Eros e Psyche di trullitrulli (/viewuser.php?uid=46671)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***
Capitolo 4: *** Ultima parte ***
Capitolo 1 *** Parte prima ***
Eros e Psyche
Il mio nome
è Psiche, la mortale.
Sono figlia minore di un re e di una regina. Oltre a me, i miei buoni
genitori
hanno due figlie dall'aspetto leggiadro e belle come due rose.
Ma per quanto siano graziose la loro bellezza potrà sempre
essere interpretata
con parole mortali.
I forestieri in viaggio potranno descriverla ad altri forestieri lungo
il loro
cammino, che a loro volta racconteranno la loro fama agli abitanti
delle
proprie patrie.
Ma non c’è stato ancora complimento o descrizione
che non siano sembrati smunti
al confronto con la vista della mia bellezza, che dicono -e lo
riconosco con un
po’ di timore quando vedo emergere la mia immagine nello specchio-
talmente radiosa,
talmente delicata e così superiore a qualsiasi lode da
rivaleggiare con
Afrodite, la divina regina dell'amore, al cui passaggio leggero e
invisibile i
fiori e le rose sbocciano in suo onore…
Nessuno andò più ai templi a
rendere omaggio alla legittima dea: non toccarono più gli
altari, non
bruciarono più ghirlande o uccisero agnelli,
poiché gli uomini erano convinti
di avere Afrodite in mezzo a loro.
La mia fama mi precedeva ovunque andassi.
Nel regno dei miei genitori al mio passo intimorito la gente
per
strada mi ricopriva di petali e fiori, sciolti o legati in mazzi, e mi
vedevo
rivolte preghiere ed offerti i sacrifici della dea.
Non volevo che gli immortali credessero che con la mia bellezza avanzassi
delle
pretese di divinità.
Pensavo che dividere con Afrodite la sua fama mi avrebbe attirato
l’ira della dea, e
così mi schermavo sempre, impaurita come una creatura del
bosco, respingevo
dolcemente le preghiere e i doni votivi, e io stessa, intimidita, supplicavo i
supplici che
non si prostrassero davanti a me e non si umiliassero ad abbracciarmi
le
ginocchia e a coprire di baci i miei piedi.
Nonostante la mia bellezza avesse la fama di essere divina, era sterile
ed
infeconda, e mi aveva lasciata in una desolata solitudine.
Le mie sorelle, avvenenti, ma di bellezza più modesta, si
erano felicemente
sposate ed avevano unito la nostra famiglia con quelle di due
re.
Nessuno,
invece, osava avanzare proposte nuziali per me, che ero ammirata
ovunque, ma
con l’ammirazione per le statue che, per quanto siano perfette,
rimangono solo delle immagini di beltà. Per i mortali io ero un simulacro prima di essere una donna. Nessuno nei miti e nella storia amò mai una
statua o volle vivere e morire per un
simulacro.
Credevo che, se fossi stata solo graziosa come una mortale, qualcuno
avrebbe
avuto il coraggio di sposarmi, e finii per detestare quella bellezza che
mi
restituiva lo specchio e che piaceva tanto a tutti.
Mi tormentavo i capelli e piangevo,
e quando ero esausta e senza forze mi alzavo e camminavo intorno con
sobbalzi
di pianto, talmente triste e debole che sentivo la mia testa come una bolla d'aria.
Disperata, credevo di esser tormentata dall’odio di Afrodite
per aver osato
essere bella come lei. Un giorno mi gettai in ginocchio davanti a mio padre e
piagnucolai,
supplicandolo di andare a chiedere all’oracolo
di Mileto se avrei mai avuto uno sposo. Mio padre mi accontentò, ma
quando ritornò aveva una faccia più contrita e
disperata della mia.
Il responso del dio era stato:
“Sopra
un'alta montagna lascia, o
re, la fanciulla ornata per le nozze di abiti funerei. Non aspettarti
un genero
nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino,
che
volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con
ferro e con fuoco
distrugge ogni cosa; che lo stesso Zeus teme, di cui gli dei hanno il
terrore e
anche i fiumi infernali e le tenebre dello Stige”*
La sorpresa
fu violenta e improvvisa come
una bastonata a tradimento sulla nuca.
Cosa aveva una forza talmente virulenta? Cos'era
talmente aggressivo e invincibile da essere temuto dalle creature che
vivevano
nelle gole dei luoghi della morte e dagli dei, che pure erano supremi,
austeri e
potenti?
I miei genitori non avrebbero mai osato non obbedire al responso e da
parte mia
non feci mai nulla per impedirglielo, approvandolo fin dall'inizio con un po’
di paura.
Al mio matrimonio non suonarono il flauto nuziale, ma la nenia di morte
della
Lidia, mentre io, sulla rupe indicata, piangevo nei veli matrimoniali.
Tutta la città si era unita al dolore dei miei buoni
genitori e celebrava
insieme a loro le esequie della figlia viva.
Rimanevo elevata sopra la folla, sulla rupe dove ero stata
deposta
alla fine della processione, ad assistere alla vista del mio corteo
funebre.
Ed ecco il risultato di possedere una rara bellezza, pensavo, e di
essere
chiamata in coro dai popoli “nuova Afrodite”.
Avevo le guance bagnate e rosse e le spalle scosse dai singhiozzi.
Tremavo come
se la terra sotto di me fosse terremotata.
Mia madre e mio padre si arrampicarono sulla mia rupe e mi strinsero
entrambi
in un commosso abbraccio che mi ridiede il coraggio e la forza di un
uomo. Così,
infine, per un po' fui io a confortare loro, spingendoli verso quel
misfatto.
Li amavo troppo per fare qualcosa
per impedirglielo.
Sentivo che se le loro braccia non mi avessero tenuta tutta insieme sarei
caduta a
pezzi, e quando mi abbandonarono rimasi ad osservarli allontanarsi
insieme agli
altri, con le ginocchia tremanti.
Il pianto nella mia voce era diventato talmente dirotto che non
riuscivo neppure a
salutarli da lontano ma, quando la processione sparì tra le rocce, all'improvviso sentii l’aria, finora senza
forze, vorticare
attorno a me, e le nubi abbassarsi sulla mia testa.
L’orlo del mio peplo cominciò a svolazzare sulle
mie caviglie ed un mulinello
furioso di foglie secche e polverone si scatenò
travolgendomi in pieno e trascinando
i miei capelli e i veli nuziali.
Mi sentii sollevare dal vento per le braccia e poi da sotto le ascelle
e per le gambe,
quasi che l’aria fosse
di materia palpabile e avvolgibile
attorno al corpo.
Il vortice d’aria catturò delle nubi e mi avvolse
attorno una nebbia divina,
affinché nessuno potesse vedermi, o sentirmi, o toccarmi
mentre scendevo
dolcemente verso il pendio e venivo risucchiata sempre più
infondo dal candore
della foschia.
La meraviglia e lo spavento lottavano per prevalere l’una
sull’altro mentre il
pendio roccioso e acuminato finiva sulla collina in un prato verde,
apparso
dietro la nebbia che si diradava. Lo Zefiro mi conduceva leggiadro, tra
veli
aleggianti e soffi leggeri, su un letto di fiori dove era ammucchiata un
po’ di
paglia.
Cullandomi dolcemente, quasi in un grembo materno, l’aria
calda mi depose per terra.
Smettendo di vorticare sotto di me, la corrente si spostò e prese a girare su se
stessa, trascinando
polvere, foschia e foglie secche. Con queste cose simulò
l’immagine di un
uomo divino (a vederlo un meraviglioso prodigio) che camminava senza
suono di
passi sull’erba, coinvolgendo altri rametti dentro il suo corpo di nuvole e polvere.
Col palmo rivolto al cielo, vicino alla bocca, mi soffiò
addosso un profumo
penetrante di vino.
Sentendomi sopraffare dalla stanchezza
che veniva dallo sfogo delle lacrime e dall’aria intossicante,
che saliva fino alla mente pungendomi nel naso e provocandomi la
sensazione di una sbornia spaventosa, cedetti e dormii
pacificamente nel fieno, finché l’incantesimo di
Zefiro non si diradò nell’aria
attorno…
Il risveglio fu un lento spalancarsi d'azzurro davanti ai miei occhi.
Mi ero svegliata al suono del corso ridente di una sorgente
d’acqua dalla
purissima trasparenza e dai bei scintilli, con un mal di testa pulsante
dietro agli occhi.
Visto che dal tramonto del giorno prima il sole ora splendeva a
metà del
compimento del suo percorso, nel pieno del cielo d'un azzurro
così profondo da
rasentare le tinte viola, capii di aver dormito tutta la notte prima e
buona
parte del giorno.
Mi rigirai ed affondai nel mio
giaciglio di fieno. Con le braccia intorpidite feci forza sui gomiti
per
alzarmi un po’, attorno a me c’era
l’atmosfera eterea ed idilliaca dei capi
Elisi.
Avevo dormito in un piccolo spiazzo del bosco, a cielo aperto.
Mi alzai pulendomi il fieno dal
peplo e osservando il bozzetto idilliaco.
Tutto il giardino era pervaso di lucore: attorno a me, dopo la
bellissima fonte
dalle onde tranquille che la facevano luccicare al sole,
c’erano un boschetto
di alberi alti e grandi abbastanza da ricoprire l’orizzonte.
A sua volta circondato dal boschetto, come la radura, c’era
un palazzo che
sovrastava tutto, e sembrava alzarsi fino a voler raggiungere il cielo,
nella
sua parte più alta e inaccessibile, dove non c’era
l’aria.
Attraversai la bella corrente domandandomi
in che mare finisse e se seguisse la strada di casa.
All’entrata si capiva con certezza di trovarsi in una dimora
degli immortali.
I soffitti erano alti, intagliati in legno di cedro, oppure fatti in
marmo, e
le colonne erano grandi quanto grossi tronchi d’albero.
I muri e i pavimenti erano d’oro cesellato pieno di figure in
rilievo che
sembravano voler uscire dalle pareti dov’erano scolpiti.
Neppure tutto l’oro e l’argento di ogni tempio
sarebbero bastati a raggiungere
la ricchezza del bel castello.
Ogni opera aveva una gran finezza artistica che poteva venire solo
dalle mani degli dei e tutto era talmente bello e dorato che il palazzo era di per se
stesso
luminoso anche senza il sole.
Dove le superfici non riflettevano
la luce in sfolgorii infuocati o argentati ogni cosa era del bianco
soffuso del
marmo.
Il prezioso palazzo si estendeva in mille stanze in lungo e in largo e
la
curiosità aveva la meglio sul senso di smarrimento.
Ma non ero indifferente al fatto che qualcuno mi avesse rapita e che
non
potessi tornare da dove il Zefiro mi aveva portata via.
Chissà se i miei genitori mi sarebbero tornati a cercare o
se invecchiavano nel
lutto con rassegnazione.
Mai un mortale aveva avuto tanta abbondanza e aveva passeggiato
sull’oro e su
gemme come quelle. Ma il miracolo di quel luogo era che niente era
sotto
custodia, nonostante l’avidità di tanti uomini
potesse essere attirata a
rubarli, tutto era senza catene e senza lucchetti.
Sentii un moto d’aria come per lo spostamento di un fantasma
e poi delle voci
incorporee.
“Perché ti stupisci che non sia protetto nulla
quando la padrona è a casa?”
Non ebbi il coraggio di rispondere alle voci che mi giravano intorno
né di
contraddirle o di respirare.
“Tutto quello che ti circonda è tuo, anche noi che
siamo ancelle.
Il tuo sposo ci ha ordinato di accontentarti in tutto, e ha rimesso a
noi le
tue sorti.
Se desideri riposarti, avrai un bel letto, quando lo vorrai potrai
chiedere
l’acqua per il bagno, con dei vestiti puliti. E se hai fame
non ci vorrà più di
un istante per trovare la tavola pronta…”
Dopo un lungo silenzio in cui attesero che reagissi decisi di mettere
alla
prova tutto ciò che mi dicevano.
Chiesi di poter mangiare e si allontanarono dicendomi di seguire i loro
canti,
mi orientai cercando di capire dove fossero fuggite dalla provenienza
della
loro voce, e così mi condussero in una stanza più
alta che ampia dov’era
imbandita una cena da regina su una tavola semicircolare.
Chiesi un'orchestra e un suono senza sorgente si propagò
insieme ad un armonia
di voci, e benché non si vedesse nessuno era chiaro che
c’era un coro in quella
stanza.
Domandai se potessero scaldarmi e il fuoco si accese da solo sulle
fiaccole
fisse al muro, annerite dall’ultima volta che si era spento.
Con grande meraviglia, e confortata da presenze tanto servizievoli, mi
feci
accompagnare alla stanza destinata.
Il castello era talmente solitario ed ampio che sentivo l’eco
dei miei passi e
di quelle voci degli spiriti che mi obbedivano.
Mi mostrarono la mia bella stanza, buia e grande, che dava su un ampia
finestra
e non aveva lumi.
Nel semibuio del tramonto pregai le ancelle aeree di trattenersi,
parlarmi,
confortarmi un po’ grazie alle loro voci, di raccontarmi
delle storie o di chi
fosse quel castello.
Ma presto capii che le loro erano parole prive di pensieri, date alla
casa e
all’aria, che potevano solo ricevere ordini e ripetere le
frasi che avevano
imparato grazie agli incantesimi di un dio.
La casa divina, dunque, era capace di parlare poche parole con tante voci di
ancelle,
ascoltare, obbedire, ma per un vano incantesimo, non per vere presenze e
vere
anime.
Diedi tutti gli ordini che mi vennero in mente per costringere le voci
della
casa a non abbandonarmi.
Le chiesi di cantare, di rassettare, di mostrarmi dove tenere i
vestiti, di
aprire la finestra, di accendere un lume, ma qui mi dissero che non
potevano
obbedire.
Battei i piedi, agitai i pugni, pregai, mi infuriai, ma mi risposero
con le
stesse parole di non poter obbedire, sicché non ci fu
più ordine che mi venne
in mente per non sentirmi sola e le voci cantarono allontanandosi col
vento.
Nel buio tesi le braccia davanti a me alla ricerca del letto e mi
sistemai tra
le coperte vestita, un po’ impaurita dalla sorte del giorno
dopo, di quello dopo
ancora e di quello seguente.
Mi prese un' ansia indifesa del futuro. Anche una gabbia preziosa e
dorata era
sempre una prigione.
Pensai a una solitaria vita d’abbondanza, di false presenze,
di ordini che
potevo dare al vento ogni volta che volevo un po’
d’aria. Era la vita da dei
che poteva condurre una mortale, pensai, e d'improvviso ero molto
irritata con
quelle voci finte.
Il buio era fitto e senza trame e non riuscivo a vedere la stanza
attorno a me.
Tra le mie coperte non mi addormentavo: mi sentivo
sveglia grazie a un
istinto che mi diceva di diffidare di tutto e di aspettarmi cose brutte
nascoste. Queste sensazioni mi tenevano in guardia perché in
tutta quella
bellezza e quella ricchezza avevo già scoperto le prime
venature imperfette e
inattese. Qualcosa mi faceva pensare che tutto fosse una falsa
apparenza e
che un terribile pericolo stesse in agguato.
Nel silenzio disteso sentii un battito d'ali potente, come il suono di
un
uccello gigantesco che atterra, e da come si era fatto
più buio capii che
qualcuno si era stagliato davanti alla finestra.
Avevo gli occhi sgranati, con tutti i sensi tesi a cogliere qualunque
indizio o
rumore minaccioso, mentre, in preda ad una vertigine di terrore,
pensavo con
ansia al responso dell'oracolo.
"…Non
aspettarti un genero
nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino,
che
volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con
ferro e con fuoco
distrugge ogni cosa…"
Girai piano piano la testa,
sperando che i miei movimenti rigidi, da preda braccata, non fossero
visibili al
buio. Ma, come non riuscivo a vedermi le braccia o le mani, non riuscivo a vedere
più in là.
Capii che qualcuno scendeva dal davanzale dal calpestio limaccioso di piedi
nudi sul
pavimento, e udii che gettava da parte con malagrazia qualcosa che
sferragliò in un
angolo.
Poi si mosse con passo cauto e in silenzio, chiusi gli occhi e mi finsi
addormentata, provando a mettere le coperte come ultima difesa tra me e
lui.
Era qualcuno che si stava avvicinando al talamo, e si era fermato
davanti a me. Sperai di convincerlo e di sembrare abbastanza innocente e immobile. Mi
sentivo
paralizzata e trattenevo il fiato
dall’ansia.
Sentivo i suoi occhi mettermi in esame percorrendo tutte le coperte.
Era da un po' di tempo che ero allerta, nel completo silenzio, quando
sentii un
sbuffo di stanchezza e un battito d'ali spazientito.
La paura mi tradì completamente perché sobbalzai
un po’.
Il mio ospite se ne
accorse e rise.
-I-io...io- alzai il viso dal cuscino, impaurita.
Mi misi in ginocchio sul talamo e nel buio vidi il bianco di un sorriso
birbante.
-I-io, sono Psiche- blaterai guardando confusa il sorriso addolcirsi
al suono della mia voce -L-le ancelle mi hanno ordinato di restare al
buio in
questa stanza...- e la sua voce approvò quel che dicevo con
un mormorio. Era completamente fermo, non spostava neanche il peso da una gamba all'altra, e dopo
un minuto di silenzio assorto che sembrò durare un giorno intero lo sentii sospirare di soddisfazione, come al raggiungimento di uno scopo che si era prefissato, e poi colsi il fruscio di vestiti sfilati.
Senza una parola, all’improvviso, lo sentii chinarsi davanti a
me, talmente
vicino alla mia faccia da vedere il bianco dei suoi occhi
luccicare, e per
istinto balzai dall'altra parte del letto. Ero senza fiato.
Appena si accorse che gli ero scappata gli sfuggì un basso
ringhio stizzito e
le ali sbatterono due volte imperiose, facendo volare le lenzuola.
Era spazientito perché si stava accostando a me ed io avevo
respinto il suo
gesto.
Lo sentii reprimere l’irritazione con un respiro profondo e
salire sul letto
per raggiungermi. Capivo dove si spostava dallo strusciare delle
lenzuola e dal
modo in cui il letto affondava sotto il suo peso, ma ad un tratto non sentii più i
suoi movimenti.
Tutto era talmente silenzioso fa farmi pensare di essere sola.
Senza osare respirare solo un po' più forte mi guardavo attorno nel buio impenetrabile, cercando di capire da che direzione sarebbe piombato,
quando
sentii che due ali piumate e morbide si chiudevano dietro di me avvolgendomi con dolcezza.
Provai a fuggire di nuovo cercando di dividere le ali, ma appena tentai
di ribellarmi
lo sconosciuto (se era un uomo) mi afferrò le mani e mi
ritrovai ancora più
velocemente sul suo petto.
Colse il momento per circondarmi con le braccia. Era un vero e proprio
assedio.
Spiegò le ali e le sbatté per la vittoria mentre
opponevo debolmente resistenza.
I suoi sospiri felici erano modulati come le fusa di un gatto e ,con me costretta vicino a lui, quell'essere sembrò placato e pacifico.
Non mi ero dimenticata che era mio sposo, ma non avevo neppure scordato
che era
anche il mio rapitore.
Avrà pensato che rapendomi, riflettei, avrei avuto tanta
paura di trovarmi lì, tutta sola - dov'era pieno di incantesimi e di dei dal volto fatto di
vento e
nebbia come il buon Zefiro - che sarei dovuta ricorrere per forza a
lui, il
viso che mi sembrava (o che piuttosto potevo immaginare) più
umano.
Mi fece sedere in grembo e mi poggiò il mento sulla testa,
con le ali
gentilmente ripiegate su se stesse per non ingombrare il talamo.
Sussurrava qualcosa a mezze labbra tra i miei capelli.
Ero circondata da lui in ogni direzione
“Accendi un lume” mormorai ora che mi ero arresa e
mi abbandonavo alle carezze. L'uomo grugnì come un bambino che non voleva fare quel che gli si diceva e nascose
il viso
nell’incavo del mio collo. Iniziò a frugarmi sotto
la veste, mi ignorava
sfacciatamente e cercava di fare solo quello che voleva il suo sangue.
“Chi sei? Se non posso vederti...” trattenni il
fiato quando prese a
mordicchiarmi un tenero lobo “...almeno fatti riconoscere
dalla tua voce, se
no, ti prego, accendi un lume per me”
Lo sconosciuto si fermò, si staccava di poco da me e mi
osservava. Capì che
vedeva anche al buio ogni fremito delle mie ciglia, ma io potevo solo
vedere il
bianco dei suoi denti.
“Non posso”. Oh che gioia sentire che parlava e con una
voce così profonda e così
bella!
“Perché no?”
Sospirò e ritirò le mani da sotto la mia veste,
mi prese per le spalle
insistendo con la presa delle mani.
“Non dovrai, mai, mai vedermi o sapere chi io sia. Accadranno
cose spaventose
se disobbedirai, ed io non potrò mai più tornare
da te...” lo disse esitando e
capii che per lui sarebbe stato terribile.
Sentii anche che costui non era solo violentemente incapricciato di me, ma che era
veramente uno degli dei colpito dall'incantesimo virulento delle frecce
di
Eros.
Perciò non protestai più e, ricambiandolo, mi
lasciai stendere sulle
lenzuola. Per tutta la notte, mentre sfogava il suo amore su di me, mi
avvinghiai forte a lui come se avessi voluto spezzargli il collo.
Il mattino dopo se ne era già andato senza una parola.
Le ancelle aeree avevano imparato parole nuove apposta per il mattino
dopo -sicuramente
perché era stato il mio visitatore a insegnargliele- e per
tutta la mattina non
fecero altro che restare vigili e, se mancavo di ordinare loro qualcosa
per
troppo tempo o se capivano che ero trasognata, non risparmiavano la voce
per
confortarmi.
“Tornerà ogni notte, così non ti
mancherà mai” e il misterioso sposo
tornò
ancora, ogni notte, come aveva promesso. Io lo aspettavo con gioia
raggiante
d’amore. Questa consuetudine ripetuta assiduamente rinnovava
sempre un gran
piacere e felicità. Traevo un gran conforto, se non dalla
vista del suo volto, dalla sua
voce.
Perché, sebbene invisibile, lui esisteva davvero e potevo
sentirlo, toccarlo e
parlare con lui. Non come le vane voci che risuonavano e obbedivano per
la
casa...
Continua...
*da
"Le metamorfosi" o
"L'asino d'oro" di
Apuleio
Siccome
da un po’ di tempo mi sta venendo una stramba ossessione per
gli dei Greci (anche
grazie alla bella storia di flyvy) ho deciso di riprendere uno dei miei
miti
preferiti, raccontato già da Apuleio, Amore e
Psiche, e di riscriverlo secondo
me…
Penso si protrarrà per tre capitoli con un eventuale
postfazione che
nella mia testa propende per non essere inserita.
Non mi faccio scoraggiare, perciò
siate crudeli, cinici, spietati, siate proprio stronzi quanto volete,
sbudellate e
distruggete e triturate e fate flambé l’ego di
autrice che c’è in me.
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Capitolo 2 *** Parte seconda ***
Eros e Psyche
La mia gioia raggiante
durò molto
a lungo. Era una gioia che mi scaldava dentro come il sole mi scaldava
la pelle.
Sentivo una grande frenesia di vivere e di cantare all’Amore
e volteggiare
danzando per tutto il bosco, ma ero chiusa in una casa vuota dove non
vedevo
mai nessuno e non parlavo mai con nessuno, sebbene il mio sposo mi
lasciasse
tante consolazioni materiali e doni d’oro.
Ogni volta che veniva c’era un
oggetto nuovo, alcuni sembravano di provenienza assai remota, e avevano
i
colori e il profumo dell’Oriente.
Non ero mai stata abituata a vivere lussuosamente
e, seppur fossi grata di tutto, me ne disinteressavo completamente.
Dopo tutto
quel tempo conobbi ormai a memoria ogni corridoio e avrei saputo
descrivere con
precisione millimetrica ogni statua o mosaico o ampio soffitto decorato.
“Che assurdità” pensavo
“proprio
quando la vita mi si apre davanti vengo chiusa qui dentro, e queste
ricchezze
per me non sono nulla…non sono buone conversatrici, ne
mi consolano per l'assenza del mio amato più di quanto facciano le voci aree...”
Una notte il mio sposo venne a
trovarmi e, come tante volte aveva fatto già prima di
quella, abbandonò
pesantemente il suo carico sferragliante ai suoi piedi e mi si
avvicinò.
Io balzai su dal letto e a
tentoni, con le mani tese, lo cercai nella stanza buia.
Il mio amore si divertì a
sfuggirmi costringendomi a seguire le sue risatine scherzose.
Alla fine mi acchiappò lui.
Prima di andarsene, quando l’alba
ormai si avvicinava in punta di piedi schiarendo le montagne ad Oriente e tingendo le nuvole di un rosa
soffuso, mi disse
molto seriamente
-Anima mia, ascoltami
attentamente- mi prese il viso in una mano vedendo che mi si chiudevano
gli
occhi dal sonno –un orribile destino minaccia la tua vita. Le tue
sorelle non credono
alla notizia che tu sia morta e tuttavia temono di sbagliarsi,
perciò ti stanno
cercando e ben presto arriveranno anche alla rupe da dove sei giunta
tu. Se mai
sentirai i loro pianti giungerti attraverso il vento del buon Zefiro tu
non
rispondere. Anzi, non preoccuparti affatto di vederle. Se mi
disobbedirai per
me sarà un grande dolore e per te la rovina-
Il sonno sparì dai miei occhi,
li spalancai per lo stupore e il dispiacere, guardandolo come una bambina che ha
appena
ricevuto uno schiaffo e non sa nemmeno lei per quale ragione.
-No! Permettimi di vederle, ti
prego! Non può far nulla, non cambierà niente se
arrivano qui. Che rovina
potrebbero essere per me le mie sorelle?!-
-No Psiche, adesso dormi-
L’alba cominciava ad illuminare
ogni cosa. Mio marito si staccò velocemente da me. Io feci appena in tempo a vedere la sua ombra che si
proiettava
sul pavimento contro la luce del sole che era già sparito
dalle mie braccia.
Trascorsi il giorno tra lo
scoramento, mentre le voci attorno a me, in ogni momento di maggior sconforto, mi sussurravano attorno
ripetendo che ogni cosa era fatta per il mio bene.
Per tutto il pomeriggio continuai
a ripetermi che ora veramente mi sentivo finita, affondando in un
abisso sempre
più profondo e buio di malinconia.
Piansi e mi lamentai; non potevo
neanche confortare le mie sorelle, anzi, non potevo neppure vederle. Le
mie
sorelle! Le mie amate sorelle.
Tra gli strascichi sgualciti del
peplo mi trascinai verso la mia stanza, sbattei la porta e strillai
alle voci
di stare zitte.
Mi gettai sul letto tra i cuscini. Oh mi sentivo davvero finita e seppellita dentro quel palazzo! Volevo uscirne! Non avrei potuto rimanere
là senza
anima viva, io non ero una bestia tenuta in gabbia per il divertimento di
nessuno!
Perché forse era questo che il mio sposo voleva da me!
Scacciai quel pensiero e scoppiai in
lacrime nuovamente, ma per il rimorso: che il mio sposo mi amasse non
c’era
nessun dubbio, e il mio cuore si stava stringendo di più per
essermi permessa
di pensare una cosa simile di lui.
Ma se lui era divino, io ero
umana, mortale, limitata, e non avevo bisogno solo di me stessa e di
lui, ma
anche della mia famiglia, delle mie sorelle.
Mi addormentai e venni svegliata a notte fatta
dal mio amato. Da come mi rimproverò capii che doveva avere
una faccia molto
scura e delusa.
-Psyche, non ostinarti, non è
possibile che tu pianga così. Non ti basta già
tutto quello che hai? Vuoi
davvero non rivedermi più solo perché hai voluto
vedere le tue sorelle?-
Diedi una scossa alla testa per
dire no.
-Vorrei morire mille volte
piuttosto che questo! Ma capisci che per me tutto quello che
c’è in questa casa
non è importante. Non è nemmeno mio. E quindi non
ho nulla! A parte te.
Permettimi di vederle- supplicai ed esagerando per convincerlo lo
minacciai con
voce scorata che sarei morta se non mi avesse accontentato.
-Allora fa il tuo male, Psyche, ti
ricorderai del mio serio avvertimento solo quando sarà
tardi!- si arrese torvo.
-Se fossi un mortale capiresti ciò
che ti lega ai parenti, amore- dissi piano e con dolcezza, come quando
si
accarezza un gatto.
-Sei tu che a causa della tua
semplicità e del tuo buon cuore sei affezionata a loro e ai
tuoi genitori, ma
bada che dovrai pentirti di questa tua gentilezza. Loro non lo
farebbero per te-
-Non dire sciocchezze!-
Con mille scuse e parole amorevoli
lo supplicai di perdonarmi questo dolore e gli assicurai che non
sarebbe
successo nulla.
-Ci saranno pessime conseguenze- disse affatto convinto.
Alcuni giorni dopo, come previsto,
mi arrivarono alle orecchie i pianti delle mie sorelle: si erano gettare sul bordo
della rupe
e piangevano e si battevano il petto e invocavano gli dei di aiutarmi
ovunque
io fossi.
Ero talmente commossa che mi
sembrò di avere un grande cuore, tanto da poter dare amore a
tutto il mondo, e volli
riversarlo tutto sulle mie amate sorelle.
Tutto si sarebbero aspettate
tranne che alle loro invocazioni per la sorella Psyche qualcuno
rispondesse
–eccomi!-
Stupite e ancora in lacrime, si guardarono intorno.
-Sentite anche voi che sono viva e
che vi sto rispondendo. Perciò non piangete come se fossi
morta-
-Dove sei?- rispose la mia sorella
più grande asciugandosi gli occhi con i veli.
-Voi non riuscite a vedere il
palazzo, agli occhi degli uomini si confonde con la collina sotto
questa rupe,
ma tra poco ci riabbracceremo, forza asciugatevi le lacrime-
L’altra mia sorella strillò quando
il vento forte la spinse verso la rupe e la sollevò come con
me molto tempo fa.
-È Zefiro, non siate allarmate-
Le fece volteggiare verso quella
discesa che finiva nella collina verde coperta di un letto di fiori.
Ordinai alla casa –Fatti vedere
dagli altri mortali!- e questa apparì come il palazzo
d’oro che era.
Le mie sorelle rimasero con la
bocca aperta ancor più a vedermi venirle in contro che
all’apparizione del
palazzo.
-Scusate se Zefiro è stato un po’
brusco, di solito è un vento gentile e caldo nei giorni di
primavera, è un buon
dio- dissi affrettando il passo.
Abbracciai la prima sorella,
rimasta impietrita ed in lacrime, ma la seconda mi restituì
l’abbraccio
saltellando sul posto.
Mi feci seguire dalle due, tutte
eccitate da quelle ricchezze che avevano davanti ai loro occhi.
La prima delle mie sorelle era
educata, manierosa e sempre composta, matura e piena di tatto fin
dall’infanzia, ma a volte si avvertiva in lei una certa
secchezza.
L’altra invece aveva un carattere
ridanciano e allegro, piuttosto frivolo, ma chi non ne conosceva i
difetti,
come la vanità, poteva dire di lei che era solo un'innocua
farfalla che rallegrava il
mondo.
-Questa è casa mia- dissi
timidamente –potrete tornare quando vorrete, mi alleviereste
solo molta
solitudine- sorrisi brillando di gioia, e così dicendo le
accompagnai per tutto
il palazzo.
Non si stancavano mai di
meravigliarsi di tutto: feci risuonare le voci alle loro orecchie, le
ristorai
con un bagno delizioso e con una mensa degna di tre dee.
Ma quando si furono saziate di
quella abbondanza, non mi accorsi che cominciarono segretamente a
covare un
senso di invidia.
Ma era come se nella mia anima fosse in corso
una festa e si elevassero canti.
Da allora mi domandarono tutto con
un tono meno entusiastico ed estasiato.
Mi chiesero di mio marito, ma io
fui ben attenta a non farmi sfuggire proprio nulla, e come avrei
potuto!, non
l’avevo mai visto!
Dissi che era un bellissimo giovane,
che di solito era occupato a cacciare. Per timore di lasciarmi sfuggire
qualcosa le mandai via troppo in fretta, forse con l’aria un
po’ troppo
evidente di aver qualcosa da nasconderle, e per farmi perdonare le
ricolmai
di regali d’oro.
Le affidai a Zefiro, invitandole a tornare al più presto, ma
non risposero al saluto.
-Come stanno i nostri genitori?-
chiesi con la voce piena di riguardo, perché mi dispiaceva
che fino ad allora
non avessero saputo che ero viva.
Eravamo in un salottino, sedute a
chiacchierare.
Gli occhi della seconda sorella
cadevano continuamente su una statua di marmo di Zeus che teneva in
mano, come
per scagliarlo, un fulmine d’oro.
Non potevo certo sapere che
nemmeno loro avevano fatto sapere nulla di me ai nostri genitori.
-Oh davvero meglio, gli ha fatto
tanto piacere sapere che sei viva. Come piangevano di gioia!
D’altronde chi ti
conosce non può volerti che bene- disse la maggiore.
-Sono stati in uno stato pietoso
da quando ti hanno abbandonata sulla rupe. Di cent’anni
più vecchi! Ringraziamo
gli dei che non siano morti di crepacuore- trillò
l’altra.
-Sono contenta- risposi.
-Però- la maggiore prese un gran
respiro come per prendere coraggio ed introdurre un argomento triste
–quando ci
hanno chiesto di tuo marito non abbiamo potuto raccontargli molto-
Sentì un brivido freddo tra i
capelli e a stento mi trattenni per non mostrare la mia paura
improvvisa.
Presi a raccontare, sciogliendomi
man mano che sciorinavo un'altra storiella, completamente diversa dalla
prima,
che nella mia semplicità avevo dimenticato: mio marito era
un ricco mercante,
di mezza età, già un po’ brizzolato, ed
era piuttosto impegnato in viaggi, per cui non
lo vedevo spesso.
Le ringraziai, ma le mandai via di
fretta, sempre piene di regali d’oro, e con l’aiuto
del solito vento risalirono
la rupe e tornarono alle loro case.
Un giorno le vidi scendere dalla
parete di roccia vertiginosamente verticale per trovarle in lacrime.
-Psyche!- mi abbracciarono,
angosciate come se mi fossi appena salvata per miracolo da un pericolo
mortale
–Psiche! Noi già avevamo capito da un pezzo quello
che stavi passando, ma
temevamo di dirtelo per non guastare la tua felicità! Ci
dava tanta gioia
vederti allegra e serena come non eri mai stata!-
Confusa e atterrita, mi allontanai
dai loro abbracci, invitandole con più calma possibile a
entrare.
Loro mi
camminavano dietro continuando a spremersi a forza le lacrime dagli
occhi.
Le feci accomodare su due
seggiole.
A quanto pare ero minacciata da
qualche cosa. Lo sapevano loro, ma non lo sapevo io!
Angosciata chiesi loro di
spiegarmi che sventura mi stesse puntando il dito contro, pronta a
colpirmi.
-Avevamo già capito, noi- ripeté
la seconda –lo sapevamo dalle storie sconnesse che raccontavi
su tuo marito, un
uomo prima giovane, appena uscito dall’adolescenza, come
dicevi, che poi in una
seconda versione è invecchiato velocemente fino ad essere
già brizzolato!...Oh no, non essere dispiaciuta, o
spaventata, non ti portiamo rancore, sorella-
Tirai un sospiro, le spalle mi si rilassarono
sentendo che le veniva sollevato di dosso quel fardello.
-Sapevamo che i casi erano due-
continuò la maggiore –Il primo era che tu fossi una bugiarda
che si inventava una storia
sull’altra. Ma non abbiamo neppure pensato di accusarti di
questo, perché
conosciamo, come sorelle, la tua bontà- le
scoppiò un singhiozzò in mezzo al
discorso in modo un po’ teatrale.
-L’unica ragione rimasta per
spiegare le tue bugie era che non avessi mai visto il volto di tuo
marito, è
così?-
Io chinai il capo annuendo.
-È vero- mormorai –ma, non ha mai
voluto!- mi difesi.
-Lo immaginavamo- continuò con
ansia- e abbiamo scoperto perché. Ti ha colpito un orribile
sciagura! La verità
è che fai l’amore con un orribile mostro!-
In silenzio, allibita, con gli
occhi un po’ più grandi dallo stupore, le fissai
con molta paura.
Le sorelle allora videro il varco
aperto nel mio animo, e ne approfittarono per insinuarmi dentro ancora
più a
fondo il terribile dubbio.
Mentre parlavano mi dimenticai a poco
a poco di tutte le promesse fatte al mio sposo e dell’amore che
provavo per lui,
accantonato subito in un angolo dal terrore.
-È un serpente terribile, con la
gola spalancata che cola di veleno mortale, e che si avvolge in cento
spire, ma
che al tuo tocco ha le sembianze di un uomo- disse la prima -Ricordati
ciò che
aveva predetto l’oracolo: che eri destinata ad un mostro crudele! Molte persone hanno detto di averlo
visto aggirarsi
in cerca di creature da divorare; animali, uomini, bambini. Altre ci
hanno
raccontato di averlo visto fare il bagno nel fiume qui vicino!-
-Vieni a vivere con noi, senza
pericolo- la interruppe la seconda –non restare in questo
deserto, tutte le
notti in compagnia di quel drago velenoso!-
-Sorelle, io non so che dire, ma
siete proprio sicure!? Non pensate che quella gente abbia mentito? Che
questa
storia sia solo una favola che è stata raccontata loro da
bambini? Io..io amavo
sinceramente mio marito…-
-Dovrà ben conoscere l’arte
dell’inganno quel serpente!- disse la seconda con una voce
che sembrava piena
d’odio –non è una storia!
Perché altrimenti non farsi vedere e non volere che
tu esca? Non ci sono pericoli o bestie feroci in giro, tranne lui-
Mio marito diceva sempre che ero
semplice, tenera ed ingenua nel mio animo, e forse era fin troppo vera
e grave
questa mia ingenuità.
Che stupida che ero stata!
Un mostro, era! Un serpente, che con la sua voce incantatrice mi aveva cantato tante belle cose, a cui, senza dubbi, io avevo sempre creduto.
Ormai ero completamente convinta.
-Cosa devo fare?- le supplicai. La
mia testa era una tempesta di panico, vergogna e voglia di piangere.
-Ci abbiamo pensato a lungo- disse
la prima – e siamo arrivate a questa soluzione…-
Si alzò dalla sedia, si avvicinò,
mi prese per le spalle, in atto di grande serietà, e
facendomi coraggio disse:-
Nascondi sotto il letto un rasoio- affilò lo sguardo per
controllare se
esitassi al pensiero di ucciderlo, ed esitai -…no, non
essere impaurita, non è
un assassinio a sangue freddo come pensi tu, che sei tanto dolce e non
faresti
male neppure ad una zanzara, se ti infastidisse- mi carezzò
la guancia – è solo
difesa, legittima difesa-
Diedi una scossa alla testa per
dire di si: stavo per scoppiare a piangere senza freni.
-Lasciami finire- disse
riafferrandomi a due mani –poi devi mettere una lucerna piena
d’olio in un
contenitore ben chiuso, in modo che la luce non si veda. Dopo che ogni
cosa
sarà pronta aspetta che quello si sia trascinato sul letto,
muovendosi sulle
sue spire, come fa sempre, ed aspetta ancora, fino a che non si
sarà
profondamente addormentato. Poi muovendoti piano, tira fuori il rasoio
e con
l’aiuto della luce della lucerna, che rivelerà
l’inganno tenuto sempre nascosto
dal buio, prendi la mira per colpirlo tra capo e collo-
Era buio nella stanza, aprii la
porta
producendo un lieve cigolio.
Mi insultai mentalmente mentre
introducevo il corpo nel poco spazio della porta aperta e tastai
intorno per
cercare la sponda del letto.
Sentivo un respiro pesante, un po’
roco, segno che il mio sposo, non trovandomi, si era
addormentato
attendendomi.
Sempre a tentoni, cercai nel buio
ancora più impenetrabile che c’era sotto il letto, tra le lenzuola cadute per terra,
il rasoio e la scatola con
dentro la lucerna.
In ginocchio, le tirai fuori
cercando, nelle tenebre, di non affettarmi la mano da sola con la lama
affilatissima.
Molto cautamente aprii il
coperchio della scatola con dentro la lucerna accesa, e subito un
fascio di
luce tremolante apparì sul muro e sul pavimento alle mie spalle, con la
mia ombra stagliata
contro.
Potei impugnare meglio il rasoio e
mi preparai a compiere il delitto.
Presi la lucerna dal contenitore,
la sollevai alta per avere una vista chiara su tutta la stanza e mi
guardai
intorno.
Il letto era rimasto nel semibuio,
ma quando alzai il lume sul mio sposo per vedere che razza di dio o
mostro
fosse mi si mozzò il fiato per un secondo.
Avevo avuto un soprassalto e la
lucerna mi era tremata in mano fin quasi a rovesciarsi.
Avevo trovato il mostro più mite e
dolce di tutte le bestie: Eros, la divinità che presiedeva
al sentimento stesso
che io avevo infranto, osando pensare di uccidere il mio sposo.
Atterrita, abbandonai la presa
sulla lama, che cadde ai miei piedi, nel buio.
Ero spaventata dal mio piano e,
afferrandomi i capelli con la mano libera, cercavo di capire quali
sentimenti
deliranti e stupidi, insieme alle mie sorelle, avessero cercato di farmi
uccidere
il mio amore!
Presa da terrore isterico, mi abbassai a cercare la lama per
piantarmela nel cuore dalla vergogna, ma era finita più
lontano di quel che
pensavo, e avevo una mano impegnata a reggere la lucerna.
Ma ecco che, disperata, guardando
la bellezza del divino Eros, riprendevo sempre più animo.
Aveva i capelli biondi, che alla
lucerna si infuocavano, umidi di ambrosia. Tutto il suo corpo era
bianco, di
latte, ed era nudo sul letto. Sulla schiena, piegate e rilassate
c’erano le ali
bianche e le piumette che stavano alle estremità tremolavano
scherzosamente
senza posa.
Il cuore mi si gonfiò a dismisura
di amore.
Accanto al letto, con la coda dell’occhio,
vidi i suoi infallibili strumenti, quelli che gettava da parte quando
entrava
ogni volta.
L’arco, la faretra e le frecce.
Per una curiosità insaziabile, che
il mio sposo mi aveva sempre rimproverato come il mio peggior difetto, le presi
in una
mano, osservandole, prima l’arco, poi la faretra.
A quel punto estrassi una freccia
e toccandola con la punta dell’indice per vedere quanto fosse
appuntita mi ferì
piuttosto profondamente, nonostante l’avessi appena sfiorata.
La cosa strana fu che mi sembrò di
aver ricevuto una puntura anche al cuore.
Succhiando la ferita per alleviare
il dolore alzai gli occhi su Eros e subito toccai la vetta
più vertiginosa dell’amore:
lo smodato delirio della passione.
Oh, era talmente bello che appena
l’avevo illuminato anche la fiamma era sembrata rallegrarsi
alla sua vista, e balenare
più splendente!
Lo accarezzai su una guancia, lo
volevo accarezzare tanto da spellarlo, e mi avvicinai per baciarlo.
Ma la lucerna che mi aveva aiutato
a vederlo, traditrice, schizzò dalla punta della sua fiamma
una goccia di olio
bollente, che cadde sulla spalla del mio amore.
Il dio sentendosi scottare spalancò
gli occhi e balzò in piedi, vide confuso l’oltraggio di
ogni promessa di fedeltà della
sua Psyche, e quando capì, lanciatomi appena un occhiata, senza rivestirsi prese di
fretta
il volo.
Ma io, prima che fuggisse del tutto, mi appesi alle sue gambe abbracciandogli le ginocchia.
Sollevandosi sempre di più mi fece
scivolare verso le caviglie e, quando ormai eravamo già per
le vie buie e
nuvolose del cielo, mi reggevo ai suoi piedi, uno per mano, come una miserabile appendice.
Eros diede forti scossoni alle
gambe per liberarsi di me, ma io non cedetti, almeno finché
le forze delle
braccia non mi abbandonarono.
Mi abbattei al suolo, facendo una
caduta dall’altezza che era poco meno di quella di un albero.
Ma il mio sposo, gentile, non mi
lasciò così buttata per terra. Si
appollaiò sul ramo di un cipresso là vicino
e dall’alto mi osservò con un viso commosso e
insieme tristemente rassegnato.
Dopo aver piagnucolato per un po’
con la faccia a terra, mi puntellai faticosamente
sui gomiti.
-Non volevo!- singhiozzai –Mi hanno
ingannata! Raggirata! Mi avevano convinta che eri una serpe dalle cento
spire,
non te ne andare, ti supplico, non te ne andare! Non te ne andare!!-
strillai
trascinando quelle ultime parole in un grido piagnucoloso.
La puntura della freccia ora mi
confondeva il cervello e mi rendeva isterica.
Eros mi guardò commosso e
impietosito dall’effetto che una punta magica aveva scatenato.
La passione per il
dio della passione, provocata dalla punta della freccia, si congiungeva all'amore per lui già presente dentro di me, facendomi impazzire, come un largo affluente che si getta in un fiume quasi in piena e lo
fa
straripare, distruggendo tutto intorno.
-Proprio io- sospirò lui appoggiandosi
al tronco e alzando gli occhi alle nuvole –io che dovevo
punirti, sono volato da
te e sono diventato tuo marito!-
-Punirmi!!- strillai farneticando, fuori dai gangheri –non
sono già stata punita abbastanza?!-
-Non era questo il modo né il
momento in cui mia madre avrebbe voluto punirti- disse tentando un
sorriso
birbante, in un modo che sembrava dire "io so, e tu no, ma proprio questo tenerti sulle spine mi da gusto!".
Poi sospirò di nuovo, parlando pazientemente al
cielo –Voleva che con le miei frecce scatenassi in te la
più violenta e cocente
passione per l’uomo più brutto e sfortunato del
mondo, in questo modo nessun
uomo degno avrebbe goduto della tua bellezza e tu e la tua famiglia
sareste stati
disonorati e svergognati. Voleva punirti per il motivo che avevi sempre
temuto.
Non per causa tua, ma perché gli uomini hanno creduto che tu
fossi bella come
lei.-
I miei occhi allucinati si
accesero di furia. Mai prima di allora ero stata pazza d’odio
per gli dei!
-Perché non mi hai piantato quella
maledettissima freccia nella schiena e non l’hai fatta finita
abbandonandomi per
sempre!- urlai prostrata a terra.
-Ho agito con leggerezza!- rise di
sé -Sono stato incauto: proprio io, il famoso arciere, ho fatto cadere per sbaglio una freccia che mi
ha
ferito il piede, e mi sono perdutamente innamorato di te-
Si voltò verso di me con occhi
amorevoli –Solo due cose ti avevo chiesto: di non vedermi
mai, altrimenti sarei
stato costretto ad andarmene, e di non incontrare le tue sorelle. Hai
disobbedito e tentato di tagliarmi il capo. Proprio quello di un dio!
Proprio
il capo che porta gli occhi innamorati di te!-
Io ero ancora stesa sull’erba a
pancia in giù, con la bocca spalancata e la faccia
congestionata di pianto e
isteria.
-Ma cosa volete voi dei da me!-
singhiozzai poggiando spossata la fronte a terra e battendo prima
forte, poi
debolmente, il pugno contro l’erba –Cosa ho
fatto!!? Ma perché non ho un
aspetto umano! Non è colpa mia! Afrodite! Mi hai dato in dono la grazia
solo per tormentare una tua figlia della bellezza?!-
Battei forte la fronte contro la terra,
poi la sollevai un po’ e mi rivolsi a Eros, mio marito,
guardandolo con odio -Ecco come
provvedete voi odiosi dei agli uomini! So che godete a vederci distrutti, nel fango, come vermi! Ammettetelo! Eh!!?
Ditelo!!
Non sono una donna, non sono neanche viva, se sto mentendo!- strillai e
tornai
a sbattere la fronte contro la terra.
-Sei il dio dell’amore! Aiutami! Sono
innamorata di Eros, della passione, di Amore! Aiutami! Non lasciarmi qui! Non
dovrei
esserti invisa, amore mio-
-Dì grazie alle tue egregie
consigliere, che hanno tramato, invidiose di te, per ridurti nel fango
e senza
sposo. Loro saranno punite presto con un castigo terribile, tu te la
caverai
soltanto con la mia fuga-
Detto questo si sollevò
rapidamente in aria sulle sue grandi ali piumate.
Mi sollevai sui gomiti, alzando faticosamente il capo per
seguire il suo volo finché le ali non lo portarono
abbastanza lontano da farlo
perdere nel cielo e nelle nuvole e renderlo invisibile.
E mentre cercavo ancora quel punto,
tra i miei pensieri dissennati e labili passò la folgore
dell’ispirazione.
La freccia mi aveva istillato una vena
di follia sufficiente per permettermi di tornare sull’idea
del suicidio.
Quello di cui avevo bisogno era
un fiume profondo, buttarmici e annegare: e voltandomi
intorno notai che ne avevo uno proprio a un passo.
Continua…
Michelegiolo:
Questa storia è in un ritardo indecente, purtroppo la
passione nello scriverla
languiva ed io non trovavo la voglia di scrivere, più che il
tempo materiale.
Spero che questo capitolo sia di tuo gradimento.
Owarinai
yume: Sono contenta che le descrizioni ti piacciano, la
descrizione del
castello, lo ammetto (per purissima onestà), è in
larga parte attinta dall’opera
di Apuleio, il resto è mio, e me ne prendo il merito con
tutti i diritti
(nessuno lo aveva mai messo in dubbio nd tutti) (uffi, noiosi nd io).
|
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Capitolo 3 *** Parte terza ***
Eros
e Psyche
-La
morte, la morte! Tutto è meglio di questo, anche la morte!
Morirò e scenderò
nelle ombre e non sentirò più… nulla!
Ah, meraviglioso! Tutta la vita mi
sembrerà un sogno confuso. Scambio volentieri una sofferenza
per un’altra, se so
che quella che avrò non sarà tanto terribile
quanto la prima. Spero che i pesci
non lasceranno nulla della sventurata Psiche! Nessuno mi deve trovare!
Che
nessuno mi ricordi! Solo il mio amore, pensi sempre a me come a un
tesoro, e
possa morire, anche se divino, per la disperazione della mia perdita.
Ecco il
fiume! Fiume, eccoti la morta!-
Mi
abbandonai a faccia in giù nel fiume.
Mi
lasciai affondare, aspettando di finire l’aria e di soffocare.
Ma la
corrente del fiume non mi risucchiava affatto sul fondo. Anzi, grossi
pesci mi
spingevano a galla e l’acqua torbida diventava cristallina
dove cercavo di
nuotare.
I miei
sforzi per annegare vennero totalmente respinti da tutto il fiume e dai
suoi
abitanti, e la corrente mi trasportò, viva,
sull’altra riva.
Dopo aver
tossito, pianto, singhiozzato e rantolato ed essermi artigliata i
capelli con
le unghie ed essermi graffiata le guance e aver scosso la testa per
molto tempo
come impazzita, i miei gemiti cominciarono a farsi più
fievoli, i singhiozzi
meno violenti e il sonno mi scese sugli occhi.
Senza
che me ne accorgessi, mi addormentai e abbandonai il viso pieno di
lacrime nel
fango.
Al
mattino per poco non trasalii dalla sorpresa quando mi svegliai fuori
dal mio
letto.
Ero così
confusa di trovarmi all’aperto, che mi sollevai barcollando e
mi guardai intorno
per ricordare come fossi giunta lì. Volando? Correndo? A
nuoto?
Appena
ricordai ogni cosa mi sentii un nodo alla gola, gli occhi lacrimavano e
feci
per sciogliermi e piangermi addosso. Ma subito sentii qualcosa che
aveva il potere
di risollevare il mio animo da terra: il canto di una ninfa.
Le ninfe
cantavano meravigliosamente, con tenori stupendi.
Feci
qualche passo in direzione della voce semidivina e vidi il rustico dio
delle
montagne, Pan, che teneva sulle ginocchia la ninfa Eco.
Suonava
il suo flauto e la ninfa ripeteva con la sua voce le ultime note.
-Oh,
bellissima mortale- disse Pan rivolgendosi a me.
-rtale..ale..ale..le-
cantò di rimando Eco, guardandomi incuriosita.
-Ben
svegliata, hai pianto così tanto ieri sera che hai fatto
piangere anche tutti
noi- borbottò
Eco fece
sì con la testa e sorrise radiosa. Non era un mistero perché
Era la odiasse e
le avesse tolto la voce, lasciandogliela solo per rispondere alle frasi
degli
altri con le ultime sillabe che aveva sentito.
Io non
dissi nulla. Pensai solo che gli immortali erano tanto invidiosi dei
mortali e
semidei da punirli per il mero piacere di sopraffarli.
Pan fece
scendere Eco dalle sue ginocchia e le disse di andare, di correre a
spiare
Narciso nella foresta.
Il
sorriso della ninfa divenne ancora più largo. Fece sì con la
testa e rispose
felice e tenera
-iso…iso..so-
Quando la
ninfa fu corsa via, Pan mi guardò malamente.
-Stupidina,
Cupido deve averti scelta solo perché sei bella, visto che
non hai dato una
gran prova della tua acutezza ieri sera-
Mi offesi
immediatamente e aprii la bocca per rispondere.
-Non
parlare, ho ragione io. Tutte le creature del bosco sono state in pena
per te
ieri sera; non credere che ti abbiano ritenuta stupida quando ti
buttasti nel
fiume. Loro hanno badato più che altro a quanto fosse
romantica la vicenda: una
fanciulla, quasi una bambina, impazzita d’amore fino a
uccidersi. Li ha
commossi infinitamente la tua disperazione- fece con un tono di
sufficienza -Ma
gli spiritelli che abitano i fiori e le piante sono troppo romantici e
poco
furbi. Avrebbero dovuto chiedersi perché non sei annegata-
Inasprita
da tutte quelle critiche, sbottai –Anche io mi aspettavo un
miglior risultato-
-Non fare
la stupida, piccola bambina ingrata! Dovresti prostrarti mille volte
davanti a
tutte le statue degli dei ogni volta che ne incontri una;
perché ti hanno reso
bella e vergognosamente fortunata! Solo stamattina ci è
giunta voce della tua
storia. E allora io compresi perché il fiume ti aveva
risparmiata con tanta
premura. Devi sapere che non esiste nessuno, infima creatura, mortale o
austero
dio che non tema Eros. Se perfino i fiumi infernali lo temono dovevi
aspettarti
che anche un fiume qualsiasi avesse paura di far del male alla sua
amata!-
-Eppure mi
ha abbandonata…- dissi tentando di non avere una voce
collassata.
-È ancora
un bambino per molti versi, ha paura dell’ira di sua
madre…Oh beh, veramente
lui le ride in faccia quando vuole e per dispetto la punge con le sue
frecce
per farla innamorale dei mortali…ma stavolta non
potrà scamparla. Le ha fatto
l’affronto peggiore di tutti! Non c’è
cosa al mondo che lei odi più di te, a
parte, forse, Castità-
-Sono
perduta…- dissi con una vocina soave, ma tremante,
afflosciandomi dalla paura.
-Allora
non farti scoraggiare da ciò che sto per dirti. Tornato
Eros, lei è subito
venuta a sapere dell’accaduto e ha quasi tolto al suo dolce
figlio ali e
frecce, minacciando di darle a un umilissimo paggetto per umiliarlo di
fronte a
tutti gli dei. Poi però ha prevalso l’odio verso
di te. Ha inviato Mercurio
sulla terra, a bandire un annuncio per tutti i mortali. Chi ti
consegnerà nelle
sue mani viva riceverà
da lei sei baci
sulla bocca, più uno molto meno dolce, con la lingua-
Ero
mortalmente pallida. Alla notizia della caccia che Afrodite aveva
bandito
contro di me sentii il fiato morirmi in gola e le ginocchia piegarmisi
sotto.
-Non
farti prendere dal panico. Povera creatura, povera creatura. Ma hai
fatto molto
male a gettarti in quel fiume. Ne sono ancora convinto. E ferma! Non
tentare di
ributtartici perché ti sputerà fuori con uno
spruzzo! No..no..non pian…-
-Sono
perduta! Sono finita!- piansi fuori di me, con la testa tra le mani.
-Non sei
perduta. E ora siediti. Da brava. Ecco. Tutta questa agitazione ti
farà male.
Hai la faccia di una a cui sono saltati tutti i nervi. Povera cara. Per
quanto Afrodite
possa essere altera e vanitosa, Eros è più
potente di lei. Perché è il suo
araldo. Si sporca lui le mani e la coscienza con le tragedie
d’amore dei
mortali, mentre lei resta a guardare. Pregalo e propiziatelo con teneri
doni.
Perché lui è un giovanotto buono e sensibile
all’amore. Cercare di morire è un
azione molto stupida quando si può recuperare ciò
che si è perso. Volevi morire
perché credevi che Eros ti avesse abbandonata? Ma come
può essere così? Come
può non amarti più se tutte le creature della
natura ti onorano come sua sposa
e ti proteggono? Persino io non oserei alzare un dito su di te. Persino
io temo
più l’ira che avrebbe Eros verso di me se ti
facessi del male, piuttosto che
l’ira di Afrodite, se scoprisse che ti sto aiutando, che ti
consiglio, che ti
avviso del pericolo!-
Dopo
averlo ascoltato senza guardarlo, mi asciugai le lacrime e mormorai
-Grazie di
aver avuto pietà del mio delirio e di avermi riempito di
buoni consigli,
rustico Pan-
-Farai
come ti ho consigliato? Cercherai di propiziarti Eros?-
-Ogni
volta che potrò, quando mi fermerò lungo il
cammino per raggiungere il monte
Olimpo-
-Cosa
vuoi fare all’Olimpo?!! Afrodite non dovrebbe guardare
lontano per cercarti!-
-Andrò a
consegnarmi, in qualunque città andrò, tanto, mi
riconoscerebbero. E debole
come sono mi catturerebbero, forse mi malmenerebbero per far piacere ad
Afrodite, e poi mi consegnerebbero comunque. Ma prima di andare voglio
passare
a trovare le mie sorelle, per dirle della mia
disgrazia…è la stagione in cui
vanno in campagna coi loro mariti, per sopportare il caldo-
-Si
condivide ogni problema con le sorelle! Brava! Ottima idea andare a
dire addio
ai famigliari!-
Bussai mestamente
alla porta della mia prima sorella. Quando aprì e mi vide i
suoi occhi
brillarono di cattiveria.
-Allora? Che
hai fatto? Ci sei riuscita?- chiese impaziente.
-No,
io…io…si è svegliato
prima…- dissi ingoiando le lacrime.
Il mio
balbettio non destò sospetti, era comprensibile che fossi
sconvolta.
-Cosa è
successo sorellina adorata? Non piangere, raccontami tutto-
-Io…-
tirai su col naso e mi sfuggì un singhiozzo
–io…io…mi sono
avvicinata…avevo il
pugnale, la candela…ma mentre stavo per…-
singhiozzando mimai convulsamente un
colpo di pugnale –l’olio del lume, è
caduto sulla spalla e..e- per un attimo mi
sentii completamente soffocata e piansi senza ritegno.
-E poi!!?-
-E poi si
è svegliato- tentai di riprendere, mentre mia sorella stava
col fiato sospeso -Non
era come avevate detto voi. Mio marito era il bellissimo Eros dalle
frecce
fatali, che..che infine è fuggito e..e volando…e
volando… mi ha urlato che ero…che
ero…una sposa terribile e indegna!- strillai piangendo.
Naturalmente
mia sorella aveva completamente frainteso il motivo per cui stessi
piangendo,
ora non mi restava altro che raccontarle il finale di ciò
che avevo escogitato,
con un’astuzia e una crudeltà che non sapevo di
possedere.
-Oh
Psiche!- esclamò tentando di abbracciarmi. Io mi ritrassi.
-Non è
tutto, sorella. Ha…ha detto anche che si sarebbe cercato una
sposa più degna e
più bella di me…e…e..ingiuriandomi per
la mia azione, ha detto che aveva già
scelto te e mi ha…- mia sorella saltò su dalla
sedia emozionatissima.
-Ha detto
così?!- strillò.
-Si-
mormorai asciugandomi gli occhi -ha detto che prenderai tu il mio
posto- lei a
stento si tratteneva dal saltellare per l’eccitazione.
-Un dio mi
ama!!- gridò. In fretta e furia scrisse un biglietto al
marito "I miei genitori
sono morti in un tragico incendio, vado a dargli l’estremo
saluto" e corse
fuori casa con tutt’altro umore di una donna che deve andare
a un funerale.
Era
giunto il momento di far visita anche all’altra mia sorella.
Quando
arrivai piangevo ancora. Lei tentò di abbracciarmi, ma io la
evitai. Invece mi abbandonai
sulla sedia con il viso tra le mani.
-Cosa è
successo?!-
-Lui…- e
le raccontai la stessa storia che avevo riferito alla prima sorella.
Quando
arrivai a dirle che Eros aveva scelto lei come sua nuova sposa mi
interruppe
gridando di gioia.
-Io??!!-
strillò saltando in piedi sulla sedia e fissandomi raggiante
-Dillo ancora! Ti
prego! Dillo!- mi ordinò
-Ha
scelto te come sposa- dissi tirando su col naso e asciugandomi le
lacrime.
-Aaaaahhhh!
Lo sapevo! Lo sapevo! Lo sapevo!
L’ho
sempre saputo di essere più bella io
di te! Lo sapevo che eri un indegna! Che non ti meritavi niente!
NIENTE!-
Scese
dalla sedia, corse come una furia nella sua stanza e tornò
con bellissimo
vestito.
-Evviva!
Evviva! Vado a buttarmi nelle braccia del mio divino sposo! E
certamente renderà
anche me una dea! Aaahhh! Sono così emozionata! Sono
così eccitata!- esclamava
raccattando in una borsa le cose che trovava in giro e ignorandomi
completamente.
Ad un
tratto, mentre stava per mettere nella sacca una sua sciarpa di seta,
la buttò
a terra, poi capovolse la borsa, rovesciandone tutto il contenuto, e
gettò via
anche quella.
-Ma a che
mi serve tutta questa roba! Io sono la sposa di un dio! Iiiiiih! Che
bello! È
stupendo! Sono divina anche io! Vado ad abitare in un palazzo
fantastico! Che
bisogno avrò mai di questa roba! Psiche, stupida mortale,
dì tu a mio marito
che lo lascio, d’accordo?! D’accordo! Evviva!- e
corse fuori casa a passo di
danza.
Le corsi
dietro.
Quando
arrivò alla rupe senza fiato –Eccomi Amore mio
adorato!!- chiamò tutta eccitata
e zuccherosa, poi, ricordandosi che io avevo potuto dare ordini al
vento,
ringhiò –Tu, vento, servo, alzami! Sono la tua
signora! Portami nella mia
dimora!-
Sentendo
che Zefiro non soffiava per nulla, prese la rincorsa e saltò
nel vuoto.
Gridò
felice, sicurissima che il vento l’avrebbe retta in volo un
attimo prima di
toccare terra.
Quando sentii
l’eco di un grido tremendo, corsi spaventata verso la rupe e
guardai sul fondo.
Mia
sorella rotolava per le rocce affilate e si schiantava.
Un po’
più in alto da dove era finita la mia seconda sorella,
c’era la mia sorella
maggiore, che precipitando era caduta in tal modo da andare a
infilzarsi su un
uno spuntone di roccia particolarmente acuminato.
Rimasi
turbata dalla vista dei cadaveri, ma non piansi minimamente per loro,
non
tornai dai miei genitori e non parlai mai con nessuno di cosa che era
successo.
Solo gli dei sapevano quello che avevo fatto.
Era
notte.
Scalai il
monte. Le nuvole basse e piene di pioggia coprivano il mondo come un
coperchio.
Con le ginocchia sbucciate e il peplo pieno di sporcizia scalai
l’ultima pietra
che mi separava dal palazzo di Venere, che in fondo non era il
più alto di
tutto l’Olimpo.
Mi
fermai, piegata sulle ginocchia, per riprendere fiato. Ero davanti al
ponte che
mi separava dalla dimora sacra della dea.
Esitai,
mi sentivo il cuore sospeso nel terrore.
Nonostante
tutto attraversai il ponte, guardandomi in giro.
Mi tormentava la paura
che
sapessero del mio arrivo e mi avessero teso qualche trabocchetto. Mi
sentivo
strana, un po’ in ansia per il buio, avevo continuamente
l’impressione che
qualcosa si fosse nascosto a guardarmi, o che mi stesse già
accanto, col fiato
sul collo e una mano tesa nel buio.
Arrivai
sull’altro lato senza incidenti, senza che il ponte cedesse
minimamente e senza
che degli avvoltoi mi piombassero addosso dal cielo, mi rapissero,
scarnificassero e lasciassero le mie ossa a sbiancare su un altare di
Afrodite.
All’ingresso
c’era una bella ancella, Consuetudine, che aspettava, con le
mani in mano,
fischiettando.
Ma quando
mi vide si mise a urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
-Ahhh!
Eccoti! Finalmente hai capito che hai una padrona! Ma adesso che ti ho
in mano
è come se fossi caduta nelle mani dell’Orco!
Vedrai!- mi prese per i capelli e
mi strascinò senza che opponessi resistenza: sembrava
graziosissima e fragile,
ma aveva più forza di un gigante
–Ti porto
da tua suocera! Tz! E bada di fare
e
farti fare quello che più le va! Se non vuoi peggiorare le
cose!-
Si fermò
davanti a una porta bianca, la aprì e, quasi sollevandomi
per i capelli, mi ci
gettò dentro. La richiuse subito, come per trattenere dentro
un esplosione.
Caddi
battendo il mento, il colpo mi aveva fatto sbattere le mascelle tanto
forte da
tagliarmi il labbro con i denti.
-Ma ti
pare! Brutta baldracca! Sporcare di sangue il mio tappeto!-
urlò una voce
divina nella stanza vuota.
In
qualche modo strisciai indietro, proteggendomi la testa con le braccia,
aspettandomi che Afrodite cominciasse a frustarmi o a lanciarmi
oggetti,
nascosta in qualche punto della stanza.
-Ma
guarda, ti agiti come un verme! Mi pare anche che tu ti sia appena pisciata
addosso!-
L’aveva
detto per provocarmi, ma mi sentivo davvero sul punto di farmela sotto davanti a lei.
All’improvviso,
davanti a me che ero sdraiata e rannicchiata, pronta per ricevere
botte,
svolazzarono delle scintille, che si unirono tutte davanti a me a
formare una
figura alta, in piedi.
Il mio
viso era proprio a portata del piede bianco di Afrodite.
Aspettandomi
che mi
allungasse un sonoro calcio strisciai lontano dai suoi sandali.
Però,
quasi in contemporanea, lei mi prese per un braccio e con una
strattonata che mi
strappò un grido mi sollevò in piedi e mi
schiaffeggiò finché le guance non mi
divennero viola.
Mi spinse
e caddi di sedere. A quel punto cominciò a prendermi a
calci, soprattutto sul
seno e sull’inguine.
I suoi
colpi mi avevano spedito vicino a una finestra. Cercai di coprirmi il
viso con
una tenda e scoppiai a piangere.
-Oh!
Adesso vuole farmi commuovere!- stracciò la tenda e mi
sollevò di nuovo.
Mi
consegnò nelle braccia di due sue ancelle sghignazzanti:
Tristezza e Angoscia,
e ordinò loro di torturarmi, mentre lei si faceva pettinare
dalle Grazie.
In sua presenza, Angoscia
e Tristezza iniziarono a frustarmi senza pietà.
Rivolta
allo specchio, Afrodite si faceva pettinare dalle Grazie e mi guardava
attraverso il riflesso.
Provai ad
alzare la testa, ma una sferzata al collo mi fece piegare di nuovo.
Afrodite
era troppo simile al figlio. Aveva capelli biondi e lucidi come uno
specchio,
li portava dietro lunghi come uno strascico, in una complicata
acconciatura di
trecce.
La bocca
era perfetta, e gli uomini avrebbero fatto follie per catturarmi e
poter
ricevere il premio di un suo bacio.
Gli occhi
erano del mare da cui era nata: le acque da cui era emersa vi avevano
lasciato
dentro il loro profondo e bellissimo colore. La pupilla era cerchiata
d’oro per
l’ambrosia, come quella di tutti gli dei.
La pelle
era bianchissima e le guance rosse, senza traccia di trucco sulla sua
bellezza
stupefacente.
Quando
caddi a terra sfinita e sanguinante, le sue belle sopracciglia bionde
si
aggrottarono per la scontentezza. Sbuffando mandò via le
Grazie e mi gettò un
pezzo di pane che aveva in una ciotola.
-Mi
sembri una schiava talmente brutta da poterti guadagnare il favore dei
tuoi
padroni solo con dei lavoretti. Perciò domani
all’alba ti sottoporrò una prova,
e se sopravvivrai te ne darò quante altre mi
sembrerà giusto dartene…-
Detto
questo si alzò dal suo sedile, scosse i capelli in un gesto
di vanità superiore
e se ne andò senza degnarmi di un occhiata, sbattendo la
porta e sbraitando a
Tristezza e ad Angoscia di controllarmi.
Continua...
Adesso manca
solo il capitolo finale, quello delle prove che Afrodite
darà a Psyche e del salvataggio in extremis di Eros, che si
sveglia finalmente e va a salvare la sua amata dalle grinfie della sua
suocera.
Sachi Mitsuki: Grazie
sono contenta che ti piaccia ^^.
Norine:
Grazie, che ho fatto un sacco di plagi dal testo originale del mito per
i dialoghi. Anche a me piace la storia di Orfeo e Euridice, ma Orfeo
come personaggio mitico mi sta un po' sulle palle, non lo so
perchè, forse l'ho sempre immaginato come un tizio piuttosto
melodrammatico, ho forse ho letto delle fan fic che me l'hanno fatto
vedere così...bah.
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Capitolo 4 *** Ultima parte ***
Eros
e Psyche
Passai la
notte in un angolo della stanza.
Le
ancelle sediziose mi schermivano continuamente, mi minacciavano, mi
facevano
smorfie, ed io, ancora più spaventata nel mio animo
già spaventato, mi
raggomitolavo nel mio cantuccio, immobile, se non che tremavo per
i singhiozzi.
Lentamente
cominciò a pesar loro la stanchezza di quella giornata. Si
accoccolarono
insieme sul divanetto, abbracciate con la famigliarità di
due sorelle, e si
addormentarono pacificamente.
Assonnata,
mi stavo assopendo quando sentii la porta sbattere.
Sussultai
e mi guardai intorno in quel buio da cantina.
Nell’oscurità
c’era un ombra ancora più scura, si diresse verso
la finestra e scostò quel che
restava delle pesanti tende per lasciar passare un
po’ di luce.
Apparve
l’immagine di Cupido, che si voltò verso di me con
un viso sereno.
Si
avvicinò e ad ogni passo quel viso diventava lentamente una
smorfia beffarda e
violenta.
Lo
guardai spaventata. Cercai di fuggire, ma qualcosa mi distruggeva la
libertà
dei movimenti.
Mi
afferrò per le braccia, mi costrinse ad alzarmi, ma solo per
gettarmi a terra
di nuovo.
Mi
picchiò, mi pestò sotto ai piedi, mi
frustò, mi sollevò strillante per i
capelli e mi schiaffeggiò, poi mi gettò ancora a
terra e riprese da capo. Mentre infieriva sul mio corpo con pestoni
violenti i suoi capelli dorati diventavano lunghi e boccolosi, gli
cresceva un seno grande e
morbido, il corpo gli si snelliva in vita, si allargava lungo i fianchi
e le sue labbra da donna strillavano volgarità adatte solo a
uno
scaricatore del Pireo*.
Mi prese
un tremito nervoso e mi svegliai.
Irrigidita,
dolorante, spaventata dal sogno, mi sollevai faticosamente e subito mi
accorsi di essere sul pavimento
e di essere stata svegliata da urla angoscianti.
Ricordai
immediatamente la situazione. L’urlo proveniva da dietro un
muro della stanza
su cui era stato appeso un arazzo intessuto delle scene della nascita
di
Afrodite.
Le urla
peggiorarono.
Mi
domandai se non ci fosse qualche altro sventurato, oltre a me, che
Afrodite
aveva rinchiuso qui dentro, e mentre me lo chiedevo da dietro la parete
sentii
urlare il mio nome.
-Psiche!
Psiche! Psiche!- urlava la voce.
-Sono
qui!- picchiai sul muro con il pugno –Sono qui!- mi misi a
picchiare con
entrambi i pugni –Aiutami! Aiutami! Mi senti?! Per gli dei!!
Se mi conosci,
aiutami!-
Le mie
urla e quelle dello sventurato svegliarono Tristezza, che a sua volta
svegliò
Angoscia con uno scossone.
Mentre cercavo di farmi rispondere da quella voce disperata le sentii
afferrarmi per le spalle e trascinarmi via.
-Zitta!
Zitta! Brutta puttana! Fa silenzio!- disse Angoscia tirandomi via dal
muro con
uno strattone più deciso, mentre continuavo a urlare –Per gli dei!
Per gli dei! Costui mi conosce!
Sa chi sono! Chi c’è la?! Chi nasconde Afrodite??!
No! Lasciami! Lasciami! No!
No!- (Angoscia, con una mano sulla mia testa, mi costrinse a
inginocchiarmi. Mi alzò il peplo tra i miei disperati
“No! No!” fino a scoprirmi la schiena, in modo
che Tristezza potesse sferzare a segno le verga) No! No!!- le mie grida salirono alle
stelle quando
sentii arrivare il primo colpo, seguito da molti altri.
Durò
finché le ancelle non sentirono ritornare il sonno.
Mi
lasciarono dove mi avevano torturato e se ne tornarono a dormire.
Il giorno
dopo, appena albeggiava, Afrodite entrò a piccoli passi.
Le
ancelle stavano rassettando tutto in previsione del suo arrivo.
Io me ne
stavo tutta in un gomitolo lì dove ero stata frustata, con i
capelli sparsi per
terra.
Afrodite
ordinò alle due ancelle di svegliarmi e loro mi svegliarono
con un sacco di ceffoni.
Quando mi
risentii per il dolore delle sberle, non capendo, balzai a sedere
tentando si
schermirmi dai colpi con le braccia.
-Adesso
basta- disse Afrodite, trattenendo le serve.
Poi fisso
il suo sguardo su di me, misera, più terrorizzata e
imbarazzata di prima.
-Zeus!
Fai schifo!- disse mentre un tremito di pianto mi assaliva tutto il
viso -È
inutile che fai tremare quel labbro di sotto, non tentare di muovermi a
compassione!–
-Io? Io
signora? N-non sto tentando di mu-muoverla a com…mi vien da
piangere solo per
il bruciore delle piaghe sulla schiena. Io…- piagnucolai.
-Risparmiami
i tuoi piagnistei- si diresse verso un mobiletto dove era posato un
vaso di
terracotta decorata, con dei bellissimi gigli bianchi dentro.
Venere
sollevò il vaso e rovesciò l’acqua e i
fiori per terra.
Schioccò
le dita e tre servitori portarono diversi sacchi di grano.
Venere
prese da ogni sacco un pugno di grano di genere diverso e lo mise nel
vaso. Lo
mescolò con le dita e poi me lo porse.
-To’.
Ecco il tuo primo servizio in questa casa. Se mio figlio vuole una
sposa,
ebbene, questa deve essere abile e paziente. Separa il grano di
ciascuna specie
e raccoglilo in mucchietti. Fammi trovare tutto fatto prima di sera.
Voi due
(si rivolse alle ancelle) prendetevi una pausa. Chiudetele la porta a
chiave…ah si,
anche la finestra. Non deve assolutamente suicidarsi. Io intanto me ne
vado a
un pranzo di nozze. Oggi sono allegra, ho deciso che il matrimonio
sarà un
successo, e anche unione dei due sposi. Ah come mi sento allegra-
e la sua figura seducente veleggiò fuori dalla stanza
accompagnata dalle soddisfatte ancelle.
Rimasta
sola, non ebbi neppure il coraggio di mettere le mani in quel
mucchietto di
semi e rimasi lì come una scema.
Mi accorsi che per la
camera passeggiava una piccola formichina. La formichina si
arrampicò sul
vasetto fino ad arrivare in cima, dove strabordavano i semi. Rimase un
attimo
ferma, muovendo apparentemente senza senso le sue antennuccie piccole
piccole.
Ad un
tratto, dal piccolo spazio tra la finestra e il pavimento,
sbucò un esercito di
formichine che avanzavano in tante file indiane.
Il
pavimento era talmente fitto di insetti da non riuscire più
a vedere le trame
del marmo.
Le
formichine arrivavano vicino a me, si arrampicavano sul vaso, lottando
tra loro
per farsi strada, e ognuna prendeva su di se un seme e lo depositava
accanto al
vaso, chi in un posto chi in un altro.
Dopo la
prima sorpresa mi accorsi che stavano formando un mucchietto per ogni
specie di
grano.
Il vasetto a poco a poco divenne vuoto. Io ero stupita e gratissima.
Volevo
ringraziarle ma non riuscivo a dir nulla.
Quando si
avvicinava il tramonto le formichine avevano appena finito e come erano
venute
si ritiravano.
Sulla
cima del vasetto era rimasta una sola formichina. Le sorrisi.
Evidentemente
era il miglior ringraziamento che la formichina potesse desiderare
perché agitò
le antenne e se ne andò.
Venere
non sarebbe tornata subito.
Allora mi
appressai al muro dell’arazzo di Venere per capire chi fosse
il prigioniero che
conosceva il mio nome.
Bussai
leggermente.
Silenzio.
Bussai un
po’ più forte e chiamai
–C’è nessuno che sente?- per un po'
nessuno mi rispose e dovetti urlare per molto tempo prima di ottenere
una reazione.
-Chi è
là?- rispose una voce maschile, sorpresa.
-Una
prigioniera. Sono Psiche!-
-Psiche!? Proprio Psiche!?- da come parlava sembrava gli battesse forte
il cuore.
-Si. Non ci sono motivi per cui dovrei fingere di essere Psiche! Sono
Psiche davvero! Chi
sei?-
-Sono
Eros! Sono nell’altra stanza!-
Sentii un
tuffo al cuore ed una nuova gioia euforica nel sentire quella voce.
-Eros!
Amore! Amore! Sei qui!- dissi facendo vagare freneticamente le mani
sulla superfice del muro, forse in cerca di un buco o di un tranello
che aprisse un passaggio.
-Shhhh,
zitta, tutte le ancelle di mia madre hanno una stanza ad appena due
porte dalla
tua!-
-Ti tiene
chiuso là dentro per forza?- bisbigliai, ancora emozionata.
-No, ci
devo stare per guarire dalla piaga di quello sciagurato schizzo di
cera,
Psiche- disse con una sfumatura di
rimprovero.
-Mi
dispiace, mi dispiace, non credere che non mi dispiaccia. Io
non…-
-Lo so
Psiche, so bene che è stato più forte di te. Sei
una sciocca curiosona-
continuò ora con comprensione ora con tenerezza.
-Io non
posso uscire da qui! Cosa è successo ieri notte?
Perché urlavi?-
-Urlavo?
Ieri notte io dormivo molto profondamente, sogni agitati, per via del
dolore-
-Allora
urlavi! Mi hai svegliato! Urlavi il mio nome con voce deformata dalla
disperazione!-
-Ero nel
delirio, forse. Avevi delle carceriere? Le ho svegliate?-
-No. Io
mi sono messa a urlare e a cercare di farmi rispondere da te battendo i
pugni
sulla parete, e così le ho svegliate io-
-E che ti
hanno fatto?-
-Mi hanno
frustato-
Eros
rimase in silenzio, poi nella stanza si sentirono dei rumori, come se
qualcosa
stesse sbattendo da tutte le parti.
-Ma che
fai?!-
-Cerco di
raggiungere la porta-
-Ma no!
Sei malato! Resta a letto. Si sente che continui a perdere
l’equilibrio e a
rovesciare oggetti-
Eros,
rassegnato, sbuffò e si sedette con un tonfo di materasso.
-Appena
guarisco ti porto via da lì-
Mentre parlava improvvisamente
sentii il rumore delle chiavi che giravano due volte nella serratura
della
porta. Spaventata mi affrettai ad assumere l’aria
più innocente possibile.
Afrodite
entrò barcollando, inciampò nello strascico del
suo vestito, ma si mantenne in equilibrio
appoggiandosi con tutto il peso alla maniglia.
Aveva un
aria terribile: le guance rosse, le labbra umide, occhi mobili e
allegri come
il vino che aveva buttato giù, i cui fumi le erano
abbondantemente saliti alla
testa.
Nonostante
fosse ubriaca, incoronata di rose e coperta di ghirlande un
po’ stracciate sul
collo, sul petto, attorno alle braccia e alle gambe, appena mi vide si
ricordò
subito della mia prova e cercò in giro per vedere se avessi
finito.
Appena
vide il grano diviso diligentemente in mucchietti, per
quell’umore incostante
che hanno gli ubriachi, si infuriò subito e, prendendo a
calci il vasetto e i
mucchietti, sparse tutto il lavoro delle formiche sul pavimento.
-Bestia!
Vermetto che non sei altro! Questa non è mica opera delle
tue mani! Che ti
credi? Di darmela a bere così!- si avvicinò a me,
che ero in piedi vicino
all’arazzo, terrorizzata. Con uno spintone mi mise con le
spalle al muro,
mi afferrò per il collo
del vestito, mi sollevò da terra e mi premette contro la
parete.
-Qui c’è
entrato di sicuro quello a cui tu sei piaciuta! Per la vostra rovina!
Dico…dico…Giusto?! Che figlio mi è
toccato! Che razza di… che razza di...!
Imbrogliona-che-non-sei-altro!-
Vaneggiava e ad ogni
parola mi sbatteva contro il muro come se volesse farlo crollare.
Dopo un po' mi lasciò
a terra, con l’impressione di essermi rotta qualche costola.
Afrodite
non riusciva neanche a parlare senza che la lingua la tradisse per via
dell’ubriachezza, così, infuriata, si
tirò fuori un avanzo di pane che le era
rimasto nel vestito e me lo getto sgarbatamente contro.
-Mangia!
Domani avrai una prova due volte più difficile!-
Appena
l’aurora si spinse innanzi con il suo cocchio Afrodite
entrò nella mia stanza.
Scacciò
fuori Angoscia e Tristezza, che mi avevano controllato anche quella
notte, si
diresse verso la finestra e la spalancò.
Poi venne
nella mia direzione, mi afferrò per un braccio e mi
trascinò verso la finestra
col piglio di una che mi volesse buttare giù.
Invece mi
mise, spaventata e tremante, davanti alla vista di
un’immensità di alberi stesa
su tutte le colline all’orizzonte.
-Distingui
in questa distesa il limitare della foresta? Laggiù, lo vedi
quel lago?-
Ero sul
punto di sciogliermi in suppliche e grida, ma quando sentii la forzata
gentilezza di quella domanda mi rilassai un poco e feci cenno di si.
-In quel
punto pascolano delle splendide pecore, che hanno la lana
d’oro. Voglio che tu
mi porti da là al più presto, in qualunque modo
tu riesca a procurartelo,
ammazzandoti, se è necessario, un fiocco di lana di quel
prezioso vello. È
tutto chiaro come il sole?-
-Si-
pronunciai flebilmente.
Ero scesa
dalle rocce dell’Olimpo. Naturalmente Afrodite non mi aveva
portato nel bosco
sollevandomi col vento, ma avevo dovuto scarpinare un bel po’
per la montagna e
la foresta.
Avevo
acconsentito a scendere non perché mi ci avessero costretta,
ma perché ardivo
di porre fine alle mie sofferenze gettandomi al più presto
nel lago.
Era
mezzodì, il sole era cocente, sotto il peplo ero tutta
sudata.
Mi
trovavo sull’altra sponda del lago rispetto a dove
pascolavano le pecore d’oro.
Avevo
sentito parlare di quelle pecore: avevano corna molto appuntite, fronti
dure come
le pietre, e persino morsi avvelenati. Attaccavano qualunque creatura
umana vedessero.
C’era una
tratto melmoso della riva, pieno di canne, suonatrici delle melodie del
vento: dovevo superarlo per gettarmi nella zona più profonda del
lago e annegare.
Mi misi a
spostare le canne con le braccia.
Ad un tratto
un soffio lieve le fece suonare a lungo e dolcemente e nella loro
melodia
distinsi una voce più sottile di quella del vento.
-Nooooooooooo-
cantavano tranquillamente.
-Psichheeeeeee,
noooooooo. Nooooon esseeeere scioooooooca. Peeeeer prendeeeeere laaa
laaaaanaaaaaa
aspettaaaaaa laaaaa seeera, quaaaaando le peeeeeercoooooooreeeeeeee saaaaaraaaanoooo
andaaate
viiiiaaaaa, trooooooooveraaaaaai batuffooooooli doooooratiiiiiii
traaaaa iiiii
raaaaaaaamiiiiiiii eeeee iiiii cespuuuuuuugliiiiii-
Ascoltai
ciò che capii dai lunghi mormorii delle canne, e mi misi
all’ombra di un
platano ad aspettare la sera.
Quando le
pecore se ne furono andate mi misi a cercare tra i bassi rami, come mi
avevano
suggerito le canne, e trovai molti fiocchi morbidi e dorati. Li
raccolsi tutti
nel vestito e mi rimisi sulla strada dell’Olimpo.
-Imbrogliona!
Anche di quest’opera prodigiosa io so chi è
l’autore segreto! C’è sempre lo
zampino di quel mio figlio indegno! Sto seriamente pensando di
diseredarlo!
Niente più poteri! Niente più alucce per andare
in giro per il mondo a
innamorarsi di insipide e insignificanti fanciulle! Ma dove ha gli
occhi quel
mio figlio!-
Avevo
ancora in mano i fiocchi vaporosi mentre Afrodite si era completamente
dimenticata di me e andava parlando a se stessa degli errori che aveva
fatto
crescendo il suo figliolo, e di quanto lo avesse viziato, e di quanto
lei lo
avesse sempre accontentato, e dei suoi dispetti e della sua
ingratitudine…
-Ah! Mi
fa sempre perdere il filo! Quel brigante! Ecco! Torniamo a te!- disse
come ricadendo
nella realtà.
-È il
tramonto, è vero, ma per una maga come te non
sarà difficile portare a termine
anche questa prova. Voglio sapere se sei davvero dotata di animo audace
e di
straordinaria prudenza-
Mi
ricondusse strattonandomi alla finestra.
-Vedi
la
cima di quell’erto monte, che sovrasta quella montagna
altissima e dirupata- mi
additò, non troppo lontano, un monte scosceso fin quasi ad
apparire verticale -Da
quella cima scaturiscono le acque oscure di una nera sorgente, e
raccogliendosi
in fondo alla valle vicina, scendono a irrigare la palude Stigia e ad
alimentare la cupa corrente di Cocito. Tu devi salire fino al punto
dove la
sorgente scaturisce freddissima dalla terra e riportarmi questa piccola
urna
piena di quell’acqua-
Mi porse un vasetto di cristallo colorato
aggiungendo –Vedremo, vedremo. Non osare tornare con questo
vasetto vuoto!- nei
suoi occhi passò un lampo maligno e sanguinario e i lati
della bocca si
tirarono su in un sorriso orribile.
Quando giunsi
nelle vicinanze della cima, subito mi
accorsi della mortale difficoltà dell’impresa.
Infatti una rupe altissima, scoscesa e inaccessibile
rovesciava dal mezzo di una spaccatura quell’acqua spaventosa
che, penetrando
per certi passaggi stretti e angusti, si precipitava fuori per le
fenditure e
scorreva giù lungo il declivio, cadendo invisibile nella
valle vicina.
Accanto ad essa, a destra e a sinistra, le facevano la
guardia dei terribile draghi che strisciavano e tendevano il collo
negli
anfratti della roccia, con gli occhi sempre aperti e le pupille
eternamente
intente alla luce.
Sentii quelle acque, che avevano il dono della parola
urlarmi “Vattene!” “Stai
attenta” “Non avvicinarti”.
Dentro di me sentii l’eco della minaccia “Farai una brutta fine”, che mi
continuavo a ripetere da quando mi ero messa in cammino.
Pietrificata davanti a tante difficoltà, atterrita dalla
mole di un impresa così impossibile, ero lì
presente col corpo, ma non con la mente,
che delirava spaventata, combattuta tra la paura per i draghi e quella
per
Afrodite.
Dovevo decidere in che direzione procedere, se tornare
indietro e morire frustata a sangue o andare avanti e morire in un
boccone per
i draghi.
Ogni volta che pensavo ad una delle minacce questa mi
sembrava la più terribile ed ero pronta a decidermi di
affrontare l’altra, ma
quando il pensiero si soffermava sull’altra ne era
spaventatissimo e ritornava
sulla decisione di affrontare la prima, che aveva appena scartato.
Ero persino priva dell’unico sollievo che mi dava
piangere.
Ma la sventura della mia anima innocente non sfuggì agli
occhi profondi della Provvidenza.
Sopra di me sentii il verso dell’uccello regale del sommo
Zeus, l’aquila.
Alzai il viso e la vidi planare su di me ad ali spiegate.
Mi atterrò davanti, puntando quella sua testa bianca e
quei suoi occhi acuti su di me, così che non
c’erano dubbi su chi il fato
volesse aiutare.
Era quasi un miracolo che le aquile si avvicinassero ai
comuni mortali.
Se lo facevano, si avvicinavano solo a gente cara agli
dei, e a quelli che visitavano portavano l’auspicio del
favore di Zeus.
-Son qui per onorare la potenza di Eros aiutando te- disse
l’aquila dignitosamente; era un uccello enorme e maestoso
anche quando non
volava –ricordo bene che Eros scelse me per rapire per conto
di Zeus il
coppiere Frigio, di cui si era innamorato. Aimè! Hai un
impresa ardua bella
Psiche. Purtroppo sei ingenua e ignara di queste cose.
Quell’acqua è spaventosa
e tremenda, non potresti neppure toccarla con le dita. Non ricordi che
queste
sono le acque temute dagli dei? Non hai mai sentito che, come voi
giurate sugli
dei, gli dei giurano sulle acque dello Stige, che vengono da questa
sorgente?
Dammi un po’ quella brocca-
Ero rimasta ad ascoltarla senza parlare e dunque le porsi
il vasetto di cristallo.
L’aquila lo prese nel becco e volò in alto,
scomparendo.
La aspettai per pochi minuti, poi essa ritornò con il vaso
colorato pieno.
-Sei un essere meraviglioso! Stupendo! Come hai fatto!??-
gridai prendendo il vasetto e tentando di abbracciare
l’aquila per la felicità.
L’aquila si scostò dignitosamente, sbattendo le
ali per
scacciare i miei abbracci.
-I draghi hanno tentato attaccarmi, ma a io mi sono
scostato, poi li ho beccati e gli ho detto, col vasetto nel becco, che
ero stato
mandato ad attingere acqua da Afrodite. Loro, con la soggezione che
hanno degli
dei, non hanno fatto una piega, ed io mi sono potuto avvicinare
all’acqua-
-Grazie! Grazie! Grazie! Non so davvero come ringraziarti!
Sarai l’uccello che venererò più di
tutti. Farò sempre sacrifici in nome di
Zeus e delle sue aquile!- dissi e
la leggerezza
che mi sentivo addosso per essere stata sollevata da un compito tanto
titanico
mi rendeva euforica.
Neppure quell’acqua riuscì a soddisfare la dea.
-Mi resta solo da credere- disse ironicamente –che tu sei
una strega capace di vere magie! Dunque tu superi ogni ostacolo con la
stessa
facilita con cui scavalchi un muricciolo. Bene. Posso allora assegnarti
l’ultima prova, bamboletta mia-
Prese il vaso che le avevo portato con l'acqua dello
Stige, lo scoperchiò e versò l’acqua
nel vaso di alcune rose, che appassirono
immediatamente.
Dunque mi porse l'oggetto.
-Va all’Inferno, domani- disse –e dì a
Persefone: “Afrodite
ti prega di mandarle un poco della tua bellezza, almeno quanta ne serve
per una
sola breve giornata. Perché quella che aveva l’ha
tutta consumata e finita per
curare il figlio ammalato”. E vedi di spicciarti
perché devo spalmarmela prima
di andare al consiglio degli dei. Non permetterò mica che tu
e il mio figliolo
mi facciate apparire più brutta tormentandomi con le vostre
ragazzate!-
Capii
di essere arrivata all’estremo della sfortuna.
Afrodite voleva che mi andassi a gettare direttamente
nelle bracci della morte; era questo il significato della prova ingrata
che mi
aveva assegnato.
Non sapevo come arrivare all’Inferno, l’unico modo
che
conoscevo era morire, ed Afrodite probabilmente lo sapeva.
Nessuna formichina, nessuna canna di fiume, ne una
maestosa aquila avrebbero potuto aiutarmi di nuovo.
Così andai su una rupe altissima, volevo tentare di
suicidarmi di nuovo, sperando che questa fosse la volta buona, quando
la rupe
cominciò a parlare.
-Disgraziata! Perché vuoi ammazzarti buttandoti
giù?
Perché senza reagire ti lasci sopraffare da questa terribile
ma anche ultima
prova?-
Comprensibilmente la mia bellezza e la mia triste sorte impietosivano
tutti, e tutti mi aiutavano, persino un’inanimata Rupe.
-Che dovrei fare! Le entrate del Tartaro io non le
conosco!- urlai al vento.
-Oh, ma dai! È solo una scusa per buttarti e farla finita!
Sai benissimo che quando, con la morte, la tua anima si sarà
separata dal corpo
affonderai negli infermi e non potrai più tornare indietro.
I tuoi tormenti
non avranno sollievo così, Psiche! Ascolta bene come entrare
nell’Inferno…-
La Rupe aveva parlato a Bora, e gli aveva detto di
sollevarmi per portarmi ad una città non lontana da
lì, Sparta.
Bora mi abbandonò all’entrata della
città.
Mi ero accorta di avere delle monetine in una tasca della
veste; dovevano essere rimaste per caso durante tutte le mie avventure,
dalla
notte che Eros era scappato fino a quel momento.
Potei comprare quel che mi serviva per il viaggio agli
inferi: due focacce d’orzo impastate con vino e miele e un
sacca per mettere
dentro queste e il vasetto vuoto di Afrodite. Mi rimanevano alcune
monetine.
Al confine di Sparta cercai, come mi aveva suggerito la Rupe, un
promontorio di nome Tenaro, in un luogo fuori mano e ben nascosto.
Li, secondo le sue istruzioni, si sarebbe dovuta
intravvedere una spaccatura profonda nella terra, da cui sarebbero
dovuti
salire fumi e puzza di zolfo.
La trovai. Cercando di non mettere i piedi in fallo,
riuscii a calarmi giù, con quei goffi movimenti che mi
permetteva il lungo
peplo stracciato.
Calandomi per le pareti diseguali di quella spaccatura, ad
un tratto sotto il piede sentii qualcosa di simile a un pavimento
roccioso.
Poggiai anche l’altro piede su quella base solida, mi
voltai e vidi la porta degli inferi, un arco basso e nero come
l’ossidiana.
Dietro l’entrata c’era una strada impraticabile
piena di rovi spinosi e
ragnatele.
Mi infilai due monetine in bocca, come mi aveva suggerito
la voce della Rupe, poi mi incamminai per quella strada destinata ai
morti.
Le spine mi graffiavano le cavigie e dalle ferite mi sgocciolava del
sangue. Alcuni morti saltavano fuori dai rovi per leccare le misere
gocce rosse dal sentiero.
Dopo un po’ di camminare incontrai il fiume infernale il
cui traghettatore era Caronte, l’esattore
dell’Inferno, un dio che non fa nulla
per nulla.
Persino i poveri che non possedevano niente se non le loro
ossa dovevano provvedersi dei soldi per il viaggio
all’Inferno.
“Infatti anche all’Inferno è viva
l’avarizia!"aveva
borbottato sinistramente la Rupe, mentre mi spiegava come attraversare
il fiume "Se le anime
non si
presentano con i soldi in bocca non gli danno neppure il permesso di
crepare”
-Caronte! Caronte! Ci sono delle anime quaggiù!- dissi
sventolando un braccio nella sua direzione.
Caronte, evidentemente abituato al silenzio e al lamento
dei morti, si voltò subito, sorpreso da quelle parole urlate
e di senso
compiuto.
Si avvicinò con la sua barcaccia, era un vecchio magro e
alto, col viso magro di teschio coperto da un cappuccio.
Quando la barca fu a riva si chinò su di me (aveva la
bocca simile a una caverna da quanto era sdentata) e mi sorrise di un
sorriso orribile.
-Non mi importa se sei viva o se sei morta- disse –Ma se
vuoi traghettare devi avere qualcosa per me, ragazzina- e tese la mano
col
palmo all’insù.
Io mi infilai le dita in bocca, presi una delle due
monetine da sotto la lingua e gliela misi nel palmo della mano.
Non persi tempo a salire sulla sua barca, adeguandomi al
silenzio dei morti.
Portati da una lenta corrente vidi nel fiume galleggiare
un vecchio, che mi chiese mormorando e tendendomi le braccia di
accoglierlo
nella barca.
La Rupe mi aveva avvisato che questo era un tranello di
Afrodite, perciò ignorai il vecchio, per quanto pietoso.
I morti infatti non parlano se il sangue non gli ha infuso
un po’ di vita.
Caronte riversò brutalmente le anime sulla riva opposta,
io scesi dopo di loro, attenta a non bagnarmi con le acque infernali.
Camminando per un breve tratto incontrai un enorme cane
con tre teste tutte identiche e di proporzioni più grosse
rispetto al corpo, la
cui bava colante allagava il terreno sotto di lui.
Con i suoi latrati assordanti rintronava le orecchie dei
morti, terrorizzandoli, ma non potendo fargli nulla poiché
erano incorporei. In tal modo
faceva la guardia alla soglia del nero atrio di Persefone.
Mi avvicinai a lui
con le mani sulle orecchie, e a debita distanza gli gettai una delle due
focacce.
Il mostruoso e informe cane si placò subito e, impegnato a
divorare la
focaccia, mi lasciò passare.
Feci tutto con estrema sicurezza perché seguivo alla
lettera le istruzioni della Rupe e mi fidavo ciecamente delle
sue parole.
Nell’atrio c’erano i troni di pietra di Ade e
Persefone.
Colsi la pensosa Persefone in un momento in cui era senza
il suo sposo, seduta su uno dei troni gemelli, con le braccia stese sui
braccioli.
Mi era stato detto che mi avrebbe accolto con molta
urbanità. I re dei morti accolgono chiunque nella loro casa
infernale. Chi,
chiedo, è più ospitale della morte?
Chi accoglie chiunque nella propria casa?
-Cara fanciulla, ma tu sei una viva!- disse Persefone,
alzandosi tutta agitata dal suo scranno –cosa ci fai qui?
Porti un po’ della
bellezza di quel
mondo in questa valle di rovi, di lacrime e di morti che non
cercano altro che il sangue, pallido ricordo della vita? Ti invito a
parlare-
disse Persefone, dalle lunghe chiome nere e dagli occhi dolci di
pietà per
tutto ciò che aveva visto in quel luogo cavernoso.
-Regina- dissi inginocchiandomi, con le mani unite e il
capo chinato –T-ti…prego, non farmi alcun male.
Vengo qui per conto di
Afrodite, che ti porta i suoi omaggi e mi manda a chiederti un favore,
perché
solo tu sei…sei…in grado…- dissi con
la voce che cominciava a spezzarsi e la
sicurezza che vacillava.
-Non temere, bel fiore della terra di mia madre Cerere,
parla liberamente- disse con gran gentilezza la Regina
degli Inferi.
-Sono qui perché Afrodite ti chiede di prestarle un
po’
della tua bellezza, giusto quella che serve per il resto di questa
breve
giornata sulla terra. T-ti prego…- in mezzo alla frase mi
sfuggì un singhiozzo
al pensiero di quel che mi avrebbe fatto Afrodite
–mi…mi punirà
se…se…-
-Oh, no, non piangere, su, su. Dolce umana, non è
necessario che tu mi preghi o mi
impietosisca…io…te ne darò un
po’ sicuramente-
scese i gradini del suo trono e fece per cingermi in un abbraccio, ma
la Rupe
mi aveva raccomandato di non farmi toccare, così mi scostai.
-Vuoi…vuoi…mangiare qualcosa?- chiese con tono
incerto.
Era la domanda traditrice da cui la Rupe mi aveva detto di guardarmi.
Chi
mangia il cibo dell’Inferno resta là per sempre.
Non era colpa di Persefone, non era sua intenzione
trattenermi là; erano semplicemente gli ordini del suo
sovrano, una legge
applicata con tutti. Stava a me evitarla. Era nella natura di quel
luogo cercare di trattenere ogni cosa che entrasse e di non farla
più uscire.
-No, no, non voglio nulla, ho le mie focacce- dissi e
dalla sacca tirai fuori il vasetto e glielo porsi –Vi prego,
potreste mettere la vostra bellezza
qui dentro?- chiesi.
-Certo- disse e sorrise dolcemente, osservandomi distratta.
Prese il vasetto ed uscì dalla stanza.
Ritornò col vasetto chiuso.
-Tu mi hai ricordato la mia casa natia, ti ringrazio
sentitamente- fece di nuovo per allungarmi una carezza, ma io mi
ritrassi
umilmente, lei ritirò tacitamente la mano e
continuò -Purtroppo in questo periodo abito in questa
dimora, ormai è già autunno cara, e io sto
qui, con Ade…- fece un breve sorriso –Ti auguro
buona fortuna-
-Grazie-
-Mi raccomando!- disse severamente –Non aprire mai, mai,
mai quel vasetto di bellezza. Fidati della mia parola, e non aprirlo.
Ora va.
Hai tutto quel che ti serve per tornare?-
-Si- dissi, mi inchinai e mi avviai per la soglia.
Risalii tutta la strada, placai il cane tricefalo con la
seconda focaccia, ignorai i richiami di ogni morto che tendeva la mano
per
cercare aiuto e pagai l’avaro traghettatore con la seconda
moneta che avevo in
bocca.
Attraversai la soglia del mondo dei vivi, accompagnata dalle
urla di invidia e
disperazione dei morti che mi videro uscire.
Risalii la spaccatura della terra.
Finalmente rividi la luce, talmente intensa che mi fece
male agli occhi.
Dalla gioia di essere tornata dall’Inferno sentii un
incredibile, rinnovata felicità di vivere
L’Olimpo non era lontano, potevo raggiungerlo entro fine
giornata, ma durante la strada, sebbene avessi fretta e fossi contenta
di
concludere il mio mandato, fui presa da una temeraria
curiosità.
Tirai fuori il vasetto dalla sacca, lo guardavo come se
potessi vederci dentro senza aprirlo.
“Come potrei non servirmi almeno un pochino di bellezza
divina?” pensai “Sarei più bella agli
occhi dei mio amato Eros. Perché dovrebbe
sprecarla Afrodite, che è già bellissima?
Sicuramente non si accorgerà se…”
questa curiosità mi assillò per tutto il viaggio.
Quando riuscivo a scacciarla
lei ritornava dopo un po’, con nuovi argomenti a suo favore,
e ogni volte io
ero sempre più tentata di assecondarla.
Alla fine il desiderio fu irresistibile e la resistenza
troppo debole per frenarmi.
Aprii il piccolo coperchio e sbirciai nel vasetto per
vedere che forma dovesse avere la bellezza.
Mi accorsi che dentro non c’era proprio niente, solo del
sonno, un sonno infernale proveniente dallo Stige.
Da un vasetto che sembrava vuoto cominciò ad uscire del
fumo, come da una pentola che bolle di cose disgustose. Il fumo
formò una
nebbia attorno a me e mi sentii stanca come se dovessi recuperare il
sonno di
mille anni.
Mi scordai chi ero, e che cosa stavo facendo. Mi limitai a
cercare un giaciglio e a poggiare il vasetto accanto a me (avevo come
il
nebuloso presentimento che fosse importante!). Mi addormentai di colpo,
di un
sonno profondo in cui cadono solo i cadaveri.
Sentii il
sonno sparire lentamente dal mio corpo come al risveglio da una lunga
notte.
Quando aprii gli occhi vidi le foglie che avevo usato come
guanciale.
Mi rigirai nel mio giaciglio e vidi una figura d’uomo, molto
giovane, che fendeva la nebbia con le braccia per scacciarla da me.
Non so come riuscì ad acchiapparla tutta e a rimetterla
nel contenitore da cui io l’avevo tirata fuori.
Quando l’ uomo si girò e lo guardai bene in viso
mi
svegliai completamente come se mi avessero gettato dell’acqua
fredda in faccia.
Basita non riuscii a dire o a fare niente, se non a
provare un profondo stupore e una profonda dolcezza, mentre Eros mi si
avvicinava con in mano il vasetto di Afrodite.
-Ah Psiche!- disse lui esasperato con quella sua solita
voce un po’ di rimprovero e un po’ di scherzo che
amavo tanto –Sei di nuovo
caduta vittima della curiosità! Speriamo che questa seconda
volta ti serva di
lezione più della prima- si abbassò alla mia
altezza e mi baciò la bocca.
-Vedi che sono guarito dalla mia piaga? Mi sento
incredibilmente bene. Ma ora va a finire la prova che ti ha dato mia
madre. Io
penso a supplicare Zeus-
-Supplicare….Zeus…- feci eco, ancora un
po’ frastornata
dalla nebbia soporifera.
-Tu aspetta un oretta o due e vedrai cosa un dio riesce a
fare in questo breve tempo- mi porse il vasetto, si alzò,
spiegò le ali
rinvigorite dal riposo e spiccò il volo più
veloce e meraviglioso che mai.
Mi sembrava di essere ritornata ai primi tempi in cui Eros
mi aveva accolto nel suo palazzo divino, tanto alte erano le vette
della mia
felicità.
Ogni volta che pensavo che lui era guarito e che mi aveva
salvata avevo voglia di gridare di gioia, di correre, di cantare, di
mettere la
forza inesauribile del mio amore in qualche attività.
Scalai di nuovo l’Olimpo.
Quando incontrai di nuovo un’Afrodite sbigottita sulla
soglia le schiaffai in faccia un gran sorriso e le porsi il dono di
Persefone.
Afrodite somigliava così tanto a suo figlio che quasi quasi
sentii amore anche per lei.
All’improvviso squillarono le trombe del cielo, che ci
distolsero da un momento di imbarazzante silenzio in cui Afrodite stava
elaborando qualcosa da dire.
Dalla vetta dell'Olimpo scese Hermes, il messaggero dai piedi alati, il
più
intelligente degli dei, il furbo, il viaggiatore, il ladro.
Atterrò davanti ad Afrodite e le porse un rotolo.
-Afrodite! Bellezza degli dei! Porto un messaggio da
Zeus, è molto urgente. Chi non si radunerà sul
punto più alto del monte Olimpo
prima di sera riceverà una salatissima multa.
E chi è costei che è tanto bella da esser degna
di un dio?
Forse le Grazie non sono tre, ma quattro?-
Come in ogni momento di imbarazzo mi ritrovai a fissare il
pavimento e a lambiccarmi il cervello per rispondere.
-Oh! Ho capito! È lei! L’amante di Eros!
Fortunato! Anche
tu devi presentarti. Si parlerà di te- aggiunse Hermes.
-Che ha a che fare lei col nostro concilio?- chiese indispettita
Afrodite.
Hermes fece un sorriso
veloce e furbesco, un sorriso che lasciava intendere di sapere molte
cose, ma di non voler dire di più.
Spiccò il volo con i suoi calzari alati verso la cima del
monte.
Afrodite
chiamò Bora e Bora ci sollevò fino alla dimora di
Zeus.
Atterrammo in una sala ampia e circolare con uno sbuffo di
vento, al centro della quale c’era il trono del Padre di
tutti gli dei.
Attorno allo scranno del grande signore dei cieli c’erano
quelli di tutti gli altri dei.
Afrodite occupò il suo posto, lasciandomi sola in mezzo
alla sala, proprio davanti al seggio di Zeus.
Alla destra di Zeus c’era Eros, che mi indicava al potente
dio e confabulava con lui mentre tutti gli altri dei arrivavano da ogni
parte
della Grecia e si sedevano ai loro posti.
Quando Zeus smise di parlare con Eros e tutta la sala fu
piena, il capo degli dei mi fece cenno con la mano di avvicinarmi e
disse con la voce profonda
del tuono –Vieni-
Le viscere mi si liquefecero a quel comando secco.
Esitante mi avvicinai al dio,
tentando di ignorare che, se avesse voluto, avrebbe potuto incenerirmi
con la forza di uno sguardo bieco.
Quando gli fui abbastanza vicino mi guardò con piglio severo
ed io mi inginocchiai in segno di rispetto.
-Non inginocchiarti!-
Balzai subito in piedi. Tutto il teatro delle riunioni del
cielo era pieno e stava assistendo alla mia vergogna.
-Eros è lei? La riconosci?-
Eros sorrise –Non c’è nessuno,
né sull’Olimpo, né sulla
terra, che le assomigli!-
-Bene, allora non possiamo sbagliare. Tutti gli dei
facciano attenzione! Ho qualcosa da dire per conto del mio signor
figlio Eros!- disse con tono un po’
scherzoso e un po’ minaccioso.
Si schiarì la voce e parlò:- O dei, coscritti
nell’albo
delle Muse, tutti sapete che questo ragazzo- e additò Eros
–è cresciuto
praticamente nelle mie mani. Ormai costui si è scelto una
sposa, chiaramente
dopo aver ben soddisfatto tutti i suoi ardori giovanili, ma questo fu
un altro
tempo, un'altra era. Come ho già detto e ribadisco egli si
è già scelta la sua
ragazza, e l’ha anche privata della verginità: se
la tenga, se la sposi, e tra
le braccia di Psiche goda eternamente l’amore. Non
accetterò nessuna protesta!-
poi si rivolse ad Afrodite, la quale era diventata rossa come una
fragola ed
era stata esattamente sul punto si
esplodere in proteste.
-Zitta figlia! Capisco il tuo dispiacere! Tu non vuoi che
il matrimonio si celebri tra persone di diverso rango. Un dio e un
mortale! Ma
certo! Hai ragione! Nemmeno io mi sognerei una cosa simile! Ed ecco
perché…-
in quel momento entrò un coppiere un una coppa
così colma di ambrosia che il liquido divino
sgocciolava dall’orlo –provvediamo immantinente a
rendere questa bellissima
fanciulla immortale-
Eros sbatte le ali per l’entusiasmo e fece un gran sorriso
nella mia direzione.
Per la sala del concilio si diffuse un brusio di
approvazione.
Io spalancai gli occhi per la sorpresa e fissai la coppa
come se al posto suo sul vassoio ci fosse uno strumento chirurgico con
cui mi
avrebbero asportato qualche cosa.
Io, immortale...
Io era una ragazza semplice, modesta. Non avevo mai
nutrito sogni tanto rosei.
Mi era sempre sembrato assurdo persino immaginare una cosa
simile, e dunque non ci sono parole umane per descrivere
l’incredibile paura e
l’incredibile gioia che provai nel vedermi offrire quella
coppa.
Eros scese dallo scranno ci Zeus, mi si mise accanto e mi
prese la mano per farmi coraggio.
-Come hai fatto?- domandai
Eros si avvicinò al mio orecchio e bisbigliò
– Vedi…gli
ho spiegato la
situazione, l’ho pregato, gli ho raccontato tutto
ciò che avevi passato
affinché stessimo insieme e lui ha detto, cito a memoria:
“In considerazione del
fatto che ti ho cresciuto io, e per non venir meno alla mia nota
bontà, farò
tutto quello che mi hai chiesto tu. Ma in cambio, se ci fosse qualche
fanciulla
particolarmente bella sulla terra, sai bene qual è il tuo
dovere: portarmela
qui in cambio del piacere che ti faccio!”-
Scoppiai a ridere e lo baciai
sulle labbra.
Zeus prese la coppa dal vassoio
del coppiere, scese dal suo scranno e si diresse verso di noi.
Mi porse la coppa con quelle
sue grandi mani e tuonò allegro –Bevi, Psiche, e
sii immortale! Eros non sarà
mai sciolto dal vincolo che lo unisce a te, e mi par di capire- diede un occhiata agli occhi
innamorati con
cui Eros mi guardava –che lui nemmeno lo voglia. Da oggi voi
due siete sposi
per tutta l’eternità!-
Subito dopo
venne
servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo era posto sul seggio
più alto, e tra
le sue braccia teneva Psiche.
Poi veniva Giove con
la sua Giunone, e poi di seguito, in ordine, tutti gli altri dei.
Fu offerto il
nettare, che è il vino degli dei: a Giove lo serviva quel
pastore fanciullo, suo
coppiere, agli altri Bacco. Vulcano cuoceva il pranzo, le Ore
spandevano
tutt’intorno una pioggia di rose e di altri fiori colorati,
le Grazie
spandevano profumi e le Muse facevano risuonare i loro canti armoniosi.
Poi
Apollo cantò accompagnandosi con la cetra, Venere
danzò graziosamente in una
danza leggiadra: si era formata come un’orchestra, dove le
Muse cantavano in
coro e suonavano i flauti, mentre Satiro e Panisco soffiavano nella
zampogna.
Così Psiche divenne
sposa di Amore secondo le prescrizioni del rito, e quando il tempo per
il parto
fu terminato nacque loro una figlia che noi chiamiamo
Voluttà.*
…Fine.
*Il
Pireo è il porto di Atene, questà
città è celebre per la sua potenza navale e le
sue mura, che vennero distrutte alla fine della guerra del Peloponneso,
quando vinsero gli Spartani.
*Da
“Le metamorfosi” o “L’asino
d’oro” di Lucio Apuleio.
Non
ho parole per scusarmi di tutte le battute che ho preso dal testo
originale di “Amore
e Psiche”. Naturalmente la maggior parte sono di mia
invenzione, diciamo che
1/8 delle frasi dette dai personaggi le ho prese dalla nota opera.
Scusatemi anche per il capitolo infinito. Ho fatto di tutto per mettere
quello che restava da raccontare in un solo capitolo. Altrimenti avrei
dovuto farne cinque e avevo già promesso che Eros
avrebbe salvato Psiche in questo
capitolo. Non potevo rimangiarmelo.
Sentite, lo so che il capitolo è lungo, ma potreste
recensire, almeno.
Ringrazio
sentitamente
- ilary_chan
(che ha messo la
storia tra i preferiti)
-MissProngs (che
ha
messo la storia tra quelle da ricordare)
e...
-
Michelegiolo
- Sachi
Mitsuki
- Selhin
- simplyunica
- uranian7
( che
hanno messo la
storia tra le seguite)
Ecco,
ho finito. Tutto è stato detto, tutto è stato
fatto, non mi pare ci sia più nulla
da spiegare.
Vi
saluto. Resto in ansiosa attesa che la mia dea Ispirazione venga a
sussurrarmi all’orecchio
qualche altra idea. Tremate, tremate!
Bye
Bye
trullitrulli.
Sachi
Mitsuki:
Eco e Pan erano già
presenti nel mito originale. Naturalmente ne ho dovuti togliere altri,
come Giunone e Demetra. Nel mito Psiche si recava prima nel santuario
di Cerere e poi nel santuario di Era per chiedere ospitalità
e aiuto. Le due dee, per non attirarsi l'ira di Afrodite, le rifiutano
ogni aiuto. Questa parte mi è sembrata superflua e l'ho
tolta, dando spazio al dialogo con Pan.
Grazie dei complimenti, sono contenta che ti sia piaciuta le fic.
Norine:
Strano
che Eco faccia a tutti tenerezza, non avevo pensato che potesse dare
una qualche impressione, l'avevmo messa così, era appena una
comparsa, perchè Pan doveva fare qualcosa quando incontrava
Psiche. Si forse ho esagerato a far predere a calci Psiche, ma in
questo capitolo ho fatto di peggio, con le frustate e gli schiaffi e
Afrodite che la solleva per il collo del peplo e la sballotta da tutte
le parti. Insomma, diciamo che Afrodite non gliel'ha lasciata superare
gratis. Grazie anche a te per la recensione.
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