Kurohitsugi di _Syn (/viewuser.php?uid=35935)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - 1. Stelle Nere ***
Capitolo 2: *** 2. Luce tagliente ***
Capitolo 3: *** 3. Kurohitsugi ***
Capitolo 1 *** Prologo - 1. Stelle Nere ***
Autrice:
_BellaBlack_
Titolo:
Kurohitsugi
Rating:
Arancione
Genere:
Dark, Introspettivo, Drammatico
Avvertimenti:
Longfiction, What if...?, Shonen-ai
Numero scelto/canzone
ottenuta: 17/ The world you live in
Presentazione:
Questa storia potrebbe tranquillamente essere AU, tuttavia ho pensato
che l'avvertimento What if fosse sufficiente. Prima di tutto: Sebastian
non esiste, e se esiste sarà da qualche parte a lucidarsi
gli stivali, in mancanza di argenteria inglese. Grell neanche, e se
esiste starà cercando Sebastian seguendo l'odore del
lubrificante degli stivali. Sarebbe più semplice, in
effetti, dire che la fic coinvolge due soli personaggi principalmente
(più alcune comparse più o meno importanti):
Undertaker e Ciel Phantomhive. Dopo aver chiarito questo punto,
passiamo avanti. Anzi no, un'ultima cosa: siccome le cose sono
già intricate e non c'è il tempo di affrontare
anche gli angeli ho semplificato le cose, altrimenti non sarebbero
bastate 20 pagine – il limite – per narrare tutto.
Spero comunque che la mia versione risulti sensata.
Il Conte Phantomhive ha diciannove anni e
un passato oscuro con cui un becchino-Shinigami ha a che fare anche
troppo. Ipotizzate per un istante che Sebastian non sia mai esistito
(per i più testardi XD) – o mai rivelato, che sia
nel suo bel mondo di demoni a farsi gli affari suoi – e che
Ciel Phantomhive non abbia mai ricevuto il marchio. Immaginate che Ciel
sia stato salvato dall'intervento di uno Shinigami. Immaginate che il
lavoro sia stato svolto proprio dallo Shinigami Leggendario e che abbia
stretto un “patto”con Ciel. Un patto chiamato Kurohitsugi. Kurohitsugi, come ho avuto modo di
scoprire leggendo Bleach, vuol dire: Black Sarcophagus. Incredibile
come si possa ottenere un significato così diverso
eliminando semplicemente una lettera e cambiandone un'altra *O*.
Incredibile come questo possa richiamare alla memoria la figura di
Undertaker.
Le vicende prenderanno avvio a partire
dal futuro, da cui poi si dipaneranno vari flashback riguardo il
passato dei due protagonisti. Perciò, il Ciel di cui
narrerò nel presente è adulto – ha 19
anni. Undertaker ha qualche secolo, ma questa non è una
novità. Se tutto ciò vi schifa, chiaramente,
questa storia non fa per voi. In pace. Alexiel.
Note dell'autrice:
Prima che dimentichi... Questa storia nasce grazie ai Son
of Rust e alla loro canzone “The
World you live in”, come
già specificato quassù. Non mi sono ispirata
all'intero testo ma solo ad alcuni frammenti della canzone. Penso
d'aver detto già tutto nella “breve”
presentazione, perciò non mi resta altro da dire, se non:
buona lettura.
Ps:
in realtà un piccolo accenno a Sebastian c'è,
vediamo chi riesce a scovarlo! :P
Note
2: Per spiegarvi questa "apparizione" c'è il mio profilo. ^_^
KUROHITSUGI
Black Sarcophagus
1° Classificata al Contest
indetto da signorino "L'ottocento stringe la mano al ventunesimo secolo
[Kuroshitsuji & Son of Rust]
Once
again in a world of my own
With nothing left to do
Everything looks different now
Reality is seeping through
(Son of Rust – The
World You Live In)
***
Siamo solo luci
che illuminano bugie,
siamo luci
colpevoli in cerca della verità ma incapaci di trovarla.
Siamo cacciatori di un futuro
che è sempre un passo dietro di noi;
stupidamente
ricerchiamo ciò che abbiamo abbandonato alla vista della
prima luce.
La
verità ha la forma della prima lacrima di un bambino,
la bugia il
sapore dell'odio liquido, che scorre come lava dagli occhi.
( ©
_BellaBlack_ )
***
Prologo
“La natura umana è
davvero ingannevole.”
Probabilmente qualcuno aveva
pronunciato quella frase in passato, usando parole diverse ma volendo
intendere la stessa cosa. Gli uomini sono inclini
all'inganno. O anche: Le scelte umane mirano sempre
alla manipolazione e all'inganno, anche quando gli intenti sono dei
più puri.
“La purezza è
destinata alla corruzione.”
Non sapeva, Ciel Phantomhive,
se là fuori ci fosse qualcuno che stesse pensando la stessa
cosa o che l'avrebbe pensata in futuro. In effetti, mentre beveva il
suo tè seduto davanti al camino, su una poltrona di soffice
velluto, cercando un briciolo di calore in quella sera invernale, si
rese conto che non gli importava affatto. Che gli uomini pensassero o
no, non poteva interessargli. Ne aveva conosciuti di esseri pensanti,
ma non aveva mai avuto il piacere di giungere a positive conclusioni. Il pensiero è
decisamente sopravvalutato, avrebbe detto qualcuno di sua
conoscenza.
La tazzina di
porcellana finissima restò immobile tra le sue dita, mentre
gli occhi disperdevano guizzi di blu nel fuoco scoppiettante. Gli
sembrava quasi di sentirla, la risata di quell'uomo. Shinigami o
qualunque cosa fosse. Non ricordava che gli fosse mai importato.
Sì...
lui avrebbe detto proprio così, per poi abbandonarsi ad una
risata leggera, come un sibilo che scioglie paura nei cuori di chi non
conosce le tenebre.
Immaginava che
sarebbe giunto il momento, prima o poi, che la sua stessa natura
l'avrebbe ingannato, trasformandolo in ciò che era sempre
stato destinato a diventare. Dopotutto, erano state le scelte del Conte
stesso a condurlo a quel giorno ormai sempre più vicino.
Tornare e
ritrovare il mondo, tornare e immergersi forse un'ultima volta nella
realtà. Cosa sarebbe rimasto di se stesso probabilmente Ciel
Phantomhive non voleva saperlo. Non ancora.
1. Stelle nere
La fiamma
guizzante, eternamente mossa dal desiderio di raggiungere vette
proibite dove il fuoco divora persino il nulla, accarezzava con la
propria luce parte del volto del ragazzo in piedi, le spalle rivolte al
muro sporco e ricoperto di strani segni. Evitava di poggiarvisi
direttamente, per evitare qualunque contatto con quella sozzura
così palese. Egli, al contrario, conservava un'apparenza
candida, pura; un'aura che sussurrava nobiltà e malinconia.
La parte del volto
illuminata dalla luce della torcia assicurata al muro appariva
completamente immobile, impassibile. L'occhio destro era socchiuso e
solo una linea di fragile blu infrangeva l'unione del pallore di quella
pelle. Pareva una macchia di vernice, lasciata lì apposta da
un pittore esperto. Richiamava armoniosamente il completo blu genziana
che fasciava il suo corpo, elegante, privo di qualunque imperfezione.
Sembrava in attesa
di qualcosa o qualcuno, giaceva in quel luogo insieme al silenzio,
respirando appena. Il capo leggermente inclinato in avanti avrebbe
fatto credere che la sua attenzione fosse rivolta altrove, verso
pensieri lontani. Ma tutto ciò che il ragazzo in
verità ascoltava era il rumore assordante della luce
intrappolata in quelle tenebre. Cercava una via per entrare, per
sprigionarsi e sostare lì, eternamente.
Era tutta
lì l'attenzione di Ciel Phantomhive.
Dall'altro lato
della torcia, rumoroso come il cigolare di una porta che si chiude per
l'ultima volta, si avvicinava una seconda persona. L'atmosfera
vagamente dorata rimandava l'immagine di un uomo alto, dipinto nel nero
delle sue vesti. Capelli lunghi e grigi si univano al rosa chiarissimo,
un occhio attento avrebbe detto “bianco”, della
pelle, muovendosi appena in quel luogo attraversato
dall'immobilità. Eppure, era possibile percepire un leggero
rumore: sinistro, ipnotico, paralizzante. Gli occhi celati dalla
frangia lunga e irregolare, forse per un intuito incomprensibile, erano
sicuramente ancorati alla figura sottile e silenziosa del Conte.
Le unghie placcate
di nero, affilate probabilmente, graffiavano lungo il muro, intaccando
ulteriormente quel silenzio che pareva dire addio e bentrovato
contemporaneamente. Allo stesso modo, i denti bianchi, lasciati
scoperti dalle labbra sottili e bagnate da un velo quasi invisibile di
saliva, distruggevano il buio, rendendo vane persino le speranze della
luce. Non era luce quella che fuoriusciva da quelle labbra, ma non era
neanche ombra.
L'unico in grado
di dare voce a quel mistero era Ciel Phantomhive, ancora e
ostinatamente immobile al proprio posto, a un soffio dal muro. Le ombre
silenziosamente abbracciate l'una all'altra mormoravano ipotesi e
segreti. La luce imprigionata e debole piangeva lacrime prive di
sapore, ancora ignorata dagli unici presenti che avrebbero potuto
invitarla a entrare.
Era una legge che
luci e ombre, forse all'inizio del tempo, avevano scritto sui battenti
della porta che conduceva al mondo che solitamente chiamiamo
“mondo degli uomini”. Fin quando l'ombra
invisibile, egoisticamente rappresa attorno allo spazio vuoto e
dispersa tra le iridi e il respiro, non avesse dato il permesso di
entrare alla luce, essa sarebbe rimasta nel suo stato di perpetua
agonia.
Un permesso
chiesto agli uomini, sempre alla ricerca delle cose visibili, di
ciò che si può toccare e rende solide le
consapevolezze. La luce, in quel caso, avrebbe dominato. Ma non tutti
ricercano ciò che la luce rende visibile; altri tengono gli
occhi puntati su ciò che è ancora puro, protetto
dalle ali spezzate del buio. E' lì che risiede la
verità, quella che nessuno può vedere e che
nessuno sa riconoscere.
“Tornare all'ora del
tè.” la voce dell'uomo vestito di nero
rallegrò le ombre “Proprio da voi,
Conte.”
L'immobilità
del nobile scomparve quando i suoi occhi persero finalmente la pallida
protezione delle palpebre. Il blu, due sfere nel buio, sciolse la
propria regalità sullo sguardo nascosto del becchino.
“Non credo che quell'appellativo
mi appartenga ancora.” replicò lui, pur sapendo
che quella era un'identità che a stento egli stesso era
riuscito a ripudiare. “Ma non posso dire lo stesso di te,
Undertaker.”
“Non posso liberarmi del mio
appellativo, Conte. Non potrei neanche se lo volessi.”
replicò Undertaker, impaziente di avvicinarsi all'altro.
Eppure, evitava di toccarlo, resistendo. Anni prima sarebbe stato
così semplice finire alle sue spalle e sfiorargli una
guancia, oppure arrotolare intorno alle dita quei capelli.
“Condanna o
privilegio...” sussurrò Ciel, vagheggiando il
significato di quelle due parole. Il significato dell'una toccava
quello dell'altra come le onde del mare si infrangono sul bagnasciuga
per poi tornare indietro, in un ciclo eterno quanto il tempo.
“Condanna o privilegio...”
“Suppongo, Conte, che questo
cambi da individuo a individuo.”
“Oppure da compenso a
compenso.” disse tagliente il nobile, azzardando un'occhiata
fuori dall'ombra. Le labbra del becchino si curvarono armoniosamente.
“Quali compensi credete siano
destinati, a noi becchini?”
“Alla luce il tuo stato
è quello di becchino. Il tuo compenso si attiene alle leggi
del mondo.” iniziò, allontanandosi ancor di
più dal muro. Ormai, cresciuto più di quanto
ricordasse, Ciel poteva perfettamente osservare il viso di Undertaker
senza sforzare le punte dei piedi o lo sguardo. C'era qualcosa di
diverso, oppure erano i suoi occhi a guardare tutto da un'angolazione
diversa da prima. “Ma nell'ombra c'è
più di quanto gli altri possano vedere.” concluse,
senza imbellettare il discorso o fare giri di parole inutili. In quello
non era affatto cambiato. Ma lo stesso Undertaker dubitava che il Conte
fosse effettivamente cambiato. Forse il mondo, per quanto impossibile e
fantasioso suonasse, ma non il Conte.
“Tra gli altri, Conte, la vostra
umiltà,” rise impercettibilmente “vi
spinge a inserire anche il vostro nome?”
“Se l'avessi fatto, in passato
come ora, oggi non saremmo qui, becchino.”
Oh, sì,
il Conte era ancora così divertente da costringerlo e tenere
gli occhi chiusi per non farli bruciare.
“E sarebbe un immenso dispiacere
per entrambi.”
***
Undertaker aveva sempre tenuto
in gran considerazione gli esseri umani. Pur non essendo divertenti
allo stesso modo del Conte, riuscivano a strappargli una risata di
tanto in tanto, - senza farlo apposta, chiaro – oppure a
lasciarlo in silenzio; magari di fronte a una chiesa durante un
funerale, insieme a tre fratellini che si chiedevano il
perché della vita e della morte 1. Non domande filosofiche,
profonde e piene di opinioni strappate dalle labbra di scrittori o
personaggi importanti ormai belli che morti. Solo con occhiate curiose,
“perché” assillanti seguiti da una
tiratina alla maglietta sdrucita del fratello maggiore e uno
scappellotto dovuto all'esasperazione.
A ben vedere, il
paradigma dell'esistenza era tutto lì. Esisti per assistere
alla morte, in una giornata di sole, e neanche sai perché.
Esistere, alla fine, non significa crescere in una famiglia che ti
coccola dalla mattina alla sera, o prendersi un ceffone da tuo fratello
perché non sei abbastanza sveglia da capire le cose da sola.
Esistere è solo avere la luce negli occhi, inconsapevoli,
tuttavia, della propria immensa cecità. Vivere, poi,
è tutta un'altra cosa. Ma quello, giustamente, non era
l'ambito di Undertaker.
Per questo al
becchino non dispiacevano gli umani, a differenza del Conte.
L'ignoranza delle cose importanti e la piena conoscenza delle cose
inutili è tutto quello che rendeva divertenti le giornate
del becchino. Poteva guardarli e sapere che tutti, prima o poi,
sarebbero finiti tra le sue fatali braccia, pronti a ricevere l'addio.
Forse solo allora avrebbero spalancato i veri occhi, comprendendo
ciò che avevano sempre avuto davanti allo sguardo. Ma alcune
stelle sarebbero rimaste sempre nere. Sì, pensò
Undertaker. Si dice che nel momento della morte tutta la vita ti passa
davanti. Forse è vero, ma più veritiero di questa
vaga affermazione è che il buio che ne deriva trova la
propria causa in quell'ignoranza umana. E la finale luce bianca, per
quanto potente possa essere, non scaccerà mai tutte le
tenebre.
Il giovane Conte
Phantomhive, anni prima, doveva averle viste molto da vicino quelle
stelle nere. Forse, mentre sentiva la vita fluire via, aveva cercato di
tendere le braccia nello sforzo di toccarle, prenderle e sbucciarle
come fossero mele, per poi morderle e lasciarsi invadere dalla
conoscenza perduta.
Era semplice
immaginarlo, anche perché aveva partecipato a quel suo
supplizio. Ma solo per un po'. Poteva ricordare bene quella notte e,
per quanto suonasse banale e scontato, ricordava che fosse buia e
tempestosa.
My greed, my fear, my tears
won't come 2
I bambini
possiedono dentro di sé una innocente forma di
avidità. Desiderano le cose, ma non in maniera malata,
ossessiva, che porta più guai che altro. Desiderano qualcosa
che neanche conoscono, desiderano semplicemente per il gusto di
desiderare, ma nessuno si sognerebbe mai di additare quella
inclinazione come un peccato mortale. Fa parte del corso naturale
dell'esistenza, con il tempo si affina, stemperato dalla buona
educazione o dal buon senso. Certo, spesso parte del lavoro spetta ai
genitori, ma la natura umana, oltre a essere ingannevole, si avvale di
altre caratteristiche che neanche la migliore delle educazioni
può sopprimere.
Siamo esseri umani
abituati a soffocare la nostra reale natura, anzi, a mascherarla. Per
questo l'inclinazione al male o ad abitudini dai più
definite devianti – una soggettività di opinioni
resa oggettiva da quel grande male che si chiama civiltà
(forzata) – prima o poi torna a ruggire. Come un leone che
azzanna il collo del proprio ammaestratore.
E pare strano, ma
nessuno si rende conto che tale devianza altro non è che la
stessa avidità che provavamo da bambini. Solo, è
avvelenata da quello che diventiamo quando la civiltà compie
il proprio lavoro come non dovrebbe. E' giudicata con tanta
severità solo perché sembra innaturale in un uomo
adulto e abituato al controllo. E' come guardare una quarantenne che
cerca di entrare negli abiti che indossava a tre anni. Folle.
L'avidità
è una follia che tutti coltivano e al tempo stesso falciano,
per poi nascondere sotto il cuscino.
Undertaker,
soffocando una risata per poi lasciarla rimbombare attraverso le viuzze
londinesi, si domandò quanta di quella follia fosse nascosta
sotto i reali cuscini della regina Vittoria.
Anche Ciel
Phantomhive doveva aver avvertito quella innocente avidità
da bambino, senza sapere che quella stessa sensazione divora il corpo
degli adulti. Su di lui aveva l'effetto di una camomilla. Era
un'avidità ben sfamata, poiché ogni suo desiderio
infantile veniva esaudito senza che la fame diventasse troppo dolorosa.
Desiderava giocattoli, attenzioni, compagnia e allegria. Era il mondo
limitato di chi non è ancora riuscito a vedere quelle stelle
nere, di chi non conosce l'odio e l'amore nella loro forma
più pura, perciò più facilmente
corruttibile. La forma d'amore che Ciel conosceva allora era quella
semplice, conosciuta solo per metà, di una madre che ti
bacia prima di andare a letto e di un padre che ti accarezza la testa e
sorride là in alto, dove lui non poteva ancora arrivare.
Non
sapeva, il piccolo figlio del Conte di Phantomhive, che quelle stelle
nere sarebbero esplose prima di quanto potesse anche solo immaginare.
1 : Qui faccio riferimento alla
scena dell'anime e del manga in cui Undertaker parla con i bambini che
si trovano davanti alla chiesa in cui si sta celebrando il funerale di
Madame Red. Ma Madame Red e il suo funerale, nella mia storia, non
c'entrano nulla. Mi piaceva quella scena e l'ho decontestualizzata e
generalizzata dalla trama originale. Madame Red, infatti, è
ancora viva.
2 : Son of Rust, The World you
live in
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Capitolo 2 *** 2. Luce tagliente ***
2. Luce tagliente
Abbandonarsi a
ricordi spiacevoli, se fa male alla memoria, leviga l'anima e le
ricorda che una volta giunta la fine le pene da pagare saranno
più lievi.
Ciel Phantomhive aveva vissuto
nella sofferenza senza mai fare troppo clamore, limitandosi a
restarsene nella sua ombra tessuta di ricordi da pescare solo ogni
tanto. Eppure sperava fortemente che la fine giungesse dolorosa e
bruciante, così che non dimenticasse chi fosse e chi fosse
stato. 3
Quel giorno,
mentre la carrozza lo conduceva da Undertaker, la sua mente
volò deliberatamente a quel giorno.
Non ricordava ogni
particolare dell'inizio di quella che ad altri sarebbe parsa una
semplice storia inventata. Ma rammentava ogni dettaglio di quello che
era stato il dopo. In effetti, del dopo c'era ben poco da dire,
ciò che valeva la pena di ricordare era la fine. Ma la sua
mente sembrava sollecita ai lunghi racconti quel giorno,
perciò non si curò di porle freno e
lasciò che vagasse libera, mentre le ruote della carrozza
schiacciavano la strada.
Probabilmente
la prima cosa che sentì fu l'urlo di sua madre e il silenzio
fin troppo marcato di suo padre. A distanza di anni, dovette convenire
che suo padre doveva immaginare cosa stesse accadendo,
perciò aveva usato il silenzio come arma, almeno per
rallentare l'incedere della fine. Ma sua madre, così simile
a lui a quel tempo, non poteva sapere nulla, se non che sua sorella
Angelina sarebbe venuta a trovarla il giorno dopo per passare la
giornata insieme. Era estate, era normale voler uscire all'aperto e
godersi un po' di calore e bel tempo, così raro nella grigia
Inghilterra.
Ma quel
futuro era lontano dalla realizzazione che la mente di Rachel aveva
immaginato, perciò sarebbe inutile soffermarsi
ulteriormente.
L'urlo della signora
Phantomhive distrusse la quiete notturna del maniero e, sempre a
distanza di anni, Ciel dovette ammettere che quell'urlo era
più simile al silenzio, rispetto al reale
silenzio del padre. A volte, i rumori forti, quelli che preannunciano
la dolorosa quiete eterna, risultano tali.
Silenzio.
Sì...
forse Ciel avrebbe preferito che sua madre non aprisse bocca e si
lasciasse uccidere senza parlare. Forse sarebbe stato più
facile?
C'erano
velocissimi flash, dopo. Lui che sgusciava via dal letto caldo e
rassicurante, via da quella stanza ormai contaminata dall'urlo di sua
madre e che ne avrebbe conservato le vibrazioni terribili anche a
distanza di anni, quando il Ciel adulto, alla ricerca di sano
masochismo, tornava in quella stanza – o almeno, il punto in
cui tutto era successo, visto che il maniero era stato ricostruito
– per ricordare.
Ricordava,
e quel ricordo se l'era tenuto stretto perché altrimenti
anche tutto il resto sarebbe andato dimenticato, che mentre apriva la
porta oltre la quale avrebbe trovato mamma e papà, nella
speranza che in quel momento Tanaka l'avrebbe svegliato, suo padre
spalancava gli occhi ormai spenti e si accasciava a terra. Aveva
seguito la sua caduta come se l'avesse vista al rallentatore, come
quando vedi qualcosa di immensamente prezioso cadere. La prima volta,
nel momento in cui cade, sembra che non passi neanche un secondo e sei
già lì, in ginocchio, che ne sfiori i cocci con
le mani, triste. Poi ci ripensi e ogni istante diventa talmente pesante
che fa fatica a passare. Ma forse Ciel già sapeva che non
avrebbe avuto il tempo di rivedere quella scena, perciò suo
padre gli cadde davanti agli occhi in un'eternità
insopportabile di tempo. Cadde e basta, cercando di allungare la mano
verso di lui o di dirgli qualcosa. Forse era già morto
quando Ciel aveva aperto la porta. Sua madre, invece, era
già morta probabilmente. Se fosse stata viva l'avrebbe
raggiunto, stretto forte al petto, e detto che... Niente. Non avrebbe
detto niente, perché non c'era nulla da dire.
Ma Ciel
non la vide, e fu solo dopo quel giorno che si chiese come fosse morta,
se anche lei avesse provato a muovere le braccia verso un Ciel ancora
in corridoio, che correva verso di loro. Si domandò se anche
i suoi occhi fossero come quelli di suo padre, spenti e spalancati. Si
rendeva spesso conto che quelle non erano domande che un bambino, un
figlio, avrebbe dovuto porsi. Ma erano le uniche che gli erano venute
in mente.
Ciò
che venne poi fu meno traumatico per il Ciel bambino, ancora troppo
giovane e prematuramente strappato alle radici dell'infanzia per vedere
suo padre morire. Eppure segnò il Ciel adulto in maniera
inevitabile. Il Ciel bambino, ancora troppo impegnato a ricordare
l'urlo di sua madre e a trasformarlo in uno dei suoi rari incubi dovuti
ai temporali – e quella sera pioveva... - non fece quasi caso
alle mani grandi e pesanti che lo trascinavano fuori dalla stanza senza
delicatezza, per portarlo chissà dove, mentre la casa andava
in fiamme. Non ricordava neanche che tutto quel fumo l'aveva quasi
soffocato, che era svenuto con un rivolo di saliva che gli usciva dalla
bocca e gli aveva sporcato la camicia da notte.
Una cosa
però la ricordava, prima che svenisse. Un oggetto metallico,
che il solo rumore spaventoso faceva pensare a quanto dovesse fare male
ed essere tagliente, che tagliava a metà una luce accecante,
più accecante del fuoco, lì dove dovevano
trovarsi suo padre e sua madre. O solo suo padre... Chissà
sua madre dov'era.
E un po'
gli dispiacque, ma questo sempre in seguito, che sua madre non fosse
morta tra le braccia del papà. Non perché in quel
modo sarebbe stato come se fossero morti insieme – si muore
soli, dopotutto – solo perché in quel modo,
forse...
“Siamo arrivati.” la
voce del cocchiere pose fine a ogni suo pensiero. Tanaka
aprì servizievolmente lo sportello, scendendo prima di lui,
e Ciel fu fuori. Era la seconda volta che tornava lì in due
giorni, ma ancora non sapeva quando sarebbe stata l'ultima. Forse
l'ultimo istante sarebbe arrivato quando avrebbe smesso di sentire
nella testa la risata di Undertaker.
Lo tormentava, era
come se l'avesse costantemente dietro le spalle, come se non lo
lasciasse solo un attimo. Oppure era lui che si aggrappava a quella
risata perché, dopotutto, era l'unica cosa che l'aveva
accompagnato da quel giorno. Anche mentre era via, anche mentre credeva
che Tanaka sicuramente sarebbe arrivato a svegliarlo e quella risata si
sarebbe rivelata nient'altro che il chiacchiericcio lontano e allegro
della mamma e di zia Angelina.
“Benarrivato,
Conte.” lo accolse Undertaker. Certe volte si ritrovava a
odiare quella sua compostezza che si sposava decisamente male con il
suo aspetto. Ma era un becchino e uno Shinigami, lavorava con i morti e
se non li seppelliva li giudicava. Inevitabile che diventasse un essere
composto, attento ai particolari e alle parole e che non risparmiasse
ai suoi visitatori brividi di terrore dovuti al suo aspetto. Ma a Ciel,
l'unica cosa che provocava, era senso d'attesa. Oppure fastidio. Lo
sapeva che prima o poi avrebbe giudicato anche lui, ma non pensava che
sarebbe stato così diverso dal prendere il tè
seduto su una bara chiusa e osservare le sue labbra sorridenti,
distinguendo a malapena le iridi gialle dietro la frangia.
“Spero
mi ruberai poco tempo, becchino.” precisò Ciel, il
bastone in una mano e la fretta nell'altra. Non aveva voglia, quel
giorno, di essere lì. Probabilmente aveva sbagliato a
riesumare il passato proprio mentre andava da lui.
“Non
dovrebbe essere rilevante, Conte. O dovrei dire signor Phantomhive? Voi
stesso avete detto che quell'appellativo non vi appartiene
più, ormai. Quali affari vi attendono, fuori di
qui?” Ciel sopportò ogni parola senza mutare
espressione. Ma sembrava che il bastone volesse crepare il pavimento.
“Sono
stato via, i miei affari sono stati gestiti da altri, ma come ultimo
membro della famiglia Phantomhive è mio dovere fare
qualcosa.” rispose.
“E'
esattamente di questo che volevo parlarvi, Conte. Stare via per
così tanto tempo...”
“Non
sono di certo venuto qui per conversare amabilmente, becchino. Se
è per questo che avete richiesto la mia presenza, vi
consiglio di rinunciare.”
“Ma
questo fa parte del patto, non è così? Conversare
amabilmente prima che scatti l'ora.”
E a Ciel
gelò il sangue. Sapeva che avrebbe parlato del patto, prima
o poi. Sapeva che avrebbe dovuto affrontarlo e fare la sua parte.
Altrimenti, per quale ragione era ancora vivo dopo quella notte? Per
lui non c'era stata nessuna luce tagliente.
Nove anni
prima non si era chiesto chi fossero quegli uomini che l'avevano
strappato via dalla sua casa, uccidendo i suoi genitori e dando fuoco
al maniero. Non si era chiesto “come” avevano
potuto fare una cosa del genere, era ancora troppo piccolo per poter
avere una visione chiara della morale, di ciò che
è giusto e ciò che è sbagliato. Certo,
magari esistevano bambini che sapevano già distinguere un
uomo cattivo da un uomo buono, per quanto potessero esistere uomini
totalmente votati al bene e uomini votati al male. Ma Ciel non aveva
mai avuto chiaro quel concetto. C'era stato talmente tanto bene nella
sua vita fino a quel momento che i suoi occhi blu non avevano per
niente notato le ombre che, gradualmente, avevano fatto sbiadire le
pareti di casa, lasciandole tristi e pronte a bruciare.
Ciel, in
quel momento, si chiese solo perché. Ma un perché
flebile, ancora mischiato a qualcosa che nemmeno a distanza di anni era
riuscito a definire. Paura di morire? Paura e consapevolezza di non
rivedere più i suoi genitori?
In fondo
era solo un bambino, e per quanto potesse sforzarsi le sue paure
restavano ombre, e non parole da usare per analizzare uno stato
d'animo. Le paure dei bambini di capiscono dai piccoli gesti, dagli
sguardi che neanche sanno di avere, da tanti altri motivi che non
prevedono l'uso della parola in maniera chiara e diretta.
Ma questo
non importava a quegli uomini cattivi. E il Ciel adulto, certe volte,
si chiedeva cosa sarebbe successo se i suoi genitori fossero
sopravvissuti e lui fosse tornato a casa dopo uno shock simile.
Avrebbero capito le sue paure? Oppure avrebbero mandato avanti la loro
vita come se niente fosse? Erano domande inutili, che creavano dubbi
che morivano prima di nascere, perché la morte era venuta
prima. E un dubbio che non ha un terreno per crescere è come
il ghiaccio sottile. Basta sfiorarlo appena e si rompe, e tu finisci
nell'acqua gelida, il freddo comincia a diventare insopportabile, il
corpo cerca calore e il cuore batte finché può,
veloce, finché non si può fare più
niente. E si muore, perché il calore non è
abbastanza.
Così si
era sentito Ciel quando era tornato per poi andare via. Senza calore.
Ma era vivo.
I primi
tempi, quando ancora la confusione non sembrava volergli dare pace, non
aveva pensato tanto all'accaduto. Non nella maniera in cui l'avrebbe
affrontato un adulto, ma in fondo lui che ne sapeva? Magari un adulto
l'avrebbe affrontata peggio di lui.
L'unica
cosa a cui riusciva a pensare era che le braccia di zia Angelina erano
terribilmente diverse da quelle della mamma, ed era strano,
perché quando veniva a trovarli l'abbracciava sempre, ma non
faceva caso a quel particolare.
La zia lo
stringeva come se avesse paura di perderlo e vederlo sparire, sembrava
volesse soffocarlo, invece la mamma lo stringeva come se lui fosse una
promessa di eternità. Era lieve, era delicata e sentiva che
in quella promessa non sarebbero mai stati divisi. Non sapeva se gli
facesse più male la stretta soffocante della zia o il fatto
che sua madre si fosse sbagliata. Erano divisi e non c'era nessuna
promessa.
Quegli
abbracci, piano piano, cominciarono a stancarlo. Sentiva qualcosa che
appassiva dentro di lui, che provocava un cambiamento che aveva paura
di affrontare, come quando ti fermi ad osservare un lago d'acqua pura e
lanci un sasso e poi, chissà come mai, temi che
all'improvviso quella superficie meravigliosa disegnata in cerchi
concentrici possa diventare nera. Ciel l'aveva pensato una volta,
quando era andato vicino ad un lago con suo padre. Aveva preso un sasso
per imitare il papà e l'aveva lanciato nel lago. Quel sasso
nero, quando era volato via dalla sua mano, gli aveva lasciato lo
sporco della terra sul palmo. E se avesse sporcato irrimediabilmente
anche l'acqua? Lui avrebbe potuto pulirsi con il fazzoletto bianco del
papà, ma il lago come avrebbe fatto?
Era la
stessa domanda che si era posto un giorno, mesi dopo l'accaduto. La sua
anima, ora, chi l'avrebbe pulita?
So struggle in this world of
your own
Knowing there's no way to escape the truth
Everything tastes bitter now
Nothing is fresh and nothing is new 4
Il motivo per cui
si era posto quella domanda l'aveva capito solo dopo. Era ancora un
bambino, nonostante quello che aveva passato, e se la sua anima aveva
conosciuto una crescita fin troppo rapida e uno stato di decadenza
altrettanto veloce, allora la sua mente non era riuscita a seguirla.
Prima di capire perché avesse paura di avere l'anima sporca
dovette rivivere, per la prima volta, quella notte.
“Ho
chiesto a Tanaka di preparare della cioccolata calda. Ne vuoi un po',
Ciel?” zia Angelina entrò nella stanza dentro cui
si rifugiava di solito, sorridendogli. Sorrideva nello stesso modo in
cui l'abbracciava, senza dimenticare di soffocarlo.
Ma non lo
faceva apposta, questo Ciel dovette ammetterlo. Forse aveva paura come
lui, ma la paura Angelina se le teneva dentro e mandava fuori solo la
forza vitale. Si chiese se sarebbe morta anche lei, nello sforzo. Non
voleva che zia Angelina morisse, nonostante fosse soffocante. Non
voleva che morisse semplicemente perché credeva sarebbe
stata colpa sua. E fu in quel momento che comprese.
A undici
anni si crede che voler bene a una persona che ne vuole a noi sia
naturale e semplice, come respirare. Poi si cresce. E niente. Si cresce
e basta.
Le cose
naturali diventano uno sforzo che si eviterebbe volentieri e quando si
capisce che ne vale la pena, di ritrovare quel senso di naturalezza,
allora di comincia a marcire. Era quello che stava succedendo ad
Angelina e a Ciel, solo in modi diversi. Erano a due stadi differenti,
ed anche le conseguenze lo sarebbero state. Ma in fondo, Ciel
già sapeva come sarebbe finita.
Perché
lui, a undici anni, era già cresciuto abbastanza da capire
che per lui era uno sforzo amare. Avrebbe dovuto capirlo quando suo
padre era caduto, morendo, davanti ai suoi occhi. Avrebbe dovuto
capirlo quando si era chiesto se sua madre fosse già morta,
desiderando, se era ancora viva, che morisse tra le braccia di suo
padre. L'aveva desiderato perché morire tra le braccia di
chi si ama, anche se la morte la si affronta sempre da soli, dona
un'indescrivibile rabbia a chi osserva la scena. E forse, se Ciel
avesse visto i suoi genitori stretti l'uno all'altra, freddi e privi di
vita, avrebbe capito prima cos'era quella sensazione che da allora lo
tormentava. Avrebbe voluto provare rabbia quella volta, e non vedere
suo padre tendere verso di lui. Era stato ipocrita? Stava morendo e
sapeva che quel tendere non sarebbe servito a nulla, eppure l'aveva
fatto, illudendo Ciel. Sua madre non l'aveva neanche vista, ma non
aveva potuto fare altro che immaginare il suo abbraccio se fosse stata
viva, per poi chiedersi se i suoi occhi fossero come quelli di suo
padre, spenti e vuoti.
Avrebbe
voluto odiarli, perché la loro naturale tendenza ad amarlo
era svanita così facilmente... L'avevano lasciato solo. E
per un attimo avrebbe voluto odiare più loro che gli
assassini. Era quella la decadenza dall'anima? Oppure era solo normale
provare quelle sensazioni contrastanti e distruttive?
Vomitò
violentemente ai piedi del letto dopo averlo capito, domandandosi se la
cioccolata calda di zia Angelina avrebbe potuto alleviare quel senso di
indicibile amarezza che gli stava assediando le membra.
In quel
periodo, per la prima volta in vita sua, Ciel pensò di
chiedere aiuto a Dio. Se in certi momenti si ritrovava a piangere per i
suoi genitori lacrime che mai scendevano per pura vergogna,
perché non si riteneva degno di sfogarsi, altre si chiedeva
cosa avrebbe fatto se avesse rivisto gli assassini, ormai uccisi dalla
vendetta che aveva reclamato in presenza della luce tagliente. Allora
sentiva le tenebre avvicinarsi e l'anima perdere un pezzo, come
divorata. Era come se il suo corpo stesse cercando di scacciare un
ospite indesiderato, un parassita. Oppure era il contrario? Forse era
lui il parassita, quello che non aveva mai avuto un'utilità
concreta. Magari stava semplicemente espellendo la parte debole. Da
allora, aveva smesso di guardarsi allo specchio.
Un'altra
cosa che all'inizio non aveva potuto notare perché d'estate
zia Angelina non accendeva il camino, era il terrore che provava di
fronte al fuoco. Gli bastava sentirne il calore anche da lontano e i
suoi occhi diventavano cenere bruciata. Poi cecità totale e
febbre alta, come se i nervi avessero ceduto, uccidendolo da dentro.
In un
momento di delirio febbrile, mentre la zia cercava di far scendere la
febbre in tutti i modi che conosceva e standogli accanto notte e
giorno, Ciel fu travolto dal ricordo che aveva serbato nella memoria
perduta. Quella fine che aveva cercato di cancellare con la storia
dell'amore naturale, con il fatto che avesse odiato sua madre e suo
padre quand'erano morti, con le fobie e gli abbracci soffocanti di zia
Angelina che, proprio quando sentiva quelle memorie risalire, ricercava
fino a farsi male.
Ma quel
giorno era fin troppo debole e privo di difese per evitarlo.
C'era buio, un buio che non
puoi immaginare neanche se spingi forte le dita sugli occhi chiusi. Poi
ti senti solo stordito e vedi strane macchie nel vuoto se provi a
guardare. Era un buio che forse non era fisico, ma mentale. Forse Ciel
non voleva vedere, sperando che le tenebre lo conducessero il fretta
alla morte. Probabilmente era una reazione del corpo, ma era come se
qualcosa la stesse contrastando, perché i suoi pensieri
stridevano in quel buio. Pensava che... Non gli importava
più che i suoi genitori fossero morti, voleva morire anche
lui; li avrebbe rivisti se fosse davvero morto, ma non era sicuro che
fosse quella la ragione per la quale voleva mandare via la vita. Non
era sicuro che volesse
mandarla via. Non era sicuro di nulla, neanche delle sbarre gelide che
sentiva premere contro il viso e le ginocchia, oppure il legno grezzo e
graffiante sotto le gambe. Non era reale, nulla lo era. Non
provò neanche a ripeterlo a se stesso, non aveva la forza di
respirare. La gola bruciava e le palpebre erano pesanti, tanto che
c'erano voluti minuti interi – forse ore, non aveva contato
– per aprire gli occhi e scoprire un buio più
pesto di quello che aveva conosciuto a occhi chiusi.
Una parte di lui, quella che
fiocamente invocava ancora libertà, avrebbe voluto sapere
dove si trovava e poi fuggire. Gli era rimasta una traccia vaga di
istinto e avidità, ma così deboli da non
compensare il resto. Non avrebbe nemmeno pianto, le sue lacrime non
valevano nulla, né credeva di
riuscirci.
In tutto
quel tempo – quanto era passato? Un secolo? - aveva persino
dimenticato di avere paura. Non era paura quella che aveva sentito
prima, si diceva, se provava a riflettere negli anni. Era solo una
confusione così disordinata e priva di senso che gli aveva
lacerato il cervello, costringendolo a spegnere le luci, lasciando che
fosse qualcun altro a guidarlo. O a mandarlo a morte. Non faceva
differenza ora che si trovava lì.
Proprio
mentre pensava di rannicchiarsi contro le sbarre, in una posizione
più comoda, una luce forte gli bruciò gli occhi.
Avvertì un dolore forte che si propagò fino alla
testa, costringendolo a vomitare come un animale sulle sue stesse
gambe.
Sentì
voci, passi, sbatacchiare di qualcosa. Sentiva il suo respiro, infine,
per la prima volta. E seppe una volta per tutte di non stare sognando,
perché quando sognava non si concentrava mai sul respiro.
Respirava...
faceva male, ma respirava. L'ossigeno poteva ancora sorreggerlo e
donargli un poco di lucidità. Solo un po', perché
quella luce forte l'aveva accecato. E inspiegabilmente si
ritrovò a sentire la mancanza del buio totale di prima.
L'ultima cosa che vide prima di
venire cacciato fuori da quella gabbia fu, per la seconda volta, quella
luce tagliente – o la luce veniva semplicemente tagliata? Che
importa, pensò. Diversamente da quando l'aveva vista al
maniero, ora quella luce gli sembrava macabramente bella, come qualcosa
da afferrare, anche se a giudicare dall'aspetto gli avrebbe lacerato le
mani. Eppure
sentì di dover correre il rischio perché, nella
confusione totale e nel disordine della mente, aveva finalmente trovato
un pensiero serio a cui aggrapparsi: devo vivere. E
desiderò vendetta.
***§***
Note di Bella: Grazie mille a signorino per
aver commentato! (la storia su Ciel ci starebbe proprio bene,
effettivamente. Ci sto seriamente pensando ** Grazie per i consigli,
cara, è vero che il mio stile si addice poco alle long.
Tendo sempre a filosofeggiare XD Ma mi impegnerò sicuramente
per migliorare. Un bacione ^^)
Bella.
3 : Riferimento all'ultima puntata dell'anime, quando Ciel dice a Sebastian – che qui non c'entra nulla – di divorargli l'anima così da fargli più male possibile.
4: Son of Rust, The World you live in
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Capitolo 3 *** 3. Kurohitsugi ***
3. Kurohitsugi
I
Ciel
Pensare di provare
a toccare una luce per aggrapparvisi, pensò dopo anni il
Conte, sembrava piuttosto un modo per morire. Invece, quando Ciel aveva
visto la luce tagliente era stato certo che se l'avesse raggiunta
sarebbe sopravvissuto.
Non aveva
importanza che gli uomini che l'avevano rinchiuso lì
stessero morendo uno ad uno man mano che quella luce avanzava,
cacciando dal petto quelli che a Ciel sembravano nastri bianchi e
lucenti, pieni di immagini che non pensò neanche per un
istante di guardare. Dopo, quando quei nastri si riavvolgevano, essi
cadevano. Non come era caduto suo padre. La loro caduta somigliava al
sasso che precipitava nel lago, perché quando toccavano
terra era come se nell'aria si dipanassero cerchi concentrici di
energia, e quell'energia Ciel si ritrovò a berla avidamente,
e sapeva di odio. Che importa, si disse per la seconda volta quel
giorno. L'importante era che potesse sostenerlo per condurlo finalmente
alla fonte della luce tagliente.
Ma più
quegli uomini morivano, nutrendolo, più la luce diventava
fioca e i suoi contorni venivano smussati. Non aveva più
l'aspetto di una luce che gli avrebbe lacerato le mani. Allora, prima
che svanisse del tutto, spinse una mano fuori dalla gabbia, sentendo
una delle sbarre premere contro il petto che, esile, riusciva a
fuoriuscire anch'esso. Lì doveva esserci il cuore,
perché le sbarre cominciarono a pulsare, come se ormai la
gabbia fosse parte di se stesso. Come se stesse mettendo radici. Non
poteva permetterlo, perché doveva uscirne per vivere. Spinse
di più, tendendo al massimo anche le dita della mano, e
quando pensò di starsi avvicinando davvero, si accorse che
era la luce a venire più vicina. E lì, tra il
biancore ormai grigio, distinse una figura alta, scura, avvolta da un
suono che da quel momento in poi non l'avrebbe più lasciato.
Una risata.
Uscire dalla gabbia, a quel
punto, era stato un po' come morire per nascere ancora una volta. Il
suo corpo gli era come estraneo e sentiva di non essere più
la stessa persona. Ma questo non lo pensò, si
limitò a sognarlo quando quella figura alta e scura lo prese
tra le braccia per condurlo fuori di lì. E in un angolo
della sua mente, torturata dal buio e distrutta dalla prigionia, la
punta di una luce cercava di districarsi in quel rovo di tenebre. Ma
lui non le avrebbe dato il permesso di uscire.
***
“Sa, Conte, lui è lì che
vi aspetta.”
“Incredibile come possiate
entrare in simbiosi con una bara.”
“Potete anche dargli questo
nome, se preferite, ma il Kurohitsugi non gradirà. E poi,
sarete voi quello che si unirà indissolubilmente ad
esso.”
Uscire da una gabbia per
entrare in un'altra. Ecco, invece, qual era il paradigma dell'esistenza
di Ciel Phantomhive in quell'istante. Dopotutto, era stata una sua
scelta.
L'uomo alto e scuro
era tornato nell'inverno in cui Ciel aveva compiuto dodici anni. Zia
Angelina era al lavoro, nel suo studio medico, e Ciel era rimasto a
casa in compagnia dei soli Tanaka e della governante, Claire.
Era da quando aveva
aperto gli occhi, quella mattina, che sentiva che qualcosa si
avvicinava, qualcosa che l'avrebbe portato via. Ma non aveva mostrato
paura né esitazione, continuando a sorseggiare il suo
tè nel salone della casa.
Comparve quasi dal
nulla, ondeggiante e accompagnato dalla stessa risata che il Conte
sentiva continuamente.
“Stavate aspettando il mio
arrivo. Gentile da parte vostra.”
“Non ho aspettato per
cortesia.”
“Chiaramente. Paura,
dunque?”
Gli occhi
saettarono verso quelli dell'uomo – celati – che
poi avrebbe scoperto chiamarsi Undertaker, un becchino e uno Shinigami.
Uno Shinigami con cui aveva stretto un patto per vivere.
“Rimpiangete la vostra scelta,
Conte?”
“Affatto. Quello che volevo
quella notte è stato esaudito, anche se un disegno
più grande prevedeva accadesse il contrario,
piuttosto.”
“E' sempre divertente sentirvi
parlare attraverso mie citazioni.”
“Quella notte, caro Conte, un
disegno più grande prevedeva accadesse il contrario. I
vostri assassini sarebbero dovuti sopravvivere, mentre voi...”
“Non l'hai fatto per
pietà. Ma per un disegno ancora più
grande.” comprese Ciel, poggiando la tazzina ormai vuota sul
tavolo. E Undertaker rise, sapendo di aver preso una saggia decisione,
quella notte.
“Desiderate che vi esponga
ancora i punti del patto?”
“Osi forse insinuare che potrei
non rispettarlo?”
“No. Voglio semplicemente che in
quel momento siate pronto. Il Kurohitsugi non accetta
esitazioni.”
“Non
esiterò.”
Ma Undertaker lo sapeva
già.
“Sono stato salvato da
te?” fuori dalla gabbia, quella confusione iniziale aveva
reso chiare molte cose. E l'uomo che gli stava di fronte ovviamente gli
aveva salvato la vita per ottenere qualcosa in cambio. Qualcosa che
desiderava fortemente.
“Sono arrivato appena in tempo,
Conte. Se non vi avessi salvato io, non oso immaginare quale
sorta di creatura
avrebbe potuto condannarvi all'inferno.” e Ciel seppe subito
che lo Shinigami
non si riferiva a
quello che sarebbe successo se il sacrificio avesse avuto successo,
quanto più al contrario.
“Cosa vuoi in cambio?”
“Vi sentite in debito?”
“Parla.”
Undertaker sorrise
silenziosamente, un silenzio strano che non era mai appartenuto alle
sue risate. Non erano rumorose, ma neanche così
profondamente silenziose.
“Kurohitsugi.”
rispose.
Un sarcofago oscuro, nero,
sulla cui bellezza Undertaker aveva tessuto lodi, ma che per Ciel
rimaneva pur sempre una bara. Ciò che era importante, al di
là del meraviglioso aspetto del sarcofago, era quello che
sarebbe successo una volta chiuso.
“Sigillato in quella bara in
eterno.”
“Sarcofago, Conte.”
“Suppongo non sia quella la
parte peggiore.”
Il Kurohitsugi avrebbe reso
la morte più eterna di quanto il concetto di morte
già non fosse. Non divorava l'anima, non lasciava che fosse
il corpo a patire le pene come succedeva all'Inferno. Il Sarcofago
Oscuro avrebbe trasferito nel proprietario dello stesso tutto
ciò che Ciel aveva sentito, provato, visto e pensato nella
sua vita, seppur breve. Il mondo al di là di quello, per il
Conte, avrebbe trovato dimora in Undertaker.
No... non gli avrebbe
divorato l'anima, l'avrebbe guardata, scrutata, carezzata, conosciuta e
spogliata di ogni segreto.
“Posso chiedervi, Conte,
perché avete accettato?” una domanda stupida prima
della fine. Questo avrebbe reso più deliziosa l'anima di
Ciel, forse. O non sarebbe cambiato nulla.
Ciel non rispose, tuttavia.
Non ad alta voce. Forse non voleva che quegli uomini, o qualunque cosa
per loro, prendessero la sua vita, anima, corpo. O magari era giusto
che finisse così. Se lo sarebbe domandato in seguito.
“Ricordate il momento in cui
avete desiderato che quegli uomini venissero colpiti dalla mia
falce?”
Ricordava la vendetta, la
marea di crescente oscurità che gli era nata dentro. Ma,
più di quel momento, ricordava...
Non era stato un
vero momento, precisamente posizionato in una cornice di tempo. Quel
desiderio era nato gradualmente, fino a diventare un groviglio di buio
che aveva imprigionato la luce. Quella luce avrebbe dovuto condurlo
alla morte, invece era stato abbastanza forte da far sì che
accadesse il contrario. Già... a volte si illudeva che, in
fondo, avesse fatto tutto lui. Si illudeva, dicendosi che Undertaker
avesse semplicemente approfittato della situazione per incastrarlo,
costringendolo a stringere il patto del Kurohitsugi.
“Ricordo solo il momento in cui
mi sono chiesto il motivo di tale gesto. Escludendo il disegno
più grande, mi sono chiesto perché uno Shinigami
avrebbe dovuto agire in quel modo. Anche la morte è
corrotta?”
II
Undertaker
Quando la voce di
un piano di purificazione del mondo a opera degli Angeli era giunta
alle orecchie degli Shinigami, ai piani alti ci si era immediatamente
chiesti che posizione assumere: neutralità? Correre in aiuto
degli esseri umani e fermare quella follia? Le opinioni erano diverse,
i vantaggi minimi e la possibilità di vincere incerta.
Tuttavia, il compito di occuparsi delle anime degli esseri umani era
sempre spettato agli Shinigami. Perciò, in quel momento,
quale che fosse la loro posizione rispetto al mondo umano e al mondo
angelico non era importante. I loro compiti andavano preservati.
Undertaker, al tempo, trovò quel terreno di gioco
estremamente stimolante. Aveva sempre pensato che tutta la fame
accumulata sotto i cuscini reali avrebbe ben presto spaventato la
regina, sempre che ella ne fosse consapevole.
E aveva riso tanto,
fino a scoppiare, quando s'era reso conto che dopotutto, in tutto quel
gioco pericoloso, gli Angeli si fossero rivelati della stessa pasta dei
Demoni.
Ma se i Demoni
approfittavano della fame bruciante degli uomini, gli Angeli avevano
fatto l'esatto contrario. Prima o poi, quel continuo astenersi avrebbe
corroso l'anima della gente, rendendo più semplice cadere
nel peccato. E la corruzione dell'anima non ha un bell'aspetto
né un buon odore per gli Angeli.
Chiaramente, un piano ben
congegnato come quello, prevedeva che il punto di inizio si rivelasse
facile da intuire, soprattutto se sei uno Shinigami Leggendario e i
tuoi interessi coincidono in maniera diametralmente opposta con quelli
di un Angelo. E anche se lo Shinigami avrebbe dovuto essere
lì dove lo scontro infuriava, come una tempesta, si perse
l'intera battaglia, sapendo perfettamente che ne avrebbe
combattuta un'altra per conto di qualcuno molto più
interessante. Il suo disegno più grande, dopotutto, coincise
con la fine di ogni possibilità di prevalere degli Angeli.
Era Ciel Phantomhive l'obiettivo finale, principale. Ma lui non l'aveva
mai saputo.
La purezza totale si
corrompe più facilmente...
La purezza nasce
già con il germe impiantato.
La purezza senza briglie
dilaga. E poi infetta.
Una delle domande che
Undertaker si era posto in seguito, probabilmente la prima domanda che
si era fatto in tutta la sua lunga esistenza, era perché non
avesse rivelato a Ciel Phantomhive ogni particolare di quel grande
piano, di quell'assassinio.
Eppure bastava che guardasse
nei suoi occhi e capiva che, in fondo, quel ragazzino non credeva
affatto che quella notte di sangue fosse giunta casualmente.
L'ultima delle domande di
Undertaker, invece, era perché il Conte non gli avesse mai
chiesto niente. Ma probabilmente si era posto quegli interrogativi solo
per conoscerne il sapore, sapendo che in verità la risposta
era sempre stata lì.
III
Ancora stelle nere
This is the world you live in
Consumed by lust and love and hate
Restrain and try not to give in
Pray that it's too late
This is the world you live in 5
Una cosa che Ciel
Phantomhive aveva sempre saputo era che quella notte era effettivamente
morto, e non in maniera metaforica o esclusivamente mentale o morale.
Era morto per quei pochi
istanti necessari affinché potesse mordere quelle stelle e
succhiarne l'essenza. E capire.
Per questo aveva
accettato il patto? Undertaker aveva già avuto la sua
morte... La sua anima gli apparteneva di diritto?
Una cosa che Ciel si era
sempre premurato di mantenere nel silenzio era che sapeva.
Ma i suoi occhi erano grandi
abbastanza e inevitabilmente collegati allo Shinigami Leggendario per
il patto stretto che quel silenzio si era trasformato velocemente in
uno sguardo rivelatore. Quella notte, il Conte aveva succhiato
abbastanza conoscenza da sapere che non sarebbe diventato quello che
gli altri volevano diventasse: un cane da guardia della regina, un
sacrificio di purezza, come era stato suo padre, suo nonno e altri
prima di loro. Tutto quello che si era azzardato di desiderare era
stato realizzato quella notte dall'intervento di Undertaker, con la sua
luce tagliente.
Da lì in poi, il
tempo che si era preso era servito solo a rendere più
divertente quel finale. Una sorta di ringraziamento al becchino, forse,
oppure solo istanti in più per tornare al vecchio lago e
riempirlo abbastanza di pietre e sporcarsi le mani, così da
sapere che non sarebbe mai stato abbastanza sporco da eguagliare loro.
Undertaker l'aveva
sempre saputo? Per questo aveva accettato il patto? Lo Shinigami
desiderava lui così com'era, senza contaminare una purezza
già corrotta o purificare una corruzione che è
propria dell'uomo.
Un'altra cosa che il Ciel
bambino e quello adulto avevano sempre serbato nell'anima come il
ricordo peggiore, era l'ultima visione della casa e dei genitori. In
fondo, lui sua madre l'aveva vista.
“Mamma!
Papà!” avrebbe voluto urlare, chiamarli e non
limitarsi a correre per i corridoi del maniero. Avrebbe voluto che la
sua voce li raggiungesse, perché temeva che se non l'avesse
fatto si sarebbero dimenticati di lui.
In quel preciso
istante, mentre correva, vide già l'ombra di una di quelle
stelle e forse iniziò la sua consapevolezza.
Aprì la
porta e vide suo padre cadere, piano, con la mano tesa verso di lui.
Quello che successe dopo, forse, aveva cercato di cancellarlo, oppure
di farlo scorrere velocemente, così velocemente da
apparirgli come una macchia sfocata.
Gli uomini sono
inclini all'inganno...
Ciel aveva ingannato se
stesso.
“E' pronto, Conte?”
Era tempo di scrivere la parole
fine. Era tempo di andare per non tornare, stavolta. Rimase immobile,
al centro della stanza immersa nelle penombra, giusto il tempo che
Undertaker
lo vedesse.
“La morte è
più benevola di quanto si possa immaginare,
Conte.” disse, immaginando facilmente cosa vi fosse nella
mente di Ciel.
Il blu degli occhi
di sua madre... sul volto di suo padre.
La mano tesa verso
di lui, delicata e dolorosa come una promessa d'eternità non
mantenuta. Lo sguardo spento di suo padre mischiato alla vita ancora
appena accennata di sua madre. Lei l'aveva visto, in quel momento. E
lui l'aveva cancellata, immaginandola morta altrove. Invece lei c'era e
nel suo sguardo aveva letto pena e dolore. Un “mi
dispiace”, “perdonami”,
“Ciel...” mai sussurrati, ma scritti nel blu.
… non si era più
guardato allo specchio. Il blu.
Alla fine erano morti
insieme, in un abbraccio perverso e macabro, e lui non li aveva mai
odiati, anche se avrebbe voluto. Tanto, fino a stare male e a soffocare
tra le braccia di zia Angelina, fino a chiedere aiuto a Dio, fino a
temere il fuoco per non ritrovare il blu dello sguardo acceso nella
memoria. Consumato dall'odio, per non essere consumato dall'amore.
Chiuse gli occhi. Era tardi
per pregare e inventarsi paure.
Ormai era tempo di liberare
la luce da quel rovo di tenebra.
IV
Le sensazioni che si provano
quando si è consapevoli di morire volontariamente sono
estremamente forti e chiare.
“Vi tratterò come le
conviene, Conte.” sussurrò Undertaker, osservando
il corpo dell'altro.
Ciel, seduto nel Sarcofago
Nero ma non ancora disteso, ricambiava lo sguardo.
“Non osare dimenticare chi sono,
Shinigami.” disse, afferrando un lembo della sua veste scura.
Undertaker, il viso vicino al suo, sorrise. Ma quella volta il silenzio
non fu così profondo, sapeva solo di verità.
“Non lo
farò.”
Ancora una volta, come era
successo anni prima, Ciel udì il suono del respiro. Ma
questa volta già sapeva, senza bisogno di ascoltarlo, che
non era un sogno. Altrimenti non si sarebbe spiegato le labbra di
Undertaker sulle proprie, seppur per un istante scarso. Si
allontanò subito, giusto il tempo di concedergli il sapore
ancora vitale di quella che sarebbe stata la morte. E poi le dita di
quello che sarebbe diventato presto il suo aldilà, fredde,
cominciarono a premergli sugli occhi ormai chiusi. Lentamente, lo
spingevano giù, adagiandogli il corpo sul fondo del
Sarcofago. Poté vedere quella caduta anche a occhi chiusi,
lenta, fino a quando la testa non incontrò la pietra e tutto
finì.
Non osare farlo... altrimenti,
io stesso dimenticherò chi sono.
FINE
5: Son of Rust, The World you live
in
Note di Bella: Ed eccoci giunti alla fine.
Grazie per aver letto ^-^
signorino: Elizabeth c'era nella
bozza iniziale, insieme a Madame Red in altre scene. E c'erano anche
altre parti, ma ho dovuto tagliare per motivo di spazio. Mi rendo che
avrei potuto lasciare qualcosa, ma in quel momento ho
calcolato male. In ogni caso, mi stai facendo venire voglia di
pubblicare una raccolta di spin-off. Grazie grazie grazie
*cuore*
Bella.
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