Faulkner fece un gesto infastidito con la mano, come a significare che non era il caso di disturbarli per una questione tanto futile. Deckard, impegnato con un’enorme bistecca, fece finta di non aver sentito. Lord Windström sorrise e si scusò con i commensali.

«Perdonatemi, signorina. Messer Faulkner. Torno subito». Si alzò da tavolo e si diresse con noncuranza verso l’uomo appeso.

«Vedo con piacere che siete una persona ragionevole. Vogliate continuare a esserlo, signore, e badate che questa discussione col mio amico non abbia ripercussioni sul vostro servitore». Sguainò la spada e la fece scorrere lungo l’addome dell’uomo. «Dovesse giungermi alle orecchie potrebbe accadervi di perdere qualcosa di prezioso».

William whip Pasterron, domatore, acrobata e molto altro ancora, divenne, se possibile, più pallido e fece cenno, col capo, di aver capito.

«N-non ci saranno co-conseguenze, mi-milord. Ve lo g-giuro».

«Bravo ragazzo!». La spada del gentiluomo scattò come un serpente recidendo la cintura del malcapitato che rovinò al suolo fra le risa degli astanti. Lord Windström non lo degnò di uno sguardo e se ne tornò al tavolo dove messer Faulkner si stava sbellicando dalle risa.

Il capo degli artisti si avvicinò timidamente all’aristocratico giovane, proprio mentre questi stava per riprendere il proprio posto.

«Milord, perdonate il mio uomo se vi ha procurato disturbo. William non è cattivo. Solo un po’ arrogante, ma dovete capirlo, è la stella del nostro spettacolo, si sente un reuccio».

«Non preoccupatevi messere. Capisco perfettamente. Vi prego però di consigliare al vostro reuccio una riposante dormita e di non provarsi minimamente a vendicarsi sullo gnomo. Posso sapere con chi ho l’onore di parlare?».

«Eh? Oh, eccellenza, perdonatemi. Sono Oliver Laurel, capocomico, cantante, alchimista e guaritore e questa è la mia compagnia».

«Artisti girovaghi, eh? È un vero peccato che abbiate soggiornato a Elosbrand proprio durante la mia assenza. Avrei gradito davvero ospitarvi nel mio palazzo, amo molto l’arte, caro mastro Laurel».

«Torneremo in primavera nella vostra bella città, lord Windström. Permettete che vi presenti i miei compagni, milord?».

«Ma certamente, mastro Laurel, con sommo piacere».

«Questi è Jeff “blade” Barthington, acrobata e giocoliere, un giovane che ha uno splendido futuro nell’arte, credetemi, milord». Il giovane dal promettente futuro era il ventenne di piccola statura, di bell’aspetto, snello e agile, con glaciali occhi glauchi che si era quasi azzuffato col collega. Guardò con sospetto l’aristocratico gentiluomo ma si esibì in un inchino educato, dimostrando rispetto per l’anziano capocomico.

«… e questa è sua moglie, l’affascinante Miriam “sugar” Deekin. Acrobata, ballerina, cantante e attrice, la perla della nostra compagnia».

Una splendida donna dai capelli fulvi e gli occhi verdi si esibì in un inchino, sollevando poi gli occhi per sorridere sfacciatamente all’indirizzo del nobile.

«È un onore, conoscere il più affascinante aristocratico di Elosbrand, milord. Consideratemi a vostra… completa disposizione».

«Onoratissimo e lusingato, madama, sono certo che apprezzerò assai la vostra arte». Lord Bailey restituì l’inchino, fissando negli occhi la procace ballerina. Lei ammiccò maliziosamente, ricevendo un divertito sorriso per risposta.

«William “whip” Pasterron lo… ehm… conoscete già, è un acrobata e domatore di gran fama, la stella del nostro spettacolo e Jorg è il suo assistente».

«Sono certo che messer Pasterron sia un artista di valore. Deve solo imparare a controllarsi meglio e a rispettare i suoi collaboratori. Mi dispiace per quanto è accaduto ma il mio amico non tollera le angherie verso i più deboli».

«Avete ragione, milord. Ma whip aveva bevuto ed era già contrariato perché avevamo rifiutato di ripartire all’alba di domani, con questo tempo… spero vogliate ritenere chiusa la questione».

«Certamente, messer Laurel. Perdonatemi ora ma desidero terminare la cena e andare a riposare, dopo una giornata davvero pesante».

Sono a vostra completa disposizione. Monia trattenne un sorriso di fronte a tanta goffa sfrontatezza. Anche lei sapeva sedurre un uomo ma era abbastanza intelligente da capire che un tipo come quel gentiluomo difficilmente sarebbe stato davvero tentato da una proposta tanto volgare. Comunque l’incidente era chiuso e, poco dopo, tutti erano tornati a sedere ai propri posti. La serata volgeva finalmente al termine.

Lentamente, i tavoli si svuotarono e gli avventori si ritirarono nelle loro camere. Il silenzio scese nella grande sala da pranzo mentre fuori la neve continuava a cadere fittamente. Monia rimase a lungo fra gli scuri e la pesante tenda ad ascoltare il vento.

Qualcuno bisbigliava nel buio.

Che ora era? Doveva essersi addormentata dietro la finestra. Il vento pareva molto meno intenso. Il tendaggio che la separava dalla sala le impediva di vedere chi era alzato a quell’ora di notte.

«Non andare!». Una donna, giovane.

«Vieni con me, allora». Un uomo.

«È pericoloso con questo tempo!». La donna . Monia non avrebbe saputo dire chi fosse.

«Non intendo restare ancora. Vieni con me e sarai la donna più ammirata e invidiata del Kaardir[4], ormai sono ricco, credimi». Il domatore. Ecco. Certamente era lui.

«Io ti seguo perché ti amo, non perché sei diventato ricco. A parte che non capisco come avresti fatto». Nulla da fare. La ballerina o la figlia del mercante? Monia non riusciva a capire.

«Te lo dirò lungo il viaggio! Andiamo, ha smesso di nevicare».

«Devo prendere le mie cose!».

«Sei pazza? Potrebbe svegliarsi! Andiamo via, ora».

«Non si sveglierà, ha il sonno pesante. Vai al carro, ti raggiungerò subito».

«Mi raccomando! Aspetterò al massimo mezzora. E se lui ci dovesse seguire?».

«Non ci seguirà. Quando si sveglierà saremo già lontani. E saremo felici». Una pausa. Un bacio?

«Vai, e sbrigati». Passi leggeri sulla scala. Lo scorrere della catena. Il gelo aveva fatto irruzione nella sala. Monia lo avvertiva anche dietro quel tendaggio. Perché non l’ho scostato? Alzò le spalle. Forse perché era buio pesto e non avrebbe visto nulla rischiando, al contempo, di farsi scoprire. E quell’uomo dai modi gentili ma dai violenti scoppi d’ira e dalla frusta facile le faceva paura.

Attese qualche minuto. Silenzio. Provò a sporgersi verso la tenda. Silenzio. Spostò la tenda con cautela. Silenzio. Buio fitto. La curiosità la rodeva: chi era la ragazza che voleva fuggire col domatore? La vivace figlia del mercante o la seducente ballerina? Doveva trovare un posto da dove poter vedere chiaramente la porta della locanda. Il sottoscala. I gradini avevano ampie fessure dalle quali osservare cosa accadeva nella sala e la scala arrivava fin quasi alla porta. Sarebbe stata abbastanza vicina da poter riconoscere quantomeno il colore dei capelli. La bionda o la rossa? Si mosse in silenzio in quell’ambiente che conosceva alla perfezione e raggiunse la porticina che conduceva allo sgabuzzino ricavato sotto la scala di legno. Entrò e attese.



[1] Dea delle campagne e dei focolari

[2] Popolazione barbarica nomade delle terre occidentali

[3] Capitale della Repubblica di Elos e uno dei principali porti di Ainamar

[4] Ricco regno ai confini settentrionali della Repubblica

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Capitolo 2: Sangue sulla neve

Deckard si svegliò – o, per dir meglio, fu svegliato – prima del solito, quel giorno. Era mattiniero per lunga abitudine ma stavolta qualcuno doveva esserlo stato più di lui perché in strada si udivano voci concitate. Bestia. Cercò di allontanare i fumi del sonno e tese l’orecchio. Due voci. Troppo confuse per capire qualcosa. Solo quella parola gli era giunta chiaramente: bestia. Che bestia? Di cosa stavano parlando? Cercò di riprendere sonno ma la curiosità e l’istinto lo spinsero a chiedersi cosa stesse accadendo.

Si alzò silenziosamente dal pagliericcio e si avvicinò alla finestra. Le voci erano sempre confuse. Provò a scostare gli scuri e subito la luce bianchissima e gelida dell’alba innevata irruppe nella camera. Ammazzata. Chi era stata ammazzata? Il suo compagno si voltò verso il muro e si avvolse più strettamente nel mantello. Come diavolo facesse quello a dormire placidamente ovunque si trovasse, era un mistero che aveva sempre incuriosito il barbaro. Come era possibile che un sofisticato damerino si trovasse a proprio agio praticamente dappertutto? Quel mattino, comunque, era più attratto da quel che accadeva in strada. Due uomini, evidentemente abitanti del villaggio, erano riuniti nella piazzetta del pozzo, a pochi metri dalla locanda, e parlavano fra loro come se fosse accaduto qualcosa di straordinario. Nulla da fare, non si capiva che qualche parola smozzicata. Ormai il sonno era scomparso e la curiosità scatenata. Si vestì rapidamente, prese il mantello e fece per uscire.

«Che diavolo succede? Deckard, ci sono problemi?». Il giovane aristocratico si era seduto sul letto e lo guardava con aria perplessa, ammiccando. Ancora semiaddormentato, pareva abbagliato dal riverbero della luce del mattino.

«Deve essere successo qualcosa di strano, al villaggio. Pare abbiano ammazzato qualcosa o qualcuno. Vado a vedere».

Il giovane si stiracchiò come un gatto, poi si alzò pigramente in piedi. Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e rabbrividì.

«Vai, ti raggiungo subito».

Deckard uscì rapidamente sul corridoio che conduceva alle scale. La porta di una camera si aprì e il viso rotondo di Laurel sbucò fuori, ancora con gli occhi ancora socchiusi dal sonno.

«Sta succedendo qualcosa là fuori?».

Il barbaro trattenne a stento un sorriso nel vedere il grasso artista con una buffa papalina sulla sommità del capo e una camicia da notte dalla quale il pingue addome dell’uomo pareva volesse evadere a ogni movimento.

«Non so. Ci sono due che discutono in piazza, sembrano molto eccitati. Vado a vedere di che si tratta». Salutò l’attore con un cenno del capo e si avviò lungo il corridoio. Un altro uscio parve schiudersi ma nessuno si fece vedere e Deckard proseguì a grandi passi. Era curioso e non amava molto le chiacchiere. Scese rapidamente le scale che gemettero sotto il suo peso, raggiunse la porta e uscì nel gelo nevoso del mattino, dirigendosi verso la piazza.

Monia si svegliò allarmata. Il soffitto pareva doverle crollare in testa da un momento all’altro. Ma dove diavolo era? Che ci faceva nel sottoscala? Dei santissimi! Si era addormentata di nuovo. E la misteriosa ragazza? Era uscita senza che lei sentisse nulla? E ora cosa stava accadendo? Volle uscire ma prese una ramazza per darsi un contegno. Sarebbe stato seccante spiegare che aveva dormito nel sottoscala per spiare, peraltro inutilmente, un convegno amoroso. Uscì dalla porta dello sgabuzzino appena in tempo per vedere allontanarsi Deckard. Si avvicinò alla soglia e udì le voci che provenivano dalla strada. L’aria fredda finì di svegliarla del tutto. Incuriosita, girò attorno alla scala, acchiappò un pesante mantello di lana e corse dietro al barbaro.

Oliver Laurel impiegò un minuto a rendersi conto che qualcosa non quadrava. Un irrazionale senso d’inquietudine lo attanagliava, rendendogli penosi anche i movimenti più semplici. Cercò di rassettarsi un po’. Si lavò il viso con l’acqua gelida del bacile e uscì nel corridoio vestito meglio che poteva. La curiosità lo spingeva a uscire sulla strada ma quella strana angoscia lo trattenne. Bussò alla porta accanto alla propria camera.

«Chi è?». La voce di Jeff pareva ancora impastata dal sonno.

«Sembra che ci sia un po’ di agitazione in paese, vado a vedere cosa succede».

«Vai, ma se è quel cretino che ne ha fatta qualcuna delle sue non ci svegliare. Sugar ed io abbiamo ancora sonno».

Attività notturna, pensò l’anziano capocomico, sorridendo. Poi esitò. Whip ne aveva davvero combinata un’altra? Raggiunse la camera del domatore e bussò. Silenzio. Bussò ancora. Nessuno rispose. Spinse la porta che si rivelò aperta. La stanza era buia, dunque spalancò la porta e, alla tenue luce che giungeva dal corridoio, si diresse alla finestra e la aprì.

Nulla. Era deserta. William se ne era andato davvero. E Jorg? Allarmato, Laurel raggiunse lo sgabuzzino dove lo gnomo si era arrangiato a ricavare un giaciglio, giacché il suo padrone non lo aveva voluto con sé nella camera. Una specie di squittio lo accolse, facendolo trasalire. Un sospiro di sollievo gli sfuggì nel vedere gli occhi spalancati e il volto terrorizzato dello gnomo, ancora sdraiato su una coperta gettata al suolo, dietro un baule.

Deckard raggiunse in un attimo la piazzetta centrale del paesello, dove il pozzo di pietra, quasi completamente coperto di neve, torreggiava nel centro, sormontato da un arco metallico dal quale pendeva una carrucola. Da qualche parte, sotto la neve, doveva esserci un secchio, pensò il barbaro. Un gruppo di persone stava discutendo animatamente all’ingresso della piazza, dove la strada attraversava un arco ricavato fra due case, proprio nei pressi della locanda.

«Cos’è successo?».

Due uomini robusti guardarono con sospetto l’enorme barbaro. Uno dei due brandiva un’accetta e l’altro una roncola. Parevano decisamente eccitati. Quello armato di accetta si avvicinò minacciosamente allo sconosciuto.

«Da dove venite straniero?». La voce dell’uomo era arrogante e sgradevole.

«Dalla locanda. Ho raggiunto il passo ieri sera con un mio compagno e ci siamo fermati per via della bufera». Deckard parlava con calma. Quei due erano evidentemente agitati e avrebbero potuto fare qualche stupidaggine e lui non aveva voglia di una rissa. Almeno, non prima di colazione.

«E non avete visto nulla?». Stavolta era stato l’uomo con la roncola a parlare. Anche nella sua voce c’era un che di accusatorio che infastidì il barbaro.

«Neve e alberi. Cos’altro avrei dovuto vedere?». L’uomo con la roncola fece per rispondere ma fu bruscamente zittito dall’altro.

«Ma davvero? Che cosa avete portato con voi? Ne riparleremo con le guardie. Tornate coi vostri amici girovaghi e non lasciate la locanda». C’era un ridicolo tono di superiorità nella sua voce, forse si sentiva rassicurato dalla presenza del compagno, oppure dal fatto che il barbaro era disarmato.

Deckard stava per perdere la pazienza con quei due, quando la giovane locandiera sbucò al suo fianco.

«E le guardie dove le trovi, Ross? A Mer[1]? Lo sai che ci vogliono due giorni con questa neve, ammesso che non ne cada altra? Questo signore è un mio cliente ed è un tipo a posto». La voce di Monia era tagliente, sarcastica e lo sguardo di disapprovazione che accompagnava le sue parole avrebbe ferito chiunque. L’individuo con l’accetta, che rispondeva al nome di Ross, si fece di mille colori e abbassò il capo.

«Monia, che ne sapevo? Questo è uno straniero. E anche se non è uno di quegli attori di strada? Qui sono successe cose strane. Hanno portato i diavoli…». Imbarazzo e forse paura: Deckard cominciò a sospettare che quell’uomo fosse combattuto fra un inspiegabile senso di trionfo e di timore.

«Insomma, Ross, vuoi dirci che diamine è accaduto?». La ragazza pareva esasperata.

«Un gatto…». L’imbarazzo nella voce raggiunse vette straordinarie.

«Che?». Monia spalancò gli occhi.

«Un gatto, enorme, nero come l’inferno… forse un diavolo?». L’uomo era sempre più impacciato ma anche confusamente orgoglioso di avere scoperto qualcosa di insolito.

«Ross, sei ubriaco di prima mattina? O è ancora la sbronza di ieri sera?». La ragazza si accigliò, chiedendosi cosa mai avesse potuto aver visto effettivamente quell’uomo. Era un taglialegna di scarsa fantasia, media intelligenza e nessuna cultura, sia da sobrio, sia da ubriaco. La classica persona incapace di raccontare frottole credibili.

«Monia, vai a vedere! È sul ciglio della strada, mezzo coperto di neve, subito di là dal ponte!». Stavolta, la voce dell’uomo pareva soprattutto esasperata. Deckard sospettò che Ross dovesse tenere particolarmente alla considerazione della locandiera.

«Ross, sarà stato un orso! Che razza di gatti hai visto per confonderli con un orso?».

«Monia, gli orsi, in questa stagione dormono nelle grotte. Questo è un gatto enorme. Ed è morto». Qualcosa di ragionevole c’era, nei discorsi di quell’uomo. Il barbaro cominciò a credere che effettivamente fosse accaduto qualcosa di strano.

Lord Bailey Windström, elegantissimo come sempre, apparve sulla strada, sotto l’arco. La sua voce armoniosa echeggiò nella piazza con un’evidente nota di divertimento.

«Andiamo a vedere questo gattone, Deckard. Il signore mi sembra sincero e perfettamente sobrio. Un po’ maleducato ma sobrio».

Non attese nemmeno la risposta degli altri e si diresse verso il ponticello che scavalcava il fossato intorno al paese, ancora coperto di neve intatta, con solo le impronte di Ross e del suo compagno. Camminava sicuro, anche se in modo faticoso nella neve alta, attento a non avvicinarsi troppo alle poche tracce che macchiavano il candido manto che copriva la terra. Deckard si mise in marcia seguendo le orme del suo agile compagno e Monia fece altrettanto.

Poco fuori dal paese, sul ciglio destro della strada, una grossa macchia nera spiccava sulla neve che la circondava e, in parte, la ricopriva. Il giovane aristocratico si avvicinò con circospezione alla figura che, effettivamente aveva un aspetto felino. Si fermò, osservò attentamente la scena e, solo dopo qualche istante, si accovacciò accanto alla creatura sulla neve.

Anche Deckard si avvicinò con prudenza, con gli occhi fissi sul terreno innevato. Poi si allontanò di una decina di passi, fermandosi dall’altra parte della strada, nei pressi di un piccolo gruppo di alberi e di un muretto che racchiudeva un’icona di Telgëa, vicino al quale c’erano due carrozze, di quelle usate dagli artisti girovaghi per viaggiare da un punto all’altro del mondo, col loro carico di storie, sogni, inganni e magie. Il barbaro si era fermato accanto ai carri, in un punto dove lo spessore della neve pareva minore.

Monia rimase indietro, sulla strada, temendo di ostacolare i due uomini. Ordinò a Ross e all’altro uomo, che si chiamava Vernon ed era il fratello di Ross, di fare altrettanto.

«Allora, milord? Cos’è?».

«Il vostro amico non aveva tutti i torti, Monia. Questo è davvero un grosso gatto nero».

Il gentiluomo si alzò in piedi e si diresse verso la ragazza che lo guardava con gli occhi sgranati. Il suo viso, sempre sorridente, era ora atteggiato a una profonda preoccupazione, i suoi occhi verdi, sempre arguti e seducenti, erano lontani, persi chissà dove.

«Come? Un gatto?».

La mente del giovane era evidentemente impegnata in ragionamenti complessi, perché non rispose. La ragazza dovette ripetere la domanda per farsi capire.

«Un gatto?».

Lord Bailey si riscosse, posando i suoi occhi profondi sulla ragazza e sorridendole dolcemente. Ma in quegli occhi c’era tanta preoccupazione. La sua voce suonò grave, quando le rispose.

«In effetti, si tratta di una pantera dal manto nero. Un animale che non vive certamente da queste parti. Temo che questa sia una faccenda piuttosto seria, signorina».

«Ma, a parte il fatto insolito della presenza di questo animale, non vedo cosa ci sia da preoccuparsi».

«Questa bestia non è arrivata qua da sola, Monia. Qualcuno l’ha portata, aveva un padrone. Sarei più tranquillo se quel qualcuno fosse qui, ora».

«Volete dire il domatore?». Improvvisamente, la ragazza si ricordò del colloquio udito quella notte. «Stanotte diceva di volersene andare…».

«Vi ha confidato questo?».

«Beh… no. Ho udito per caso certi discorsi…». La giovane locandiera vide lo sguardo allarmato di lord Bailey, dunque gli raccontò tutto.

«… e siete certa che nessuno sia uscito dopo di lui?».

«Purtroppo mi sono addormentata… non sono certa, anche se mi sembra difficile».

In quel momento, Oliver Laurel si avvicinò, camminando goffamente sulla neve fresca. Anche il suo volto, in genere gioviale, appariva segnato dalla preoccupazione. Appena vide il cadavere della pantera corse verso il povero animale, con un gemito soffocato.

«Santi Dei! È Kira… ma cosa è accaduto?».

Lord Bailey si avvicinò al corpulento attore. In lontananza, il brontolio del tuono ricominciava a farsi sentire.

«Immagino si tratti della pantera del signor Pasterron, vero?».

Laurel si volse verso il gentiluomo, con gli occhi offuscati di lacrime e la voce piena d’angoscia.

«Sì, milord. E lui è scomparso».

Lord Bailey non parve sorpreso della scomparsa del domatore. Annuì gravemente col capo e indicò Deckard, ancora chino sulla neve, intento a cercare chissà cosa.

«Il suo carro era fermo là dove si trova il mio amico?».

L’anziano attore guardò nella direzione indicata, riconoscendo immediatamente il posto dove il suo domatore aveva fermato il carro, al riparo di un gruppo di alberi e del muretto con l’immagine votiva.

«Allora è partito… ma come ha fatto a lasciare qui Kira? Non l’avrebbe abbandonata mai, era sinceramente affezionato a questo animale… e chi l’ha uccisa?».

«Tre colpi di balestra». Il giovane lord si voltò verso l’attore. «Anche lo gnomo è scomparso?».

«No, milord. Non sa cosa pensare. Dormiva e non si è accorto di nulla. Ma ora come faccio a dirgli della pantera? Povero Jorg… Mi sembra un brutto sogno». Laurel pareva sinceramente costernato e la sua voce stava prendendo un tono lamentoso, insolito in un tipo apparentemente sempre allegro. I suoi occhi vagavano smarriti dalla carcassa della pantera al punto dove avrebbe dovuto trovarsi il carro del suo padrone. «Sono stati quei due!». Si era rivolto a Ross e Vernon, paonazzo in volto, e li indicava al giovane lord.

«Calmatevi, Laurel, non c’è nessuna prova che siano stati loro».

«Si sono vendicati! Ieri, appena siamo arrivati, hanno attaccato briga con whip! Lui li ha scacciati e loro si sono vendicati».

«Laurel». La voce di Lord Bailey era sempre calma e paziente. «se fosse così, avrebbero ammazzato la pantera nella gabbia. Non l’avrebbero certamente liberata. E Pasterron è sparito. Non avrebbe abbandonato la sua pantera, vero?».

«No, avete ragione. Mi sono fatto prendere dalla disperazione. Scusatemi. Anche voi, signori».

I due uomini, imbarazzati, borbottarono qualcosa che fece intendere che l’incidente poteva ritenersi chiuso e fecero per allontanarsi. Monia li trattenne seccamente.

«La pantera portava un collare, di solito?». La voce pacata di Lord Bailey riscosse lo sconvolto capocomico.

«Eh?». Laurel guardò perplesso il suo interlocutore, poi comprese e annuì.

«Sì, milord, un collare di cuoio con borchie di bronzo. Whip diceva che la rendeva ancora più minacciosa, anche se, in realtà, era un animale piuttosto mansueto». Sorrise, preso da chissà quali ricordi, poi le lacrime tornarono a rigargli le guance paffute.

«Non aveva mai aggredito nessuno?». Il giovane gentiluomo proseguiva nel suo interrogatorio con voce dolce e rassicurante, gli occhi verdi pieni di compassione per quell’anziano artista.

«Assolutamente no, whip la trattava benissimo. Ovviamente, era pur sempre un animale pericoloso, dunque nessuno osava avvicinarsi senza che Jorg o William fossero nei paraggi, però non erano mai accaduti incidenti di nessun genere». Esitò un attimo. «Perché mi avete chiesto del collare?».

«Perché ne vedo i segni sul collo, ma il collare non c’è». Lord Bailey gli indicò il collo dell’animale dove la splendida pelliccia nera mostrava i segni del continuo sfregamento contro qualcosa che lo circondava completamente. Laurel seguì meccanicamente le indicazioni del gentiluomo ma pareva che la sua mente fosse altrove.

«Evidentemente, ha davvero voluto liberarla… non capisco perché».

Nel frattempo, Deckard aveva raggiunto il piccolo gruppo. Il vento riprese a lamentarsi fra gli alberi.

«Credo sia partito un po’ prima dell’alba. Nevicava ancora, deve aver smesso circa un’ora dopo. Mi chiedo che fretta avesse… Hai esaminato la pantera?».

Lord Bailey riferì all’amico quanto aveva ricavato dall’esame della carcassa della povera Kira, poi si rivolse a Monia.

«Andate a chiamare vostro padre, miss Monia. Mi pare di capire che sia il personaggio più autorevole del villaggio, dunque è giusto che venga informato di quanto è accaduto».

La ragazza fece un inchino e lanciò un’occhiata maliziosa al giovane aristocratico, prima di voltarsi e correre verso la locanda.

«Le piaci». Osservò sottovoce Deckard, mentre la ragazza si allontanava ancheggiando. Poi si avvicinò alla pantera, esaminandola attentamente.

«Davvero?». Lord Bailey sorrise all’amico. Era assai apprezzato dalle donne, lo sapeva e sapeva approfittarne. Eppure, sentiva che con quella ragazza tutto doveva restare un gioco. Andare oltre sarebbe stato pericoloso. E il suo cuore era rivolto altrove, fra le strade e i vicoli di Elosbrand, dove una donna bella e micidiale lottava contro il mondo, forse macchiandosi di nuovi delitti. E lui ignorava pure quale fosse il suo nome[2].

«Signor Laurel credo che sia opportuno tornare alla locanda. La tregua che il tempo ci ha concesso temo sia agli sgoccioli».

Le nuvole erano tornate a farsi basse e minacciose e qualche fiocco di neve stava ricominciando a cadere pigramente dal cielo plumbeo. Laurel tornò verso il villaggio scuro in volto e con un sospetto tremolio sugli occhi. La delusione di essere stato abbandonato da uno dei suoi artisti lo aveva ferito profondamente. Il nobiluomo lo osservò mentre si allontanava ed ebbe compassione per l’anziano artista. Si riscosse quando il gigantesco barbaro si alzò in piedi e si avvicinò nella sua direzione a grandi passi. Anche Ross e il fratello tornarono verso il villaggio e il giovane aristocratico li ignorò.

«Hai ragione. Almeno due balestre diverse. Una leggera e una pesante. Francamente non capisco. Se è stato il domatore, chi lo ha aiutato? E perché ammazzare la sua pantera? E se sono stati quei due, chi ha liberato la pantera? E, poi, cosa gli è saltato in mente a quello sconsiderato di andarsene con questo tempo? Lo ritroveranno in fondo a qualche scarpata!».

«Temo che tu abbia spaventosamente ragione, amico mio». Lord Bailey aveva un’espressione assorta, inseguendo chissà quali pensieri. «Però c’è un’altra domanda, da porsi. La più critica, perché dalla risposta deriva la soluzione di tutto quest’arcano… perché il collare è scomparso?».

La neve continuava a cadere, sempre più fitta, ottundendo suoni e immagini di quel mattino gravido di mistero. Il gigante sentiva il desiderio di tornare al riparo, nei pressi del grande camino della locanda. Guardò il suo amico con aria confusa.

«Cosa? Forse semplicemente non lo aveva al collo, magari la lasciava senza, quando non c’erano spettacoli in vista… non capisco perché sia tanto importante…».

«Non credo. Hai visto i segni sul collo? Questa bestia portava sempre il collare, ci scommetto la camicia. Non aveva senso toglierlo, a meno che…». Un’espressione allarmata comparve sul volto del giovane che si diresse rapidamente verso il posto dove il carro doveva aver trascorso larga parte della notte.

Nel frattempo, Stanley Cannon era sopraggiunto a grandi passi, seguito dalla giovane figlia e da un Cedric Faulkner accigliato come non mai. L’imponente locandiere si fermò accanto a Deckard. Aveva simpatia per quel barbaro, forse per l’episodio della sera precedente o forse, semplicemente, perché gli ricordava i tempi gioiosi della sua giovinezza. Guardò perplesso l’animale ucciso e il gentiluomo che camminava in mezzo alla neve con gli occhi fissi al suolo.

«Ma cosa diamine è successo? Hanno ammazzato quella bestia e il suo padrone è scomparso? Ma dove può essere andato, con questo tempo?».

Il barbaro era altrettanto confuso ma cercò di rassicurare il locandiere. «Forse la faccenda di ieri sera l’ha esasperato… forse meditava da tempo di lasciare la compagnia. Certo , con questo tempo… Non capisco però perché abbandonare la pantera».

Faulkner lo interruppe con voce querula. Era seccato per tutta quell’agitazione, per il freddo che gli toccava patire, per la neve che stava nuovamente cadendo, per un’altra giornata persa in quel posto dimenticato dagli Dei.

«Ma cosa ci interessa di quella bestia?».

Deckard sentì prudergli le mani, sicché decise che era meglio allontanarsi da quell’individuo così odioso. Cannon ebbe lo stesso impulso ma si trattenne e si rivolse al mercante.

«Signor Faulkner, a parte il problema della pantera, è scomparso il suo proprietario. Per me, questo è un motivo sufficiente per cercare di chiarire questa faccenda».

«Ma aveva detto che se ne sarebbe andato. Che c’è di male se una persona, una volta tanto a questo mondo, mantiene la parola data? L’aveva detto e l’ha fatto. Forse ora è già a valle. Certamente in un posto migliore di questo. E, ripeto, che c’importa di quella bestia?».

La voce di lord Bailey lo interruppe.

«Temo che sia andato poco lontano signori. E non ha abbandonato il suo animale».

Fece cenno agli altri di raggiungerlo e, mentre si avvicinavano, il locandiere e sua figlia si accorsero che il suo volto era diventato, se possibile, più grave.

Era chino sulla neve, dove pareva aver scavato delicatamente e ora osservava con espressione pensierosa il fondo della piccola buca candida. Laurel e Deckard si avvicinarono perplessi, poi sgranarono gli occhi nel vedere una larga macchia scarlatta emergere da sotto la neve.

«Santi numi! Ma questo è sangue!». Cannon sgranò gli occhi e, istintivamente, strinse a sé la figlia che era decisamente impallidita. Deckard si era immediatamente inginocchiato accanto all’amico. Faulkner, pallido e spaventato, pareva sul punto di svenire.

Il giovane aristocratico alzò gli occhi verso di loro. Era scuro in volto e i suoi occhi verdi palesavano un’intensa preoccupazione.

«Esattamente, signor Cannon. E non credo affatto sia della povera Kira».



[1] Città al confine settentrinale della Repubblica di Elos, subito ai piedi dei monti

[2] cfr il racconto Il mistero della Porta.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Capitolo 3: Tracce

L’ampia sala da pranzo della locanda era invasa da un gelo che neppure il fuoco vivace del grande camino riusciva a scacciare. Volti pallidi e tesi si guardavano con reciproco sospetto mentre fuori la tormenta infuriava, ululando lugubremente fra le case spaurite del piccolo villaggio. Candele e lucerne proiettavano ombre paurose e tremolanti sui gelidi muri di pietra. Sui tavoli spogli poggiavano solo gomiti irrequieti e piedi nervosi picchiettavano sul pavimento della sala. Nessuno parlava, nessuno osava muoversi. Nessuno aveva voglia di mangiare, sebbene l’ora di pranzo fosse passata da un pezzo. Quando la porta del locale si spalancò improvvisamente, seguita dal vento ghiacciato della tormenta, tutti gli occhi si puntarono sull’imponente figura di Stanley Cannon, coperto di neve e scuro in volto. Con lui entrarono Deckard e Ross, e il gelo divenne ancora più intenso.

«Era laggiù, in fondo alla scarpata, insieme al carro e al cavallo». Cannon rispose con voce lugubre alla muta domanda che tutti quegli occhi gli avevano posta. «Lo recupereremo quando il tempo ce lo permetterà. Ucciso da un colpo di pugnale. Milord, avevate ragione».

«Speravo di essermi sbagliato, signor Cannon». La voce quieta di lord Bailey suonò tristemente lieve nella sala silenziosa. Gli occhi del gentiluomo percorsero i tavoli e i volti grigi degli avventori. «Questo significa che probabilmente, fra noi, c’è un assassino. Più d’uno, forse».

Numerose voci suonarono concitate in una cacofonia di domande e proteste, emozioni che si mescolarono al gelo e alle ombre. Paura, indignazione, confusione, stupore, sospetto, minaccia, sconcerto. E un gelo ossessionante che invadeva le menti e i cuori. Il gelo dell’orribile consapevolezza di essere rinchiusi insieme a chi aveva ucciso uno di loro. Il gelo dell’anima del colpevole. Il gelo di chi temeva per la propria vita. Il gelo di chi si sentiva responsabile di quanto era accaduto e sarebbe accaduto nella sua casa. Il gelo era ovunque.

«Ora basta, maledizione!». La voce di Cannon tuonò nella sala spegnendo il turbinare di parole che la soffocava. Il suo sguardo furente frustò i volti delle persone radunate intorno ai tavoli. «Ma l’avete capito che è stato ammazzato un uomo? Uno di noi! E l’assassino è qui».

Il piccolo gnomo, pallido come un cencio, pareva respirare a fatica, con gli occhi pieni di lacrime. Teneva gli occhi fissi sulla massiccia figura di Laurel, il capocomico, salvo lanciare in qua e là qualche fugace sguardo spaventato.

«Ma come fate a dire che l’assassino è qui? Non potrebbero essere stati dei briganti che hanno sorpreso Will… ehm, il signor Pasterron mentre stava lasciando il paese?». La ragazza dai capelli rossi, si era alzata e aveva preso a camminare nervosamente fra i tavoli. Indossava un abito sgargiante e ancora più scollato di quello della sera precedente, che attirava molti degli sguardi dei presenti. La chioma leonina si muoveva a scatti e i suoi occhi chiari vagavano sui visi della gente, apparentemente vedendo, però, cose ben più lontane. Cannon sorrise un po’ a forza, poi rispose alla donna.

«Se Pasterron fosse stato ucciso da un colpo di balestra, come la sua pantera, l’ipotesi dei briganti poteva avere un senso. Ma lui è stato pugnalato, signora. Dunque, l’assassino gli si è potuto avvicinare tanto da poterlo colpire. È chiaro che il signor Pasterron conosceva il suo assassino e riteneva di non doverlo temere».

Il giovane marito di Miriam prese la parola balzando in piedi su un tavolo. Tutti gli sguardi si fissarono su di lui che sorrise alla moglie, prima di rivolgersi al locandiere.

«E allora, perché ha liberato la pantera? Evidentemente l’ha fatto per scatenarla contro i suoi aggressori, nel tentativo di salvarsi. Fra l'altro whip aveva una balestra da mano nascosta sotto la cassetta del carro. E sapeva usarla bene. Dovevano essere in tanti, hanno ucciso la pantera, sono saltati sul carro e l’hanno ammazzato. E noi perdiamo tempo qui dentro».

Un’ondata di sollievo percorse la locanda. L’ipotesi era credibile. Doveva esserlo. Se gli assassini si fossero rivelati dei misteriosi briganti, la faccenda avrebbe preso tutto un altro aspetto, decisamente meno angosciante. La maggior parte dei presenti sperò fortemente che le cose fossero effettivamente andate così.

Deckard guardò lord Bailey che pareva perso dietro chissà quali pensieri e non sembrava granché interessato alla discussione che stava svolgendosi nella locanda. Il barbaro aveva molta fiducia nel giudizio del suo amico e aveva la netta impressione che non concordasse affatto con quella ricostruzione dei fatti. Provò a porre un’obiezione.

«Se le cose sono andate così, perché i briganti avrebbero sottratto il collare alla pantera?». Il suo amico aveva dato molta importanza a quel particolare, sicché provò a usarlo per vedere che effetto avrebbe fatto.

«Ebbene? Che cosa ci importa del collare, adesso? L’avranno preso come una sorta di trofeo… che cosa volete che cambi la presenza o l’assenza di un collare?». Era stato Faulkner a rispondere. Quel barbaro gli stava antipatico. Assurdo che un uomo di classe come lord Windström si fosse scelto una guida rozza e brutale come quell’individuo. «Che valore volete che abbia un collare di una bestia? Ovviamente nessuno!».

«Ovviamente, signor padre. A meno che quel collare non celasse qualcosa…». Miss Faulkner si era avvicinata al padre, mettendogli dolcemente una mano sulla spalla e spingendolo a sedersi. «… qualcosa di molto prezioso. Qualcosa per cui varrebbe la pena uccidere». I vivaci occhi della fanciulla girarono per la sala, incrociando tensione, confusione, paura.

«Ma che razza di stupidaggini dici, Lilian?». Cedric Faulkner non credeva alle sue orecchie. La sua dolce e obbediente figliola che si permetteva di mettere in dubbio la sua opinione? Una cosa mai vista alla quale si doveva immediatamente porre termine.

«Perché stupidaggini?». La giovane locandiera intervenne con la sua solita disinvoltura. «Avete la fortuna di avere una figlia capace di usare la testa e vorreste farla tacere? L’ipotesi di miss Faulkner regge quanto l’altra, se non di più». Monia sfoderò un sorriso seducente che fece arrossire violentemente messer Faulkner.

«D’altra parte, se la mia ipotesi ha un fondamento, lo si può verificare facilmente». Miss Faulkner, forte della nuova alleata, si rivolse agli astanti con fare un po’ teatrale. «Basta controllare i bagagli di ciascuno di noi. Nessuno di noi, immagino, viaggia con oggetti di gran valore che potevano essere nascosti nel collare di quella bestia. Se qualcuno ha qualcosa del genere, vuol dire che è l’assassino».

«Lilian! Sei impazzita? Io non ti permetto…». Messer Faulkner era diventato rosso come un tacchino, travolto da un misto di rabbia, indignazione e vergogna. Quella figliola aveva davvero perso il senno. E stavolta non sarebbe bastata una scollatura a farlo star zitto.

«Perché no?». Il giovane acrobata interruppe l’iracondo mercante. «Io sono d’accordo con miss Faulkner. Perché dobbiamo mantenere dei dubbi? Per quanto mi riguarda, la mia stanza è a disposizione». Jeff guardò la bionda damigella e le sorrise galantemente. Miss Faulkner rispose distrattamente al sorriso, con lo sguardo che corse subito altrove, cercando due occhi verdi che, però, parevano rivolti chissà dove.

«Anche la mia». Oliver Laurel sembrò lieto di accettare la proposta che avrebbe potuto fugare i dubbi e le paure che popolavano la sua mente. Il locandiere approvò subito la proposta, poi si rivolse al gentiluomo che pareva sonnecchiare davanti al camino.

«Milord?».

Lord Bailey si riscosse e si rizzò sulla sedia, volgendo lo sguardo sul locandiere e incrociando gli occhi trepidanti di miss Faulkner. Sorrise affabilmente.

«Eh? Ah, certo! Ovviamente, potete frugare anche nella mia stanza. Ed anche sulla mia persona. Credo che miss Faulkner abbia avuto un’ottima intuizione. Sei d’accordo, Deckard?».

Il barbaro guardò incuriosito il suo amico. Cosa stai macchinando? Ovviamente non ebbe obiezioni di sorta.

«Be’… sì, va bene».

Cannon sorrise soddisfatto. Poi si volse verso i due fratelli che stavano parlottando fra loro, in piedi, presso la porta della locanda.

«Bene, siamo tutti d’accordo. Anche Ross e Vernon, ci permetteranno di frugare in casa loro, ovviamente».

«Cosa?». Ross sgranò gli occhi. Vernon rimase a bocca aperta.

«Mi pare ovvio,» rispose Cannon, «siete anche voi parte in causa. Non siamo ancora certi che non siate stati voi a uccidere il signor Pasterron». L’imponente figura del locandiere torreggiò sui due fratelli che parvero rimpicciolire nella grande sala da pranzo.

«Ehm, va… bene». Ross aveva la bocca inspiegabilmente asciutta. «Non… non ci sono problemi… potete perquisire anche casa nostra».

Cannon lanciò un’occhiata sospettosa ai due fratelli che avevano assunto un’espressione torva e guardinga, poi si rivolse agli avventori della locanda.

«Bene, signori, ora non resta che perquisire le camere. Ovviamente, non possiamo farlo tutti e sarebbe opportuno che non lo facesse uno solo. C’è qualche volontario? Uno sarò io, chi mi accompagna?».

Un silenzio imbarazzato accolse il suo invito. Poi, in una babele di voci, si offrirono tutti, fuorché lord Bailey che continuava a sedere nei pressi del camino con lo sguardo perso fra le fiamme.

«Signori, per favore, non possiamo entrare tutti nelle camere. Milord, volete accompagnarmi voi?».

«Eh? Oh, no, signor Cannon, non mi sembra il caso. Suggerirei, piuttosto, che vi faceste accompagnare da miss Faulkner che mi sembra dotata di un notevole spirito d’osservazione, e dall’ospite della camera in questione. Così eviterete proteste e assembramenti. Che ne dite?».

L’idea venne approvata volentieri. Miss Faulkner fu decisamente orgogliosa della responsabilità e dalla fiducia accordatele dal gentiluomo, sicché gli rivolse un sorriso di gratitudine che fu ricambiato da un allegro ammiccamento.

Pochi minuti dopo, il piccolo comitato si avviò sulle scale per scomparire nel buio corridoio che conduceva alle camere, seguito, alla spicciolata da quasi tutti. Rimasero nella sala solo messer Faulkner e il giovane lord. Dopo qualche istante, il mercante ruppe il silenzio.

«Non capisco cosa sia saltato in testa a mia figlia, sapete? Mi ha messo in grave imbarazzo, eppure ho fatto di tutto perché ricevesse una buona educazione».

Il giovane guardò pensieroso il mercante.

«Infatti, è una ragazza ammirevole. Dovete esserne orgoglioso, sapete? Ha cultura, intelligenza, molto buon senso e spirito di osservazione».

Il mercante sembrò infastidito da quelle parole. Intanto, dalla cucina giunsero rumori di pentole. Evidentemente, la giovane cameriera non riusciva a restare inoperosa.

«Una donna deve essere prima di tutto ubbidiente! Il suo posto è la casa e la cucina! Che se ne fa della cultura o dell’intelligenza? Temo che sarà davvero difficile trovarle marito».

Il lord sorrise, alzandosi in piedi e allontanandosi dal camino. Avrebbe avuto tante cose da dire a quell'individuo ottuso ma si rese conto che sarebbe stato inutile. E c'erano cose più importanti da fare.

«Molto dipenderà da voi, messere». I suoi occhi si fissarono in quelli del mercante, che tentarono immediatamente di volgersi altrove.

«Come? Cosa avrei potuto fare di più?».

«Quel che avete fatto finora va bene, direi. Ora dovrete solo darle fiducia. In quella testolina c’è qualcosa che funziona bene e, se la lascerete fare, vedrete che vi darà molte soddisfazioni».

Il mercante trasecolò.

«Non vorrete dire che… dovrei lasciar scegliere a lei, vero? Una ragazza di quell’età non ha la più pallida idea di come scegliere un marito! Hanno la testa piena di stupide idee sull’amore. Che c’entra il matrimonio con l’amore?».

Il nobiluomo scoppiò a ridere.

«Non saprei proprio dire, messer Faulkner. Non sono mai stato sposato».

Sorrise ancora all’indirizzo del mercante e si diresse verso la porta del locale. Prese il mantello e spalancò la porta. Fuori nevicava ancora.

«Uscite, milord? Con questo tempo?».

«Il vento pare essersi calmato. Vorrei solo fare due passi all’aria fresca. Qui c’è odore di chiuso».

Il mercante si avvicinò alla porta spalancata, poi rabbrividì e guardò il giovane che si allontanava con passo lento verso la piccola piazza del paese. Rabbrividì ancora e chiuse la porta per precipitarsi vicino al fuoco. Questi ragazzi! Pieni di idee assurde. Anche i nobili cominciano a farsi conquistare da queste stupidaggini. Che mestiere difficile quello di genitore! Rifletté il mercante. Sospirò mentre si accomodava sulla sedia più vicina al fuoco. Quella figliola gli avrebbe dato un sacco di grattacapi se si fosse ostinata a usare tanto la testa.

Dopo una decina di minuti trascorsi fra queste riflessioni, messer Faulkner sentì la porta della locanda aprirsi, mentre entravano un sacco di freddo e lord Bailey.

«Non si resiste, messer Faulkner! Fa davvero troppo freddo». La voce allegra del gentiluomo si avvicinò e il mercante se lo vide spuntare accanto che si stropicciava le mani davanti al fuoco.

«Il vento si sarà anche calmato, milord, ma la neve basta a far raggelare». Messer Faulkner sfoggiò con orgoglio la sua saggezza di fronte alla gioventù scapestrata.

«E avanza, anche!». Rise il giovane aristocratico. «Sarà aria viziata ma almeno è calda. Dubito assai che ritenterò un’impresa simile finché non cessa di nevicare. Ho rischiato la pelle là fuori».

Il borghese e il gentiluomo erano ancora in conversazione, quando l’anziano capo della compagnia ambulante scese dalle scale.

«Messer Faulkner, tocca alla vostra stanza. Desiderate esserci?».

Il mercante balzò vivacemente in piedi.

«Potete scommetterci, mastro Laurel. Anche perché mia figlia pare aver perso il senno ed è bene che qualcuno con la testa sulle spalle si curi che tutto resti in perfetto ordine».

Messer Faulkner corse su per le scale brontolando ancora contro le sciocchezze che infestano i cervelli dei giovani, seguito dagli sguardi divertiti di lord Bailey e dell’anziano attore. Laurel si grattò i radi capelli grigi.

«Dovrebbe essere contento. Ha una figlia in gamba».

«Sono le stesse cose che gli ho detto io. Ma temo sia troppo pieno di preconcetti per capirlo. Speriamo che non debba avere rimpianti, il giorno che lo capirà». Lord Bailey tornò a sedersi sulla seggiola vicino al fuoco e invitò l'anziano istrione a fare altrettanto.

«Milord, avete idea del perché abbiano ammazzato whip?».

«Possiamo fare tante ipotesi, mastro Laurel. Il signor Pasterron non godeva di grande popolarità, mi sembra. E non possiamo neppure escludere l’ipotesi che siano stati dei banditi».

Laurel non parve molto convinto.

«Ma quando mai dei banditi escono con un simile tempo? Per avvicinarsi tanto a un villaggio, poi. A meno di non tentare di assalirlo ma allora sarebbero già qui». Un brivido scosse l'anziano attore che si avvicinò di più al fuoco.

«Lo so. Ma non possiamo escluderlo del tutto. Come non possiamo escludere che miss Faulkner abbia ragione. Oppure, potreste aver avuto ragione voi, accusando quei due attaccabrighe».

L'aristocratico si voltò verso il suo interlocutore, fissando i suoi occhi in quelli dell'uomo anziano che parve stranamente a disagio. Laurel grattò nuovamente i suoi pochi capelli grigi, poi scosse il capo.

«Non so che pensare. Lì per lì mi sembrava plausibile ma ora ci credo poco. Sono due teste calde ma un omicidio è una cosa grossa». Sembrava sinceramente perplesso. Il giovane lord tornò a fissare il camino. La sua voce suonò lontana. Un gran gelo gli correva lungo la schiena.

«Avete ragione. Ma, talvolta, le cose sfuggono alla volontà degli uomini e diventano più grosse di quanto vorremmo».

«Ma voi, cosa credete davvero, milord?». La domanda scaturì impetuosamente, come se non riuscisse più a trattenerla. Negli occhi dell'anziano attore c'era apprensione. Per la risposta che avrebbe ricevuto o per cos'altro? Il nobiluomo non avrebbe saputo dirlo. Esitò un attimo, prima di rispondere. Un ciocco si spezzò, nel camino, riempiendo l'aria di scintille. Una vampa di calore nel gelo.

«Io? Io credo che il vostro domatore sia stato tradito, mastro Laurel. Da qualcuno di cui si fidava ciecamente. Sarà una grave perdita per la vostra compagnia, temo».

Lord Windström fissò nuovamente gli occhi dell'attore. C'era tristezza. E, forse, l'ombra di una lacrima.

«Solo per certi aspetti. William era aitante e affascinante e la gente lo adorava mentre si esibiva con la pantera. Ma il vero domatore è Jorg. Lui sa trattare le bestie senza violenza e riesce a convincerle a fare praticamente qualsiasi cosa. Il lavoro lo faceva Jorg e whip si prendeva gli onori. Ma allo gnomo va… ehm, andava bene così. Non si è mai lamentato, nonostante whip talvolta esagerasse».

Il giovane gentiluomo ascoltò quelle parole con enorme interesse, osservando attentamente il suo interlocutore. I suoi occhi non persero un solo movimento delle labbra dell'anziano attore. Rimase un attimo in silenzio, prima di commentare.

«Questa cosa è molto interessante, mastro Laurel. E spiega molte cose. Jorg non si è davvero mai ribellato o lamentato?».

«Mai con me, almeno. Spero non sospettiate di lui. Vi assicuro che è incapace di far del male a una mosca».

Lord Bailey rimase in silenzio, con lo sguardo perso fra le fiamme del camino. Poi si riscosse e sorrise all’anziano attore.

«A volte, anche un buono perde la pazienza. A volte, le cose vanno oltre quello che ci aspettiamo. E, a volte, i buoni sono capaci di fare cose terribili quando diventano cattivi. Non possiamo escludere nulla, mastro Laurel, ma abbiate fiducia. Credo che verremo a capo di questa faccenda».

Lacrime rigavano le guance dell'anziano attore e il capo canuto era chino sul petto, scosso da silenziosi singulti. Il gentiluomo immaginò che Laurel avesse impiegato anni a costruire la sua compagnia, anni di sacrifici e umiliazioni. Negli ultimi tempi, finalmente, le cose dovevano essere andate per il verso giusto. Gli spettacoli avevano successo e il denaro era sufficiente a garantire a tutti una vita dignitosa e serena. Almeno, fino a poche ore prima. Ora tutto era finito. Tutto doveva ricominciare. Ma lui, forse, non aveva più la forza di ripartire. Monia comparve sulle scale per avvisare il nobiluomo che toccava alla sua stanza. Rimase perplessa nel notare lo sguardo sorpreso del giovane, quasi avesse visto un fantasma.

«Milord?».

«Monia! Ma siete stata su... finora?». Uno sguardo allarmato di lord Bailey si spostò dalla cameriera alla porta della cucina.

«Ma certo... non capisco... perché siete così sorpreso?». La ragazza rimase allibita, vedendo il giovane correre verso la porticina dietro il bancone. Chiaramente, c'era qualcosa che non andava, sicché gli corse dietro. Quando entrò nella stanza, trovò il nobiluomo davanti alla finestra semiaperta, che guardava qualcosa fuori.

«Milord, che succede? Perché avete aperto la finestra?».

Il giovane gentiluomo si voltò verso di lei, scuro in volto.

«Era già aperta, Monia. C'era qualcuno, prima. Qualcuno che ha ritenuto più prudente uscire da questa parte».

La ragazza spalancò i suoi grandi occhi. Poi corse accanto al giovane per guardare fuori. Orme indistinte si allontanavano dalla finestra, già quasi completamente cancellate dalla neve che continuava a fioccare abbondante.

«Ma chi può essere stato?». Monia trovava assurda quella fuga in mezzo alla tormenta. Nessuno sarebbe sopravvissuto a lungo con quel tempo.

«Manca qualcuno?».

«No... almeno... in quella confusione... può darsi, milord. Ripensandoci, non posso escluderlo». Erano tutti pigiati nel corridoio. Qualcuno nelle camere. Qualcuno era sceso e qualcun altro era salito. Come avrebbe potuto dirlo?

«Forse è meglio farli scendere tutti nella sala della locanda. Anche se...». Lord Bailey aveva di nuovo un'espressione assorta.

«Cosa?».

«No, nulla. Andate, Monia. Ritroviamoci tutti intorno al camino. E portate uno specchio».

La ragazza corse sulle scale, troppo curiosa di assistere agli sviluppi di quella faccenda per chiedersi che diavolo ci volesse fare il gentiluomo con uno specchio. Erano tutti nel corridoio e Monia piombò in mezzo agli ospiti come un tornado.

Il fuoco del camino scoppiettava vivacemente, proiettando lunghe ombre nella grande sala della locanda, arrossando i visi delle persone radunate lì attorno. Scuro in volto, l'imponente locandiere guardava quelle facce, cercando invano un'emozione, un indizio, qualsiasi cosa lo potesse condurre a capire chi fra quelli potesse essere l'assassino. C'erano sconcerto e paura, indignazione e rabbia ma nulla che gli permettesse di scoprire la verità.

«Allora. Chi di voi è uscito dalla finestra della cucina?». Silenzio.

«Permettete, signor Cannon?». Il giovane aristocratico si alzò dalla seggiola per porsi di fianco al locandiere.

«Certamente, milord».

Lord Bailey guardò i visi intenti delle persone radunate intorno al camino. Sollevò la mano sinistra, che impugnava un piccolo specchio di bronzo. Sorrise.

«Miei cari signori, è indubbio che, poco fa, qualcuno di voi è uscito di soppiatto dalla cucina. Dal momento che ci siamo tutti, è inevitabile che questi sia anche rientrato, da qualche altra finestra. Ovviamente, possiamo escludere che qualcuno sia entrato e poi uscito dalla cucina perché c'era solo una serie di impronte, che si allontanavano dalla locanda».

Il grasso capocomico si agitò sulla seggiola che scricchiolò pericolosamente sotto il suo peso.

«Ma se è rientrato, perché è uscito? Intendo dire, evidentemente non pensava di scappare. E allora, che motivo poteva avere per uscire con questo tempo?».

«Ce lo faremo dire da lui, mastro Laurel».

Miss Faulkner spalancò gli occhi, guardando stupita il giovane.

«E come?».

«Semplice, signorina Faulkner. Avvicinerò questo specchio a tutti i presenti. Chi è uscito deve avere ancora le vesti umide, quantomeno le calzature. Lo specchio si appannerà e ci dirà chi è stato». La voce di Lord Bailey era diventata decisa e dura. Ora faceva pesare come il comando delle operazioni fosse passato completamente in mano sua. I suoi occhi non sorridevano più, mentre sollevava lo specchio davanti a sé, avvicinandosi alle persone sedute accanto al fuoco, guardando i loro volti smarriti, i loro occhi spalancati. Solo il piccolo Jorg sostenne sorridendo il suo sguardo, forse il primo sorriso di quella giornata, per lui.

Improvvisamente, Ross e Vernon cominciarono a correre verso la porta.

Deckard si lanciò sulle loro tracce ma si rese subito conto che non sarebbe stato capace di annullare lo svantaggio prima che quei due riuscissero a uscire. Fu il giovane acrobata a scattare accanto a lui e balzare sui due fuggiaschi, rallentandone la fuga. Una breve zuffa e due formidabili pugni del barbaro chiusero definitivamente l'inseguimento.

«Complimenti, ragazzo, bello scatto». Deckard sorrise al giovane Jeff.

«Grazie. Non so come avrei potuto fermarli, senza il vostro aiuto, però». Un pugno di uno dei due fratelli lo aveva colto al viso e il suo labbro inferiore sanguinava abbondantemente. La moglie accorse accanto a lui, pallidissima, cercando di detergergli il sangue.

«Come stai, Jeff? Sei stato davvero coraggioso, amore».

«Non è nulla, Miriam. L'importante è averli presi». Il sorriso del giovane parve rassicurare la rossa ballerina che riprese subito colore e abbracciò entusiasticamente il marito. Gli altri si erano fatti intorno a loro e il locandiere stava legando i due fratelli con delle corde robuste. Gli stivali di Ross erano evidentemente bagnati e così i calzoni, fino alle ginocchia. I due fratelli erano stati storditi dai micidiali pugni di Deckard e appariva probabile che sarebbe occorso diverso tempo, prima che si riprendessero del tutto.

Vicino al camino, lord Bailey osservava pensieroso la scena, mentre, a sua volta, era osservato dai grandi occhi di miss Faulkner. Si dovette accorgere dello sguardo della ragazza perché si riscosse e le rivolse uno dei suoi affascinanti sorrisi.

«Siete stato formidabile, milord».

«Davvero?». Il gentiluomo ridacchiava.

«Avete condotto il colpevole, anzi i colpevoli, a tradirsi. Certo, non avrei mai pensato al trucco dello specchio». La fanciulla pareva un po' dispiaciuta di non aver avuto lei quell'idea.

«Avreste fatto bene». Lord Bailey ora rise apertamente.

«In che senso?». Miss Faulkner assunse un'aria sospettosa.

«Non avrebbe funzionato mai. Si sarebbe appannato davanti a chiunque. Però era una cosa verosimile e l'hanno bevuta».

I grandi occhi della fanciulla si spalancarono pieni di stupore. Poi, lentamente, comparve il riso. Prima sul fondo delle pupille, per poi espandersi a tutto il suo viso affilato e intelligente. Rise di gusto, a lungo, ignorando gli sguardi di disapprovazione di suo padre, mentre il giovane lord parlava sottovoce col barbaro. Avrebbe continuato a lungo se un improvviso trambusto e alcune voci concitate non l'avessero richiamata bruscamente alla realtà.

«Smettetela!». Era Monia. La ragazza aveva la voce rotta di pianto.

«Sono stati loro! Che aspettiamo?». Questo era il giovane acrobata.

«Ma sì! Che aspettiamo? Prendete una corda!». Eccolo. Lilian sospirò, riconoscendo la voce di suo padre.

«Ma che siete impazziti?». Finalmente, la voce autoritaria di Laurel riuscì a sovrastare le urla degli altri. «Li volete ammazzare così? Dobbiamo consegnarli alle guardie».

«Hanno ammazzato whip! Questi due bastardi devono morire! Impicchiamoli ora!». La rossa intervenne con voce resa stridula dall'odio. Pareva che dovesse scoppiare a piangere da un momento all'altro, presa da una furia incontenibile e una profonda disperazione. Laurel si parò di fronte ai due fratelli che erano coperti di sangue e lividi, entrambi esanimi dopo i colpi ricevuti dalla coppia inferocita e da Faulkner.

«Li state ammazzando di botte! Ma siete diventati delle bestie?».

Cannon si mise a fianco del capocomico. La sua statura imponente e il nodoso bastone che teneva fra le mani furono sufficienti a far calmare gli animi più esagitati.

«Adesso finitela. Questi due li prendo in consegna io. Staranno rinchiusi in cantina fino all'arrivo delle guardie. In ogni caso, non sono più in grado a rispondere a qualsiasi domanda e, se volete linciarli, farete i conti con me».

«Ed anche con me, signor Cannon». Miss Faulkner, fieramente eretta, con la chioma aurea che le circondava il volto corrucciato si schierò accanto al locandiere. «E voi, signor padre, ricordatevi chi siete e non date altri spettacoli indecorosi di fronte a me».

Cedric Faulkner impallidì visibilmente. Si era reso conto di cosa stava facendo e che quella figlia ribelle stava dimostrando assai più buon senso di lui. In altri momenti l'avrebbe forse rimproverata ma le sue vesti erano macchiate del sangue dei due sventurati sui quali aveva infierito e non seppe far altro che arrossire e lasciarsi cadere su una sedia, col volto fra le mani.

Deckard, che era evidentemente uscito fuori dalla locanda dopo aver catturato i due fratelli, rientrò nella sala. Si tolse il mantello e fece per raggiungere il suo amico, quando vide Cannon che stava portando in cantina Ross ancora esanime e col volto tumefatto.

«La tormenta è cessata. Presto la strada tornerà transitabile. Ehi, che cosa è successo?». Guardò Vernon e sbarrò gli occhi. «Ma io li ho colpiti con solo due pugni... come hanno fatto a ridursi così?».

La cena, quella sera, fu particolarmente silenziosa. Non c'era sollievo nella piccola comunità assediata dalla neve. Neppure il sapere che l'indomani sarebbe stato possibile ripartire pareva alleviare il senso d'oppressione che si respirava nella sala. I tavoli erano silenziosi e spogli. Pochi parevano aver voglia di mangiare. Meno ancora di parlare.

Monia guardò con apprensione la porta della cantina. Aveva avuto cura di portare uno scaldino ai due prigionieri che erano ancora privi di sensi, quando lei era scesa giù, accompagnata dalla rassicurante scorta del robusto barbaro. Non riusciva a togliersi dalla testa i loro volti tumefatti. E i visi sconvolti dall'ira delle persone che avevano tentato di linciarli. Anche suo padre, sulle prime, era stato tentato di partecipare al tentativo di fare giustizia sommaria ma era bastato un solo sguardo alla sua adorata figliola per farlo schierare dalla parte opposta. Stanley Cannon era un uomo facile all'ira ma dal cuore buono e profondamente onesto.

Solo miss Faulkner pareva aver conservato la sua loquacità. Stava tempestando il nobiluomo di domande e ipotesi, alle quali giungevano risposte cortesemente evasive che, però, non la facevano demordere. Monia sorrise. Aveva simpatia per quella vitalissima ragazza. Lei stessa si reputava, a ragione, intelligente ma quella fanciulla aveva un acume che Monia trovava impressionante. Inoltre, pur essendo una giovane di buona famiglia, era assolutamente priva della spocchia che, invece, il padre non mancava mai di esibire. La cameriera pensò che sarebbe stato bello avere quella ragazza per amica.

La porta della locanda si aprì e Stanley Cannon rientrò nel locale. Pareva assai pensieroso. Si diresse a grandi passi verso il tavolo dei Faulkner e di lord Bailey e sussurrò qualche parola all'orecchio del giovane gentiluomo. Questi si alzò dal tavolo, scusandosi con i suoi commensali, e seguì il locandiere in cucina. Monia non seppe resistere. Acchiappò un vassoio vuoto e si diresse verso la porta dietro il bancone.

«...immaginavo qualcosa del genere, signor Cannon».

«Ma, allora? Cosa facciamo?».

«Temo che dovremo... oh, signorina Monia, che piacere! Siete sempre splendida!».

La ragazza era convinta di non aver fatto il minimo rumore, sicché sorrise, troppo sorpresa per replicare convenientemente, e raccolse qualcosa dal bancone per metterla sul vassoio e dirigersi poi verso la sala, con la netta sensazione di non averci capito nulla. Cosa stavano complottando quei due? Uscì dalla sala con passo svelto, decisamente seccata per non essere riuscita a scoprire di più. Però aveva visto qualcosa. Suo padre aveva in mano un pugnale e lo stava mostrando al giovane lord. Un sottile stiletto dal manico d'avorio. Un oggetto di un certo valore, certamente. Ma cosa c'entrava con quella storia? C'era solo una cosa da fare: parlarne con la signorina Faulkner. Quella ragazza aveva un cervello di prim'ordine e, forse, avrebbe saputo interpretare meglio di lei quel che stava accadendo.

Lilian Faulkner, non vedendo tornare lord Windström, teneva d'occhio la porta della cucina, chiedendosi cosa mai avesse da discutere col locandiere, quando vide la cameriera uscire dalla stanza con aria perplessa. Come si accorse che gli occhi di Monia la stavano cercando, la giovane si alzò con una scusa dal tavolo e si recò sulle scale, sempre tenendo lo sguardo incollato sulla bella locandiera. Monia si rese conto della manovra e sorrise. La piccola Faulkner aveva il cervello sempre pronto. La seguì sulle scale, trovandola in attesa, nel corridoio.

«Monia, volevate dirmi qualcosa?». La cameriera non si fece pregare e riferì tutto quel che aveva visto e il poco che aveva udito. La ragazza bionda l'ascoltava col massimo interesse, interrompendola, di tanto in tanto, con qualche domanda. Alla fine, rimase silenziosa, assorta nelle sue riflessioni.

«Lord Windström è veramente un uomo in gamba. Ha capito tutto. Ma ora, credo di avere capito tutto anch'io». Ammiccò alla cameriera, con aria complice. «Perché non smascheriamo noi gli assassini?».

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Capitolo 4: Epilogo

La mesta serata volgeva al termine. L’odore delle vivande era ormai svanito da tempo, sostituito da quello acre del fuoco che continuava a scoppiettare allegramente, quasi irreale nell’atmosfera greve che permeava la sala della locanda. Le voci degli ospiti erano sommesse e la conversazione languiva nel disagio.

La figuretta affilata di Lilian Faulkner discese le scale lentamente, osservando la stanza con un curioso misto di apprensione ed eccitazione, con i grandi occhi che brillavano e le labbra sottili strette in un teso sorriso.

Monia la seguiva, decisamente a disagio, cercando di evitare gli sguardi degli ospiti mentre si muoveva agilmente fra i tavoli, diretta in cucina. Notò che il giovane lord era nuovamente seduto al tavolo, sicché suo padre avrebbe dovuto trovarsi dietro il bancone. Dal momento che non c’era, era verosimile che fosse affaccendato in cucina.

Quando la cameriera scomparve dietro la porta, Lilian si avvicinò al tavolo cercando di assumere l’aria più innocente del mondo.

«Lord Windström, avete chiarito tutto, vero?».

Il giovane la guardò con aria perplessa. Nei suoi occhi espressivi c'era, però, una luce divertita.

«A proposito di cosa, signorina?».

«Ma dell’omicidio! Voi sapete benissimo che quei due non hanno fatto altro che impadronirsi di un oggetto che ritenevano di valore».

«Davvero?». Adesso il giovane lord stava ascoltando con estrema attenzione e i suoi occhi erano fissi su miss Faulkner, intenti a studiarne ogni minimo particolare. Quello sguardo indagatore e vagamente preoccupato mise un certo disagio addosso alla ragazza.

«Ma certo». Monia uscì dalla cucina, lanciandole uno sguardo ammiccante. La giovane sorrise e proseguì a voce più alta, in modo che tutti potessero udire. «Noi sappiamo che il signor Pasterron è stato assassinato con un pugnale. Un pugnale dalla lama sottile e il manico d’avorio».

Molti volti, dai tavoli vicini, si rivolsero verso la ragazza. Il sorriso della biondissima miss Faulkner si allargò, nel veder sbucare il locandiere fuori dalla porta della cucina.

«Quel pugnale, è stato trovato. Non così le due balestre che hanno ucciso la pantera. Ma perché è stata ammazzata la pantera? Chiaramente, il signor Pasterron doveva averla liberata per difendersi da qualcuno che lo aveva aggredito».

«Lilian, ma sei impazzita? Stai dando spettacolo! È chiaro che quei due hanno aggredito il domatore e lui ha liberato la pantera». Il signor Faulkner era pallido d’indignazione.

«Signor padre, avreste ragione se il signor Pasterron fosse stato ucciso a colpi di balestra. Ma il domatore è stato pugnalato. Da qualcuno che sedeva a cassetta con lui». La fanciulla fece una pausa. Nella sala regnava il più profondo silenzio. I suoi grandi occhi esplorarono i volti intenti degli ascoltatori, poi riprese.

«Se gli aggressori fossero stati i due fratelli, inoltre, difficilmente avrebbero sottratto il collare alla pantera, dal momento che ne ignoravano il valore».

Messer Faulkner si agitò sulla sedia.

«Ancora questa storia? Che valore poteva avere il collare?».

«Nel collare era nascosto un gioiello. Quasi certamente il collare di fuoco, rubato a Elosbrand il giorno prima della partenza della compagnia della quale faceva parte il signor Pasterron».

«Ma non era stato Blackwind?». Il mercante era allibito.

«A questo punto penso di no. Evidentemente il nostro domatore aveva anche altri talenti inespressi».

«Ma allora avremmo dovuto trovare il gioiello in una delle stanze, invece non è stato trovato nulla». Quella figlia lo avrebbe portato alla pazzia. Messer Faulkner temette di svenire.

«Perché il gioiello era stato nascosto fuori di qui. In un posto dove difficilmente qualcuno lo sarebbe andato a cercare».

Il volto di lord Bailey si distese in un sorriso. I suoi occhi non si staccavano dalla ragazza. Miss Faulkner se ne accorse e ricambiò il sorriso. Evidentemente, il nobiluomo concordava con la sua ricostruzione.

«Ma questo è un problema di cui parleremo dopo. Volete darmi quel pugnale, Monia?». La locandiera si avvicinò alla ragazza e le porse un piccolo involto dal quale la ragazza estrasse un sottile stiletto.

«Questo, come vedete, è un oggetto molto particolare. Certamente di un discreto valore venale. Sufficiente ad attirare la curiosità e l’avidità di un taglialegna privo di fantasia, che l’ha trovato sulla neve, dopo aver visto il cadavere della pantera».

«Cosa?». Laurel guardò con aria sorpresa la ragazza.

«Signor Cannon, dove avete trovato questo stiletto?».

«Nella casa di Ross e Vernon, nascosto in una catasta di legna. Lord Windström mi aveva chiesto di cercare qualcosa del genere e, conoscendo quei due, non è stato difficile immaginare dov’era». Il locandiere sorrise alla figlia. Aveva avuto ragione a fidarsi di lei.

«Ecco perché uno di loro era uscito di soppiatto: per nascondere il pugnale che avevano trovato e che avrebbe potuto metterli in una posizione difficile. Posizione nella quale, però, si sono trovati lo stesso».

Ora Lilian si era alzata, consapevole che tutti gli sguardi erano fissi su di lei. Non sembrava trovarsi troppo a suo agio, in quella situazione, però si fece forza e continuò.

«Il signor Pasterron aveva un sistema per aprire la gabbia dalla cassetta del carrozzone, signor Jorgelin?».

Lo gnomo esitò, guardandosi nervosamente intorno. Poi annuì.

«C’era un pedale. Serviva in caso di incontri con malintenzionati». Guardò di sottecchi i suoi compagni, poi, lentamente, cominciò ad allontanarsi dal tavolo. La ragazza si rivolse nuovamente agli altri.

«E così fu questa mattina. Il signor Pasterron stava partendo col carrozzone quando fu fermato da qualcuno che lo minacciava. Accanto a lui era seduto qualcun altro».

Si avvicinò al tavolo degli artisti. Un'espressione decisa era comparsa sul suo volto. Non sorrideva più.

«Volete riconoscere il vostro pugnale, miss Miriam?».

«COSA?». La ballerina balzò in piedi, pallidissima. Il marito l'abbracciò, come per confortarla.

«Avete finto una tresca col signor Pasterron, in modo da attirarlo in una trappola. Avete finto di accettare di fuggire con lui ma avete organizzato l’agguato con vostro marito. Basterà controllare sul vostro carrozzone per trovare certamente le balestre. Quando il signor Pasterron si è reso conto dell’agguato, ha liberato la pantera. Ma voi l’avete pugnalato. E avete usato la sua balestra da mano per colpire la pantera e aiutare vostro marito».

«Ma questo è assurdo!». Il giovane acrobata balzò in piedi col viso distorto dall'ira. Lo gnomo si era lentamente portato verso il fondo della stanza, lontano dal tavolo.

«Non tanto, signor Barthington. Voi avete fatto il viaggio con il domatore, lo conoscevate bene e non lo sopportavate più. Solo voi potevate scoprire il suo furto e, allora, avete deciso di vendicarvi di lui… Oh, santi numi!».

Jeff Barthington aveva sguainato il pugnale e lo teneva minacciosamente puntato sul collo di Laurel che era impallidito vistosamente. Deckard si alzò in piedi. Cannon afferrò un bastone.

«Non provate ad avvicinarvi, o il ciccione crepa! Miriam, vai a prendere le nostre cose. Ce ne andiamo!». La ballerina prese un mantello e uscì fuori dalla locanda.

«Jeff… come puoi farmi questo?». La voce lamentosa di Laurel suonò flebile da dietro la lama del pugnale.

«Spiacente, Ollie. O il tuo collo o il mio. State lontani!».

Deckard guardò il suo amico che era rimasto seduto, con gli occhi puntati su Laurel. C’era un’espressione avvilita in quello sguardo. Il barbaro rimase perplesso. Difficilmente il giovane gentiluomo si faceva trovare impreparato ma, stavolta, sembrava decisamente che non avesse intenzione di reagire.

«Barthington, se lo tocchi sei un uomo morto».

«Barbaro, se ti avvicini, LUI è un uomo morto. Io non ho nulla da perdere. Lo capisci?».

Deckard tacque, guardandolo cupamente. L’acrobata sarebbe finito certamente impiccato se fosse stato catturato. Era evidente che un morto in più non avrebbe cambiato il suo destino. Laurel era davvero in pericolo. Guardò lord Bailey. Era sempre immobile, come una statua di cera, gli occhi che vagavano per la stanza, come in cerca di qualcosa, ma che si fermavano spesso sui due che, camminando all'indietro, stavano avvicinandosi alla porta.

«Signor Barthington, siete un vile!». La bionda signorina Faulkner era pallidissima e la sua voce era diventata glaciale.

«Signorina Faulkner, siete una stupida. Avete fatto questa bella sceneggiata dandomi il tempo di prendere le mie contromisure. Avete capito quasi tutto. Ma avete sottovalutato i vostri avversari».

«Jeff, possiamo andare». La chioma rossa balenò dietro la porta. Il giovane acrobata sorrise.

«Ora usciremo. E chiuderemo la porta. Se provate a seguirci. Ollie è morto. Non voglio vedere aprire la porta della locanda finché il villaggio sarà in vista». Sempre parlando, il giovane acrobata indietreggiò fino a varcare la soglia della locanda.

«Addio, signori!». La porta si chiuse sui volti lividi e corrucciati. Una risata echeggiò nell’oscurità della notte. Solo il fuoco continuava a farsi sentire, senza però riuscire a scacciare il gelo dalla sala.

«Cosa facciamo?». La voce di Cannon ruppe il silenzio.

«Temo che non si possa fare nulla, signor Cannon. Sono stata una stupida e ho lasciato loro una possibilità di beffarci». Le parole della ragazza uscirono lentamente, flebili e cariche di pianto.

«Non esagerate signorina. Siete stata davvero molto acuta, invece. Non c’è nulla di male in quel che avete fatto». Il giovane aristocratico si alzò e si avvicinò alla ragazza bionda.

«Milord, così sono scappati». Una lacrima si affacciò sugli occhi della giovane.

«Ebbene? Non ci sono stati altri morti, e non è poco, in questa situazione. Avvertiremo le guardie che daranno loro la caccia. Non andranno lontano». Le sorrideva con quegli occhi affascinanti. Miss Faulkner distolse lo sguardo.

«Avrei voluto essere io a catturarli». Sulle labbra serrate, però, era comparsa l’ombra di un sorriso.

«Li avete smascherati. Non è poco. Complimenti, signorina Faulkner. Non so quanti sceriffi avrebbero saputo fare di meglio». Il giovane si spostò per far posto al padre della ragazza che si era accostato con gli occhi lucidi.

«Sei stata... fenomenale, figlia mia. Scusa questo vecchio caprone che non si fidava di te». Messer Faulkner pose una mano sulla spalla della figlia e l'attirò verso di sé per abbracciarla.

«Oh, padre... sono felice di non avervi deluso». Miss Faulkner era decisamente commossa.

«Deluso? Sono orgoglioso di te, figlia mia!».

Lord Windström si allontanò silenziosamente dalla coppia abbracciata, fece un cenno di saluto al locandiere e uscì fuori, seguito da un Deckard semplicemente fuori di sé. La notte aveva inghiottito il carrozzone degli artisti, del quale non si udiva più neppure il rumore delle pesanti ruote. Il giovane aristocratico sorrise tristemente e alzò le spalle, voltandosi verso la piazza del paesello. Giunse a passi lenti accanto al pozzo e si sedette sul bordo di questo, in un punto dove qualcuno aveva rimosso la neve. Guardò l'amico, senza parlare.

Deckard si aggirava nella piazza come un leone in gabbia. Avrebbe voluto lanciarsi all’inseguimento dei fuggitivi ma le condizioni della pista erano ancora troppo brutte. I rischi di azzoppare un cavallo o finire in una scarpata erano ancora troppi. Vide il suo amico seduto sul bordo del pozzo e la sua espressione malinconica lo fece sbottare.

«Maledizione! Farsi giocare così fa veramente rabbia. Se non avessero avuto un ostaggio li avrei rincorsi. Che ne sarà di quel poveraccio?».

Il giovane lord alzò gli occhi verso di lui e sorrise senza allegria. Il suo sguardo tornò a scrutare nel vuoto, nella direzione presa dal carro dei fuggitivi.

«Immagino che starà facendosi grasse risate alle nostre spalle».

«COSA?». Il barbaro spalancò gli occhi e li fissò sul suo giovane amico. Si rese immediatamente conto che non stava scherzando.

«Laurel era il capo del gruppo, Deckard. Lui ha organizzato tutto. Compreso lo stratagemma che ha permesso loro di scappare. Dobbiamo riconoscere che è veramente un bravissimo attore».

«Tu lo sapevi». Era una constatazione.

«Naturalmente. L’ho capito quando ho compreso il significato della scomparsa del collare». Un lampo di vanità comparve negli occhi del giovane, subito cancellato da un'ondata di tristezza.

«Mi stai prendendo in giro?».

«Niente affatto. Era evidente che Laurel era sempre stato il capo riconosciuto di quel gruppetto di lestofanti. Pasterron ha pagato con la vita forse anche l'aver messo in discussione la sua autorità, anche se non credo che Laurel avesse voluto la sua morte. Aveva deciso di andarsene per conto proprio. Ma, probabilmente, quella era stata solo l'ultima di numerose ribellioni».

«Ma come hai fatto a capirlo?». Il barbaro era sinceramente stupito.

«C'erano due questioni critiche, Deckard. La prima era: cosa ci faceva la pantera fuori dalla gabbia? E la seconda era: perché è stato sottratto il collare. La risposta alla prima era ovvia, il domatore aveva liberato la pantera per difendersi. Ma da chi? Questo ci riporta al collare. L’unica ragione plausibile perché fosse stato sottratto era che doveva contenere qualcosa di prezioso, esattamente come la nostra miss Faulkner ha intuito. Quello che ha compreso troppo tardi è stato il ruolo di Jorg nella faccenda. E non ha capito che Laurel era stato la mente di tutto il complotto». Il giovane sospirò. «Ma, forse, è stato meglio così».

«Non ti seguo».

«Ti ricordi il misterioso furto? Una stanza con una finestra troppo piccola perché ci potesse passare un uomo. Un uomo. Ma uno gnomo è riuscito a passare di lì. Jorg ha commesso materialmente il furto, anche se il piano era quasi certamente di Barthington».

«Così anche lo gnomo… ed io che l’ho difeso!».

«Era uno schiavo, amico mio. Doveva fare quel che il suo padrone ordinava. In realtà, lui è la vera vittima di tutta questa faccenda».

«Perché?».

«Perché ha perso tutto. Il lavoro, le persone di cui si fidava, la sua adorata pantera. E rischia il capestro come gli altri, per quel furto».

«Forse hai ragione. Ma io non capisco ancora come hai ricostruito tutto».

«Pensaci, amico mio, chi poteva essere a conoscenza del contenuto del collare, oltre alla vittima? Ovviamente Jorg, che era al corrente del furto. Ma Jorg non poteva essere l'aggressore e non avrebbe mai ucciso la pantera, dal momento che poteva avvicinarcisi senza alcun timore. Allora doveva essere qualcun altro. Qualcuno che aveva raccolto una confidenza dello gnomo».

«Laurel?». Deckard cominciò a comprendere la verità.

«Certamente. Laurel godeva della fiducia e, forse, della riconoscenza di Jorg. Inoltre, quando Monia ha sentito Pasterron parlare con la misteriosa donna, lo ha sentito vantarsi di essere diventato ricco ma non di come lo fosse diventato. La donna, che ovviamente era Miriam, secondo Pasterron, era all'oscuro del furto. Dunque, l'informazione poteva provenire solo dallo gnomo. Immagino che Jorg, dopo l’ennesima umiliazione, abbia confidato il segreto a Laurel, durante il viaggio da Elosbrand a qui. E lui ne ha parlato con gli altri. Così, insieme a Miriam e Jeff hanno organizzato il colpo. Lei si è finta innamorata, lui si è finto geloso ed hanno atteso l’occasione giusta. Quando Pasterron, però, fece capire che voleva partire con la bella ballerina, non hanno potuto attendere. Sinceramente, immagino che non volessero ammazzarlo. Posso sbagliarmi ma credo che le cose siano precipitate quando Pasterron ha liberato la pantera. Jeff lo minacciava con la balestra e, forse, Miriam col pugnale. La rabbia per il tradimento lo ha sopraffatto e lui ha aperto la gabbia col pedale, senza che gli altri se ne accorgessero. Quando Kira si è presentata di fronte a Barthington, questi ha temuto per la propria vita e ha usato la balestra contro la belva. Un solo colpo non sarebbe bastato a ucciderla, sicché Miriam, disperata, ha colpito il domatore col pugnale, ha afferrato la sua balestra da mano, che Jorg ci ha detto era sempre nascosta sotto la cassetta, e ha tirato sulla pantera. La povera bestia si è fermata quel tanto da dare a Jeff il tempo di ricaricare e finirla. Se Pasterron non avesse scatenato Kira contro Jeff, probabilmente sarebbe ancora vivo. Costretto a dividere il bottino con gli altri, ma vivo».

Il barbaro si sedette accanto all'amico. La rabbia era ormai sfumata.

«Poveraccio. Credeva di essere un tipo in gamba e si è fatto infinocchiare così».

«Era vanitoso. Ma era anche uno che sfruttava gli altri per fare tutto. Il vero domatore era Jorg, me l'ha confidato lo stesso Laurel e non aveva alcun motivo di mentirmi a questo proposito».

Deckard si alzò nuovamente in piedi per porsi di fronte all'amico. Lord Bailey lo guardò negli occhi, leggendovi gli ultimi bagliori dell'ira.

«Ma perché non me l’hai detto prima? Avremmo mandato all'aria il bluff e li avremmo presi. Mi spieghi perché li hai lasciati fuggire?».

«Cosa avrei dovuto fare, secondo te?». Un sorriso stanco accompagnò le parole del giovane.

«Mi pare chiaro: smascherarli e fare in modo che venissero consegnati alla giustizia».

«E, magari, impiccati seduta stante al primo albero, vero?». La voce, generalmente allegra, del nobiluomo era permeata di rabbiosa tristezza.

«Se lo sarebbero meritato».

Lord Bailey si alzò in piedi e sollevò i suoi occhi profondi sul volto dell'amico.

«Hai mai visto un impiccato, Deckard?».

«Be’… no. Ho visto gente ammazzata in guerra e nell’arena dove combattevo anni fa… ma impiccati no».

«Io ho visto tutta la mia famiglia impiccata[1]. Mio padre, mia madre, mia sorella. I volti tumefatti negli spasimi dell’agonia, gli occhi fuori dalle orbite, la lingua vomitata fuori dalla bocca, urine e feci che colano lungo le gambe. Tutto ciò in nome della giustizia, Deckard. Eppure erano tutti innocenti. Vittime dei pregiudizi e delle calunnie».

«Ma quelli sono colpevoli». Il barbaro era sorpreso dalla passione che accompagnava le parole dell'amico.

«E io sono un ladro. Devo ricordartelo? Io sono Blackwind». Parlava sommessamente, quasi a se stesso, eppure Deckard si voltò a guardarsi intorno temendo che qualcuno potesse udire le parole del giovane. Erano soli, dunque si tranquillizzò.

«Va bene, ma questo che c’entra? Quelli sono tre assassini».

«Inoltre, consegnando loro, avrei messo sulla forca anche Jorg».

«Lui? Perché?».

«Perché la giustizia lo avrebbe ritenuto complice, quantomeno del furto. Figurati se si sarebbero preoccupati di distinguere la sua posizione! Un impiccato in più fa sempre bene alla giustizia». C'era un'amarezza insolita nella sua voce.

«Mi spieghi dove vuoi arrivare?».

«Cosa cambia? Innocenti o colpevoli. Io non credo che volessero davvero uccidere. E poi, chi è davvero innocente, a questo mondo? Che differenza c’è fra un morto assassinato e uno giustiziato? Il primo muore nascosto, il secondo offre un edificante spettacolo alla popolazione. E quanti sghignazzano, davanti a quell’agonia! Chissà se a loro interessa se si tratta di un colpevole o un innocente… forse gli basta soddisfare la propria sete di sangue. Ma un morto è sempre un morto. No, amico mio. Uccidere mi fa orrore. Fare uccidere, altrettanto».

«Ma è una questione di giustizia! Gli Dei…». Deckard si interruppe, guardando gli occhi lampeggianti del giovane.

«Gli Dei stanno lassù. Qui la giustizia la amministrano gli uomini. E gli uomini bramano il sangue».

«Ma questo è il mondo! Come puoi pretendere di cambiarlo?». Deckard si rese conto che sarebbe stata una discussione inutile. Il suo amico parlava sinceramente e lo conosceva troppo bene per sperare di spuntarla.

«Non m’illudo di cambiarlo. Ma non mi renderò complice di questo sistema che chiamano giustizia. Io sono un fuorilegge. Fuorilegge, capisci? Io rubo. Quelli che assicurano i fuorilegge alla giustizia stanno dall’altra parte della barricata. Loro sono le guardie. Io il ladro».

«Ma non sei un assassino».

L'ombra di un sorriso comparve negli occhi di Blackwind.

«No. Non lo sono. Ma c’è mancato poco che lo diventassi in nome della giustizia. Di una giustizia che è solo vendetta. Mi dispiace, Deckard. Credo di essere un giusto. Non sarò mai un giustiziere».

Ora Blackwind era nuovamente nascosto sotto le spoglie dell'elegante lord Bailey. I lampi nei suoi occhi si quietarono e la sua voce era nuovamente ferma e controllata.

«Io cerco di capirti. Mi fa solo rabbia che quei due siano scappati con il gioiello».

Un sorriso divertito irruppe negli occhi del giovane.

«Ti sbagli, amico mio. Il gioiello è qui».

«COSA?».

«Ma ti pare che li avrei lasciati scappare col bottino?». Ora sorrideva apertamente.

«Come hai fatto?». Il barbaro sprofondò nuovamente nella confusione.

«Facile, mentre stavate perquisendo le stanze, io sono uscito, l’ho recuperato e l’ho sostituito con un pezzo di catena».

«Ma dov’era? Com'è possibile che tu sapessi dove cercare?».

«Ho pensato cosa avrei fatto nei loro panni. Giustamente, l’hanno nascosto in un posto dove nessuno va, in questo periodo ma dove non c’è nulla di strano se qualcuno ci gira intorno. Nel pozzo, questo pozzo, in un sacchetto appeso a una corda. La gente di qui, in questa stagione, usa la neve per procurarsi l’acqua, che è meno faticoso e più rapido di andare al pozzo e manovrare una catena ghiacciata. D’altra parte, nessuno ci fa caso se qualcuno si appoggia al pozzo».

«E nessuno si era accorto della corda?».

«Chi se ne poteva accorgere?, era coperta dalla neve, come tutto il bordo. Bisognava andarla a cercare per trovarla. Era proprio qui, dove Miriam ha rimosso la neve per recuperare il bottino, dove ci siamo seduti».

«E tu sapevi che l’avresti trovata. E loro sono partiti a mani vuote». Ancora una volta, Deckard si limitò a constatare che il suo amico aveva interpretato nel modo più semplice e logico i pochi indizi a disposizione.

«Esattamente».

Rientrarono nella locanda, accolti dal tepore del fuoco. Il gelo della notte cominciò a sciogliersi anche dentro di loro. Erano stanchi per le emozioni della giornata. Si resero conto che anche gli altri dovevano essersi sentiti allo stesso modo ed erano andati a dormire. La grande sala era quasi deserta, ormai. Solo una piccola figura era ancora seduta davanti al camino. Non si voltò sentendoli entrare.

Lord Bailey si avvicinò al fuoco e si sedette accanto allo gnomo.

«Quanto costano certe vendette, vero, messer Jorg?».

Lo gnomo si voltò di scatto, fissando i suoi occhi velati di lacrime in quelli limpidi del giovane aristocratico. Un lampo di paura passò nel suo sguardo, seguito da una quieta rassegnazione.

«Lo… sapevate?». Chiese, con voce piatta.

«Chi altri avrebbe potuto informare Laurel del collare? D’altronde, mi sembrava impossibile che il signor Pasterron fosse stato capace di rubare da solo quel gioiello. Era racchiuso in una stanza con solo una piccolissima finestra. Troppo piccola per un uomo. Non per voi, però».

«Siete acuto, milord. Ora mi consegnerete alle guardie?». Non c'era più paura nella voce di Jorg. Solo rassegnazione.

«Non ho consegnato quei tre. Anche per non coinvolgere voi». La voce del gentiluomo era calma e gentile. Una carezza dopo tanti schiaffi.

«E allora?». Gli occhi scuri dello gnomo si fissarono in quelli del giovane che lo guardava sorridendo.

«Allora, siete libero. Vi è costata cara, questa libertà. Fatene buon uso».

Lo gnomo lo guardò con un’espressione piena d’incredulità. Poi le lacrime tornarono a sgorgare.

«Scusate… non è dignitoso… ma sono un semplice schiavo… perdonatemi milord».

«Non siete più uno schiavo. Kira non c’è più ma siete libero. Lei sarebbe contenta così». La voce del giovane accarezzò ancora la piccola creatura, addolcendo l'amarezza che Jorg sentiva dentro il cuore.

«Voi… oh, milord! Kira è stata l’unica amica da non so più quanto tempo… non avrei mai barattato la mia libertà con la sua vita. Preferivo essere uno schiavo… insieme a lei».

«Non possiamo cambiare quel che è accaduto, Jorg.». Da quanto tempo non era stato trattato da pari a pari da qualcuno? Laurel era gentile ma condiscendente, Miriam lo considerava buffo e lo trattava bene ma come avrebbe trattato un cagnolino. Per gli altri, lui era sempre e solo uno schiavo. Si sentì in dovere di scusarsi con quel gentiluomo che lo trattava con tanto rispetto.

«Non avrei mai immaginato…».

«Ne sono certo. Altrimenti non sarei qui. Volevate che qualcuno desse una lezione al vostro padrone e vi siete confidato con Laurel. Gli avete raccontato del furto e di dove fosse nascosto il gioiello. Lui vi promise di dargli una lezione. Non potevate immaginare che Miriam e Jeff lo avrebbero ucciso per impadronirsi del gioiello. Non credo volessero farlo ma la situazione è precipitata, anche per l'odio fra Jeff e William».

«Avevo promesso che avrei consegnato loro il gioiello, purché gli dessero una bella lezione. Mi hanno tradito». Non c'era rabbia nella sua voce. Solo una profonda tristezza.

«Forse. Forse sono stati trascinati dagli eventi. In ogni caso pensavano di essere al sicuro. Voi non avreste potuto denunciarli perché sarebbe saltata fuori la storia del furto. Rischiavate la forca, al pari loro».

«E ora? Che sarà di loro? E di me?».

«Di loro non c’interessa. Non credo andranno lontano. Quanto a voi, siete un domatore. Potete ricominciare daccapo. Tornate con me a Elosbrand. Sono certo di potervi garantire un ingaggio degno del vostro talento».

«Milord?». Lo gnomo si voltò verso il giovane, gli occhi pieni di stupore.

«Conosco molti che apprezzerebbero un domatore con le vostre qualità. E posso assicurarvi che nessuno oserà più trattarvi da schiavo».

«Ma io...».

«Andate a dormire, messer gnomo. Domattina dobbiamo partire presto. Sempreché accettiate la mia offerta, naturalmente». Il sorriso sincero del nobiluomo restituì un po' di serenità al piccolo domatore che sorrise e si congedò cerimoniosamente per sgattaiolare su per le scale e sparire nel corridoio.

«Gli hai dato più ancora della libertà. Ora ha una speranza». Deckard sorrise all'amico.

«Mi auguro che abbia più fortuna di quanta ne abbia avuta finora. Sono certo che ha le carte in regola per rifarsi una vita».

La mattina dopo, Deckard si alzò, come al solito, all'alba e guardò subito fuori dalla finestra. Il cielo era terso e non era più caduto un fiocco di neve dalla sera prima. Il viaggio poteva proseguire. Quell'altro dormiva beato, come al solito. Si lavò e uscì dalla stanza attirato dal profumo che arrivava dalla cucina. Giunto ai piedi delle scale, trovò Monia ad accoglierlo con un sorriso sfolgorante. Accanto a lei, a testa china, stavano i due fratelli, ancora malconci.

«Buongiorno messer Deckard! Volete fare colazione?».

«Volentieri, Monia». Uno dei due fratelli emise una specie di grugnito. Poi Ross si rivolse al barbaro.

«Vorremmo chiedere scusa... ci rendiamo conto che abbiamo fatto una figura da stupidi».

Deckard li guardò seriamente. Dovette sforzarsi, però, per trattenere un sorriso nel vedere i loro volti ancora tumefatti.

«Alla fine, credo che voi due siate fra quelli che ne escono meglio. Siate più prudenti in futuro, però. Avete rischiato la forca per un coltello da donna».

Rimasero a chiacchierare per circa un'ora, davanti alla ricca colazione. Alla fine, Deckard aveva riacquistato il buonumore. Così, accolse con un largo sorriso il suo elegantissimo amico che scese la scala chiacchierando fittamente con miss Faulkner e suo padre. Tutti fecero colazione con appetito, dimostrando che la disavventura del giorno precedente era stata quantomeno archiviata, se non sepolta del tutto. I Faulkner avevano deciso di fermarsi ancora qualche giorno alla locanda, in attesa di potersi aggregare a qualche altro gruppo di viaggiatori diretto a nord. Lord Windström e Deckard, invece, sarebbero ripartiti subito, accompagnati da un raggiante Jorg.

Al momento della partenza, i Cannon e i Faulkner accompagnarono alla stalla i due amici, salutandoli cordialmente. Il locandiere abbracciò vigorosamente il barbaro mentre Monia gli elargì uno schioccante bacio sulla guancia che lo fece diventare rosso come un pomodoro. Anche messer Faulkner strinse vigorosamente la mano di Deckard. Non ci si poteva attendere nulla di più ma, da uno così, quel gesto significava più di un fiume di scuse.

Miss Faulkner parve colpita dal vedere lo gnomo prepararsi a partire col gentiluomo. Si avvicinò a lord Bailey elargendogli uno dei suoi sorrisi più smaglianti. Una rarità sul volto severo di quella ragazza.

«Così gli avete proposto di tornare con voi e di trovargli un lavoro?».

Il gentiluomo le sorrise col suo solito fare affascinante.

«Lavorerà per me, finché non gli avrò trovato qualcosa di adatto al suo talento».

« Tutto sommato, sono contenta che sia finita così. Quel poverino, almeno, potrà avere un futuro sereno. Se solo l'avessi capito prima, mi sarei consigliata con voi. Siete un uomo estremamente generoso, milord. Spero di rincontrarvi al mio ritorno a Elosbrand». La ragazza arrossì.

«Ne sarò lietissimo, madamigella. Voi e vostro padre siete invitati a cena nel mio palazzo, al vostro ritorno. Ci conto».

Un altro sorriso illuminò il viso affilato della ragazza.

«Buon viaggio, milord».

«Grazie, Lilian. A presto».

Lord Bailey li guardò allontanarsi, sorridendo, poi rientrò nella stalla per sellare il suo cavallo. Il barbaro era lì che lo guardava sornione, con le mani sui fianchi.

«Siete un uomo estremamente generoso, milord! Ma lo sa che hai preso tu il gioiello?». Deckard era fra l’indignato e il divertito. «Un po’ d’oro in cambio di sette rubini che valgono ognuno tre volte tanto!».

«Quel gioiello non ha mercato, Deckard. Chiunque cercasse di venderlo rischierebbe la galera».

«E tu cosa vuoi farne, allora? Non hai paura di finire in prigione?».

«Ma io sono Blackwind. E posso fare quel che agli altri non riesce». Ora lord Bailey rideva allegramente.

«Ah sì? E come risolvi questo problema?».

«Ma è facile, amico mio. Lo restituisco al suo proprietario. Ovviamente, dietro il compenso che mi spetta per averlo ritrovato».

«Hai davvero una gran faccia tosta! Quindi scambieresti quel magnifico gioiello con del volgare denaro?».

«Quel gioiello non vale il sangue che è stato versato, Deckard. E poi ricorda i versi del grande bardo Faber: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».


[1] Cfr. il racconto “Il ladro e il gentiluomo”

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