Pescatori di lune

di Jolene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** L'anima di carta ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Uno, due, tre: ora! Ancora un piccolo sforzo, ci sei quasi e… ecco che tornava a poggiare la schiena per terra, esattamente come prima. Soltanto che ora si sosteneva sul fianco destro, quello che le faceva male. Provare a sollevarsi da terra era impossibile: la gamba destra era del tutto paralizzata da tempo; quanto alla sinistra, non avrebbe potuto reggere da sola tutto il peso del corpo.

Fece uno sforzo sulle braccia e finalmente riuscì a mantenersi sui gomiti, e tese il collo, attenta a cercare qualcuno che l’aiutasse a rimettersi in piedi. Alla sua destra, al di là della siepe fino all’edificio principale non c’era l’ombra di un cane: la campanella dell’intervallo era suonata da parecchio, e gli unici ad essersi attardati nel parco erano due novellini freschi di scuole medie che lentamente si avvicinavano all’ingresso.

La ragazza allungò il collo, le vene tese per lo sforzo.

“Ehi, voi!”.

Uno dei due si girò, ma era troppo lontano perché riuscisse a vederla. Disse qualcosa al compagno, poi sparirono entrambi inghiottiti dall’ombra dell’androne.

La ragazza non trattene un grido di rabbia.

“Fanculo!” ringhiò, colpendo con un pugno la gamba sana. Un dolore fitto e lancinante l’avvolse dal ginocchio fin sulla coscia. Socchiuse gli occhi e si piegò in due, le nocche premute con forza sullo stomaco. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Snocciolò ad alta voce, una dopo l’altra, tutte le ingiurie e gli insulti che conosceva. Detestava con ogni fibra del suo corpo quella situazione del cazzo! Le sue gambe avrebbero dovuto essere sane come quelle di una dannata persona normale, funzionare a dovere. Che le andassero a rifilare a qualcun altro quelle stronzate da videocassetta sul corpo umano, la macchina perfetta.

Iari Giusteni aveva compiuto diciassette anni il diciotto di aprile. Facevano cinque mesi che la sua gamba era in quello stato, e cinque mesi esatti che si era trasferita laggiù.

Il medico di famiglia l’aveva invitata a mettersi in contatto con il dottor Riunenti il più presto possibile, dopo l’incidente.

Quest’ultimo, un tempo primario del reparto ortopedico, godeva della massima stima da parte di tutta la città. Aveva prestato servizio per ben quarant’anni, guadagnandosi lodi e meriti durante tutto il corso della carriera. A Settantasei anni suonati, infine, aveva preso la saggia e contemplata decisione di ritirarsi dall’incarico per avviare un’attività privata. Il suo studio era perennemente colmo di pazienti: per fissare una visita Carla Giusteni aveva impiegato una settimana.

“Mi dica pure signora, in cosa consiste il problema?” aveva esordito durante il loro primo incontro, senza neppure dare il tempo a Carla di presentarsi.

La sua pelle era raggrinzita ed i capelli candidi, ne aveva ancora molti in testa. Gli occhi erano tanto sottili che era quasi impossibile capire se fosse sveglio o stesse dormendo, tanto più che era un tipo taciturno.

Li sormontavano due folte sopracciglia del medesimo colore dei capelli, e ciuffi di peli bianchi spuntavano sù dalle narici. Guardandosi intorno in quella stanza, ci si poteva facilmente accorgere che il ‘professore’ (così lo chiamavano tutti) era un appassionato di lingua greca. Dovunque ci si voltasse, s’andava a parare su titoli come ‘L’importanza di Grassman’ o ‘Rapporti tra la grammatica greca e le lingue indo-europee’.

Nonostante fosse tanto colto, non ostentava nessuna delle sue conoscenze. Piuttosto dicevano che fosse sempre in grado di mettere a proprio agio ogni suo interlocutore.

“C’è stato un trauma molto grave al nervo tibiale, ecco perché ha perso la sensibilità”

Aveva dichiarato con nettezza dopo avere esaminato con cura la gamba. “Avrà bisogno di un paio di stampelle.”.

Dopo aver detto questo aveva preso sua madre da parte e s’erano messi a discutere fitto fitto.

La sera Iari seppe che non avrebbe mai più mosso la gamba destra.

Mai più. C’era qualcosa di stranamente definitivo in quella breve sequenza di vocali e consonanti. Le parole più brevi dovrebbero essere le più semplici da interpretare, e invece è perfettamente il contrario. Contengono una moltitudine di significati, sono come matrioske. Solo lentamente si arriva al nocciolo. E’ come vedere il proprio pensiero in moviola, poi finalmente realizzare. E desiderare di non aver mai realizzato.

Ora, a Iari Giusteni non era mai capitato di cadere dalle stampelle. Era abbastanza abituata e attenta per rendersi conto di dove metteva i piedi. Qualcuno le aveva mollato uno spintone nel fianco mentre tornava in classe. Una stampella era volata due metri più in là, e Iari, cercando di aggrapparsi a quella rimasta, si era procurata un graffio sotto l’avambraccio mentre scivolava per terra. Non aveva fatto in tempo a notare chi fosse stato, ma aveva visto una figura maschile in t-shirt  che le era scivolata davanti di spalle. Non c’era alcun dubbio che l’avesse fatto volutamente.

Ed erano già passati circa tre minuti mentre lei era ancora lì stesa per terra, gli occhi colmi all’orlo di lacrime per la rabbia di non poter fare nulla.

“ Ehi, serve un aiuto?”

In mezzo ad una goccia di pianto intravide una figura tremolante che le tendeva una mano. Focalizzata l’immagine, un ragazzo stava in bilico sulle ginocchia e di fronte a lei. Indossava una maglietta nera,un pantalone color melanzana e delle scarpe da ginnastica vecchio modello.

Iari gli indicò con un cenno del capo una stampella che era volata via. “Puoi raccogliermela?”

Il ragazzo ritornò subito con la stampella in mano, prese quella più vicina da terra e le strinse entrambe sotto l’avambraccio. Poi si chinò, prese la ragazza da sotto le ascelle e fece in modo da rimetterla in piedi con un movimento molto abile.

Iari riprese possesso delle sue stampelle.

“Grazie”

“Figurati”.

Solo qualche secondo prima non aveva notato quanto fosse magro. Non si era nemmeno accorta che era più basso di lei di almeno tre centimetri. Si chiese come avesse fatto a sollevarla da terra, e con quale forza.

Aveva i capelli castani lunghi fin poco sopra il collo e mossi, legati in un codino.

Al suo viso puntato su di lui, il ragazzo abbassò la testa con un’espressione irritata in faccia.

Iari distolse subito lo sguardo, notando un fastidio.

“Stai entrando?”

“Sì”

“Anch’io”

Senza dire una parola si incamminarono insieme. Iari stette ad osservarlo per metà del tragitto, lui di contro continuò a camminare con lo sguardo piantato per terra e le mani infilate in tasca. Entrarono nell’ingresso e salirono velocemente le scale.

“Di che corso sei?”

“C. E tu?”

“F. sei nella sperimentale di informatica?”

“Sì”

“Genio del computer?”

“Al contrario” per la prima volta il ragazzo la guardò in faccia. Aveva gli zigomi pronunciati, labbra carnose e un paio di occhi sottili color senape. Sembravano gli occhi di un animale braccato. Ma forse era soltanto un’impressione. Nonostante raramente Iari abbassasse la testa di fronte a qualcuno, non fu capace di reggere quello sguardo per più a lungo di cinque secondi. Si voltò dall’altra parte.

“Ho scelto quel corso perché non volevo fare diritto”

“Dici sul serio? E’ una materia talmente interessante.. in genere capita il contrario”

“Che non si vuole fare informatica?”

“Tu sei un caso a parte”

“Pare”. Il ragazzo distolse di nuovo lo sguardo, aggrottando le sopracciglia. Sembrava quasi che stesse scacciando un ricordo spiacevole dalla testa. Arrivati al bivio che divideva le prime sezioni dalle seconde, il ragazzo puntò verso il corridoio di destra.

“Non mi hai detto come ti chiami”

“Iari”

“Ci vediamo, Iari” imboccò il corridoio e, senza voltarsi più s’infilò nella prima classe sulla sinistra.

 

Iari tornò a casa in ritardo con l’autobus delle quattro. Fare il rientro era stata una novità, ma tutto sommato era positivo, visto che una volta tornata a casa si era già levata di mezzo il grosso con la spiegazione degli insegnanti. Il liceo si trovava in città, anche se in una zona un po’ periferica. Casa invece era in campagna a venti chilometri dal centro. L’autobus era una vecchia carretta reduce dagli anni di guerra. Il suo proprietario, che ne era anche il centenario alla guida, era alto più o meno un metro e aveva un’insana passione per gli specchi. Cinque specchietti di piccole dimensioni pendevano dalla presa per l’aria sul soffitto, e ne conservava altri sotto il sedile, nel cruscotto; e qualcuno malignamente sussurrava: “perfino nel cofano!”.

Tonino (questo era il nome del centenario) sembrava avesse una predilezione per Iari, che ad ogni viaggio si sedeva sul sedile più prossimo al guidatore. Ascoltare le storie quotidiane di Tonino era divertente, ed il suo dialetto colorito la allontanava dal pensiero delle preoccupazioni.

Quel pomeriggio le aveva raccontato del modo in cui i suoi vicini di casa cercavano di rovinarlo.

Iari gli aveva dedicato delle parole di conforto, e lui le aveva ricambiato con il suo saluto abituale, prima che scendesse: “Ahi, Iari, se fossi più grande ti sposerei!”.

Il pulmino si fermava esattamente di fronte agli arbusti che delimitavano la piccola proprietà Giusteni.

Iari percorse il vialetto fino al cancello e sbirciò tra le sbarre verdi se ci fosse qualcuno nelle vicinanze. Sentiva la voce di sua madre venire da poco lontano, ma dato che non vedeva nessuno in giardino ipotizzò che provenisse dalla porta semi- socchiusa.

Allungando la mano, premette il dito sul campanello.

Sentì sua madre: “Aspetti, dev’essere Iari”

Quindi uscì di corsa, tutta affannata, attraversò il viale di ghiaietto e le aprì il portone.

“Iari! Non mi avevi avvisata del ritardo. Che fine hai fatto?”

Poi i suoi occhi caddero sulla gonna scura a fiori e sul grosso livido che si era fatta cadendo.

“Che hai fatto alla gamba?” domandò agitata.

“Sono scivolata scendendo le scale”

Sua madre sembrò soddisfatta dalla spiegazione. Non ci pensò su tanto tempo. Invece le diede un colpetto sulla schiena e la spinse verso l’ingresso.

Iari viveva con sua madre solamente. I suoi si erano separati molto tempo prima. Non era stato un brutto colpo per lei. Le loro discussioni si erano fatte talmente affilate e frequenti che vedersi sbattere sotto il naso i documenti per il divorzio era stato un sollievo per Guido e Iari Giusteni.

Iari era stata il frutto di una relazione fuori dal matrimonio tra due persone quasi sconosciute. Questo era forse il motivo del fallimento della vita insieme.

Adesso suo padre viveva lontano, in un paesino al confine metà italiano metà tedesco di cui nemmeno lei stessa ricordava il nome.

Nell’anticamera c’era padre Lucio, il vicario che operava nei dintorni della città, e che ormai conosceva quella casa bene come le sue tasche.

Iari alzò gli occhi al cielo.

“Rieccoci, Iari, la pecora smarrita”

Iari non rispose.

“Sono qui per comunicarti”

Iari sbuffò e lanciò un’occhiataccia alla madre, che stava in piedi davanti la porta con le mani incrociate sul petto e quell’aria pia davvero stomachevole.

“Padre, gliel’ho detto: è inutile. Che lei ci voglia credere, sono affari suoi. Ma non mi convincerà mai a farlo”

“Figliola, tu parli per partito preso”

“Se parlassi per partito preso non avrei tanti argomenti con cui abbattere la sua discussione”

Sua madre la interruppe. “ Ti prego, Iari. Prova almeno a comunicarti, fallo per me”

“Và bene” esclamò Iari, che sapeva bene come andavano a finire le liti con sua madre. L’aveva sempre vinta lei, in un modo nell’altro. Carla Giusteni era la donna senza macchia, quella che non sbagliava mai.

“Accomodatevi in cucina, padre”.

In casa non c’era un salotto o una sala da pranzo. Era un’abitazione modesta e composta da poche stanze arredate in modo frugale. Carla Giusteni aveva grande stima della religione cristiana, in cui riponeva la sua massima fiducia.

Padre Lucio aspettò che lei si sedesse. Poi si accomodò al suo fianco e le prese la mano sottile tra le sue.

“Confessa figliola, quali sono i tuoi peccati?”

Iari assunse un’aria dimessa e vergognosa.

“Sono rimasta incinta”.

Un silenzio di tomba riempì la stanza. L’unico rumore era il cinguettio di un fringuello fuori dalla finestra, e il ticchettio dell’orologio sulla mensola.

“Vedi figliola..”

“Sono rimasta incinta, ho bestemmiato, ho sposato un galeotto di nascosto, mi sono riscoperta omosessuale e ho premeditato il suicidio”

“Mi prendi ancora in giro, Iari?”

“No, l’ultima cosa l’ho fatta sul serio”

Padre Lucio si alzò indignato e se ne andò senza nemmeno salutare.

Prima che sua madre potesse raggiungerla e tediarla con la sua ramanzina, Iari sgattaiolò in camera (per quanto le sue stampelle glielo permettessero) e chiuse la porta.

Quando finalmente si potè stendere tirò un sospiro di sollievo. Era stata tutto il giorno in piedi o seduta. Quello era il guaio con i rientri. Aveva appoggiato le stampelle alla sponda del letto.

Si addormentò senza quasi accorgersene. Alle sette e mezza di sera sua madre entrò in camera, piano, cercando di fare poco rumore. Iari non faticò a sentire i suoi passi resi pesanti dagli zoccoli: il suo sonno era leggero.

“Mamma”

Carla Giusteni s’immobilizzò vicino alla scrivania.

“Mamma, che fai?” chiese Iari con la voce impastata dal sonno.

La madre si avvicinò al letto “Sei sveglia?”

“Sì”

Carla Giusteni si sedette al bordo del letto, e con una mano carezzò i capelli a sua figlia. Non si rendeva ancora conto di quanto fosse cresciuta ed in così poco tempo. Per lei il tempo sembrava andare a rilento. Con Iari invece intratteneva un rapporto di brevità vorticosa.

“Ho raccolto la biancheria stesa”

“Mamma..”

“Che c’è?”

“Niente”

“Dormi, Iari” disse, prima di andare via silenziosa com’era entrata.

Ma Iari non aveva nessuna voglia di continuare a dormire. Non era una cosa a cui era abituata.

Prima che succedesse quello alla sua gamba non aveva mai dormito se non di notte.

Accese la luce e appoggiò il corpo sui gomiti. Riusciva a guardarsi nello specchio. I suoi capelli erano sporchi, e tanto più lo sembravano alla luce della lampada. Li portava in un carré corvino. Il suo viso era sottile e semplice, il naso prominente. Non c’era niente in lei che fosse perfetto. Aveva un corpo slanciato, ma forme appena accennate. L’unicità della sua persona le valeva come compensativo di tutte le mancanze.

Mentre osservava la sua immagine allo specchio, ebbe la visione fulminea di una donna girata di tre quarti verso di lei.

Si rimise faticosamente in piedi sulle stampelle e prese tra le dita un carboncino. Sullo specchio, sopra la sua figura riflessa, iniziò col tracciare un mantello morbido che terminava con uno strascico.

Quindi ricopiò il suo profilo, con occhi che sprizzavano scintille e un cappuccio ad avvolgerle il capo.

Poi Iari si guardò intorno. Sulla parete opposta erano appoggiati tutti i suoi dipinti, che fossero di carta o sulla tela, piccoli o grandi.

In un angolo aveva impilato invece le tavole bianche, tra cui un bellissimo telo alto e lungo avuto in regalo da un’amica milanese di sua madre. Decise che quella sera l’avrebbe utilizzato.

Si avvicinò alla scatola dei colori a olio. Rimaneva un tubetto di porpora, uno nero, metà di turchese e metà di grigio scuro.

Infilò tutto in una busta e la mise in borsa assieme ai pennelli e una bottiglietta d’acqua. Poi legò il telo ad una cinghia e la fissò tra l’avambraccio e la spalla.

“Vado a dipingere al lago!” disse alla madre prima di uscire.

“Torna prima delle nove” rispose Carla dalla cucina.

Casa Giusteni stava assieme ad un piccolo complesso di villette proprio di fronte al lago. La porta sul retro ne era distanziata da più o meno duecento metri.

Non si trattava davvero di uno di quei grandi laghi di cui non si vedono le estremità. Quello aveva le sponde ben visibili e traversabili con dieci minuti di andatura moderata. Tutt’intorno non c’era che l’erba e una serie di alberi di contorno, molto utili a fare ombra nei giorni d’estate.

L’acqua era melmosa: raramente qualcuno decideva di tuffarsi, e sempre e solo in preda alla calura estiva. In autunno era quasi sempre deserto. Il solo rumore che lo caratterizzava, indipendentemente dalla stagione, era il canto dell’upupa, che a differenza di tutti gli altri uccelli, aveva un suono basso e gutturale.

Di quella stagione c’erano molte upupe. Si era agli inizi di settembre, l’aria era mite ed il sole cominciava a tramontare alle sette della sera.

Iari andò a sistemarsi in un posto tranquillo, sotto l’ombra di un faggio. Quello lì era il suo posto, tanto che ci aveva messo perfino una vecchia sedia di ferro battuto. Nessuno l’aveva mai toccata, tutti sapevano che quello era il posto di Iari Giusteni. Posizionò la tela con uno spigolo per terra e l’altro sul tronco dell’albero, fino a raggiungere una certa stabilità.

Poi appoggiò le stampelle alla sedia con i manici infilati in un bracciolo.

Prese in mano la matita e principiò col tracciare la linea del viso, gli zigomi morbidi, il mento ovale, la forma degli occhi. Quindi la forma del collo ed il panneggio del mantello che incorniciava il viso e avvolgeva il resto del corpo in una forma sinuosa.

Posò la matita sulla borsa e prese il pennello più appuntito, un tubetto con rimanenze di color carne ed il porpora.

Una volta sfinita per essere rimasta a sedere per tanto tempo, Iari decise di continuare il lavoro il giorno successivo. Stette per un pezzo ad ammirare la tela. Aveva impiegato molto tempo per i dettagli del viso ed i chiaroscuri, ma poteva affermare con soddisfazione che ce l’aveva messa tutta. Il volto della donna era morbido e sulle guance si diffondeva un rossore acceso contro il pallore del contorno. Gli occhi, ottenuti dal paziente miscuglio di nero e turchese, contenevano una varietà di ombre tanto da sembrare vivi. Una lama di luce illuminava l’occhio e la guancia sinistra.

Iari si ripromesse di terminare il mantello e lo sfondo l’indomani.

Cacciò la lacca dalla borsa e ne spruzzò uno strato sottile sulla parte dipinta. Aspettò un paio di minuti e ripeté l’operazione due volte. Una volta assicurata che fosse completamente asciutto, Lo riavvolse nella cinghia e, come aveva fatto prima, si rimise sulle stampelle.

Guardando il cielo, a occhio e croce avrebbe potuto dire che fossero le otto e mezza. Era comparsa qualche stella, e una luna scarlatta troneggiava regina sopra la linea dell’orizzonte. Era incredibilmente grande.

Stava per voltare le spalle ed incamminarsi verso casa, quando si accorse di una presenza a cui prima non aveva fatto caso. Un uomo era in piedi, chino sul lago con una canna da pesca, i muscoli del viso tesi per lo sforzo, e ruotava febbrilmente la manovella della canna. A quanto sembrava, gli aveva abboccato un pesce davvero grosso. L’acqua tutt’attorno alla canna schiumava.

L’uomo faceva un gran trambusto, sarebbe stato impossibile non notarlo. Sbatteva i piedi per terra e si lasciava andare prima ad esplosioni di giubilo come “Ce l’ho fatta!”, per poi smentirsi cinque secondi dopo con un “Porca vacca ladra!”.

Per un momento l’uomo si fermò, sopraffatto dalla stanchezza. La manovella era diventata troppo dura da smuovere anche per uno come lui. La lasciò andare, e quella srotolò tutta la lenza ad una velocità spaventosa. Era come se un macigno la stesse trascinando giù. Iari si chiese se davvero mai esistessero pesci tanto grandi in un lago così insignificante. All’improvviso la manovella si bloccò. Il pesce era fuggito.

L’uomo la ritirò su, questa volta senza alcuno sforzo.

Era tarchiato e di media statura, sulla cinquantina, con la schiena nuda ed un tatuaggio in bella vista che si arrampicava sul bicipite. Tirando a indovinare, Iari avrebbe scommesso che fosse un serpente d’acqua. Portava una maglietta legata in vita ed un pantalone lungo di stoffa leggera. Una catenina d’oro gli avvolgeva il collo.

Non appena si accorse di aver perso il pesce, si sedette sull’erba a gambe incrociate. Invece di darsi per vinto rigettò amo e lenza nel lago ed assunse immobile un’espressione di paziente attesa.

Iari si avvicinò a quel singolare personaggio. L’uomo sollevò la testa e sibilò al suo indirizzo:

“Shh…Cammina piano!”

 Iari modulò la sua andatura, per quanto le stampelle scricchiolassero a contatto con il terreno.

Quando fu arrivata al suo fianco, l’uomo le sorrise misteriosamente.

“Bella serata, vero?”

“Sì”

A queste parole seguì un breve silenzio. Iari lo riempì con la sua curiosità.

“Come è andata la pesca stasera?”

L’uomo fissò l’orizzonte.

“Eh, male”

“Di dove siete? Non vi ho mai visto da queste parti, non vi ho mai visto pescare qui”

L’uomo si lasciò andare ad una risata aperta e cordiale.

“E’ normale, ragazza, noi veniamo da molto lontano”

Iari si sporse verso di lui. “Noi?”

“Sì” fece l’uomo “Noi” disse accennando con la testa ad un gruppo di uomini seduti sulla riva opposta, anche loro con le canne da pesca in mano. Erano vecchi, giovani, bambini. Iari sussultò. Com’era possibile che non li avesse notati prima? Al cenno dell’uomo diversi tra loro sollevarono la mano in saluto.

Lentamente sulle loro teste scendeva una fitta tenda di nebbia. In cielo non c’era più alcuna stella. Il punto più vicino che Iari riuscisse a vedere era il suo faggio, pochi metri più in là della riva.

“ Mi permette una domanda, signore?”

“Sicuro”

“Prima.. prima ho visto che aveva abboccato un grosso pesce. Mi chiedevo se..”

L’uomo ricacciò la testa indietro e scoppiò a ridere per la seconda volta. Iari pensò a cosa ci fosse di divertente in quello che aveva appena detto.

“Un pesce?! Oh, no, non sono un pescivendolo, se è questo che intendi, ragazza”. L’uomo avvicinò in tal modo la sua faccia a quella di Iari, che ne potè osservare ogni singola ruga. Le puntò le pupille nelle sue, e Iari ebbe l’impressione che stesse scrutando molto più a fondo degli occhi.

“Noi siamo pescatori di lune”

Con il dito indicò la luna, grande e rossa, che si stagliava contro di blu pervinca del cielo.

“Stanotte c’era luna nuova. E’ difficile pescarla quando è così pesante. Ma quando è una falce.. dicono che sia facilissimo tirarla su”

“Ma..” boccheggiò Iari sbigottita “Ma non si può pescare la luna”

“Oh, si che si può, ragazza. E non dare giudizi su cose che non conosci” ringhiò il pescatore “Mi innervosisce l’aria da ragazzi moderni che avete al giorno d’oggi. Credi di sapere tutto?”

“No”

“Bene”

“Soltanto non capisco..”

“Cosa?”

“Come fa la luna a stare in un lago?”

“ Ah, ma bè.. se proprio ci tieni” accennò alla luna alta nel cielo senza staccare le mani dalla canna da pesca “Quello che vedi lassù è un riflesso. La luna, quella vera, è in fondo al lago. L’hai visto con i tuoi stessi occhi, prima”

Iari osservò la luna dipinta sulla superficie del lago. Che fosse davvero come diceva il vecchio? Che davvero la luna stesse laggiù, sepolta tra le alghe da secoli indefinibili, ridotta ad un relitto. Che davvero i pesci le ballassero intorno, nella più nera delle acque?

L’interrogativo si fece pressante.

“ Fino a che ora rimanete quaggiù?”

Il pescatore sollevò le spalle.

“Tutta la notte, credo” “Andremo via l’altro domani.. ma forse l’altro domani ancora” aggiunse prevedendo la domanda.

Iari si riscosse dal torpore che l’aveva presa fino a quel momento, e si accorse che ormai dovevano essersi fatte le nove e mezza. Sua madre l’aspettava da mezz’ora a cena.

“Arrivederci” mormorò al pescatore, che si limitò ad emettere un verso a metà tra ciao e addio.

La ragazza girò i tacchi diretta verso casa.

La nebbia si era fatta ancora più grave. La cortina umida era tanto pressante che Iari sentì i suoi vestiti infradiciati dalla pioggerellina leggera.

Non appena guardò se stessa nello specchio all’ingresso si accorse di avere i capelli bagnati alla radice. Sistemò il quadro in camera con molta cura e scese in cucina.

Carla Giusteni stava guardando il telegiornale. Seguiva il caso mafioso Raimondi con tanta passione che Iari si chiedeva cosa ci trovasse di talmente interessante.

Si accorse subito della figlia che entrava, mentre partiva la sigla di chiusura del tg serale. “Iari, ti prenderai un accidente! Sai quanti gradi ci sono fuori? È il settembre più freddo che abbiamo mai avuto, ho appena sentito il meteo. Nei prossimi giorni sarà anche peggio.. dieci gradi, è incredibile. Ti ho acceso il camino di là” aggiunse spiccia “Io sono davvero troppo stanca, me ne vado a letto”

Prima di trascinarsi stancamente su per le scale, le ricordò che aveva lasciato la sua cena sul tavolo.

Iari sollevò il piatto di copertura. Due fette di crudo, del formaggio, un po’ di zucchine.

Mandò giù tutto piuttosto di fretta. Non mangiava niente dal pomeriggio, e la pittura la stancava sempre. Ripensò a quando si esercitava con il moleskine che le aveva regalato sua zia, prima che i suoi si fossero separati.

Il ricordo la riportò alle sere d’estate nel giardino, a casa di suo nonno che in fondo era anche casa loro. Ripensò a sua zia e al suo carattere dolce, ai suoi zii alti e bellissimi, a suo nonno e ai suoi occhi mare, ripensò a quella famiglia che aveva amato come solo i bambini possono amare.

Ripensò a tutti i loro capelli che si erano fatti grigi, ai figli, al lavoro alle malattie e ai litigi, alla morte. Ripensò alla scritta vendesi contro il bianco del muretto di quella casa, la sua casa maledizione! Ripensò a come erano diventati estranei con il tempo. Le mancavano in un modo che le si stringeva un laccio attorno alla gola quando ci pensava. Lei, nel deserto, mentre tutti le voltavano le spalle. Solitudine.

Sì, aveva imparato a reggerla bene. Però, però adesso aveva bisogno di un po’ di vino per sfumare un po’ la sensazione cruda.

Aprì il frigorifero. C’era solo una lattina di birra. ‘Merda’ pensò ‘Questa è acqua ’

Scivolò in salotto. Sua madre dormiva già della grossa, e poi la conosceva abbastanza per sapere che non sarebbe scesa giù fino alla mattina dopo.

Aprì lo sportello degli alcolici per le occasioni importanti (che in realtà non accadevano mai, visto che Carla Giusteni aveva pochissimi amici). C’erano diverse bottiglie di Gin muffito, un paio di Martini e una bottiglia da mezzo litro di porto.

Iari la prese con fare circospetto e richiuse l’anta. Era una di quelle bottigliette che vendevano al supermercato vicino scuola, le aveva già viste. La mattina dopo ne avrebbe semplicemente comprata una uguale, e naturalmente sua madre non si sarebbe accorta di nulla.

Era da diverso tempo che lo faceva. Prendere qualcosa di forte la sera, di nascosto. All’inizio beveva una mezza bottiglia e se ne andava letteralmente di testa. Poi aveva cominciato con una bottiglia intera. Le ci era voluto tempo per abituarsi. Adesso buttava giù mezzo litro di Porto e restava semplicemente brilla. Senza non si sentiva bene. Aveva bisogno di circuire le emozioni negative, i ricordi e poi mandarli giù insieme al porto, nello stomaco.

Iari andò a sedersi proprio di fronte al camino, lasciandosi al fianco le stampelle. Si allungò sul divano e ingollò un sorso di vino. ‘Non male ’ in realtà le faceva schifo. Ma era un ottimo modo per distrarsi. Dopo tre sorsate iniziò a fare effetto. La vista le si annebbiò, la nebbia ridiscese, piano, calda e leggera.

 

“Giusteni”

“Giusteni! Ma mi senti o no? E’ con te che stò parlando”

Iari sollevò la testa dal banco. Aveva la guancia schiacciata per metà. Le lezioni della professoressa Marelli erano di una noia incredibile. In più la matematica non era mai stata il suo forte. L’insegnante aveva sempre fatto in modo da metterle i voti peggiori. Per quanto provasse ad applicarsi.

Sentiva un certo astio da parte di quella donna. Ogni volta che entrava in classe la squadrava da capo a piedi senza un preciso motivo. Una volta aveva raccontato con fastidio questa cosa a sua madre.

“Bè, ma è ovvio, se vai in giro vestita come una zingara” aveva replicato Carla Giusteni con uno sbuffo di impazienza.

Iari si guardò. Quella mattina aveva un dolcevita grigio, una gonna nera a fiori e gli stivaletti scuri. Che giustificazione aveva stavolta per tormentarla?

“Giusteni, se sei ancora con noi,  mi serve il tuo certificato di idoneità per andare in piscina la settimana prossima”

Iari prese il foglietto per metà stropicciato dalla tasca anteriore della sua borsa e glielo porse. La Marelli lo infilò tra un pacchetto di carte nel suo fascicolo.

“Arrivederci, ragazzi” Disse mentre la campanella dell’intervallo suonava.

Iari mise la sua roba in borsa e lasciò i libri per le ore successive sotto il banco.

Si fermò in cortile. Mentre si sedeva su di una panchina e ci appoggiava sopra le stampelle, si avvicinarono Michele Cervi e Paolo Battistino.

Michele era un suo compagno di classe. Portava i capelli bruni in un taglio all’ultima moda, una maglietta all’ultima moda, dei vecchi pantaloni all’ultima moda e degli occhiali, immancabilmente all’ultima moda. Considerato che il cielo era cupo e carico di nuvole, Iari restò perplessa riguardo l’utilità di questi ultimi.

Paolo, il suo fido segugio (anche lui caratterizzato dagli accessori sopraccitati), si differenziava dall’amico per l’aspetto fisico. Michele era alto, bruno e con gli occhi chiarissimi. Paolo invece era di media altezza, capelli chiari e occhi scuri. Entrambi ostentavano un portamento superiore.

In che cosa consistesse poi questa superiorità Iari non lo capiva. Ma tutto sommato non gliene poteva fregare di meno. Vivi e lascia vivere. Anche se era sicura che il giorno prima fosse stato lui a farla cadere.

Cacciò dalla borsa il panino al salame e stava per addentare un morso quando appunto Paolo si sedette accanto a lei. Michele le si piantò di fronte con un sorriso beota e gli occhiali calati sul viso.

“Giusteni, domani andiamo in piscina insieme! Non sei contenta?” esclamò con una voce in falsetto. Iari lo guardò con scarso interesse.

“Non mi cambia la vita”

Michele si rivolse all’amico. “Io ho il costume rotto qui davanti. Tu ce l’hai uno da prestare, Paolo?”

Paolo scosse la testa.

“Ah.. allora le ragazze devono stare attente” disse, fissando Iari.

“Giusteni, mi presti il tuo tema di storia dell’arte? Io non ho ancora finito il mio”

“Non so che farti”

Paolo la guardò con disprezzo.

“Puttana” mormorò tra i denti dopo aver girato la testa.

“Cos’hai detto?”. Iari si sentì ferita. Peggio, disgustata. Paolo non rispose.

 “Cos’hai detto?”

“ Ho detto che volevo il tuo compito”

“No, quello che hai detto dopo”

“Ho detto che volevo il tuo compito”

“No, non è vero”

“Che succede qui?”. Una voce bassa alle loro spalle interruppe la discussione. Iari riconobbe in quel tono Enrico De Mara, un ragazzo che frequentava la sua stessa classe a cui voleva molto bene. Era stato la prima persona cordiale, se non l’unica, che aveva conosciuto durante quei quattro mesi di scuola.

Enrico era amico di tutti, per naturale ironia della sorte o per spiccato istinto d’adattamento.

“Mah, nulla” rispose Paolo.

Michele continuò a fissare Iari.

“ Giusteni non vede l’ora di vedere il mio costume” disse scoppiando in una risata beota insieme all’amico.

“Taci, per piacere, idiota”

“ Sarò idiota come dici tu, ma io al contrario di te, Giusteni, almeno una ragazza ce l’ho”.

Iari rimase con il suo panino a mezz’aria senza replicare. Le salirono le lacrime agli occhi, ma non avrebbe pianto lì davanti per tutto l’oro del mondo. Senza una parola raccolse la borsa, si rimise sulle stampelle e se ne andò facendo forza sulle braccia per camminare il più veloce possibile.

Le tornarono in mente delle sequenze veloci, come spezzoni. E quella sera in macchina.

Mentre addentava rabbiosamente il panino non poteva fare a meno di pensarci. Ormai il suo cervello lavorava da solo.

E da solo ritornò  a quella sera che non poteva, non poteva dimenticare.

Aveva finito di studiare, era appena scesa di casa con Giovanna. Erano amiche da quanto? Da una vita, incalcolabile. E le voleva un bene dell’anima perché Giovanna la accettava così com’era, con tutte le sue manie, i difetti, le esagerazioni che erano parte integrante della sua natura.

La sua Giovi. Da quando se ne era andata l’aveva sentita sì o no due volte. Ed erano passati quasi cinque mesi.

Avevano fatto due passi in centro, poi erano andate a stare al consorzio per un pò. Era lì che stavano tutti, la sera. E poi era arrivato Mirko, con una sgommata, con la sua ford vecchio modello.

Era sceso dalla macchina e l’aveva strattonata. Era ubriaco.

“Tu vieni con me adesso!” aveva urlato, senza un motivo, senza un motivo.

Non era volata una mosca. Tutti vedevano che Mirko era impazzito e nessuno sapeva cosa fare. E poi, così all’improvviso lui aveva abbandonato quell’aria da cane rabbioso e l’aveva abbracciata. “Iari, Iari, io non so cosa devo fare. Tu mi vuoi abbandonare, Iari” aveva pianto tanto disperatamente… Iari non capiva che cosa gli fosse successo. Solo fino a ieri avevano riso insieme.

L’aveva seguito in macchina. Avrebbe guidato lei fino a casa, tanto la patente l’aveva quasi presa. E poi non li avrebbe fermati nessuno. Non poteva lasciare che ritornasse a casa da solo. Aveva paura che gli succedesse qualcosa.

L’aveva fatto sedere sul sedile accanto, e lei al volante. Ma a metà strada lui aveva perso di nuovo la ragione con la stessa immediatezza di prima. Le urlava di fermarsi, e lei gridava che non poteva fermarsi in mezzo alla strada. Aveva parcheggiato alla prima piazzola.

“Fammi guidare” aveva detto lui, con gli occhi infuocati

“No, tu..”

“Fammi guidare!”

Era sceso dalla macchina, aveva aperto il suo portello e l’aveva trascinata fuori per i capelli.

“Fammi guidare!” aveva gridato mentre la colpiva sulle braccia.

“Fammi” dandole una gomitata nello stomaco.

“Guidare!” Le aveva colpito il viso.

Poi si era seduto al posto di guida. “Entra”

Iari non aveva potuto fare altro. Senza una parola era rientrata e aveva chiuso il portello. Aveva paura e si sentiva umiliata. Con il dorso della mano si era asciugata il sangue che le colava dalla fronte. Le aveva fatto male e l’aveva umiliata. Lo aveva osservato mentre guidava con lo sguardo fisso sulla strada, e quella paura si era trasformata in una fottuta rabbia. Sul cruscotto c’era il suo lettore CD, quello che doveva rottamare. Lo aveva scagliato contro di lui con un grido disumano. Lui aveva annaspato.

Allora Iari aveva avuto paura che potesse davvero ammazzarla. Gli aveva tirato addosso dei dischi, alla cieca, ed uno di questi lo aveva preso in faccia.

Mirko aveva battuto la testa contro il volante. La macchina contro il Guardrail. Iari aveva trovato appena il tempo di pensare che tutto quello, tutto quello era successo senza un motivo.

Poi, il buio.

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Capitolo 2
*** L'anima di carta ***


L’autobus di ritorno era straordinariamente affollato. Capitava solo durante le feste patronali, quando i cittadini scendevano in campagna a festeggiare.

Iari decise di aspettare che scaricasse tutti e poi tornasse indietro. Sarebbe arrivata in ritardo per il secondo giorno di seguito, ma in fondo, cosa importava?

Saltò sulla prima circolare che portava in centro. La gente che ci stava dentro si poteva contare sulle dita di una mano. Un immigrato sedeva sul sedile più vicino. Aveva in mano una fisarmonica, e con gli occhi scorreva le righe di uno spartito poggiato sulle ginocchia.

Poco più in là suo figlio l’osservava con sguardo compunto. Era un bambinetto con la pelle scura e gli occhi grandi. Il suo aspetto era così triste che Iari distolse lo sguardo.

Solo allora si accorse di lui.

Sfogliava un volantino rosso e azzurro, il braccio appoggiato al finestrino. Di tanto in tanto il suo sguardo si soffermava su di un punto. Aggrottava le sopracciglia per un istante. Poi continuava a leggere.

Iari si avvicinò lentamente sulle sue stampelle traballanti. Sperava che lui alzasse lo sguardo, ma era così preso da quella brochure che non si sarebbe accorto di nulla.

“Ciao” disse Iari.

Il ragazzo sembrò preso alla sprovvista. Ripiegò frettolosamente il volantino e lo infilò in cartella. Ma non abbastanza velocemente. Iari riuscì a sbirciare di sfuggita il titolo: ‘ Ammissione alla Scuola Normale ’ prima di sedergli accanto.

“Ciao” disse il ragazzo.

“Così vuoi andare all’università Normale?”

Lui, evidentemente preso con il piede in fallo, non potè nascondere la sorpresa.

“Bè.. io.. era un’idea” ammise.

“Anche io vorrei che mi ci prendessero” esclamò Iari con slancio. Non era vero, chiaramente. L’aveva detto semplicemente per evitare che si sentisse in imbarazzo.

“Oh, fantastico” replicò lui “bè, sai, gli esami sono duri a quanto ho saputo. Non credo che riuscirò a passarli”

Iari annuì. Aveva sentito parlare dei test d’ingresso della Normale. Conosceva una persona che li aveva passati tutti, eppure la memoria la prendeva in giro. E lei non ricordava di chi si trattasse.

Il ragazzo si rigirò la cartella tra le mani. Aprì la cerniera della tasca anteriore e cacciò un pacchetto di Diana blu. Invitò Iari a prenderne una.

“No, grazie”

“Lo so che le Diana fanno schifo, ma sono quelle che costano di meno”

Iari rise. “No, figurati. È che proprio non fumo”

Il ragazzo inspirò una boccata, di gusto.

“Ah, meno male”

Una voluta di fumo gli scivolò giù dalle narici.

“Allora” disse Iari “Non mi hai ancora detto come ti chiami”

Il ragazzo la guardò ed accennò ad un mezzo sorriso. Era strano a vedersi sulle sue labbra. Quasi non sembrava un sorriso, ma una supplica. I suoi occhi sottili si strinsero ancora di più, come esaminando qualcosa di molto dettagliato.

‘Lo so, ci ho girato intorno ’ sembravano dire ‘Cosa faccio, posso dirtelo? Posso stare sicuro? Posso fidarmi di te?’.

Ma poi sobbalzò, colpito da un altro pensiero: ‘In fondo lei mi ha dato fiducia per prima ’

“Elia Fiorani”

L’autobus si fermò di fronte ad un supermercato e poco lontano dal parco. Non era esattamente una zona centrale, ma Iari si ricordò della bottiglia che doveva ricomprare e, temendo che se ne dimenticasse, colse al volo l’occasione.

“Anche tu scendi qui Iari?”

Iari assentì.

“Io abito qui dietro”

“Io devo andare al supermercato”

“Ci vediamo”

“Ciao”

Iari scese giù dalla circolare. Era forse una delle cose più difficili da fare, per un invalido.

S’infilò dritta nel supermercato. Era l’ennesima volta che ci entrava, e sempre per il medesimo motivo. Conosceva a memoria solo una certa ala del supermercato.

Il reparto alcolici era in fondo, nascosto da uno scaffale di omogeneizzati Plasmon. In alto c’erano i drink più pesanti, i primi tre ripiani erano pieni di birre. Sull’ultimo c’era una fila di bottigliette di porto, rum e gin ordinate come soldatini di piombo.

Iari ne prese una e la portò alla cassa.

La proprietaria del negozio era una vecchia con la cuperose ed i capelli color paglia. Il naso, la pelle cadaverica e l’espressione del volto ricordavano quelle di un topino da campagna. Portava degli occhiali piccoli e ovali proprio sulla punta del naso, e suo marito, che era la sua copia al maschile (Tanto che si sarebbero detti fratelli), lavorava nella panetteria di fianco.

Il martedì la panetteria era chiusa, così lui e sua moglie sedevano uno accanto all’altra mormorando parole incomprensibili. Dal modo di gesticolare concitato, lei sembrava molto coinvolta dall’argomento. Suo marito invece continuava ad aggrottare le sopracciglia.

Iari riuscì a cogliere una parte del loro discorso.

“Sì, è venuta proprio stamattina, che coraggio. Non c’è proprio più religione!” esclamò con gli occhi spalancati “ Una chiromante proprio nel nostro quartiere! Sai, io e Mariuccia abbiamo pensato bene di parlarne con sorella Michela. Magari riesce a riportarla sulla buona strana di cristiano. Comunque qua dentro non metterà mai più piede. Per quant’è vero che mantengo le promesse fatte”

La vecchia troncò il discorso vedendo Iari avvicinarsi con la bottiglietta di porto in mano. La squadrò da capo a piedi con disprezzo e passò la bottiglia sul nastro.

“Sono cinque e quaranta” disse scandendo bene ogni lettera.

Era un’impicciona che si atteggiava ad angelo della carità. Non esitava a gettare decine di euro nei cestini della beneficenza in chiesa, di fronte agli occhi della società bene. Per poi lamentarsi degli ‘Sporchi barboni ’ seduti di fronte al suo negozio quando non era a portata d’orecchio.

Inoltre sebbene Iari fosse ancora minorenne, non aveva esitato nemmeno un istante a venderle il Porto. La supremazia del dio denaro.

Iari le porse la dieci. La donna intascò il contante e le diede il resto in spiccioli.

“Arrivederci” disse Iari. Uscì dalle porte girevoli arrancando sulle stampelle senza aspettarsi una risposta. Ma le sembrò di udire una voce mentre scompariva oltre la porta: “Quella ubriacona!”.

 

Per la famiglia Fiorani abitare in un camper sarebbe stata una benedizione. Ed invece erano costretti a vivere in una casa in costruzione da dieci anni. Una casa che così non poteva chiamarsi, che più che altro somigliava ad un campo profughi.

Stava al piano terra di un palazzo, sotto uno scheletro di due piani.

Il comune aveva dato i fondi per la costruzione. L’ingegnere aveva iniziato a mettere su il palazzo, poi era saltato fuori un problema sul terreno instabile e ne era venuto fuori che i lavori dovevano essere ‘Momentaneamente bloccati ’. Et voilà… con abile mossa qualcuno aveva fatto sparire i finanziamenti stanziati dall’amministrazione. Le solite storie di mafia; le conoscevano tutti a menadito. Non che poi il comune non ci fosse invischiato in quelle storie. Tre mesi prima era stato ucciso un assessore che combatteva l’edilizia a scopi lucrosi.

La casa stava in piedi alla buona in mezzo ad una ventina di altre costruzioni simili, messe su con lo sputo. La chiamavano ‘La valle degli scheletri ’. Una collina ampia più o meno un chilometro e quasi del tutto disabitata.

I Fiorani non sarebbero dovuti stare in quel posto. Ma questa era pura ideologia. Secondo il nostro stato ci sarebbero molte cose che non si possono fare, ma che fanno in molti. Forse si avrebbe più rispetto del caro vecchio stato se i suoi rappresentanti dessero per primi il buon esempio. Ma anche questa è ideologia.

Questa casa si svolgeva su un solo piano. Era zeppa di mobili improbabili, roba raccattata nella discarica o cose di cui nessuno sapeva che farsene. Per terra in salotto c’era un tappeto fucsia di pelo sintetico. Le scale non avevano ringhiera, e sui balconi c’era un fragile sostegno di cemento con sopra cocci di bottiglia per scacciare i piccioni.

Leo Fiorani lavorava da vent’anni in una fabbrica fuori città. Era un manovale. Usciva di giorno alle sette, tornava alle nove di sera stremato. Un tempo era stato ricco, suo padre era banchiere. Non aveva mai fatto mancare nulla a lui e suo fratello. Ma suo fratello aveva seguito l’esempio paterno, mentre lui non aveva mai amato studiare. Preso il diploma da idraulico, aveva perso la testa per Orsola ed era andato via. Nemmeno aveva lasciato una lettera.

Certo però che Orsola quei sacrifici li valeva tutti. Si erano conosciuti ad una festa. Lei se ne stava in un angolo fumoso con un mazzo di carte in mano ed un tavolino sulle ginocchia. Aveva i capelli lunghi, scuri, gli occhi sottili. Muoveva le carte con le mani lunghe. Era incantevole quella sua risata genuina. Anche a distanza di anni era rimasta la stessa: una moglie di cui Leo andava molto fiero ma che non poteva mostrare a nessuno. Come dice il detto, c’è chi ci ha il pane e non i denti per mangiare, c’è chi ci ha i denti e non ha il pane.

Ma Orsola andava per la città tutto il giorno, con le sue carte, a leggere il destino della gente. A lei non importava di nulla al mondo. Così aveva vissuto e così sempre avrebbe continuato a vivere.

Era impressionante la somiglianza tra Elia ed Orsola. Solo, si crucciava Leo, non capiva perché fosse così magro. Aveva provato in tutti i modi a rafforzare la sua costituzione così esile, quasi femminea. Tutti sforzi vanificati.

Ma poi c’era Tommaso, che era grande e forte; un ragazzo acuto e intelligente. Il suo pupillo.

E non poteva pensarci che solo l’anno prima se n’era andato di casa con un gruppo di amici a girare l’Italia. In un attimo si era visto sbattere in faccia la costante ammonizione di suo padre: “Vedrai figliolo, tutto quello che tu hai fatto a me ti si ritorcerà contro”.

Tommaso se n’era andato con quegli amici sballati, una compagnia che non gli piaceva per niente. Aveva trovato il portafogli spoglio e un biglietto di congedo sul tavolo.

Ecco cosa ci guadagnava un padre ad ammazzarsi di lavoro. Un biglietto di congedo e il portafogli vuoto. Bella vita di merda.

Quel venerdì pomeriggio Elia era tornato più tardi.

Lampo gli era corso incontro abbaiando ferocemente. Lampo era un bastardino a metà tra un setter e un cocker spaniel che si nutriva dei loro avanzi e cercava di mordere chiunque gli capitasse di fronte. A parte i suoi padroni.

Leo l’aveva visto entrare dalla veranda scansando l’animale, spegnere una cicca sotto il tacco e aprire con un calcio la porta.

“Elia, vieni qua!”

Il ragazzo si avvicinò.

“Fa vedere le sigarette”

Elia gli mise il pacchetto di Diana sotto il naso.

“Elia, spendi tutti i tuoi soldi in queste cagate.. almeno comprale buone. Vedi che non sai nemmeno comprare un pacco di sigarette?”

“Perché allora non me li dai tu i soldi per le Malboro?”

Il padre gli avvolse le mani attorno al mento e gli tirò indietro la testa.

“Non rispondere così a tuo padre”

“Va bene papà”

L’uomo mollò la presa. Elia si rassettò la cartella in spalla e salì le scale senza dire una parola. ‘Stronzo pazzoide ’. Sapeva benissimo di non essere il cocco di papà, come sapeva che per quanti bei voti avrebbe preso a scuola, a lui non sarebbe mai piaciuto. Era un dato di fatto, una certezza che non suscitava in Elia nessuna meraviglia. Ci aveva fatto l’abitudine tanto che nemmeno gli dava più fastidio.

La porta della camera di sua madre era semi- aperta. Ne usciva un pregnante odore di incensi.

Elia l’aprì cautamente. Orsola Fiorani era seduta a gambe incrociate per terra con gli occhi chiusi, avvolta da un fumo grigiastro. La luce era spenta. Ai suoi piedi erano sparse le carte da chiromante. Era raro che la trovasse a casa, e quelle poche volte che si incontravano si comportavano entrambi da estranei.

Entrò in camera e si chiuse la porta alle spalle. Un fulmine lampeggiò proprio sul suo balcone; Elia ne ammirò la bellezza. Mise sull’hi-fi un vecchio nastro americano e, penna alla mano, si accinse al suo saggio sulla rivoluzione francese.

 

Quando Iari si svegliò l’acquazzone era peggiorato. La pioggia era tanto forte che batteva violentemente sulla finestra. Sarebbe stato impossibile anche vedere ad un palmo dalla propria mano. Iari si alzò. Non aveva voglia di dormire ancora, nonostante avesse preso sonno soltanto alle due. Controllò che ora fosse sull’orologio da polso. Le sette meno un quarto. Né presto né tardi. Si arrampicò sul davanzale come faceva da bambina e guardò giù. A malapena si intravedeva l’aiuola di confine, di sotto.

Dei passi si avvicinarono alla stanza. Sua madre allungò il collo oltre lo stipite per controllare se fosse sveglia.

“Ho sentito che ti alzavi, Iari. Che ci fai in piedi così presto?”

“Non ho più sonno”

“Io vado al lavoro. Sono già in ritardo. Ci vediamo alle due”

“Ciao”

Iari aspettò che la porta d’ingresso si fu richiusa. Solo allora si trascinò in cucina con un paio di ciabatte che le calzavano troppo grandi. Vide di sfuggita la sua immagine riflessa nel coperchio di una pentola lasciato ad asciugare sul ripiano. Aveva i capelli sconvolti in una turba, le labbra un po’ più grandi del normale e gli occhi impastati.

Prese due uova dal frigo, accese il gas e ci mise sopra una pentola. Contemporaneamente tagliò un pezzo di burro e ce lo buttò sopra. Quando iniziò a sfrigolare, versò dentro il contenuto della padella e lasciò che friggessero. Poi, visto che l’albume aveva perso la sua trasparenza, fece scivolare le uova nel piatto. Emanavano un ottimo odore. Aprì il frigorifero e buttò l’occhio sulla tasca laterale. C’era una bottiglia di aranciata che aveva fatto sua madre qualche giorno prima. Ne versò metà bicchiere e si mise al suo posto. Una volta, invitando Giovanna a stare per la notte, la mattina dopo le aveva preparato le uova al tegamino. Giovanna, che non amava i mezzi termini, le aveva chiesto come facesse a mangiare quella roba americana di prima mattina.

Invece Iari la trovava un’ottima colazione: sostanziosa e saporita. Inoltre non amava i dolci.

Stava per infilzare le uova con la forchetta, una fetta di pane nell’altra mano, quando il telefono squillò.

Iari strisciò la sedia per terra e corse a rispondere. Carla Giusteni aveva avuto la malaugurata idea di far installare la segreteria telefonica dopo il terzo squillo. In genere non si faceva in tempo ad arrivare in salotto che già era partita la vocetta acuta dell’operatrice telecom. Carla non aveva ancora trovato il tempo e il modo per levare quell’aggeggio infernale.

Questa volta però Iari si precipitò letteralmente. Sollevò la cornetta proprio durante il terzo squillo.

“Pronto?”

“Posso parlare con Iari, sono Luciana Melchiorre”

Il cuore di Iari sobbalzò. Quel cognome le era famigliare.

“Sono io”

“Iari, sono Luciana”

Luciana era la madre di Mirko, una signora semplice e gentile che a Iari era sempre piaciuta. Dopo l’incidente avevano parlato a lungo.

“Volevo dirti che Mirko sta bene. Ricordi, me lo hai chiesto tu?”

“Sì, mi ricordo”

“ L’operazione è andata bene, il collo è di nuovo a posto. Abbiamo parlato proprio oggi con il dottore. Ha detto che la riabilitazione non durerà più di tre settimane. Adesso lo sta seguendo un terapeuta, ma pare che migliori a vista d’occhio”

“Capisco”

“Ma tu Iari come stai?”

“La gamba è sempre uguale, non c’è proprio più niente da fare. Ma ci stò facendo l’abitudine.

Però ti ringrazio molto per avermi chiamata, Luciana”

“Ne avevi più che diritto, tesoro. Salutami tua madre, d’accordo?”

“D’accordo, ciao”

“Ciao”

Iari buttò giù la cornetta con un groppo alla gola. Non riusciva a capire come avesse fatto a reggere quella conversazione. Alla mente le erano venuti tutti quei momenti orribili. Ma non doveva pensarci, non doveva lasciare che l’orrore prendesse il sopravvento su di lei.

Passò il palmo della mano sulla cicatrice sotto il mento.

Si sedette sul sofà e cercò di concentrarsi sul respiro. Inspira- espira. Inspira- espira.

 

Ecco, era strano il suo respiro. Sembrava quello di un animale marino, come se… come se avesse le branchie. Sollevò le palpebre. Non si era mai addormentata in quella posizione bizzarra, così, lateralmente.

L’atmosfera era rarefatta. Davanti a sé c’era il volante. Riprese lentamente coscienza e ricordò i pochi attimi prima che la macchina sbandasse. Capì. Sotto le sue ginocchia c’era Mirko, raggomitolato su se stesso. Si tastò il collo con le mani e sentì una ferita larga proprio alla base del mento. Ritrasse le mani, inorridita. Erano dipinte di rosso.

Sentì la testa che le girava vorticosamente e il sangue che rallentava il suo flusso. ‘No, vedi di stare calma. Ci manca solo che svieni, adesso ’.

Attorno a lei sentiva delle voci agitate. Sollevò il braccio. “Aiuto” sussurrò senza alcuna forza nella voce.

“E’ viva! Proviamo a tirarla fuori!” diceva una voce maschile.

Vide il viso di un uomo affacciarsi su di lei e tenderle le braccia. Lei cercò di farsi più vicina, anche se sentiva la gamba sinistra penderle dal busto come un manichino. Gli diede una mano, si sollevò cercando di non cadere. L’uomo La tirò su dalla portiera aperta.

La stesero sull’erba poco lontano. Accanto a lei ora c’era una donna bruna.

Armeggiò il cellulare nervosamente e se lo mise all’orecchio.

“Sì, un incidente sulla quarantuno. Ci sono due feriti gravi. Sì, un’ambulanza. Noi aspettiamo qui finché non arrivano”.

 

Iari aveva partecipato per tre anni consecutivi al certamen di logica matematica. Non aveva mai vinto nemmeno il più misero dei premi. Il semplice motivo che la spingeva a mettersi in competizione erano le ore che perdeva in classe con la professoressa Marelli. Era molto pesante riuscire a sopportarla di sabato mattina. Così ecco che Iari aveva trascorso le prime tre ore nella sala professori con un test di matematica sotto il naso. L’aveva lasciato quasi tutto in bianco. Che importava?

Alla fine lo consegnò al responsabile. Suonò la campanella. Iari scese giù. Non voleva stare in mezzo a troppa gente, così preferì andare a stendersi sotto uno dei larici vicini all’entrata posteriore.

Mise la borsa sotto la nuca, in modo da poter poggiarvi la testa. Buttò le stampelle accanto a sé e rimase lì per un pezzo con le mani ripiegate sotto la base dei capelli.

Di sopra non si vedevano nuvole, solo uno stormo di rondini, un mare di pois neri e il loro acuto richiamo. Le cadde una foglia sul grembo. Era larga e scura, con una serie di venature che si intrecciavano nel mezzo.

Iari la rigirò tra le mani, cogliendone le sfumature. Tra le altre foglie appese scorrevano lame di luce sottili che la colpivano. Nei punti luminosi quei rilievi sembravano vene umane, reali, viventi. In ombra non si riusciva a vedere nulla oltre al profilo minuto.

La mente di Iari passò in rassegna tutti i soprannomi, nomignoli e dispregiativi che le avevano affibbiato fino a quel momento. Si ritrovò bambina di fronte agli zii. Pupetta. L’espressione di Mirko quando la chiamava Amore. Il pescatore laggiù sul lago. Ragazzina. Giovanna che rideva e le si infossavano gli angoli della bocca. Pazza. Paolo Battistino che la guardava con disprezzo. Puttana. Padre Lucio con le sue cristianissime rigidità. Pecora smarrita. La vecchia pettegola del supermercato. Ubriacona.

No, niente. Niente di tutto questo. Non una ragazzina, non una pazza, non una ubriacona, non una pecora, non una puttana, non una bambola, non un tesoro. Non amore, mai, non per Mirko.

Iari posò la foglia per terra accanto a sé e si girò sul fianco, con il dorso rivolto all’entrata secondaria.

Accanto al cancello vide Elia, in piedi contro il parapetto con una sigaretta mezza consumata in bocca. Provò a salutarlo con la mano, ma lei stava dietro il tronco. Non avrebbe mai potuto vederla, sebbene fossero ad un paio di metri di distanza.

 Si guardava intorno, con aria circospetta. Si muoveva velocemente, con i nervi a fior di pelle.

Iari vide da lontano un ragazzo che gli si avvicinava. Non era molto più alto di Elia, ma aveva la pelle scura ed era ben piantato. Imbracciava una sacca scura con sopra una giacca di cotone pesante. Le sue guance erano spaventosamente incavate, come quelle di una salma.

Sembrava che non si lavasse da settimane. Iari lo vide avvicinarsi ad Elia e mettergli le braccia intorno al collo.

Poteva sentire approssimativamente parti del loro discorso.

“No, Elia, tu lo sai quanto costa quella roba ed io.. bè non posso certo piombare in casa di punto in bianco e chiedere i soldi a papà, così..”

“ Abbiamo già fatto questo discorso, non mi và di passare i guai perché tu devi comprare quella roba. Papà mi tiene d’occhio già da quando mi ha visto. Non ci passo di mezzo, capito?”

“Vaffanculo, Elia, cazzo di fratello sei? Sai che ti dico? Che sei un finocchio! PAPA’ HA RAGIONE DA VENDERE. Ma.. io me ne vado.. quella stronza se n’è andata. Ah, ci mancava solo questa. Questa vita non serve ad un cazzo!”

Le vene del collo gli si erano gonfiate. I suoi occhi sporgevano come se potessero esplodere da un momento all’altro.

“Senti Tommaso..”

“A te serve la vita? A cosa, poi? A prendere la media del nove quando tuo padre ti considera uno sputo nel creato? Oppure sgobbare per trent’anni per diventare uno spocchiosissimo avvocato di merda. A me la vita non serve, non mi serve!”

Il ragazzo si girò verso la strada, semideserta.

“Chi vuole una vita in svendita? Mille lire al chilo! Un bel guadagno, eh, Elia?” urlò a squarciagola.

Quando fu stanco abbastanza di gridare assunse l’aspetto smunto e cadaverico di quando era arrivato. Senza degnare il fratello di un saluto, scomparì dietro la prima curva.

Elia prese a calci il cancello. Era furioso. Ma poi ne ebbe abbastanza, e, forse senza nemmeno volerlo, scoppiò in un pianto silenzioso. Si sedette sul muretto, e strisciava i piedi per terra sollevando polvere. Quasi si vergognava per la propria debolezza.

Iari si alzò. Zoppicò in bilico sulle stampelle fino al parapetto e gli si sedette accanto.

Elia nascose il viso tra le mani. Iari gli prese le mani tra le sue e gli posò le labbra sulle sue labbra di tabacco.

Gli intrecciò le mani con le sue mani e attraverso le sue mani sentì tutto il dolore, attraverso le guance infuocate di pianto la sofferenza, e le lacrime che si facevano sue.

Scivolarono in ginocchio, e non aveva importanza quanto la ghiaia potesse ferire le ginocchia.

Premette forte le labbra sulle sue, le guance una sopra l’altra forte, così forte da mozzare il fiato.

Avvolse le sue braccia attorno alle sue spalle e premette i palmi contro la schiena.

Lui la circondò con le braccia e strinse gli occhi con gli occhi, le labbra contro le labbra, disperatamente, mentre le loro immagini si dissolvevano nella luce del primo pomeriggio.

 

Ormai aveva smesso di piovere. Le nuvole si erano diradate proprio mentre il sole tramontava.

Iari camminava cauta su un tappeto di foglie brune. Il terreno era talmente molle che le stampelle ci affondavano dentro. L’aria era pesante e cupa.

La sedia di Iari, di fronte alla quercia, era ancora gocciolante.

Lei appoggiò una stampella sull’albero accanto a sé e ci passò sopra un largo panno di feltro. Quando ebbe finito, pose un cartone proprio sotto la quercia. Sopra ci mise il quadro, per evitare che il terreno inumidisse la tela.

Lasciò l’altra stampella accanto alla prima e si sedette.

Estrasse il tubetto di porpora dalla borsa e ne versò poco su un piattino di plastica. Con il pennello, mescolò la sostanza ad una piccolissima quantità d’acqua. Ne venne fuori un composto scuro e vivace.

Le stelle avevano già riempito il cielo, quando anche il più piccolo angolo di tela fu colorato.

Le nuvole si erano allontanate piano mentre lo sguardo si Iari si concentrava sui movimenti del mantello. Senza che nemmeno se ne accorgesse, la notte l’avvolse.

Posò il pennello sulle ginocchia, senza preoccuparsi di sporcare il pantalone. Alzò il capo sopra di sé e scorse con gli occhi tutta la cupola del cielo. Erano giorni che non vedeva tante stelle e giorni che non le vedeva tanto scintillanti.

Quando ecco che un rumore la raggiunse da poco lontano, come il rumore di sasso gettato in acqua. Iari voltò la testa a quell’indirizzo. Una figura immobile, le mani strette attorno ad una canna da pesca di legno, la fissava oltre la quercia, dalla piccola radura di ghiaia.

Iari riconobbe il pescatore. Temette che scomparisse di nuovo. Così, mentre raccoglieva le stampelle e si tirava su, continuò a fissarlo.

Ma l’uomo non scomparì come Iari aveva predetto. Al contrario, vedendola avvicinarsi lanciò un fischio.

“Ehi, ragazza! Ti stavo aspettando, sai?”
Iari appoggiò tutto il peso del corpo sulla stampella.

“Andrete via?”

“ Stanotte stessa”

“ Non sarà pericoloso?” chiese Iari, subito mordendosi la lingua. Le sembrò di parlare con la voce di sua madre.

L’uomo si limitò a sollevare le sopracciglia in un’espressione scettica. La sua pelle sembrava così lucida che quasi si confondeva con le ombre pallide della luna.

“ Avete pescato una luna?”

Il pescatore ridacchiò bonariamente.

“ Eh... se è questo che vuoi sapere, nessuno di noi ha mai pescato la luna”

“Mai.. Davvero?”

“Mai”

“Ma allora, allora che senso ha stare qui ad aspettare?”

Il pescatore si fece serio.

“Prima o poi, che importanza ha? E se anche la luna fosse un miraggio, cosa conta? Un miraggio bianco giù in fondo al lago, attorno il buio. Cosa rimarrebbe di noi senza la luna?”

Iari sussultò.

“Voi inseguite qualcosa che non potrete mai avere! La vostra è solo una mezza vita! ”

Il pescatore avvicinò la sua faccia a quella della ragazza.

“ Ecco la sapienza dei ragazzi, il loro giudizio frettoloso. Tu dici che la nostra non è vita ma non hai mai provato a vedere la tua in uno specchio. E la tua, Iari, la stai affogando in quello che bevi quando nessuno ti vede quando senti il tuo spirito divorare l’anima”

Iari si ritrasse e nascose il viso tra le ginocchia. Come faceva quell’uomo a sapere delle sue abitudini?

Ma quando sollevò il viso l’uomo non c’era più. Al suo posto una brezza leggera le scosse i capelli.

Aguzzò lo sguardo verso la sponda opposta, ma dei pescatori di luna non c’era più traccia.

Erano partiti come l’uomo aveva promesso, quella notte stessa. Senza fagotti e senza mantello gli uomini della luna camminavano verso un altro porto. Iari immaginò il loro percorso silenzioso, tra deserti e città, figure evanescenti nella notte.

Mettendo una stampella davanti all’altra s’incamminò verso casa. Ogni tre passi gettava un occhio al quadro. Talvolta temeva che si bagnasse e cercava di sollevare il braccio a cui era appeso. Non le era affatto facile.

Aveva appena finito di risistemare la cinghia che vide un’ombra semi distesa tra gli aghi di pino e la schiena appoggiata alle sbarre del cancello. Iari si avvicinò.

Un ragazzo con i capelli castani un po’ troppo lunghi se ne stava con un braccio penzolante e l’altro appoggiato allo stomaco. Appoggiava stancamente la testa sulla spalla.

Elia.

Iari lo scosse piano con il piede. Sarebbe stato impossibile chinarsi, con quelle zavorre che si trascinava dovunque. Lui si svegliò e si mise lentamente in piedi. Iari aprì il cancello e lo fece entrare. Elia aveva i capelli stravolti, con delle ciocche che gli ricadevano sulle guance. Indossava gli stessi vestiti della mattina, e imbracciava ancora la borsa di scuola.

“Iari, scusami, ma ho avuto un piccolo litigio con mio padre, niente di ché” mentì cercando di assumere un atteggiamento disinvolto. “ Solo che.. solo che non mi andava di restare a casa”

Elia sorrise, e a Iari quel sorriso sembrò pieno di tutte le cose del mondo.

Tutte quelle cose che aveva amato, tutte le cose che le facevano male. Le stesse per cui sua madre aveva bisogno di credere in Dio e quella di Elia in un mazzo di carte Tutte quelle per cui Tommaso non avrebbe smesso di fare un altro tiro, poi un altro e un altro ancora. Quelle cose che stavano spingendo Mirko a smetterla di bere. E tutte quelle cose per cui Iari avrebbe promesso di pescare la luna.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

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