Black And White - o magari in seppia?

di AcchanBaka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 88 in tutto - di tanto in tanto 97 ***
Capitolo 2: *** Morbido - il collo trafitto da una forchetta. ***
Capitolo 3: *** Polsi di pietra - in una foto di famiglia. ***



Capitolo 1
*** 88 in tutto - di tanto in tanto 97 ***


 

1. le informazioni riguardo il pianoforte sono un po' farina del mio sacco, un po' raccimolate su wikipedia.com; lo stesso vale per le macchine fotografiche;
2. il parlato si esprime tra i simboli «», il corsivo indica pensieri (trascritti al presente) oppure serve a marcare l'importanza di un dato soggetto, le virgolette “” sono utilizzate per nomi di cose/opere o in generale per sottolineare concetti.
3. dopo avervi annoiato con le note, vi lascio solo con i copyright: i personaggi, i luoghi e il resto sono opera mia, mentre le opere citate (come “Für Elise”) sono ovviamente di proprietà del loro creatore (non ruberei niente a Beethoven-san <3). Grazie per l'attenzione e buona lettura!


 

 

Black and White

O magari in seppia?

 

 

1. 88 in tutto.

Di tanto in tanto 97.

 

 

Mi, re diesis. Trattenne per un infinitesimale quanto vitale istante il medio sul tasto nero. Di nuovo mi, re diesis. Quindi mi, si, re diesis, do, la.
Q
uell'attracco famosissimo faceva sciogliere in brodo di giuggiole le ragazze, ogni volta che si sedeva al pianoforte nell'aula di musica e accennava un brano. Non appena iniziava “Für Elise”, alle sue orecchie arrivava quasi automatico un «oooh» ammirato delle ragazze che si trovavano nei paraggi.
Proprio non riusciva a capire che cosa ci fosse di tanto smielato e romantico in quell'opera: ci pensava e ci ripensava, arrivando alla semplice conclusione che lui, al contrario della maggior parte delle ragazze che si emozionavano nel sentire quelle prime note, sapeva che non c'era nulla da ammirare particolarmente: di quella meravigliosa bagatella in La minore, nemmeno ben si conosceva l'esatta destinataria. Per quel che ne sapeva lui, l'ultima ipotesi riguardava una cantante tedesca dell'epoca di Beethoven, nota come Elise, con cui il Maestro aveva stretto una profonda amicizia all'epoca della composizione di “Für Elise”.
Ma probabilmente il motivo per cui ogni ragazza si portava le mani al petto sospirando innamorata era ancora più profondo e meno comprensibile da un'indagine acuta e razionale. Sì, forse era più illogico, meno spiegabile, meno scientifico.
Probabilmente era perché quella composizione sembrava una poesia tradotta in musica; o perché ogni nota pareva intrisa di una sorta d'affetto, forse mal corrisposto, che si riversava senza alcuna diga nel cuore e nelle orecchie di chi ascoltava, sia che chi suonasse fosse un magistrale pianista che un principiante alle prime armi.
Probabilmente il solo ascoltare quelle poche note iniziali, il cui eco aveva lasciato che si espandesse a macchia d'olio nell'aula vuota e inondata dal sole, riusciva a scuotere le corde più profonde dell'anima. Non c'era una spiegazione logica, e in fondo lo sapeva.
In quello strumento, nelle corde, nei tasti bianchi e neri, nell'elegante linea della struttura portante, nel luccichio dorato di ogni rivestimento, perfino nei cardini che abbassavano il leggio, c'era qualcosa di magico e inspiegabile che incantava chiunque.
Batté le ciglia, osservando la polvere roteare dolcemente davanti ai suoi occhi, talvolta attaccandosi al lucido nero della mezza coda di fronte a sé. Parve risvegliarsi dopo quel – gli parve infinito – giro di pensieri riguardo la dolcezza di “Für Elise”, e decise perlomeno di concludere l'esecuzione.
Ovviamente, sistemate le dita, partì daccapo.
Mi, re diesis, mi, re diesis, mi, si, re diesis, do, la. Fine inizio. Anche la mano sinistra entrava in scena. Mentre la destra orchestrava do, mi, la, si, mi, sol diesis, si, do, la sinistra s'impegnava in fa, do, fa, do, do, mi diesis. Era estremamente piacevole saltare da un'ottava all'altra, morbidamente, lasciando che i bassi suonati dalla mancina si intrecciassero con le note alte, quelle che guidavano la melodia.
Aveva sempre pensato a quel luogo comune, ovvero che fosse la destra a guidare le note che “dovevano essere ascoltate”, mentre la sinistra passava in secondo piano, faceva solo da contrapposto, da sottofondo, da accompagnamento. Ogni volta che si trovava a parlare di musica con qualcuno – e accadeva spesso, vista la sua passione – si irritava non appena entravano nell'argomento.
Senza ombra non c'è luce, senza odio non c'è amore, senza bianco non c'è nero: senza la mano sinistra non esisteva la destra. La melodia suonata dalla destra risultava vuota, infantile, persino fastidiosa senza il fondamentale apporto della sinistra, che si concentrava per motivi fisici e inalienabili sulle note basse, sulla tastiera poste proprio sul lato sinistro.
Naturalmente spesso la sinistra veniva lasciata silenziosa, ferma, perché fosse la destra a calamitare l'attenzione: ma in moltissime – e bellissime – opere, accadeva il meraviglioso opposto, la destra si zittiva per lasciar spazio alle armoniose e dolci note basse, lasciando che anche la sinistra avesse un po' di gloria.
Capitava spesso che si lasciasse andare a certe elucubrazioni, che gli parevano un momento prima profonde e degne di un trattato filosofico, un momento dopo vuote, infantili, partorite da una mente che ancora doveva capire molte cose del mondo; quando gli chiedevano a cosa pensasse mentre suonava, lui rispondeva «Al pianoforte, che altro?», perché era vero. Tutto ciò che concerneva quel sublime insieme di tasti, corde, pedali, rientrava sempre nel suo giro di riflessioni, che perciò si spostavano dalla musica classica agli artisti contemporanei, dalla difficoltà iniziale di far combaciare le due mani al desiderio di concentrarsi più sulla destra che non sulla sinistra o viceversa.
Il suo intelletto era sempre ed unicamente rivolto al suo primo amore. Il pianoforte. 

Soltanto a diciott'anni suonati si era reso conto che la propria vita girava attorno a quel sublime strumento. Erano più di dieci anni che vi rivolgeva sguardi affettuosi e cure che non indirizzava più nemmeno agli esseri umani: il suo primo pensiero al mattino era diretto al pianoforte, l'ultimo ancora al pianoforte. Durante il giorno immaginava melodie da poter comporre, idee e macchinazioni che si frantumavano come fragili bolle di sapone al contatto con la severa e bellissima superficie di bianchissimo avorio dei tasti candidi e scurissimo ebano dei tasti neri, che parevano scrutarlo, indagarlo nel profondo, distruggerlo e poi ricostruirlo ogni volta che venivano sfiorati da quelle incerte dita.
Incerte, sì, anche dopo dieci anni dalla prima volta.
Ricordava quel momento, lo ricordava con dolcezza e mai lo annoiava raccontarlo a chi glielo chiedeva per la prima volta.
Era successo tutto alla scuola elementare: era una scuola privata, e la direttrice aveva deciso d'inserire per quell'anno corsi extra da frequentare nel pomeriggio. La decisione, dopo aver varato campi dello sport e diversi dell'arte, era ricaduta su corsi di chitarra e pianoforte, naturalmente per principianti perché di principianti si trattava, bambini delle elementari da zero a dieci anni. Lui era tra quelli. Aveva otto anni quando tornò a casa, felice come una pasqua – e di questo la madre si stupì, visto quanto solitamente era “cupo”, quel bambino – sventolando il foglio su cui il genitore doveva apporre firma, compilandolo con l'attività scelta dal figlio.
«E tu cosa vorresti fare, tesoro?»
«Non lo so, mamma, sono belli entrambi!» aveva esclamato in risposta all'ovvia domanda della madre. Lei s'informò sulla data prevista di restituzione del modulo e gli consigliò, accarezzandogli i capelli, di rifletterci ancora qualche giorno.
Ma non passarono nemmeno poche ore che, durante il momento del pasto, si alzò in piedi sulla sedia – un affarino alto quanto un birillo, pressappoco – annunciando: «io suonerò il pianoforte!», scatenando la risata del nonno e un sorriso orgoglioso della mamma.
A distanza di tempo non seppe ricordare esattamente cosa scatenò quella risposta, una preferenza per le corde nascoste e non esposte o cose del genere, non avrebbe saputo più dirlo; seppe solo che quella sera le sue idee erano più chiare di quanto lo sarebbero state in dieci anni. 

Mentre concludeva le ultime battute di “Für Elise” – in sostanza replicavano le stesse note iniziali, concludendosi con un doppio fa in mano sinistra, di due ottave differenti ovviamente, e di un do unito ad un la per la mano destra – si ritrovò ad immaginare la propria vita senza quello strumento.
E se, quella sera a cena, avesse declamato di voler suonare la chitarra? Oppure se, dopo averci riflettuto per qualche giorno seguendo il consiglio della madre, avesse deciso di non suonare nulla e dedicarsi invece, per esempio, ad uno sport?
Tutti gli anni successivi a quella decisione si modificarono per adattarsi all'esigenza quasi vitale per quel bambino – poi ragazzino, poi adolescente – di suonare il pianoforte: la scuola media fu scelta perché il maestro di musica che v'insegnava era un ottimo pianista e poteva farlo accedere all'aula con il pianoforte; la scuola superiore aveva un'aula di musica con un pianoforte a coda di ottima fattura e infine il college, in cui era iscritto al primo anno, era famoso per aver inserito la facoltà di musica nella propria rosa di studi.
Non che non avesse altre qualità o passioni, oltre la dote per il pianoforte. Gli piacevano le scienze, ammirava soprattutto quelle rivolte allo studio del cielo, la famosa “geografia astronomica” eccetera; era abbastanza portato per la scrittura, ma la sua pigrizia in tutto ciò che non riguardasse la musica lo aveva portato a non concludere mai un progetto iniziato; al secondo posto dopo il pianoforte, c'era la fotografia. Difatti, quel college aveva anche un corso riguardo l'arte delle foto, ed era stato a lungo indeciso, prima di lasciarsi guidare dalla propria passione primaria.
Però, rifletté, mentre sollevava le mani dalla tastiera lasciando che le ultime note si espandessero nell'aria, sarebbe stato bello curiosare nelle lezioni di fotografia, specie in quelle pratiche: la conoscenza concreta di una macchina fotografica lo interessava davvero molto, quasi quanto l'indagine di ogni singolo martelletto del pianoforte.
Sì, un giorno libero da lezioni – come quello, in cui era corso a rifugiarsi nella vuota aula di musica per suonare in pace – avrebbe dato un'occhiata al corso di fotografia.
Così, giusto per dare un'occhiata. 

«Sei davvero bravo, lo sai?»
Non poté impedirsi di sobbalzare, e voltarsi quasi di scatto, come punto da un animale.
Era convinto di essere totalmente solo, solo nella sua oasi di quarti e semi quarti, ed avrebbe anche avuto ragione di esserne sicuro, visto che quell'aula della scuola era riservata agli studenti del corso di musica, e dato che quello era uno dei giorni vuoti, non avrebbe dovuto esserci logicamente nessuno.
E invece...
«Ti ho spaventato? Non era mia intenzione» ridacchiò il ragazzo che, dalla porta, lo guardava. La cosa che però catalizzò la sua attenzione non fu quell'entrata improvvisa, quanto più la macchina fotografica reflex medio formato, che pendeva dal suo collo e che però l'altro teneva ragionevolmente tra le mani, visto il considerevole peso che da sola quella parte del corpo non poteva sostenere.
Deglutì, per riprendersi da quel colpo e sistemarsi sullo sgabello, le mani portate sulle ginocchia nel movimento di voltarsi e il battito che si calmava a poco a poco.
Gliel'avevano sempre rimproverato: era ipersensibile alle pressioni, una piccola sorpresa e il suo cuore prendeva a battere impazzito. Non era malato, in sintesi era facilmente impressionabile.
«Sei del corso di fotografia?» indagò, a metà tra il sospetto – come mai si trova qui? – e l'ammirazione – chissà se può farmi partecipare ai corsi...
L'altro annuì, lo sguardo che si abbassava sull'oggetto che teneva tra le mani, come a ricordarsi che ci fosse. «Sì, finita la lezione pensavo di fare un giro nell'aula di musica, cercavo la mia ragazza» spiegò sorridendo, «ma a quanto pare sono arrivato tardi e...» continuò, ma venne interrotto dalla sua mano sollevata e un cipiglio alquanto dubbioso.
«Oggi non ci sono state lezioni, dovresti saperlo anche tu se la tua fidanzata frequenta il corso di musica. Perciò o lei ti ha omesso questo particolare, o tra voi non parlate di scuola, o tu stai mentendo e l'ultima possibilità mi sembra decisamente improbabile. Perché dovresti, dopotutto?» concluse una delle sue solite arringhe.
Ecco perché parlava poco.
Perché era portato ad indagare, a ragionare su tutto, a schiacciare gli avvenimenti con una retorica poco utilizzata ma agghiacciante, le poche volte che veniva sferrata in direzione di una persona o di un preciso momento.
Tanto che il ragazzo inizialmente aveva sgranato gli occhi, piacevolmente sorpreso, per poi ridacchiare nuovamente – era un modo di fare quasi canzonatorio, il suo – sollevando le mani come ad indicare di starsi arrendendo.
«Okay, okay, tigre, calma, non voglio essere divorato.» scherzò, facendolo accigliare ulteriormente – tigre? Ma chi è questo ragazzo? – avanzando nell'aula. «D'accordo, forse deve essermi passato di mente questo piccolo particolare» ammise «D'altronde la lezione di oggi è stata tremendamente interessante, probabilmente è per questo che sono con la testa fra le nuvole...» buttò là.
Non sapeva chi fosse, ma decisamente era in grado di destare perfettamente la sua attenzione: difatti aguzzò le orecchie, mentre sistemava con cura il panno bordeaux sui tasti ed abbassava la copertura.
«Ma lascia che mi presenti» aggiunse, avanzando ulteriormente fino a coprire la distanza con qualche passo – era molto alto – e allungando nel contempo la mano. «Maximilian Jackson, per gli amici Max, apprendista fotografo» si introdusse con un sorriso affabile.
Allungò la mano a stringere quella, grande e al tatto appena callosa, di Max.
«Steven MacMillian. Pianista» 

Non poteva immaginare che fare la conoscenza di quell'apparente bonaccione avrebbe a poco a poco dissolto l'oasi di perfetta solitudine che aveva costruito in anni di gentile isolamento – come lo chiamava lui – aprendogli porte colme di esperienze che, davvero, non avrebbe mai voluto provare.

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Capitolo 2
*** Morbido - il collo trafitto da una forchetta. ***


1. le informazioni riguardo il pianoforte sono un po' farina del mio sacco, un po' raccimolate su wikipedia.com; lo stesso vale per le macchine fotografiche;
2. il parlato si esprime tra i simboli «», il corsivo indica pensieri (trascritti al presente) oppure serve a marcare l'importanza di un dato soggetto, le virgolette “” sono utilizzate per nomi di cose/opere o in generale per sottolineare concetti.
3. dopo avervi annoiato con le note, vi lascio solo con i copyright: i personaggi, i luoghi e il resto sono opera mia, mentre le opere citate (come “Für Elise”) sono ovviamente di proprietà del loro creatore (non ruberei niente a Beethoven-san <3). Grazie per l'attenzione e buona lettura!


 

 

Black and White
O magari in seppia?

 

2. Morbido
Il collo trafitto da una forchetta.

 

 

Aveva sempre pensato che fosse morbido, lo scatto dell'otturatore, nonostante il nome. Sì, perché quella parola, “scatto”, evocava un'immagine veloce, rapida, invisibile eppure consistente, quasi dolorosa nella sua sveltezza. Forse, ciò che gl'ispirava sentire quella parola veniva in parte addolcito dalla parola seguente.
Otturatore.
Quando lo chiedeva ai compagni di corso – che non comprendevano del tutto le sue macchinazioni contorte – arrivava a credere di non sapersi spiegare.
«Non vi viene in mente qualcosa di morbido, se pensate all'otturatore?»
Non era una domanda strana, no? Lui non la vedeva tanto inquietante; invece quegli stupidi dalla mente chiusa dei suoi compagni lo guardavano sogghignando sotto baffi che non avevano – imberbi volti ancora infantili – e lui si sentiva escluso da quel mondo, cui partecipava solo ed unicamente per studiare fin nei minimi dettagli l'unica cosa che lo aveva sempre appassionato: la fotografia.
Era difficile spiegare cosa provasse (visto che non l'aveva mai fatto e i suoi pensieri si erano fossilizzati a tal punto che riesumarli e condividerli con un'altra persona a voce era diventato impossibile) mentre scrutava il mondo alla ricerca di un soggetto decente, sistemava l'obbiettivo, controllava la messa a fuoco, dava un senso alla luce che s'immetteva nell'intricato sistema che concerneva il semplice e delicato equilibrio della macchina fotografica e infine compiva il gesto più banale del mondo.
Cliccava.
Click.
Ed era così inebriante godersi quell'attimo in cui l'obbiettivo si richiudeva, catturando per sempre l'immagine, imprimendola sul rullino, e leccarsi lievemente le labbra mentre il pollice manovrava la piccola leva che faceva scorrere il nastro, lasciando avanzare di una posizione i numeri che segnavano quante possibilità di scatto ancora aveva.
Era come un gioco, un quiz a premi di quelli che vedeva nella piccola tv a colori nella propria stanza: qualcosa dove giochi se non la vita, perlomeno l'orgoglio di aver creato qualcosa di sensazionale, dopo tanta fatica, scatti, soggetti e sfondi differenti.
E lui adorava giocare.
Quando per la prima volta il professore aveva smontato in classe una macchina fotografica per mostrar loro il funzionamento interno, lui s'era emozionato come un bambino. Era stato talmente affascinante entrare in quel mondo che, per la maggior parte della gente, si concludeva in una foto solitamente rettangolare, che ritraeva un fuggevole istante di vita.
Loro non avevano idea di cosa si nascondesse, di quanto lavoro costasse, del significato intrinseco di quel minuscolo oggetto, spesso dimenticato, impolverato, pressato insieme a tanti altri gemelli in un “album di famiglia”, di quelli che si fanno con tanto amore per poi dimenticare negli armadi.
Tanto oggi c'è il digitale, no?
Detestava vagamente il digitale, anche se s'era convertito anche lui alle reflex compatte; ma solo per capirne la logica e la filosofia. Ma continuava a preferire senza ombra di dubbio il caro, vecchio, dolce, fragile rullino, così sensibile alla luce, così soddisfacente nei risultati. Non c'era assolutamente niente di più adorabile del rullino: montarlo, toglierlo nella camera oscura, svilupparlo e guardare più i negativi che non le foto riuscite.
Ah, sì. Decisamente, era in quell'istante che la fotografia trovava il suo compimento, il suo fine.
Nessuna digitale al mondo avrebbe potuto superarlo.

«E così mangi tutto solo, eh?»
Steven roteò vagamente irritato gli occhi, e nel compiere quel movimento non poté non notare Maximilian rientrare nel proprio campo visivo.
Ma insomma, non mi lascerà più in pace?
«Problemi?», rispose, assottigliando lo sguardo nel tentativo di non mangiarselo vivo.
Lo sapeva. Lo sapeva che conoscendo Maximilian Jackson la sua vita non sarebbe stata più quella di prima.
Quel tizio era... troppo, troppo rompiscatole.

Erano circa tre giorni che Max non lo lasciava in pace, fin da quando si era presentato nell'aula di musica quel tardo pomeriggio senza lezioni.
Durante il primo giorno si era seduto accanto a lui sulla panca a mensa, spingendo il vassoio con la colazione accanto al suo.
«Sai che mangi proprio poco, Steve?»
«Steven.»
«Sei gracile per essere così alto, ti spezzerai!»
«Sopravvivo benissimo così.»
«Ti ci vorrebbe un po' di frutta... e anche della carne. Tanta carne! Oggi per menù a pranzo c'è una bistecca. Una bella bistecca. Non ti andrebbe? Tanta carne succulenta, ti aiuterebbe a crescere, sai! Siamo ancora nella fase dello sviluppo!»
«...»
E così via. A colazione si erano divisi, ognuno con le sue lezioni, e a pranzo Steven se l'era ritrovato accanto. E via, di nuovo la stessa tiritera riguardo il cibo, l'alimentazione sana, corretta e soprattutto abbondante; dal punto di vista di Steven fin troppo abbondante.
«Ehi Steve! Posso sedermi qui?»
Non gli aveva nemmeno dato il tempo di rispondere, sistemandosi sulla panca e sfiorandolo diverse volte, con gran disappunto e irritazione da parte sua.
«Ah! Birbante, non hai preso la carne!»
Birbante?
«Sono affari miei.»
Già dal primo giorno di conoscenza Steven si era... come dire, inquietato. Quando parlava con le altre persone, e raramente capitava che ci conversasse per più di dieci secondi, non si scomodava mai, né si lasciava influenzare da tutto ciò che l'interlocutore diceva.
Invece Maximilian era così altamente rompiscatole che proprio non ci riusciva ad essere distaccato.
Il secondo giorno era stato lo stesso. Gli si era appiccicato a colazione, poi a pranzo, e la cena aveva preso l'abitudine di mangiare dei panini in camera, quindi fortunatamente quel momento della giornata era libero. Poi, incluso il giorno in cui si erano – sfortunatamente – conosciuti, aveva soltanto un'altra giornata libera, quindi erano poche le occasioni per incontrarsi, anche perché non avendo sempre gli stessi orari capitava anche che lui fosse libero – a studiare in biblioteca – mentre Max intanto aveva lezione.
Non che la cosa lo dispiacesse così tanto, eh.

Terzo giorno:
«E così, mangi tutto solo, eh?»
«Problemi?»
E ovviamente, l'altro si era seduto senza nemmeno aspettare qualcosa di vagamente simile a un “prego, siediti, nonostante la tua presenza inizi ad irritarmi più delle zanzare d'estate”.
«Come va oggi? Mangi un po' di più?», si era informato l'altro, con il suo solito modo di fare gioviale e seccante.
«Mangio quanto mi pare.», rispose dopo aver ingoiato un boccone di purè.
Se c'era una cosa che adorava, era il purè di patate. Ogni volta che la mensa del college lo proponeva, non riusciva a farne a meno. Proprio come Maximilian evidentemente non riusciva a fare a meno di rompergli costantemente l'anima.
Allontanò distrattamente la forchetta dalle labbra, fissandola con un'intensità di solito non regalata ad un oggetto inanimato. In realtà stava vagliando le possibilità che aveva di piantarla in gola a quell'irritante soggetto che gli stava di fianco.
«Steve, Steve, sei troppo indigesto, la gente finirà per trovarti antipatico.»
Decise che qualunque possibilità avesse, andava la pena di sfruttarla.
Si voltò brandendo la forchetta, forte del suo effetto sorpresa, ma dovette ricredersi: la mano di Max gli aveva afferrato il polso, e l'altro nemmeno lo stava guardando. Anzi, con la mano libera ancora teneva stretto il panino con hamburger che aveva preso al bancone, e lo mangiava, blaterando nel contempo qualcosa – disgustoso, parlava a bocca piena. Ugh.
Steven dovette ricredersi: quel tipo non era normale. Non erano normali riflessi del genere. Tanto che fece il grave errore di rivolgergli una domanda fin troppo personale, una di quelle che forzatamente danno avvio ad una conversazione, o ad un logorroico discorso da una sola delle parti:
«Ma cosa fai, karate?» pronunciata anche con stizza, dopotutto gli aveva rovinato il suo perfettamente congegnato piano di omicidio, eh!
Max lo guardò, poi guardò la propria mano, cui era strettamente collegato il polso del ragazzo. E ridacchiò – Steven iniziava a temere della sua salute mentale, qualora esistesse – lasciandogliela, e tornando ad afferrare lo sfilatino con entrambe le mani.
«Ah!», masticò e ingoiò. «Scusa, non volevo spaventarti. Pratico karate da anni, sono titolare della squadra di rugby del college e ho fatto nuoto da piccolo. Forse i miei riflessi sono abbastanza allenati da sconvolgerti.», rispose, e a Steven diede fastidio il modo in cui si era vantato di tutti gli sport che aveva fatto o che faceva. Ma insomma, non gliel'aveva chiesto! - in teoria sì, ma shhh, non diciamoglielo che si offende.
Si scostò in malo modo, anche se Maximilian gli aveva liberato il polso senza fare storie.
«Sbruffone.», lo apostrofò, irritato.
A quel punto, l'altro gli diede ulteriormente modo di innervosirsi, perché rise. Steven non si diede pena di chiedergli il motivo di tanta ilarità, perché riprese a mangiare il suo purè senza degnarlo di un'altra occhiata.
Ma tanto, signore e signori, noi lo abbiamo già capito: Max Jackson fa tutto da solo. È un bravo bambino, lui.
«Ah, Steve, non sai quanto fascino perdi quando fai tanto l'antipatico», commentò, e una seconda volta Steven si trattenne a fargli cortesemente notare che sai com'è, non sono propriamente affari tuoi. «Insomma, guardati!», continuò, scostandosi leggermente dal vassoio e voltandosi sulla panca per guardarlo e Steven si agitò leggermente. Non gli faceva piacere sentirsi osservato a quel modo, da capo a piedi – specie se i piedi erano addirittura nascosti dal tavolo.
«Sei fisicamente proporzionato, anche se un po' troppo magro, forse. Hai i capelli neri, ma davvero corvini, cosa rara visto che di solito sono tutti castani come me. Gli occhi di un marrone chiaro, che sembra nocciola, e quando ti ho visto nell'aula quattro giorni fa il sole li ha illuminati facendoli diventare quasi ambra. Peccato per gli occhiali.», aggiunse, continuando in quella descrizione che, se Steven non fosse stato notoriamente un pezzo di ghiaccio, l'avrebbe sicuramente fatto arrossire.
Ma insomma, cosa andava a dire quello lì?
«Senza contare i lineamenti, così fini eppure mascolini, soprattutto il naso pronunciato, e le lab--»
«Basta così.», lo interruppe a quel punto. Era stato già abbastanza imbarazzante lasciarsi descrivere in quel modo dagli occhi di quel tizio, però ora basta.
Come se poi l'altro non fosse da meno. Con quei suoi capelli castano chiaro, portati corti sulla nuca e sulle tempie, un tantino più lunghi sulla testa con un ciuffo sbarazzino e senza senso sulla fronte ampia e liscia; con i suoi grandi occhi verdi, scrutatori, sinceri e irritanti, i lineamenti virili e marcati, la corporatura da gigante, con quelle spalle larghe.
Peccato il modo di fare così talmente rompiscatole da far dimenticare all'istante tutta quella – a detta delle ragazze – bellezza.
A quel proposito, mentre compiva quel vergognoso giro di pensieri (prima si vergognava della descrizione compiuta dall'altro e poi ne stilava una nella propria testa, cosa ancor più scandalosa?), lo osservò, mentre Maximilian al suo 'basta' aveva taciuto per poi fissarlo.
«E della tua ragazza, che mi dici?», gli venne istintivo domandare, assottigliando lo sguardo. Insomma, quello lì non aveva la famosa ragazza da coccolare, riempire di attenzioni e rotture di scatole come invece stava facendo con lui da tre giorni? «Non esiste?», lo provocò senza cambiare espressione, mentre mandava giù l'ultimo boccone di purè.
Maximilian si lasciò andare ad un'altra risata, sciogliendosi dopo l'attimo di agghiacciante fermezza dovuta all'uscita di Steven.
«Oh, tu stai ancora pensando a quella ragazza!», se ne uscì e Steven sollevò un sopracciglio.
Come?
«Veramente toccherebbe a te pensarci. Sai com'è.», gli fece notare, guardandolo con eloquente distacco e anche una sorta di pena – insomma, lui che era single doveva star lì a spiegargli come trattare con le ragazze? Ma siamo usciti di senno?
Max ridacchiò ancora, e Steven tornò a ponderare seriamente l'eventualità di infilargli la forchetta per il manico – o per i rebbi, magari – su per il naso. Oh, sì, che sensazione gaudiosa, che vittoria per le sue povere orecchie torturate da quel continuo ridere e chiacchierare di cose, dal suo punto di vista, senza alcun senso logico od interesse.
«No, ci siamo lasciati, in realtà.»
Steven tornò a guardare il piatto con un'incredibile faccia da: ma quanto mi dispiace. Vuoi una tavoletta di cioccolata per non soffrire la solitudine?
«Quindi ora sono libero, se vuoi.»
All'aggiunta, poco ci mancò che il moro scoppiasse in una grassa risata, che voi tutti stavate iniziando a collegare con Maximilian; o magari che si strozzasse con la mela che stava finendo di mangiare – purè di patate e mela per frutta, qualcosa in contrario?
Per fortuna non fece una cosa così poco incline a se stesso e si limitò a... sì, avete indovinato. Ignorarlo, totalmente, dall'istante che gli servì per attutire il colpo di quella strampalata offerta di disponibilità fino ai successivi, durante i quali probabilmente il castano lo aveva guardato con una sorta di aspettativa.
Ma aspettativa di che?
«Ehi, non dirmi che non t'interesso!», aveva aggiunto, e dal tono – senza guardarlo – a Steven parve quasi scandalizzato, sotto shock.
Al che il moro, finito il pranzo si alzò, scavalcando la panca prima con una, poi con l'altra gamba, il vassoio tra le mani.
Lo fissò da lassù, Max che aveva seguito tutto il movimento senza perderlo di vista.
«Di', mi hai preso per un omosessuale
Gli diede le spalle, andandosene.
Dietro di lui – ma Steven non poté vederlo – Maximilian prima lo osservò andarsene senza mutare l'atteggiamento del volto, poi sorrise. Un sorriso diverso da quelli svagati e allegri di poco prima.
Un sorriso un po' più inquietante, forse; quasi maligno, per quanto possa parere strano.
«D'accordo, MacMillian... non volevo arrivare a tanto.» 

A Steven non poteva sembrare vero quanto il paradiso. Era troppo bello per corrispondere alla realtà che effettivamente stava vivendo.
Per tutti i due giorni successivi, che tra l'altro erano venerdì e sabato, Maximilian non si fece vivo: o meglio, lo notava nei corridoi, sentiva la sua voce mentre chiacchierava con altri compagni o incrociava la sua presenza poco prima che sparisse dietro un angolo. Nulla di preoccupante, insomma: era vissuto bene prima di conoscerlo, avrebbe vissuto ancora meglio dopo.
E soprattutto era sabato: il che significava che aveva tutta la mattina libera, tutto il pomeriggio libero, tutta la sera libera – il sabato era sacro, studiava la domenica e tutti gli altri giorni, lui.
Libero di poter stare in stanza a non fare niente, la televisione accesa tanto per fargli compagnia, un buon libro, una tazza di tè, magari una puntatina in aula di musica per poter suonare qualcosa in santa pace... sì, decisamente il sabato era una bellissima giornata.
O almeno, lo pensava finché dopo una succulenta – per lui – colazione si era diretto in camera, pronto a seguire il suo entusiasmante – per lui – programma di vita: stare steso sul letto ad ascoltare un cd con brani di pianoforte misti per tutta la mattinata prima di pranzo e a leggere un libro su Beethoven.
Aveva inserito il cd, premuto play e “Pan's Labyrinth Lullaby” era iniziata. Adorava il modo in cui era così dolce, tenera, effimera come un sogno nelle prime battute, per poi scatenarsi dopo poco più di un minuto e mezzo, salendo di tono, mantenendo una sorta di meravigliosa disperazione.
Mentre le prime note salivano, librandosi nell'aria, lui si era steso sul letto, aprendo il volume dove il segnalibro azzurro gli indicava il punto dove si era fermato la sera prima. Ebbe il tempo di leggere la parola “Ludwig Van” all'inizio della frase che qualcuno ebbe la brillante idea di infrangere il suo personale eden.
Bussando alla porta.
Che incivili.
Chiuse il libro, alzandosi. La musica iniziava a scendere, segno che tra non molto sarebbe cominciata la parte sensazionale della melodia. Andò ad aprire, socchiudendo l'uscio mentre chiedeva chi fosse, con aria che dire scocciata era sminuire di parecchio la noia sul suo viso.
Una mano color miele s'insinuò tra l'uscio e lo stipite, afferrando la porta ad un niente dal suo naso e spingendola in avanti. Ebbe il tempo di sgranare gli occhi, colto di sorpresa, ed evitare una craniata che quasi non notò Maximilian intrufolarsi nella stanza, richiudendo di schianto la porta.
«Tu...!», si lasciò andare Steven, quasi rabbioso – perché dopo due giorni di perfetta armonia doveva andare a rompergli le uova nel paniere proprio nel sabato?
Il sacrosanto sabato?
Vide il castano ridacchiare.
«Io.», fu l'esatta risposta, per poi sentirsi prendere il polso come a mensa, quel giovedì. Solo che non venne mollato, anzi tirato verso quel gigante, che con un movimento preciso e mirato lo spedì con la schiena contro la porta.
L'espressione di Steven, superato il fastidio per quel cozzare indesiderato scapole- legno, si mutò in un'aria alla: embé? Chi si credeva di essere quel bellimbusto montato per entrare in camera sua senza nemmeno un valido motivo – qualunque fosse stato, Steven gliel'avrebbe distrutto – e sbatterlo contro la porta?
L'altro gli fu addosso in breve, fu facile immaginarlo. Non così semplice per il moro, non precisamente abituato ad avances di quel genere. Sentire il respiro del castano sulle labbra non gli fece proprio piacere, infatti con la mano libera non ci pensò due volte a dargli uno schiaffo sul collo, parte del corpo dov'era riuscito a giungere prima che l'altra mano di Max non gli bloccasse l'altro polso.
Steven avrebbe potuto anche ringhiare, in quell'istante, tanta era l'irritazione che iniziava a nascergli dentro a causa di quel tizio.
Max fece un sorriso sghembo, strano, diverso da quelli che bene o male aveva imparato, senza volere, a riconoscere su quel viso stupido.
«È inutile che fai il sostenuto, Steven MacMillian.», gli consigliò, con un'aria saccente che diede parecchio sui nervi al moro.
«Chi ti credi di essere tu, eh? Maximilian Jackson!», lo richiamò infatti, utilizzando il suo stesso gergo e chiamandolo con nome e cognome. «Piombi nella mia stanza senza nemmeno un permesso od un saluto di sorta, mi afferri il polso e mi spingi contro al muro senza alcun riguardo, e soprattutto continui ad avere atteggiamenti che io ti ho detto chiaramente di non gradire. Ti ripeto la domanda, zucca vuota: chi ti credi di essere?», lo aggredì nuovamente con la sua retorica, anche se guidata solo dall'enorme fastidio che provava al momento.
Max non si sconvolse.
«Sono una persona che dovresti temere, Steve, lo sai?», disse quasi con dolcezza. Quasi provando pena per quel ragazzo che non aveva la minima idea di chi avesse di fronte, di chi stesse sfidando, di chi aveva deciso di voler giocare con lui dopo tanto tempo.
Infatti, come volevasi dimostrare, il moro si lasciò andare ad un sorriso scettico.
«Addirittura? E chi saresti tu, il Padrino?», lo prese palesemente in giro, assottigliando gli occhi nocciola da dietro le lenti.
Il castano sospirò leggermente. A lungo, per quasi quarantotto ore, si era lambiccato il cervello sulla possibilità di uscire allo scoperto subito, senza prima una premessa degna di questo nome. Aveva però concluso che Steven non poteva essere domato se non con le maniere forti.
Ehi, lui ci aveva provato ad essere amichevole; ma il moro non lasciava tante possibilità.
«Sono quello che conosce il tuo piccolo segreto, Steven.», se ne uscì, talmente improvviso che sul momento Steven nemmeno collegò.
Ma qualcosa, nel sorriso cattivo di Maximilian, lo indusse a tacere, a non uscirsene con una delle sue frasi sarcastiche.
«Io so tutto di tuo padre, Steven Macmillian secondo. Faresti bene a temermi, lo sai?»
Maximilian Jackson aveva un merito.
Nessuno, prima di lui, era riuscito a far sgranare quel paio d'occhi freddi e sentenziosi. 

Era morbido, vero?
Il suono della vittoria.
Click. 

 


Grazie a tutti per aver seguito fin qui <3
Ringrazio Yoko891 per aver recensito il primo capitolo, e a tutti quelli che so che l'hanno letto!
Spero che questo secondo sia stato di vostro gradimento, aspetto altri commenti *-* 

Yoko891: non ci credo che tu invidi il mio lessico, la cosa potrebbe seriamente commuovermi ç__ç
Spero che in questo capitolo tu ti sia fatta un'idea più precisa dei due protagonisti: se così non fosse stato, beh... lo capirei perfettamente XD non ho dato modo di comprendere perfettamente l'indole di nessuno dei due; adoro non svelare subito tutto ciò che concerne il carattere di una data persona <3 *saltella* Invece per quanto riguarda la descrizione fisica, spero di averti ampiamente soddisfatta ù.ù 

Alla prossima <3
Ja ne!

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Capitolo 3
*** Polsi di pietra - in una foto di famiglia. ***


1. le informazioni riguardo il pianoforte sono un po' farina del mio sacco, un po' raccimolate su wikipedia.com; lo stesso vale per le macchine fotografiche;
2. il parlato si esprime tra i simboli «», il corsivo indica pensieri (trascritti al presente) oppure serve a marcare l'importanza di un dato soggetto, le virgolette “” sono utilizzate per nomi di cose/opere o in generale per sottolineare concetti.
3. dopo avervi annoiato con le note, vi lascio solo con i copyright: i personaggi, i luoghi e il resto sono opera mia, mentre le opere citate (come “Für Elise”) sono ovviamente di proprietà del loro creatore (non ruberei niente a Beethoven-san <3). Grazie per l'attenzione e buona lettura!



 


 

Black and White
O magari in seppia?

 

 


3. Polsi di pietra
In una foto di famiglia.


 


 

«Polso fermo, Steve.»
«Sì.»
«Le mani più ad archetto. Esatto. Morbide, ma determinate. Flessibili, ma stabili.»
«Sì.»
«Ricorda, Steve, le dita eseguono, le braccia guidano, ma i polsi restano fermi. I tuoi polsi devono essere di pietra, capito Steve?»
«Sì, papà.»
«Bravo Steve...»

Aprì gli occhi di scatto. Ancora.
Era la quarta volta in due giorni che quello stesso strano sogno si presentava alle porte della sua mente, irrompendo nel subconscio senza bussare, disturbandogli il sonno, impedendogli il riposo, distruggendo uno dopo l'altro i muri che durante quegli anni aveva costruito tra sé e quel passato che, volente o nolente, aveva dimenticato.
E adesso, sotto forma di onirica angoscia, quei ricordi avevano ben deciso di intaccare il fragile e delicato equilibrio che lo aveva tenuto in piedi fino ad allora.
Fino alle odiose parole di Maximilian Jackson.

Io so tutto di tuo padre, Steven Macmillian secondo. Faresti bene a temermi, lo sai?”

«Mh, che c'è?»
«E me lo chiedi?», sibilò in risposta. Non ebbe nemmeno il tempo di stupirsi di una voce estranea nella stanza, che la figura di Max si materializzò nel buio, scompostamente distesa al proprio fianco.
Assottigliò lo sguardo, contrariato, eppure sconfitto; e la cosa non faceva altro che renderlo ancor più irritato e soprattutto irritabile.
Perfino nel buio vide saettare quel bianco lucore che altro non era se non la dentatura di Maximilian, che avrebbe fatto felice qualunque dentista nel giro di chilometri e chilometri.
Migliaia di chilometri.
Esattamente il luogo ove avrebbe desiderato vivere, potendo. A migliaia e migliaia di chilometri di distanza da quell'odiosa persona che ora occupava un indesiderato posto nel proprio letto, che tra l'altro era ad una sola piazza, e tutto ciò rendeva difficile trovare uno spazio in cui intrufolare il proprio corpo senza dar vita a strofinamenti di determinate parti anatomiche.
In ogni caso, quel maledetto se la stava ridendo, per la precisione sogghignando.
Steven non si prese troppo tempo per star lì a domandarsi la mistica ragione di tanto divertimento, e fece per distendersi. Era una decisione difficile dormire, e decidere come farlo: dargli le spalle avrebbe di sicuro comportato un avvicinamento di corpi in punti particolarmente sensibili, un avvicinamento non casuale, conoscendo il soggetto che dormiva con lui; schiena al muro significava rischiare di accoccolarglisi, possibilità che il suo cervello rifiutava categoricamente di prendere in considerazione. Per cui già dalla prima sera aveva finito per stendersi pancia in su, la posizione in assoluto più scomoda: così occupava il doppio dello spazio ed era costretto a sentire il muscoloso petto del ragazzo premere contro la propria spalla, il proprio braccio; era costretto a sollevare leggermente le ginocchia, perché se si metteva supino non riusciva a stendere del tutto le gambe, e quel movimento comportava un leggero sollevamento delle lenzuola, il cui possesso portava sempre ad un'insolita lotta furiosa per accaparrarsene il più possibile.
Maximilian però non era soddisfatto: lui stava ridendo, e quel Steven nemmeno lo notava. Neanche un po', giusto per curiosità. E invece niente.
La cosa non lo demoralizzò: lo aveva circuito tanto da indurlo a lasciarlo dormire nel proprio letto – dormire e non solo –, di sicuro sarebbe riuscito ad esasperarlo tanto da far sì che anche quel gelido cyborg cominciasse ad interessarsi all'esistenza di qualcun altro oltre se stesso.
Per la precisione, quel “qualcun altro” doveva essere lui.
Il sorriso si allargò leggermente, e la mano che non stava sotto il cuscino si avvicinò al corpo di Steven, accarezzò il fianco e si posò sul torace magro e smilzo coperto solo da una leggera maglietta, scivolò sul ventre, ne carezzò la consistenza. Poté avvertire Steven contrarre i muscoli, stringere la mandibola, digrignare i denti.
«Non mi toccare.», fu l'ordine, pronunciato con stizza e nervosismo vergognosamente palese, se si pensava alla fredda gentilezza che di solito caratterizzava sempre la voce del moro.
«Adesso è “non mi toccare”?», cantilenò Max, senza spostare la mano dal ventre, nelle vicinanze del perineo. «Non mi sembra che l'altra sera fosse “non mi toccare”.», continuò implacabile, le dita che si muovevano in lenti cerchi, sollevando di tanto in tanto la t-shirt. Steven era rimasto fermo, le braccia lungo i fianchi, le gambe leggermente sollevate.
«È sempre “non mi toccare”, Jackson, ma tu senti solo quel che vuoi sentire.», replicò secco l'altro, ruotando la testa il tanto che bastava per lanciargli una contrariata occhiata in tralice, gli occhi nocciola mezzi coperti dalla disordinata frangia.
Il sorriso di Max non vacillò. «Eppure ricordo espressioni decisamente differenti uscire dalla tua bocca...»

«No...»
«So che ti piace...»
Le delicate, affusolate dita da pianista strinsero le lenzuola, accartocciandole nel palmo, gli occhi sgranati si sollevarono al soffitto – che vedeva sfocato causa mancanza di occhiali – e la bocca si schiuse, lasciando sfogo a gemiti leggeri e poco trattenuti.
Avvertì distintamente il castano succhiare, e dovette chiudere gli occhi in un fremito di piacere che lo scosse da capo a piedi.
«Idiota di un Jackson...», sibilò, tremando leggermente. Sentiva gocce di sudore scivolargli lungo la coscia, ben presto carezzata da quella grande mano che andò ad afferrargli le natiche, senza un minimo di ritegno, o pudore. Sebbene il pudore fosse l'ultimo dei suoi pensieri, in quel preciso istante.
La mano destra si sollevò lentamente dalle lenzuola, salendo in uno scatto spasmodico a tappargli le labbra con il dorso; nell'istante immediatamente successivo quel dorso si trovò a dover tacere una serie di versi indecenti, dovuti alle continue e scandalose carezze che il castano non smetteva di esercitare sulle sue parti intime.
Diversi mugolii accompagnarono i movimenti di quella lingua maledetta, e le palpebre si serrarono più volte in preda a violente contrazioni dei muscoli di tutto il corpo.
Le carezze lo fecero vibrare, i fianchi suo malgrado assecondarono le sensazioni puramente fisiche accompagnando l'altalenante moto della testa di Max.
Poi la schiena si curvò, arcuandosi per un breve istante prima di ricadere mollemente sul letto; i gemiti si spensero, lasciando posto ad un affannato respiro liberato dalla mano, il cui dorso scoprì essere leggermente umido per la saliva.
Rabbioso seguì il sollevarsi di quella testa, e il sorriso lascivo che campeggiava su quella faccia.
«Avevo ragione, visto?»
«Fottiti.»
Lo aveva seguito stendersi, allungare il braccio muscoloso a recuperare la bottiglia d'acqua sul comodino, bere un sorso.
«Oh, io credo sarebbe molto più divertente fare l'opposto.»

Steven guardò altrove, precisamente verso il muro.
Ricordare la sera precedente era di per sé vergognoso; niente di ciò che era successo con Maximilian avrebbe compromesso il suo normale atteggiamento. Lo aveva giurato non appena aveva capito il fine del ragazzo, quando tutta quella trafila era iniziata.
L'ostinato silenzio in cui si era chiuso dopo l'ennesima uscita strafottente del castano, fece ridere quest'ultimo.
«Visto? Ho ragione, no?», lo punzecchiò esultante. Steven si limitò ad afferrargli la mano e allontanarla da sé con sdegno, incrociando poi le proprie braccia sul petto, controllando con cura di infilargli il gomito nel torace.
Una vendetta infantile, ne era conscio, ma se doveva combattere contro Max doveva scendere al suo infimo livello.
«Ouch», ridacchiò quello, la mano appena respinta che andava a massaggiare la parte colpita. «Questa tua reazione mi dà da pensare. Sicuramente ho ragione, e tu non vuoi ammetterlo, così mi colpisci e pensi di farmi cambiare idea, ma non ce la fai, e adesso ti sto stressando così tanto che vorresti tapparmi la bocca col nastro adesivo», continuò, il sogghigno sempre più ampio mentre la vena sulla tempia di Steven pulsava sempre più, e la mascella si induriva, «ma ti consiglio un metodo più veloce e sicuro: perché non mi dai un bacio, eh, Steve?»
Steven non si voltò; restò fermo, sostanzialmente a fissare la parete.
«È Steven, per te.», si premurò di ricordargli, assottigliando leggermente gli occhi, scuri nell'oscurità.
Lo sentì nuovamente ridere e la cosa lo innervosì.
Qualunque cosa facesse Maximilian, lo irritava come non mai. Qualunque cosa dicesse, toccasse, muovesse, ogni volta che rideva, parlava, scherzava con lui, ogni singolo movimento lo faceva imbestialire, perché sapeva fosse mirato al suo punto debole, mirato a volerlo punzecchiare, infastidire, logorare fino allo stremo, fino al suo limite umano e poi andare oltre, a raccogliere i cocci, a ricostruirli come più gli pareva.
Il pensiero lo colpì: era esattamente come si sentiva quando sfiorava il pianoforte, la sua architettura pregiata, delicata e al tempo stesso forte: lo distruggeva e poi lo ricreava daccapo. Il solo fatto di aver accostato Maximilian al suo adorato strumento lo avvilì: cominciava a perdere colpi.
«Sei troppo forte, Steve; comincio a pensare di aver fatto proprio bene, ad avvicinarmi a te.»
Era troppo buio per fulminarlo con un'occhiataccia, ergo si limitò a rimanere sostanzialmente in silenzio, con un sospiro pesante e palese.
Significava “e ora che te ne sei intelligentemente reso conto, mi faresti il grande favore di chiudere quel forno?”, pressappoco.
«D'altronde, non puoi farci niente. Vorresti respingermi, ma in realtà hai paura di farlo: perché io so quello che tu non sai, e che vorresti sapere...»
Steven roteò gli occhi: eccolo, aveva ricominciato a vantarsi delle sue mistiche conoscenze riguardo il suo passato, a far finta di conoscerlo così bene da parlare come uno psicologo, aveva ripreso a ricordargli che bla, bla, bla, “io so che tu sai che io so e tu sai che io so che tu vorresti sapere” e teatrini logistici del genere. Decise che quella volta non gli andava bene.
Non lo guardò, si limitò ad interromperlo con le parole.
«Basta», fu secco, ma non bastò; «io non voglio sapere, né ricordare, per quel che m'interessa io con quell'uomo ho chiuso, e ben presto chiuderò anche con te.», gli assicurò. Si voltò solo in quel momento per fissarlo. «E quando l'avrai capito sarà finita.», rettificò.
Max fece un sorriso sghembo, fin troppo arrogante.
«Come vuoi.», lo blandì, con aria noncurante: in fondo, di tutte quelle belle cose ne era convinto solo Steven, non certo lui, non aveva nulla a che spartire con il suo modo di pensare. Lui aveva altro da fare.
«In ogni caso non mi hai risposto, Steven caro, e a ben due domande: uno, come mai ti sei svegliato tanto di soprassalto?», non aggiunse la seconda, segno evidente per il moro che volesse una risposta ad una domanda per volta.
Steven tornò a guardare il soffitto, in realtà senza vederlo nella penombra della stanza.
«Incubo.», fu quindi il lapidario borbottio.
Maximilian mentalmente se lo segnò, senza però aggiungere altro. L'espressione tornò seria per qualche istante mentre compiva quell'operazione silenziosa.
Quindi, tornò immancabile il sorriso sornione. «Numero due... non me lo dai un bacio, Steve?», ripeté la domanda di non molto prima.
«No.», rispose immediatamente il moro, anche un po' annoiato in realtà.
«Su... dai, che ti costa? In confronto a cosa ti ho fatto ieri, un bacio è come una carezza.»
«Nel tuo caso perfino una carezza sarebbe troppo, Maximilian.»
«Max, Steve!»
«Steven. Maximilian.»
Lo sentì sbuffare.
«Che noioso. Dai, un bacetto solo...», nella penombra Steven vide la sua figura avvicinarsi, il fiato farsi più vicino, più lento, come a voler soppesare ogni singolo respiro... Trattenne il proprio, mordendosi il labbro inferiore mentre si voltava e gli premette entrambe le mani sul petto, facendo forza per allontanarlo e al contempo spingere se stesso ancor più verso il muro.
«Non ci provare. Potrai anche avere tutto il mio corpo, anche se non ci spererei fossi in te, ma le labbra non te le lascerò toccare.», lo avvisò, il tono più basso, dalle vibrazioni quasi minacciose.
L'altro sospirò pesantemente. «Steve, Steve, non fare il santarellino. Solo un bacio!», insistette ancora.
«No, fammi dormire.», esigette, dandogli a quel punto le spalle – e a quel paese l'avvicinamento di parti anatomiche un tantinello intime – e stringendosi nella parte di coperta da lui occupata.
«Ah, è così, eh?», a quel punto avvertì le sue braccia circondarlo, travalicando anche il confine tra il suo corpo e il materasso per avvolgerlo totalmente. Si irrigidì dal primissimo istante, sgranando leggermente gli occhi.
«Cosa stai--?»
«Shht.», Max lo zittì, appoggiando nel contempo le labbra sul suo collo. Steven non tollerò una cosa del genere, e mosse subitaneo il gomito per colpirlo ovunque fosse possibile. Il gesto ebbe successo, sebbene con minor forza di quanto avesse sperato, perché quelle braccia muscolose gli dimezzavano la libertà di movimento.
«Smettila. O quei gioiellini te li faccio saltare.», minacciò a quel punto, agitandosi il più possibile per dargli fastidio. Le labbra dell'altro parvero scollarsi dal suo collo, che sentì fastidiosamente pruriginoso e umido.
«D'accordo, d'accordo tigre.»
Tigre? Ancora?
«Allora... per stasera dormiamo.», concesse e Steven roteò gli occhi, da parte sua, mentre si scostava con malagrazia intanto che l'altro già allontanava le braccia da lui. «Ma la tua bella bocca non mi sfuggirà per sempre.», aggiunse inevitabilmente.
Steven rimase qualche istante in silenzio; nel frattempo il castano si sistemava cercando una buona posizione per dormire.
«Sta' certo che il tuo “per sempre” e il mio sono pregni di concetti temporali estremamente differenti.»
«Che frase da Einstein represso.»

Per quella notte si addormentarono, Max non ebbe accesso al suo corpo né alle sue labbra e Steven nemmeno gli raccontò oltre quell'unico vocabolo dell'incubo che lo aveva svegliato di soprassalto. D'altronde, perché avrebbe dovuto? Non erano in confidenza, e quell'avvicinamento fisico era solo dovuto con la forza e per ricatto, perciò Steve non si sentiva in dovere di tenerlo al corrente di ogni suo pensiero, nemmeno fosse il suo ragazzo.
La mattina dopo, in mensa, rabbrividì al pensiero. E l'altro non meno di due giorni prima aveva avuto la faccia tosta di dirgli che “se voleva, era libero”. Insomma, ma chi lo voleva un tipo del genere?
Un tipo che conosce il segreto che avevi dimenticato, sepolto nel cuore in uno scrigno serrato, un tipo che riesuma ricordi polverosi e li usa per ricattarti, per averti al suo servizio quando aveva istinti da sfogare, per permettersi di dormire nel tuo letto e baciarti dappertutto?
Scosse il capo, agitandosi leggermente, lì in fila con il suo bravo vassoio tra le mani, che lo stringevano quasi con la voglia di distruggerlo.
Si distrasse solo con l'amaro pensiero che quel vassoio no, non era mica il collo di Maximilian.
Era martedì. Il lunedì era stato affrontato con successo, e il martedì – sia lode – era uno dei due giorni liberi. Si era comunque alzato presto, sia perché voleva fare colazione in una mensa ancora affollata, così che Max non potesse avvicinarsi troppo a lui in pubblico.
Tutta una tecnica.

«...e con questo cosa vorresti dire?»
«Che so tutto di lui, di te e di tuo...»
«Sta' zitto!», aveva esclamato, di getto, gli occhi ancora leggermente sgranati. «Non voglio sapere nulla di quello che stai dicendo, nulla, mi hai sentito?», aveva continuato, l'aria vagamente stravolta, puntando lo sguardo allucinato sul viso dell'altro, sul quale campeggiava un sorriso strafottente, praticamente come al solito.
«Non ti credo.», aveva sentenziato, l'aria asciutta, quasi distaccata, come di chi non è assolutamente colpevole di una data situazione o reazione; gli lasciò i polsi. «Sicuramente da qualche parte nella tua testa c'è qualcosa che preme di sapere.»
Lo schiaffo era arrivato subitaneo.
«Non credere di poter sbirciare tanto facilmente nella mia testa.», il sibilo giunse leggermente tremante alle orecchie di Maximilian, che infatti non lo prese per buono, e con una mano sulla guancia colpita lo guardò, sempre con quel sorriso irritante, saccente, inquietante.
«Mh, scommetto che adesso indovinerò la tua reazione.», sogghignò, l'aria gioiosa di un bambino dispettoso che si diverte a mettere un compagno più debole in difficoltà. Cacciò l'altra mano in tasca, estraendone qualcosa di frusciante, forse un pezzo di carta.
«Scommetto che ora tratterrai il fiato e farai tanto d'occhi.»
Gliela mise sotto il naso. Era una foto.
Steven trattenne bruscamente il respiro.
Sgranò gli occhi.

«Steven!»
Un ragazzo biondo, mediamente alto, dovette chiamarlo un altro paio di volte prima che il moro si riscuotesse, perso nei suoi pensieri, nei ricordi di quei brevi istanti che avevano portato al ricatto malefico, al “i tuoi ricordi per il tuo corpo”, stile io do i ricordi a te, tu dai il tuo corpo a me.
Finora, al suo corpo in senso letteralmente fisico non c'era arrivato, ma già poter dormire con lui poteva definirsi “un grande passo”.
«Ehi, Steven, dormi in piedi?», scherzò il biondino, e Steven abbozzò un mezzo sorriso di circostanza, recuperando la sua aria placida e un po' gelida.
«No, riflettevo. Dimmi, Ian.», lo invitò, gentile e distante. Come al solito, insomma. Ian era un semplice compagno di classe, non erano proprio in confidenza ma siccome Steven cercava di mantenere un rapporto abbastanza amichevole ma non troppo con i coetanei, alla fine tutti gli si rivolgevano con tranquillità.
«Ecco... la faccenda riguarderebbe lui.», se ne uscì, e Steven dovette un secondo battere gli occhi prima di capire chi fosse “lui”. Abbassò lo sguardo al fianco di Ian: un affarino alto più o meno fino al bacino del compagno, biondo anche lui, con un'aria divisa tra corrucciata, imbarazzata e ammirata tutto insieme sulla faccia – come potesse essere possibile, Steven invero non ne aveva idea.
«E... lui sarebbe?», domandò a ragione, inarcando il sopracciglio.
Ian ridacchiò. Era affabile, il suo ridere non era irritante come quello di qualcun altro. «Sì, scusa. Lui è Dean, il mio fratellino.», spiegò. «I miei mi hanno chiesto di fargli vedere un po' l'ambiente: sai, anche lui vorrebbe studiare pianoforte, tra qualche anno.», si passò una mano sulla nuca, scompigliandosi poi anche i capelli sulla fronte, lasciandoli ancora più spettinati di prima. «Così, mi sono chiesto... siccome tu sei il più bravo del corso e sicuramente oltre, non potresti dargli qualche dimostrazione?», domandò alla fine, con un sorriso sbilenco un po' colpevole, nemmeno gli stesse chiedendo di spostare una montagna.
Steven se ne uscì con un ghigno a metà arrogante, a metà divertito, per quanto la sua maschera potesse permetterselo. «Ma così non ne risentirà la tua immagine da fratello maggiore?», lo punzecchiò velatamente, comunque senza malizia o cattiveria. Ian era troppo tonto perché anche lui si divertisse a prenderlo in giro.
L'altro infatti rise, come un moccioso, sicuramente peggio del fratellino che gli stava accanto. E che difatti prese la parola prima di lui, incrociando le braccia con il tipico broncio da bambino.
«Tanto Ian non è granché come fratellone.», commentò e Steven, potendo, avrebbe riso sinceramente. Quel bambino, era forte.
«D'accordo. Se lo dici tu, mi fido.», rispose, alleandosi palesemente con Dean, giusto per canzonare bonariamente il più grande. Che infatti mollò al piccolo uno scappellotto scherzoso. «Non si dicono queste cose del fratellone!», lo riprese, e l'altro con un “ahio”, rispondeva: «ma se te le meriti!», a tono.
Che cosa incredibile, l'essere fratelli.
Qualcuno di abbastanza simile a te da farti sentire protetto. Da non farti accorgere della tremenda solitudine del mondo. Qualcuno generato come te dalle medesime persone, che condivide il tuo DNA, il tuo sangue, che condivide la tua casa, la tua vita, dalla nascita in poi, fino alla naturale divisione delle strade.
Steven lo trovava meraviglioso.

«Fratellone!»

«Steven?»
Si riscosse ancora. Nuovamente un sorriso di circostanza.
«Sì, perdonami. Stavamo dicendo: allora, vogliamo andare in aula?», concluse, e Dean annuì, contento finalmente di iniziare.
Ian lo prese per mano – e l'altro parve lasciarlo fare con sufficienza, quasi rassegnazione; Steven si chiese chi fosse il maggiore tra i due – e insieme guidarono il bambino attraverso il breve dedalo di corridoi fino all'aula di musica, naturalmente vuota. Steven accolse dentro di sé un respiro sollevato di aria pura e incontaminata – epurata cioè da quel brutto virus di nome Maximilian Jackson.
Si erano portati i vassoi dalla mensa, e li appoggiarono sui banchi. Tutta roba che non ungesse le dita, comunque: una tazza di caffè e una mini-brioche da mangiare con un tovagliolo. Il tempo di fare entrambe le cose e leccarsi i baffi che Steven si accomodò sul largo sgabello, facendo posto anche al piccolo Dean.
«Da cosa vuoi iniziare?», chiese, l'aria disponibile.
Il bambino scrollò le spalle.
«Suona qualcosa.», lo invitò, più generico di così si moriva.
Steven suppose di dover fare qualcosa da sé.
Così appoggiò le mani sul piano.
Polsi di pietra.
Dovette di nuovo reprimere un brivido, e mantenere la calma.
Cominciò a suonare qualcosa di classico: la “sonata per pianoforte n°14, Quasi una fantasia” del suo adorato Ludwig Van, forse meglio conosciuta come “Sonata al chiaro di luna” o “Moonlight sonata”. Fino al secondo tempo della terza battuta, le note della mano destra erano sempre le stesse: in una bassa tonalità, sol, do, mi. Sol, do, mi. Sol, do, mi. Era la mano sinistra a dare un lieve cambiamento, un senso a quelle tre note identiche, calme, lente.
La cosa lo compiaceva sempre, almeno un po', per via di tutte le sue elucubrazioni al riguardo.
La sinistra intonava due cambi di note da quattro quarti: nella prima battuta, due la di due ottave differenti; nella seconda battuta, due sol, sempre con un'ottava di differenza.
Era un suono morbido, greve, pareva una piuma che con la leggiadria di cui è pregna si posasse sulla terra, e nella sua caduta producesse un suono tanto flebile quanto sublime: ecco, quello era precisamente il suono che gli ispiravano quelle note suonate dalla mancina.
Cominciava tutto piano: con note basse, poco invasive, come di un sentimento che si fa strada nel cuore del destinatario senza che questi possa rendersene minimamente conto; come un gatto che con zampe felpate strisci sul pavimento, movenze eleganti, morbide, fino a strofinarsi con piacere contro qualche caviglia, risultando sempre ben accetto e intenerendo chiunque.
Dean lo ascoltava incantato: il broncio apatico che prima si era conquistato la posizione sul suo tondo viso da bambino aveva lasciato il passo ad una bocca semiaperta, gli occhi fissi sulle mani che dolcemente ricreavano l'antica melodia per offrirla di nuovo ad orecchie fortunate, come quelle del biondino, un po' a sventola, ma pronte a recepire ogni minuscolo fruscio o vibrazione che i tasti producevano stuzzicando le corde all'interno dello strumento.
Steven concluse, con un leggero sospiro.
Il più piccolo rimase ancora in silenzio, senza variare espressione, prima di riscuotersi sentendo il fratello maggiore battere le mani in un applauso, e cominciare a fare lo stesso, impacciato.
«Sei-sei bravissimo!», esclamò, un po' a disagio, forse perché non si aspettava così tanto. Steven sorrise vagamente; non sapeva perché, ma con i bambini non riusciva a rimanere sempre lo stesso.
«Grazie. Sei molto gentile.», gli assicurò, azzardando perfino ad accarezzargli la testa scarmigliata. Ian si alzò, raggiungendoli, e perfino uno come lui poté notare l'atteggiamento di Steven: gli batté la mano sulla spalla, amichevole. «Ehi Steven, sei figlio unico? Non tratti spesso con mocciosi eh?», ridacchiò, mentre Dean protestava al “moccioso” con un “ehi!”.
Steven scosse il capo.
«No, non ho fratelli.», rispose asciutto, mantenendo comunque quel velo di affabile cortesia che gli permetteva di non risultare antipatico o spocchioso. Anni di allenamento, con determinazione, ma in segreto.
«E come mai? I tuoi genitori non hanno voluto?», domandò l'altro, continuando la chiacchierata come farebbe chiunque con uno che considerano amico, né estraneo, né conoscente, né confidente stretto, ma quel giusto che permette di fare domande un po' personali senza risultare invadenti.
Solo che era la domanda sbagliata.
«No.»
Steven suppose che avrebbe potuto fermarsi lì, ma non lo fece.
«Perché ho perso mio padre all'età di sei anni e mezzo, mese più mese meno. E mamma non si è più risposata.»
Nel silenzio imbarazzato che cadde dopo quella risposta, nessuno – chi preso dal disagio, chi dai ricordi che sepolti premevano per tornare a galla, chi troppo piccolo per capire – colse i passi che si allontanavano da dietro la porta.

Maximilian si allontanò, felpato come un felino.
«E così lo ha perso. Ti dico io che hai perso.», borbottò tra sé e sé, decidendo di passare alle maniere forti. «Un pezzo di storia, ecco cos'hai perso.»
Girò l'angolo, prendendo la direzione opposta ai dormitori. Aveva diverse cose da fare...

Durante la mattinata, nei giorni liberi Steven si dedicava allo studio, al ripasso, alla lettura. Quel giorno, però, si era rinchiuso nella sua stanza, la sua faccia colma di espressioni che difficilmente avrebbe desiderato mostrare ai propri compagni, ai professori, al mondo, meno che mai a Maximilian Jackson.
Aveva chiuso la porta a chiave per evitare quello scocciatore, e si era disteso sul letto. Il lettore cd era abbandonato sul letto, le cuffie ben premute nelle orecchie.
Strano a dirsi ma vero, non stava ascoltando musica classica. Aveva diversi cd di band rock, pop, punk, alcune non troppo commerciali, altre storiche, diverse scelte in base ai propri gusti del momento.
Il brano che era appena iniziato era dei Pink Floyd.

So, so you think you can tell
Heaven from Hell?

Si girò su un fianco, un braccio piegato sotto il cuscino che aveva estratto dal lenzuolo, l'altro abbandonato sul fianco fino al gomito, dopo il quale la mano scendeva sul materasso, due dita sul lettore cd, in un movimento istintivo, abitudinario, in modo da cambiare canzone, alzare il volume o spegnere senza perdere troppo tempo.

Can you tell a green field
from a cold steel rail?

Socchiuse gli occhi, si morse leggermente il labbro. Gli era sempre piaciuta quella canzone. Aveva un che di malinconico, rassegnato, disperato.

Running over the same old ground
What have we found?

Allungò il braccio che sostava sul fianco, per afferrare il pomello del cassetto sotto il comodino, ed aprirlo. Scavò alla cieca con le dita, fino a sentire un fruscio. Cavò la mano da lì per estrarre la foto. Sospirò leggermente.

The same old fears.

La foto ritraeva un ragazzino, ad occhio e croce dodici anni, seduto ad un pianoforte, vestito come un signorotto, la camicia nera, la giacca bianca e un nastrino a fare da fiocco sul colletto. Appoggiava mollemente i polpastrelli sulla tastiera.
Al suo fianco un ragazzo, probabilmente più grande di pochi anni. Dietro di loro un uomo. Tutti e tre si assomigliavano gli uni agli altri in maniera impressionante.
Steven si rimise disteso schiena sul materasso, e sempre mantenendo la foto con la punta delle dita si coprì gli occhi con l'avambraccio che aveva ritirato da sotto il cuscino.

Wish you were here.

«Papà...»

 


 


E dopo un mese esatto (giorno più giorno meno...!) eccomi con il terzo capitolo! *grida di giubilo*
Grazie a chiunque è arrivato fin qui senza annoiarsi, vomitare, sbraitare o lanciarmi maledizioni. È davvero tanto per me u.u”
Grazie ad aniki, Shichan, che me l'ha letto e betato, dandomi alcuni preziosi consigli. E grazie alla ziaH Yoko891 per il betaggio del capitolo precedente! Perdono, avevo dimenticato di scriverlo nelle note >.<
E grazie a chi so che l'ha letto o in separata sede o qui ma non ha potuto commentare <3

Shichan: grazie ancora per i complimenti sul lessico >//<' sono contenta che non risulti ripetitivo, è una cosa che odio ç_ç per quanto riguarda Maximilian, è un personaggio affascinante, e lo sarà ancora di più (o almeno lo spero...), perciò il fatto che piaccia non può che farmi piacere XD Spero comunque di continuare a caratterizzare al meglio sia lui sia Steve <33 Per quanto riguarda il mio “difetto” da giocatrice di gdr, l'ho notato anch'io specie nel capitolo precedente e devo dire che, accidenti, è proprio vero: ho dovuto frenarmi un po' per non aggiungerne altri qui, ma spero che comunque la lettura non sia risultata spiacevole o che. Grazie comunque <3


Alla prossima!
Ja ne <3

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