Sgorbi di fedenow (/viewuser.php?uid=26549)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Caduta ***
Capitolo 2: *** 2. Abbandono ***
Capitolo 3: *** 3. Dialoghi ***
Capitolo 4: *** 4. Grazie ***
Capitolo 1 *** 1. Caduta ***
Caduta
Buonasera signori e signore, benvenuti al mio spettacolo.
Ho un nome,
mi dicono che sono vivo. Io sento di essere un pezzo di vita, un pezzo
di carne che si atteggia vanamente per il mondo. Un involucro di pelle
che contiene – se contiene – non so cosa, ma è un
materiale doloroso da portare in giro.
Mi piace
farmi vedere, ho bisogno di farmi vedere, mi fa stare bene. Ho bisogno
di essere riconosciuto dagli altri, che dicano “è
lui”, perché ciò mi darebbe la certezza che
eternamente mi sfugge. Io sono?
No,
signori, non ridete, e non alzatevi dalle vostre sedioline
perché lo spettacolo è pacchiano. Abbiate almeno il
coraggio di ammettere che se lo fate, state scappando da qualcosa che
dà voce ai vostri pensieri, a ciò che l’uomo non ha
mai il coraggio di ammettere.
Ecco,
guardate: l’uomo. Creatura fragile. Vaga per il mondo come
un’ombra terrorizzata, fissandosi i piedi, tremando per il
freddo. Percependo la propria infinità senza aver il coraggio di
ammetterla. Terrorizzato dalla sua stessa natura.
È l’uomo che non chiede mai per favore
e mai ringrazia, l’uomo che si subissa di parole per paura di
aver il tempo di pensare, e di pensare a sé. Quell’uomo
che tanto mi fa schifo. Quell’uomo che non vorrei essere.
L’uomo che mi perseguita con il suo desiderio di felicità
e che mi illude sempre della speranza dell’inizio della mia vita.
Quello che quando mi prendono a pugni, mi fa rialzare perché io sono migliore,
perché non è giusto è perché ho ragione io.
Quello che non ammette che ha bisogno di aiuto, e che a volte
l’unica cosa da fare è piangere.
Già,
perché voi non sapete cosa vuol dire piangere. Voi piangete
quando siete tristi, siete patetici. Piangere significa che ho cercato
– vi giuro – qualunque cosa al mondo, qualunque, per un fine a me ignoto
(ignoto, capite?) e non ho trovato risposta. E sono stato male. Male,
perché il mondo non mi offriva una risposta alla domanda che non
gli ho fatto. Ma lo capite? Lo capite voi? Potreste vivere, oddio,
vivere!, se solo trovaste quella cosa che vi serve, ma voi non sapete
cos’è, e il mondo non ve la rivela.
Io vedo
volti impauriti, fossilizzati in espressioni terrorizzate di angoscia.
Vedo lacrime nei sorrisi, vedo sangue che scorre dietro un gesto
d’affetto. Vedo quello che la gente non ha neanche il coraggio di
pensare. Vedo petti squarciati da ferite ingiuste, così grosse
che, ve lo garantisco, non ci stanno! in un corpo così minuto.
Io sento la gente, sento che
sta male. Sento il suo sospiro e il suo sfinimento, la sua paura di
parlare, il suo isterico flusso di parole, continuo ininterrotto
perenne, per non riconoscersi come qualcosa che sfugge alla sua
comprensione. A volte mi sembra di sentirne i pensieri. È
dolorosissimo, ve l’assicuro. È il modo più
doloroso che l’essere umano possa concepire per ammazzarsi.
Ammazzarsi degli altri. Non
riesci ad aiutarli, ma li senti urlare, gridare, disperarsi per
un’angoscia che avvolge tutto lo scibile umano. E non puoi fare
niente.
Ecco,
quando io piango, piango sopraffatto dalle urla del mondo, da quel
ronzio che mi invade la testa fino a saturarla. Piango perché
non ho il coraggio di reagire e so che potrei farlo. Piango
perché vorrei essere capace di ammettere davanti a me stesso
quanto cazzo è bello il mondo, ma ho paura. Ho paura. Paura.
Paura
che quegli esserini che io chiamo “gli altri” altri non
siano che me stesso, un clone ripetuto milioni e milioni di volte. La
pura disperazione che, nel mio egoismo, qualcun altro sia come me.
Schifo di me stesso quando riesco ad ammettere che quest’immenso
fardello che mi stordisce giorno e notte è in realtà la
cosa che più desidero, perché mi fa sentire l’unico a saper fare qualcosa.
Non
sono un filantropo, sono un mostro. Forse sono la persona più
meschina sulla faccia della Terra. Sono uno che soffre perché la
Terra sta male, sta ancora più male vedendola soffrire, ma non
esiste fuori della sua sofferenza. Se la Terra smettesse di soffrire,
non sarei più nessuno, neanche quell’essere che sta
malissimo adesso perché non ha il coraggio di aiutarla.
Voi sentite il mondo, diavolo!
Come è possibile che quel qualcosa non vi voglia?
E ora
capite cosa vuol dire polifonia? Vuol dire vivere tutte quelle vite,
guardarsi intorno e vivere in ogni cosa, riscontrare i propri battiti
in ogni altra realtà esistente, con il terrore di non essere
presto più nessuno, nel caso tu ora lo sia. Diventare la massa,
uno dei tanti sofferenti. Diventare uno che ha bisogno d’aiuto, e
stare peggio.
Mi piace
essere compatito, anima. Faccio paura e ho solo voglia di dormire,
morendo lentamente. Sono l’oggettivazione della debolezza in un
involucro di piombo.
Scrivete
pagine e pagine di storie senza sentirvi protagonista. Urlate
perché non vi rispondono. Alla fine l’unica cosa che vi
resta è l’amarezza della vostra passività, essere
meschino, e piangere. Piangere
tutti i sacrosanti attimi della vostra vita. Senza versare lacrime,
uccidersi quotidianamente ripetendovi che un giorno voi vivrete,
vivrete, vivrete.
Sentirvi
esplodere il cuore e ricucirlo pezzo a pezzo, brandello dopo brandello.
Percepire qualcosa, delle voci, che sgorgano da ogni singolo poro
della vostra pelle. Sempre. Dappertutto. Vorreste essere stolti,
davvero, per non capire tutto questo.
Vorrei solo
rinascere, e non essere l’esagerazione stessa del mio pensiero, e
cessare la mia folle corsa alla sofferenza. Non sei
Dio, non sei la Terra. Senti tutto il mondo, ma quel “voi” non lo puoi
sentire. Sei un essere mutilo, panteistico figurino della natura. Ti
esplode il cervello, mentre il vuoto sotto di te è allettante.
Vuoto. Sei vuoto.
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Capitolo 2 *** 2. Abbandono ***
2. Abbandono
Eccoti qui. Come sempre, come al solito. A fissare lo stallo della tua vita.
Niente più riflessi di parvenze di gioia. Uccisa dalla normalità tanto agognata – di questo, sì, forse ti sei pentita.
Le dipendenze che non vuoi.
Le cose che non saprai.
Il fatto che non sei ancora pronta, e questo lo sai.
La rabbia. Il dolore. Semplicemente l’assenza.
Ed è
inutile gridare alla vita quando non hai più voce. Quando
nessuno ti può sentire. È come mettersi i vestiti solo
davanti allo specchio.
E quel sorriso che comincia a pesare. Quelli che non riesci a dare. La tua voglia assurda di (ri)cominciare.
Le frasi a metà delle canzoni. Perché, sì, un pezzo va bene, ma l’altro no!
E il dire “Mi manchi” che non si può sapere, tabù.
Davvero ti chiedi come ce la farai, e se l’uomo è fatto per soffrire o no.
Le frasi scritte e cancellate: la tua vita tradotta in lettere.
Ma è colpa mia se mi piace guardare il cielo e gli alberi a primavera?
Sì.
Ti prego, se dall’iperuranio della mia mente mi stai ascoltando, lasciami stare.
Lasciami andare.
C’è davvero un punto in cui non ce la faccio più, e mi sembra sempre questo.
Mi credi se ti dico basta? Basta! Ho bisogno d’aria, non di te. Davvero, stavolta davvero.
Forse è per questo che non mi piaccio.
Non ce la sto facendo a fare quanto volevo. Scusami, mi sto rimettendo davanti.
Mi sembra
davvero di essere arrivata alla fine. E alla fine devo ritornare a me.
Possibile che ti abbia già vissuto tutto? È già finito?, mi chiedo mentre mi accorgo che non esiste il soggetto di questa frase.
E se sto
male è perché non posso più dire “L’ho
fatto per te”. Perché questo, no, lo faccio per me.
Davvero. Ciao.
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Capitolo 3 *** 3. Dialoghi ***
3. Dialoghi
3. Dialoghi
- Buongiorno! E tu come ti chiami?
Ed il sorriso si congela sulle tue labbra.
Sciocca bambina,
ti sei innamorata. Sei giunta a questa conclusione dopo
un’attentissima e puntuale riflessione. Mentiresti se dicessi che
non avresti voluto che fosse così. È una delle cose piene che hai sperimentato della vita.
È il tuo dolore, che nessuno ti può toccare. Giù le mani dal tuo dolore!
Il problema
è solo che non sai più dove cominci tu. C’è,
ci deve essere un discriminante! È logico! Insomma, dove
cominci? Due anni fa? Tre? O lì sei finita?
Cos’hai fatto, prima, della tua vita? E dopo? E adesso (che sarebbe dopo il dopo)? Insomma, cos’è lui e cosa sei tu?
Allora,
innanzitutto comincerei dicendo che non c’è un noi. No. E
poi, siamo due persone diverse! Ma che domanda è? Ed aggiungerei
che mi sento stupida a pensarci ancora.
Secondo me
sei solo ingenua, tranquilla. Quindi lui non c’è in te?
Bene, saresti felice. Invece il problema è che non sai
più cosa c’è di te
in te, ormai, e cosa invece è lui. Ti senti un informe ammasso
di sensazioni, che non sai più se sono tue o di qualcun altro,
del mondo intero o di lui.
Ma lui non esiste! Cioè, esiste, ma non esiste “per me”!
Ma lui
è te! Non mi dire che non ci credi davvero! Non la senti quella
presenza che scivola, scivola nelle tue vene, si fa strada fino ai
capelli, permea ogni tua cellula, ogni tua fibra, ogni momento della
vita? Che ti dà la forza fisica per svolgere le più
basilari azioni, che ti nutre dal tuo stesso interno? È
intrinseca in te e non te ne accorgi…
Tu parli del mio sangue.
Sicura che siano due cosa diverse?
Cioè,
tu vuoi dire che io sono costituita da lui? Ma è assurdo! Sarei
solo lui! E cosa sarei io? Sarei qualcosa? Non sarei niente, solo io,
io e basta? Mi stai negando l’identità!
È questa, proprio questa, la tua paura più grande.
- Scusa? Il tuo nome?
Guardi
l’impiegato riscuotendoti dai tuoi pensieri. È
visibilmente infastidito, perché stai rallentando ulteriormente
la fila alle tue spalle.
Lo fissi
intensamente con occhi vacui, la bocca semi-aperta. È sulla
trentina, capelli scuri, non porta la fede. Immagini che sia fidanzato,
che stasera andrà a prendere la sua ragazza e faranno
l’amore. Incorreggibile. Fissata? Vergogna.
- Ma stai bene?
Ah, questo sinceramente non lo so!, pensi mentre ti viene da ridere.
Il tuo amico se ne accorge. Ecco, questo non doveva succedere.
- Senti,
non ho tempo da perdere! Se sei qui e hai bisogno, mi dici il tuo nome.
Altrimenti vai via, perché ci sono altre persone dietro di te,
che hanno bisogno.
Incomprensione. Ecco tutto ciò a cui riesci a pensare. Non ti comprende, il ragazzo paffuto.
Il mio nome? Non lo so! Non lo so! Non lo so più, lo giuro!
Come puoi, come puoi chiederlo?
Non me lo ricordo, non lo so!
Forse…Forse
io sono lui, e comunque lui non è me. È come se ci fosse
la stessa persona in due corpi, cioè due stesse–persone
(lui), e di conseguenza una persona è sparita, per ospitare in
sé l’altra. E se ho capito bene, quella sono io. Ci sono,
quindi, due “lui” e nessun “me”. Però
c’è la mia vita, innegabilmente, perché, infatti,
io continuo materialmente a non essere lui. E ciò mal si
concilia con quanto espresso in precedenza.
Mi
sembra di fare giochi di parole, ma se ci pensi è tutto logico,
a parte il fatto che io non esisto. Oh, accidenti!
È questo lo scoglio con cui ti scontri quotidianamente.
Il mio nome?
- Vorrei essere Federica.
E questo, sì, ne sei sicura, è l’unica cosa vera.
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Ringrazio, finalmente, tutti coloro che hanno recensito il primo capitolo di questa originale: Sarhita, ilarione, ginnyred (che ha resistito fino al cap. 2 - grazie!) e Mina_91: so che la storia non è facile da seguire, per cui vi spetta doppio onore!
Grazie anche a chi semplicemente passa da queste parti e butta un occhio.
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Capitolo 4 *** 4. Grazie ***
4. Grazie
4. Grazie
Che tu sia felice, davvero.
Che il mondo ti appaia come una luce di gioia incontenibile.
Che tu possa ridere fino ad avere le lacrime agli occhi. Che questi occhi possano vedere quanti più sorrisi possibili.
Che la mattina sia per te più bella della notte, e il pomeriggio della mattina, e la notte del pomeriggio.
Che la tua vita sia l’immagine della Speranza.
Che tu ti
commuova davanti alle cose belle e pianga di fronte a quelle brutte.
Che qualcuno ti tenga la mano quando questo accadrà.
Che tu non conosca il rimpianto, che ti si dispieghino innanzi infinite possibilità.
Che il calore dell’uomo ti avvolga nella sua sconfinata bontà; che tu possa stare bene.
Che tu apprezzi l’aria.
Che chi ti è accanto ti ami, e che tu ami.
Che ti sia sempre augurato “buon viaggio”. Che ti arricchisca e tu cresca con lui.
Che il mondo sia come tu l’hai pensato, e che tu possa vederlo.
Che alla fine tu possa dire che era ciò che volevi; che ti sia accarezzato il volto.
Che la tua bellezza si possa raccontare. Che l’uomo riesca a dire “Io sono” e non “Io ho”.
Che il mondo ti riconosca.
Che il mare ti appaia una distesa di felicità. Che tu sia senza parole per la contentezza.
Che il tuo cuore batta sempre.
Che tu faccia un tutt’uno con il mondo. Che la Terra rida, e tu con lei.
Che tu sia il presente di qualcun altro. Che sia degno di te.
Che tu sia il presente e basta.
Che tu sia il verde e l’azzurro del cielo. Che tu sia l’arcobaleno. Che qualcuno se ne sia accorto.
Che il sorriso sia il risveglio del mattino, e l’inizio del tuo nuovo Tutto.
Che tu abbia una vita bella da morire.
Che tu guardi in alto nel cielo e possa dire “Ora. Voglio ora.”
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Ecco, gli Sgorbi
si concludono qui, secondo il progetto originario. Nonsense, come al
solito, e giustamente. Un capitolo non slegato dagli altri,
semplicemente la più sincera non-conclusione della storia a cui
potessi giungere. La storia che ho amato di più, con tutti i
suoi - o miei - limiti.
Grazie a chi ha letto, grazie a chi mi ha fatto sapere cosa ne pensa.
Nella viva speranza di riuscire a scrivere altro.
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