Kurohitsugi

di _Syn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - 1. Stelle Nere ***
Capitolo 2: *** 2. Luce tagliente ***
Capitolo 3: *** 3. Kurohitsugi ***



Capitolo 1
*** Prologo - 1. Stelle Nere ***


Autrice: _BellaBlack_
Titolo: Kurohitsugi
Rating: Arancione
Genere: Dark, Introspettivo, Drammatico
Avvertimenti: Longfiction, What if...?, Shonen-ai
Numero scelto/canzone ottenuta: 17/ The world you live in
Presentazione: Questa storia potrebbe tranquillamente essere AU, tuttavia ho pensato che l'avvertimento What if fosse sufficiente. Prima di tutto: Sebastian non esiste, e se esiste sarà da qualche parte a lucidarsi gli stivali, in mancanza di argenteria inglese. Grell neanche, e se esiste starà cercando Sebastian seguendo l'odore del lubrificante degli stivali. Sarebbe più semplice, in effetti, dire che la fic coinvolge due soli personaggi principalmente (più alcune comparse più o meno importanti): Undertaker e Ciel Phantomhive. Dopo aver chiarito questo punto, passiamo avanti. Anzi no, un'ultima cosa: siccome le cose sono già intricate e non c'è il tempo di affrontare anche gli angeli ho semplificato le cose, altrimenti non sarebbero bastate 20 pagine – il limite – per narrare tutto. Spero comunque che la mia versione risulti sensata.

 

Il Conte Phantomhive ha diciannove anni e un passato oscuro con cui un becchino-Shinigami ha a che fare anche troppo. Ipotizzate per un istante che Sebastian non sia mai esistito (per i più testardi XD) – o mai rivelato, che sia nel suo bel mondo di demoni a farsi gli affari suoi – e che Ciel Phantomhive non abbia mai ricevuto il marchio. Immaginate che Ciel sia stato salvato dall'intervento di uno Shinigami. Immaginate che il lavoro sia stato svolto proprio dallo Shinigami Leggendario e che abbia stretto un “patto”con Ciel. Un patto chiamato Kurohitsugi. Kurohitsugi, come ho avuto modo di scoprire leggendo Bleach, vuol dire: Black Sarcophagus. Incredibile come si possa ottenere un significato così diverso eliminando semplicemente una lettera e cambiandone un'altra *O*. Incredibile come questo possa richiamare alla memoria la figura di Undertaker.

Le vicende prenderanno avvio a partire dal futuro, da cui poi si dipaneranno vari flashback riguardo il passato dei due protagonisti. Perciò, il Ciel di cui narrerò nel presente è adulto – ha 19 anni. Undertaker ha qualche secolo, ma questa non è una novità. Se tutto ciò vi schifa, chiaramente, questa storia non fa per voi. In pace. Alexiel.
Note dell'autrice: Prima che dimentichi... Questa storia nasce grazie ai Son of Rust e alla loro canzone “The World you live in”, come già specificato quassù. Non mi sono ispirata all'intero testo ma solo ad alcuni frammenti della canzone. Penso d'aver detto già tutto nella “breve” presentazione, perciò non mi resta altro da dire, se non: buona lettura.

Ps: in realtà un piccolo accenno a Sebastian c'è, vediamo chi riesce a scovarlo! :P

Note 2: Per spiegarvi questa "apparizione" c'è il mio profilo. ^_^


 

KUROHITSUGI

Black Sarcophagus

1° Classificata al Contest indetto da signorino "L'ottocento stringe la mano al ventunesimo secolo [Kuroshitsuji & Son of Rust]


 


 

Once again in a world of my own
With nothing left to do
Everything looks different now
Reality is seeping through

(Son of Rust – The World You Live In)


 

***


 

Siamo solo luci che illuminano bugie,

siamo luci colpevoli in cerca della verità ma incapaci di trovarla.

Siamo cacciatori di un futuro che è sempre un passo dietro di noi;

stupidamente ricerchiamo ciò che abbiamo abbandonato alla vista della prima luce.

La verità ha la forma della prima lacrima di un bambino,

la bugia il sapore dell'odio liquido, che scorre come lava dagli occhi.

( © _BellaBlack_ )


 

***


 

Prologo


 

La natura umana è davvero ingannevole.”

Probabilmente qualcuno aveva pronunciato quella frase in passato, usando parole diverse ma volendo intendere la stessa cosa. Gli uomini sono inclini all'inganno. O anche: Le scelte umane mirano sempre alla manipolazione e all'inganno, anche quando gli intenti sono dei più puri.

La purezza è destinata alla corruzione.”

Non sapeva, Ciel Phantomhive, se là fuori ci fosse qualcuno che stesse pensando la stessa cosa o che l'avrebbe pensata in futuro. In effetti, mentre beveva il suo tè seduto davanti al camino, su una poltrona di soffice velluto, cercando un briciolo di calore in quella sera invernale, si rese conto che non gli importava affatto. Che gli uomini pensassero o no, non poteva interessargli. Ne aveva conosciuti di esseri pensanti, ma non aveva mai avuto il piacere di giungere a positive conclusioni. Il pensiero è decisamente sopravvalutato, avrebbe detto qualcuno di sua conoscenza.

La tazzina di porcellana finissima restò immobile tra le sue dita, mentre gli occhi disperdevano guizzi di blu nel fuoco scoppiettante. Gli sembrava quasi di sentirla, la risata di quell'uomo. Shinigami o qualunque cosa fosse. Non ricordava che gli fosse mai importato.

Sì... lui avrebbe detto proprio così, per poi abbandonarsi ad una risata leggera, come un sibilo che scioglie paura nei cuori di chi non conosce le tenebre.

Immaginava che sarebbe giunto il momento, prima o poi, che la sua stessa natura l'avrebbe ingannato, trasformandolo in ciò che era sempre stato destinato a diventare. Dopotutto, erano state le scelte del Conte stesso a condurlo a quel giorno ormai sempre più vicino.

Tornare e ritrovare il mondo, tornare e immergersi forse un'ultima volta nella realtà. Cosa sarebbe rimasto di se stesso probabilmente Ciel Phantomhive non voleva saperlo. Non ancora.


1. Stelle nere


 

La fiamma guizzante, eternamente mossa dal desiderio di raggiungere vette proibite dove il fuoco divora persino il nulla, accarezzava con la propria luce parte del volto del ragazzo in piedi, le spalle rivolte al muro sporco e ricoperto di strani segni. Evitava di poggiarvisi direttamente, per evitare qualunque contatto con quella sozzura così palese. Egli, al contrario, conservava un'apparenza candida, pura; un'aura che sussurrava nobiltà e malinconia.

La parte del volto illuminata dalla luce della torcia assicurata al muro appariva completamente immobile, impassibile. L'occhio destro era socchiuso e solo una linea di fragile blu infrangeva l'unione del pallore di quella pelle. Pareva una macchia di vernice, lasciata lì apposta da un pittore esperto. Richiamava armoniosamente il completo blu genziana che fasciava il suo corpo, elegante, privo di qualunque imperfezione.

Sembrava in attesa di qualcosa o qualcuno, giaceva in quel luogo insieme al silenzio, respirando appena. Il capo leggermente inclinato in avanti avrebbe fatto credere che la sua attenzione fosse rivolta altrove, verso pensieri lontani. Ma tutto ciò che il ragazzo in verità ascoltava era il rumore assordante della luce intrappolata in quelle tenebre. Cercava una via per entrare, per sprigionarsi e sostare lì, eternamente.

Era tutta lì l'attenzione di Ciel Phantomhive.


Dall'altro lato della torcia, rumoroso come il cigolare di una porta che si chiude per l'ultima volta, si avvicinava una seconda persona. L'atmosfera vagamente dorata rimandava l'immagine di un uomo alto, dipinto nel nero delle sue vesti. Capelli lunghi e grigi si univano al rosa chiarissimo, un occhio attento avrebbe detto “bianco”, della pelle, muovendosi appena in quel luogo attraversato dall'immobilità. Eppure, era possibile percepire un leggero rumore: sinistro, ipnotico, paralizzante. Gli occhi celati dalla frangia lunga e irregolare, forse per un intuito incomprensibile, erano sicuramente ancorati alla figura sottile e silenziosa del Conte.

Le unghie placcate di nero, affilate probabilmente, graffiavano lungo il muro, intaccando ulteriormente quel silenzio che pareva dire addio e bentrovato contemporaneamente. Allo stesso modo, i denti bianchi, lasciati scoperti dalle labbra sottili e bagnate da un velo quasi invisibile di saliva, distruggevano il buio, rendendo vane persino le speranze della luce. Non era luce quella che fuoriusciva da quelle labbra, ma non era neanche ombra.

L'unico in grado di dare voce a quel mistero era Ciel Phantomhive, ancora e ostinatamente immobile al proprio posto, a un soffio dal muro. Le ombre silenziosamente abbracciate l'una all'altra mormoravano ipotesi e segreti. La luce imprigionata e debole piangeva lacrime prive di sapore, ancora ignorata dagli unici presenti che avrebbero potuto invitarla a entrare.

Era una legge che luci e ombre, forse all'inizio del tempo, avevano scritto sui battenti della porta che conduceva al mondo che solitamente chiamiamo “mondo degli uomini”. Fin quando l'ombra invisibile, egoisticamente rappresa attorno allo spazio vuoto e dispersa tra le iridi e il respiro, non avesse dato il permesso di entrare alla luce, essa sarebbe rimasta nel suo stato di perpetua agonia.

Un permesso chiesto agli uomini, sempre alla ricerca delle cose visibili, di ciò che si può toccare e rende solide le consapevolezze. La luce, in quel caso, avrebbe dominato. Ma non tutti ricercano ciò che la luce rende visibile; altri tengono gli occhi puntati su ciò che è ancora puro, protetto dalle ali spezzate del buio. E' lì che risiede la verità, quella che nessuno può vedere e che nessuno sa riconoscere.

Tornare all'ora del tè.” la voce dell'uomo vestito di nero rallegrò le ombre “Proprio da voi, Conte.”

L'immobilità del nobile scomparve quando i suoi occhi persero finalmente la pallida protezione delle palpebre. Il blu, due sfere nel buio, sciolse la propria regalità sullo sguardo nascosto del becchino.

Non credo che quell'appellativo mi appartenga ancora.” replicò lui, pur sapendo che quella era un'identità che a stento egli stesso era riuscito a ripudiare. “Ma non posso dire lo stesso di te, Undertaker.”

Non posso liberarmi del mio appellativo, Conte. Non potrei neanche se lo volessi.” replicò Undertaker, impaziente di avvicinarsi all'altro. Eppure, evitava di toccarlo, resistendo. Anni prima sarebbe stato così semplice finire alle sue spalle e sfiorargli una guancia, oppure arrotolare intorno alle dita quei capelli.

Condanna o privilegio...” sussurrò Ciel, vagheggiando il significato di quelle due parole. Il significato dell'una toccava quello dell'altra come le onde del mare si infrangono sul bagnasciuga per poi tornare indietro, in un ciclo eterno quanto il tempo. “Condanna o privilegio...”

Suppongo, Conte, che questo cambi da individuo a individuo.”

Oppure da compenso a compenso.” disse tagliente il nobile, azzardando un'occhiata fuori dall'ombra. Le labbra del becchino si curvarono armoniosamente.

Quali compensi credete siano destinati, a noi becchini?”

Alla luce il tuo stato è quello di becchino. Il tuo compenso si attiene alle leggi del mondo.” iniziò, allontanandosi ancor di più dal muro. Ormai, cresciuto più di quanto ricordasse, Ciel poteva perfettamente osservare il viso di Undertaker senza sforzare le punte dei piedi o lo sguardo. C'era qualcosa di diverso, oppure erano i suoi occhi a guardare tutto da un'angolazione diversa da prima. “Ma nell'ombra c'è più di quanto gli altri possano vedere.” concluse, senza imbellettare il discorso o fare giri di parole inutili. In quello non era affatto cambiato. Ma lo stesso Undertaker dubitava che il Conte fosse effettivamente cambiato. Forse il mondo, per quanto impossibile e fantasioso suonasse, ma non il Conte.

Tra gli altri, Conte, la vostra umiltà,” rise impercettibilmente “vi spinge a inserire anche il vostro nome?”

Se l'avessi fatto, in passato come ora, oggi non saremmo qui, becchino.”

Oh, sì, il Conte era ancora così divertente da costringerlo e tenere gli occhi chiusi per non farli bruciare.

E sarebbe un immenso dispiacere per entrambi.”


***



Undertaker aveva sempre tenuto in gran considerazione gli esseri umani. Pur non essendo divertenti allo stesso modo del Conte, riuscivano a strappargli una risata di tanto in tanto, - senza farlo apposta, chiaro – oppure a lasciarlo in silenzio; magari di fronte a una chiesa durante un funerale, insieme a tre fratellini che si chiedevano il perché della vita e della morte 1. Non domande filosofiche, profonde e piene di opinioni strappate dalle labbra di scrittori o personaggi importanti ormai belli che morti. Solo con occhiate curiose, “perché” assillanti seguiti da una tiratina alla maglietta sdrucita del fratello maggiore e uno scappellotto dovuto all'esasperazione.

A ben vedere, il paradigma dell'esistenza era tutto lì. Esisti per assistere alla morte, in una giornata di sole, e neanche sai perché. Esistere, alla fine, non significa crescere in una famiglia che ti coccola dalla mattina alla sera, o prendersi un ceffone da tuo fratello perché non sei abbastanza sveglia da capire le cose da sola. Esistere è solo avere la luce negli occhi, inconsapevoli, tuttavia, della propria immensa cecità. Vivere, poi, è tutta un'altra cosa. Ma quello, giustamente, non era l'ambito di Undertaker.

Per questo al becchino non dispiacevano gli umani, a differenza del Conte. L'ignoranza delle cose importanti e la piena conoscenza delle cose inutili è tutto quello che rendeva divertenti le giornate del becchino. Poteva guardarli e sapere che tutti, prima o poi, sarebbero finiti tra le sue fatali braccia, pronti a ricevere l'addio. Forse solo allora avrebbero spalancato i veri occhi, comprendendo ciò che avevano sempre avuto davanti allo sguardo. Ma alcune stelle sarebbero rimaste sempre nere. Sì, pensò Undertaker. Si dice che nel momento della morte tutta la vita ti passa davanti. Forse è vero, ma più veritiero di questa vaga affermazione è che il buio che ne deriva trova la propria causa in quell'ignoranza umana. E la finale luce bianca, per quanto potente possa essere, non scaccerà mai tutte le tenebre.


Il giovane Conte Phantomhive, anni prima, doveva averle viste molto da vicino quelle stelle nere. Forse, mentre sentiva la vita fluire via, aveva cercato di tendere le braccia nello sforzo di toccarle, prenderle e sbucciarle come fossero mele, per poi morderle e lasciarsi invadere dalla conoscenza perduta.

Era semplice immaginarlo, anche perché aveva partecipato a quel suo supplizio. Ma solo per un po'. Poteva ricordare bene quella notte e, per quanto suonasse banale e scontato, ricordava che fosse buia e tempestosa.


My greed, my fear, my tears won't come 2

I bambini possiedono dentro di sé una innocente forma di avidità. Desiderano le cose, ma non in maniera malata, ossessiva, che porta più guai che altro. Desiderano qualcosa che neanche conoscono, desiderano semplicemente per il gusto di desiderare, ma nessuno si sognerebbe mai di additare quella inclinazione come un peccato mortale. Fa parte del corso naturale dell'esistenza, con il tempo si affina, stemperato dalla buona educazione o dal buon senso. Certo, spesso parte del lavoro spetta ai genitori, ma la natura umana, oltre a essere ingannevole, si avvale di altre caratteristiche che neanche la migliore delle educazioni può sopprimere.

Siamo esseri umani abituati a soffocare la nostra reale natura, anzi, a mascherarla. Per questo l'inclinazione al male o ad abitudini dai più definite devianti – una soggettività di opinioni resa oggettiva da quel grande male che si chiama civiltà (forzata) – prima o poi torna a ruggire. Come un leone che azzanna il collo del proprio ammaestratore.

E pare strano, ma nessuno si rende conto che tale devianza altro non è che la stessa avidità che provavamo da bambini. Solo, è avvelenata da quello che diventiamo quando la civiltà compie il proprio lavoro come non dovrebbe. E' giudicata con tanta severità solo perché sembra innaturale in un uomo adulto e abituato al controllo. E' come guardare una quarantenne che cerca di entrare negli abiti che indossava a tre anni. Folle.

L'avidità è una follia che tutti coltivano e al tempo stesso falciano, per poi nascondere sotto il cuscino.

Undertaker, soffocando una risata per poi lasciarla rimbombare attraverso le viuzze londinesi, si domandò quanta di quella follia fosse nascosta sotto i reali cuscini della regina Vittoria.


Anche Ciel Phantomhive doveva aver avvertito quella innocente avidità da bambino, senza sapere che quella stessa sensazione divora il corpo degli adulti. Su di lui aveva l'effetto di una camomilla. Era un'avidità ben sfamata, poiché ogni suo desiderio infantile veniva esaudito senza che la fame diventasse troppo dolorosa. Desiderava giocattoli, attenzioni, compagnia e allegria. Era il mondo limitato di chi non è ancora riuscito a vedere quelle stelle nere, di chi non conosce l'odio e l'amore nella loro forma più pura, perciò più facilmente corruttibile. La forma d'amore che Ciel conosceva allora era quella semplice, conosciuta solo per metà, di una madre che ti bacia prima di andare a letto e di un padre che ti accarezza la testa e sorride là in alto, dove lui non poteva ancora arrivare.

Non sapeva, il piccolo figlio del Conte di Phantomhive, che quelle stelle nere sarebbero esplose prima di quanto potesse anche solo immaginare.

1 : Qui faccio riferimento alla scena dell'anime e del manga in cui Undertaker parla con i bambini che si trovano davanti alla chiesa in cui si sta celebrando il funerale di Madame Red. Ma Madame Red e il suo funerale, nella mia storia, non c'entrano nulla. Mi piaceva quella scena e l'ho decontestualizzata e generalizzata dalla trama originale. Madame Red, infatti, è ancora viva.


2 : Son of Rust, The World you live in


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Capitolo 2
*** 2. Luce tagliente ***


2. Luce tagliente


Abbandonarsi a ricordi spiacevoli, se fa male alla memoria, leviga l'anima e le ricorda che una volta giunta la fine le pene da pagare saranno più lievi.

 

Ciel Phantomhive aveva vissuto nella sofferenza senza mai fare troppo clamore, limitandosi a restarsene nella sua ombra tessuta di ricordi da pescare solo ogni tanto. Eppure sperava fortemente che la fine giungesse dolorosa e bruciante, così che non dimenticasse chi fosse e chi fosse stato. 3

Quel giorno, mentre la carrozza lo conduceva da Undertaker, la sua mente volò deliberatamente a quel giorno.



Non ricordava ogni particolare dell'inizio di quella che ad altri sarebbe parsa una semplice storia inventata. Ma rammentava ogni dettaglio di quello che era stato il dopo. In effetti, del dopo c'era ben poco da dire, ciò che valeva la pena di ricordare era la fine. Ma la sua mente sembrava sollecita ai lunghi racconti quel giorno, perciò non si curò di porle freno e lasciò che vagasse libera, mentre le ruote della carrozza schiacciavano la strada.


Probabilmente la prima cosa che sentì fu l'urlo di sua madre e il silenzio fin troppo marcato di suo padre. A distanza di anni, dovette convenire che suo padre doveva immaginare cosa stesse accadendo, perciò aveva usato il silenzio come arma, almeno per rallentare l'incedere della fine. Ma sua madre, così simile a lui a quel tempo, non poteva sapere nulla, se non che sua sorella Angelina sarebbe venuta a trovarla il giorno dopo per passare la giornata insieme. Era estate, era normale voler uscire all'aperto e godersi un po' di calore e bel tempo, così raro nella grigia Inghilterra.

Ma quel futuro era lontano dalla realizzazione che la mente di Rachel aveva immaginato, perciò sarebbe inutile soffermarsi ulteriormente.

L'urlo della signora Phantomhive distrusse la quiete notturna del maniero e, sempre a distanza di anni, Ciel dovette ammettere che quell'urlo era più simile al silenzio, rispetto al reale silenzio del padre. A volte, i rumori forti, quelli che preannunciano la dolorosa quiete eterna, risultano tali.

Silenzio.

Sì... forse Ciel avrebbe preferito che sua madre non aprisse bocca e si lasciasse uccidere senza parlare. Forse sarebbe stato più facile?

C'erano velocissimi flash, dopo. Lui che sgusciava via dal letto caldo e rassicurante, via da quella stanza ormai contaminata dall'urlo di sua madre e che ne avrebbe conservato le vibrazioni terribili anche a distanza di anni, quando il Ciel adulto, alla ricerca di sano masochismo, tornava in quella stanza – o almeno, il punto in cui tutto era successo, visto che il maniero era stato ricostruito – per ricordare.

Ricordava, e quel ricordo se l'era tenuto stretto perché altrimenti anche tutto il resto sarebbe andato dimenticato, che mentre apriva la porta oltre la quale avrebbe trovato mamma e papà, nella speranza che in quel momento Tanaka l'avrebbe svegliato, suo padre spalancava gli occhi ormai spenti e si accasciava a terra. Aveva seguito la sua caduta come se l'avesse vista al rallentatore, come quando vedi qualcosa di immensamente prezioso cadere. La prima volta, nel momento in cui cade, sembra che non passi neanche un secondo e sei già lì, in ginocchio, che ne sfiori i cocci con le mani, triste. Poi ci ripensi e ogni istante diventa talmente pesante che fa fatica a passare. Ma forse Ciel già sapeva che non avrebbe avuto il tempo di rivedere quella scena, perciò suo padre gli cadde davanti agli occhi in un'eternità insopportabile di tempo. Cadde e basta, cercando di allungare la mano verso di lui o di dirgli qualcosa. Forse era già morto quando Ciel aveva aperto la porta. Sua madre, invece, era già morta probabilmente. Se fosse stata viva l'avrebbe raggiunto, stretto forte al petto, e detto che... Niente. Non avrebbe detto niente, perché non c'era nulla da dire.

Ma Ciel non la vide, e fu solo dopo quel giorno che si chiese come fosse morta, se anche lei avesse provato a muovere le braccia verso un Ciel ancora in corridoio, che correva verso di loro. Si domandò se anche i suoi occhi fossero come quelli di suo padre, spenti e spalancati. Si rendeva spesso conto che quelle non erano domande che un bambino, un figlio, avrebbe dovuto porsi. Ma erano le uniche che gli erano venute in mente.

Ciò che venne poi fu meno traumatico per il Ciel bambino, ancora troppo giovane e prematuramente strappato alle radici dell'infanzia per vedere suo padre morire. Eppure segnò il Ciel adulto in maniera inevitabile. Il Ciel bambino, ancora troppo impegnato a ricordare l'urlo di sua madre e a trasformarlo in uno dei suoi rari incubi dovuti ai temporali – e quella sera pioveva... - non fece quasi caso alle mani grandi e pesanti che lo trascinavano fuori dalla stanza senza delicatezza, per portarlo chissà dove, mentre la casa andava in fiamme. Non ricordava neanche che tutto quel fumo l'aveva quasi soffocato, che era svenuto con un rivolo di saliva che gli usciva dalla bocca e gli aveva sporcato la camicia da notte.

Una cosa però la ricordava, prima che svenisse. Un oggetto metallico, che il solo rumore spaventoso faceva pensare a quanto dovesse fare male ed essere tagliente, che tagliava a metà una luce accecante, più accecante del fuoco, lì dove dovevano trovarsi suo padre e sua madre. O solo suo padre... Chissà sua madre dov'era.

E un po' gli dispiacque, ma questo sempre in seguito, che sua madre non fosse morta tra le braccia del papà. Non perché in quel modo sarebbe stato come se fossero morti insieme – si muore soli, dopotutto – solo perché in quel modo, forse...


Siamo arrivati.” la voce del cocchiere pose fine a ogni suo pensiero. Tanaka aprì servizievolmente lo sportello, scendendo prima di lui, e Ciel fu fuori. Era la seconda volta che tornava lì in due giorni, ma ancora non sapeva quando sarebbe stata l'ultima. Forse l'ultimo istante sarebbe arrivato quando avrebbe smesso di sentire nella testa la risata di Undertaker.

Lo tormentava, era come se l'avesse costantemente dietro le spalle, come se non lo lasciasse solo un attimo. Oppure era lui che si aggrappava a quella risata perché, dopotutto, era l'unica cosa che l'aveva accompagnato da quel giorno. Anche mentre era via, anche mentre credeva che Tanaka sicuramente sarebbe arrivato a svegliarlo e quella risata si sarebbe rivelata nient'altro che il chiacchiericcio lontano e allegro della mamma e di zia Angelina.


Benarrivato, Conte.” lo accolse Undertaker. Certe volte si ritrovava a odiare quella sua compostezza che si sposava decisamente male con il suo aspetto. Ma era un becchino e uno Shinigami, lavorava con i morti e se non li seppelliva li giudicava. Inevitabile che diventasse un essere composto, attento ai particolari e alle parole e che non risparmiasse ai suoi visitatori brividi di terrore dovuti al suo aspetto. Ma a Ciel, l'unica cosa che provocava, era senso d'attesa. Oppure fastidio. Lo sapeva che prima o poi avrebbe giudicato anche lui, ma non pensava che sarebbe stato così diverso dal prendere il tè seduto su una bara chiusa e osservare le sue labbra sorridenti, distinguendo a malapena le iridi gialle dietro la frangia.

Spero mi ruberai poco tempo, becchino.” precisò Ciel, il bastone in una mano e la fretta nell'altra. Non aveva voglia, quel giorno, di essere lì. Probabilmente aveva sbagliato a riesumare il passato proprio mentre andava da lui.

Non dovrebbe essere rilevante, Conte. O dovrei dire signor Phantomhive? Voi stesso avete detto che quell'appellativo non vi appartiene più, ormai. Quali affari vi attendono, fuori di qui?” Ciel sopportò ogni parola senza mutare espressione. Ma sembrava che il bastone volesse crepare il pavimento.

Sono stato via, i miei affari sono stati gestiti da altri, ma come ultimo membro della famiglia Phantomhive è mio dovere fare qualcosa.” rispose.

E' esattamente di questo che volevo parlarvi, Conte. Stare via per così tanto tempo...”

Non sono di certo venuto qui per conversare amabilmente, becchino. Se è per questo che avete richiesto la mia presenza, vi consiglio di rinunciare.”

Ma questo fa parte del patto, non è così? Conversare amabilmente prima che scatti l'ora.”

E a Ciel gelò il sangue. Sapeva che avrebbe parlato del patto, prima o poi. Sapeva che avrebbe dovuto affrontarlo e fare la sua parte. Altrimenti, per quale ragione era ancora vivo dopo quella notte? Per lui non c'era stata nessuna luce tagliente.


Nove anni prima non si era chiesto chi fossero quegli uomini che l'avevano strappato via dalla sua casa, uccidendo i suoi genitori e dando fuoco al maniero. Non si era chiesto “come” avevano potuto fare una cosa del genere, era ancora troppo piccolo per poter avere una visione chiara della morale, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Certo, magari esistevano bambini che sapevano già distinguere un uomo cattivo da un uomo buono, per quanto potessero esistere uomini totalmente votati al bene e uomini votati al male. Ma Ciel non aveva mai avuto chiaro quel concetto. C'era stato talmente tanto bene nella sua vita fino a quel momento che i suoi occhi blu non avevano per niente notato le ombre che, gradualmente, avevano fatto sbiadire le pareti di casa, lasciandole tristi e pronte a bruciare.

Ciel, in quel momento, si chiese solo perché. Ma un perché flebile, ancora mischiato a qualcosa che nemmeno a distanza di anni era riuscito a definire. Paura di morire? Paura e consapevolezza di non rivedere più i suoi genitori?

In fondo era solo un bambino, e per quanto potesse sforzarsi le sue paure restavano ombre, e non parole da usare per analizzare uno stato d'animo. Le paure dei bambini di capiscono dai piccoli gesti, dagli sguardi che neanche sanno di avere, da tanti altri motivi che non prevedono l'uso della parola in maniera chiara e diretta.

Ma questo non importava a quegli uomini cattivi. E il Ciel adulto, certe volte, si chiedeva cosa sarebbe successo se i suoi genitori fossero sopravvissuti e lui fosse tornato a casa dopo uno shock simile. Avrebbero capito le sue paure? Oppure avrebbero mandato avanti la loro vita come se niente fosse? Erano domande inutili, che creavano dubbi che morivano prima di nascere, perché la morte era venuta prima. E un dubbio che non ha un terreno per crescere è come il ghiaccio sottile. Basta sfiorarlo appena e si rompe, e tu finisci nell'acqua gelida, il freddo comincia a diventare insopportabile, il corpo cerca calore e il cuore batte finché può, veloce, finché non si può fare più niente. E si muore, perché il calore non è abbastanza.


Così si era sentito Ciel quando era tornato per poi andare via. Senza calore. Ma era vivo.


I primi tempi, quando ancora la confusione non sembrava volergli dare pace, non aveva pensato tanto all'accaduto. Non nella maniera in cui l'avrebbe affrontato un adulto, ma in fondo lui che ne sapeva? Magari un adulto l'avrebbe affrontata peggio di lui.

L'unica cosa a cui riusciva a pensare era che le braccia di zia Angelina erano terribilmente diverse da quelle della mamma, ed era strano, perché quando veniva a trovarli l'abbracciava sempre, ma non faceva caso a quel particolare.

La zia lo stringeva come se avesse paura di perderlo e vederlo sparire, sembrava volesse soffocarlo, invece la mamma lo stringeva come se lui fosse una promessa di eternità. Era lieve, era delicata e sentiva che in quella promessa non sarebbero mai stati divisi. Non sapeva se gli facesse più male la stretta soffocante della zia o il fatto che sua madre si fosse sbagliata. Erano divisi e non c'era nessuna promessa.

Quegli abbracci, piano piano, cominciarono a stancarlo. Sentiva qualcosa che appassiva dentro di lui, che provocava un cambiamento che aveva paura di affrontare, come quando ti fermi ad osservare un lago d'acqua pura e lanci un sasso e poi, chissà come mai, temi che all'improvviso quella superficie meravigliosa disegnata in cerchi concentrici possa diventare nera. Ciel l'aveva pensato una volta, quando era andato vicino ad un lago con suo padre. Aveva preso un sasso per imitare il papà e l'aveva lanciato nel lago. Quel sasso nero, quando era volato via dalla sua mano, gli aveva lasciato lo sporco della terra sul palmo. E se avesse sporcato irrimediabilmente anche l'acqua? Lui avrebbe potuto pulirsi con il fazzoletto bianco del papà, ma il lago come avrebbe fatto?

Era la stessa domanda che si era posto un giorno, mesi dopo l'accaduto. La sua anima, ora, chi l'avrebbe pulita?


So struggle in this world of your own
Knowing there's no way to escape the truth
Everything tastes bitter now
Nothing is fresh and nothing is new
4


Il motivo per cui si era posto quella domanda l'aveva capito solo dopo. Era ancora un bambino, nonostante quello che aveva passato, e se la sua anima aveva conosciuto una crescita fin troppo rapida e uno stato di decadenza altrettanto veloce, allora la sua mente non era riuscita a seguirla. Prima di capire perché avesse paura di avere l'anima sporca dovette rivivere, per la prima volta, quella notte.


Ho chiesto a Tanaka di preparare della cioccolata calda. Ne vuoi un po', Ciel?” zia Angelina entrò nella stanza dentro cui si rifugiava di solito, sorridendogli. Sorrideva nello stesso modo in cui l'abbracciava, senza dimenticare di soffocarlo.

Ma non lo faceva apposta, questo Ciel dovette ammetterlo. Forse aveva paura come lui, ma la paura Angelina se le teneva dentro e mandava fuori solo la forza vitale. Si chiese se sarebbe morta anche lei, nello sforzo. Non voleva che zia Angelina morisse, nonostante fosse soffocante. Non voleva che morisse semplicemente perché credeva sarebbe stata colpa sua. E fu in quel momento che comprese.


A undici anni si crede che voler bene a una persona che ne vuole a noi sia naturale e semplice, come respirare. Poi si cresce. E niente. Si cresce e basta.

Le cose naturali diventano uno sforzo che si eviterebbe volentieri e quando si capisce che ne vale la pena, di ritrovare quel senso di naturalezza, allora di comincia a marcire. Era quello che stava succedendo ad Angelina e a Ciel, solo in modi diversi. Erano a due stadi differenti, ed anche le conseguenze lo sarebbero state. Ma in fondo, Ciel già sapeva come sarebbe finita.

Perché lui, a undici anni, era già cresciuto abbastanza da capire che per lui era uno sforzo amare. Avrebbe dovuto capirlo quando suo padre era caduto, morendo, davanti ai suoi occhi. Avrebbe dovuto capirlo quando si era chiesto se sua madre fosse già morta, desiderando, se era ancora viva, che morisse tra le braccia di suo padre. L'aveva desiderato perché morire tra le braccia di chi si ama, anche se la morte la si affronta sempre da soli, dona un'indescrivibile rabbia a chi osserva la scena. E forse, se Ciel avesse visto i suoi genitori stretti l'uno all'altra, freddi e privi di vita, avrebbe capito prima cos'era quella sensazione che da allora lo tormentava. Avrebbe voluto provare rabbia quella volta, e non vedere suo padre tendere verso di lui. Era stato ipocrita? Stava morendo e sapeva che quel tendere non sarebbe servito a nulla, eppure l'aveva fatto, illudendo Ciel. Sua madre non l'aveva neanche vista, ma non aveva potuto fare altro che immaginare il suo abbraccio se fosse stata viva, per poi chiedersi se i suoi occhi fossero come quelli di suo padre, spenti e vuoti.

Avrebbe voluto odiarli, perché la loro naturale tendenza ad amarlo era svanita così facilmente... L'avevano lasciato solo. E per un attimo avrebbe voluto odiare più loro che gli assassini. Era quella la decadenza dall'anima? Oppure era solo normale provare quelle sensazioni contrastanti e distruttive?

Vomitò violentemente ai piedi del letto dopo averlo capito, domandandosi se la cioccolata calda di zia Angelina avrebbe potuto alleviare quel senso di indicibile amarezza che gli stava assediando le membra.



In quel periodo, per la prima volta in vita sua, Ciel pensò di chiedere aiuto a Dio. Se in certi momenti si ritrovava a piangere per i suoi genitori lacrime che mai scendevano per pura vergogna, perché non si riteneva degno di sfogarsi, altre si chiedeva cosa avrebbe fatto se avesse rivisto gli assassini, ormai uccisi dalla vendetta che aveva reclamato in presenza della luce tagliente. Allora sentiva le tenebre avvicinarsi e l'anima perdere un pezzo, come divorata. Era come se il suo corpo stesse cercando di scacciare un ospite indesiderato, un parassita. Oppure era il contrario? Forse era lui il parassita, quello che non aveva mai avuto un'utilità concreta. Magari stava semplicemente espellendo la parte debole. Da allora, aveva smesso di guardarsi allo specchio.


Un'altra cosa che all'inizio non aveva potuto notare perché d'estate zia Angelina non accendeva il camino, era il terrore che provava di fronte al fuoco. Gli bastava sentirne il calore anche da lontano e i suoi occhi diventavano cenere bruciata. Poi cecità totale e febbre alta, come se i nervi avessero ceduto, uccidendolo da dentro.


In un momento di delirio febbrile, mentre la zia cercava di far scendere la febbre in tutti i modi che conosceva e standogli accanto notte e giorno, Ciel fu travolto dal ricordo che aveva serbato nella memoria perduta. Quella fine che aveva cercato di cancellare con la storia dell'amore naturale, con il fatto che avesse odiato sua madre e suo padre quand'erano morti, con le fobie e gli abbracci soffocanti di zia Angelina che, proprio quando sentiva quelle memorie risalire, ricercava fino a farsi male.

Ma quel giorno era fin troppo debole e privo di difese per evitarlo.


C'era buio, un buio che non puoi immaginare neanche se spingi forte le dita sugli occhi chiusi. Poi ti senti solo stordito e vedi strane macchie nel vuoto se provi a guardare. Era un buio che forse non era fisico, ma mentale. Forse Ciel non voleva vedere, sperando che le tenebre lo conducessero il fretta alla morte. Probabilmente era una reazione del corpo, ma era come se qualcosa la stesse contrastando, perché i suoi pensieri stridevano in quel buio. Pensava che... Non gli importava più che i suoi genitori fossero morti, voleva morire anche lui; li avrebbe rivisti se fosse davvero morto, ma non era sicuro che fosse quella la ragione per la quale voleva mandare via la vita. Non era sicuro che volesse mandarla via. Non era sicuro di nulla, neanche delle sbarre gelide che sentiva premere contro il viso e le ginocchia, oppure il legno grezzo e graffiante sotto le gambe. Non era reale, nulla lo era. Non provò neanche a ripeterlo a se stesso, non aveva la forza di respirare. La gola bruciava e le palpebre erano pesanti, tanto che c'erano voluti minuti interi – forse ore, non aveva contato – per aprire gli occhi e scoprire un buio più pesto di quello che aveva conosciuto a occhi chiusi.

Una parte di lui, quella che fiocamente invocava ancora libertà, avrebbe voluto sapere dove si trovava e poi fuggire. Gli era rimasta una traccia vaga di istinto e avidità, ma così deboli da non compensare il resto. Non avrebbe nemmeno pianto, le sue lacrime non valevano nulla, né credeva di riuscirci.

In tutto quel tempo – quanto era passato? Un secolo? - aveva persino dimenticato di avere paura. Non era paura quella che aveva sentito prima, si diceva, se provava a riflettere negli anni. Era solo una confusione così disordinata e priva di senso che gli aveva lacerato il cervello, costringendolo a spegnere le luci, lasciando che fosse qualcun altro a guidarlo. O a mandarlo a morte. Non faceva differenza ora che si trovava lì.

Proprio mentre pensava di rannicchiarsi contro le sbarre, in una posizione più comoda, una luce forte gli bruciò gli occhi. Avvertì un dolore forte che si propagò fino alla testa, costringendolo a vomitare come un animale sulle sue stesse gambe.

Sentì voci, passi, sbatacchiare di qualcosa. Sentiva il suo respiro, infine, per la prima volta. E seppe una volta per tutte di non stare sognando, perché quando sognava non si concentrava mai sul respiro.

Respirava... faceva male, ma respirava. L'ossigeno poteva ancora sorreggerlo e donargli un poco di lucidità. Solo un po', perché quella luce forte l'aveva accecato. E inspiegabilmente si ritrovò a sentire la mancanza del buio totale di prima.

L'ultima cosa che vide prima di venire cacciato fuori da quella gabbia fu, per la seconda volta, quella luce tagliente – o la luce veniva semplicemente tagliata? Che importa, pensò. Diversamente da quando l'aveva vista al maniero, ora quella luce gli sembrava macabramente bella, come qualcosa da afferrare, anche se a giudicare dall'aspetto gli avrebbe lacerato le mani. Eppure sentì di dover correre il rischio perché, nella confusione totale e nel disordine della mente, aveva finalmente trovato un pensiero serio a cui aggrapparsi: devo vivere. E desiderò vendetta.

***§***

Note di Bella: Grazie mille a signorino per aver commentato! (la storia su Ciel ci starebbe proprio bene, effettivamente. Ci sto seriamente pensando ** Grazie per i consigli, cara, è vero che il mio stile si addice poco alle long. Tendo sempre a filosofeggiare XD Ma mi impegnerò sicuramente per migliorare. Un bacione ^^)

Bella.




3 : Riferimento all'ultima puntata dell'anime, quando Ciel dice a Sebastian – che qui non c'entra nulla – di divorargli l'anima così da fargli più male possibile.
4: Son of Rust, The World you live in

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Capitolo 3
*** 3. Kurohitsugi ***


3. Kurohitsugi



I


Ciel


Pensare di provare a toccare una luce per aggrapparvisi, pensò dopo anni il Conte, sembrava piuttosto un modo per morire. Invece, quando Ciel aveva visto la luce tagliente era stato certo che se l'avesse raggiunta sarebbe sopravvissuto.

 

Non aveva importanza che gli uomini che l'avevano rinchiuso lì stessero morendo uno ad uno man mano che quella luce avanzava, cacciando dal petto quelli che a Ciel sembravano nastri bianchi e lucenti, pieni di immagini che non pensò neanche per un istante di guardare. Dopo, quando quei nastri si riavvolgevano, essi cadevano. Non come era caduto suo padre. La loro caduta somigliava al sasso che precipitava nel lago, perché quando toccavano terra era come se nell'aria si dipanassero cerchi concentrici di energia, e quell'energia Ciel si ritrovò a berla avidamente, e sapeva di odio. Che importa, si disse per la seconda volta quel giorno. L'importante era che potesse sostenerlo per condurlo finalmente alla fonte della luce tagliente.

Ma più quegli uomini morivano, nutrendolo, più la luce diventava fioca e i suoi contorni venivano smussati. Non aveva più l'aspetto di una luce che gli avrebbe lacerato le mani. Allora, prima che svanisse del tutto, spinse una mano fuori dalla gabbia, sentendo una delle sbarre premere contro il petto che, esile, riusciva a fuoriuscire anch'esso. Lì doveva esserci il cuore, perché le sbarre cominciarono a pulsare, come se ormai la gabbia fosse parte di se stesso. Come se stesse mettendo radici. Non poteva permetterlo, perché doveva uscirne per vivere. Spinse di più, tendendo al massimo anche le dita della mano, e quando pensò di starsi avvicinando davvero, si accorse che era la luce a venire più vicina. E lì, tra il biancore ormai grigio, distinse una figura alta, scura, avvolta da un suono che da quel momento in poi non l'avrebbe più lasciato. Una risata.


Uscire dalla gabbia, a quel punto, era stato un po' come morire per nascere ancora una volta. Il suo corpo gli era come estraneo e sentiva di non essere più la stessa persona. Ma questo non lo pensò, si limitò a sognarlo quando quella figura alta e scura lo prese tra le braccia per condurlo fuori di lì. E in un angolo della sua mente, torturata dal buio e distrutta dalla prigionia, la punta di una luce cercava di districarsi in quel rovo di tenebre. Ma lui non le avrebbe dato il permesso di uscire.


***


Sa, Conte, lui è lì che vi aspetta.”

Incredibile come possiate entrare in simbiosi con una bara.”

Potete anche dargli questo nome, se preferite, ma il Kurohitsugi non gradirà. E poi, sarete voi quello che si unirà indissolubilmente ad esso.”

Uscire da una gabbia per entrare in un'altra. Ecco, invece, qual era il paradigma dell'esistenza di Ciel Phantomhive in quell'istante. Dopotutto, era stata una sua scelta.


L'uomo alto e scuro era tornato nell'inverno in cui Ciel aveva compiuto dodici anni. Zia Angelina era al lavoro, nel suo studio medico, e Ciel era rimasto a casa in compagnia dei soli Tanaka e della governante, Claire.

Era da quando aveva aperto gli occhi, quella mattina, che sentiva che qualcosa si avvicinava, qualcosa che l'avrebbe portato via. Ma non aveva mostrato paura né esitazione, continuando a sorseggiare il suo tè nel salone della casa.


Comparve quasi dal nulla, ondeggiante e accompagnato dalla stessa risata che il Conte sentiva continuamente.

Stavate aspettando il mio arrivo. Gentile da parte vostra.”

Non ho aspettato per cortesia.”

Chiaramente. Paura, dunque?”

Gli occhi saettarono verso quelli dell'uomo – celati – che poi avrebbe scoperto chiamarsi Undertaker, un becchino e uno Shinigami. Uno Shinigami con cui aveva stretto un patto per vivere.


Rimpiangete la vostra scelta, Conte?”

Affatto. Quello che volevo quella notte è stato esaudito, anche se un disegno più grande prevedeva accadesse il contrario, piuttosto.”

E' sempre divertente sentirvi parlare attraverso mie citazioni.”


Quella notte, caro Conte, un disegno più grande prevedeva accadesse il contrario. I vostri assassini sarebbero dovuti sopravvivere, mentre voi...”

Non l'hai fatto per pietà. Ma per un disegno ancora più grande.” comprese Ciel, poggiando la tazzina ormai vuota sul tavolo. E Undertaker rise, sapendo di aver preso una saggia decisione, quella notte.


Desiderate che vi esponga ancora i punti del patto?”

Osi forse insinuare che potrei non rispettarlo?”

No. Voglio semplicemente che in quel momento siate pronto. Il Kurohitsugi non accetta esitazioni.”

Non esiterò.”

Ma Undertaker lo sapeva già.


Sono stato salvato da te?” fuori dalla gabbia, quella confusione iniziale aveva reso chiare molte cose. E l'uomo che gli stava di fronte ovviamente gli aveva salvato la vita per ottenere qualcosa in cambio. Qualcosa che desiderava fortemente.

Sono arrivato appena in tempo, Conte. Se non vi avessi salvato io, non oso immaginare quale

sorta di creatura avrebbe potuto condannarvi all'inferno.” e Ciel seppe subito che lo Shinigami

non si riferiva a quello che sarebbe successo se il sacrificio avesse avuto successo, quanto più al contrario.

Cosa vuoi in cambio?”

Vi sentite in debito?”

Parla.”

Undertaker sorrise silenziosamente, un silenzio strano che non era mai appartenuto alle sue risate. Non erano rumorose, ma neanche così profondamente silenziose.

Kurohitsugi.” rispose.


Un sarcofago oscuro, nero, sulla cui bellezza Undertaker aveva tessuto lodi, ma che per Ciel rimaneva pur sempre una bara. Ciò che era importante, al di là del meraviglioso aspetto del sarcofago, era quello che sarebbe successo una volta chiuso.

Sigillato in quella bara in eterno.”

Sarcofago, Conte.”

Suppongo non sia quella la parte peggiore.”


Il Kurohitsugi avrebbe reso la morte più eterna di quanto il concetto di morte già non fosse. Non divorava l'anima, non lasciava che fosse il corpo a patire le pene come succedeva all'Inferno. Il Sarcofago Oscuro avrebbe trasferito nel proprietario dello stesso tutto ciò che Ciel aveva sentito, provato, visto e pensato nella sua vita, seppur breve. Il mondo al di là di quello, per il Conte, avrebbe trovato dimora in Undertaker.

No... non gli avrebbe divorato l'anima, l'avrebbe guardata, scrutata, carezzata, conosciuta e spogliata di ogni segreto.


Posso chiedervi, Conte, perché avete accettato?” una domanda stupida prima della fine. Questo avrebbe reso più deliziosa l'anima di Ciel, forse. O non sarebbe cambiato nulla.

Ciel non rispose, tuttavia. Non ad alta voce. Forse non voleva che quegli uomini, o qualunque cosa per loro, prendessero la sua vita, anima, corpo. O magari era giusto che finisse così. Se lo sarebbe domandato in seguito.


Ricordate il momento in cui avete desiderato che quegli uomini venissero colpiti dalla mia falce?”

Ricordava la vendetta, la marea di crescente oscurità che gli era nata dentro. Ma, più di quel momento, ricordava...


Non era stato un vero momento, precisamente posizionato in una cornice di tempo. Quel desiderio era nato gradualmente, fino a diventare un groviglio di buio che aveva imprigionato la luce. Quella luce avrebbe dovuto condurlo alla morte, invece era stato abbastanza forte da far sì che accadesse il contrario. Già... a volte si illudeva che, in fondo, avesse fatto tutto lui. Si illudeva, dicendosi che Undertaker avesse semplicemente approfittato della situazione per incastrarlo, costringendolo a stringere il patto del Kurohitsugi.


Ricordo solo il momento in cui mi sono chiesto il motivo di tale gesto. Escludendo il disegno più grande, mi sono chiesto perché uno Shinigami avrebbe dovuto agire in quel modo. Anche la morte è corrotta?”


II


Undertaker


Quando la voce di un piano di purificazione del mondo a opera degli Angeli era giunta alle orecchie degli Shinigami, ai piani alti ci si era immediatamente chiesti che posizione assumere: neutralità? Correre in aiuto degli esseri umani e fermare quella follia? Le opinioni erano diverse, i vantaggi minimi e la possibilità di vincere incerta. Tuttavia, il compito di occuparsi delle anime degli esseri umani era sempre spettato agli Shinigami. Perciò, in quel momento, quale che fosse la loro posizione rispetto al mondo umano e al mondo angelico non era importante. I loro compiti andavano preservati. Undertaker, al tempo, trovò quel terreno di gioco estremamente stimolante. Aveva sempre pensato che tutta la fame accumulata sotto i cuscini reali avrebbe ben presto spaventato la regina, sempre che ella ne fosse consapevole.

E aveva riso tanto, fino a scoppiare, quando s'era reso conto che dopotutto, in tutto quel gioco pericoloso, gli Angeli si fossero rivelati della stessa pasta dei Demoni.

Ma se i Demoni approfittavano della fame bruciante degli uomini, gli Angeli avevano fatto l'esatto contrario. Prima o poi, quel continuo astenersi avrebbe corroso l'anima della gente, rendendo più semplice cadere nel peccato. E la corruzione dell'anima non ha un bell'aspetto né un buon odore per gli Angeli.


Chiaramente, un piano ben congegnato come quello, prevedeva che il punto di inizio si rivelasse facile da intuire, soprattutto se sei uno Shinigami Leggendario e i tuoi interessi coincidono in maniera diametralmente opposta con quelli di un Angelo. E anche se lo Shinigami avrebbe dovuto essere lì dove lo scontro infuriava, come una tempesta, si perse l'intera battaglia, sapendo perfettamente che ne avrebbe combattuta un'altra per conto di qualcuno molto più interessante. Il suo disegno più grande, dopotutto, coincise con la fine di ogni possibilità di prevalere degli Angeli. Era Ciel Phantomhive l'obiettivo finale, principale. Ma lui non l'aveva mai saputo.


La purezza totale si corrompe più facilmente...

La purezza nasce già con il germe impiantato.

La purezza senza briglie dilaga. E poi infetta.



Una delle domande che Undertaker si era posto in seguito, probabilmente la prima domanda che si era fatto in tutta la sua lunga esistenza, era perché non avesse rivelato a Ciel Phantomhive ogni particolare di quel grande piano, di quell'assassinio.

Eppure bastava che guardasse nei suoi occhi e capiva che, in fondo, quel ragazzino non credeva affatto che quella notte di sangue fosse giunta casualmente.

L'ultima delle domande di Undertaker, invece, era perché il Conte non gli avesse mai chiesto niente. Ma probabilmente si era posto quegli interrogativi solo per conoscerne il sapore, sapendo che in verità la risposta era sempre stata lì.



III


Ancora stelle nere


This is the world you live in
Consumed by lust and love and hate
Restrain and try not to give in
Pray that it's too late
This is the world you live in
5


Una cosa che Ciel Phantomhive aveva sempre saputo era che quella notte era effettivamente morto, e non in maniera metaforica o esclusivamente mentale o morale.

Era morto per quei pochi istanti necessari affinché potesse mordere quelle stelle e succhiarne l'essenza. E capire.


Per questo aveva accettato il patto? Undertaker aveva già avuto la sua morte... La sua anima gli apparteneva di diritto?


Una cosa che Ciel si era sempre premurato di mantenere nel silenzio era che sapeva.

Ma i suoi occhi erano grandi abbastanza e inevitabilmente collegati allo Shinigami Leggendario per il patto stretto che quel silenzio si era trasformato velocemente in uno sguardo rivelatore. Quella notte, il Conte aveva succhiato abbastanza conoscenza da sapere che non sarebbe diventato quello che gli altri volevano diventasse: un cane da guardia della regina, un sacrificio di purezza, come era stato suo padre, suo nonno e altri prima di loro. Tutto quello che si era azzardato di desiderare era stato realizzato quella notte dall'intervento di Undertaker, con la sua luce tagliente.

Da lì in poi, il tempo che si era preso era servito solo a rendere più divertente quel finale. Una sorta di ringraziamento al becchino, forse, oppure solo istanti in più per tornare al vecchio lago e riempirlo abbastanza di pietre e sporcarsi le mani, così da sapere che non sarebbe mai stato abbastanza sporco da eguagliare loro.


Undertaker l'aveva sempre saputo? Per questo aveva accettato il patto? Lo Shinigami desiderava lui così com'era, senza contaminare una purezza già corrotta o purificare una corruzione che è propria dell'uomo.


Un'altra cosa che il Ciel bambino e quello adulto avevano sempre serbato nell'anima come il ricordo peggiore, era l'ultima visione della casa e dei genitori. In fondo, lui sua madre l'aveva vista.


Mamma! Papà!” avrebbe voluto urlare, chiamarli e non limitarsi a correre per i corridoi del maniero. Avrebbe voluto che la sua voce li raggiungesse, perché temeva che se non l'avesse fatto si sarebbero dimenticati di lui.

In quel preciso istante, mentre correva, vide già l'ombra di una di quelle stelle e forse iniziò la sua consapevolezza.

Aprì la porta e vide suo padre cadere, piano, con la mano tesa verso di lui. Quello che successe dopo, forse, aveva cercato di cancellarlo, oppure di farlo scorrere velocemente, così velocemente da apparirgli come una macchia sfocata.


Gli uomini sono inclini all'inganno...

Ciel aveva ingannato se stesso.



E' pronto, Conte?”

Era tempo di scrivere la parole fine. Era tempo di andare per non tornare, stavolta. Rimase immobile, al centro della stanza immersa nelle penombra, giusto il tempo che Undertaker lo vedesse.

La morte è più benevola di quanto si possa immaginare, Conte.” disse, immaginando facilmente cosa vi fosse nella mente di Ciel.


Il blu degli occhi di sua madre... sul volto di suo padre.

La mano tesa verso di lui, delicata e dolorosa come una promessa d'eternità non mantenuta. Lo sguardo spento di suo padre mischiato alla vita ancora appena accennata di sua madre. Lei l'aveva visto, in quel momento. E lui l'aveva cancellata, immaginandola morta altrove. Invece lei c'era e nel suo sguardo aveva letto pena e dolore. Un “mi dispiace”, “perdonami”, “Ciel...” mai sussurrati, ma scritti nel blu.

non si era più guardato allo specchio. Il blu.


Alla fine erano morti insieme, in un abbraccio perverso e macabro, e lui non li aveva mai odiati, anche se avrebbe voluto. Tanto, fino a stare male e a soffocare tra le braccia di zia Angelina, fino a chiedere aiuto a Dio, fino a temere il fuoco per non ritrovare il blu dello sguardo acceso nella memoria. Consumato dall'odio, per non essere consumato dall'amore.

Chiuse gli occhi. Era tardi per pregare e inventarsi paure.

Ormai era tempo di liberare la luce da quel rovo di tenebra.


IV


Le sensazioni che si provano quando si è consapevoli di morire volontariamente sono estremamente forti e chiare.

Vi tratterò come le conviene, Conte.” sussurrò Undertaker, osservando il corpo dell'altro.

Ciel, seduto nel Sarcofago Nero ma non ancora disteso, ricambiava lo sguardo.

Non osare dimenticare chi sono, Shinigami.” disse, afferrando un lembo della sua veste scura. Undertaker, il viso vicino al suo, sorrise. Ma quella volta il silenzio non fu così profondo, sapeva solo di verità.

Non lo farò.”

Ancora una volta, come era successo anni prima, Ciel udì il suono del respiro. Ma questa volta già sapeva, senza bisogno di ascoltarlo, che non era un sogno. Altrimenti non si sarebbe spiegato le labbra di Undertaker sulle proprie, seppur per un istante scarso. Si allontanò subito, giusto il tempo di concedergli il sapore ancora vitale di quella che sarebbe stata la morte. E poi le dita di quello che sarebbe diventato presto il suo aldilà, fredde, cominciarono a premergli sugli occhi ormai chiusi. Lentamente, lo spingevano giù, adagiandogli il corpo sul fondo del Sarcofago. Poté vedere quella caduta anche a occhi chiusi, lenta, fino a quando la testa non incontrò la pietra e tutto finì.

Non osare farlo... altrimenti, io stesso dimenticherò chi sono.



FINE




5: Son of Rust, The World you live in

Note di Bella: Ed eccoci giunti alla fine. Grazie per aver letto ^-^

signorino: Elizabeth c'era nella bozza iniziale, insieme a Madame Red in altre scene. E c'erano anche altre parti, ma ho dovuto tagliare per motivo di spazio. Mi rendo che avrei potuto lasciare qualcosa, ma  in quel momento ho calcolato male. In ogni caso, mi stai facendo venire voglia di pubblicare una raccolta di spin-off. Grazie grazie grazie *cuore*

Bella.

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