Sgorbi

di fedenow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Caduta ***
Capitolo 2: *** 2. Abbandono ***
Capitolo 3: *** 3. Dialoghi ***
Capitolo 4: *** 4. Grazie ***



Capitolo 1
*** 1. Caduta ***


Caduta





1. Caduta





Buonasera signori e signore, benvenuti al mio spettacolo.



Ho un nome, mi dicono che sono vivo. Io sento di essere un pezzo di vita, un pezzo di carne che si atteggia vanamente per il mondo. Un involucro di pelle che contiene – se contiene – non so cosa, ma è un materiale doloroso da portare in giro.
Mi piace farmi vedere, ho bisogno di farmi vedere, mi fa stare bene. Ho bisogno di essere riconosciuto dagli altri, che dicano “è lui”, perché ciò mi darebbe la certezza che eternamente mi sfugge. Io sono?


No, signori, non ridete, e non alzatevi dalle vostre sedioline perché lo spettacolo è pacchiano. Abbiate almeno il coraggio di ammettere che se lo fate, state scappando da qualcosa che dà voce ai vostri pensieri, a ciò che l’uomo non ha mai il coraggio di ammettere.

Ecco, guardate: l’uomo. Creatura fragile. Vaga per il mondo come un’ombra terrorizzata, fissandosi i piedi, tremando per il freddo. Percependo la propria infinità senza aver il coraggio di ammetterla. Terrorizzato dalla sua stessa natura.
È l’uomo che non chiede mai per favore e mai ringrazia, l’uomo che si subissa di parole per paura di aver il tempo di pensare, e di pensare a sé. Quell’uomo che tanto mi fa schifo. Quell’uomo che non vorrei essere. L’uomo che mi perseguita con il suo desiderio di felicità e che mi illude sempre della speranza dell’inizio della mia vita. Quello che quando mi prendono a pugni, mi fa rialzare perché io sono migliore, perché non è giusto è perché ho ragione io. Quello che non ammette che ha bisogno di aiuto, e che a volte l’unica cosa da fare è piangere.


Già, perché voi non sapete cosa vuol dire piangere. Voi piangete quando siete tristi, siete patetici. Piangere significa che ho cercato – vi giuro – qualunque cosa al mondo, qualunque, per un fine a me ignoto (ignoto, capite?) e non ho trovato risposta. E sono stato male. Male, perché il mondo non mi offriva una risposta alla domanda che non gli ho fatto. Ma lo capite? Lo capite voi? Potreste vivere, oddio, vivere!, se solo trovaste quella cosa che vi serve, ma voi non sapete cos’è, e il mondo non ve la rivela.




Io vedo volti impauriti, fossilizzati in espressioni terrorizzate di angoscia. Vedo lacrime nei sorrisi, vedo sangue che scorre dietro un gesto d’affetto. Vedo quello che la gente non ha neanche il coraggio di pensare. Vedo petti squarciati da ferite ingiuste, così grosse che, ve lo garantisco, non ci stanno! in un corpo così minuto.

Io sento la gente, sento che sta male. Sento il suo sospiro e il suo sfinimento, la sua paura di parlare, il suo isterico flusso di parole, continuo ininterrotto perenne, per non riconoscersi come qualcosa che sfugge alla sua comprensione. A volte mi sembra di sentirne i pensieri. È dolorosissimo, ve l’assicuro. È il modo più doloroso che l’essere umano possa concepire per ammazzarsi. Ammazzarsi degli altri. Non riesci ad aiutarli, ma li senti urlare, gridare, disperarsi per un’angoscia che avvolge tutto lo scibile umano. E non puoi fare niente.

Ecco, quando io piango, piango sopraffatto dalle urla del mondo, da quel ronzio che mi invade la testa fino a saturarla. Piango perché non ho il coraggio di reagire e so che potrei farlo. Piango perché vorrei essere capace di ammettere davanti a me stesso quanto cazzo è bello il mondo, ma ho paura. Ho paura. Paura.
Paura che quegli esserini che io chiamo “gli altri” altri non siano che me stesso, un clone ripetuto milioni e milioni di volte. La pura disperazione che, nel mio egoismo, qualcun altro sia come me. Schifo di me stesso quando riesco ad ammettere che quest’immenso fardello che mi stordisce giorno e notte è in realtà la cosa che più desidero, perché mi fa sentire l’unico a saper fare qualcosa.
Non sono un filantropo, sono un mostro. Forse sono la persona più meschina sulla faccia della Terra. Sono uno che soffre perché la Terra sta male, sta ancora più male vedendola soffrire, ma non esiste fuori della sua sofferenza. Se la Terra smettesse di soffrire, non sarei più nessuno, neanche quell’essere che sta malissimo adesso perché non ha il coraggio di aiutarla.

Voi sentite il mondo, diavolo!

Come è possibile che quel qualcosa non vi voglia?


E ora capite cosa vuol dire polifonia? Vuol dire vivere tutte quelle vite, guardarsi intorno e vivere in ogni cosa, riscontrare i propri battiti in ogni altra realtà esistente, con il terrore di non essere presto più nessuno, nel caso tu ora lo sia. Diventare la massa, uno dei tanti sofferenti. Diventare uno che ha bisogno d’aiuto, e stare peggio.
Mi piace essere compatito, anima. Faccio paura e ho solo voglia di dormire, morendo lentamente. Sono l’oggettivazione della debolezza in un involucro di piombo.


Scrivete pagine e pagine di storie senza sentirvi protagonista. Urlate perché non vi rispondono. Alla fine l’unica cosa che vi resta è l’amarezza della vostra passività, essere meschino, e piangere. Piangere tutti i sacrosanti attimi della vostra vita. Senza versare lacrime, uccidersi quotidianamente ripetendovi che un giorno voi vivrete, vivrete, vivrete.
Sentirvi esplodere il cuore e ricucirlo pezzo a pezzo, brandello dopo brandello. Percepire qualcosa, delle voci,  che sgorgano da ogni singolo poro della vostra pelle. Sempre. Dappertutto. Vorreste essere stolti, davvero, per non capire tutto questo.


Vorrei solo rinascere, e non essere l’esagerazione stessa del mio pensiero, e cessare la mia folle corsa alla sofferenza. Non sei Dio, non sei la Terra. Senti tutto il mondo, ma quel “voi” non lo puoi sentire. Sei un essere mutilo, panteistico figurino della natura. Ti esplode il cervello, mentre il vuoto sotto di te è allettante. Vuoto. Sei vuoto.




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Capitolo 2
*** 2. Abbandono ***


2. Abbandono





2. Abbandono





Eccoti qui. Come sempre, come al solito. A fissare lo stallo della tua vita.
Niente più riflessi di parvenze di gioia. Uccisa dalla normalità tanto agognata – di questo, sì, forse ti sei pentita.
Le dipendenze che non vuoi.
Le cose che non saprai.
Il fatto che non sei ancora pronta, e questo lo sai.
La rabbia. Il dolore. Semplicemente l’assenza.
Ed è inutile gridare alla vita quando non hai più voce. Quando nessuno ti può sentire. È come mettersi i vestiti solo davanti allo specchio.
E quel sorriso che comincia a pesare. Quelli che non riesci a dare. La tua voglia assurda di (ri)cominciare.
Le frasi a metà delle canzoni. Perché, sì, un pezzo va bene, ma l’altro no!
E il dire “Mi manchi” che non si può sapere, tabù.
Davvero ti chiedi come ce la farai, e se l’uomo è fatto per soffrire o no.
Le frasi scritte e cancellate: la tua vita tradotta in lettere.
Ma è colpa mia se mi piace guardare il cielo e gli alberi a primavera?
Sì.

Ti prego, se dall’iperuranio della mia mente mi stai ascoltando, lasciami stare.
Lasciami andare.
C’è davvero un punto in cui non ce la faccio più, e mi sembra sempre questo.
Mi credi se ti dico basta? Basta! Ho bisogno d’aria, non di te. Davvero, stavolta davvero.
Forse è per questo che non mi piaccio.
Non ce la sto facendo a fare quanto volevo. Scusami, mi sto rimettendo davanti.
Mi sembra davvero di essere arrivata alla fine. E alla fine devo ritornare a me. Possibile che ti abbia già vissuto tutto? È già finito?, mi chiedo mentre mi accorgo che non esiste il soggetto di questa frase.
E se sto male è perché non posso più dire “L’ho fatto per te”. Perché questo, no, lo  faccio per me.
Davvero. Ciao.




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Capitolo 3
*** 3. Dialoghi ***


3. Dialoghi



3. Dialoghi




- Buongiorno! E tu  come ti chiami?

Ed il sorriso si congela sulle tue labbra.
Sciocca bambina, ti sei innamorata. Sei giunta a questa conclusione dopo un’attentissima e puntuale riflessione. Mentiresti se dicessi che non avresti voluto che fosse così. È una delle cose piene che hai sperimentato della vita.
È il tuo dolore, che nessuno ti può toccare. Giù le mani dal tuo dolore!
Il problema è solo che non sai più dove cominci tu. C’è, ci deve essere un discriminante! È logico! Insomma, dove cominci? Due anni fa? Tre? O lì sei finita?
Cos’hai fatto, prima, della tua vita? E dopo? E adesso (che sarebbe dopo il dopo)? Insomma, cos’è lui e cosa sei tu?

Allora, innanzitutto comincerei dicendo che non c’è un noi. No. E poi, siamo due persone diverse! Ma che domanda è? Ed aggiungerei che mi sento stupida a pensarci ancora.

Secondo me sei solo ingenua, tranquilla. Quindi lui non c’è in te? Bene, saresti felice. Invece il problema è che non sai più cosa c’è di te in te, ormai, e cosa invece è lui. Ti senti un informe ammasso di sensazioni, che non sai più se sono tue o di qualcun altro, del mondo intero o di lui.

Ma lui non esiste! Cioè, esiste, ma non esiste “per me”!

Ma lui è te! Non mi dire che non ci credi davvero! Non la senti quella presenza che scivola, scivola nelle tue vene, si fa strada fino ai capelli, permea ogni tua cellula, ogni tua fibra, ogni momento della vita? Che ti dà la forza fisica per svolgere le più basilari azioni, che ti nutre dal tuo stesso interno? È intrinseca in te e non te ne accorgi…

Tu parli del mio sangue.

Sicura che siano due cosa diverse?

Cioè, tu vuoi dire che io sono costituita da lui? Ma è assurdo! Sarei solo lui! E cosa sarei io? Sarei qualcosa? Non sarei niente, solo io, io e basta? Mi stai negando l’identità!

È questa, proprio questa, la tua paura più grande.

- Scusa? Il tuo nome?

Guardi l’impiegato riscuotendoti dai tuoi pensieri. È visibilmente infastidito, perché stai rallentando ulteriormente la fila alle tue spalle.
Lo fissi intensamente con occhi vacui, la bocca semi-aperta. È sulla trentina, capelli scuri, non porta la fede. Immagini che sia fidanzato, che stasera andrà a prendere la sua ragazza e faranno l’amore. Incorreggibile. Fissata? Vergogna.

- Ma stai bene?

Ah, questo sinceramente non lo so!, pensi mentre ti viene da ridere.
Il tuo amico se ne accorge. Ecco, questo non doveva succedere.

- Senti, non ho tempo da perdere! Se sei qui e hai bisogno, mi dici il tuo nome. Altrimenti vai via, perché ci sono altre persone dietro di te, che hanno bisogno.

Incomprensione. Ecco tutto ciò a cui riesci a pensare. Non ti comprende, il ragazzo paffuto.

Il mio nome? Non lo so! Non lo so! Non lo so più, lo giuro!
Come puoi, come puoi chiederlo?
Non me lo ricordo, non lo so!
Forse…Forse io sono lui, e comunque lui non è me. È come se ci fosse la stessa persona in due corpi, cioè due stesse–persone (lui), e di conseguenza una persona è sparita, per ospitare in sé l’altra. E se ho capito bene, quella sono io. Ci sono, quindi, due “lui” e nessun “me”. Però c’è la mia vita, innegabilmente, perché, infatti, io continuo materialmente a non essere lui. E ciò mal si concilia con quanto espresso in precedenza.
 Mi sembra di fare giochi di parole, ma se ci pensi è tutto logico, a parte il fatto che io non esisto. Oh, accidenti!

È questo lo scoglio con cui ti scontri quotidianamente.

Il mio nome?

- Vorrei essere Federica.

E questo, sì, ne sei sicura, è l’unica cosa vera.







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Ringrazio, finalmente, tutti coloro che hanno recensito il primo capitolo di questa originale: Sarhita, ilarione, ginnyred (che ha resistito fino al cap. 2 - grazie!) e Mina_91: so che la storia non è facile da seguire, per cui vi spetta doppio onore!
Grazie anche a chi semplicemente passa da queste parti e butta un occhio.



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Capitolo 4
*** 4. Grazie ***


4. Grazie


4. Grazie







Che tu sia felice, davvero.


Che il mondo ti appaia come una luce di gioia incontenibile.

Che tu possa ridere fino ad avere le lacrime agli occhi. Che questi occhi possano vedere quanti più sorrisi possibili.

Che la mattina sia per te più bella della notte, e il pomeriggio della mattina, e la notte del pomeriggio.

Che la tua vita sia l’immagine della Speranza.

Che tu ti commuova davanti alle cose belle e pianga di fronte a quelle brutte. Che qualcuno ti tenga la mano quando questo accadrà.

Che tu non conosca il rimpianto, che ti si dispieghino innanzi infinite possibilità.

Che il calore dell’uomo ti avvolga nella sua sconfinata bontà; che tu possa stare bene.

Che tu apprezzi l’aria.

Che chi ti è accanto ti ami, e che tu ami.

Che ti sia sempre augurato “buon viaggio”. Che ti arricchisca e tu cresca con lui.

Che il mondo sia come tu l’hai pensato, e che tu possa vederlo.

Che alla fine tu possa dire che era ciò che volevi; che ti sia accarezzato il volto.

Che la tua bellezza si possa raccontare. Che l’uomo riesca a dire “Io sono” e non “Io ho”.

Che il mondo ti riconosca.

Che il mare ti appaia una distesa di felicità. Che tu sia senza parole per la contentezza.

Che il tuo cuore batta sempre.

Che tu faccia un tutt’uno con il mondo. Che la Terra rida, e tu con lei.

Che tu sia il presente di qualcun altro. Che sia degno di te.
Che tu sia il presente e basta.

Che tu sia il verde e l’azzurro del cielo. Che tu sia l’arcobaleno. Che qualcuno se ne sia accorto.

Che il sorriso sia il risveglio del mattino, e l’inizio del tuo nuovo Tutto.

Che tu abbia una vita bella da morire.

Che tu guardi in alto nel cielo e possa dire “Ora. Voglio ora.”









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Ecco, gli Sgorbi si concludono qui, secondo il progetto originario. Nonsense, come al solito, e giustamente. Un capitolo non slegato dagli altri, semplicemente la più sincera non-conclusione della storia a cui potessi giungere. La storia che ho amato di più, con tutti i suoi - o miei - limiti.

Grazie a chi ha letto, grazie a chi mi ha fatto sapere cosa ne pensa.
Nella viva speranza di riuscire a scrivere altro.

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