Archimagia di Ely79 (/viewuser.php?uid=61615)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tavola 0 - Cartiglio ***
Capitolo 2: *** Tavola I - Impostazioni ***
Capitolo 3: *** Tavola II - Legenda ***
Capitolo 4: *** Tavola III - Disposizioni generali ***
Capitolo 5: *** Tavola IV - Contesto ***
Capitolo 6: *** Tavola V - Approfondimenti ***
Capitolo 7: *** Tavola VI - Saggio strutturale ***
Capitolo 8: *** Tavola VII - Piani e superfici ***
Capitolo 9: *** Tavola VIII - Tracciati di cantiere ***
Capitolo 10: *** Tavola IX - Primo avanzamento lavori ***
Capitolo 11: *** Tavola X - Nuovi elementi di progetto ***
Capitolo 12: *** Tavola XI - Prima sospensione lavori ***
Capitolo 13: *** Tavola XII - Consolidamento ***
Capitolo 14: *** Tavola XIII - Disarmo dei casseri ***
Capitolo 15: *** Tavola XIV - Secondo avanzamento lavori ***
Capitolo 16: *** Tavola XV - Tamponamenti esterni ***
Capitolo 17: *** Tavola XVI - Seconda sospensione lavori ***
Capitolo 18: *** Tavola XVII - Sistemi di risalita ***
Capitolo 19: *** Tavola XVIII - Sospensione causa maltempo ***
Capitolo 20: *** Tavola XIX - Terzo avanzamento lavori ***
Capitolo 21: *** Tavola XX - Spazi interni ***
Capitolo 22: *** Tavola XXI - Scavi ***
Capitolo 23: *** Tavola XXII - Coperture ***
Capitolo 24: *** Tavola XXIII - Locali di servizio ***
Capitolo 25: *** Tavola XXIV - Corridoi ***
Capitolo 26: *** Tavola XXV - Confronti ***
Capitolo 27: *** Tavola XXVI - Ingressi ***
Capitolo 28: *** Tavola XXVII - Portali ***
Capitolo 29: *** Tavola XXVIII - Soglie ***
Capitolo 30: *** Tavola XXIX - Rivestimenti ***
Capitolo 31: *** Tavola XXX - Fine lavori ***
Capitolo 32: *** Tavola XXXI - Collaudo ***
Capitolo 1 *** Tavola 0 - Cartiglio ***
0. Prologo
Se c’era una
cosa che detestava con tutto il cuore erano i clienti che volevano
mettersi a tutti i costi a fare il suo lavoro. Lanciò uno
sguardo rassegnato al campo brullo e gibboso, da cui emergevano grossi
ciottoli. Lontane lungo il fosso in secca, due figurine immobili,
attorcigliate su una specie di enorme spillo dalla capocchia azzurra.
Mirko e Claudio. Quanto li invidiava. A lei toccava per
l’ennesima volta lo sproloquio torrenziale del loro infido
cliente. Era certa che se l’avesse cronometrato, avrebbe
raggiunto il ragguardevole traguardo dei venti minuti ininterrotti di
dissertazione sul cosa stessero sbagliando.
«Signorina, mi ascolta?» ringhiò l’uomo,
grattando il ventre prominente sotto la maglietta lisa e sudaticcia.
Stremata da quello tsunami verbale, Amelia si limitò ad annuire
scartabellando fra le tavole spiegazzate in cerca di un bel niente. Ma
questo lui non poteva saperlo.
«Dicevo che mica che potete venirci qui senza dirci niente, che
qui c’abbiamo da lavorare noi» spiegò, in un
italiano maccheronico.
La pesante cadenza dialettale dava ad intendere che non facesse molta pratica dell’idioma nazionale.
«Perché io sono in gita, eh?» pensò tra
sé, irritata dalla sua grande dote di incassatrice e dalla
scarsa attitudine ad alzare la voce.
Era cresciuta sotto lo stretto dettame che l’educazione vien
prima di tutto, anche quando hai di fronte il re dei cafoni. Se questo
la faceva ben volere dalle segretarie e dai colleghi, di contro le
rendeva quasi impossibile puntare i piedi con i clienti dello studio.
Soprattutto quel genere di cliente che ora aveva davanti.
Intanto la rampogna era andata avanti, spaziando dalla scarsità
di contatti col suo capo, al perché diamine non davano una mossa
a quei cretini del Comune-del servizio Sanitario-delle fogne-eccetera
che non rilasciavano quanto dovuto. Inutile tentare di spiegare che
ogni ente aveva delle tempistiche da seguire per l’iter della
pratica e che queste non coincidevano mai con il termine
“subito”.
«E poi non c’avete detto che quelli là venivano a fare il rilievo»
Sorpresa dal termine tecnico, o per meglio dire allarmata, Amelia alzò gli occhi dai disegni.
«Guardi che il rilievo è stato fatto a settembre
dell’anno scorso» osservò quieta, sperando di
contagiare con la sua calma il ciarliero tiranno.
Niente ad fare. Quello riprese berciando che non era vero, che quella
cosa non era stata fatta, che ne era più che certo perché
lui andava lì ogni giorno, e che quei due in mezzo al campo il
rilievo lo stavano facendo in quel momento.
«Lei sa cos’è un rilievo?»
s’informò cautamente, anche se già immaginava la
risposta.
«Fanno il disegno»
Sintetico. Vago. Sostanzialmente corretto nel concetto, ma non nella pratica.
«Vede, quello che stanno facendo ora non è il rilievo
dell’area. Stanno posizionando gli strumenti per definire i
punti…»
«Un cazzo!» sbraitò l’interlocutore che, senza
lasciarle il tempo di ribattere, si profuse nell’ennesima tirata
sul fatto che lo si stava prendendo per i fondelli, che lui sapeva
perfettamente cosa stavano facendo e che stavano sbagliando tutto di
proposito per fargli spendere altri soldi che lui, per inciso, non gli
avrebbe dato e che comunque non aveva.
«Io ho chiesto in giro e sono andato a vedere che facevano gli
stessi lavori giù di là, dietro la plastica»
ringhiò, indicando una tensostruttura al limitare della zona
artigianale. «C’ho chiesto tutto, fanno uguale a noi»
«Ne dubito» azzardò a mezza voce.
«Ma lei cosa ne sa! Mica ci capisce di queste cose!»
Sgranò gli occhi per un paio di secondi, felice
d’indossare gli occhiali da sole. Prese tempo aggiustando il
plico dei documenti mentre tentava di ricomporsi. Sistemò il
foglio per il verbale di cantiere sopra la cartelletta e
cominciò a scrivere.
«Io sarei un architetto» osservò, accennando un sorriso conciliante.
«Eh, ma non vuol dire niente! Io c’ho chiesto
all’ingegnere che stava là e c’ho detto che dovevamo
fare queste robe dentro nella terra e lui ha detto che non si fa mica
come dite voi, che non si fa il giro col naso per aria a fare un cazzo
per due ore senza dirci niente. Ci vuole quello che fa i lavori e uno
bravo, mica l’architetto. Ci vuole il geometra! Lei non lo sa
come si fa. E poi l’ingegnere là c’è sempre,
invece voi qua ci venite quando vi gira il culo»
Per poco la penna non le scappò di mano. Andava in quel
postaccio infame almeno un paio di volte la settimana da più di
dieci mesi e questo secondo lui era non essere presente sul campo? Un
altro po’ ed avrebbe potuto chiedere la residenza.
«Ma guardi che…» tentò di ribattere, finendo nuovamente zittita dalla parlantina scatenata.
«No, no, perché io mi son rotto i coglioni di aspettarvi
che siete sempre in ritardo e non avete mai tempo di fare quello che vi
dico io. Io c’ho da lavorare, mica come voi che state in giro
tutto il giorno e non si sa dove vi cacciate che non vi si trova mai!
Non c’ho mica i soldi da buttare nel cesso io! Io lavoro»
Se avesse avuto la forza di fregarsene delle buone maniere,
l’avrebbe scaraventato in pasto alle nutrie. Sapeva che
c’erano e tante: gli argini del fosso erano traforati dalle loro
tane, alcune di dimensioni preoccupanti.
«Vado a sentire cosa mi dicono» glissò a denti
stretti, superando il ponte che congiungeva la strada al campo.
Mirko veniva avanti con la testa china, come se cercasse qualcosa.
«Problemi?»
«Il chiodo. Non c’è più. Non possiamo tracciare senza»
Che bella notizia. Voleva dire rinviare i lavori di almeno un’altra giornata.
«Sei sicuro?»
«Sì, è sparito» confermò Claudio,
appoggiandosi allo strumento «Abbiamo provato tre volte con i
punti che abbiamo preso dalla sponda, ma senza quello di mezzo non
riusciamo a vedere le coordinate. Dà errore ogni volta»
spiegò, battendo la mano sull’asta che mandava sonori bip
di disapprovazione per le batterie scariche.
«Ci mancava anche questa! E quello mi sta tirando matta che non stiamo facendo le cose giuste»
«E che cazzo ne sa lui?» chiese Mirko, cercando le sigarette nel marsupio.
Amelia fece un cenno come a dire di lasciar stare. Includendo anche l’idea di fumare vicino a lei.
«Dov’era il chiodo?»
Claudio si guardò intorno, in cerca di un punto di riferimento.
«Vedi lo scavetto in mezzo al campo? Più o meno a metà. Solo che…»
«Che?»
«Beh, sembra che hanno annaffiato. Quando siamo venuti
l’altro ieri la terra non mi sembrava così, è
più piatta»
Non occorse cercare a lungo: dato che la terra era secca e dura, il
cliente aveva pensato bene di far arrivare un’autobotte per
“dare una bagnata” all’area, nell’idea di
agevolare chi avrebbe dovuto scavare nei giorni successivi.
L’acqua impiegata era stata però talmente tanta che aveva
finito col trascinare via il chiodo ed il blocchetto di cemento in cui
era stato infisso.
***
La chiave girò a fatica nella serratura, come sempre. Nella
tromba delle scale rimbombava la voce di un giornalista e gli strepiti
dei bambini del piano di sotto. L’odore di minestrone e carne
carbonizzata su qualche griglia elettrica si addensavano sui gradini.
Amelia sospirò, entrando in casa. I suoi non c’erano.
Erano partiti quella mattina per un viaggio organizzato dalla
parrocchia. Don Arturo aveva messo in piedi uno dei suoi soliti tour
della fede, tra santuari e luoghi di devozione la cui esistenza era
ignota persino alla Santa Sede. Si lasciò cadere a faccia in
giù sul divano, tastando il tavolino in cerca del telecomando.
Desistette dopo un paio di tentativi: l’idea di una qualunque
voce che si produceva in una fiumana insensata di termini messi
lì a casaccio le dava la nausea.
Anche l’appetito le era passato da un pezzo e al diavolo la succulenta parmigiana che sapeva essere nel frigo.
Soffocò un urlo liberatorio in uno dei cuscini bordati di pizzo
all’uncinetto della nonna. Probabilmente dovevano averla sentita
fino al piano terra, ma poco importava. Era fuori dai gangheri
più del solito.
«Quanto ti odio! Quanto ti odio! Brutto… brutto… approfittatore!»
No, non ce la faceva proprio ad insultarlo come avrebbe voluto. Come
avrebbe meritato. Il suo capo l’aveva piantata nelle grane,
sparendo come suo solito in quell’amena località che aveva
nome Montecarlo. Il disgraziato era stato irreperibile fino alle
diciotto, adducendo come scusa l’assenza di campo. Era una balla
colossale, tutti in ufficio lo sapevano. Quando si parlava del
principato, voleva solo dire una cosa: non scocciare e cavarsela alla
meno peggio.
Sì, perché l’architetto Tramonti aveva il brutto
vizio di non rivelare troppo delle pratiche alle sue assistenti, cosa
che non giovava affatto al lavoro. Tre brave ragazze (pie donne, diceva
il portinaio) che facevano di tutto, dagli schizzi ai contratti ai
computi, lavorando in orari assurdi, talvolta anche nel week-end o
rientrando di corsa dalle agognate ferie. E tutto perché a causa
della crisi economica, era bene tenersi stretto il proprio lavoro,
anche quando non dava alcuna soddisfazione, anche quando cominciava a
fare schifo. Erano mesi che Amelia si alzava dal letto con un artiglio
piantato nelle viscere dopo nottate insonni, angosciata dall’idea
di avere arretrati da smaltire o errori nei documenti.
Si mise a sedere nella penombra del soggiorno. Non c’era un solo
muscolo che non le facesse male, specialmente nelle gambe. Arrancare
tra le croste di fango solidificato era molto peggio che camminare su
una spiaggia di sabbia fine. Sfilò gli occhiali ancora
impolverati e pieni di ditate. Inspirò profondamente, premendo i
palmi sugli occhi. Ripensare ai mugugni seccati del capo, che aveva
trovato una quindicina di inutili chiamate in segreteria, le faceva
venire le lacrime agli occhi. Era stata a malapena capace di
fargli sapere del casino che quel tizio aveva combinato, che lui
l’aveva sommersa di rimproveri e farfugliamenti riguardo al non
poter lasciare quello stramaledetto ufficio per un po’ di
meritato riposo.
«Meritato riposo dice lui. Ci fa correre come pazze e dobbiamo
anche stare zitte alle sue ramanzine! Vorrei proprio sapere
perché diamine…» ma non terminò la frase.
Interrogarsi sul perché il mestiere di architetto le desse la
nausea era inutile. Le davano della pazza quando diceva che quello non
era ciò che voleva fare. Aveva trascorso sette anni al
Politecnico, seguendo i corsi con assiduità, facendosi in
quattro per studiare con profitto e laurearsi con il massimo dei voti,
sognando una brillante carriera. Una carriera speciale. Diversa.
Lontanissima da quell’obbrobrio che era costretta ad affrontare
ogni mattina.
Si trascinò a fatica in camera ed accese il computer. Il non
dover sentire la voce di sua madre che la chiamava per la cena e la
rimproverava di star troppo attaccata a quell’affare era un
piacevole diversivo. Di solito s’intrattenevano in
interessantissime discussioni in campo tecnologico che facevano
freddare i piatti in tavola e infervorare gli animi.
Il video s’illuminò e, pochi istanti dopo, un messaggio lampeggiò nella casella di posta elettronica.
Ben arrivato a chiunque abbia aperto
questa pagina, incuriosito da questa storia. È da un qualche
tempo che pubblico su EFP nella sezione Harry Potter (sempre di magia
si tratta, no?), ma questa è la mia prima produzione
completamente originale. Per cui, l’invito è di farmi
conoscere i vostri pensieri, qualunque essi siano. Critiche e lodi sono
utili in egual misura.
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Capitolo 2 *** Tavola I - Impostazioni ***
Tavola I
L’ingombrante
deretano azzurro del pullman sparì lentamente dietro un muro,
lasciandosi alle spalle una nuvoletta nera e maleodorante.
Nella piazzetta -sempre che tale potesse essere definita viste le
esigue dimensioni- il sole dei primi di giugno batteva come il pestello
in un mortaio. Intorno non c’era anima viva, a parte qualche
passero. San Francesco era una frazione fantasma. Appoggiò il
borsone sull’unica parte apparentemente pulita della panchina e
si guardò intorno sconsolata.
Quando il professor Martini le aveva comunicato d’avere
finalmente un lavoro per lei, e che poteva mandare il suo capo a farsi
un giro dove riteneva maggiormente opportuno, aveva fatto i salti di
gioia. E se non fossero stati in un affollatissimo bar di Città
Studi, sarebbe saltata in piedi sul tavolino urlando come una
Valchiria. Certo, non era affatto lusinghiero essere chiamata
perché il suo era l’ultimo nome rimasto nella lista, ma
avrebbe sorvolato. Quello era un lavoro che pochissimi altri avrebbero
potuto fare. In Italia erano sì e no una quindicina i
professionisti in quel settore e lei ne faceva orgogliosamente parte,
anche se non poteva andare a sbandierarlo ai quattro venti.
«Sei l’unica rimasta a disposizione che possa mettere mano
a quest’edificio» le aveva detto, mostrandole
un’acquaforte grande quanto una cartolina.
Il disegno era piuttosto grossolano, opera di una mano tutt’altro
che versata nelle arti, ma dava un’idea per sommi capi
dell’aspetto che la villa doveva avere circa mezzo secolo prima.
«Senza contare che hai studiato a lungo questa tipologia storica,
la conosci alla perfezione, sai come muoverti, cosa aspettarti. Puoi
lavorarci ad occhi chiusi e con le mani legate dietro la schiena»
Il docente non voleva affatto lusingarla, diceva la verità.
«Okay, ma mettiamo in chiaro le cose: quello che dico io si fa.
Non ho intenzione di sentirmi dire dallo squinternato di turno che non
so fare il mio mestiere. Io faccio il mio, lui il suo. Sono stufa di
gente che ha da ridire sul mio modus operandi! Voglio che il
proprietario tenga la bocca chiusa! Muto come se fosse morto e sepolto,
un cadavere!» aveva risposto irritata.
Martini era uno dei pochi con cui si permetteva simili uscite. Era
troppo arrabbiata per quel che era accaduto in cantiere e disgustata
dalla sua mancata reazione alle invettive del suo capo, per aver ancora
voglia di affrontare simili situazioni. Era davvero stufa di essere
presa in giro da chiunque.
«Fagli almeno dire cosa vuole che tu faccia…» aveva osservato con tranquillità.
Il professore non le aveva dato molte notizie riguardo la persona che
l’aveva contattato, tuttavia il fatto che avesse accettato senza
problemi che fosse lei a condurre le opere l’aveva fatta ben
sperare. Un po’ meno la lettera d’invito, arrivata a casa
pochi giorni dopo. Una splendida busta di pergamena finissima,
l’indirizzo scritto a mano con inchiostro seppia sotto al blasone
stampigliato in un angolo. Era il contenuto a non essere incoraggiante.
Infilò la mano nei jeans e tirò fuori due biglietti
sgualciti. Li rigirò tra le dita, incerta. Uno era delle
ferrovie, l’altro dell’autobus. Non prendeva così
tanti mezzi pubblici da quando andava all’università.
Aveva dovuto cambiare tre treni locali, sporchi, affollati ed afosi,
prima di approdare su quella corriera dai sedili duri e troppo piccoli.
La prima classe era evidentemente un concetto astruso, almeno quanto
l’imposizione che si recasse all’appuntamento senza mezzi
propri.
Certo l’inizio di quel contratto lasciava un po’ a
desiderare, ma doveva immaginarselo, visto con chi avrebbe avuto a che
fare. In quel settore difficilmente avrebbe incontrato gente normale,
ammesso che il termine fosse ancora applicabile
all’umanità.
Spostò un po’ il borsone e sedette.
Il paese si trovava ad una decina di chilometri di curve a gomito in
mezzo ai campi verdeggianti, ma da dov’era calcolò dovesse
trovarsi a non più di tre o quattro chilometri in linea
d’aria: intravedeva i tetti ed il campanile. Impressionante come
anche nel cuore della Pianura Padana si producesse il medesimo effetto
delle strade di montagna.
La frazione si chiamava San Francesco in onore dello striminzito
oratorio cinquecentesco che l’aveva generata, come indicava il
cartello giallo inchiodato alla buona accanto al portone della chiesa.
Intorno c’erano poche case, qualche centinaio di abitanti in
tutto, così ad occhio. Vecchie cascine ristrutturate,
appiccicate le une alle altre come a sostenersi, gli intonaci
già scrostati alla base per l’umidità del terreno.
Una buca delle lettere rugginosa, un minimarket con la serranda
abbassata, un fruttivendolo deserto, un bar tabacchi scalcinato. La
chiesetta ottagonale di mattoni rosicchiati dall’edera. Di
più non vedeva. Su ogni angolo regnavano il sole ed una gran
quiete. L’asfalto trasudava calore e polvere. A consolarla, il
profumo intenso e mielato dei fiori di tiglio. I grandi alberi
stormivano dietro l’edificio sacro, scuri contro il cielo velato
da sottili nubi.
Villa dei Gelsi non si trovava all’interno del modesto borgo,
né tantomeno era raggiungibile a piedi e non perché le
mancasse la voglia di camminare. Dopo più di quattro ore di
trasporto pubblico sarebbe andata in ginocchio fino a Roma, pur di
sgranchirsi. Il problema era di natura eminentemente pratica: non
sapeva dove fosse. Le istruzioni che aveva ricevuto nella missiva la
conducevano solo fino a quella sparuta pensilina. E la vista di Google
non avrebbe potuto esserle d’aiuto in alcun modo. Anche se la
dimora si fosse trovata in una zona censita dai fotopiani ad alta
risoluzione, difficilmente si sarebbe potuto scorgere qualcosa di
più d’una sagoma imprecisa e sfocata. E poi dovevano
esserci delle colonne all’imbocco del viale d’accesso,
stando a quanto aveva detto il prof. Quelle erano una bella gatta da
pelare.
Prese un profondo respiro, riempiendo i polmoni con quell’aria
dolciastra, e si stiracchiò. Un paio di giunture schioccarono,
un fascio del trapezio urlò vendetta. Diede un’occhiata al
cellulare. Segnale discreto, mezza batteria, nessuna chiamata o
messaggio. Era passata una noiosissima mezz’ora da quando era
arrivata.
Fu in quel momento che lo udì. Un rumore lontano, sfumato ma
inconfondibile. Un’auto. Arrivava dalla parte opposta a
dov’era sparito l’autobus. Poteva quasi indovinare il
percorso che seguiva.
La grossa berlina schizzò rapida verso la piazza, superando la
stretta curva con incredibile agilità. Il rombo del motore era
ingigantito dagli echi che rimbalzavano sui muri troppo vicini alle
fiancate. Riuscì a fare inversione in una sola manovra e si
fermò davanti a lei, ingombrando gran parte della piazzetta.
Doveva avere al massimo un mese di vita, a giudicare dalla targa. La
carrozzeria blu scura era talmente lucida che vi si specchiava.
Immaginò fosse qualcuno che aveva sbagliato strada: era troppo
lussuosa per un posto simile, dove le ruote dei trattori mordevano
giornalmente la strada.
La portiera del conducente si aprì e ne scese una figura alta e
allampanata, che rimase immobile per qualche istante. I capelli lisci e
scuri scendevano in due lame ai lati del volto allungato. Ad Amelia
sudarono le mani, non tanto per la sorpresa o il timore d’essere
interrogata sullo stradario locale, quanto per l’abito grigio
antracite che quel tizio portava. Non aveva l’aria di essere
particolarmente fresco, stretto ed abbottonato ad ogni asola. Anzi,
l’esatto opposto. Potenza dell’aria condizionata.
Capì dall’insistenza con cui la stava squadrando che doveva avere a che fare con l’oggetto della sua visita.
«Buon giorno» salutò timidamente.
L’uomo girò intorno all’auto, scuro in viso. Camminava impettito, fluido e nervoso allo stesso tempo.
«Perdoni il ritardo, signorina. Un banale contrattempo»
tagliò corto, aprendo lo sportello posteriore con un gesto
imperioso.
Non la stava invitando a salire, quello era un ordine.
«Se era banale che bisogno c’è di avere quella faccia incarognita?» si domandò sedendo.
L’interno della berlina era spaventosamente grande. L’odore
di concessionaria dichiarava a caratteri cubitali la giovanissima
età del mezzo. Immersa nel vuoto fresco del sedile posteriore,
Amelia aveva una paura folle di graffiare la soffice pelle color avorio
su cui sedeva o di imprimere una ditata sulla radica lucida delle
finiture. Teneva il borsone sulle ginocchia, ma ben presto si
ritrovò a stringerlo al petto: quell’uomo imboccava
le tortuosità della strada ad un velocità assurda.
Provò il mal d’auto per la prima volta in vita sua,
rimpiangendo di non averne sofferto in passato. Avrebbe avuto con
sé qualche medicinale appropriato.
I campi filavano via, piatti ed uniformi nel loro distendersi. Grano
ancora verde, mais, erba medica. Ad un tratto, un filare di pioppi
s’innalzò lungo l’argine di un fosso, tagliando i
profili di San Francesco, lontano sulla destra.
Dietro i tronchi vide ergersi quattro enormi pilastri solitari,
sormontati da leoni di pietra. La strada piegò bruscamente a
sinistra, passando fra la coppia centrale. I due passaggi laterali erano
chiusi da inferriate su cui si arrampicavano le campanule selvatiche.
Mentre superavano quel passaggio, uno strano pizzicore fece agitare la
donna. Intorno il paesaggio non era cambiato. Il profilo
dell’orizzonte era sempre piatto, verdi e azzurri erano identici
a prima. Fra i piedritti non c’era traccia di chissà quali
stranezze.
Guardò nel retrovisore. Lui, chiunque fosse, non la stava
tenendo d’occhio, non la studiava come c’era da aspettarsi
ad un primo incontro. Gli occhi bruni erano fissi sulla strada.
Mostrava nei suoi confronti la stessa curiosità che si prova
abitualmente per una cartaccia sul marciapiede.
Cercò di capire chi avesse di fronte, oltre ad un pilota di
rally mancato. Dai modi sbrigativi e dagli abiti eleganti avrebbe
potuto trattarsi del figlio del padrone di casa. Sembrava abbastanza
giovane per corrispondere a quella figura. Il classico erede
indispettito dalle scelte dell’anziano genitore. Ma un
particolare l’incuriosiva: i guanti bianchi. Facevano tanto
maggiordomo. Forse era uno dei domestici della villa. Non l’aveva
visto muovere un muscolo mentre si avvicinavano al cancello
d’ingresso, ma riteneva improbabile che la sensazione provata
fosse frutto della sua immaginazione. Qualcosa era scattato, invisibile
e rapido quanto l’auto. Avrebbe voluto prendere il Beloch-Jarnut
dalla borsa per verificare un paio di supposizioni, ma la sua
attenzione venne attratta dal palazzo apparso come dal nulla.
***
Villa dei Gelsi era un edifico massiccio ed imponente, a suo modo
aggraziato. Si accedeva da un grande cancello incernierato su una
coppia di pilastri simili a quelli che segnalavano l’inizio della
proprietà. Questi erano addossati ad un alto muro di cinta che
proteggeva tutto il fronte sud del cortile d’ingresso. Sul lato
opposto, un altissimo portale bugnato immetteva nel portico della corte
privata, fresco ed ombroso sotto le volte a crociera. Da lì si
accedeva ai due piani della dimora attraverso imponenti scaloni che si
aprivano nei due angoli contrapposti del loggiato. Gli scalini e la
balaustra a colonnine panciute (forse in Bardiglio Imperiale) erano
levigati dal passaggio secolare di servitori e nobili, tanto da essere
pericolosamente lucidi in alcuni punti.
Grandi affreschi dalle tematiche bucoliche aprivano squarci nei muri e
sui soffitti, dilatando lo spazio in ogni direzione. Quelli sulle
pareti della stanza in cui si trovavano in quel momento riproducevano
scene di caccia al cervo, mentre sul soffitto lo sfondato dava la
possibilità di spiare sotto le gonnelle di ninfe leziose e
sorridenti, le cui gambe penzolavano oltre la spessa cornice dorata.
Amelia osservava la stanza cercando di non far vedere le tonsille al
suo interlocutore. Pesanti decori barocchi macchiati di vecchio
impreziosivano i pochi arredi. L’ambiente doveva essere stato
magnifico e sfarzoso, in grado di sbalordire gli invitati con la sua
pigra e velata sensualità. Di tutto ciò era rimasta una
traccia sbiadita seppur affascinante.
«Dunque, voi sareste l’Archimaga Amelia Veneziani» disse ad un tratto il suo accompagnatore.
Riprendendosi dallo stupore, la progettista si ricompose. Era la prima volta che qualcuno usava la sua vera qualifica.
«Esatto» sorrise.
L’uomo, seduto di fronte a lei, fece un cenno vago, privo di significato.
Di nuovo silenzio. Non che le dispiacesse, al contrario. Le dava il
tempo di riordinare i pensieri, seguitando comunque ad ammirare quelle
prestigiose vestigia, nell’attesa che il Duca facesse la sua
comparsa.
Già. Tanto lei non era un architetto come gli altri, tanto i
suoi clienti non erano gente comune. Amelia si occupava di architetture
magiche, quelle create per ragioni oscure dai sacerdoti di antiche
religioni ormai dimenticate, quelle che pur nel loro essere
insignificanti racchiudevano poteri spaventosi o, più
semplicemente, erano la dimora di negromanti di vario genere. Corrado
Antonio Frasca di Cortenova era uno di questi. Il professor Martini le
aveva detto che era stato una figura piuttosto importante negli anni
Settanta per via delle sue ricerche sui Fluidi Incorporei.
Uno dei pochi maghi capaci di maneggiarli e utilizzarli in sicurezza.
Aveva cercato di leggere uno dei suoi trattati, ma obbiettivamente era
fuori della sua portata: le sue nozioni di Teoria dei Portali Ectoplasmatici e Alchimia Esoterica
erano piuttosto carenti. Dopotutto, non erano materie ordinarie dei
corsi del Politecnico e neppure di quelli che lei aveva seguito sotto
la guida del suo mentore.
Il tempo scorreva lento, trascinandosi sulle lancette di un pendolo
tronfio e tarlato. Dal grosso contrappeso d’ottone ciondolava una
ragnatela che ne seguiva diafana il dondolio.
«Scusate, ma… ero stata convocata per discutere delle opere con…»
«Cominciavo a dubitare volesse parlarne» rispose atono.
Amelia deglutì a vuoto. Cosa significava?
«Vuol dire che aspettava che mi facessi avanti?»
Lui annuì, affatto accomodante. Infastidito. Lei arrossì
di timore. Possibile che la persona che aveva davanti fosse il suo
committente?
«Credevo fossimo in attesa di un’altra persona»
Era troppo giovane per essere lui. Doveva avere al massimo
quarant’anni. Ma se Martini aveva ragione, quell’aspetto
poteva essere il risultato dei suoi studi e quindi aveva sbagliato
tutto. Ma no, non era possibile. Gli Incantesimi Ringiovanenti
erano un’utopia, l’aveva letto da qualche parte. Non
c’era modo di ringiovanire per intero un corpo, tracce della vera
età restavano ben evidenti sulle mani o attorno agli occhi. E
non ne vedeva.
«Nessun altro ospite deve presenziare al nostro incontro. Saremo
solo io e lei» spiegò, sistemandosi con movimenti lenti e
misurati sulla poltrona di pelle e mogano.
«Solo… noi?»
«Solo noi» ripeté piatto.
Boccheggiò, inabissandosi ad una velocità impressionante
nella vergogna più profonda. Ripetersi di star calma ed agire
con razionalità non serviva ad un fico secco. Intanto lui
controllava la perfezione della chiusura di un polsino. Si sarebbe
impiccata volentieri a quel passante. Proprio un bel modo per
cominciare un rapporto di lavoro con una figura tanto in vista. Sarebbe
entrata negli annali come l’Archimaga che non aveva riconosciuto
il Duca Frasca di Cortenova. Il Professore non le avrebbe più
rivolto la parola, come minimo.
«Temo d’aver preso un granchio colossale. Pensavo di aver
di fronte un’altra persona e non…insomma…
lei» cercò si scusarsi, al colmo dell’imbarazzo.
Le grandi tavelle di cotto antico del pavimento sembravano un rifugio
molto invitante, se solo avesse saputo come fare per appiattirsi come
un foglio di carta velina ed infilarsi sotto di esse.
«Mi perdoni, Duca. L’avevo presa per un membro della
servitù» ammise ad occhi bassi, sperando che la carta
della sincerità giocasse a suo favore.
In genere i maghi apprezzavano questo tipo di esternazioni da parte di
chi non era loro pari. Lo sapeva per esperienza personale.
«Credo ci sia un malinteso. Il Duca non è presente a Villa
dei gelsi da almeno un mese e non lo sarà per diverso tempo. Io
sono il suo attendente e maestro di palazzo»
La progettista ebbe la sensazione d’aver ricevuto uno schiaffo.
«Maestro di palazzo?» chiese, convinta d’aver capito male.
Era forse un modo elegante per dire maggiordomo? Tirapiedi? Valletto?
Domestico particolare? Amelia non ne aveva idea. Era la prima volta che
sentiva quella definizione e sì che di titoli bizzarri ne aveva
sentiti parecchi. Persino il suo non era da annoverare tra i più
comuni. Di certo non significava paggio: quel tizio era piuttosto
cresciutello per quel ruolo. Senza contare che non possedeva né
bei boccoli biondi né un espressione simpatica. A dirla tutta
non aveva neppure un’espressione. quella cosa che sfoggiava sulla
faccia era più simile ad una crosta di stucco.
«Esattamente»
«Mi perdoni, ma avevo degli accordi con il Duca. Il professor
Martini mi ha detto che avrei dovuto trattare direttamente con lui e
non…»
«Sarò io il suo referente, fintanto che milord non
sarà di rientro» la zittì senza troppo cerimonie.
«E quando tornerà…»
«Questo non è affar suo. Ciò che conta è la sua presenza qui ed il pronto avvio dei lavori»
Ecco, proprio quello che avrebbe voluto evitare: qualcuno che la
tiranneggiasse senza averne titolo. Insomma, dopo tutta quella strada
le toccava la solita solfa? Non poteva accettarlo. Non doveva
accettarlo.
«Veramente preferirei discutere con il Duca…» insisté inutilmente: il maitre non l’ascoltava.
«Fintanto che il mio signore non si trova sotto questo tetto, ho
il compito di farne le veci. In ogni ambito della gestione domestica.
Ciò include anche le opere di ristrutturazione
dell’edificio di cui lei si occuperà»
Aveva l’aria di chi spiegava ad una sguattera molto stupida come
avrebbe dovuto fare per svolgere in maniera appena decente i compiti
assegnatigli.
«Per favore, mi lasci…»
«Riferirà a me ciò che riterrà opportuno ai
fini dello svolgimento delle sue mansioni. Tempistiche, problemi
organizzativi, necessità di documenti, assistenti, manodopera,
materiali. Di volta in volta mi fornirà una lista con le sue
richieste e farò quanto in mio potere per metterle a
disposizione ciò di cui crede d’aver bisogno»
Ad Amelia quelle parole non piacquero affatto. Vi scorgeva dei
fastidiosi sottintesi. Qualcosa del tipo “se deciderò di
prendere in considerazione tali richieste e di certo non lo
farò”. E data la poca predisposizione al confronto,
già immaginava gli esiti delle liste.
«Ma…»
«Si è fatto tardi. Proporrei di rimandare a dopo cena la
nostra discussione in merito alla ristrutturazione della villa»
disse alzandosi e dirigendosi spedito alla porta da cui erano entrati.
«Se ora vuol avere la bontà di seguirmi, le
mostrerò la sua stanza. Potrà ritirarsi lì in
attesa della cena, che sarà servita alle diciannove in punto nel
salone accanto alla scalinata ovest»
Amelia si alzò a fatica, caricando il borsone sulla spalla. Dopo
quella figuraccia, le sembrava stipato di pietre. Era indecisa se
sentirsi avvilita o infuriata. Quel maggiordomo era la summa di
ciò che detestava in un cliente.
«Posso almeno sapere con chi ho parlato finora? Nel caso non se
ne fosse accorto, non si è ancora presentato»
osservò.
Il tono che le uscì dalla gola aveva una punta asprigna di
troppo, tanto che persino lei, nonostante fosse inviperita, lo ritenne
sgradevole ed inopportuno. Per quanto quell’uomo risultasse
indisponente, era pur sempre il tramite col suo vero cliente. Doveva
cercare di tenerselo buono almeno in quelle prime fasi, anche se un
“grandissimo cafone” alla fine della frase sarebbe suonato
ad hoc.
Il servitore si voltò.
«Jarvis Alden Carew» scandì lentamente, prima di uscire dalla camera.
Prima di tutto, un ringraziamento chi ha cominciato a leggere questa
fic, anche se ha preferito restare nell’anonimato, ma soprattutto
a Columbine_Iceshimmer.
Mi auguro che col procedere dei capitoli vi facciate avanti per darmi un parere.
Per Gaea: grazie per aver
recensito il primo capitolo. Ovviamente trattandosi di un originale, lo
stile sarà un po’ diverso, i personaggi si dovranno
sostenere da sé. Quanto alla magia… arriverà,
vedrai!
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Capitolo 3 *** Tavola II - Legenda ***
Tavola II - Legenda
La luce entrava dalle
alte finestre e dalla porta spalancata sul cortile. Era una luce tersa,
rosata, che d’estate indicava un inizio di giornata molto
mattiniero. Nella cucina della dimora gentilizia, alcune figure erano
intente a consumare la colazione, sedute attorno ad un imponente
tavolaccio. Nel frattempo, una donna minuta e curva si arrabattava da un lato
all’altro del locale, spostando stoviglie, strofinacci e cibarie.
Era molto anziana, la pelle grinzosa del viso lo dimostrava, eppure i
suoi movimenti erano energici e decisi. La vita da cuciniera sembrava
mantenerla in forze, anziché indebolirne le membra. La
crocchia bianca si posava un po’ sfatta sulla nuca,
proseguendo naturalmente nel colore del grembiule.
Ad un tratto si fermò, restando in ascolto. Il filo sottile
delle iridi diede un lieve brillio, simile a quello di una nonna
all’udire l’arrivo di un nipote. Poi, come nulla fosse,
riprese a sfaccendare, dirigendosi al fornello dove la cuccuma aveva
preso a borbottare.
L’eco di passi sempre più nitidi giunse alla porticina che
dava sullo scalone. Nessuno dei presenti cercò
d’indovinare a chi appartenessero, conoscevano fin troppo bene
quella cadenza precisa, priva di trascinamenti, di inciampi. Era un
rumore familiare.
Quando Jarvis entrò, un coro scomposto di sonnolenti buon giorno
si levò dai commensali. Lui rispose con un breve cenno del capo
e prese posto a capotavola. Indossava un abito blu, il cui taglio
elegante e rigido ricordava molto quello del giorno precedente.
«Buon giorno, caro» salutò gentilmente la vecchina, allungando la mano ossuta per versargli il caffè.
Con un gorgoglio, il liquido scuro riempì la porcellana candida quanto i guanti che l’uomo indossava.
«Buon giorno, Romilda» rispose distrattamente, dando
un’occhiata alle pagine fresche di stampa di un quotidiano.
Scorse rapidamente gli articoli e di cronaca, concentrandosi su
quelle dedicate alla politica nazionale ed estera. Gli intrecci di
governo lo affascinavano.
«La nostra ospite fa colazione, Jarvis?» domandò la
vecchina alle sue spalle, intenta ad organizzare pentole e tegami sui
fuochi spenti.
«Suppongo di sì» esalò senza particolare enfasi.
«Devo prepararle qualcosa in particolare?» s’informò.
Sulle prime non rispose, interessato ad una diatriba in tema di privacy
su cui ogni parlamentare sembrava tenere la verità in una mano
ed un forcone nell’altra. Preferì riempire la propria con
la tazza ormai intiepidita.
«A tua discrezione»
Qualcuno ridacchiò. All’apparenza pareva l’abituale
sfogo ad un banale ed irrilevante incidente domestico: un biscotto che
si spezzava anzitempo una volta inzuppato, un po’ di latte
tracimato sul tavolo, una posata troppo rumorosa. Cose che non
meritavano attenzione.
Riprese a leggere gli approfondimenti sulle intercettazioni. La cosa
certamente non li toccava: alla villa non c’erano linee
telefoniche. Non ce n’erano mai state, non servivano. Tuttavia
era curioso notare come uno strumento indispensabile alla popolazione
si fosse rivelato un’arma a doppio taglio.
Ci furono dei bisbigli, risatine sommesse.
L’ombra curva di Romilda si allargò nella porta, mentre
posava a terra un piattino colmo di latte. Un gatto miagolò in
segno di gratitudine.
«Sarebbe bene la smettessi. Non voglio prenda l’abitudine
di entrare in luoghi che non gli sono propri» la redarguì,
mantenendo la consueta flemma.
Pur tenendo in mano le redini della dimora, mai avrebbe alzato la voce con quella donna.
«Oh, non c’è da preoccuparsi figliolo» rispose
lei, raddrizzandosi a fatica. «Galileo sa che non può
entrare in cucina. Dopotutto, gliel’hai insegnato tu dove deve
stare»
A quelle parole, mentre lui cercava la bestiola con la coda
dell’occhio per sincerarsi della sua obbedienza, una risata si
levò, irriverente e giuliva. La cuoca scosse il capo benevola,
tornando a sfaccendare.
Ora il gesto era stato troppo insolente e grossolano. Voleva essere
udito. Ed esigeva una risposta. Vagamente spazientito, Jarvis
levò gli occhi oltre il bordo del quotidiano. Poco più in
là, l’inserto sportivo mascherava il profilo di uno dei
commensali. Piegò con cura il giornale e prese una fetta di
pane, posandola su un piattino accanto al caffè.
«Hai di che ridire, stalliere?» domandò, valutando
nel contempo quale delle tante marmellate stendere sulla mollica.
La grossa foto di copertina si piegò da un lato, scoprendo il
volto ilare di un giovane dai capelli biondi. Rifletté un
istante, levando gli occhi sull’altissimo soffitto.
«No. Credo che qualcuna abbia già esternato a sufficienza sulla tua idea di discrezione»
Altre risatine si levarono dalla coppia di sguattere che gli sedevano
di fronte e che cercavano di schermirsi a vicenda. L’espressione
contrariata del capo della servitù bastò a zittirle.
L’inserviente diede un’alzatina di spalle, per nulla
intimorito, e riprese a leggere degli imminenti Campionati del Mondo di
calcio.
Terminarono la colazione in silenzio, accompagnati dal tintinnare dei tegami.
Le serve svicolarono rapidamente verso l’androne, dirette al ripostiglio ed alle incombenze della giornata.
Jarvis si avvicinò al piano di lavoro, osservando con velata
critica l’assortimento di biscotti e di filtri di the disposti
sul vassoio d’argento.
Lo stalliere si avvicinò, appoggiando la schiena al piano della cucina.
«È incredibile che non ti abbia tirato dietro
qualcosa» proseguì, quasi che il discorso non fosse stato
interrotto.
«È una persona civile ed educata, a differenza tua»
osservò, spostando la zuccheriera di un centimetro esatto dal
dove era stata posata.
«Andiamo, Jarv. Come ti è venuto in mente di entrarle in
camera? Di mattina presto? Le hai fatto prendere un accidente!»
ridacchiò.
«In questa casa ci sono delle regole» replicò,
meditando sulla disposizione del servizio da colazione che non riusciva
a trovare soddisfacente.
«Ovviamente» sospirò il giovane, grattandosi la
nuca. «Ma non puoi pretendere che le conosca. È arrivata
solo ieri. E non mi sembra che abbiate parlato granché»
A tutti era noto quanto la loquacità del maestro di palazzo
fosse di poco superiore a quella dei personaggi negli affreschi dei
saloni.
«Giovanotto, ricorda che hai a che fare con una signorina. Il tuo
gesto non è stato rispettoso» sottolineò la cuoca,
facendosi spazio tra i due per posare la teiera bollente sul
portavivande. «E tu non dovresti fare il pettegolo»
ammonì, agitando l’indice nodoso all’indirizzo
dell’altro.
«Dai nonna, era per ridere un po’…» si scusò, dirigendosi verso la corte.
«Ora annoveri il fare la spia fra i tuoi compiti?» lo accusò Jarvis, secco.
Lo stalliere stiracchiò le braccia verso l’alto,
incrociandole dietro la testa quando si appoggiò allo stipite
scheggiato.
«Jarv, l’urlo che ha fatto devono averlo sentito anche in paese. Non ho aggiunto molto» sghignazzò.
«Su, su, basta ora. La signorina starà pensando che siamo
dei pessimi ospiti e che vogliamo farla morire di fame!»
intervenne Romilda spazientita. «Prendi e và, sarà
già nel salone ad aspettarti»
Cacciò in mano il vassoio al maggiordomo, il quale s’avviò, nuovamente calmo e arcigno.
«E bussa questa volta, non farla urlare ancora» lo stuzzicò il palafreniere.
Il maestro di palazzo si fermò sulla soglia, limitandosi a
piantargli addosso quel suo sguardo duro e cupo. Il garzone
ricambiò sorridendo senza timore. Si conoscevano da troppi anni
per muovere guerra su ogni sciocchezza.
«Fammi avere la lista delle forniture prima di sera» gli ricordò.
«Agli ordini»
***
Ammirò il lavoro fatto quel pomeriggio con molto orgoglio,
mentre i due tiracqua andavano a riposizionarsi nella rastrelliera. Le
scuderie erano uno specchio e dieci musi si allungavano oltre le porte,
pacifici e soddisfatti sotto lo strofinio delle striglie. Passò
in rassegna gli andalusi, controllando il movimento delle spazzole che
percorrevano i muscoli possenti ed eleganti guidate
dell’incantesimo. Grattò il naso di un baio dalla lunga
criniera nera e ondulata, i cui occhi lo fissavano con insistenza.
Erano occhi strani, più vividi e luminosi di quelli degli altri
cavalli.
«L’hai sentita, eh?» domandò, battendogli il
palmo sul collo massiccio. «Ma non posso farti uscire per andare
a cercarla»
L’animale sbuffò, mostrandogli offeso le terga. Era buffo,
con le orecchie appiattite indietro e la spazzola che tentava di dare
ordine ai crini della coda che scuoteva nervoso. Il giovane mosse
rapido le dita e la striglia salì sulla groppa, nel punto che
sapeva essere il suo preferito per le grattatine.
«Prima o poi passerà di qui. Vedrai se sarà il caso di farle una visita» lo rassicurò.
Camminò nella corsia, i pollici infilati nei passanti dei
pantaloni. Passò accanto ai sacchi del mangime, ordinatamente
impilati accanto alla balla di fieno pronta per la mattina successiva.
Un paio di gattini giocavano saltando dentro e fuori da un secchio. Un
terzo era riuscito ad arrampicarsi in cima al foraggio e tentava di
artigliare le capezze appese. Lo afferrò per la collottola e lo
mise a far compagnia ai fratelli.
Accanto alla porta era appesa una lavagnetta, dove biancheggiavano
alcuni segni di gesso. Difficilmente qualcuno avrebbe potuto capire
cosa significassero. Strappò un lembo dall’inserto
sportivo che aveva incastrato dietro la lavagnetta, riportando con una
grafia diversa quanto aveva annotato.
Superò l’angusto stanzino che lo divideva dallo scalone
ovest e si ritrovò sotto uno dei due portici. Attraversò
con calma il selciato, raggiungendo il loggiato opposto. Salutò
Galileo, seduto ai piedi di una colonna ed intento ad un accurata
pulizia della pelliccia grigia e nera. Intravide le schiene di Luisa e
Francesca nella Saletta dell’Arazzo, prese dall’inceratura
del pavimento; un’operazione che consentiva loro di chiacchierare
copiosamente tra una strofinata e l’altra.
Era quasi arrivato in fondo al corridoio, aveva già una mano
protesa verso la maniglia, quando lo bloccò il fruscio di una
pagina che veniva girata.
Con cautela, tornò sui suoi passi e dischiuse un poco la porta,
sbirciando all’interno. La donna che Jarvis aveva portato il
giorno prima da San Francesco era seduta, o per meglio dire
sprofondata, nella grande poltrona accanto alla finestra. Gli occhiali
erano in bilico sulla fronte, mentre sul tavolinetto di tartaruga erano
posati un paio di libri, un taccuino ed un altro aggeggio che non
riconobbe. L’Archimaga era intenta a leggere un grosso volume
rilegato in pelle nera. L’ottone delle borchie agli angoli del
tomo era opaco per la lunga permanenza nello scaffale ed era talmente
ingombrante che il bordo delle pagine poggiava sui braccioli. Di tanto
in tanto si fermava, tamburellando con una penna sulle labbra prima di
prendere nota di qualcosa sul quadernetto.
Era così totalmente immersa nell’opera che difficilmente
si sarebbe accorta della sua presenza, anche se avesse mandato in
frantumi il gigantesco vaso di porcellana accanto alla porta.
Era indeciso se definirla attenta o sognante: sul suo viso trasparivano
entrambe le espressioni. Socchiuse gli occhi, concentrandosi.
«Lasciala stare»
Apparso dal nulla, il maestro di palazzo lo fissava a braccia conserte.
«Non ho fatto niente, Jarv. Guardavo» ammise innocente.
«So bene cosa fai quando “guardi”»
«Ah, sì? Vuoi che guardi anche te?» chiese ammiccando.
L’uomo non rispose, ma il suo tacere era ben più eloquente
di mille parole. Conosceva quel che si nascondeva dietro le palpebre
socchiuse dell’altro, sapeva cosa cercava di vedere.
«Va bene, musone! Ecco quel che manca» disse allungando il foglietto prima di tornare a scrutare dallo spiraglio.
Dalle pagine del cabreo si sprigionava un debole alone luminoso che si
rifletteva liquido negli occhi della donna, spalancati per la sorpresa.
Le labbra erano dischiuse in un mezzo sorriso estatico e rapito. Era
curioso, avrebbe voluto entrare e chiederle cosa c’era di tanto
interessante su quelle pagine rosicchiate dal tempo, cosa emanava
quella luce capace d’incantarla a tal punto.
Jarvis cominciò a leggere la breve lista. Dai lineamenti spigolosi non traspariva alcunché.
«Stalle lontano. Deve lavorare» gli intimò,
dirigendosi allo studio. «Per la lista, ti farò sapere
domattina»
***
«Ti rendi conto che stai contraddicendo quello che mi hai detto
ieri?» sghignazzò, chiamando a sé la forca a cui si
appoggiò sornione.
«Fallo» fu la risposta stizzita di Jarvis che usciva svelto dalle scuderie.
Pur amando cavalcare, detestava l’odore dolciastro del fieno che
stagnava sotto le volte. Non si fermava mai più dello stretto
necessario per prendere un cavallo o dare qualche comunicazione al
garzone.
Un sorriso malizioso distese le labbra dello stalliere, che si
allontanò fischiettando dal box che stava pulendo. Jarvis che si
rimangiava un comando era un evento più unico che raro e
disobbedirgli sarebbe stato molto sciocco.
«Ehi!» chiamò.
Il baio del giorno prima seguitò a dissetarsi col muso
seminascosto nel beverino, nonostante un orecchio indicasse la sua
attenzione.
«L’hai sentito? Vuole che vada ad aiutarla. Se riesco te la porto»
La trovò in una delle aiuole della corte d’ingresso.
Sedeva sconsolata con la schiena appoggiata al muro e lo sguardo che
vagava lungo le siepi e le pareti. Accanto ai suoi piedi erano
sparpagliati degli strani oggetti, alcuni dei quali assomigliavano a
delle grosse biglie di vetro rosso scuro. C’era il taccuino che
le aveva visto in mano, una borsa sdrucita da cui facevano capolino
alcuni libri altrettanto consunti ed un aggeggio rettangolare, aperto
come un libro, ma che emetteva uno strano ronzio.
«Ciao» esordì, appoggiandosi al tronco di un gelso.
«Ciao» rispose lei, stupita dall’apparizione e dal tono gentile.
Per quasi tre giorni aveva avuto a che fare solo col signor Carew, che
si poteva definire in qualunque modo fuorché cordiale. Il nuovo
venuto pareva l’esatto opposto, non solo caratterialmente. Aveva
capelli biondi che scendevano ondulati fino alle spalle ed occhi
grandi e tanto scuri da sembrare neri. Non portava una di quelle divise
pseudo-settecentesche che amava tanto il maggiordomo: la sua non poteva
definirsi nemmeno una divisa con quei jeans dalle cuciture lise e la
maglietta rossa macchiata di sudore.
Si accoccolò sulle ginocchia e tese la mano, sfoderando il migliore dei suoi sorrisi.
«Io sono Ang, piacere»
«Ang?»
Lui fece spallucce.
«Mi chiamano tutti così»
«Amelia Veneziani» rispose, contraccambiando la stretta.
«Meglio nota come l’Archimaga» sottolineò furbo. «Piacere di conoscerti»
La sua stretta era salda e rassicurante. Le dita lunghe ed affusolate avvolgevano le sue, morbide e tiepide.
«Mi fai venire fame» ammiccò.
A quelle parole, la prima impressione che aveva avuto di
quell’uomo traballò vistosamente e provò
l’immediato impulso di ritrarre la mano, subito dominato. Ci
mancava uno svitato a fare il paio con quell’altro
spaventapasseri.
«C-come?» chiese.
Forse aveva solo capito male.
«I tuoi occhi. Mi fanno venire fame» spiegò
indicandoli. «Hanno il colore delle olive verdi e a me piacciono
tantissimo le olive. Per cui posso dire che mi piaci. Parecchio»
Il rossore che apparve all’istante sulle guance di Amelia era
accompagnato da un vibrazione inconfondibile, e Ang seppe di non dover
procedere oltre. Beneducata, istruita, sognatrice, tranquilla e
soprattutto riservata. Ecco perché non ne aveva ancora cantate
quattro a Jarvis, limitandosi allo strillo di paura quando le era
piombato in camera per svegliarla: le buone maniere erano solo una
facciata. La timidezza spadroneggiava nella sua persona. Ed al tempo
stesso la rendeva delicatamente attraente.
Cambiò rapidamente argomento, portandolo su un tema maggiormente stringente.
«Problemi?» domandò indicando gli strumenti.
L’Accenno al lavoro sembrò calmarla all’istante.
«S-sì. Non riesco a triangolare» sospirò abbattuta mentre tornava ad appoggiarsi al muro.
«A…?»
«Triangolare» ripeté, tracciando una figura
geometrica in aria col dito. «È per via di questi due
alberi. Sono esattamente sulle diagonali di verifica e non riesco
a fissare i punti per determinare lo scostamento da…»
S’interruppe, vedendo Ang accigliarsi perplesso.
«Non mi segui, vero?»
«No» ammise tranquillamente, scuotendo il capo.
«Forse è meglio una dimostrazione pratica»
Si alzò, prendendo una delle sferette. Le stava a stento nel palmo.
«Vedi ai due angoli?» e indicò dove i due corpi laterali toccavano la facciata della villa.
A circa un metro da terra, negli spigoli creati dai muri, c’erano
altre due sfere. Amelia fece ruotare le due metà della palla che
teneva in mano e immediatamente tutte e tre cambiarono colore,
diventando di un rosso acceso. Un attimo dopo, una sorta di filo, un
fulmine scarlatto e sottile le univa.
«Ora le Misuratrici sono congiunte» spiegò. «Il colore della Linea di Traccia
indica che non sono complanari. Infatti quella che ho qui è
più in alto rispetto alle altre» e così dicendo,
abbassò la mano fino a che il colore delle saette divenne
azzurro.
Lo stalliere annuì interessato, seguendola verso uno dei due
edifici più bassi. Ora che le sfere erano allineate sulla stessa
quota, erano inamovibili in senso verticale.
«Se adesso mi appoggio qui, creo un triangolo. Questo mi permette
di valutare le distanze dei tre punti, gli angoli che creano e di
scoprire eventuali picchi di potere occulto»
«E come?»
«Nel caso percepiscano un certo tipo di incantesimi, reagiscono creando delle “bolle” dai lembi delle Linee, che rendono visibili ed identificabili i punti da cui si propagano»
«Quindi…» fece Ang guardandosi intorno, «non ce ne sono»
«No. Il livello magico è uniforme lungo questo lato del
cortile» e additò il finto libro nell’erba.
Era un computer portatile, la cui tastiera differiva da quelle
comunemente in commercio per via di alcune lenti colorate contornate
d’ottone e di un’altra pallina più piccola.
Sul video erano apparsi i punti e le linee identificati dalle sfere
fluttuanti, accompagnati da alcune scritte. All’interno del
triangolo era apparsa una campitura verde e piatta. Poco più
sopra c’era il disegno del portico d’ingresso e della corte
centrale della villa: si riconoscevano le basi delle colonne.
«Però…»
«Però questi due alberi sono posizionati proprio sulle
linee che mi permetterebbero di chiudere i triangoli principali»
e andò a spostare le biglia nell’angolo contro il muro di
cinta.
La Linea che segnava l’ipotenusa si spezzò, guizzando ai
lati del robusto tronco, cercando di riallacciarsi all’altra
metà. Identica sorte accade spostando la Misuratrice nell’angolo opposto.
«Senza queste linee sarò costretta a cercare altri punti
e, vista la mancanza di spigoli o elementi architettonici che emergano
dal muro, rischierei di aggiungere punti fittizi e di non disegnare
correttamente tutto questo spazio» concluse, rivolgendogli
un’occhiata stanca. «Ho provato in mille modi, ma non trovo
una soluzione. Se ci fosse un modo per spostarli da
lì…»
«Basta chiedere» sorrise, nonostante lo scetticismo che lei mostrava.
Si accostò al tronco del primo albero, che li copriva con la sua
ombra, e bussò sulla corteccia ruvida. Amelia l’osservava
incuriosita. Le strizzò l’occhio e, trovata una sottile
fenditura, prese a bisbigliare al suo interno. Il suono della sua voce
era cambiato, facendosi sottile e frusciante come il vento su un prato.
L’aiuola ebbe un sussulto e qualche foglia cadde volteggiando dai
rami. Le radici nodose del gelso presero a contrarsi, scavando nel
terreno simili ai tentacoli d’un polpo. Il tronco mandava cupi
cigolii man mano che si allontanava dalla sede originaria. In capo a
pochi minuti aveva percorso circa mezzo metro, lasciandosi dietro una
larga traccia di terra smossa e brulicante di vermiciattoli.
«Spero basti» si scusò l’uomo. «Sai,
è un po’ anzianotto, non gli piace andarsene in giro.
Preferisce fare il pantofolaio»
Amelia annuì a bocca aperta, correndo a riposizionare immediatamente la Misuratrice.
Ripeterono l’operazione anche sull’altro gelso, che
acconsentì di malavoglia ad abbandonare la buca in cui aveva
preso dimora da decenni.
«Come ci sei riuscito? Sei un mago? Uno stregone dei
boschi?» gli domandò mentre, seduta a terra, terminava di
memorizzare i dati nel computer.
«Oh, no. No, no. È che parliamo spesso» fece Ang,
tirando i capelli dietro le orecchie appuntite. «E poi, ho
assicurato loro che stasera gli avresti dato una bella annaffiata
in segno di gratitudine»
Ora le era tutto più chiaro. Quel giovane aveva indiscutibili
origini elfiche, parlare con gli alberi doveva essere
un’abitudine per lui.
«Dovrò sdebitarmi anche con te, non solo con i gelsi»
Ang percepiva l’aura di Amelia fremere, virando dal giallo
all’arancione. Era trionfante per aver completato quella parte di
lavoro, a prescindere dall’aiuto ricevuto. E c’erano delle
lievi striature rosate da qualche parte. Le indovinava dall’odore
fresco e dolce che permeava l’aria che la circondava.
Sorrise compiaciuto, allungandosi sull’erba come un gatto pigro e coccolone.
«Beh, sì. Credo proprio che dovresti»
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Capitolo 4 *** Tavola III - Disposizioni generali ***
Tavola III - Disposizioni generali
La cornetta
incastrata fra l’orecchio e la spalla, il vapore della pentola
negli occhi ed una manciata di spaghetti pronti per essere calati. Dal
soggiorno, la voce della tivù arrivava come sempre troppo alta.
«Ma sei scema?!?» tuonò sdegnata la donna, sganciando la pasta nell’acqua bollente.
«Mamma, per favore non cominciare…» sospirò Amelia all’altro capo della cornetta.
Si era pentita all’istante di averla chiamata a quell’ora.
Quando sua madre cucinava era piuttosto irascibile. Non che durante
altri orari fosse diversa, ma tra le diciannove meno venti e le
diciannove e trenta si rischiava il linciaggio. Una parentesi temporale
dove era consigliabile evitare di darle qualunque notizia.
«No, per favore niente! Sei sempre la solita! Ti fai tirare in
giro da tutti! C’hai trent’anni passati, te lo ricordi? Eh?
Ma si può essere più cretini?» sbraitò,
rimestando rapidamente con un forchettone.
L’acqua salata schizzò sulle piastrelle, colando in lunghe lacrime fumanti.
«Ma mamma, fammi…»
«Ma che cosa, Melly? Fai sempre così, non sei buona a
farti valere! Ti fregano tutti e passi sempre per l’oca che sei!
Che cavolo hai studiato a fare se non sei capace di fare niente? Mai!
Eh? Era meglio che andavi a lavorare!»
La signora Veneziani si domandava da anni se l’averle fatto
frequentare con tanta assiduità l’oratorio e altri enti
gestiti da ecclesiastici non si fosse rivelata una scelta
controproducente. Non voleva che sua figlia crescesse senza morale, dei
valori, ma era venuta su così buona e pacata che forse,
più che al Politecnico, sarebbe stato meglio mandarla suora. Di
clausura magari, così nessuno avrebbe notato quanto riusciva ad
essere stupida.
«Insomma, mamma! Se non avessi accettato quella clausola non
avrei potuto firmare il contratto! Avrei mandato a monte la più
grossa occasione della mia vita! È il mio primo lavoro. Ci
sarà il mio nome, la firma» protestò debolmente.
«Si tratta di una condizione sine qua non! Dovevo dire di sì!»
«Oh, smettila di usare quelle parole lì che non ci capisco
niente!» sbottò risentita, armeggiando col sugo. «Te
dovevi dirgli di no! Che non potevano obbligarti a stare lì per
sempre che stai a dieci chilometri da casa. Ti fai mettere i piedi in
testa, sei sempre lì a fare quello che ti dicono gli altri e non
ci pensi mai»
«Veramente sono un po’ più di dieci
chilometri» osservò abbattuta: in quel momento avrebbe
desiderato essere dall’altra parte del mondo e non tanto vicina a
casa.
Lei ed il signor Carew avevano finalmente terminato la stesura del
documento che la vincolava come esecutrice di tutte le opere di
ristrutturazione di Villa dei Gelsi. In quelle sere avevano rivisto
decine di condizioni, di cavilli, di specifiche, ma quella che la
obbligava a risiedere a palazzo per tutta la durata delle opere no. Per
espressa volontà del Duca, quel vincolo era fondamentale: o lo
accettava o non se ne faceva niente. E per Amelia quel lavoro
significava troppo per tirarsi indietro.
«Allora! Dieci, quindici… cosa cambia?»
«Sono parecchi di più, mamma» sospirò.
Cercare di averla vinta su chi non sentiva ragioni era inutile.
«Te non ci dovevi stare! Adesso che arriva tuo papà lo
senti! Te ne dice quattro! Domani vieni a casa! Ma dico io se si
può essere così stupidi…» e
così dicendo diede un’altra girata furiosa alla pasta.
«Chi? La fessa?» biascicò una voce senza troppo interesse.
Mezzo infilato nel frigo c’era il fratello minore di Amelia, un
lungagnone di venticinque anni, con cui condivideva la camera. I sei
anni che li dividevano rendevano la comunicazione tra i due prossima
allo zero. E gli affettuosi soprannomi che le riservava ne erano
la prova.
«Sì, tua sorella! Ha fatto un contratto che lei deve
restare là dove l’hanno chiamata! Cosa là, la Casa
dei Gessi» rispose, agitando il cordless.
Non sentì Amelia strillare nel telefono nel tentativo di correggerla.
«Chi se ne frega. Lasciacela. Quanto manca?» chiese, indicando il fornello con la bottiglia di birra gelata.
«Cinque minuti. Ti va bene il sugo alla bolognese?» chiese, cambiando repentinamente tono di voce.
Il figlio scomparve con una smorfia vaga, diretto al divano, ignorando il sorriso affettuoso della donna.
«Allora, dicevamo?» proseguì un’addolcita
signora Veneziani che, rammentando il problema, riprese immediatamente
a strillare. «Ah, sì. Che ti sei fatta fregare anche
stavolta! Melly quando ti deciderai a crescere e a guardarti in
giro?»
«Ma come te lo devo dire? Non potevo fare diversamente!» insisté.
«Lo dici te! Perché non pensi a quello che fai, ti va bene
quel che ti arriva, anche se fa schifo e dici di sì, che
è quello che volevi! Stai lì ad aspettare che le cose ti
capitano addosso»
«Non è vero»
«Te adesso vai da quello là e gli dici che vieni a casa»
«Il contratto è firmato, mamma. Devo restare. Non insistere»
«Sei una cretina» l’accusò.
«Si sta scaricando la batteria. Ci sentiamo. Salutami tutti» tagliò corto.
Non ascoltò il saluto e le ultime rimostranze di sua madre.
Sapeva che i suoi genitori avrebbero preferito che avesse interrotto
gli studi alla seconda superiore, quando aveva aperto la ricevitoria
all’angolo della strada. Le avevano fatto la testa quadrata a
forza di rimproveri, che la scuola non serviva a niente, un pezzo di
carta non diceva nulla di chi si era davvero. Aveva tenuto duro ed
aveva proseguito negli studi, guadagnandosi borse di studio e bei voti.
Il rispetto dei suoi genitori, mai. Le volevano bene, ne era convinta,
ma erano cresciuti con una mentalità vecchia e chiusa nelle
fabbriche della periferia. Un mestiere come quello
dell’architetto era incomprensibile per loro, figurarsi quello
dell’Archimaga.
Rimase a fissare lo schermo del cellulare per un tempo indefinito,
aspettando che anche quell’ultima tacca sul display sparisse,
indicando il prossimo spegnimento. Sullo scrittoio intarsiato a cui
sedeva, aveva tracciato un Reticolo Energetico,
che ora trovava ripugnante ed inutile. Desiderava che
quell’aggeggio non suonasse mai più. Avrebbe potuto
abbandonarlo sul fondo della borsa, ma sapeva di non poterlo fare.
Lasciò il telefonino sulla scrivania e si diresse al salone per
la cena. Vide il maestro di palazzo salire dalle cucine, portando il
solito ampio vassoio coperto. I passi cadenzati riecheggiavano nel
grande vano verticale. Lo attese in cima alla scalinata.
«Prego, signorina. La cena è servita»
Lei aggiustò gli occhiali sul naso, avvicinandosi all’uomo che attendeva il suo ingresso nella stanza.
«Grazie» disse, levandogli le portate dalle mani e scendendo le scale.
Jarvis la seguì passo passo e nonostante non spiccicasse parola,
poteva indovinare che fosse contrariato dal suo gesto. Contrariato e
non incuriosito. Dubitava che qualsiasi cosa avesse fatto
nell’arco di quella settimana appena trascorsa, incluso
respirare, fosse stata di suo gradimento.
«Signorina Veneziani, cosa sta facendo?» disse finalmente quando la vide varcare la soglia delle cucine.
Con tutta tranquillità, la donna posò il vassoio sul tavolo della cucina, fra i piatti degli altri domestici.
«Vede, signor Carew, nella stipula dell’appalto sono stata
definita in più punti come “professionista alle dipendenze
del Duca”. È corretto?» spiegò, spostando le
vettovaglie accanto a quelle dello stalliere.
Evitò di rivolgergli lo sguardo mentre parlava. Si conosceva
troppo bene: se avesse scorto un minimo dissenso sarebbe scoppiata in
lacrime e in quel momento era l’ultima cosa che desiderava fare.
Doveva prendere in mano le redini di una situazione che stava piegando
dalla parte sbagliata.
«Sì» confermò l’uomo.
«Se sono alle dipendenze, sono una dipendente. È ancora
corretto?» domandò ancora, fingendo di valutare la
disposizione del bicchiere sulla tavola.
«Sì» annuì di nuovo.
«Voi tutti siete alle dipendenze del Duca, vero?» s’informò.
«Sì» sibilò seccato il maggiordomo, avendo intuito ciò che stava accadendo.
«Allora, visto che siamo tutti dipendenti, cenerò con voi.
Se non avete nulla in contrario» e con un enorme sforzo,
cercò lo sguardo di ciascuno dei presenti, in ultimo quello di
Carew.
Nessuno osò opporsi. Ang le tirò la manica, invitandola a sedere mentre le versava un po’ di vino.
***
Continuava a domandarsi se l’idea che le era balenata la sera addietro fosse stata quella giusta.
“Visto che siamo tutti dipendenti, cenerò con voi”.
Come le era venuto in mente di avanzare una simile pretesa? Non se lo
spiegava. O forse sì. Da quando aveva messo piede a Villa dei
Gelsi, aveva consumato i suoi pasti in quell’immenso salone al
primo piano, seduta ad una tavola deserta ma capace di ospitare
comodamente una ventina di commensali, con l’unica compagnia del
signor Carew. Ammesso che di compagnia si potesse parlare: il
maggiordomo se ne stava in piedi accanto a lei per tutto il tempo,
impalato come un baccalà. Nemmeno la guardava o faceva domande
sul suo operato. Si limitava a servirla senza nascondere la sua
malavoglia.
A ben pensarci, Amelia cominciava a nutrire il sospetto che quello che
aveva trovato nel piatto per i primi giorni, fosse stata una sua
trovata. Era intimamente inorridita, fissando prima il piatto di pasta
al pomodoro poi la cotoletta con le patatine che le aveva messo
davanti. Buonissime, per carità, ma rappresentavano il suo
incubo peggiore: menù da gita scolastica. Sperava di non aver
più a che fare con simili portate. Le associava a
sgradevolissimi ricordi di trasferte con compagni interessati a
qualunque cosa tranne la meta della gita e docenti frustrati che li
guidavano indolenti. Per non parlare delle ubriacature moleste, degli
acquisti assurdi, dei danni provocati negli alberghi, poi debitamente
taciuti a casa.
Ora che sedeva con il resto della servitù godeva di cibi
decisamente più decorosi e di un minimo di conversazione.
Tuttavia, notando la mole di piatti e tegami sporchi, sentiva il
bisogno di darsi da fare per non passare da semplice ospite.
«Dovrei dare una mano in cucina» meditò fra
sé, anche se non era affatto certa che gliel’avrebbero
consentito.
Mettersi a fare la donna di servizio nel poco tempo libero era fuori
questione: le era parso di aver udito le due domestiche borbottare
irritate al suo indirizzo, quando avevano scoperto che la mattina
rifaceva il letto. E comunque, il maestro di palazzo
gliel’avrebbe impedito. O almeno, avrebbe criticato ogni faccenda
da lei ultimata. L’aveva visto comportarsi a quel modo con le due
donne che parevano tutt’altro che incapaci di portare a termine
in modo doveroso i loro compiti.
«Andiamo, Amelia!» si rimproverò, sbattendo i palmi sui braccioli della poltrona. «Sei un’Archimaga, non una sguattera! Anche se quello godrebbe un mondo nel darti il tormento da mattina a sera per come usi lo straccio»
Tornò a concentrarsi sulle pagine ingiallite del cabreo.
«Hai fatto la servetta troppo a lungo e per gente che non lo
meritava, per continuare a comportarti così anche ora! Sei
un’Archimaga?
Sì! E allora, atteggiati come tale! Ringrazia, sii educata, ma
fai del tuo e non degli altri!» ribadì con quanta
più fermezza poteva.
Quell’iniezione d’amor proprio le permise di riprendere con
molta attenzione la lettura del documento. In quel punto si faceva
cenno ad un Libro Mastro in cui erano contenuti gli Incantesimi Fondativi
della dimora e quelli impiegati successivamente, a partire dai
più antichi, datati intorno al 1523, a quelli più
recenti. Era curioso che se ne accennasse in una raccolta di lettere
risalente a più di due secoli dopo la posa della prima pietra.
Evidentemente, la reale natura dell’edificio non doveva essere
stata taciuta a dovere nei dintorni, cosa cui si era posto rimedio
successivamente. Non si trattava di un episodio isolato: nella maggior
parte dei casi i maghi o le streghe erano stati personaggi ben noti
alle comunità, ricchi possidenti i cui poteri erano conosciuti
da chiunque. Nasconderli sarebbe stato inutile.
Ripensò a quando da bambina immaginava le dimore di queste
figure come grandi e tetri castelli, con tetti cadenti, muri incrostati
di ragnatele, pipistrelli in soffitta e cantine traboccanti di draghi.
In realtà nessuno stregone degno di quel nome si sarebbe mai
azzardato a vivere in topaie del genere. Piuttosto un monolocale in
un’anonima periferia! Ma mai e poi mai, in un luogo così
malconcio e cadente da mettere a repentaglio la sicurezza degli
strumenti e degli ingredienti magici. Sarebbe stato da sconsiderati! Le
fiabe nel cui sfondo si scorgevano castelli stregati erano nate per
impaurire per primi i figli dei maghi. Il professor Martini ne sapeva
qualcosa. Era una sorta di ricatto morale: se fossero andati a vivere
in un posto del genere sarebbero stati additati come dei falliti e non
avrebbero meritato di far parte della comunità dei maghi. Il
mago rispettabile possedeva una dimora dignitosa.
Levò gli occhi sulle scansie, in cerca del Libro Mastro. A quel punto, studiarlo era fondamentale quanto rilevare l’edificio.
«Forse c’è qualcosa sui sigilli» pensò.
Ne aveva trovati cinque fino a quel momento, tutti posizionati
all’esterno del muro a sud. Quattro erano di pietra, di chiara
fattura stregonesca. Erano tondi, delle dimensioni di un palmo e
coperti da fitte incisioni che mantenevano attivi i sortilegi. Recavano
tutti la data 1669, anno in cui dovevano essere stati aggiunti i due
corpi anteriori con le cucine, i locali per i domestici ed il grande
cancello d’ingresso. Ma il quinto era diverso: completamente
liscio, di un metallo simile al bronzo e posizionato fuori
dall’asse che i primi creavano tra di loro. Doveva essere stato
posato con la faccia incisa nel terreno. Un’operazione insolita
che, per quanto ne sapeva, veniva eseguita solo per i sigilli infranti,
anche se questo non ne aveva l’aspetto né le
caratteristiche. Il granato che usava per rilevare le protezioni
incantate aveva preso a vorticare furiosamente prima ancora di toccarne
la superficie. Era attivo. Molto strano. Aveva bisogno di fare un paio
di test per comprendere la natura del manufatto e della stregoneria che
racchiudeva: quando si aveva a che fare con oggetti magici si poteva
scambiare per oro il carbone.
Fece scorrere le pagine, in cerca delle tavole illustrate. C’era
una raccolta piuttosto corposa di immagini della villa e dei suoi
dintorni. Una in particolare l’aveva colpita. Il palazzo
compariva in una vista a volo d’uccello, impensabile per
l’epoca indicata a margine del foglio: 1587. Chi l’aveva
realizzata doveva essersi servito di uno Specchio Divinatorio o forse di uno Spiritello dell’Aria.
Nel grande foglio, la villa ruotava lentamente su sé stessa,
mostrando la mole compatta e quadrilatera che possedeva in
origine, sopra cui svettava la torre della colombaia. Non c’era
traccia degli avancorpi, del giardino a nord o del casamento addossato
al lato est. Solo un massiccio, austero monolito dai tetti di tegole,
circondato da antiche querce.
***
«Avevate freddo?» domandò Francesca perplessa.
La serva sedeva di fronte ad Amelia con una brioche mezza affogata nel
caffèlatte e lo sguardo incredulo. Eccezion fatta per Ang,
nessuno le dava del tu come aveva tentato di chiedere in più
occasioni. Questo la metteva leggermente a disagio, si sentiva
un’appendice estranea al gruppo. Estranea e non ben accetta. Di
sicuro non era il modo migliore per cominciare una convivenza.
«Sì, lo so, è assurdo» ammise.
«È il mese di giugno e tremavo come se fosse gennaio»
«Avresti dovuto chiamarmi, sarei venuto volentieri a scaldarti» ammiccò lo stalliere, dandole di gomito.
L’Archimaga
chinò un poco il capo, arrossendo e sorridendo divertita. Quelle
avances spudorate andavano avanti già da qualche giorno e se da
un lato la mettevano in difficoltà, dall’altro la
lusingavano: pur avendo avuto altri ragazzi in passato, nessuno di loro
ci aveva mai provato con lei a quel modo. La faceva ridere,
consentendole di dimenticare quel velo d’ansia che la situazione
le procurava. E in qualche modo, era certa che quegli occhi nerissimi,
sapessero sempre quando far capolino da dietro una porta o un cespuglio.
«Giovanotto, sii più educato con la signorina» lo
redarguì Romilda passando alle sue spalle e allungandogli uno
schiaffo sulla nuca, attutito dalla folta chioma bionda.
«Sto scherzando, nonna» sghignazzò massaggiandosi il
collo e soggiunse a bassa voce, così che solo
l’interessata potesse udirlo. «Non più di tanto
però. Ti saresti svegliata benissimo e al calduccio»
«Dai, Ang, smettila» si schermì lei, ormai paonazza.
Il giovane non proseguì, tornando alle pagine dell’inserto
sportivo. C’era un limite oltre il quale lampi accecanti si
diramavano dalla sua aura guizzando nell’aria. Limite che stava
imparando a riconoscere procedendo per tentativi. Eppure quelle
sfumature rosate erano sempre là, in attesa di sbocciare.
Calmata l’agitazione che l’aveva invasa con diverse sorsate
di latte e miele, Amelia tornò a pensare a quell’intenso
brivido di freddo provato durante la notte. Un freddo gelido e
penetrante, che l’aveva toccata con insistenza costringendola a
svegliarsi. Sì, perché quella sensazione le era parsa
molto simile ad un dito che le tamburellava con insistenza sulla
spalla. Quando si era messa a sedere, cercando nella camera la fonte di
quel gelo improvviso, non aveva scorto nulla. Solo un fruscio,
proveniente dal corridoio. Si era affacciata, ma ogni cosa era immersa
nell’oscurità più fitta. A malapena aveva distinto
le strombature delle finestre che si aprivano sul lato opposto del
passaggio.
Villa dei Gelsi, di notte, era una grande macchia d’inchiostro
dove i muri emergevano pallidi un attimo prima di sbatterci contro.
«Hai sentito cos’ha detto Amelia?» chiese Ang a bassa voce mentre uscivano dalla cucina.
Jarvis non rispose, lo sguardo torvo perso sulle linee della berlina che occhieggiava dalla rimessa.
«Strano che non l’abbia fatta svegliare di soprassalto. Di solito lo fa»
«Le ho detto io di non farlo» ammise atono.
Ang si fermò, scrutando l’uomo camminare nella ghiaia.
«Per quanto credi che ti darà retta, Jarv? Obbedire non è il suo forte»
Lui si girò appena, aggiustando il risvolto della giacca.
«Lo farà»
Esternazione che abitualmente non avrebbe ammesso repliche.
«Jarvis, non lo farà. Non l’ha mai fatto!»
esclamò raggiungendolo e riprendendo a camminare al suo fianco.
Passarono sotto le fronde dei gelsi, che cominciavano a gettare ombre dense sull’erba ancora umida delle aiuole.
«Dovremmo dire ad Amelia dell’inquilina» propose, appoggiandosi all’enorme pilastro.
Il maggiordomo intanto armeggiava con il lucchetto del cancello. La
grossa serratura era ricoperta di simboli e complicati intrecci di
linee.
«Non è necessario» rispose assorto mentre le sue dita toccavano la chiusura in una sequenza nota a lui solo.
Ogni sera ed ogni mattina, seguendo l’affacciarsi
dell’astro di Apollo, era sua l’incombenza di sciogliere o
ricreare il sigillo a protezione della dimora.
Con uno stridio rugginoso, i meccanismi nascosti presero a scorrere, liberando gli alti battenti che si aprirono sulla campagna.
«A volte penso che tu lo stia facendo di proposito per farle
prendere un accidente e vederla andar via a gambe levate»
l’accusò pacato, grattando via un po’ di muschio
dall’intonaco. «Anche se dubito ti darà questa
soddisfazione. Tiene molto a questo lavoro»
«Per questo motivo è qui» ribatté,
controllando uno dei cardini che sembrava instabile.
«Sistemalo»
Ang diede solo una rapida occhiata al perno macchiato di ruggine.
Sapeva che in quelle parole c’erano solo tre cose: un ordine, una
bugia e un briciolo di verità. Queste ultime mescolate in
maniera tale da non poter essere scisse.
«Il Duca non sarà entusiasta del tuo operato, ricordatelo.
È lui che decide ed è lui che l’ha voluta. Dovresti
cercare di essere più accomodante, anche se non ti piace e
preferiresti saperla da un’altra parte. E dovresti anche
cominciare a parlarle, magari. Sarebbe un miglioramento
consistente» suggerì.
Jarvis lo fissò a lungo, inespressivo fra i lunghi capelli bruno
scuri che ricadevano ai lati del viso. Qualunque pensiero elaborassero
le sue meningi, nulla traspariva all’interlocutore. Era immobile
come una statua, praticamente privo di respiro. Poi, con noncuranza,
prese a sistemare uno dei guanti.
«Sella un cavallo. Esco»
Ringrazio molto chi sta leggendo questa storia, primi fra tutti Gaea e Emrys che mi hanno recensita. Aspetto commenti!
Per Emrys: i personaggi sono
diversi, come avrai notato, e ognuno ha delle particolarità.
Effettivamente Jarvis e Ang sono un po' agli antipodi, ma avrai modo di
valutarli emglio in seguito. Grazie mille per tutte le altre recensioni!
Per Gaea: non preoccuparti, la storia è lunga ed avrai tempo di darmi i tuoi pareri in maniera più completa.
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Capitolo 5 *** Tavola IV - Contesto ***
Tavola IV - Contesto
Odiava essere toccato. Detestava la pressione esercitata dalle dita altrui sul suo corpo, su ogni parte di esso.
Ascoltò lo strusciarsi di quelle forme morbide, che pian piano
risalivano tentatrici verso il suo volto. Mani che stringevano
affamate, labbra che cercavano con insistenza, un respiro ansante che
ne bramava un altro a cui mescolarsi. Uno stringersi appassionato,
avido, possessivo, che si dischiudeva su un umido abisso, cupo e
seducente come la notte intorno.
Jarvis socchiuse appena gli occhi, incontrando la nivea curva di una gola.
Combatté con il desiderio di affondarvi i denti, di assaporarne
la consistenza, la tensione spasmodica del respiro che
l’attraversava, di succhiarla fino ad insozzarne il candore con
marchi lividi. Non avrebbe dovuto cedere a quell’impulso. Non
attese oltre, penetrandola senza tante cerimonie. La carne gridava il
desiderio di vuotare le proprie energie in altra carne, avvolto in
quell’abbraccio caldo e appassionato che gli cingeva i fianchi
non più fasciati dall’abituale divisa. Strinse i denti,
cercando di ridare ordine ai pensieri, frastornati dalla tempesta degli
appetiti sessuali che imperversava in lui.
Aveva una sola definizione per ciò che stava facendo: sbagliato.
Non c’era niente di più sbagliato che trovarsi lì,
immerso, sprofondato fra quelle gambe in cerca di puri piaceri
corporali. Eppure ne aveva bisogno, un bisogno disperato e lo mise ben
in chiaro facendola sobbalzare, sistemandosela meglio addosso.
Strinse forte, perché lei non facesse altrettanto. La sentì curvarsi in cerca della sua bocca e si ritrasse.
«Non toccarmi» ordinò in un ansito, mentre i loro fianchi prendevano a danzare all’unisono.
Sentì i suoi abiti strusciare contro il torace nudo,
graffiandolo prima di aderire e modellarsi in una carezza invitante. Il
colletto della camicia gli sfregava la nuca, inseguendo
l’abbandonarsi del corpo che teneva fra le braccia. Rispose con
spinte violente, sostenendosi con una mano a qualcosa di freddo e duro
che gli stava accanto. Chinò il capo, arrivando a sfiorare con
le labbra le ondeggianti rotondità dei seni. Si mosse dentro di
lei con rabbia, mischiando piacere e colpa ad ogni affondo. Udiva a
malapena i suoi sospiri, le mezze parole che pronunciava. Non
l’ascoltava. Non gl’interessava.
Un fremito lo scosse. Era il segnale che attendeva, una voce intima che
gli strappava dai lombi ogni brandello di desiderio, riversandolo
torrenziale nel possesso di quella donna. Una donna che offriva il
corpo maliardo in sacrificio alle brame della ruvida libidine di Jarvis.
A quella prigione di ossa, sangue e tendini che si faceva ogni giorno
più ampia, man mano che la sua essenza avvizziva, il maggiordomo
concedeva rapidi sfoghi. Sfoghi deliziosi, palpitanti, intensi ed al
tempo stesso vergognosi, detestabili, indegni di lui. Sfoghi che ormai
diventavano sempre più frequenti. Biasimava sé stesso per
la sua incapacità di farne a meno, ed al tempo stesso tentava di
convincersi che quella fosse l’unica via per non impazzire.
«Tu sei…» sospirò languida e triste la donna, scivolandogli intorno.
Si muoveva sospesa fra lui e il prato, i capelli allargati in
un’aureola dal colore indefinito. Pareva nuotasse a
mezz’aria, leggera, priva di peso, inconsistente. Si
appoggiò alle sue spalle, accostando le labbra dal colore scuro
e sbavato al suo orecchio.
«Tu sei. E non sei» bisbigliò.
Lui non rispose, gli occhi chiusi, ascoltando gli ultimi spasimi
quietarsi fra le anche. Premette una mano sul petto, facendola scendere
lentamente verso l’inguine, quasi a sincerarsi delle proprie
condizioni. Il palmo era sporco e bagnato: ne percepiva l’alone
trascinarsi dall’alto in basso, ripercorrendo la traccia ancora
tiepida di quelle labbra che continuavano a sussurrare domande.
«Dov’è lui? Dove?»
Gli occhi bruni dell’uomo si volsero appena, incontrando il volto
allungato e magro dalle fattezze femminili. Sinuosa come un serpente,
la creatura scivolò sulla sua spalla e di nuovo di fronte a lui.
Giocherellò con le unghie nelle asole e lungo le cuciture della
stoffa, aggrappandovisi come ad un ancora di salvezza mentre avvicinava
il viso al suo.
«Chi sei tu?» soffiò sulle sue labbra.
«Vattene» rispose in un respiro roco.
Con gemito prolungato e stanco, quella creatura lasciva e infelice
svanì. Jarvis rimase immobile, la camicia scesa a metà
delle braccia, i pantaloni raccolti in maniera indecorosa alle
caviglie. A terra, la giacca s’andava inzuppando della guazza
notturna.
A poco a poco, dal buio riemersero le file di mattoni incrostati di
muschio ed edere a cui si era appoggiato e più sopra, quattro
alti pilastri, in tutto e per tutto identici a quelli che
s’incontravano entrando nella proprietà.
Una brezza lieve e indiscreta scivolò sulla sua pelle,
rammentandogli che ora fosse e quanto poco somigliasse
all’austera immagine che tutti conoscevano. Con gesti calmi e
misurati riabbottonò gli abiti ed infilò la giacca, dopo
averla ripulita dai fili d’erba che vi si erano impigliati.
La mole della villa lo sovrastava. Le finestre, a malapena visibili
nella notte stellata, lo fissarono severe accendersi una sigaretta
mentre risaliva lungo il leggero declivio erboso. Raggiunse la vetrata
che chiudeva il salone del piano terra e rimase lì, appoggiato
fra il muro e l’infisso, fumando e prestando orecchio alle
tenebre, quasi che nulla fosse accaduto.
***
Passi frettolosi riecheggiarono nel corridoio, obbligandolo ad
abbandonare la lettura dei documenti. Attese. L’eco si
avvicinò e cambiò direzione, consentendogli di meditare
sul da farsi. Fissò a lungo la stilografica d’argento, che
brillava inserita nel supporto d’identico prezioso metallo.
Sospirò, arreso e indispettito. Strinse gli occhi in due buie
fessure, prima di accennare un movimento appena percettibile della
mano, animando la penna che fluttuò rapida su un biglietto.
Desidero informarla che in questa nobile dimora non è uso far baccano nei corridoi a proprio piacimento.
J.A.C.
Jarvis ignorava il motivo di tanta agitazione, cosa che francamente non
destava il suo interesse, ma aveva riconosciuto la presenza dell’Archimaga
in quel trambusto. Pareva che la signorina Veneziani avesse qualche
difficoltà nell’assimilare le regole di Villa dei Gelsi,
tanto che si era costretto a rifornirla costantemente di appunti a
riguardo. Appunti cui lei replicava con foglietti quadrati dai colori
sgargianti e dotati di una fastidiosa striscia appiccicaticcia sul
retro. Ormai, le loro conversazioni stavano prendendo la forma di un
epistolario.
Se avesse avuto il buon senso di affacciarsi, probabilmente Amelia si sarebbe risparmiata quella corsa.
Inseguiva una delle Misuratrici
da quasi venti minuti. Era intenta a rilevare il fronte est, quando la
sfera scarlatta si era sollevata ondeggiando. L’aveva fissata
sbalordita per qualche secondo, affrettandosi a controllare che a terra
non venisse segnalato alcun picco o sigillo. Niente. Decisa a far
chiarezza aveva cercato di afferrarla, ma quella era partita di gran
carriera, infilandosi nella porticina delle cucine. L’aveva
rincorsa attraverso le stanze, il cui numero pareva essersi
moltiplicato all’infinito, evitando d’un soffio di
travolgere Francesca e Luisa che andavano a pulire qualche stanza. Non
era riuscita ad afferrare quel che le aveva gridato Ang, seduto a
cavalcioni di una finestra, né tantomeno il lamento della
signora Romilda quando l’aveva vista sbucare di nuovo in cucina.
La sfera era scomparsa nel nulla e con quella la possibilità di
rilevare in maniera completa la facciata dell’avancorpo est. Come
se non avesse dovuto subire abbastanza ritardi. Sconsolata ed
accaldata, andò a sedersi in cima ad uno degli scaloni.
Appoggiata alla balaustrina di pietra, nella fresca penombra del
pianerottolo, ripassava mentalmente quanto era riuscita a rilevare quel
giorno. Praticamente niente. Aveva a malapena terminato di stabilire i
punti fissi per le misurazioni, che dalle cucine avevano chiamato
l’ora di pranzo. Si era lasciata trascinare in una discussione
sulla gestione del bucato con Luisa, che l’aveva rimproverata per
come riusciva a ridurre i suoi jeans da lavoro e che di proposito
faceva lavare solo nel fine settimana. Ovviamente le sue
giustificazioni sul non voler pesare troppo sull’economia
domestica della dimora erano rimaste inascoltate. Inascoltate almeno
quanto il far notare che aveva con sé un numero esiguo di capi
di vestiario per potersi permettere cambi frequenti. Così,
quando a pomeriggio inoltrato era riuscita a tornare al rilievo, ecco
che la Misuratrice se la svignava.
Sospirò abbattuta, poggiando la fronte sulle ginocchia.
«Ah, mi ci vuole un cane da riporto…» piagnucolò.
Udì una risatina lì accanto. Probabilmente una delle
domestiche doveva trovarla particolarmente ridicola in quelle
condizioni. Si voltò, pronta a sopportare l’ennesima dose
di sardonica ilarità, e restò meravigliata nello scoprire
che chi rideva era una bambina. Non doveva avere più di sette o
otto anni. Indossava un abito che pareva uscito dal Carnevale di
Venezia, tutto nastri e merletti di un tenue rosa. Qua e là
erano ricamati mazzolini di fiori rossi e sul davanti, una cortina di
mussola ricamata formava una sorta di grembiule che arrivava a
sfiorarle i piedi. Assomigliava molto al personaggio di uno dei quadri
che aveva scorto in pinacoteca giorni addietro.
La bambina rise ancora, notando la sua sorpresa.
«E tu chi sei? Da dove sei uscita?»
Nessuno le aveva detto che avrebbero ricevuto la visita della nipotina
del Duca. Men che meno che il Duca avesse una nipotina. O una famiglia.
Comunque, ecco spiegata la sparizione della Misuratrice: una streghetta in erba se ne era appropriata, divertendosi a farla correre per tutto il palazzo come una stupida.
«Non si dice così! Prima ci si presenta, maleducata!» ribatté con piglio da maestrina.
«Oh, c-certo. Mi dispiace. Il fatto è che mi hai spaventata»
La bambina rise di gusto, premendo le mani sulla faccia. I lunghi
capelli biondi ondeggiarono lievi sulle sue spalle minute. Era molto
graziosa, una specie di bambolina da carillon a grandezza umana.
«Sei buffa!» esclamò e Amelia sapeva che doveva essere vero.
«Immagino di sì» ammise alzandosi e tendendo la mano. «Io mi chiamo Amelia, molto piacere»
Lei rispose facendole un bell’inchino, curvandosi appena in
avanti come si conveniva alle signorine dell’alta società.
«Il mio nome è Isadora Clara Blanca Maria Visconti y
Torres de Villa, figlia del Duca Michelangiolo Alessandro Maria
Visconti y Torres de Villa del Ducato di Milano. Lieta di
conoscerti» recitò pomposa.
Doveva essersi esercitata parecchio per ricordare a menadito tutta quella solfa.
«Ripeti! Come mi chiamo io?» trillò raddrizzandosi.
Amelia rimase spiazzata per un paio di secondi.
«Ehm… I-Isa-dora Clara… Bla.. Blanca? Non credo di
ricordarmelo tutto. Scusami» disse con un’alzatina di
spalle.
La nuova venuta la squadrò, facendo una smorfia strana.
«Sei un po’ sciocchina»
«No, direi stanca. E sai perché?» sospirò,
appoggiandosi al parapetto con l’aria di chi stava rivelando un
gran segreto.
Improvvisamente interessata, l’altra prese a fissarla, inclinando la testa da un lato.
«Perché credo di aver corso come un unicorno imbizzarrito
su e giù per tutta la villa, inseguendo… te!» e
l’additò sorridendo.
Isadora ridacchiò ancora.
«Mi piaceva la pallina!» ammise birichina, dondolandosi sui talloni.
«Sì, lo immagino. Sono molto belle le mie Misuratrici. Ora però mi servirebbe. Puoi ridarmela?»
Un broncio apparve sul visino tondo.
«Uffa, voglio giocarci io! Adesso è mia!» protestò incrociando le braccia.
Ecco cosa succedeva ad intavolare un discussione seria con gente di quell’età: capricci.
«E se poi, una volta finito di usarla, te la riportassi? Potresti giocarci ancora»
«No! È mia!»
«Isadora, per favore… Quella pallina, coma la chiami tu,
non è un giocattolo. Mi serve per lavorare, ne ho bisogno»
«Ci voglio giocare io!» s’impuntò.
«Senti, perché non vieni con me? Così ti faccio vedere come si usa» propose accomodante.
La damina girò sui tacchi, dandole le spalle offesa. Non aveva
intenzione di prendere in considerazione un’idea diversa dalla
sua.
«Vuoi dirmi che non sei neppure un po’ curiosa di vedere
come si usa?» tentò di blandirla avvicinandosi, le china
in avanti con le mani sulle ginocchia.
Guardandola meglio, si accorse che quella bambina aveva qualcosa di
strano. Una riga pareva tagliare in due la sua figura, dalla spalla in
giù, proseguendo fino a terra la linea dello stipite dietro di
lei. Un momento. Quella non era affatto una piega sull’abito o
una riga lasciata da chissà che. E neppure un’ombra o una
ragnatela caduta dal soffitto. Quello era lo spigolo della porta! Stava
guardando attraverso la bambina!
Amelia avrebbe dovuto essere preparata all’idea di poter
incontrare un fantasma, le era già capitato durante
l’università, ma erano fantasmi di adulti o di persone
anziane. Mai tanto giovani. Dava per scontato che ai ragazzini una
sorte tanto infausta toccasse solo di rado.
«Ti fa male la pancia?» domandò la piccola, fissandola da sotto in su.
Senza accorgersene Amelia era arretrata di un passo ed era impallidita
vistosamente. Non era preparata ad affrontare una simile situazione.
«N-no, no. S-sto b-benissimo»
«Meglio così»
La voce di Jarvis rimbombò sulle pareti lisce dello scalone,
facendole trasalire entrambe. La figura alta e scura riempiva la porta
alle loro spalle, al capo opposto del ballatoio. Il freddo emanato dal
minuscolo spettro si mischiava a quello della penombra ed allo strano
brivido che la percorreva ogni qualvolta il maggiordomo compariva dal
nulla, silenzioso e tetro. Non riusciva ad abituarsi a quei suoi modi
distaccati e gelidi.
«Lascia in pace la signorina» disse, immobile sulla soglia.
Irritata, Isadora scosse il capo arruffando i capelli e batté i piedi, senza emettere alcun suono.
«Io voglio giocare!» strillò serrando i pugni.
Inutile opporsi alla volontà del mastro di corte. Ciò che decideva era legge e tutti dovevano obbedire.
«Lasciala stare. Ti ho avvisata» fu l’ordine perentorio.
***
Romilda aveva ascoltato il racconto dell’Archimaga con le mani sprofondate nell’acquaio, terminando di mondare le verdure per la cena.
«Mia cara, non fatevene un cruccio» disse, rivolgendole un
sorriso quieto, materno. «Il nostro Jarvis è un po’
severo con Isadora, ma lo fa per il suo bene»
«Ma signora Romilda, l’ha fatta piangere!» obbiettò a mezza voce.
Si rese conto un secondo dopo di aver detto una sciocchezza: i fantasmi
non potevano piangere, non avevano lacrime da versare. Tuttavia era
quello che credeva d’aver visto, quando la piccola Visconti era
fuggita via, passando attraverso il muro. Avrebbe voluto dirne quattro
a quell’insensibile, ma quando si era voltata Carew si era
già eclissato, annullando qualsiasi possibilità di
replica.
La cuoca si avvicinò, asciugando le mani nel grembiule da cui
pendeva una grossa mannaia. Il metallo della lama era lucido e pulito,
al punto che si sarebbe potuto dubitare l’avesse mai utilizzata.
«Figliola, datemi retta. Le passerà presto. Succede sempre
così fra quei due. Lui la sgrida, lei si arrabbia, gli tiene il
muso, poi se ne dimentica e torna a giocare» le spiegò,
poggiandole una mano ossuta sulla spalla.
Il gesto la rincuorò un poco, era la prima volta in venti giorni
che quella donna osava tanto. Forse avrebbe continuato a darle del lei,
ma di certo aveva preso a vederla sotto un’altra luce.
«Ecco qui, nonna. Ti bastano?» fece Ang, entrando con le
braccia cariche di bottiglie di vino. «Uh, che brutta faccia!
Cosa posso fare per farti sorridere? Un po’ di coccole? Un bacio?
Due?» domandò ammiccando, nonostante i rimproveri della
vecchina.
Amelia abbassò lo sguardo sul bicchiere di succo
d’arancia, arrossendo meno del solito. Il pensiero era rivolto
all’infelice ectoplasma che vagava afflitto per la villa. Non era
riuscita a trovarla da nessuna parte, anche se l’aveva sentita
gemere. Probabilmente era in una delle stanze chiuse a chiave o nel
sottotetto.
Notando la sua espressione dispiaciuta ed assorta, lo stalliere pretese di conoscere l’accaduto.
«Oh, la nonna ha ragione, fragolina. Si sistemerà tutto, come sempre» la rassicurò dandole un buffetto sulla guancia.
«È quel che ho detto anch’io» fece eco la
donnina, intenta a controllare le etichette. «Alzati di
lì, scansafatiche! Queste devono essere sistemate! Non ci vanno
da sole in dispensa»
Con un rantolo, Ang lasciò andare scompostamente testa, braccia
e gambe ai lati della sedia su cui aveva appena preso posto, poi si
rialzò, tamburellando con le mani sul tavolo. Quasi avessero
udito un ordine, le bottiglie tintinnarono e presero a sfilare a
mezz’aria come tanti soldatini scarlatti, dirette al grande
armadio in fondo alla stanza.
«Quando è successo? Quando è…»
Cielo, non riusciva a dirlo. La sola idea la riempiva di tristezza. Ad
esprimere quel concetto pensò il garzone mentre controllava le
operazioni di rifornimento.
«Morta? Non saprei. Quando sono arrivato infestava il palazzo già da un bel pezzo»
«Potresti evitare di definirla “infestante”? È solo una bambina!»
«È un fantasma, Amelia»
Era odioso doverlo ammettere, ma aveva ragione anche lui.
«È anche un fantasma, Angelo» ribadì Romilda, asciugando una grossa pentola.
«D’accordo nonna, come vuoi. Resta il fatto che tale è»
Rattristata, Amelia chinò il capo.
«Su, vieni» disse tendendo la mano e ricevendo in cambio
uno sguardo interrogativo. «Non vuoi conoscere tutti gli abitanti
di questo posto?»
***
«Perché nessuno mi ha detto di Isadora?» fece ad un tratto.
Lo stalliere accalappiò un gattino, allungandoglielo mentre
camminavano tra i box dove gli andalusi sonnecchiavano placidi. Dal
canto suo la bestiola miagolava sommessamente per essere riportata a
terra, i minuscoli artigli sfoderati per aggrapparsi alla maglietta di
Amelia.
«Ang?» lo sollecitò.
Lui sospirò, levando gli occhi sulle travi impolverate.
«C’entra il signor Carew, non è così?»
domandò sedendo su una balla di fieno, suscitando la sua
ilarità.
«Non chiamarlo signor Carew, ti prego! Mi fa ridere!»
sghignazzò, ricomponendosi subito dopo e prendendo posto
lì accanto. «Le aveva chiesto di starti alla larga.
L’hai vista, prende a prestito le cose per non restituirle
più. Credo ci siano un sacco dei suoi “prestiti”
sparsi in giro. Ogni tanto ne troviamo uno e vai a sapere a chi
apparteneva o a cosa serviva! Jarvis non voleva che ti desse fastidio,
tutto qui. Sa quant’è difficile il tuo lavoro»
L’Archiamga
annuì, lasciando andare il gattino che immediatamente
tornò dai fratellini. Chissà come, aveva la netta
impressione che dietro quel cortese pensiero del maestro di palazzo non
ci fosse un briciolo di effettiva preoccupazione per il suo operato.
Ang le stava a pochi centimetri, tanto che le loro mani si sfioravano.
Lo scrutava con la coda dell’occhio, incerto. Temeva che
potesse attuare i suoi propositi, ora che si trovavano soli.
Carew non sarebbe accorso in suo aiuto, poteva scommetterci.
Ed ecco che dal portone che guardava ad ovest, entrò un cavallo.
Era enorme, di un bel marrone scuro e lucente, con lunghi crini neri e
ondulati. Sembrava uscito da una di rivista specializzata.
«Ah, eccoti qui! Si può sapere dove ti eri cacciato?»
Lo stallone avanzò tranquillo, puntando occhi e orecchie sulla
donna. La nuova presenza l’aveva incuriosito, al punto da
spingerlo ad avvicinarsi, più di quanto gli altri cavalli
avessero fatto. Sembrava molto socievole, quasi cercasse la vicinanza
delle persone.
«Amelia, ti presento Malcanto»
L’equino sbuffò, raspando con l’anteriore sul cemento.
«Di nuovo a mangiare, eh? Mi offendi quando fai così. Io
divento pazzo per non farti mancare niente e tu te ne esci a
rimpinzarti di robaccia!»
«Ehi, ciao bello» salutò sommessa l’Archiamga, tendendo la mano per accarezzarlo.
Mano che venne intercettata dallo stalliere.
«No, no, no. Ti sconsiglio di toccarlo. Non farlo mai, per nessuna ragione»
«Perché?»
«Primo: ha appena mangiato e non credo ti farebbe piacere
sporcarti le mani con queste porcherie» e indicò il muso
bruno.
Lei seguì con lo sguardo dove portava.
«Ang… che roba è?» chiese inorridita,
indicando una cosa grigiastra che sporgeva dalla bocca
dell’animale.
Lo stalliere si avvicinò, esaminando le dita tozze ed unghiute.
«Una nutria. E bella grossa. Sai, sono la sua passione» rispose battendogli una mano sul collo muscoloso.
«Ma i cavalli non mangiano le nutrie!»
Malcanto scrollò il testone e inghiottì l’avanzo di
roditore, spalancando una bocca incredibilmente più ampia del
normale, munita di zanne bianchissime ed aguzze. Non proprio la
dentatura di un erbivoro.
«Secondo: Malcanto non è un cavallo»
Strabuzzando gli occhi per lo spavento, Amelia era indecisa sul chi dei
due guardare: se l’elfo biondo che le stava facendo da cicerone o
la splendida creatura simil-equina che l’annusava con respiri di
inquietante profondità.
«Ma cosa…»
«Guardalo bene»
Se la stava prendendo in giro con qualche incantesimo, ci stava
riuscendo alla perfezione: gli zoccoli di Malcanto erano simili a
quelli delle capre e degli unicorni, di un allarmante bruno rossastro.
E gli occhi parevano più grandi del nomale, più vivi,
astuti, intelligenti. Di un’intelligenza diversa, non animale.
«Hai capito cos’è?»
«No» ammise, temendo di conoscere la risposta.
«Malcanto è un Incubo»
Un padrone assente, un maggiordomo arcigno, un elfo seduttore, la
servitù poco incline ad accettarla, una fantasmina dispettosa ed
ora anche un Incubo nelle scuderie. Cos’altro le era stato taciuto su Villa dei Gelsi e i suoi abitanti?
Un grazie ai lettori tutti, chiunque siate! Spero di veder crescere la lista dei nomi e dei recensori.
Per Emrys: accidenti quanta
fretta! Lasciami il tempo di scrivere! Se Amelia non ha tirato una
debita rispostaccia alla madre, come avrai capito, è solo
perché è una persona fondamentalmente molto buona, al
punto che persino per aver ragione di Jarvis non le occcorre alzare la
voce. E' vero, il contrappunto tra il maggiordomo e lo stalliere
è abbastanza evidente e continuerà ad esserlo, anche se
l'intento non è proprio di rencere Ang un "grillo parlante". Che
mi dici ora dell'ospite?
Per Gaea: lo so, sembra
assurdo
il fatto di introdurre così il mondo della magia, ma ci
sarà tempo per approfondire la cosa. Ang per cosa sta? Uhm, tu
che
dici? Per un elfo il nome è poco scontato, almeno quanto i suoi
poteri. Su Malcanto avevi visto giusto, ma ormai mi conosci, sai che
sono solita a certe sorprese! Inclusi i... bambini fantasma.
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Capitolo 6 *** Tavola V - Approfondimenti ***
Tavola V - Approfondimenti
Quel mattino il sole
era velato e nonostante l’ora, un discreta frescura seguitava a
diffondersi nell’aria. Una frescura umida ed elettrica. In
lontananza, dietro le cime dei pioppi e dei salici, si distingueva un
ammasso di nuvole più scure che avanzava da sud, promettendo
temporali nel pomeriggio se non già all’ora di pranzo.
Amelia sedeva in mezzo al corridoio, le gambe incrociate e le Misuratrici
all’opera. Quattro stazionavano sul pavimento mentre altrettante
salivano lentamente verso il soffitto, indicandole sullo schermo del
portatile una lieve pendenza verso l’interno della parete alla
sua sinistra. Era quella che dava sul cortile centrale. Molto
probabilmente era stato realizzato in una fase diversa rispetto al
resto dei muri perimetrali e questo aveva provocato quel fuori asse. Lo
poteva dedurre anche dal suo spessore, decisamente inferiore agli altri
dello stesso tipo: cinquantasei centimetri contro i soliti
settantuno-settantaquattro.
Col passare dei giorni, Amelia si rendeva conto di quanto quella dimora
parlasse due linguaggi distinti: quello dell’antica
nobiltà locale e quello della magia. Il primo le raccontava di
banchetti e incontri di rappresentanza, di potere, apparenze e
ricchezze da ostentare in mille modi. Il secondo, più sottile e
di difficile decodificazione, si snodava tra incantesimi e manufatti
magici, le cui forme e scopi erano celati fra le pagine del Libro Mastro e dei diversi cabrei che aveva scoperti sul fondo degli scaffali.
Restava sempre molto stupita quando cercava di raccordare i confini dei
due mondi dove viveva. Le persone che non erano a conoscenza del mondo
della magia seguitavano a vivere arrabattandosi tra mille aggeggi
elettronici e meccanici per facilitare le incombenze giornaliere. I
maghi, nonostante possedessero conoscenze in grado di azzerare
qualsiasi difficoltà, si ostinavano ad autoesiliarsi in luoghi
come quello, splendidi e decadenti, lontani dal mondo, per non
condividere nulla del loro sapere con gli altri. Come da
un’isola, guardava le due rive da un punto di vista privilegiato,
in qualche modo poteva cogliere il meglio da entrambe. Eppure, non
riusciva a scorgere alcun ponte lungo la corrente che divideva le due
metà l’universo.
Un breve scampanellio l’avvisò che la rilevazione del
corridoio era ultimata. Sul video era apparsa l’immagine virtuale
ed ancora sommaria del corridoio, col fuoripiombo e la copertura a
crociera. Digitò rapidamente i comandi per l’inserimento
delle finestrature e delle porte, ricreando in pochi minuti
un’immagine molto prossima all’ambiente che la circondava.
Frugò nella borsa e trasse il taccuino. Osservò a lungo
le due piantine che aveva abbozzato giorni addietro, spuntando dalla
lista il corridoio. I locali da rilevare erano ancora molti, diversi
dei quali erano chiusi a chiave. Due erano addirittura stati murati e
non era possibile accedervi se non dalle finestre. Altra cosa che le
era impossibile fare, dato che le finestre erano chiuse
dall’interno e si trovavano molto in alto rispetto al selciato.
Per raggiungerle avrebbe dovuto essere dotata di un bel paio
d’ali. O di una scala.
Sospirò, raccogliendo con attenzione l’attrezzatura mentre
salvava i dati. Diede una rapida occhiata al cellulare. La sera
precedente aveva avuto un’ennesima discussione con sua madre, che
l’aveva lasciata con un fastidioso bisogno di dolci. Isadora
l’aveva accompagnata fino alla dispensa, facendole strada col
debole chiarore che emanava. Non erano state le scuse elargite alla
cuoca quel mattino per giustificare il furto a metterla in imbarazzo,
quanto le dita di Ang che le sfioravano le labbra, pulendole da uno
sbaffo di cioccolato. Le aveva cortesemente fatto presente che aveva
una discreta lista di cose per cui ringraziarlo. Per ricompensa esigeva
un bacio degno di quel nome, niente guance o fronte. Quell’elfo
aveva il potere di scombussolarla da capo a piedi e lei stava
all’asciutto da anni, in quel campo.
«Prima o poi l’avrà vinta. E non potrai tirarti
indietro, signorina» mormorò tra sé, posando
l’equipaggiamento su un tavolino.
Il salottino in cui era entrata era piccolo ed aveva un’aria
molto sobria. Le alte pareti erano dipinte con scene di paesaggi
lacustri dove aironi e germani reali scivolavano quieti lungo i
canneti. I pochi mobili presenti odoravano di legno, cuoio e cera
d’api. Doveva trattarsi di uno spazio privato del Duca. Il titolo
nobiliare aveva assunto la veste di un soprannome ed aleggiava in ogni
locale, in un modo o nell’altro.
Guardò fuori dalla finestra. Di fronte a lei si stendeva la
linea di colmo delle cucine, contornata da due fasce di vecchie tegole.
Qua e là una sparuta pianticella era riuscita a mettere radici.
Al termine della copertura, l’edera risvoltava come una vecchia
coperta sui laterizi. Larghe macchie di muschio circondavano la base
del comignolo. Diligentemente, l’Archimaga appuntò ogni cosa.
Scorse la signora Romilda, curva nell’orticello a raccogliere insalata per il pranzo.
Vide Galileo intento alla solita pulizia della pelliccia tigrata ed
accanto Jarvis, impegnato ad osservare una coppia di strofinacci di
pelle di daino che si muovevano in piccoli cerchi concentrici sulla
vernice scura della berlina. Era così lucida da scintillare
anche sotto la poca luce di quel giorno di fine giugno.
Quell’uomo aveva un’autentica venerazione per la sua auto.
Venerazione che andava a pari con l’insofferenza che mostrava nei suoi confronti.
Un tuono rumoreggiò in lontananza. Il maltempo si avvicinava rapidamente.
«Magari ti bagnasse la carrozzeria, brutto… brutto…»
Stava cercando una definizione abbastanza corretta di quel suo modo
gelido, inquietante e presuntuoso di fare il capo, quando lo vide
girarsi e guardare dritto verso di lei. Quel paio di occhi scuri le si
erano piantati addosso con il peso di un macigno, trafiggendo la spessa
muratura.
Si appiccicò con la schiena al tendaggio, facendosi piccola
nella strombatura. Non poteva averla sentita. Era troppo lontana e la
finestra chiusa. Eppure aveva guardato nella sua direzione, ne era
certa.
***
«Ma cosa fa esattamente?» ripeté Romilda, avvicinandosi alla donna.
Amelia sollevò gli occhi dallo schermo, stupita. Presa
dall’elaborazione del rilievo tridimensionale, non si era quasi
accorta della vecchina che sedeva al suo fianco con una grossa cesta di
fagiolini sulle ginocchia.
«In che senso?»
«Come mestiere» precisò, cominciando a pulire la
verdura con gesti rapidi e precisi. «Cos’è che
fa?»
Si raddrizzò sulla sedia, stropicciando gli occhi e stiracchiando le braccia.
Una ventata umida e fresca s’intrufolò nella cucina dalla
porta aperta sull’orto, portando il profumo della terra bagnata e
degli ortaggi che germogliavano rigogliosi. Il temporale imperversava
sulla campagna da mezzogiorno e pareva non aver dato pieno sfogo alle
sue forze.
«Oh, beh… immagino non sia molto semplice da capire cosa fa un’Archimaga.
Non lo è neppure da spiegare, a dirla tutta»
cominciò, frugando nella mente in cerca della definizione meno
complessa che le riuscisse di trovare.
Era un’impresa titanica. Troppa teoria, troppi paroloni, troppe
attività complesse, uniti da una buona dose di stregoneria
pratica e tecnica delle costruzioni, magica e non. Dare
un’immagine sintetica e chiara del suo lavoro era quasi
impossibile. Lei stessa a volte s’interrogava sulle sue effettive
competenze.
«Tu disegni!» trillò Isadora.
La bambina era apparsa dal nulla, sdraiata sul tavolo. Stava lì,
sollevata sul gomiti, dondolando ritmicamente i piedi in aria. La gonna
le si gonfiava rotonda alle spalle, come se si trattasse di vera
crinolina.
«Sì, è vero. Faccio anche quello»
«Scendi dal tavolo! Una signorina educata non fa queste
cose!» la rimproverò Romilda, ricevendo in cambio una
linguaccia mentre lei saltava giù.
Il fantasma si avvicinò all’Archimaga,
facendole venire i brividi mentre sbirciava curiosa sul portatile.
Quell’affare non le piaceva, emetteva una sottile corrente
d’aria calda ed un ronzio fastidioso, ma doveva ammettere che
quello che vedeva comparire nel video le piaceva tantissimo. Erano
quadri pieni di colori, che sembravano uscire dalla lastra piatta, a
volte addirittura si muovevano e parlavano.
«Allora, disegna?» chiese di nuovo la cuoca.
«Il disegno sta alla base del mio lavoro, insieme alla ricerca
documentale» riprese Amelia. «Per prima cosa devo conoscere
l’edificio in ogni sua parte, la sua forma, i materiali che lo
compongono e come si uniscono. E il disegno, da questo punto di vista,
è di fondamentale importanza perché mi fa capire cosa sto
guardando, senza fermarmi alla superficie. Dopodiché passo a
studiarne la storia, i tempi ed i mezzi con cui è stato
realizzato, per decidere gli interventi da operare. Ad esempio, se ci
sono muri che stanno crollando…»
«Oh, santo cielo! Dove?» strepitò la vecchina,
guardando intorno allarmata, scatenando una risatina scomposta nella
bimba.
«No, no, si calmi signora. Qui ancora non ne ho trovati. Era solo per fare un esempio»
«Ne faccia un altro, per favore. Queste cose mi spaventano» ribatté, tornando a spuntare i fagiolini.
Amelia avrebbe voluto farle notare che era più spaventosa lei
che si aggirava con la mannaia perennemente agganciata alla cintura, ma
preferì sorvolare. Quella della cuoca era solo
un’abitudine. Aveva capito subito che Romilda era una nonnina
assolutamente inoffensiva. O almeno così sperava, anche se alla
villa le sorprese parevano non mancare.
«D’accordo. Allora, vediamo… il camino!»
esclamò, indicando la gigantesca cappa di fronte a loro.
«Se dovessi verificare che il camino non funziona bene, cercherei
di studiare un modo per sistemarlo»
«Oh, ci vorrebbe proprio!» sospirò interessata.
«Angelo cerca di tenermelo pulito, di farlo andare, ma non lo
riesco ad usare quasi più! Fa un sacco di fumo, la fiamma non
è bella e si spegne subito, e ogni tanto casca giù della
roba nera»
Amelia si alzò, sporgendo la testa sotto la grossa cornice
scurita dal lungo uso. L’imbuto nero della canna fumaria spariva
poco oltre, inghiottito dal denso odore di fuliggine e grasso rancido.
Succhiò un dito e tese il braccio più in alto che
poté. L’aria era immobile e polverosa. Tornò al
tavolo e prese a scorrere le pagine di un grosso libro che si portava
appresso.
«Vediamo… Cucina… Cucina… Ah, ecco qui. Un cucchiaio di Polvere finissima d’Agata, un Quarzo Citrino da un’oncia, una misura di Ventilabro Kroon, tre/quattro gocce di Pozione Detergente, una goccia di Domus Magna,
barbe di finocchio selvatico (Foeniculum vulgare Mill.), un ramo di
salice (Salix alba L.), un… osso di galletto? Preferibilmente
una zampa o parte dell’ala? E la cresta ed il becco dello
stesso???» lesse, piuttosto allibita.
Le capitava di mettere insieme intrugli assurdi, peggio di quelli che
inventava da bambina con i figli dei vicini, ma leggere che quella roba
funzionasse sul serio era sconvolgente.
«Che schifo!» mugugnò la piccola storcendo il naso disgustata.
«Aspetta a dirlo, Isadora. Ho letto incantesimi peggiori di questo»
«Incantesimi? Allora lei fa le magie? Come il Duca?» intervenne colpita Romilda.
«Beh, no, non esattamente. Io non sono una strega, non ho un
briciolo di occultismo addosso» s’affrettò a
precisare. «La mia è un tipo di magia che viene definita pratica o materiale.
Mi limito a mettere insieme conoscenze teoriche e tecniche, di cui
qualunque normale architetto è in possesso, aggiungendo elementi
magici che però mi sono forniti da veri stregoni»
«Anche Jarvis fa le magie. E Ang! E pure io quando voglio» cinguettò orgoglioso lo spettro.
«E perché questi maghi non si arrangiano?»
Dal tono di voce pareva che la cuciniera non apprezzasse il fatto che
quei compiti venissero delegati ad altri che forse non erano
all’altezza. La progettista non si sentì offesa,
l’aveva pensato spesso anche lei.
«Suppongo che siano troppo pigri per mettersi a studiare
l’architettura “normale”» ridacchiò
Amelia. «Ma secondo il mio insegnante, per gli Archimaghi
è un bene non dominare la negromanzia. Poterla usare a
piacimento ci farebbe perdere di vista il lato più materiale e
semplice dell’opera. Finiremmo col dimenticare che per la maggior
parte si tratta di strutture erette da mani non magiche ed incantate
solo in seguito. È un dato non di poco conto, mi creda»
«Cos’è Ven-ti-la-bro…» chiese Isadora,
allungando il collo sulla pagina aperta e incespicando sulle parole.
Ora era tanto vicina che Amelia non poteva impedirsi di tremare.
«La Ventilabro Kroon?»
fece lei, stringendosi le braccia intorno al corpo. «È un
filtro aereo, cioè non è liquido come l’acqua.
È fatto d’aria, di piccoli mulinelli per la precisione.
Serve per spandere il resto degli ingredienti sulla superficie da
trattare. Kroon è il cognome del mago che l’ha
inventato»
«Ha un nome strano. Sembra un biscotto che si sbriciola» osservò la bambina, mimandolo con le mani e la voce.
«Un… biscotto che si sbriciola? Però… Hai
ragione. Non ci avevo fatto caso!» ammise ridendo per la scoperta
e prendendo ad imitarla.
«Non è di qui» considerò Romilda, sempre china sulla verdura.
«Infatti, è olandese. Kaspar Kroon. Un mago dell’inizio del secolo scorso, se non ricordo male»
«Tu hai studiato tanto» intervenne Isadora, passando
l’indice sul voluminoso dorso del libro e sorridendo alla sua
amica.
«Eh, sì. Ma non basta mai»
***
Ang strofinò il capo contro il basso soffitto e gli rispose un
mugugno sgraziato. Gli occhi neri dell’elfo frugarono nel locale
scuro e soffocante, lanciando uno sguardo ansioso alla stretta e ripida
scaletta che aveva percorso pochi istanti prima. In alto, il vento
ululava e la pioggia si mescolava alla terra, infilandosi sotto le assi
scompagnate della porta. Adorava i temporali, come qualsiasi altra
manifestazione della potenza della natura.
Una macchia bassa e tozza occupava lo spazio dietro un grosso mantice.
Stava osservando uno dei cardini del cancello d’ingresso.
«Allora? Riesci a sistemarlo o devi rifarlo?»
La figura scura bofonchiò qualcosa, una specie di imprecazione e
d’assenso insieme, dandogli le spalle. Ovunque sporgevano assi di
legno e barre di metallo, pezzi di mobili, corde, pietre e larghi
drappi di pelle non lavorata.
«Per quando?» incalzò, allargando la maglietta
intorno ai fianchi in cerca di un minimo sollievo dal caldo denso ed
opprimente del sotterraneo.
Sentiva la pelle appiccicosa di sudore e i capelli biondi gli aderivano al viso ed al collo come una vecchia ragnatela.
«Non mettermi fretta, Mezz’Elfo!» latrò l’essere, avvicinandosi al focolare.
Ang lo fissò, sollevando un sopracciglio con sdegno.
«Pensi di offendermi? È quello che sono e ne vado fiero»
«Lo so cosa sei, imbecille. Un seccatore della peggior specie, partorito da…»
«Se il tuo commento ha a che vedere con mia madre…» attaccò prontamente, ma quello scosse la mano.
«Quella poveretta non poteva sapere cosa metteva al mondo, facendosi scopare da quello smidollato di tuo padre!»
«A quanto vedo, pure la tua non è stata molto
attenta» sibilò additandolo, gli occhi neri stretti in due
fessure sottili.
Uno sguardo dardeggiò nella penombra afosa, prontamente
ricambiato. Ang si avvicinò, curvandosi per non sbattere contro
una trave e restando impigliato più volte in spuntoni che erano
apparsi dal nulla.
«Non la finiremo mai così, lo sai? Brutto nano
cafone» soggiunse, strizzando il colletto ancora fradicio della
maglia.
«Se tu non facessi domande idiote, non cominceremmo
neppure» ribadì l’altro, agitandogli il perno sotto
al naso.
«Però non ci divertiremmo nemmeno un po’, Gromi. Non
sei d’accordo?» domandò, con un mezzo sorriso.
Il nano sbuffò come il mantice a cui stava appoggiato. Evitava
sempre di rispondere a quella domanda. Sì, doveva ammetterlo, la
compagnia del Mezzo Elfo gli
piaceva, molto più di quella del maestro di palazzo, ma era
un’ammissione che gli costava troppo. Nani ed elfi non potevano
andare d’accordo. Era scritto nelle Pietre di Raggar Amnit,
lo sapevano tutti: eterna inimicizia fra le loro stirpi. Al massimo
poteva dichiarare di sopportarlo quanto una scheggia nelle chiappe.
Rigirò il cardine, sedendo su una grossa pietra per esaminarlo
con maggior attenzione alla luce del camino.
«C’è magia qui dentro e bella forte» disse,
tamburellando col dito sulla piastra smangiata dal tempo. «Non
è roba semplice»
«Potrei mandarti Amelia, magari sa cosa…» ma
s’interruppe a metà. «Va bene, va bene! Niente donne
senza barba!» sghignazzò.
La smorfia risentita del nano l’aveva convinto a cambiare idea
seduta stante. Era un patto che si trascinava da tempo: solo a lui e a
Jarvis era consentito scendere lì sotto. Anche al Duca era
interdetto quello spazio. Figurarsi l’idea che un’umana
potesse metter piede lì, insieme alla sua torma d’inutili
e sciocche domande. Per la gente di Gromi, le femmine di qualunque
specie servivano solo a due cose: far da mangiare e fare figli. Tutto
il resto erano cose inutili, specialmente il parlare ed il ficcare in
naso in cose che non competevano loro.
«Tu non me la racconti giusta, orecchie a punta»
Ang prese un grosso ciocco di legno e vi sedette con un suono acquoso,
poggiando un piede sulla morsa agganciata al banco da lavoro. Sapeva di
far imbestialire la fabbro, ma sapeva anche che non avrebbe detto nulla
se avesse evitato di rovesciare i suoi attrezzi da lavoro sul pavimento
lercio. Un rigagnolo gelato corse dalla scarpa al ginocchio, facendolo
rabbrividire. Quanta pioggia aveva ancora addosso?
«Oggi le ho dato una mora di gelso» raccontò strizzando l’occhio.
Ricordava le guance arrossate di Amelia, in piedi sul portone
d’ingresso, mentre masticava quel dono prezioso. L’aveva
accettato con una certa velata ritrosia, dopo averlo visto sfiorare con
la bocca il frutto. Non aveva compreso appieno quel gesto, anzi,
sembrava parecchio allarmata, quasi intuisse il senso del rituale che
racchiudeva. Tuttavia, una volta assaporata la mora ne era rimasta
deliziata. Una goccia di succo le aveva macchiato le dita e lei gli
aveva sorriso come una bambina. A quella vista, Ang non aveva potuto
esimersi dal farle notare quanto “i baci in bocca la rendessero
felice”. Aveva letteralmente cambiato colore andando vicina a
strangolarsi con la polpa dolce che ancora le scendeva in gola, ma non
aveva abbassato lo sguardo. L’aveva guardato negli occhi. Aveva
guardato la sua bocca, soppesando le parole. E la sua aura aveva preso
un colore strano, simile a quello della goccia con cui si era
macchiata. Era un passo avanti gigantesco ed inaspettato.
«Sei un fottuto…»
«Mezz’Elfo seduttore? Mi piace e non ci vedo nulla di male a corteggiarla. Lo faresti anche tu»
Gromi scosse il capo nauseato, mentre apriva e chiudeva il cardine per
saggiarne la resistenza. Le donne umane lo lasciavano indifferente, non
avevano la ruvida, solida, monolitica avvenenza delle nane.
«Tieniti l’uccello nei pantaloni e lasciala stare» suggerì.
«Stesse, identiche parole di Jarvis. Me l’ha detto anche
lui. Di lasciarla stare, intendo» riportò furbescamente.
Il nano lo guardò in cagnesco, la bocca spalancata sui denti
storti che contornavano una “a” muta. Peggio di avere un
elfo per amico poteva esserci solo il parallelo col maggiordomo.
Inaccettabile.
«Allora fa quel che ti pare. Portatela a letto, falla godere e
facci tanti figli. Sai che non darei ragione manco morto a quello
stronzo»
«Vedo che oggi sei in vena di esprimerti in maniera elegante,
eh?» ridacchiò, pulendo la suola di una scarpa da una
pasta giallastra ed attaccaticcia.
«Come sempre»
Rimasero per un po’ senza parlare, ciascuno assorto nei propri pensieri.
«Beh, io vado. Ripasso domani mattina per
quell’affare» sbottò ad un tratto Ang, battendo le
mani sulle cosce.
Aveva già raggiunto la sommità della stretta scalinata, quando sentì Gromi chiamarlo dall’antro.
«Ehi!»
«Che c’è?»
«Non t’azzardare a mandarmela qui o vedrai che significa farmi incazzare!» ruggì.
«Tranquillo, hai detto che me la devo portare a letto, no? Io ascolto sempre i buoni consigli!» rispose.
Fuori, l’intensità della pioggia era calata. Il cielo grigio mostrava lontani squarci di sereno.
Lo stalliere aveva una visione la sua vita molto simile a quegli
spicchi azzurri e mutevoli. Era libero di apparire e scomparire a
piacimento, di sottostare solo ai propri desideri, a nessuna legge o
dominio. Non apparteneva agli elfi e neppure agli uomini, pur essendo
entrambi. Stava in bilico su una linea immaginaria che aveva disegnato
da sé. Se questo gli permetteva di essere tutto, al tempo stesso
lo spingeva a sentirsi un niente. E Amelia era la sola a sapere cosa
provava.
Prese un profondo respiro e cominciò a correre verso le stalle, lasciando che la pioggia lo bagnasse di nuovo.
Ringrazio i lettori che stanno senguendo questa storia nell'anomato.
Avviso che il post sarà sempre di lunedì, al
massimo martedì se gli impegni non lo consentissero. Siete
avvisati!
Come sempre rinnovo il mio invito a farmi conoscere il vostro parere. Non lasciate soli Emrys e Gaea!
Per Emrys: come tutti i
bambini, Isadora fa tenerezza, ma ricordati che è un fantasma!
La prima parte dello scorso capitolo era "reale", non un sogno. Non ti
preoccupare, chiarirò meglio in seguito.
Per Gaea: quanta magia ci
circonda e noi nemmeno ce ne rendiamo conto, eh? Ovviamente Amelia vive
a cavallo delle due sponde e gli incontri si sprecano. Lo spierito
lascivo ti ha intrigata? Bene. Lo conoscerai meglio tra qualche
capitolo!
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Capitolo 7 *** Tavola VI - Saggio strutturale ***
Tavola VI - Saggio strutturale
- Bourquard, Emil – Teoria dei nodi cosmogonici. Guida al loro controllo ed utilizzo
- Bihari, Morarji – Manuale pratico agli spiritelli edili. Come distinguerli, soggiogarli e impiegarli
- Leko, Olaf – Pietre e malte incantate. Procedure per il consolidamento e la fortificazione
- Kijewski, Pawel – Prontuario dei metalli fatati
- Vasco-Martinez, Josep Sergi – Edifici e loro superfetazioni. Problematiche e soluzioni alla sovrapposizione di incantesimi
- Agata, Ematite, Lapislazzuli, Malachite, Onice, Quarzo Rosa, Tormalina nera in polvere
- Agata, Calcedonio, Diaspro, Occhio di Tigre, Quarzo Citrino e Ialino in gemma
- Kit Bresson-Aliperti
- Preparato Domus Magna
- Vestiti
Jarvis
appoggiò con indifferenza il foglio accanto allo scrittoio e
riprese a stendere sottili linee d’inchiostro sulla lettera che
aveva davanti. Erano quasi tutte cose che Amelia aveva già e che
teneva in un baule in una cantina vicino a casa, affittata
all’uopo. Al mago-maggiordomo sarebbe stato sufficiente un
incantesimo di richiamo o simile per farle avere
l’occorrente, ma una cosa lo frenava.
«Mi sfugge il significato della sua ultima richiesta, signorina Veneziani»
La donna abbassò lo sguardo sui jeans logori, dove campeggiava l’ennesimo vistoso strappo.
«Mi prende in giro, signor Carew?» chiese perplessa.
Se era humour inglese, non lo capiva. Aveva portato con sé solo
tre cambi di vestiti quando era arrivata alla villa, di cui uno
riservato all’incontro col Duca. Ora, dopo due mesi, gliene
restava uno solo per il lavoro. Notò che l’uomo non le
prestava attenzione, così tentò educatamente
d’insistere.
«Avrei bisogno di qualcosa da mettermi»
Lui continuò a scrivere, senza degnarla d’uno sguardo.
«Non mi pare che lei giri nuda per questa dimora» osservò vago.
Sgranò gli occhi incredula. Come poteva essere così cinico?
«E ci mancherebbe!» pensò irata, immaginando gli sguardi di Ang su di lei.
Quasi certamente aveva cambiato colore per l’imbarazzo e la
rabbia, possibile che quella specie di becchino non prestasse la
benché minima attenzione alla sua situazione?
«Ho solo bisogno di un paio di cose, non pretendo certo una
boutique» spiegò conciliante. «Francesca mi ha detto
che domani è giorno di mercato in paese, se potessi
andare…»
«Non se ne parla» tagliò corto, firmando la missiva e passando alla seguente.
L’Archimaga poteva pure
non trovarsi lì, a giudicare dal suo comportamento. Se fosse
stata trasparente si sarebbe potuto pensare che stesse parlando al muro.
«Si tratterebbe solo di un paio d’ore che recupererei in un
baleno. Non influirebbe in alcun modo sull’andamento delle
opere» si affrettò a sottolineare.
«Lei non può allontanarsi da qui» s’impuntò.
«Signor Carew non ho intenzione di venire meno agli accordi, ma ho delle necessità»
«La mia risposta non cambia. Rimarrà alla villa»
«Ho bisogno di uscire. Per pochissimo tempo!»
«Non lo permetterò»
«Perché non mi mura viva, allora?»
Amelia portò immediatamente le mani alla bocca. L’aveva
detto davvero? Quella voce rabbiosa ed il tono acido erano suoi? Da
quando rispondeva male alle persone? Che cosa le era saltato in testa?
Quello era un modo perfetto per rovinare un rapporto di lavoro
già compromesso. Tentò di scusarsi, ma dalla gola le
uscì solo un verso strozzato e privo di senso.
Il maggiordomo sollevò lentamente lo sguardo, mostrando quella
che poteva somigliare vagamente ad un’espressione. Quale fosse
era impossibile dirlo, ma qualcosa contraeva i muscoli facciali in una
posa lievemente diversa dal solito.
***
«Me la farà pagare, vero?» domandò flebile.
Il braccio del garzone le circondò le spalle, rassicurante.
«Credo ne abbia tutta l’intenzione» rispose,
guardando la berlina scivolare silenziosa sulla ghiaia del cortile.
Quella frase sembrava aver aperto una breccia nel maestro di palazzo.
Purtroppo l’aveva aperta dalla parte sbagliata e Jarvis appariva
più minaccioso e arcigno del solito. Amelia avrebbe voluto dire
che provava un totale pentimento per il suo gesto, ma in quel modo era
riuscita a segnare un punto: Carew l’avrebbe accompagnata al
mercato. E se anche aveva imposto un limite massimo di due ore per le
spese, poteva dirsi almeno in minima parte soddisfatta.
«Mi farà sputare l’anima» gemette affranta.
Ang la strinse un po’ più forte, scrollandola mentre l’accompagnava alla portiera.
«Se sei fortunata. Dalla sua faccia direi che vuol fartela vomitare in tre o quattro riprese»
Lei gli rivolse uno sguardo supplichevole. Romilda le aveva detto che
il suo spasimante aveva un preziosissimo pregio che era ne contempo il
suo peggior difetto: non sapeva mentire e la verità gli usciva
dalle labbra nella sua forma più pura ed incontaminata. Il che
significava ricevere quel genere di risposte.
Mentre tendeva gentilmente la mano per aprirle lo sportello, le domandò quale fosse il suo dolce preferito.
«Quello che proprio ti fa impazzire. Così dico alla nonna di fartelo trovare per quando torni»
Amelia ebbe appena il tempo di abbozzare un sorriso che lo sguardo cupo
di Jarvis le ricordò che non erano ammessi ritardi sulla tabella
di marcia.
«Allora?»
«Tiramisù» rispose svelta, sedendo, questa volta, sul sedile anteriore.
L’auto partì e in un baleno aveva raggiunto le colonne in
lontananza. Ang rimase a fissare la macchia scura e scintillante che si
faceva piccola all’orizzonte, finché non scomparve in una
curva.
«Ha scelto bene» disse la cuoca mettendosi all’opera.
«Ultimamente il nostro Jarvis è un po’ ruvido con
lei. Ha bisogno di essere coccolata» e per ribadirlo versò
delle gocce di cioccolato nella crema.
«Ruvido? Ultimamente? Nonna, Jarv non la sopporta per niente e
nemmeno fa lo sforzo di provare a conoscerla! E poi la sua guida dove
la metti? Me la farà tornare indietro molle come un puledro
appena nato…» mugolò, appoggiando la fronte contro
lo stipite. «Credo proprio che dovremo fare un discorsetto io e
lui»
«Angelo?»
«Mmm?»
«Smettila di parlare per niente e prendi i savoiardi ed il cacao
amaro. Almeno fai qualcosa di utile» l’ammonì.
In pochi minuti, la cuoca aveva terminato il dolce.
«Su, portalo in ghiacciaia, che si rinfresca un po’. Oggi fa caldo»
Obbediente, l’elfo prese la terrina e si diresse fuori. Non molto
lontano dalle cucine, una scaletta scendeva nel terreno, terminando
contro una pesante porta di metallo. Un breve corridoio immetteva in un
ambiente rotondo, una sorta di cono rovesciato, sormontato da una
cupola dove ad intervalli regolari si aprivano delle finestre cieche.
Ovunque volgesse lo sguardo incontrava solo mattoni e neve pressata
dell’inverno precedente. O meglio, quasi ovunque. Diversi
recipienti erano incassati nel pavimento candido, conservando in tal
modo il loro delicato e succulento contenuto. E fra i coperchi di legno
ed i fili di paglia, schegge di laterizi.
Ang appoggiò la zuppiera su una mensola e si sporse, tenendosi
ad un gancio infisso nel soffitto. Poco oltre, sulla destra, un enorme
buco scendeva nel terreno e una serie di larghe impronte fangose
macchiava la superficie bianca. L’incantesimo che impediva alla
coltre di sciogliersi del tutto teneva ancora, ma la neve era
franata, provocando un vistoso abbassamento dove una cassa di formaggio
francese stava pericolosamente in bilico sull’abisso. Si
allungò e, a fatica, riuscì ad afferrarla traendola in
salvo. Altre casse dovevano essere precipitate di sotto.
Era un miracolo che la ghiacciaia non fosse crollata: sembrava che quella parte fosse esplosa.
«Oh, no…» mormorò, passando una mano sui
mattoni divelti, alcuni dei quali coperti da lunghi graffi.
«Speriamo che la mia fragolina sappia come sistemare questa roba o chi lo sente il Duca?»
Dalla voragine arrivava l’odore della terra smossa ed il gocciolio della falda sotterranea.
***
Le scuole erano chiuse da un pezzo e torme di ragazzini girovagavano
senza meta per le vie piene di sole. Molti, nel passargli accanto,
gettavano sguardi meravigliati alla carrozzeria blu notte, correndo a
nascondersi agli angoli della via e nei cancelli, mormorando commenti
entusiasti. Tutto quel carico d’attenzione non faceva altro che
innervosire Jarvis, che se ne stava appoggiato al muro, leggendo il
giornale.
Controllò l’orologio posto sopra la vetrina della farmacia
lì vicino. Dietro il vetro scheggiato da una sassata, erano
quasi le dieci. Stava giusto pensando che in una manciata di secondi il
tempo sarebbe scaduto, consentendogli d’aver ragione delle
insulse pretese della donna, quando il morbido scrocchiare di un
sacchetto di carta lo infastidì.
«Sono in orario, vero?» ansimò l’Archimaga, sbucando di corsa da una stradina secondaria.
Jarvis ripiegò con calma il quotidiano, appuntandosi di
terminare l’articolo sulle beghe interne alla sinistra una volta
tornato alla villa. Dovette ammettere di non capire come una spesa
tanto misera avesse preso tutto quel tempo: la Veneziani portava giusto
una di quelle orrende borse di plastica da supermercato con sé,
e non era nemmeno piena.
Ripartirono appena caricati i miseri acquisti, suscitando altra
ammirazione incondizionata da parte dei marmocchi a bordo strada.
L’Archimaga pareva estremamente soddisfatta e non lesinava sui sorrisi.
«Brioche per tutti» spiegò mostrando la busta, senza
che lui avesse domandato. «Mi sembrava un pensiero carino per una
pausa a metà mattina, tutti insieme. E poi hanno un profumo
così invitante che non potevo non comprarle. Il tiramisù
possiamo mangiarlo a pranzo»
«Nessuno gliel’ha chiesto» precisò l’autista, ammutolendola per qualche minuto.
La campagna riarsa dal solleone sfilava rapida lungo i finestrini. I
pioppi torreggiavano lungo le rogge, oscillando nella calura che andava
facendosi opprimente. Corvi e aironi volavano pigri contro il cielo
velato da nubi sottili ed impalpabili. Superarono un ponte a tutta
velocità, spolverando le ruote di un trattore fermo a bordo
strada per adacquare i campi ed imboccarono lo stretto bivio che
portava alla frazione.
«Jarvis Alden Carew, ricordo bene?» domandò pensierosa.
L’uomo s'irrigidì sentendosi chiamare per nome ed
annuì a malapena. Come al solito, la conversazione era il suo
punto di forza.
«Non è italiano. Inglese?» azzardò curiosa.
«Esatto»
«Londra?»
«Non la riguarda»
Male, l’aveva fatto tornare di nuovo sulla difensiva.
«Dev’essere molto che vive qui, ha perso l’accento»
«È così»
Amelia spostò la sua definizione da sintetico a telegrafico.
Sì, quell’uomo era decisamente stringato nelle sue uscite.
«Se vive qui da tanto tempo, immagino si sentirà in qualche modo legato a questo posto, al palazzo…»
«Dove vuole arrivare?» l’interruppe sterzando bruscamente da un lato.
«Alla villa. Viva, possibilmente» pensò di
rispondere di primo acchito, con la strada che si contorceva
bruscamente sotto le ruote ed il sacchetto delle brioche che tentava la
fuga dal finestrino.
Strinse gli occhi respirando a fondo, riordinando le idee e proseguì.
«Vede, immagino che lei provi un certo attaccamento al posto dove
vive e devo ammettere di cominciare a provare qualcosa
anch’io»
«E con ciò?»
«Mi domandavo se lei avesse modo di farmi accedere ad alcuni
locali che al momento mi sono interdetti. Stanze chiuse a chiave,
luoghi inaccessibili…»
«Gli alloggi del Duca rimarranno tali. Se ne faccia una ragione» fu la replica perentoria.
«E la cappella?» s’informò prontamente.
La camera del Duca poteva pure rimanere sigillata fino al suo ritorno,
ma da brava frequentatrice di oratorio teneva molto a metter piede
là dentro. Dopo le architetture magiche, quelle religiose erano
le sue preferite. In qualche modo, l’aria che si respirava in
quei luoghi aveva un che di affine: la stessa solennità, la
stessa sottile elettricità, il senso misterico e ancestrale che
trasudava da pareti e decori.
Jarvis la fissò fulmineo con la coda dell’occhio,
riportando immediatamente la sua attenzione sulla strada mentre
percorrevano la via centrale di San Francesco.
«Non riesco a credere che la cappella e la sagrestia siano state murate in via definitiva»
Altra occhiata fugace del conducente.
«Cosa intende?»
«Ci sarà pure un altro accesso. Senza fare a pezzi le finestre, è ovvio. Una botola, un passaggio, un Portale di Zavarov magari» suggerì.
«La cappella è sconsacrata da tempo»
«A maggior ragione non dovrebbe restare chiusa. Potrebbe essere adattata ad altri scopi»
«Non insista» l’avvertì disinteressato.
«La prego, deve dirmi se c’è un altro accesso. È importante ai fini delle ricerche»
Nutriva seri dubbi sulla capacità del maggiordomo di comprendere il suo punto di vista, ma doveva tentare.
«Faccia il suo lavoro lasciando perdere quelle stanze. Può
farlo benissimo senza prenderle in considerazione. Le dimentichi. Sono
stato chiaro?»
«Chiarissimo,» sospirò abbattuta, «ma partendo
da quest’assunto il progetto zoppica, è incompleto. Lo
capisce? Potrebbe essere pericoloso per le fasi successive. È
sicuro che il Duca voglia questo da me?»
Non lo stava stuzzicando di nuovo, cercava solo di capire.
Amelia si trovò semirannicchiata sotto il cruscotto
dell’auto. Era scivolata come una saponetta dal sedile di pelle,
passando sotto la cintura di sicurezza che ora le graffiava la gola. Il
maggiordomo aveva piantato un’inchiodata tanto violenta da
strappar via il poco asfalto ancora presente sulla stradina.
Una mano l’afferrò, strattonandola con forza fino a
riportarla al suo posto. L’odore pungente di fumo e carta la
riscosse dalla momentanea confusione. Jarvis la teneva schiacciata
contro il sedile con la sola forza della mano destra, la sinistra
chiusa saldamente attorno al volante.
«Faccia come le ho detto» le intimò, parlando a pochi centimetri dal suo viso.
***
Galileo sonnecchiava tranquillo sul poggiapiedi del grande soggiorno
nord. Era uno dei pochi spazi interni dove Jarvis gli concedeva di
posare le zampe. Raggomitolato in un preciso anello di pelliccia, si
godeva la quiete notturna. Durante quelle giornate la vita a palazzo
era stata densa di nervosismo e ne aveva percepito ogni stilla, tanto
che si era tenuto alla larga da tutti gli abitanti, incluso
l’elfo, che di solito era una piacevole compagnia.
Un refolo d’aria passava attraverso la vetrata accostata.
Appoggiato al muro, indistinguibile dalla notte senza astri, il maestro
di corte. Stava là fuori, silenzioso ed immobile. Di tanto in
tanto muoveva un braccio e, subito dopo, uno sbuffo sottile di fumo si
propagava nell’aria.
A Galileo non importava cosa stesse facendo. Non gl’interessava
il suo crogiolarsi in quel vizio che la nuova arrivata sembrava
detestare. Era solo un gatto a cui interessava un angolino comodo per
dormire, qualche coccola di tanto in tanto e un piattino di latte
quando topi e lucertole non riempivano la pancia a sufficienza. Se
riusciva ad ottenere quelle cose il resto non contava più,
diventava un semplice contorno.
Si sollevò, inarcando la schiena e agitando la coda per
sgranchirsi prima di trovare una nuova posizione in quel soffice nido
di stoffa. Si sedette, decidendo fosse il caso di dare
un’aggiustatina all’imbottitura per conciliare il riposo e
prese a darsi da fare con le zampe. Aveva già tirato tanti di
quei fili che molti dei fiori ricamati erano stati ridotti a grumi
colorati. Stava per acciambellarsi nuovamente, quando sentì il
pelo drizzarsi fin sulla punta della coda.
Un attimo dopo fluttuava per la stanza, diretto alla porta e da
lì, su per lo scalone. Il freddo passava attraverso il mantello
grigio, facendolo tremare. I suoi soffi di protesta e gli artigli
sfoderati nel vuoto non servirono a convincere Isadora a rimetterlo a
terra.
La bambina si fermò davanti ad una stanza, tenendolo bene in
alto, e bussò. Non ci fu risposta, così lei infilò
testa e spalle nel legno, chiamando a gran voce dall’altra parte.
«Amelia! Guarda cosa ti ho portato!» poi, tornando tutta
quanta in corridoio, disse rivolta a Galileo: «Adesso fai il
bravo e gioca con noi, così Amelia è contenta! Quel
bruttone di Jarvis l’ha fatta piangere»
Il gatto cercò senza successo ti divincolarsi. Il freddo lo
stava istupidendo. Per sua fortuna la porta si aprì un attimo
dopo ed apparve una figura molto abbattuta.
«Isadora» sospirò, strofinandosi gli occhi ancora
gonfi, «sono quasi le tre del mattino… che succede?»
Lo spirito le spinse addosso il micio surgelato, che rinfrancato
dall’improvviso tepore ritirò le unghie e fece le fusa.
Poco dopo, i tre erano sul letto di Amelia. Galileo trovò molto
divertente fare assalti al lenzuolo che le due amiche facevano gonfiare
ed agitare davanti ai suoi baffi. Era come rincorrere una mosca.
Il portatile era ancora acceso, nonostante l’ora ed il rischio di surriscaldamento, ma all’Archimaga
proprio non riusciva di dormire. Seguitava a lavorare, cercando di
elaborare un modo per ottenere le informazioni che Carew rifiutava di
fornirle. I disegni nei carteggi erano imprecisi e risalivano ad un
periodo dove parte del palazzo non possedeva ancora la forma attuale.
Da quando il maestro di palazzo le aveva impartito quel brusco comando
in auto, si sentiva agitata e indifesa. Non avrebbe dovuto tacere,
accettando implicitamente il suo ordine. Era lì per dimostrare
chi era, non per continuare a farsi mettere i piedi in testa da uno che
neppure sapeva distinguere la differenza fra Sigillo Illusorio e Sigillo Araldico.
«Jarvis è cattivo. Se ti fa piangere ancora lo picchio» prese impegno la bambina.
Amelia accennò un sorriso stanco, prendendo in braccio il gatto.
«Non si fa, Isadora. Non si picchiano le persone perché
sono un po’ dure di comprendonio. Ma grazie lo stesso»
«Però è cattivo» s’intestardì, incrociando braccia e gambe.
«No, Isadora. Lui fa solo il suo dovere. Sono io che sbaglio. Ho
sempre sbagliato» ammise, grattando il mento del micio.
Le iridi gialle si strinsero di soddisfazione al ritmo delle fusa.
«Perché dici così? Lui ti ha fatto piangere!»
«Ho un carattere debole» confessò. «Fin da quando ero piccola come te»
«Cosa vuol dire?»
«Che non sono capace di farmi valere. Non so alzare la voce
quando serve, imporre le mie idee, perché preferisco essere una
brava persona e passare per una un po’ sciocca, piuttosto che
ottenere ragione comportandomi male con gli altri. Finisci per farti
odiare e a me non va. La cattiveria non porta mai niente di buono»
Isadora si spostò, sedendole accanto e facendole venire i
brividi quando appoggiò la testa sulla sua spalla. Nonostante
fosse un’entità incorporea, Amelia poteva dire di
percepirne il peso in qualche modo.
«Anche la mia mamma era come te. Non si arrabbiava mai, era buona
con tutti e tutti le volevano bene. Sorrideva sempre. E poi di notte
piangeva»
Amelia provò una grande tenerezza. Aveva stimato si trovasse in
quelle condizioni da almeno un paio di secoli. Doveva essere orribile
per una bambina di quell’età, continuare ad esistere
mentre il resto della famiglia svaniva nell’oblio della storia.
«Mi dispiace tanto per la tua mamma, Isadora» rispose, cercando di accarezzarle i capelli.
Le dita scivolarono attraverso la foschia gelata, che si arricciò in volute leggerissime.
«Fa niente» disse, tirando su col naso. «Tanto lei non mi voleva bene»
Un istante dopo, la piccola era svanita in un singhiozzo.
***
Amava la calma di quei momenti, il silenzio. L’immobilità.
L’immutabilità. Ciò che era eterno come la danza
dell’ombra e delle stelle, anche se quella notte restavano celate
oltre le nubi.
«Jarvis?»
Ang era apparso da dietro il grande vaso di oleandri che chiudeva la
siepe. Camminava scalzo sull’erba, le mani sprofondate nelle
tasche dei jeans.
«Abbiamo un problema» esordì pacifico.
«Risolvilo»
«Ho detto abbiamo, sei sordo?»
«Sarebbe?»
«Sta scavando» rispose sibillino, indicando il pavimento.
Jarvis seguì l’indicazione, poi gettò una rapida
occhiata al giardino immerso nell’oscurità, soffocando in
gola le parole. Si voltò a guardare lo stalliere, seduto a terra
con le gambe allungate sul prato. La luce che proveniva dal salotto
proiettava un’ombra densa sul suo viso, nascondendolo.
Inspirò una altro paio di boccate, meditando il da farsi. Nel
fumo della sigaretta non c’erano risposte semplici o difficili.
Non ce n’erano affatto.
A quella complicazione non potevano porre rimedio da soli.
Ahi, ahi. Vedo ancora pochi nomi “in chiaro” nella mia
lista, ma non importa. Timidoni! Vedo dalle letture che la storia sta
piacendo e quindi vi ringrazio comunque. Ribadisco come sempre il mio
invito a lasciare commenti.
Per Gaea: comprendo le tue
perplessità riguardo l’affetto di Jarvis per la sua auto,
ma è fatto così. In effetti qualche spunto Tolkieniano
c’è, come non potrei citare uno dei miei autori preferiti?
Ovviamente senza copiare, sia chiaro! Non so per l’accenno stile
King… vedremo.
Per Emrys: invidioso? Non
esagerare. Si tratta solo di tante letture, esercizio e buoni consigli,
fidati. Amelia è ancora in una fase “esplorativa”,
è normale che si senta frastornata. Lo so perché in
qualche modo ci sono passata anche io da… architetto alle prime
armi (così ora sai cosa faccio)!
Per Rodelinda: ho sempre
ritenuto che mancasse questo genere di personaggio. Insomma, le fiabe
sono zeppe di castelli incantati, ma chi li ha edificati? Non si sa. La
scelta di far spiegare le cose a Romilda e Isadora (due che ovviamente
non eccellono quanto a studi) è dovuto ad un motto di un mio
insegnante all’università: “spiegate le cose ai
clienti come ad un bambino dell’asilo”. Peccato non sia
sempre così facile! La somiglianza tra la coppia elfo/nano di
Tolkien, come dicevo, è voluta, una sorta di tributo. Ma come
giustamente fai notare, non è la stessa.
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Capitolo 8 *** Tavola VII - Piani e superfici ***
Tavola VII - Piani e superfici
Stavano sedute
l’una di fronte all’altra all’estremità della
tavolata, simmetriche. Avrebbero potuto essere l’una la perfetta
copia dell’altra, se non fosse stato per i capelli striati di
grigio di Luisa ed il naso bitorzoluto di Francesca. Dettagli che, in
qualche modo, le identificavano.
L’argenteria da lucidare era forse la parte più tediosa
del loro lavoro. Strofinare e strofinare la superficie delle posate con
le mani infilate in scomodi guantini di cotone, fino a che questa non
avesse rinviato un’immagine pressoché speculare, era
un’incombenza snervante, sebbene praticata ogni quindici giorni.
E guai a sgarrare. Jarvis veleggiava per le stanze come un galeone
pirata muto e bellicoso, pronto a piombar loro addosso non appena
avessero tralasciato qualche oggetto.
«Prima l’ho visto venir su dalla ghiacciaia con Ang» bisbigliò Francesca.
Luisa terminò di controllare la lucentezza della lama di un coltello prima di passare al successivo e rispondere.
«Dalla ghiacciaia? Perché? Il padrone ha mandato qualcosa da mettere via?»
Era usanza del Duca far recapitare alla villa casse dagli svariati
contenuti. Era un modo per mitigare la sua assenza, così diceva.
A dire la verità serviva a poco, visto che il maggiordomo
proibiva in maniera tassativa che si aprissero quei favolosi scrigni
del gusto prima del ritorno del lord, vanificando il pensiero.
«Io non ho visto niente, però» e le fece segno di
avvicinarsi il più possibile, guardando intorno cauta, «mi
sembra che hanno detto che dovevano spostare qualcosa»
«Non sarà per caso la carne che c’è giù? Non
sarà marcia? Sono mesi che sta là» sbottò
l’altra storcendo il naso.
L’ultima volta che erano state mandate a dare una sistemata nella
cella sotterranea, erano tornate con i piedi congelati e le braccia
cariche di cibarie la cui salubrità era messa in dubbio dalla
biblica permanenza nel locale. Particolare debitamente taciuto al Duca,
per non incorrere nelle ire di Jarvis.
«C’è il ghiaccio magico! Se mangi le cose alla
svelta non si rovina niente là sotto!» la riprese.
Dopo tanti anni, Luisa ancora si stupiva di come la collega riuscisse a dire fesserie simili.
Ripresero a pulire e per un po’ non si udì altro che il
sospiro soffice degli stracci ed il tintinnare del metallo che veniva
riposto con cura nei cassetti. Nessuno sapeva esattamente a cosa
servisse quel numero spropositato di forchette, cucchiai e coltelli, di
tutte le forme e dimensioni: non si tenevano ricevimenti nella dimora
ormai da moltissimi anni. L’ultimo, raccontava Romilda, era stato
per celebrare la liberazione dai tedeschi ed allora non erano stati
invitati nomi importanti e aristocratici. Servi, braccianti e contadini
avevano invaso le due corti profondendosi in mille ringraziamenti al
Duca, che li aveva omaggiati di vivande conosciute solo in sogno.
Quindi, quelle posate avevano fatto sfoggio dei loro magnifici ceselli
diversi decenni prima di quella festa campestre.
«Chissà cosa dovranno spostare» fece dopo un po’ Luisa, sbadigliando e stiracchiandosi.
Contagiata, anche Francesca non resistette all’impulso di esprimere la sua noia.
«Cosa ne so? Ang diceva che poteva provare a deviarlo, ma che non sapeva se funzionava»
«Deviarlo? Ma non si devia la carne! Quella si affetta, sciocca!»
«Quanto sei oca! Certo che si affetta! Forse devono far girare un
incantesimo, lo spostano per… boh, farlo andare da
un’altra parte»
«E secondo te, gli incantesimi si spostano come gli si dice?»
«Te sei una strega?» sibilò spazientita l’altra, gettando gli strofinacci sporchi in un secchio.
«No» sbottò, agguantando il carrellino che conteneva
il resto dell’armamentario che si trascinavano giornalmente
appresso.
«E manco io!» ribatté la prima, aggiustando con
gesti nervosi la divisa blu. «Che ne so? Lo sanno loro cosa
devono fare. Noi andiamo a pulire intanto, se gli serve qualcosa ci
chiamano, puoi scommetterci»
«Basta che non mi mandino là di sotto! Fa troppo freddo e mi fanno sempre male le ossa quando esco»
***
Paura. Delusione. Frustrazione. Rabbia. Nella testa di Amelia passavano
senza soluzione di continuità quei soli pensieri. Non ne era
felice, ma ciò che era accaduto aveva minato la sua
capacità di sopportazione. Era stesa a terra nella sala di
lettura della biblioteca, presa dalla valutazione delle pendenze del
pavimento, quando aveva sentito la testa girarle. Aveva cercato di
puntellarsi su braccia e gambe, con scarso successo. Un odore acre di
aglio e trementina le aveva punto gli occhi ed il naso. Quindi non
stava male, c’era qualcosa nell’aria. I grossi riquadri di
Rosso Verona e di Nero di Varenna erano stati ricoperti da una patina
liquida che pareva averle fatte diventare molli come budino. Era
riuscita a trascinarsi nell’andito, scoprendo che il medesimo
effetto era in corso anche lì. Doveva trattarsi di un
incantesimo andato male, forse poteva fare qualcosa per sistemare
l’accaduto.
Era riuscita a raggiungere la sua stanza prima che la nausea la
colpisse e lì, aveva compreso quanto era accaduto. Qualcuno
aveva frugato nel suo baule, quello che Carew aveva fatto arrivare dopo
molte insistenze. Chi aveva rovistato tra i suoi attrezzi da Archimaga
era stato tanto maldestro da mandare in pezzi una minuscola boccetta.
Amelia si era sentita male per davvero, quando aveva riconosciuto il
tappo poco lontano. Una piccola sfera smeraldina montata su un sottile
contagocce di vetro. Si era accasciata sulle schegge, le mani tremanti
e le lacrime che avevano cominciato a scendere. Il liquido versato sul
pavimento avrebbe esaurito a breve il suo effetto, ma la cosa peggiore
era che senza di esso, le sarebbe stato impossibile operare molti
sortilegi.
«Cos’ha combinato?» aveva domandato una voce minacciosa dietro di lei.
Si era voltata appena, asciugandosi gli occhi dietro le lenti
impolverate. Era il maestro di palazzo, nero e accigliato più
del solito.
«Allora?» l’aveva incalzata sgarbato.
«Non ho fatto niente. Qualcuno… ha… rotto una delle mie pozioni» spiegò.
«Non vedo altri che lei, qui dentro»
Il fatto che non le credesse l’aveva lasciata indifferente, la
vaga accusa nel suo sguardo però era stata bruciante. Era
convinto volesse dare la colpa a qualcun altro per un problema che
aveva causato lei. Pensava forse di avere davanti una bambina? O
peggio, una bugiarda?
«Non ho fatto niente!» pianse. «Ero in biblioteca e…»
Jarvis non le aveva dato modo di proseguire, limitandosi ad andarsene.
L’aveva lasciata in compagnia dei vapori che si dissolvevano e
del suo disprezzo.
Per un tempo indefinito, Amelia era rimasta inginocchiata a terra,
tentando di rimettere insieme i frammenti dell’ampolla,
augurandosi in cuor suo che qualche goccia di pozione fosse stata
risparmiata. Vana speranza, ogni stilla era evaporata, dissolta.
«Basta» si era detta, tentando di ritrovare la calma.
Aveva passato le dita sulla la pellicola collosa formatasi quando il
liquido cadendo si era mescolato a qualche altro intruglio. Nel
Bresson-Aliperti non mancava niente, il resto degli strumenti e dei
materiali era intatto.
Era andata in bagno a sciacquarsi il viso.
Quando vi aveva messo piede a giugno, aveva notato con un certo
disappunto che non era stato usato da parecchio. Per quanto fosse
pulito e splendente, l’acqua schizzava dai rubinetti
tossicchiando e trascinando con sé schegge di ruggine e calcare.
Ora invece i getti gorgogliavano allegri e continui. Era stata
fortunata a poter usufruire di un bagno privato. Se avesse dovuto
aggirarsi per i corridoi in quel momento si sarebbe persa ed avrebbe
fatto morire qualcuno di spavento.
Si era guardata nello specchio, scoprendosi diversa. Non ci aveva fatto
caso in quei due mesi. I capelli castani le erano cresciuti disordinati
fino a metà della nuca e la frangia se ne andava ribelle un
po’ dove le pareva. Avrebbero avuto bisogno di una sistemata, non
era molto brava a gestirli quando diventavano troppo lunghi. E poi gli
occhi, di un verde muschio che le ricordava i drappi dei santi in certe
pale d’altare del Cinquecento. Quello che le aveva
dato fastidio era la sfumatura vermiglia delle cornee e delle
palpebre, irritate dalle lacrime. Detestava vederle arrossarsi a quel
modo. Era il segno delle sue sconfitte, un marchio che non le era mai
riuscito di cancellare.
***
Quella sera a cena l’atmosfera era piuttosto strana. Il solito
brusio e le risatine che accompagnavano il pasto erano svanite, tutti
tacevano e guardavano nel proprio piatto. Sapevano dell’incidente
di quel pomeriggio e che Amelia professava la sua innocenza,
contrariamente alle idee di Jarvis.
Mentre la cuccuma era sul fuoco e la cuoca si affaccendava tra tazze e zuccheriere, lei prese la parola.
«Quello che è accaduto oggi esige un chiarimento.
Subito» iniziò. «Ciò che avete visto erano
gli effetti di un incantesimo mal confezionato. O meglio, di un non-incantesimo. Qualcuno ha mescolato uno dei miei filtri da Archimagia con qualcosa di inappropriato, producendo un risultato simile al cosiddetto Effetto Caucciù.
È qualcosa di noto nel settore e non credo ci sia bisogno di
spiegarvi di che si tratta, l’avete visto coi vostri occhi»
In un angolo, dove la penombra era più densa, Isadora si mise a saltellare facendo il rumore di una molla.
«La base di tutto era il Filtro Domus Magna, un catalizzatore. Serve ad attivare i poteri di molti incantesimi di Archimagia»
raccontò a capo chino, rigirando il tappo dosatore tra le dita.
«È un liquido molto versatile, come potete immaginare. Si
combina con eccezionale facilità con qualsiasi miscela
d’ingredienti. E questo lo porta ad essere piuttosto pericoloso,
perché se non si conosce l’esatta combinazione degli
elementi che con esso vengono amalgamati, l’esito può
essere disastroso a dir poco. Siamo stati fortunati che non sia
accaduto nulla di irreparabile»
Fece una pausa, cercando di assicurarsi che tutti avessero compreso la gravità del danno che si sarebbe potuto generare.
«Da quanto ho detto, potete capire bene che il valore del Domus Magna sia
elevatissimo, non solo ai fini pratici. Quella boccetta da sola costa
quanto il resto dei miei strumenti messi insieme. E sono parecchi»
«Quanto?» chiese il maestro di corte, solo vagamente interessato.
«Circa cinquemila euro ad ampolla. Cinquanta millilitri circa» specificò a denti stretti.
Le sguattere la fissarono a bocca aperta. Come poteva costare tanto una
cosa grande quanto il flacone di una medicina? Era ridicolo,
inconcepibile e nel contempo spaventoso.
«Occorrono settimane per averne dell’altro. Se si è
fortunati, chiaro. Cosa che, a quanto pare, non sono affatto»
ribadì con una punta d’amarezza.
«Quindi» s’informò Romilda versando il
caffè nelle tazzine, «se non se ne procura
dell’altra, non può lavorare?»
«Posso continuare con i rilievi e la ricerca documentale, ma non iniziare la ristrutturazione vera e propria»
«Perciò, se il padrone viene a sapere che qualcuno ti ha
bloccato i lavori, saranno guai grossi? Per il colpevole,
intendo» sentenziò l’elfo, appollaiato su una sedia.
«Mi pareva occorresse l’assenso del Duca per cominciare la ristrutturazione» sibilò Jarvis.
«O la sua signor Carew, visto che in assenza del Duca lei ne fa
le veci» specificò. «Tuttavia, per le fatture di
minor rilevanza, posso procedere secondo mio giudizio. L’ha
scritto nel contratto»
L’osservazione andò a segno e il maggiordomo, non visto,
strinse i pugni sotto al tavolo. Era stata una biasimevole licenza. Non
avrebbe dovuto lasciarsi convincere ad inserirla.
«E pretende d’essere risarcita? Non ha ancora provato la sua innocenza» ribatté aspro.
L’essere stato colto in fallo l’aveva irritato parecchio.
«Non c’è da preoccuparsi» proseguì
Amelia frugando tra le bacinelle in un angolo. «Ho un sistema per
smascherare il colpevole» e posò un bicchiere sul tavolo.
Nel vetro coperto di fredda condensa e residui di neve gelata, oscillava una sostanza verde e opaca.
«Ammetto che mi è scappata la mano con gli ingredienti,
non avrebbe dovuto essere di questo colore, ma pazienza, possiamo
sorvolare su questo dettaglio di poco conto»
Tutti i presenti allungarono il collo verso la misteriosa bevanda. Ormai era noto che l’Archiamga
non sapesse produrre incantesimi per proprio potere, tuttavia poteva
trattarsi di uno di quei filtri che utilizzava abitualmente, creati da
veri stregoni e perciò realmente magici.
«Cos’è? Si beve? Posso giocarci?» domandò curiosa Isadora, sporgendosi sul tavolo.
«Potremmo dire che è una sorta di Siero della verità»
disse, tentando come suo solito di farle una carezza. «Vedete,
una volta che ciascuno dei presenti avrà bevuto, il colpevole
salterà fuori. Sapete, la sensazione che si prova sulle prime
non è molto gradevole, ma quando questa roba ti arriva nello
stomaco diventa… liberatoria»
Girò lo sguardo intorno, in cerca del primo volontario. Non dovette attendere a lungo.
«Sì! Sì! Lo ammetto, è stata Luisa! È
stata lei!» esordì Francesca senza tanti preamboli.
«Stai zitta! Avevi promesso!»
L’Archimaga cercò
il volto di Jarvis, trovandolo rivolto altrove. Immaginava avrebbe
reagito a quel modo. Aveva capito sin dal principio che non era tipo da
domandare perdono, né a parole né a gesti.
L’evidenza dell’errore lo rendeva solo più scontroso
e sfuggente.
«É tutta colpa tua! Tu hai voluto guardare cosa si era
fatta portare! Non ti era bastato quando siamo andate a guardare
nell’armadio quando è arrivata e quando è andata al
mercato!» l’accusò sbracciandosi, i capelli
ingrigiti che sfuggivano dall’elastico.
«Befana traditrice! Tu volevi vedere solo nei cassetti!» urlò Luisa additandola.
Amelia rimase di stucco. Quelle due avevano ficcato ripetutamente il
naso fra le sue cose? E lei che aveva supposto fosse stata Isadora
presa dalla sua infantile curiosità. I vestiti stropicciati, i
libri spostati, le ditate che interrompevano il Reticolo Energetico. Che sciocca.
«Queste cose sono brutte. Le fanno gli impiccioni
maleducati!» ridacchiò Isadora, passeggiando fra i
commensali con il mento in alto e le mani dietro la schiena.
Aveva l’aspetto di una maestrina altezzosa mentre misurava a
larghi passi il locale, gettando occhiate divertite all’amica.
«Ti avevo detto di starci attenta a quella roba, ma non mi hai
ascoltata! Ha preso la boccetta e l’ha aperta dicendo che era un
profumo e se l’è fatta scappare di mano!»
«Tu l’hai asciugata con gli stracci dell’argenteria!
Poi ha cominciato a fare quelle cose là, è diventato
tutto molle e sei scappata!»
«Anche tu sei scappata!»
Domus Magna e lucido per
l’argenteria. Ecco perché il pavimento era diventato
gommoso. Per fortuna non avevano usato dello sgrassatore o la soletta
cinquecentesca si sarebbe riempita di buchi come un groviera.
Con un sospiro, Amelia bevve una lunga sorsata dal bicchiere, sotto gli
occhi sgranati dei presenti. Accorgendosi della sorpresa, rivolse loro
un sorriso conciliante.
«Visto che potenza il latte e menta, signor Carew? E si figuri che non è magico. Nemmeno un pochino»
Ang prese il bicchiere, annusandolo scettico. Poi bevve a sua volta,
facendo schioccare la lingua contro il palato mentre ne assaporava il
gusto.
«Brrr, freddo…» scoppiò a ridere dandole di gomito. «Come ti è venuto in mente?»
Con un risolino imbarazzato, l’Archimaga svelò dell’espediente.
«Quando da bambina andavo all’oratorio estivo, la Madre
Superiora usava questo trucco per farci confessare i guai che
combinavamo. Ci diceva che era il sangue degli angeli e che con quello
in corpo, se si dicevano bugie, saremmo volati dritti
all’inferno. Quando sono diventata assistente ed ho scoperto che
non si trattava di niente del genere, mi sono sentita una stupida.
Però noto solo ora che aveva una sua utilità»
ammise timidamente.
«Ma… ma…» boccheggiò Francesca.
«Ci ha prese in giro!» strillò Luisa. «Come si è permessa?!?»
«Tu le hai guardato i vestiti» cinguettò Isadora, aggiungendo una linguaccia.
«Non voglio fare la cattiva, non mi piace. Niente rappresaglie o
vendette, potete credermi. Ma non potete pretendere che accetti ogni
dispetto senza batter ciglio. Se il mio lavoro procede senza intoppi
può solo esservi utile. Anche perché così, me ne
andrò prima»
Disse quell’ultima frase guardando il maggiordomo, che fingeva di
non afferrare il sottinteso guardando fra i piatti sporchi.
Lo stalliere si rabbuiò e prendendole il mento fra le dita, le
fece voltare il viso verso di sé. Gli occhi neri scrutarono
quelli verdi per qualche istante.
«Questo non devi nemmeno pensarlo. Non voglio che tu vada via tanto presto»
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma quel contatto e l’assoluta
sincerità delle parole le impediva di replicare. Questa volta
non si trattava di una sconfitta.
***
Sentiva la terra farsi molle. Sotto il suo peso, l’acqua che la
impregnava rendendola fango prendeva a zampillare. La melma scivolava
tra gli artigli, tra le pieghe della corazza, incrostandola. Si
fermò, fiutando forte l’aria, producendo un suono basso e
vibrante che fece tremare il fascio di sottili tubi contro cui poggiava
il dorso. Il metallo cantava, risuonando vuoto. Sollevò il muso,
sbattendoci contro. La durissima lamina che lo rivestiva cantò
al pari del piombo corroso, stordendolo. Sbuffò e scosse il
capo, agitando gli artigli nel vuoto come per scacciare quella
sensazione fastidiosa che non poteva afferrare.
Restò in ascolto. Il battere del maglio era cessato. Aveva
superato la fucina del nano. Oh, sì. Lui sapeva cosa c’era
là dentro, anche senza esserci stato. Il fetore di quella
creatura gli era ben noto, quasi quanto il saperlo suo nemico. Viveva
nelle profondità della terra, invadendo il suo territorio.
Digrignò i denti e riprese ad avanzare, sfregando contro le
pareti del cunicolo.
Terra, radici, vermi, acqua. La carcassa di una lepre schiacciata per
caso giorni addietro. Terra, terra, soffice, tiepida, morbida terra da
fendere con un solo colpo. Terra, ragnatele, buchi di toporagni e
talpe, radici, terra. Altra terra. E poi pietre. Tonde, chiare, tante.
Pietre che biancheggiavano da far male. Fresche.
Davanti alla fauci affamate, il greto di un fiume dove le condotte
terminavano smangiate dal tempo e dalla ruggine. Un’ansa ampia
dove l’acqua scorreva bassa e placida tra isolotti di ghiaia e
canneti. Strinse tutti e sei gli occhi, riabituandoli alla tenue luce
lunare che quella sera si spandeva nella campagna. Lungo le rive i
salici stormivano leggeri, cullati dalla brezza notturna. Nugoli di
zanzare infestavano le pozze lungo la sponda.
Camminò sui ciottoli, che stridettero sotto il suo peso.
***
Afferrò la mano prima che questa arrivasse sfiorargli il viso.
«Non toccarmi» ringhiò.
Lei gettò indietro il capo, ridendo sgraziata. I capelli rossi
ondeggiarono nell’aria, sospesi in un’aureola che li
avvolgeva entrambi. Sentiva l’incertezza della sua stretta,
l’inconsistenza di quella menzogna che fuggiva dalle sue membra.
La ripeteva ad ogni incontro, ma finiva irrimediabilmente col cedere
alla carne, avvinghiandosi con ferocia al suo corpo. Il suo desiderio
la divorava famelico.
«Non toccarmi» scandì nuovamente, aggrappandosi a
quel barlume di repulsione che ancora possedeva. Seguitare a farsi
violenza a quel modo poteva solo distruggerlo.
«Non sei lui» gemette l’essere, invitante e malinconica.
Jarvis si sentiva in trappola, combattuto tra il desiderio di
allontanarsi immediatamente e quello di averla. Ancora. Voleva per
sé quell’essere che non gli apparteneva e che non doveva
appartenergli. Cedere sarebbe stato precipitare nell’abisso.
Eppure da quell’orrido giungeva la voce delle sirene, crudele e
ammaliatrice. Irresistibile e ferale.
«Dimmi dov’è»
«Non so di che parli. Qui ci sono io»
Mosse da un volontà altrui, le breccia dell’uomo si
mossero ad imprigionarla. Jarvis sentì il richiamo delle sue
forme dannate attraverso i vestiti, il respiro sottile come quello
delle stelle, le mani avide che cercavano quell’inutile scudo che
era la sua pelle. Il baratro era ad un passo, troppo vicino per
evitarlo.
Le dita sottili scivolarono fra i capelli scuri, mentre con le gambe risaliva i fianchi ancora prigionieri degli abiti.
Tremava, nello sforzo di dominarsi, di non prenderla subito. Lo torturava il sentirla così vicina.
«Dov’è lui?» mormorò al suo orecchio.
Cercò di staccarla da sé, riuscendo frapporre solo un
misero vuoto fra i loro corpi. Gli occhi scarlatti parevano braci
morenti dietro le ciglia abbassate mentre le labbra si accostavano alle
sue, mischiando baci e parole sconnesse.
«Taci» ansimò, stringendola a sé fra mute maledizioni.
Eccomi col nuovo capitolo. Grazie come sempre ai lettori, che invito
(lo so, sono noiosa) a farmi sapere cosa pensano della storia!
Per Emrys: come puoi vedere,
Amelia ci ha dimostrato che pur essendo una persona tutt'altro che
perfida, riesce a farsi valere. Quanto alla "talpa", come dire? Non
è proprio una talpa-talpa, m questo immagino l'avessi intuito!
E non temere, le riflessioni di Galileo torneranno!
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Capitolo 9 *** Tavola VIII - Tracciati di cantiere ***
Tavola VIII
Amelia prese la fiala dal kit.
«Vorticillo?» chiamò.
Una coppia di minuscoli puntolini ed una linea arcuata presero forma in
una voluta di fumo pallido, come disegnati dalla mano di un bambino.
L’Archimaga
appoggiò la bottiglietta su una delle lenti incassate nella
tastiera del portatile e la stappò. Un attimo dopo, un uccellino
zampettava alla sommità dello schermo. Un’unica piuma era
rimasta sul fondo della boccetta, a garantire il vincolo. Lo si sarebbe
potuto prendere per una rondine, se non fosse stato per il becco e gli
occhi completamente bianchi.
«Buon giorno, Vorticillo» salutò cortesemente lei.
«Buon giorno un corno! Sono mesi che sto lì dentro! Pensi
che sia comodo? O spazioso?» sbraitò lo spiritello
arruffando le penne.
«Andiamo, non dipende da me. Preferirei anch’io tenerti libero, ma non posso» si scusò.
Vorticillo era uno Spiritello dell’Aria, altrimenti detto Aquilone. Quel genere di esserini faceva parte delle attrezzature base per l’Archimagia,
erano vincolati da un sortilegio al contenitore che li custodiva e dati
i loro compiti, prendevano la forma di uccelli. Amelia aveva impiegato
un po’ per farselo amico perché generalmente gli Aquiloni prestavano attenzione solo a chi li acquistava. Aveva ricevuto il Bresson-Aliperti e il Domus Magna dal professor Martini il giorno della sua ammissione fra gli Archimaghi,
come segno della sua stima e della fiducia che nutriva nelle sue
capacità. Motivo per cui Vorticillo non l’aveva accettata
subito come padrona e si permetteva di far la voce grossa, ma Amelia
aveva trovato un modo infallibile per farsi dar retta.
«Vorticillo?» e senza aggiungere altro mostrò un
vasetto nel quale galleggiavano piccoli globi biancastri immersi in un
liquido ambrato.
L’uccellino si drizzò sulle zampette, spalancando il
becco. Una lingua bianchissima e serpentina saettò
nell’aria.
«Oh!» pigolò estasiato.
«Occhi di coniglio in olio di zucca e resina di Cedrus libani» confermò.
Aveva imparato a non storcere il naso quando lo diceva, sebbene lo
stomaco le si contorcesse come la prima volta che aveva visto il cibo
preferito del suo Spiritello.
Era quasi svenuta dall’orrore. Cosa inappropriata da fare, visto
che lei e il professore si trovavano a cavalcioni sui dei ruderi,
durante un lavoretto di quattro anni prima. Aveva rischiato di finire
nel dirupo sotto di loro.
«Te ne do quattro se rilevi tutti i tetti entro sera. Sei, se aggiungi la torre»
Vorticillo guardò oltre la facciata color ocra, dove faceva capolino la parte più alta della colombaia.
«Perché non te la fai da te, brutta prepotente? Sono solo un povero Aquiloncino indolenzito e affamato!» piagnucolò, lasciando ciondolare le ali quasi pesassero tonnellate.
«Non ho ancora trovato l’accesso. E tu sei molto più
preciso di me, più veloce» tentò di lusingarlo.
«Sì, sì, certo. Quante scuse per far sgobbare
questo tapino» protestò, riuscendo a storcere il becco.
«Su, Vorticillo. Sei occhi mi sembrano un buon compenso. La villa non è poi così grande»
Circuirlo richiedeva un discreto impegno. Per sua fortuna aveva visto
il suo ex-capo fare altrettanto con i clienti almeno un milione di
volte. Incredibile come certe esperienze potessero tornare utili.
«Ne voglio uno adesso!» reclamò.
«No, no. Ti conosco, mascherina! Se ti accontento, non ti
muoverai più. Su, comincia, così avrai prima il tuo
pasto. Tieni» disse porgendogli quello che sembrava un nastrino
multicolore.
«Puah! Fetta d’Arcobaleno!» esclamò schifato prendendolo nel becco.
Era un dispositivo incantato che sarebbe servito per rilevare le misure
della colombaia. Doveva solo cingerlo alla sommità dei muri per
poi tirarlo fino alla base come una tenda. Era un ottimo sistema per
rilevare piccoli elementi emergenti, perché leggeva ogni
dettaglio, comprese le aperture o gli sporti, ma funzionava per brevi
lassi di tempo e solo quando il sole era molto forte. Pensare che
c’erano architetti che con un laser o con i programmi di rilievo
fotografico avrebbero impiegato settimane per quell’operazione. A
lei sarebbe bastata una giornata, due al massimo. La cosa più
complicata era stata la ricerca storiografica e la verifica degli
interni, ancora tristemente incompleti dopo quasi tre mesi.
Vorticillo detestava quell’affare, diceva che sapeva d’insalata, cosa per lui tossica.
«Vai. E attento ai gatti» aggiunse distrattamente,
verificando sullo schermo la comparsa dell’asterisco che indicava
l’attivarsi del flusso di dati tra lo spiritello ed il programma.
L’Aquilone aveva già spiegato le ali e per poco aveva rischiato di sfracellarsi nella ghiaia.
«Gatti?!?» fischiò terrorizzato.
In un attimo aveva raggiunto la grondaia della cucina, con grande
scorno del felino nascosto sotto la siepe, che già pregustava un
succulento spuntino. Avrebbe dovuto accontentarsi di giocherellare con
le penne che la merenda aveva perso.
***
Sotto la frangia disordinata scorgeva la spruzzata di efelidi che le
decorava guance e naso ogni qualvolta prendeva un po’ si sole.
Lentiggini minuscole e fitte, del colore del the.
«Rilassati e chiudi gli occhi» le disse, mentre faceva scorrere la punta delle dita sugli avambracci.
Era rimasta al sole tutto il giorno, seguendo quel demonietto pennuto,
procurandosi una scottatura memorabile che le dava un colorito molto
simile alla fragola. Gli sfuggì una risatina.
«Che bella fragolina»
«Ang, ti prego…» lo supplicò, arrossendo ancor di più.
«Sssstt! Concentrati sulla mia voce»
Aveva ripreso a parlarle piano, sfiorandola appena. Braccia, spalle,
viso, la parte alta del petto e della schiena che occhieggiavano dalla
canotta. Amelia avvertiva un bruciore diffuso, come se un fuoco liquido
le corresse sottopelle. Ascoltò le parole farsi flebili,
indistinte. A poco a poco, nella sua mente apparve l’immagine di
un grande abete che ondeggiava dolcemente nella brezza. Magri prati
tagliavano l’azzurro del cielo. Un’aquila sorvolava il
limitare del bosco. Nei refoli di vento che si attorcigliavano ai rami
poteva ancora distinguere l’aroma pungente della resina e
l’eco melodico della parlata elfica.
«Ahi!» gridò.
Senza alcun preavviso, Ang le aveva rifilato due violenti ceffoni sugli
avambracci, risvegliandola bruscamente dalla visione ove l’aveva
condotta. Ora stava lì, massaggiandosi con attenzione, indecisa
su cosa pensare di quel trattamento. Le aveva detto che poteva lenire
l’irritazione, che durante la cena l’aveva costretta ad
accompagnare ogni boccone con gemiti soffocati. Poteva aiutarla. E poi
la prendeva a schiaffi! Bello scherzo davvero.
«Per esser belli bisogna soffrire» ridacchiò facendole l’occhiolino.
Non comprese subito il senso di quella frase.
«Dovresti ringraziarlo, figliola» suggerì Romilda dall’acquaio.
Da qualche tempo aveva preso a darle del tu, come con ogni altro
abitante di Villa dei Gelsi. Aveva deciso di volere l’ennesima
nipote adottiva.
Non doveva aver visto nulla, giacché dava loro le spalle, ma di certo aveva sentito.
«Ringraziarlo? Mi ha fatto malissimo!» obbiettò, guardando dove l’aveva colpita.
Con suo enorme stupore, si accorse che la scottatura stava sparendo
rapidamente. L’arrossamento sbiadiva, prendendo una
tonalità dorata. Soffiò sul dorso della mano e sul polso
senza provare il minimo fastidio. Si girò, ma lui aveva lasciato
la stanza.
«Pare che tu abbia una lista di debiti bella lunga»
buttò lì, con la tipica inflessione della nonna
consigliera.
Era vero. Da giugno aveva accumulato nei confronti di Ang un elenco di
“pagherò” piuttosto consistente. Prima i gelsi da
spostare, poi le notizie sui residenti, il difenderla dal dispotismo di
Carew, i piccoli gesti gentili che le riservava ogni giorno, compresi
quelli che la mettevano in imbarazzo. Meritava d’essere
ringraziato, era indubbio. Era il modo che la lasciava perplessa.
Un bacio. Un bacio che, supponeva, non si sarebbe fermato alle labbra.
Non era certa di poterlo fare. Era una cosa che andava contro i suoi
principi: mai baciare un ragazzo da cui non era attratta. Dopo tutto,
si conoscevano da poco tempo, Ang sembrava provocarla deliberatamente
su quel fronte, non c’era niente di serio fra di loro. Ma davvero
le cose stavano così? Angelo non le piaceva? Nemmeno un pochino?
Eppure, quando le aveva fatto quella battuta sulla mora di gelso, non
si era strozzata per quel che aveva detto. Era trasalita notando quanto
fossero belli i suoi occhi, nerissimi e luminosi. Iride e pupilla
sarebbero state indistinguibili senza quel lievissimo anello verde
pallido a dividerle. La stessa sfumatura che aveva la sua pelle quando
era all’ombra o la sera, quando sedevano tutti insieme nel
cortile, chiacchierando o ascoltando i racconti di gioventù
della cuoca. Segno dei natali elfici. Perché si agitava tanto
quando si avvicinava? Non era timidezza, aveva avuto altri ragazzi in
passato.
«Beh, erano umani, Ang no» constatò, eppure le sembrava solo un’inutile scusa.
Sbirciò nelle scuderie. Sapeva che Ang faceva sempre un giro
dopo cena, per controllare se Malcanto doveva uscire e se gli altri
cavalli stavano bene. Era al box dell’Incubo e gli stava
sistemando un anello di gomma intorno al muso. Con una boccaccia come
la sua, qualunque tipo di morso sarebbe stato inutile. Aveva anche
assicurato una sella sul dorso possente della creatura.
Si avvicinò strisciando i piedi sul cemento, sentendosi molto sciocca.
«Esci?» domandò, la risposta davanti agli occhi.
«Faccio un salto in paese a farmi una birra»
Scorse un’ombra di dispiacere sul viso dell’Archimaga.
«Non ho detto che voglio andarci da solo» specificò.
***
Isadora saltellava sulla ghiaia, facendo scappare Galileo. Il poverino
sperava di evitare un nuovo volo e soprattutto un abbassamento di
temperatura che, nonostante la calura di quella fine agosto, avrebbe
evitato volentieri. Se ne era stato tutto il giorno a poltrire beato
nello studio, ascoltando Jarvis girare le pagine del quotidiano ed i
fogli ammonticchiati su un angolo della scrivania. In quella stanza
faceva una temperatura piacevolissima, né troppo calda né
troppo fredda, e soprattutto c’era tanta quiete. Invece quella
bambina trasparente era gelata come le mattine di dicembre, quando la
neve gli si appiccicava alla pelliccia ed il vento gli faceva
arricciare i baffi.
Rapido, s’intrufolò fra i battenti della rimessa e di
lì, sotto la berlina. Di sera era sempre un ottimo posto per
trovarci qualche topolino troppo ardimentoso o degli stracci sporchi a
cui tendere agguati. Non aveva fatto i conti con la presenza dietro di
lui.
«Ga-li-leeee-oooo!» chiamò. «Vieni, micio, vieni! Giochiamo!»
Tentava di far schioccar le dita per richiamare la sua attenzione, come
faceva Romilda, ma non le riusciva di emettere alcun suono.
Indispettita, s’inginocchiò infilando la testa sotto al
pianale dell’auto. Il gatto avanzava ventre a terra ed aveva
superato il blocco motore.
«Vieni! Voglio giocare!» strillò, allungando la mano per afferrarlo.
L’animale si volse, gli occhi lampeggiarono un istante prima che riprendesse la fuga verso il fondo del deposito.
«Galileo! Vieni qui! Ubbidisci!» sbraitò spazientita.
Decisa a non rinunciare al suo giocattolo vivente, Isadora
penetrò a carponi nella carrozzeria, inseguendolo. Passò
attraverso motore, cruscotto, cambio, sedili anteriori. Stava per
tuffarsi fra l’imbottitura delle sedute dei passeggeri quando una
forza l’afferrò alle caviglie, trascinandola indietro,
facendola finire lunga distesa mentre si dibatteva e gridava.
Vide Jarvis sulla porta mentre abbassava la mano, stretta in una sorta
d’artiglio. L’aria sfrigolava d’incantesimo.
«Fuori di qui» ordinò, lo sguardo fisso sulla carrozzeria coperta da una fitta condensa.
Sdegnata, la piccola si rialzò, sistemò l’abito ed
uscì nel cortile, fermandosi a pochi passi da lui. Con una
piroetta tornò a guardarlo mentre chiudeva il portone con un
catenaccio. Galileo era rimasto all’interno, ma poco importava:
sarebbe uscito da una delle finestrelle sul retro, quella con la
reticella strappata. Isadora però non poteva raggiungerlo: il
chiavistello emanava una tenue luce paglierina. Era una chiusura
fatata, non poteva più mettere piede là dentro.
«Io voglio giocare col gatto!» urlò.
Ovviamente la scenata non ebbe il minimo effetto su Jarvis, che con molta calma si diresse all’arcata d’ingresso.
«Trova qualcun’altro» borbottò.
«Amelia non c’è» piagnucolò Isadora,
incrociando le braccia e mettendo il broncio. «L’hai
mandata con Ang! È colpa tua se non posso giocare! L’hai
fatta andare via! Lei deve stare qui con me a giocare!»
L’uomo si fermò, rigirando tra le dita la sigaretta che
aveva appena estratto dall’astuccio d’argento. Già,
avrebbe dovuto restare alla villa. Era la seconda volta che le
concedeva d’allontanarsi. Si era lasciato convincere per non
ascoltare le noiose moine dello stalliere. Non gli andava di sopportare
i suoi slanci amorosi. Gli davano il voltastomaco. Aveva ben altro a
cui pensare.
Superò il portale in uno sbuffo di fumo, sordo ai pianti del fantasma e al miagolio dei gatti che le facevano eco.
***
Avevano trascorso la serata nell’unico pub della cittadina, dal
pretenzioso nome di “Osteria dei Sette Peccati”.
L’unica perversione riscontrabile era quella di cameriere ed
avventori di parlare in dialetto stretto, impedendo ad Amelia di
comprendere anche solo una sillaba di quel che dicevano, perché
era chiaro che parlavano di loro due.
Loro invece erano rimasti tranquilli a chiacchierare della cavalcata su
Malcanto, che per Amelia si era rivelata meno spaventosa del previsto.
Nonostante la velocità folle del destriero e i suoi versi
agghiaccianti, era stata una corsa quasi divertente. Tanto da spingerla
ad ordinare una crema whisky per riprendersi.
«Che c’è? Non ti piace qui?»
«No, il posto è carino, solo… quella ti ha chiamato Lello!» bisbigliò risentita.
Al giovane venne da ridere.
«Gelosa?»
«Ma… cosa ti salta in testa?!?» si schermì,
recuperando la tonalità della scottatura. «No, è
che… Angelo è un bel nome, quel diminutivo fa
schifo»
Lui fece spallucce, allungandosi sul divanetto.
«Può chiamarmi come le pare, tanto non mi chiamo Angelo»
«Come? Ma… Romilda… lei…»
«Oh, la nonna mi chiama Angelo per comodità. I nomi elfici
la mandano in confusione, scambia le sillabe e spara parolacce senza
accorgersene. L’ultima volta, leggendo il nome di un vino elfico,
ha dato al Duca del “mangiatore di verruche di troll”»
Lo ricordavano tutti, era la barzelletta della villa. Per fortuna il
Duca era un uomo di spirito e non se l’era presa. Al contrario di
Jarv, che al solito aveva fatto una tirata alla donna per la sua
distrazione. La rampogna era durata venti minuti, pur senza che alzasse
la voce, ed era terminata con Romilda che annuiva affabile. Sembrava lo
pigliasse per i fondelli, invece era serissima: non aveva più
tentato di parlare una lingua diversa dalla propria.
«Quindi, Ang non è un diminutivo?»
«Certo che è un diminutivo, ma non di Angelo»
«E, quale sarebbe il tuo nome signor elfo misterioso?»
Le fece segno di avvicinarsi, come se si trattasse di un gran segreto.
«Angheledrior» le sussurrò all’orecchio.
«Angheledrior» ripeté.
«Mmm, come lo dici bene!» ammiccò, sinceramente colpito.
«So un po’ di elfico. Mi serve per alcuni incantesimi»
«I’lef nahat abiré?» chiese, per metterla alla prova.
«Ödi niamme. Ule memuet»
«Brava, sai anche eludere le domande!»
Amelia nicchiò, nascondendosi dietro il bicchiere.
«Ti chiedo quando hai intenzione di baciarmi e tu: “Stai
tranquillo. Lo farò”?» la stuzzicò, deciso ad
ottenere una risposta. «Allora? Quando?»
«Se me lo chiedi ancora cambierò idea»
«Eh, no! Non puoi rimangiatelo, fragolina! Mi sei debitrice e i debiti si onorano. Sempre»
«Sempre» concordò, levando il tumbler per un brindisi cui lo stalliere rispose prontamente.
***
Non erano ancora ai quattro pilasti, quando aveva cominciato a fare le
bizze, impuntandosi e nitrendo come un ossesso. I suoi versi facevano
accapponare la pelle. Ang aveva capito al volo: aveva fatto smontare
Amelia e l’aveva liberato dai finimenti. L’Incubo
aveva spalancato le terrificanti fauci, facendo stridere le zanne prima
di lanciarsi al galoppo nell’oscurità, silenzioso e
velocissimo.
«Cosa caccia? Nutrie?»
«Probabilmente qualche coppietta imboscata sul fiume. Alla peggio
un tossico o qualche clandestino» disse, caricando la sella sulla
spalla.
La notizia non era delle migliori e all’Archimaga
tremarono le ginocchia. Non solo dovevano rincasare a piedi a
quell’ora, correvano il rischio di fare incontri spiacevoli.
«Tranquilla. Andiamo in leprovia»
«In… che?»
«Come chiami un sentiero fatto dalle lepri? Leprovia. È sicura. Per di qua» sorrise prendendola per mano e incamminandosi.
Amelia rimase dov’era, spaventata dalle forme imprecise che la
notte disegnava lungo gli argini dei fossi e dietro le macchie di
sambuchi.
«Non accadrà nulla fragolina, siamo nei terreni del Duca. I suoi incantesimi ci proteggono da un pezzo» la rassicurò.
Incerta, si lasciò trascinare, seguendo la strisciolina di terra
battuta che si snodava lungo il maggese. Un iridescente quarto di luna
illuminava la via.
«E Malcanto cosa…?»
«Non ti piacerebbe scoprire come cacciano gli Incubi.
Vederli risucchiare le energie oniriche è qualcosa di cui si
può fare a meno» disse accovacciandosi. «Malcanto
tornerà da solo, conosce la strada»
La giovane non capiva con cosa armeggiasse.
«Mai camminato scalza nell’erba?» chiese, mostrandole le scarpe.
Immediatamente il suo sguardo preoccupato corse a frugare il campo.
«E se c’è qualche vetro? Qualche sasso? Le spine? Le ortiche?»
Lui scoppiò a ridere, divertito dai suoi timori.
«Vedo meglio di te al buio, ti dirò se ce ne sono, anche se dubito: i miei amici tengono tutto ben pulito»
«I tuoi amici?»
«Lepri, volpi, fagiani, corvi, talpe. Sono ottimi giardinieri, sai? Molto attenti»
Quando imboccarono la leprovia,
le vecchie scarpe di Amelia sbatacchiavano contro la sua gamba. Doveva
ammettere che la sensazione dei fili d’erba che le solleticavano
le caviglie non era del tutto nuova. L’aveva provata anche nelle
aiuole del condominio, da piccola, prendendo sonore sgridate per aver
infranto il divieto d’entrarci. L’erba di quel campo
possedeva però qualcosa di diverso nel frusciare, nella frescura
umida e tenera. Qualcosa di vivo e palpitante.
Villa dei Gelsi prendeva corpo ad ogni metro, staccandosi dal cielo
notturno. I tetti e le chiome dei gelsi erano bagnate d’argento.
«A chi arriva primo?» propose Ang, cominciando a correre.
Lo seguì senza pensare, dimentica delle paure. Sentiva che il
campo non l’avrebbe ferita come il sole. Uomini neri e punte
aguzze erano mutati in innocua vegetazione. Lo raggiunse, prendendo la
mano che le offriva. La leprovia proseguiva secondo andamenti indecifrabili, che solo l’elfo conosceva. L’Archimaga si sentiva bambina. Le pareva di volare sui terreni addormentati.
«Salta!»
«Cosa?!?»
Uno squarcio si aprì nel terreno e vi caddero dentro.
«Acqua! Acqua! C’è l’acqua!» strillò, le mani che cercavano a tentoni un appiglio sicuro.
«Lo so. È una roggia! Ricordi? Serve per irrigare…» rispose Ang, più in basso.
«Ho paura! Non so nuotare!» pianse.
Questo non l’aveva immaginato. Il gioco si era rivelato un pessimo azzardo.
«Non stiamo annegando» rise, ricomponendosi quando la
sentì tremare mentre s’aggrappava a lui. «Calmati, fragolina. Guarda, non sta succedendo niente»
«No!» singhiozzò terrorizzata, stringendolo ancor di più.
«Amelia?»
Abbarbicata all’asciutto sulla sua spalla, osò aprire un
occhio. Erano immobili. Fermi e stabili come su un marciapiede. Solo
che al posto dell’asfalto c’era la superficie liquida del
canale, che scorreva placida sotto i piedi nudi di Ang.
«Visto?»
Arroccata sul garzone, incontrò il suo sguardo. Piccole stelle scintillavano al suo interno.
«Fifona» la canzonò, quando emise un sospiro
sollevato. «Dai, scendi. Tu e la sella siete pesanti»
Scivolò in basso, guidata e trattenuta dall’altro.
Sentì bollire la risorgiva sotto i talloni e per quanto fosse
frastornata, le venne da ridere. Restava abbracciata a lui, incapace di
reggersi da sola. Lo vide fare un cenno con la mano, ma quando
cercò a chi fosse rivolto, vide solo cerchi che si allargavano
nella corrente. Una rana? Un’ondina?
«Scusami. Il fatto è che quando vedo l’acqua perdo
la testa. Ho paura. Non so come faccio a non affogare nella
vasca» confessò, parlando contro il suo petto.
Ang la tenne stretta, cullandola.
«Sei buffa, fragolina. Non hai paura di parlare ai fantasmi o di maneggiare pericolosi incantesimi, ma guai all’acqua»
Non la stava prendendo in giro, lo capiva dal suo tono e dalla mano che le accarezzava la schiena.
Lo guardò. Il sangue elfico lo rendeva un’ombra
evanescente e smeraldina nella notte di velluto, eppure la sua parte
umana ne manteneva la concretezza, la fisicità, dicendole che
non era un’apparizione. E il suo odore dolciastro, di fieno e
cuoio, si mischiava a quello delle erbe acquatiche intorno a loro.
«C’è altro di cui hai paura?»
Lei annuì.
«Cosa?»
«Di chiederti se posso pagare adesso i miei debiti. Non
affondiamo se ti deconcentri, vero?» chiese, fissando preoccupata
il fondale.
«Scoprilo» rispose, chinandosi appena.
Si sollevò sulle punte quel tanto che le bastava per raggiungere
il suo viso, seminascosto dal braccio che reggeva ancora la sella.
Nell’attimo in cui sfiorò le labbra dell'elfo,
ebbe l’impressione che una brezza tiepida l’attraversasse e
che mille mani le sfiorassero l’anima. Un canto le risuonava
lieve in testa, spandendosi in ogni fibra del suo essere che rispondeva
vibrando, quasi fosse divenuto la cassa armonica di
quell’agognato contatto. Percepiva il respiro di Ang lungo la
guancia, il movimento delicato della sua bocca accompagnare la mano che
le accarezzava la schiena.
Nel cielo, la luna e le stelle avevano rallentato il passo, complici.
Amelia si scostò, sorridendo inebriata ed insoddisfatta. Angheledrior l’aveva baciata solo sulle labbra.
Nonostante le vacanze appena iniziate, eccomi qui! Puntuale! Un grazie
anticipato ai lettori del mese di agosto: suppongo sarete pochi, ma
buoni!
Aspetto i vostri comenti vancazieri!
Per Gaea: beh, fortunatamente
non ero mai stata minacciata a quel modo. Le suore del mio oratorio
erano decisamente più soft, e non c'era bisogno di inventare
scuse: erano molto comprensive. Amelia non è proprio uno
zerbino, calma! Il fatto che sia molto buona no vuol dire che sia anche
una perdente...
Per Emyrs: ovvio che Ang e
Jarvis sanno con cosa hanno a che fare, ma... perché tu possa
scoprirlo occorrerà ancora un poco. Vedremo se la tua teoria
sullo spirito (ma è uno sprito? Mah!) è corretta.
Per Alicia84: ben ritrovata! Sono contenta di sapere che la storia è in linea con le tue aspettative.
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Capitolo 10 *** Tavola IX - Primo avanzamento lavori ***
Tavola IX - Primo avanzamento lavori
Una faccia rugosa e grondante sudore apparve sotto al malconcio cappellino di paglia.
«Angelo!» salutò dalla cabina del trattore.
«Come va, Mino? Tutto bene?» chiese, arrampicandosi sulla scaletta incrostata di sterco essiccato.
L’uomo ripartì alla testa del gruppetto di trattori,
attaccando una filippica sul quanto l’estate fosse stata
maledettamente calda e senza pioggia, un vero disastro per tantissimi
suoi amici e colleghi. Ma che il diavolo lo portasse, proprio non
capiva come fosse possibile che i campi del Duca sembrassero sempre
dipinti col pennello. Il tutto nel dialetto stretto locale. Amelia
sarebbe impazzita per cercare di capirlo.
Mancando la maniglia di sostegno, Ang si reggeva al bordo del
finestrino laterale col rischio di chiudercisi le dita se l’unica
molla superstite avesse deciso di cedere durante il viaggio.
Cercò di respirare a fondo, reprimendo le vertigini. Non si
sentiva a suo agio su quel mezzo. Il rumore della meccanica e il lezzo
dello scarico gli davano sempre un gran mal di testa. Era tutto
innaturale, rigido, freddo, vuoto. Persino i residui di sporcizia che
si accumulavano negli angoli diventavano polvere morta quando toccavano
quell’affare.
Mino intanto aveva continuato a discutere da solo, le parole che si
accavallavano e mischiavano al ruggito rauco del motore. Ogni tanto
qualche sillaba schizzava più alta, a rimarcare dettagli che Ang
faticava a collocare nella fiumana dei borbottii.
«M’hanno detto che c’hai la donna» ciancicò.
Come correvano le voci! Erano stati visti in pubblico una sola volta,
circa un mese prima e senza che si trovassero in atteggiamenti intimi,
e già la gente aveva tratto conclusioni.
«Ci stiamo conoscendo. Non c’è niente di serio per
il momento» rispose, osservando il paesaggio svanire nella scia
di polvere sollevata dalle ruote.
«Fa la serva lì a casa?»
«No, studia il palazzo. Deve sistemarlo per il Duca. Sai,
ristrutturazioni, cose così» spiegò, gettando uno
sguardo carico di desiderio ad una macchia d’alberi. Ombra,
frescura, vita.
«Giometra?»
La storpiatura lo fece sorridere.
«No»
«Gegnera?»
Questa era pure più divertente, avrebbe dovuto ricordarsi di
raccontarla ad Amelia. Riuscì a sogghignare tra uno scossone e
l’altro del trattore. Doveva fare qualcosa per quella sterrata,
aveva bisogno di essere rimessa in sesto.
«Nemmeno»
«Coso lì… come si dice? Il chitetto?»
I capogiri cominciavano ad assillarlo e combinarli con una risata non
era consigliabile, visto il suo precario equilibrio. Fece un cenno
simile all’assenso, pregando non insistesse. Non sarebbe riuscito
a dire architetto: sebbene molto vicina alla professione di Amelia, non
sarebbe stata la verità e lui non sapeva mentire. Meglio tacere
in quei casi.
«Allora c’ha i soldi»
«E se fosse?»
«Sposala. Così te te la godi e lei lavora. Quelle lì che studiano è meglio che lavorano loro»
«Perché?»
Non era sicuro di voler ascoltare la risposta. Di solito
l’agricoltore proferiva perle di saggezza di dubbio gusto e
sensatezza.
«Perché aprono le gambe e vanno avanti»
Scrollò il capo. Forse avrebbe dovuto farlo parlare con Gromi.
Avevano idee simili e guardandolo distrattamente poteva assomigliare ad
un nano sbarbato. Tozzo e nerboruto, con grandi mani a badile e occhi
porcini. Sostituirlo al fabbro nella spelonca sarebbe stato fin troppo
facile. Era immaginare Gromi alla luce del sole, col volto abbronzato
ed alla guida del mezzo agricolo che proprio non gli riusciva.
Arrivati al campo, Ang scese, grato di poter nuovamente avvertire la
linfa del mondo penetrargli con forza la pelle. Si sentiva rinascere.
Mino gli fece un fischio indicando il terreno accanto, dove le stoppie
del mais sporgevano dai solchi. C’era uno strano avvallamento su
un lato, in parte franato nel fosso.
Fece segno al contadino e a quelli che seguivano di procedere con la
preparazione del terreno per le semine autunnali, mentre andava a
controllare.
Era una buca enorme, almeno quattro metri di diametro. Sul fondo la
terra era smossa ed abbastanza screpolata per dire che versava in
quelle condizioni da un paio di giorni. C’erano tracce lasciate
dai corvi, venuti a banchettare coi vermi portati in superficie dallo
scavo e le zampate di una volpe curiosa. Scese cautamente lungo le
zolle, affondando fin quasi alla caviglia. Provò a fare un
salto. Un secondo. Reggeva. Appoggiò un mano, socchiudendo gli
occhi. Sotto di lui non c’era altro che calda terra rivoltata e
pietre. Non era uno camino verticale. Probabilmente era uscito di
sbieco, aveva dato un’occhiata ed aveva richiuso.
Girò lo sguardo intorno, in cerca di depressioni simili. Non se ne scorgevano.
«Dannato scavabuchi, è arrivato fin qui»
Pareva puntasse alle anse del Canale Torrino. Un indizio allarmante: il
fossato correva al confine della proprietà, portando acqua alle
coltivazioni. Le sponde erano dei semplici terrapieni coperti di
canneti e salici, facili da sfondare per uno capace di fare quei
lavoretti.
«Che cavolo gli racconto a quelli del Consorzio Acque?» pensò tra sé, temendo il peggio.
***
Sedevano nello studio del Duca, temporaneamente occupato dal maestro di
palazzo. Frasca doveva essere un grande amante della scultura,
perché non c’era un solo ripiano in tutta la stanza che
non fosse ingombro di figure di varie dimensioni e materiali. Veneri e
divinità si alternavano a creazioni futuriste ed astratte.
Sfortunatamente per lei, sia il suo committente che il signor Carew
condividevano l’identico vizio per il fumo, cui davano sfogo in
quel locale. Cosa che impregnava di un fastidioso olezzo di tabacco
bruciato ogni oggetto in quella stanza. A nulla erano valse le sue
gentili richieste perché smettesse, almeno in sua presenza: il
maggiordomo seguitava a fumare all’interno della stanza, anche in
quel momento.
«Analisi Storica, Relazione Tecnico-illustrativa dello stato di
fatto, Elenco dei Manufatti Incantati Primari, Stima del Livello
Magico, Valutazione Strutturale, Elementi di criticità, Tavole
di Rilievo per i Regesti Internazionali dell'Archimagia. E qui c'è parte degli incartamenti fittizi da inoltrare al comune
per la pratica edilizia qualora risultasse necessaria, compresi quelli anticipatamente predisposti
dal Concilio degli Archimaghi per bypassare Ministeri e Sovrintendenze varie» elencò Amelia, rileggendo svelta dai suoi appunti.
Jarvis posò la sigaretta e poggiò il mento sulle mani guantate, restando in silenzio.
«Mancherebbe solo di poter stilare il progetto»
sospirò lei, fissando lo sguardo su un pilastro dipinto accanto
alla libreria.
Evitò di aggiungere “finalmente”, come avrebbe
desiderato. Aveva imparato che con quell’uomo le parole andavano
centellinate ed espresse solo dopo attenta valutazione
dell’intento da perseguire.
«Vorrei visionare i documenti» ordinò, mescolando fumo e parole.
Amelia tossicchiò, voltando il portatile a suo favore, ma gli occhi bruni lo degnarono solo di una rapida scorsa.
«I documenti, prego» ribadì.
«Signor Carew, ce li ha davanti… Tutti i file che ho elencato sono aperti sul desktop»
Di nuovo uno sguardo sfuggente. La tecnologia era decisamente un
argomento che i maghi deprecavano ed evitavano d’affrontare. Per
la maggior parte di loro, quegli oggetti erano solo inutili
cianfrusaglie e non poteva dargli torto, specie quando il sistema
s’inchiodava nel bel mezzo di un’elaborazione.
«Va bene» rispose, riportando lo schermo verso di
sé. «Se può attendere un secondo, le darò la
chiavetta»
Batté rapida sui tasti i comandi di salvataggio e copia. Non
aveva nessun mezzo di riproduzione cartacea, avrebbe dovuto chiedere di
portarli egli stesso in una copisteria, visto che si era prefissa il
traguardo di una terza uscita solo per il mese successivo e sempre a
scopo guardaroba. Preferiva evitare di scontrarsi un’altra volta
con i diktat che le aveva imposto, soprattutto se per mantenervi fede
poteva obbligarlo a scomodarsi in prima persona. Se lei doveva
continuare in un lavoro zoppicante, allora tanto valeva che pure il
facente veci si prendesse un po’ di disturbo per compensare.
Stava per dare il comando di rilascio della pendrive quando vide il
maggiordomo allungare la mano, l’aria vagamente risentita. Un
istante dopo la ritraeva stretta attorno ad un consistente numero di
fogli. Mezza risma come minimo, dai conti che aveva fatto.
Allungò il collo oltre lo schermo, perplessa.
«Ecco… sì, potevamo fare anche così»
Vederlo materializzare quel malloppo di carta dal nulla le aveva
suscitato una certa invidia. Quanti soldi avrebbe risparmiato in quegli
anni, se non avesse dovuto usare una stampante?
«Le farò sapere» disse, appoggiando il plico sulla scrivania.
Era il suo modo per congedarla. Non quella volta.
«Sono parecchie pagine. Le occorrerà qualche giorno per leggerli tutti»
«Con ciò?»
«Con ciò… pensavo di passare alla Tavolozza Cromatica»
«Di che si tratta?»
Non gli interessava saperlo, o per lo meno era questa l’idea che dava, cercando di dividere i diversi fascicoli.
«È lo studio delle tinte. In questo caso, analizzerei sia
quelle delle pareti esterne che quelle degli affreschi»
«È necessario?»
«Direi fondamentale, per restaurare le pellicole pittoriche e
riportarle all’originale. Vorrei anche dare un’occhiata
alla torre, se fosse possibile» s’affrettò ad
aggiungere.
Per quanto si fosse intestardita a scovare l’ingresso alla
colombaia, le sue indagini avevano prodotto un buco nell’acqua.
Ogni traccia, ogni ipotesi, avevano portato a vicoli ciechi.
«Non credo proprio»
«Immaginavo. E… le cantine?»
Quella richiesta sembrò aver dato una scossa a Carew che
abbandonò i documenti, fissandola con le palpebre leggermente
più sollevate del solito. Lei ebbe un moto d’orgoglio:
stava imparando a farlo reagire.
Neppure di quelle aveva trovato l’entrata. O meglio, una
l’aveva trovata: stando ai documenti era stata murata alla fine
dell’Ottocento e nascosta costruendovi intorno un ripostiglio.
Amelia però conosceva un altro ingresso, questo funzionante: si
trovava nella rimessa, ma l’auto vi stazionava sopra inamovibile.
«Quali cantine?» domandò vago il maggiordomo.
«Quelle che passano
sotto la cucina, raggiungendo i bracci est e nord della villa. Non mi
dirà che non esistono, ci sono le bocche di lupo che affacciano
lungo la scarpa del basamento» osservò furbescamente.
«Non sono un luogo adatto a lei» replicò atono.
«Ragni e topi non mi spaventano, se è questo che vuol dirmi»
Esitò, dandole l’impressione che stesse per dire qualcosa
di poco piacevole. Invece cambiò discorso, tornando ad indossare
la consueta maschera da sfinge.
«Sappia che il Duca si dice estremamente soddisfatto del suo operato» e tese una busta, chiusa con ceralacca blu.
Dentro c’era l’attestazione di versamento del suo primo compenso.
***
Un rigagnolo di pioggia scendeva dall’entrata, disegnando
cascatelle su ogni singolo gradino. Mentre raggiungeva il fondo del
passaggio, trascinava con sé polvere e sporcizia depositata da
mesi di afa e silenzio.
Gromi buttò sul tavolaccio un mucchio di anelli neri ed opachi.
Ang ne prese un estremità con la punta delle dita. Erano sottili
come giunchi.
«Non ci siamo dati molto da fare, eh?» lo derise.
«Cosa ne vuoi sapere tu, che fai le ghirlande coi fiorellini di
campo? Smidollato buono a niente! Lì dentro c’è
tutta la sapienza nanica dell’arte del forgiare catene!»
ruggì il fabbro piuttosto offeso.
«Allora, non è tanta roba» sghignazzò,
schivando di un pelo qualcosa che l’altro gli aveva tirato.
«Bastardo, figlio d’un…»
«Reggerà?» proruppe Jarvis.
Il suo abito nero era a malapena distinguibile dai muri coperti di fuliggine.
«Che domanda è? Certo che reggerà! L’ho fatta io con budella d’orco e sangue di Idra. Voi due buoni a nulla piuttosto, siete capaci di usarla?» insinuò malevolo.
«Ce la faremo. L’importante è che poi la smetta di
andarsene a zonzo. Sta facendo troppi danni» sbuffò Ang,
giocherellando con il mantice.
«Non siete riusciti a tenerlo buono con niente!» protestò il nano.
«Lo abbiamo fatto girare in tondo» sibilò il maggiordomo.
«Ah, sì. Ho visto. Piote Vaganti*! Un’ideona. A chi
di voi due coglioni è venuta? Con quelli non servono!» si
lagnò, seguendo le dita dell’elfo indicare con insistenza
il mago.
«Era la sola opzione in quel momento»
«Cazzate» grugnì, togliendo lo sguardo dalla faccia spigolosa di Jarvis.
Il nano non aggiunse altro. Quell’uomo lo metteva a disagio. Lo
aveva sempre trovato molto sgradevole per quel suo modo di fare
imperioso e saccente. Al tempo stesso lo temeva. Gli pareva di trovarsi
al cospetto del Monolito di Uq. Troppo oscuro per venerarlo, troppo antico per non considerarlo degno d’attenzione. Meglio mantenere le debite distanze.
«Andiamo stalliere, non deve arrivare al Torrino»
Mentre cercavano di caricarsi la catena sulle spalle, il nano sedette alla mola, facendola girare lentamente.
«Il capo lo sa?» s’informò.
«Non è il caso di tediare il Duca con queste sciocchezze» fece Jarvis, soffocato dall’aria stagnante.
«Il capo, non il padrone. La femmina» specificò e
dopo aver frugato nel grembiule da lavoro, allungò un
aeroplanino di carta, all’interno del quale c’era una
scritta:
La ringrazio molto per il suo lavoro. Archimaga Amelia Veneziani
«Me l’ha tirata giù un po’ di tempo fa. Chi gliel’ha detto che sto qui?»
Stava già guardando il colpevole, che abbozzò un sorriso sotto il peso del metallo tintinnante.
«Ha chiesto a chi avevo fatto fare il lucchetto magico per il suo
baule. Sai che non posso mentire. Le ho detto di non scendere. Come
volevi, no?»
«Fottiti, Mezz’Elfo»
mugugnò, guardando intorno come in cerca di qualcosa. «Non
voglio altre smancerie, chiaro?» bofonchiò seccato,
prendendo ad arrotare un coltello e sprizzando scintille ovunque.
«Non sono cose che la riguardano» disse Carew, rispondendo alla prima domanda.
«Nemmeno me, finché non ci ho quasi rimesso questo!»
e mostrò la fasciatura lercia che avvolgeva piede e caviglia.
«Stateci attenti. È femmina, e un capo femmina porta
guai»
Risalirono la scala, Ang senza riuscire a trattenersi dal ridere per l’imbarazzo del nano.
***
«Stanco?»
Il garzone sollevò il capo, strizzando gli occhi. Aveva cercato
di fare un pisolino dopo le ore passate a dare inutilmente la caccia a
quel rompiscatole. C’era Amelia sulla porta che conduceva nella
villa. Le sorrise.
«Eh, sì. Un po’. Ma che hai fatto? Sei tutta sporca» disse, notando lo stato pietoso dei suoi abiti.
«Tu invece sei fresco come una rosa, vero?» ribatté avvicinandosi.
Non le serviva pulire gli occhiali per notare quanto fosse imbrattato
di terra e sudore. Stava disteso a faccia in giù su un mucchio
di fieno, con indosso solo i jeans. Scarpe e maglietta erano finite sul
pavimento, in condizioni non migliori.
Malcanto si affacciò, masticando e sprizzando sangue sul
pavimento. Aveva deciso di assaggiare uno dei gattini nati
quell’estate e sembrava gradire lo snack. Quando mangiava aveva
un ghigno spaventoso, scopriva i denti aguzzi e le narici fremevano.
Gli altri cavalli si rigiravano nei loro spazi, innervositi dallo
spettacolo e dall’impossibilità di allontanarsi dal
raccapricciante compagno.
«Sono stata alla torre. Ho trovato l’entrata» fece lei trionfante.
Ang sgranò gli occhi, arrossati dal troppo sole.
«Dov’era?»
«Nello studio del Duca. L’ho notata due settimane fa,
quando Carew mi ha pagata. Sulla destra dello scaffale, quello alle
spalle della scrivania. Quando siete usciti sono andata là e
l’ho aperta. Non hai idea di che schifo ci sia sui
gradini… secoli di guano e piccioni morti! Però in
cima… ah, c’è una vista splendida!»
«Brava la mia fragolina!» sbadigliò, tornando a sprofondare in viso nel fieno.
«Sei proprio a pezzi» scherzò, ricevendo in cambio uno gemito.
Era la prima volta che le capitava di vederlo in quelle condizioni.
Incluso il fatto che fosse a dorso nudo. Lungo il fianco sinistro, fin
quasi all’ascella, c’era un disegno. Un tralcio
d’edera, fatto con inchiostro verde. Doveva trattarsi di un
inchiostro incantato, perché la resa delle sfumature era
assolutamente realistica, sembrava che la pianta fosse cresciuta
sottopelle. La tentazione di sfiorarla era enorme, ma nonostante i baci
che si scambiavano di tanto in tanto non si sentiva abbastanza sicura
da osare quei gesti. Anche se era certa che lui avrebbe apprezzato.
«È un tatuaggio?»
Lo stalliere sbirciò dal sotto il braccio.
«Un memento»
«Un memento?»
«Lo fece mia madre, perché non dimenticassi chi sono»
Era anomalo. Per quanto ne sapeva, gli elfi avevano una vera e propria
venerazione per la perfezione del corpo nella sua forma primigenia.
Aborrivano quel genere di “decorazioni”. A che pro
deturpare il proprio figlio a quel modo?
Amelia si accostò, abbastanza da udire il suo respiro.
«E chi saresti, Angheledrior?» sussurrò, guardandolo mettersi sulla schiena.
Pensava avrebbe sdrammatizzato con una delle sue solite battute, magari
sul quanto gli donasse quel po’ di pancetta che aveva o sulla
sericità della peluria del suo torace. Invece le prese la mano e
se la portò al centro del petto.
«Io sono questo. Né uomo né elfo e tutti e due insieme»
Era insolito da parte sua non strapparle un sorriso. Almeno quanto era
insolito quel contatto così intimo e innocente. Amelia avrebbe
dovuto sentirsi a disagio, ma non lo era affatto. Le piaceva il tepore
della sua pelle.
Stava per domandargli cosa intendesse dire, quando la scuderia prese a
vibrare e sussultare. Ang, fulmineo, saltò a terra e
trascinò la giovane sotto l’architrave, tenendola stretta.
Gli attrezzi si staccarono dai ganci e i finimenti presero a tintinnare
contro i muri della selleria. I cavalli nitrirono impennandosi e
scalciando. Malcanto lanciò un grido acutissimo raspando il
pagliericcio.
Com’era iniziata, l’oscillazione cessò. Occorsero
lunghissimi minuti perché la quiete tornasse nella stalla.
Dopo essersi assicurati a vicenda di star bene, l’Archiamga
e lo stalliere si sciolsero dall’abbraccio. Con pochi gesti e
brevi formule, Ang rimise a posto ogni cosa. Guardò nel box
accanto a quello dell’Incubo.
La giumenta all’interno tremava ed era fradicia di sudore. Sotto
di lei, una forma di un pallido azzurro stava svanendo rapidamente.
Somigliava ad un puledro non del tutto formato. Il puledro che
Malcanto aveva affidato a Calpurnia. Gli Incubi
non si accoppiavano tra loro: cercavano un essere in cui far crescere
una parte di loro stessi come un’entità parassita. A
giudicare dalle dimensioni, Calpurnia doveva essere stata coperta da
non più di due settimane. Lo spavento aveva interrotto il
fragilissimo legame tra i due ed il piccolo era letteralmente colato
fuori del corpo della madre-ospite.
L’elfo strinse le mani sulle sbarre della porta, poggiandovi la
fronte. Sospirò abbattuto. Aspettava da tanto di veder nascere
un piccolo Incubo. Malcanto era sempre stato tremendamente schizzinoso con le sue compagne.
«Ang… mi dispiace» disse Amelia accarezzandogli i capelli.
«Fragolina, sai dov’è Jarvis?»
***
Romilda si strinse meglio nello scialle.
«Perché fa così?» piagnucolò Isadora.
Da un po’ di tempo a quella parte era diventata molto capricciosa
e le sue lagne davano sui nervi a tutti. Quella notte, non riuscendo a
trovar nulla di meglio da fare, era andata ad interrompere il sonno
della cuoca. La donna, arresa, sedeva sulla misera brandina che aveva
per letto, ascoltando pazientemente le infantili rimostranze.
«Su, signorina. Non è il caso di prendersela a questo modo» l’ammonì.
«Ma… ma…»
«Amelia è grande. E i grandi hanno bisogno di stare fra di
loro. Non può stare attaccata alle tue gonne per farti piacere.
Deve lavorare e fare quello che pare a lei. Non solo farti
giocare» la rimproverò bonariamente.
Far ragionare quella piccina era complicato di giorno, figurarsi nel cuore della notte.
«Lei è mia amica! Deve stare con me! E non deve fare
quelle cose con Ang» protestò disgustata, facendo una
smorfia.
«Cose?»
«Sì! Sai cosa fanno?» bisbigliò facendole
segno di avvicinarsi, quasi stesse per rivelarle un gran segreto.
«Si baciano! Qui!» e s’indicò la bocca.
Romilda si finse sorpresa. Se solo quella bambina avesse potuto crescere, non l’avrebbe trovato tanto assurdo.
«Sì! E fanno così» insisté, allungando
le labbra e facendo dondolare la testa da un lato all’altro.
La sua manifestazione d’orrore venne interrotta dalle cameriere che entrarono di corsa.
«L’avete sentito? L’ha fatto ancora!» ansimò terrorizzata Luisa.
«Perché Jarvis non fa niente? Vuole che ci cada in testa la casa?!?» intervenne Francesca, ormai isterica.
Pochi attimi prima il pavimento aveva tremato, anche se con meno intensità rispetto al solito.
«Coraggio,» sospirò Romilda levandosi e uscendo
dalla stanza, «andiamocene in cucina a fare un the. Credo ne
abbiamo bisogno»
*Piote vaganti: creature simili a zolle erbose che provocavano lo smarrimento dei viandanti che, inavvertitamente le calpestavano.
Sfuggendo al richiamo delle sirene di omerica memoria, eccomi a voi con questo nuovo capitolo!
Buone vacanze a chi è in partenza e a chi c'è già
e buona lettura a chi è sul sito, ovunque si trovi!!!
Per Gaea: spero che l'attacco
di smileite ti sia passato e... sì, mi hai già detto
quanto ti piace Isadora. Immagino lo ribadirai anche questa volta.
Per Emrys: come vedi il Talpiddu (ahahahaha! Come mi piace chiamarlo così!) sta ancora facendo danni. E l'assillapapere (ma come le trovi queste definizioni? Sono stupende!!!) come vedi, insiste pian piano nelle avances!
Per Alicia84:
immaginavo non avresti approvato il taglio sul bacio, ma che ci vuoi
fare? Sono un po' perfida... Per tua informazione, e col rischio di
darmi la zappa sui piedi, ti annuncio che Vorticillo tornerà a
farsi sentire.
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Capitolo 11 *** Tavola X - Nuovi elementi di progetto ***
Tavola X - Nuovi elementi di progetto
Schiacciata contro il
muro con le ampolle strette al petto, Amelia trattenne il respiro. Un
grosso muso era emerso dal sotterraneo, dopo aver colpito un paio di
volte i battenti della botola facendoli quasi saltar via dai cardini.
Assomigliava ad uno scudo medioevale, convesso, scuro e pieno di
scalfitture, sotto al quale spiccavano tre coppie di occhi gialli. In
quel momento, ciascuno di essi puntava in un direzione diversa,
procurandole un forte senso di stordimento.
«Ecco cosa faceva tremare la villa» pensò, le orecchie che fischiavano per la tensione.
Per settimane si era interrogata su quelle scosse telluriche, che un
paio di volte l’avevano fatta svegliare di soprassalto nel cuore
della notte. E proprio quel giorno, quando aveva potuto approfittare di
un’assenza del maestro di palazzo per utilizzare la rimessa come
laboratorio per i suoi intrugli, ecco che incontrava la causa di tutto
quel trambusto. Per una volta che non aveva cercato di ficcare il naso
in faccende che le erano state precluse, la faccenda andava da lei!
La testa emerse per intero, lunga almeno un braccio. La creatura
fiutò forte, riordinando ad una ad una le pupille nella stessa
direzione. La stava osservando. L’Archimaga non si mosse di un millimetro.
Rimasero immobili per un tempo indefinito, prima che il grugno tornasse
ad inabissarsi nella cantina, urtando le pareti del passaggio. Forse
l’aveva trovata piuttosto insignificante, indegna d’essere
presa in considerazione. Non poteva dire di non esserne lusingata.
Riuscì a riempire d’aria i polmoni, che gridavano vendetta
per la lunga ed imprevista apnea. Diede un’occhiata alle fiale
che teneva ancora in mano e al resto degli ingredienti sparsi a terra.
Ogni cosa era ancora in perfette condizioni, pronta per essere
utilizzata.
Un tuono. Uno di quelli che esplodono fragorosi sopra il tetto di casa,
sprigionando un’onda d’urto tale da sentirla passare. Era
l’unica cosa a cui poté paragonare il suono di quella
massa schizzata fuori dal sottosuolo con un salto e che ora impediva
alla luce di entrare dalla porta. Era gigantesca ai suoi occhi, anche
se in realtà non doveva arrivare ai due metri e mezzo di
altezza. La livrea squamosa si componeva di varie tonalità di
grigio e marrone, facendola assomigliare ad un masso erratico piombato
lì da chissà dove.
Quando si sollevò sui posteriori, sfiorando con la testa le
travi del soffitto, notò un collare metallico da cui pendeva il
moncone di una catena. Un filo di ragnatela se rapportata alla mole
dell’essere che avrebbe dovuto trattenere.
La coda era molto buffa: una sorta di minuscola appendice puntuta,
decisamente corta rispetto al corpo massiccio. Le quattro zampe
terminavano con artigli tozzi, grandi quanto il suo palmo, che di buffo
non avevano assolutamente niente. Li sentì stridere mentre si
girava, tornando a puntarla. Emise un verso basso, simile ad un
muggito, che fece tremare i vetri della finestrella sopra di lei.
«C-ciao, b-bello» biascicò, dandosi della pazza.
Salutava quell’affare? Avrebbe dovuto darsela a gambe! Come
poteva essere era tanto stupida da dire ciao ad un drago di caverna?
Il rettile avanzò di un passo, tornando ad annusarla.
Spalancò la bocca, mostrando i denti piatti e una larga lingua
scura, lanciando nel contempo quello che aveva tutta l’aria di
essere un rutto. Il suo fiato odorava di terra e radici. Amelia
pensò che con una simile dentatura non poteva trattarsi di un
carnivoro. E c’era quella placca sul cranio, che pareva fatta di
metallo. L’aveva vista da qualche parte, era familiare. E il
corpo massiccio, compatto, i quarti anteriori ben sviluppati…
«Un Becco di Ferro!» esclamò additandolo.
La sua voce dovette infastidirlo perché spalancò di nuovo le fauci, mugghiando e muovendosi per caricarla.
Amelia si rannicchiò strillando, temendo d’aver preso un
granchio e di essere prossima ad abbandonare la villa ed il mondo. Ma
non accadde nulla. Il cemento sotto le scarpe smise di botto di tremare
e l’animale sbuffò. Il respiro pesante del drago era
lontano circa un metro e mezzo. Possibile che il suo grido
l’avesse spaventato al punto di fermarsi?
Sbagliava. Di fronte a lei c’era la sagoma snella e nera di
Carew, la mano sinistra nuda e protesa in avanti. Fece appena in tempo
a scorgere una vena sul dorso che lui tornò a nasconderla nel
guanto.
«Grazie» mormorò sedendo con un tonfo, fischiandosene del fatto che non l’avrebbe ascoltata.
Jarvis non aveva fermato il drago, si era frapposto con un istante di
ritardo. Chi aveva fermato il rettile stava fuori, nel cortile,
chiamandolo a bassa voce. Una voce mai udita prima.
«Orlando? Orlando? Qui bello, qui! Lascia in pace la signorina. Non ha niente per te»
***
Sul cortile lastricato di Villa dei Gelsi, Isadora correva e
saltellava, chiamando a gran voce il drago che la inseguiva come un
cagnolino. Orlando, questo il suo nome, non era affatto un drago di
caverna, bensì di cava. Arrivava dall’Iglesiente, dove la
sua razza era stata impiegata fin dall’antichità per
l’estrazione dei metalli come il piombo e l’argento. Il
nome scientifico era sostituito dal più semplice Becco di Ferro,
per via dell’escrescenza cornea che creava una sorta di casco,
culminante in un rostro. Grazie a quello, potevano scavare e
raggiungere le pietre di cui si nutrivano, liberando i filoni per i
minatori che li accompagnavano. Amelia aveva letto un saggio
sull’architettura nuragica tempo addietro, dove erano indicati
come cesellatori dei monoliti impiegati per le ciclopiche costruzioni
preistoriche. Col passare dei secoli e la dismissione delle miniere, la
specie si era inselvatichita e aveva preso a crescere di numero,
spargendosi in tutto il sottosuolo sardo.
«Dovrei chiederle se Orlando l’ha spaventata, anche se mi
pare non sia affatto così visto che è riuscita persino a
salutarlo» sorrise ironico il Duca, aggiustando le lenti scure
sul naso.
«Si sbaglia, Duca. Mi ha spaventata a morte sbucando da quella
botola! Quando mi sono accorta di cos’avevo davanti però,
lei era già arrivato a salvare la situazione»
«Oh, la prego! Alla mia età non posso certo mettermi a
fare il paladino! Troppi acciacchi!» rise l’uomo prendendo
la tazza di the che Jarvis gli porgeva.
Amelia non poté fare a meno di pensare a quanto quei due
assomigliassero ad una illustrazione da libro di favole: un mago col
suo fedele corvo al seguito.
Il Duca era un ometto piuttosto in là con gli anni. Doveva
averne come minimo una settantina, ma lei sapeva bene che, parlando di
un mago, l’apparenza poteva ingannare. Era bassettino, un
po’ curvo, con radi capelli bianchi e la pelle macchiata in
più punti dalla vitiligine. Era leggermente claudicante dalla
gamba sinistra, cosa che lo obbligava a sostenersi con un bastone o al
braccio di Carew. Aveva perduto la vista da ragazzino, a causa di un
incidente durante i suoi primi addestramenti da mago, cosa che
mascherava con grandi occhiali neri. Ciò non gli aveva impedito
di condurre una vita normale e proseguire gli studi, diventando uno dei
nomi più importanti nella stregoneria contemporanea. Si muoveva
con una disinvoltura invidiabile dovuta all’abitudine ed alla
coordinazione che lo legava ai movimenti del maggiordomo. Il tutto
coadiuvato da un pizzico di magia.
«Ho portato qui Orlando dopo il mio ultimo soggiorno a Carbonia,
alla fine degli anni Sessanta. Era ancora un ovetto allora, sa? Lo si
poteva scambiare per quello di uno struzzo» raccontò.
«Posso garantirle che è inoffensivo, non ha nulla da
temere da lui. Ha solo il vizio di addormentarsi dove gli capita e per
questo non sappiamo mai dove riapparirà»
«Milord, il drago ha fatto più danni del solito» intervenne Carew al suo fianco, solerte e inespressivo.
«Suvvia, Jarvis, figliolo. Ha appena compiuto quarant’anni,
è diventato adulto! Stava marcando e disegnando il suo
territorio come è giusto che sia» lo giustificò,
quasi parlasse di uno dei gatti randagi dei dintorni.
«Distruggendo ogni cosa?»
Il Duca sorrise, dandogli leggere pacche sul braccio.
«Il mio caro Jarvis. Un po’ melodrammatico, non trova?»
«Melodrammatico?» chiese Amelia, guardandolo di traverso.
A lei sembrava tutto fuorché uno dotato di sentimenti. Certo, la
solerzia con cui si era preso cura del suo padrone era una
novità rispetto alla generale indolenza che riservava agli altri
abitanti della dimora. Tuttavia c’era poco di cui stupirsi: il
Duca era di fulcro della vita dei suoi dipendenti, come biasimare
quindi il suo valletto personale se lo preferiva al resto
dell’universo? Era un tratto quasi umano, per quello che la donna
chiamava in segreto “il ghiacciolo”.
«Deve perdonare la mia lunga assenza. Purtroppo si trattava di
ricerche estremamente complesse, mi era impossibile abbandonarle senza
rischiare di perdere dati di vitale importanza» si scusò
Frasca.
«La capisco benissimo Duca, anche i miei studi sulla villa sono stati piuttosto impegnativi»
«Confido che Jarvis le abbia fornito tutto l’aiuto necessario»
Le sarebbe tanto piaciuto dire di no, spiattellare la verità
allo stesso modo di Ang, linda e splendente nella sua cristallina
crudezza. Purtroppo non ne era capace e nonostante tutto, l’idea
che al servitore venisse fatta una bella tirata d’orecchi come
meritava, non l’allettava.
«Vede, io e il signor Carew abbiamo punti di vista divergenti
riguardo le priorità ed i valori da attribuire alle cose. Un
dettaglio che ha causato qualche incomprensione» spiegò,
rivolgendo uno sguardo eloquente al maggiordomo, che la ignorò
di proposito.
«L’ha danneggiata?»
«Danneggiata?»
Il pensiero corse subito all’intimidazione subita in auto, alla paura che le aveva messo addosso.
«Intendo dire, è stato scortese o poco disponibile ad aiutarla?»
Gli occhi verdi tentarono di richiamare quelli bruni, senza successo.
La rifuggiva, come ogni volta in cui gli era impossibile far pesare le
sue decisioni.
«Qualcosa del genere, ma suppongo lo facesse cercando di svolgere
al meglio il compito che lei gli aveva affidato alla sua partenza»
Le seccava difendere l’operato di quel musone, aveva fatto ben
poco per meritarselo, però doveva ammettere di pensarla davvero
così.
Il Duca fece un profondo sospiro, sistemando il cuscino su cui poggiava la schiena indolenzita dal viaggio.
«É veramente gentile, signorina. Proprio come mi aveva detto l’Archimago
Martini. Troppo, se mi consente. E tu sei il solito indisponente»
disse voltandosi verso l’interessato, quasi lo vedesse. «Le
domando perdono. In effetti le cose stanno come dice lei, Jarvis tiene
a compiacermi in ogni modo. È il mio servitore più
fedele, anche se talvolta questo suo modo di fare si tramuta in un
vergognoso paraocchi. Ora che sono qui, però, stia pur certa che
il giovanotto qui presente si prodigherà a darle tutto il
supporto necessario»
«La ringrazio molto, Duca»
«Ci mancherebbe! Io l’ho voluta qui e io porrò
rimedio a queste disdicevoli mancanze. Ora, vorrebbe illustrami quanto
fin qui prodotto? Cosa le hanno detto d’interessante in questi
vecchi muri?»
Amelia parlò per quasi due ore filate, ragguagliando con
entusiasmo il committente su ogni dettaglio dell’edificio. Le
stratigrafie murarie mostravano un’interessante commistione di
incantesimi leganti, che riuscivano ad unire saldamente murature
realizzate in più fasi; il basamento della colombaia era
sostenuto da un’arcata rinforzata con strisce di pelle di cervo
bianco imbevute d’incenso e lacrime di sirena; in alcuni locali erano presenti dei Portali di Zavarov
che non venivano usati da secoli e permettevano di spostarsi da un capo
all’altro dell’edificio compiendo un solo passo e via
discorrendo. Narrò dei sigilli sparsi ovunque, dei manufatti
incantati annegati nelle pareti, delle splendide pagine dei carteggi.
Il Duca annuiva, soddisfatto e interessato perfino alle minuzie.
«E… del giardino, che mi dice?» chiese ad un tratto con una certa ansia nella voce.
«Aspettavo la fine dell’autunno per rilevarlo senza le erbacce ad intralciarmi»
«La prego, potrebbe cominciare domattina? Glielo chiedo come
favore personale. Ho molti cari ricordi legati a quel posto e ci terrei
rivivessero al più presto. Possiamo rivedere il suo compenso con
qualche extra, se questa variazione le dovesse creare problemi»
Si sentì spiazzata dalla proposta. I clienti di solito cercavano
di portare al ribasso l’offerta economica, lagnando sulle spese
impreviste, mentre il Duca era ben disposto a sborsare ulteriori
denari. Doveva trattarsi di un sogno. Fingendo di pensarci su, si diede
di nascosto un pizzicotto sulla coscia. No, era tutto vero. Un sorriso
radioso si fece largo sul suo viso. Con tutto l’inverno a
disposizione, avrebbe potuto preparare un progetto di riqualificazione
del verde curato nei minimi particolari. E con l’aiuto di Ang, la
primavera ventura il suo mecenate avrebbe passeggiato nel giardino
della sua infanzia. La proposta era intrigante.
«Credo non ci sarà alcun problema, signor Duca, anche se
è presto per dirlo. Domani mattina provvederò ad iniziare
i rilievi e le farò sapere appena avrò un quadro della
situazione»
«Ottimo, mia cara, ottimo» esclamò, trovando e stringendo con calore la mano dell’Archiamaga. «E la prego, mi chiami Corrado. Signor Duca è così formale! E lei qui è di casa, ormai»
«Solo se mi concede di darle comunque del lei, per rispetto della
sua posizione e dell’età. E se mi chiamerà
semplicemente Amelia»
Aveva sempre desiderato di proporre una cosa del genere ad un cliente.
Trovava riducesse molto le distanze e permettesse un dialogo più
aperto e schietto, amichevole.
«Affare fatto, Amelia. Ed anche il nostro Jarvis! Smetti di
chiamarlo signor Carew, chiamalo per nome. Questa volta ti
obbedirà» scandì ad alta voce.
A quelle parole, l’uomo s’irrigidì e fissò il
padrone. Un misto di paura ed avversione tingeva il viso magro,
ombreggiato dai lunghi capelli scuri.
***
«Lurida bestiaccia, maledetta lucertola mangiasassi…»
La voce roca di Gromi rimbombava sulle scabrosità della caverna,
alternandosi al battere del maglio. Vedere la catena spezzata
l’aveva mandato su tutte le furie. Secoli di sapienza nanica
mandati in briciole nel giro di un paio di giorni. Non aveva sbagliato
niente, continuava a ripeterselo. Quella catena era assolutamente
perfetta, degna di Bekrados dal Grande Martello, capostipite di tutti i
fabbri degni di quel nome! Erano stati quei due incapaci ad aver
sbagliato qualcosa, dovevano averla chiusa male, rovinando gli anelli e
le ribattute, era la sola spiegazione possibile! Nessuno spezzava una
catena che lui aveva forgiato con scienza ed sudore! Neppure un titano!
«Ne hai per molto?» ridacchiò da un angolo lo stalliere.
Si voltò di scatto, pronto a menar le mani, ma il bancone da
lavoro li divideva e lui era troppo lento per aggirarlo ed acciuffare
l’intruso prima che questi si dileguasse.
«Per quello che mi occorrerà! E sta’ zitto! Brutto scavagallerie, ratto troppo cresciuto, squamoso rompicoglioni…» borbottò tornando alla sua occupazione.
Infastidito dai risolini alle sue spalle, menò un colpo tanto
violento che una scheggia schizzò via, piantandosi ancora
arrossata dal calore nella parete.
«Calmati, Gromi!» fece Ang, tergendosi il sudore.
Con la fornace accesa, l’aria all’interno della fucina era
più opprimente del solito. Anche standosene seduto ai piedi
della scala, dove un soffio d’aria fresca pioveva
dall’alto, non provava il minimo sollievo.
«Calmarmi?!?» tuonò, minacciandolo con la tenaglia
arroventata. «Tu cosa ne capisci di metallurgia?!? Tu che te ne
stai a chiacchierare con i fiorellini e le bestie! Sarà mica un
lavoro quello! Roba da femminucce!»
«Da elfi, vorrai dire» lo corresse, facendo l’occhiolino.
Il nano si appoggiò al bancone, dove Ang aveva deposto il
collare di Orlando ed i resti della catena che lui e Jarvis erano
riusciti ad agganciare dopo svariati tentativi.
«La mia opera… Vergogna! Vergogna!» mugugnò
scuotendo il testone arruffato mentre lasciava scivolare gli anelli tra
le dita callose.
Il metallo tintinnava come lacrime, freddo al tocco e incrostato di
fango. Aveva la sensazione di avvertire la tristezza di quel moncone,
il dolore della frattura. Una scaglia era rimasta incastrata
nell’anello più grande, quello che la collegava al
collare. Il nano la strappò via con rabbia. Stava per gettarla
nella cassa con le limature ed i rottami, quando ci ripensò e la
lanciò nel crogiolo. Prese una barra di ferro e spinse la lamina
grigia all’interno della massa fusa, la cui incandescenza solare
virò bruscamente al violaceo, ribollendo per qualche istante.
L’antro si fece scuro, poi tornò a riempirsi di riverberi
rosso-dorati. Il nano abbozzò un sorriso sotto la barba sporca e
ispida.
«Che farai con quella roba?» domandò Ang, allungando il collo.
«Quello che mi pare» ribatté, mescolando la lega metallico-cornea.
Gromi non rivelava mai quel che gli passava per la testa mentre
lavorava. E non certo per tirchieria o timore che i suoi segreti
venissero divulgati. Era il voto sacro dei fabbri: il sapere era a
disposizione degli allievi o di chi fosse interessato ad apprendere; le
idee no, in una sorta di rapporto intimo con la materia e le sue forme.
«Amelia deve cominciare col giardino. Vuole che l’aiuti a
riconoscere gli alberi e i cespugli» gongolò Ang
entusiasta, pregustando momenti di sacrosanta intimità, nascosti
fra le sterpaglie. «Poi si metterà a misurare i viottoli e
la fontana con quei suoi aggeggi strani. Le chiedo se te ne posso far
vedere qualcuno, ti va?»
Gromi si fermò di colpo, il pesante martello sospeso sopra la testa.
«La fontana? E di quella? Gliel’avete detto?» chiese indispettito.
Ang lo guardò interrogativamente, stupendosi di veder comparire i denti storti dell’altro.
«Quella chi?»
Dunque non sapeva degli incontri notturni del damerino con la bellona?
Interessante. Lui ne era al corrente da tempo e senza aver posto
domande.
«Il coso non ti ha detto nulla della sua amichetta?»
Gli era capitato di vederlo in quelle rare notti in cui metteva il naso
fuori dal suo buco, quando deviava l’acqua dalle vecchie condotte
per raffreddare la colata. Sempre in compagnia di quella tizia dai
capelli rossi e gli abiti discinti, là, dove le balze della
fontana toccavano il terrapieno. Sempre intenti nell’identico
passatempo, stesi a terra o in piedi: braghe calate e sottana alzata,
ansimando come ossessi.
«La puttana e la femmina, sarebbe da vedere» ghignò perfido, riprendendo a martellare.
***
Jarvis stava di fronte alla finestra dello studio. Il paesaggio fuori
della finestra era stato inghiottito dallo scorrere tumultuoso dei suoi
pensieri e dal tramonto. L’imprevisto rientro del padrone
l’aveva scombussolato. Essere impreparato era una cosa che
detestava. Amava avere il controllo, saper sempre ed esattamente
ciò che accadeva, dove e perché. Anche quando si trattava
di quell’anomalia arrivata da fuori per ordine del Duca. Quanto
accaduto in quei mesi con l’Archimaga
non lo preoccupava affatto: faceva affidamento su quella sua patetica
vena di altruismo e generosità che le frenava la lingua.
«Vorrei che ti dimostrassi un poco più gentile con la
nostra ospite. Non mi pare un impegno così gravoso per uno come
te»
«È per questo che mi avete ordinato di obbedirle?»
chiese, animando lo schienale del divano perché massaggiasse le
schiena indolenzita del vecchio.
«Avrei preferito evitarlo, ma le sue buone maniere non hanno
avuto l’effetto sperato su quella tua pellaccia di
diamante» mormorò tra bassi gemiti.
Era in quei momenti che tutto il suo sapere non alleviava il gravoso
peso dell’età. Non esisteva pozione o incantesimo capace
di donare l’eterna giovinezza.
«E poi chissà,» sorrise affabile, stropicciando le
palpebre vuote, «forse Amelia riuscirà a far cose per noi
impossibili. Dicono che gli Archimaghi abbiano questo dono»
Improvvisamente, il maggiordomo intuì qualcosa.
«È per questo dunque che l’avete fatta venire!
Perché li ritrovi!» ruggì, perdendo per un attimo
la solita calma olimpica.
Il viso era tirato in una smorfia che disegnava i profili aguzzi degli
zigomi e del mento. Il riflesso nel vetro lo disgustò a tal
punto da impedirgli di riconoscersi.
Il Duca scrollò il capo, dispiaciuto.
«Anche se fosse, vuoi dirmi cosa potremmo farcene?»
sospirò, rigirando il bastone da passeggio tra le mani.
«Né tu né io potremo mai più servircene, lo
sai bene»
Rimasero a lungo senza parlare, come spesso accadeva fra di loro. Il
sole cominciò a lasciare il posto alla prima sera. Si avvicinava
l’ora di illuminare la dimora.
«Quattro anni, Jarvis. Quattro anni» ripeté Corrado.
«Comportati a dovere con lei e forse potrai sperare nella mia
clemenza»
Il maggiordomo trasalì di rabbia e lo guardò, fragile e stanco all’altro capo della stanza.
«Clemenza? Voi mi parlate di clemenza?!? È a causa vostra
che sono confinato qui dentro! E fra quattro anni io…»
S’interruppe. Neppure lui aveva chiaro cosa sarebbe accaduto,
cosa avrebbe fatto. Dinnanzi a sé scorgeva un baratro che non si
sentiva pronto ad affrontare.
Aggiustò il bavero della giacca e si diresse alla porta, ricomponendosi dietro l’usuale tetraggine.
«Poco importa cosa avverrà di me fra quattro anni. Con permesso Milord, vado a disporre per la cena»
Il Ferragosto è appena passato, spero proprio che non vi siate
rimpinzati troppo così da non poter leggere questo capitolo!
Per Gaea: le ferie
termineranno questa settimana (dopo un anno che le aspettavo era il
minimo...), ma il mio fedele portatile mi aiuta con le pubblicazioni!
Mino come sostituto di Isadora? Ma no, dai. Sono diametralmente opposti!
Per Alicia84: hihihihi... come hai visto non era il mostro di Tremors. Per andare oltre ai baci, beh, vedremo...^^
Per Emrys: innanzitutto,
grazie per aver recensito e segnalato "Servi del potere". Leggere la
tua richiesta d'inserimento nelle Storie Scelte mi ha commossa! Non mi
sarei mai aspettata una simile sorpresa dopo i festeggiamenti del
Ferragosto! Bene, adesso sai cos'era il tuo Talpiddu! E mi fa piacere
sapere che Gromi riscuote un certo successo, pur essendo un brontolone.
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Capitolo 12 *** Tavola XI - Prima sospensione lavori ***
Tavola XI - Prima sospensione lavori
«Crede sia stata una buona idea?» domandò Romilda.
Il Duca annuì, tastando l’astuccio che avvolgeva il
sigaro. Era una sorta di gioco, una forma di conoscenza reciproca con
quello strumento di vizio e piacere.
«Se le fosse accaduto qualcosa, non me lo sarei mai
perdonato» sospirò, sollevato d’aver costatato il
contrario. «E poi, aveva bisogno di un po’ di vero riposo.
La domenica qui non le bastava più, era evidente. Sempre le
stesse persone, gli stessi posti. Non è mai troppo salutare
buttarsi a capofitto su un’unica cosa»
Detto ciò, ascoltò il ribollire del the sul fornello e
gli zoccoli della donna che sfregavano sul pavimento di cotto. Sarebbe
stato difficile per lui decifrare cosa fosse in preparazione basandosi
solo sull’olfatto: nella cucina gli odori si erano stratificati
negli anni, fusi, impastati. L’uno sfociava nell’altro.
«È una cara ragazza ed è molto presa dal lavoro. Ha
fatto un sacco di disegni strani, pieni di ghirigori. A te piacciono,
vero?»
«Sì, sì» pigolò Isadora, dondolandosi
su una sedia. «I disegni belli sono cose da femmine! Ha disegnato
anche me!»
Era molto orgogliosa del suo ritratto che campeggiava sullo scrittoio dell’amica.
«Quindi Amelia è una femminuccia perché fa dei bei disegni?» domandò divertito l’anziano.
«Non è una femminuccia! Lei… lei è
femminissima! E lui è brutto!» ghignò additando il
maestro di palazzo prima di scomparire.
Lui, tutt’altro che risentito dall’essere denigrato per la
scarsa avvenenza, si limitò ad accennare una smorfia.
Il the gorgogliò allegro nelle tazze fredde. Pareva che il gelo
di dicembre fosse riuscito a penetrare la coltre tiepida dei muri
per addensarsi unicamente sulle porcellane.
«Chissà perché diceva che non poteva andarsene.
Voleva tanto rivedere i suoi!» fece tra sé la cuoca,
prendendo posto accanto al padrone.
«Già, chissà perché…»
ripeté Corrado, udendo il servitore far cadere due zollette
nell’infuso.
Per un po’ il terzetto si abbandonò alla carezza del liquido ambrato, nel sottofondo ingolosente delle pignatte.
«Sei silenzioso, Jarvis» osservò ad un tratto il Duca.
Non rispose, spiando oltre la porta. Orlando se ne stava allungato
nell’aiuola, ronfando beato. Il suo respiro assomigliava alla
frana in un canalone di montagna. Le piante vibravano, scosse dal basso
russare. Ang, appollaiato fra i rami, parlottava con i gelsi.
«Romilda, come ha chiamato quella creatura, Amelia?»
«Idri…idrade mi pare»
«Idriade*?» propose.
«Forse. Sa che non ci capisco niente ed è meglio che sto zitta» ribatté, controllando il sugo.
«Non fa nulla. Grazie del the, Romilda» fece il Duca, allontanandosi al braccio del maggiordomo.
Attraversarono il silenzio del palazzo, intristito della caligine
pomeridiana, raggiungendo il salone nord. Una volta accomodatosi, il
nobiluomo recuperò dalla tasca il sigaro, accendendolo
lentamente. Assaporò dense boccate, dondolando la testa. Era
un’abitudine acquisita negli anni, che indicava a chiunque lo
conoscesse l’approssimarsi di un’idea.
«Un’idriade… Una creenea**,
forse?» azzardò meditabondo, il fumo che si confondeva ai
capelli. «Da queste parti non ci sono ninfe di quel genere da
almeno un secolo. Angelo se ne sarebbe accorto»
«Probabile» confermò il maggiordomo, lo sguardo sull’orizzonte mangiato dal crepuscolo.
«E non hai niente da dire?» insisté scettico.
«No»
«Jarvis, ti ordino di parlare»
L’uomo strinse i pugni e serrò la mascella, lottando per
restare in silenzio. Il Duca disegnò un minuscolo cerchio sul
palmo della mano, causandogli una fitta violentissima nello stesso
punto. Cadde in ginocchio tenendosi il polso e soffocando a stento un
grido. Un sudore gelido gli velò la fronte mentre fissava
furente il padrone che scuoteva il capo rassegnato. Detestava ricorrere
a quei metodi.
«Si chiama Lojana e… non ho idea di cosa sia. Mi è
impossibile capirlo. Sono privo di questo potere» sputò.
Soddisfatto, Corrado tolse il dito dal palmo.
«Come l’hai conosciuta? Mi pare d’averti sempre
sentito dire che rifiuti d’allacciare altre relazioni al di fuori
di quella che intercorre fra noi»
«Vorrei che i miei affari restassero…»
«Restassero tuoi soli? No, Jarvis, mi dispiace» disse, battendo col bastone sul tappeto.
Il maggiordomo cadde nuovamente a terra bocconi, questa volta a
dolergli era un ginocchio. Una lama rovente gli mordeva la carne
dall’interno.
«Il tuo silenzio stava costando la vita all’Archiamaga.
Non tollererò oltre il tuo mutismo, specie per quanto le
è accaduto. Anche perché tu, farai in modo che non capiti
di nuovo. Sono stato chiaro, figliolo?»
I capelli scuri ondeggiavano davanti al volto contratto per le
sofferenze inflitte dagli incantesimi. Per un istante, fu tentato di
sfilare i guanti. Sarebbe bastato così poco. E il padrone era
debole, stanco, vecchio. Ma quando sollevò il capo, lo vide
sfilarsi gli occhiali e massaggiare i contorni delle orbite vuote.
Quella perdita li legava in maniera indissolubile. Come poteva levare
la mani e la propria stregoneria su di lui?
«Amelia non è una strega, non può difendersi se non
la mettiamo al corrente di ogni cosa. Dobbiamo essere noi per primi a
tutelarla»
«Ogni cosa? Anche il vero motivo della sua venuta?» rispose
alzandosi, nuovamente gelido, come se nulla fosse accaduto.
«Non essere sciocco, Jarvis» sorrise paziente in una voluta
di fumo. «Ti ho dimostrato quanto le tue congetture siano fuori
luogo. Voglio che riporti all’antico splendore queste mura. Solo
questo»
Pur avendo perduta la vista, il Duca riusciva a percepire la forma
della magia che albergava in quel corpo. La sentiva ribollire,
incatenata da una volontà primitiva che fluttuava lenta per la
stanza.
«Sei un gran cocciuto, ragazzo» tossicchiò.
«Non chiamatemi ragazzo» ribadì, lisciando le pieghe della giacca.
«E come dovrei rivolgermi a te? Nemmeno servo ti è mai
piaciuto» considerò, appoggiando il sigaro nel posacenere
che gli porgeva. «Jarvis, non ti ho ordinato di obbedirle
perché volevo punirti. Anche se l’avresti meritato. Avere
un’amica potrebbe farti bene. Voglio che tu abbia cura di
lei» stabilì, conscio di non fargli piacere.
***
Tornare a casa per Natale. Un sogno che Amelia covava da un po’ e
che senza l’arrivo del Duca sarebbe rimasto tale. Romilda
gliel’aveva detto: era un uomo bislacco per certi versi, ma anche
molto generoso.
Dopo sei mesi lontana da casa, dubitava di ricordare come si facesse il
bucato con una normale lavatrice. A palazzo ci pensavano Francesca e
Luisa. Avevano l’aria d’essere uscite da un documentario o
da un film in costume: maniche arrotolate sulle spalle, sapone di
Marsiglia in panetti e olio di gomito sulle pietre del lavatoio
incastrato tra la cucina e lo scalone a sud-est. Ancora non sapeva da
dove arrivasse l’acqua e dove venisse smaltita, anche se poteva
supporre si trattasse di una qualche derivazione del Torrino.
Stese i panni sopra la vasca, lasciandoli a dondolare quieti nel tepore umido del bagno e andò in cucina.
Di certo non era il ritorno che si era aspettata. Al telefono, dieci
giorni prima, sua madre era sembrata solo vagamente interessata alla
cosa. Poteva capirla: la ditta dove lavorava minacciava nuovamente
tagli e cassa integrazione, non era un bel periodo per quel genere di
scelte. Sperava che, una volta rientrata, le cose sarebbero migliorate.
Invece, dopo un accoglienza del tipo “ah, sei qui”, si era
rassegnata a dover passare da sola l’antivigilia di Natale: i
suoi genitori erano stati invitati a cena da amici e suo fratello era
partito per Sharm el Sheik. Aveva cercato di chiamare i suoi
ex-colleghi, gli amici di sempre, ma il telefono aveva sempre suonato a
vuoto, quando la chiamata non era stata rifiutata. Era riuscita a
contattare Marcella, la segretaria dell’architetto Tramonti, che
aveva fatto fatica a ricordarsi di lei. Non se n’era stupita,
svampita com’era. Chissà poi perché aveva deciso di
chiamarla. Via mail aveva ricevuto auguri da Claudio e Mirko, i suoi
geometri di fiducia -auguri standard inviati a tutti gli indirizzi che
avevano in rubrica-, da Marianna -una compagna di università che
ora viveva a Dusseldorf- e dal professor Martini. Gli altri contatti
erano muti, nonostante si fosse prodigata giorni addietro nel classico
rito augurale.
«Sarà il periodo» pensò rattristata, preparando una tazza di cereali col latte.
Dagli articoli che aveva letto ed all’aria che tirava già
in maggio, poteva supporre con ragionevole certezza che molti suoi
amici ed ex-colleghi fossero nelle grane, e che il periodo di Natale
per loro non rappresentasse altro che un ennesimo spreco dei pochi
guadagni fatti. La voglia di scambiarsi auguri di certo non era
dominante nelle loro vite.
In televisione non c’era nulla d’interessante. Si
rannicchiò sul divano con una coperta sulle gambe e fece partire
il dvd. Aveva optato per la trilogia di Tolkien, che da sempre
l’appassionava. La visione dell’edizione integrale dei film
era un lusso che poteva concedersi di rado: a casa il telecomando era
appannaggio di suo padre e suo fratello. Fatta eccezione in caso di
reality, dove subentrava prepotentemente sua madre.
Cercò di concentrarsi sul film, liberando la mente da ogni
pensiero per lasciarsi trasportare in quel mondo fantastico che
somigliava vagamente al suo. Si domandò se il nano del libro
somigliasse in qualche cosa a Gromi. Dalla descrizione di Ang aveva
dedotto che le somiglianze potessero essere enumerate sulle dita di una
mano.
«Basso, barba, burbero» ripeté sorridendo.
Anche Angheledrior aveva ben poco a che fare con l’alter ego
cinematografico. Non era filiforme e neppure biondo cenere. E
c’erano i suoi occhi, nerissimi, due corvi impertinenti. Aveva
persino l’impressione che le iridi fossero un poco più
grandi di quelle degli esseri umani.
Jarvis poteva essere il signore del male: entrambi arrivavano ovunque,
il loro sguardo sinistro era percepibile a chilometri di distanza. Quel
pensiero la spinse a fare un rapido controllo nel soggiorno.
Tirò un sospiro di sollievo: era ancora sola, Carew non era
sbucato dal nulla.
Che dire poi del Duca? Un mago abbastanza potente da addomesticare un
drago, ma anche un padre-padrone. Gentile, garbato, abilissimo nel
nascondere il pugno di ferro nel guanto di velluto.
«Davvero?» chiese Enrica, estremamente stupita.
Enrica ed il professor Martini erano i soli Archimaghi
che Amelia conoscesse personalmente. Aveva dieci anni più di lei
e si occupava di alcune biblioteche tra il milanese ed il lodigiano.
L’aveva chiamata durante l’attacco nelle miniere di Moria,
facendole prendere un accidente. Il trillo del telefonino per un attimo
si era tramutato nelle grida degli orchi. Si era scusata per il ritardo
della sua risposta, ma era stata trattenuta da un odiosissimo Verme Piumato di Clarino,
che aveva fatto ingenti danni presso un cliente. Avevano deciso
d’incontrarsi la mattina seguente per parlare un po’.
«Oh, sì» annuì, pulendosi le labbra dalla
cioccolata che stava bevendo. «Ho cercato diverse volte di
convincerlo a lasciarmi entrare nella cappella o nella sagrestia, per
dare un’occhiata. Niente da fare. Ha addotto ragioni personali
molto serie»
«E ti sei arresa?»
«Diciamo che… sì. Ho preferito desistere»
ammise. «L’ho ascoltato mentre parlava e…»
«Ti prego, non comincerai con la solita storia!» brontolò, nascondendo il viso tra le mani.
«Invece sì. C’era del dolore nelle sue parole. Un
vero dolore. Era dispiaciuto di non accontentarmi, però sentiva
il dovere difendere quello che c’è là dentro. Credo
abbia a che fare con la sua perdita»
«Moglie?»
«La vista» le rammentò, esasperata dalla disattenzione.
Lei ricordava bene i dettagli del suo cliente con i libri perforati dal Verme
e riempiti del conseguente humus peloso e molliccio. Dai suoi
sessant’anni, ai tre matrimoni, alla biblioteca a tre piani con
al centro un obelisco di papiri, per concludere con la muta di Folletti in forma di segugi, tutti rigorosamente fulvi. Enrica no, non teneva a mente niente.
«Sai che in molti casi le cappelle gentilizie venivano costruite
per cancellare le tracce della magia! Penso che il Duca non voglia
risvegliare dei ricordi che lo angosciano. Sarei un mostro ad
insistere» spiegò.
«No, sei tonta! Hai dato un’occhiata al tariffario del Consiglio degli Archimaghi?»
«Sì» cantilenò, mescolando la cioccolata.
«Non penso proprio. Perché ti saresti accorta che…»
«“Agli interventi sulle strutture convertire a uso
religioso e successivamente sconsacrate per decadenza del loro utilizzo
si applica una tariffa base maggiorata del trecento
percento”» citò alla lettera. «Che dici?
L’ho studiato bene, il nostro tariffario?» ridacchiò
aspra.
Aveva sempre desiderato poter mettere le mani su un’opera simile.
Il fattore economico era certamente allettante, sebbene più
d’ogni altra cosa l’affascinasse il coniugare spazi sacri e
profani, senza mancare di rispetto ad entrambi. Un’autentica
sfida d’alta Archimagia.
«Resta il fatto che dovresti osare di più. Sei brava, non
puoi piegarti sempre al volere del cliente. Anche se è il primo
e vuoi far bella figura. Non lasciarti frenare da quel benedetto
perbenismo! Nessuno ti ammazza se alzi un po’ la voce!»
«Infatti ci hanno provato anche mentre stavo zitta»
pensò passandosi una mano sul collo, dove un graffio bruciava
ancora.
Doveva essere grata a quella strana creatura che aveva dato una spinta
al suo rientro. Era apparsa dal nulla, verso il crepuscolo. Una donna
camminava sulle balze di pietra dei giochi d’acqua, parlando da
sola. Rideva. Scuoteva la chioma vermiglia. Danzava, rischiando di far
trabordare le forme procaci dagli abiti succinti. Sembrava un po’
suonata. Le aveva sorriso, chiedendo educatamente chi fosse e cosa
facesse alla sua fontana, ma prima di poterle rispondere, le era
saltata alla gola cercando di strangolarla.
«Dov’è? Dimmi dov’è lui!» aveva gridato.
Le dita si erano strette con tanta forza che tutto era diventato buio,
le orecchie avevano preso a fischiarle ed ogni muscolo a contorcersi.
Grazie ad Angheledrior non ci aveva lasciato la pelle. Era andato a
chiamarla su ordine del Duca, raggiungendola appena in tempo per
allontanare l’assalitrice. Quella era scomparsa, continuando a
piangere e ridere insieme, chiedendo a gran voce “dove lui
fosse”.
Anche Amelia aveva voglia di comportarsi a quel modo.
«Ma come? Avevi detto che ne avresti parlato alla zia!»
«Eh, mi sono scordata. Che problema c’è?»
«Che problema c’è? Mamma, domani è Natale!»
«E allora?»
«Sono tornata per stare con voi e mi piantate qui da sola?»
«Dovevi pensarci prima, non ci hai detto niente»
«Come niente? Vi ho chiamati dieci giorni fa!»
«Te lo sei sognata»
Amelia era rimasta di sasso, incapace di darsi una spiegazione di tanto
menefreghismo nei suoi confronti. Certo, in casa lei aveva sempre
occupato all’ultimo gradino della scala gerarchica, ma quelle
risposte decretavano la sua retrocessione definitiva allo scantinato.
Di tutta la Veglia aveva ascoltato solo pochi minuti, sconvolta. Lo
scambio della pace le era parso il gesto più insignificante di
tutta la celebrazione.
«E se venissi comunque? Al ristorante non faranno storie per una
persona in più. Magari qualcuno nelle altre tavolate non si
presenta e…»
«Smettila, abbiamo già confermato, non si può
cambiare come ti gira a te solo perché sei venuta a casa. Dovevi
pensarci prima»
«Potrei raggiungervi per il caffè» propose, in un ultimo, strenuo tentativo di farsi ascoltare.
«Vuoi finirla? Cosa devi venire a fare con noi? A farci far figure?»
Già. Che pessima figura, la figlia lasciata a casa che si
presenta non invitata in mezzo a tutti i parenti per dare gli auguri.
Nemmeno Cenerentola era stata trattata così.
Il peggio arrivò verso le diciassette, quando i genitori
rientrarono con il codazzo di zii al seguito. Avrebbe dovuto provar
sollievo nel sapere che nessuno dei nipoti era stato presente al
pranzo, erano tutti impegnati altrove. A divertirsi. Lei aveva
camminato per ore in una città fredda e deserta.
«Quanti anni ha?» chiese una delle zie, indicandola col mento mentre preparava il caffè per tutti.
«Trentadue» sbuffò sua madre.
«Trentadue? Ormai non diventi più nonna. Forse col Gianmaria»
«È ancora piccolo, ha appena fatto ventisei anni!»
«Sì, hai ragione. Gli uomini devono aspettare a sposarsi,
ma le femmine devono farlo alla svelta o vanno a finire che ti restano
in casa» s’intromise la zia Rosanna, saccente. «Ma
quella là adesso cosa fa?»
Amelia trasecolò. Non tanto per la domanda in sé, quanto
per essere stata definita “quella là” da una persona
che praticamente l’aveva vista nascere.
«Lavora a casa di uno»
«Eh, lo vedi. A fare le pulizie si guadagna bene oggi. Glieli
dà al nero?» s’informò lo zio Sandro.
«Cosa ne so. Và, sparisce. Non ce lo dice cosa fa. E poi
dice che il padrone è un vecchio» fece schifato suo padre.
«Fa la badante?»
Amelia non badò allo sguardo avvilito della donna. Sua madre
stava per rispondere qualcosa che, dalla smorfia disgustata che le vide
fare, non doveva essere molto lusinghiera.
«Io sono un architetto!» li interruppe, prima che tutto peggiorasse.
La zia Gianna strabuzzò gli occhi, sorpresa.
«Architetto? Ma mica hai studiato»
«Zia, sei venuta alla mia festa di laurea! Come fai a non
ricordartelo?» rise, fingendo di averlo preso per uno scherzo.
Ora tutti i presenti la fissavano. Sembravano averla riconosciuta solo
in quel momento, come se fino ad un attimo prima avessero avuto di
fronte un’estranea.
«C’eravate tutti. Zio Martino, ti sei rovesciato addosso un
bicchiere di spumante e tu, zia Piera, ti sei lamentata che hai
rischiato di romperti un dente con i confetti!» disse,
sforzandosi di sorridere a quei volti interrogativi. «Come fate a
non ricordarvelo? Sono passati solo sette anni…»
«Sta uscendo il caffè. Tiralo via o lo fai bruciare» borbottò severo suo padre.
Fu la goccia.
Dopo aver servito il caffè, andò in camera e
cominciò a gettare vestiti, libri e tutto quel che le capitava
sottomano nel borsone. Si muoveva alla cieca, per le lacrime che
tratteneva a fatica. Era questo per loro? Un’estranea? Una
persona che conoscevano a malapena? Una foto sbiadita?
Frugò nel giaccone e tirò fuori un oggetto simile ad uno
yoyo rosso. Le due metà erano tenute insieme da sigillo di
ceralacca. Sulla superficie era riportato lo stemma del Duca,
circondato da rune e complicati intrecci di linee. Prese un profondo
respiro, domandandosi se fosse la scelta giusta.
Delle risate arrivarono dal soggiorno. La mamma e zia Rosanna. Ridevano
delle marachelle del figlio di sua cugina. Una ragazza perfetta nel suo
essere ordinaria, che dopo la terza media aveva preferito fare la
cassiera ed avere un figlio a diciassette anni. Una tipa modaiola e
frivola, che nemmeno vedeva differenza tra la Divina Commedia e Topolino.
Sì, era la scelta giusta.
Fece ruotare le due parti con uno scatto secco, rompendo il sigillo. Un
filamento di luce bianca illuminò le incisioni. Aveva un quarto
d’ora.
Quando ripassò dal soggiorno, carica sotto il peso dei bagagli,
ricevette solo vaghi accenni di saluto ed altre espressioni perplesse.
La sua partenza anticipata li toccava appena.
Arrivò in strada un secondo prima che la berlina posteggiasse in seconda fila.
***
«Amelia!» esclamò la bambina, correndole incontro.
Quando era felice riusciva ad assumere una consistenza diversa, che la
rendeva quasi opaca e addirittura le conferiva un peso.
L’avvertì quando le piombò addosso, facendola
indietreggiare di un passo.
«Ciao, Isadora! Ti sei annoiata?» le domandò,
sentendo quanto quella dimostrazione d’affetto sincero la
toccasse nell’animo.
Per una volta era riuscita persino a scompigliarle i capelli biondi.
«Un po’. Però ho giocato con le palline» rise, obbligandola a fare un girotondo.
«Le mie palline rosse?»
«No. Le mie! Vado a dire a Corrado che sei arrivata! Orlando, vieni!»
Orlando aprì appena uno dei suoi sei occhi, sbadigliò sonoramente e si riaddormentò placido.
L’Archiamaga guardò la piccola fargli una smorfia e sparire nell’androne.
«Vieni, fragolina, o ti congeli» bisbigliò una voce dietro di lei e due braccia la strinsero forte. «Stai bene?»
Lei annuì sospirando. Un sorriso appena accennato le curvava le
labbra mente guardava intorno. Mentiva, ma lo stalliere evitò di
farle notare che orrenda tonalità d’azzurro avesse la sua
aura. Doveva essere molto depressa. La fece voltare verso di sé
e le diede un bacio fra i capelli.
«La nonna doveva sentirselo che saresti rientrata oggi. Ha fatto la parmigiana per cena»
La sentì reprimere un singhiozzo.
«E anch’io ho qualcosa per te. Un bel dolce»
Ang sorrise sornione sollevandole il viso.
«Baci di elfo. Quanti ne vuoi. Li faccio al momento» ammiccò.
*idriade: in generale, una fata acquatica.
**creenea: ninfa delle fontane.
Appena rientrata dalla vacanze (se sentite un rumore strano in
sottofondo sono io che sbatto la testa al muro per disperazione),
eccovi il nuovo capitolo. Un ringraziamento a chi ha letto e recensito
i precedenti capitoli e le fic che ho pubblicato nella sezione Harry Potter, nonostante le ferie imperversassero! Benarrivata a Bloodingeyes, aspetto i tuoi commenti.
Per Emrys: sempre presente, eh?
Jarvis come un famiglio... mmm, non saprei dirti. Credo che già
dal discorsetto del Duca tu abbia potuto capire che c'è qualcosa
di particolare a legarli. Ehi, non pensare male, eh! E quanto allo
spirito della fontana, non so se quanto detto ora ti può essere
d'aiuto per decifrare la sua natura.
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Capitolo 13 *** Tavola XII - Consolidamento ***
Tavola XII - Consolidamento
Velocità.
Attraversare il mondo, fendendo lo spazio nel tempo di un respiro.
Sterzò bruscamente a sinistra, seguendo la piega della strada.
Velocità.
Pulsione incontrollata a raggiungere l’irraggiungibile.
Gli alberi sfilavano via come pinnacoli neri.
Velocità.
Brivido sfrenato di gioia purissima.
I cancelli in lontananza che si aprivano al suo comando.
Velocità.
Ecco cosa gli mancava più di tutto.
Velocità.
Velocità.
Velocità.
I fari allo xeno illuminarono i muri del cortile, facendo scintillare
di un minuscolo arcobaleno le schegge di ghiaccio mentre le ruote
spandevano la ghiaia intorno. Gli bastò pensare
l’incantesimo perché il lucchetto di aprisse, facendo
scorrere la catena. I battenti della rimessa, lasciati liberi, si
dischiusero e con una sola manovra parcheggiò l’auto.
Camminò intorno al veicolo ancora caldo. Con un cenno rapido
fece in modo che la polvere e la brina depositatesi durante la cosa
svanissero dalla carrozzeria.
Uscito dai cespugli, Galileo si strusciò con un saltello sui
pantaloni scuri. Jarvis ricambiò indolente il suo sguardo che
chiedeva coccole. Qualcosa in quell’animale gli impediva di
scacciarlo come avrebbe fatto con qualunque altro randagio troppo
temerario.
Una breve scintilla gettò ombre dure sul suo viso. Era la quinta
volta che metteva mano all’accendino quella sera. Un insolito
nervosismo l’attanagliava e la corsa in auto non era servita a
lenirlo. Quello stesso nervosismo che fece consumare la sigaretta in un
tempo troppo breve.
Raggiunse il cancello, accompagnato dal gatto. Come ogni notte, chiuse
l’entrata tastando i nodi invisibili della magia racchiusa nella
serratura. Ascoltò il ferro stridere e scorrere, distratto da un
pensiero. Là, proprio al centro dei solchi lasciati dagli
pneumatici, sotto pochi centimetri di ghiaia e polvere, qualcosa
pulsava. Lo sentiva. Riconosceva quel battito.
Lanciò un incantesimo, per assicurarsi che nessuno lo vedesse,
poi sfilò un guanto, volgendo il palmo in quella direzione.
Chiuse gli occhi concentrandosi. Parole di una lingua dimenticata
affiorarono sulle labbra sottili e screpolate. Gli fece eco il mugghio
cupo di Orlando, da qualche parte nelle cantine. Il terreno si tinse
per pochi istanti di un lieve rossore. Galileo soffiò, il pelo
ritto.
Imprecando tra gli ansiti ed il martellare del sangue nelle tempie,
Jarvis si aggrappò alla cancellata per non cadere a terra. Il
mondo ondeggiava e si sfaldava.
La strada era tornata all’abituale opacità. Levò il
palmo verso di sé. Un bordo metallico affondava rapidamente
nella carne, svanendo alla vista. Strinse il pugno, portandoselo alla
fronte.
«Maledizione» grugnì, riuscendo infine a raddrizzarsi.
Accompagnato dal felino intirizzito, si diresse al portico e di
lì, al primo piano. Stava camminando nel corridoio, quando
Jarvis notò su una finestra all’altro capo del cortile il
riverbero azzurrino del portatile dell’Archimaga.
Isadora saltava sul letto. Avrebbe dovuto andare là e spiegare
per l’ennesima volta che in quella dimora certi atteggiamenti
erano quantomeno inappropriati. Sia per i vivi che per i trapassati.
Stava per ripercorrere i propri passi quando il ticchettio familiare di
una punta sul pavimento lo fermò.
Il Duca avanzava zoppicando dal capo opposto dell’andito, una
mano dietro la schiena incurvata e l’altra stretta sul bastone da
passeggio. I capelli e gli abiti erano in disordine, indizi di una
serata trascorsa immerso nello studio di qualche fenomeno particolare.
Il gatto gli andò incontro miagolando, in cerca della carezza
che non aveva ottenuto.
«Non vuoi rassegnarti» mormorò, chinandosi a fatica verso la testolina grigia.
Anche se non era stato presente, sapeva del suo gesto, di cosa aveva cercato di fare poco prima.
«Mai»
Corrado scosse il capo, sinceramente dispiaciuto.
«Sai quanto vorrei poter cambiare le cose. Entrambi avremmo da guadagnarci, ma…»
«Milord,» lo interruppe avvicinandosi, «è
molto tardi ed entrambi dovremmo essere nei nostri alloggi»
L’uomo torreggiava su di lui, allungando il braccio perché vi si appoggiasse.
«Ahimé, Jarvis, l’avanzare dell’età
porta con sé il bisogno sempre meno impellente di abbandonarsi
alle braccia di Morfeo» sospirò infelice, cambiando
immediatamente tono quando gli chiese: «Sei stanco?»
Si era accorto che la voce del servitore era stranamente fiacca, debole. Triste.
Lui tacque, lasciando cadere la mano.
«Jarvis?» lo incitò, stupito e preoccupato.
«Talvolta» ammise a denti stretti.
«E cosa senti?»
Esitò. Raccontare di quelle sensazioni lo spaventava.
«Disgusto. Ribrezzo. Commiserazione» elencò, serrando i pugni.
«Non era questo che intendevo. Fisicamente, cosa provi?»
Avrebbe preferito tornare al suo mondo di silenzi. Un oblio amaro dove
rifugiarsi ogni giorno, quando le incombenze della sua posizione non
l’assillavano.
«Vorrei dimenticare il mondo. Dormire. Senza pensieri, sognando» ammise suo malgrado.
Il padrone rimase colpito dalle sue parole. Non avrebbe potuto indovinare che in lui albergasse un simile desiderio.
«Comprensibile, non sei abituato» disse, cercando a tentoni
il braccio che era tornato a tendergli. «Su, accompagna questo
vecchio insonne alla sua stanza e vattene a letto»
Il micio rimase seduto sul pavimento freddo, accomodando la pelliccia a
suon di leccate. Le due figure scomparvero nel buio. Continuò a
seguirne il suono che correva fra le mura altissime e variopinte, e la
traccia odorosa di stanze chiuse e fumo che si lasciavano alle spalle.
Era ora di tornare davanti alla cucina, il attesa di qualche topo
sprovveduto.
***
Il calderone sobbolliva in un angolo del cortile da circa
mezz’ora. Di tanto in tanto, uno sbuffo di vapore superava
l’orlo e si dissolveva scendendo a terra. Amelia mise via il
cellulare, rassegnata a non ricevere risposta dalla madre, almeno per
quella giornata, e tornò a mescolare.
«Ti diverti?» le domandò Ang, stringendo la sciarpa.
Lei sollevò il ramaiolo, facendo colare un po’ della
mistura per controllarne la densità. Aveva un deprimente color
fango, ma il Leko parlava chiaro: quello era il segno che la pozione
era riuscita. Solo non accennava da nessuna parte al fatto che puzzasse
di pesce marcio.
«Da pazzi. Questo genere di operazioni mi fa sentire una vera
strega! Mi manca solo un bel cappello a punta e una risata
perfida» gioì, mimando una delle orrende megere che
popolavano le fiabe.
Gettò nel liquido una matassa di cordoncino, spingendola sul
fondo e fermandola con il mestolo. Prese il kit dalla borsa e
tirò fuori la boccetta dell’Aquilone.
La scosse leggermente, guardando affranta la nebbiolina al suo interno
contrarsi in un grumo. Immaginava avrebbe fatto storie. Tolse il tappo
e chiamò.
«Vortici…»
Una saetta schizzò nel comignolo della cucina, da cui
fuoriusciva un po’ di fumo. Una piumetta roteava impazzita dietro
al vetro.
«Fa freddo!» urlò lo Spiritello.
«Vieni giù, Vorticillo!»
«No!» sbraitò infilandosi più all’interno, incurante del rischio di affumicarsi.
«Andiamo, scendi. Oggi c’è il sole! Ho aspettato
apposta che il tempo migliorasse perché so quanto detesti il
freddo»
«No!» ribadì.
«Che piagnone» bofonchiò Ang.
Vorticillo sporse la testa da un buco fra i mattoni, gettando un’occhiata truce all’elfo.
«Zitto tu! Che vuoi? Chi ti ha interpellato?»
«Simpatico, eh?» ridacchiò, dando di gomito ad un’esasperata Archimaga.
«Andiamo, Vorticillo, vieni qui. Penso io a tenerti al caldo»
La rondine fece di nuovo capolino. La donna teneva un lembo del
giaccone aperto. Sotto portava un maglione rosso, dall’aria
estremamente accogliente. Non ci pensò due volte ad abbandonare
il cinereo rifugio per infilarsi con un guizzo fra l’imbottitura
del piumino e la lana.
«Caldo-caldo-caldo! Oh, sì! Sì! Anche la coda! La
coda! La mia codina gelata!» fischiò strofinandosi contro
il petto della padrona, mentre questa lo accarezzava con la mano che
aveva tenuto in tasca.
«Vergognati! Che razza di Spiritello sei che non reggi un po’ di fresco? » fece Ang, incrociando le braccia contrariato.
«Fatti gli affaracci tuoi! Brr! Ancora, ancora!» piagnucolò.
«Meglio?» sorrise lei, continuando a lisciargli le piume.
Ang aveva una gran voglia di rispedirlo nel comignolo, facendolo
passare prima dalla brace del camino insieme ad un paio di patate. Era
ridicolo voler essere gelosi di quel cosino pennuto, ma quel genere di
coccole lui lo riceveva solo in sogno.
«Io così non lavoro, scordatelo! Tanti saluti!»
protestò ad un tratto Vorticillo, tentando di tornare alla forma
gassosa per sparire nella bottiglietta.
«Fermo dove sei» gli intimò Amelia, tenendolo ben
fermo tra le mani. «Non vai proprio da nessuna parte»
«Sei senza cuore! Mostro! Io sono un povero Aquilone, esposto ai rigori del gelo artico» frignò, agitando le corte zampette.
«Esagerato» rimbeccò lo stalliere.
«Su, Vorticillo, se ti ho chiamato è solo perché la
tua opera mi è indispensabile! Nessun altro può fare
questo lavoro meglio di te» tentò di blandirlo.
«Fallo fare al tuo amico chiacchierone!»
«Il mio amico chiacchiera con i gatti» alluse, facendolo
irrigidire di paura. «Coraggio. Per uno come te, così
agile e veloce, è roba di una decina di minuti. Se poi cambiassi
forma…»
«Scordatelo!» s’impuntò.
«Se cambiassi forma ci impiegheresti ancora meno. E torneresti al
calduccio, nella tua ampollina, con una decina di occhi nello
stomaco»
Sperava che l’accenno al ricco compenso sarebbe stato sufficiente
a rabbonirlo, quel giorno però lo Spiritello era piuttosto
battagliero.
«Scordatelo. Non meno di venti»
Pretesa esosa per un lavoretto di poco conto. Anche alla luce delle intemperie e della trasformazione.
«Dodici»
«Venti» ripeté.
«Quindici»
«Venti»
«Tredici»
«Andata. Vada per tredici. Che forma?»
«Qualcosa di molto veloce nel volo radente. Un’aquila?» propose.
A dir la verità, Amelia non aveva la minima idea di quale
volatile potesse fare al caso suo. Per quanto ne sapeva, poteva andar
bene anche una quaglia o una papera. E infatti, Vorticillo storse il
becco.
«Puah! Sei proprio un’incapace. Ho capito, faccio
io!» e con frullo d’ali si portò più in
là, cominciando a gonfiarsi.
«Non è granché nelle contrattazioni» osservò Ang, perfido.
«Il fatto è che sa contare solo fino a dieci. Sa che venti
è un numero più alto, ma non di quanto. Qualunque altra
cifra la valuta sul tono di voce che uso»
«Quindi potevi dargliene undici e finirla lì?»
«Volendo sì, ma gli Aquiloni
soffrono molto il freddo. Vengono importati dal Corno d’Africa e
dall’Arabia. Non stava facendo una scenata per farsi compatire,
ha freddo per davvero. Meritava un incentivo»
Compiaciuto, anche se ancora un po’ ingelosito, le rivolse
un’occhiata affettuosa. Le sue premure nei confronti di quel
rompiscatole gli raccontavano di quanto amasse il suo lavoro, delle
cure che riservava ai suoi strumenti ed ai mezzi che adoperava per
svolgerlo al meglio.
«Almeno ha smesso di parlare» e indicò un grosso struzzo, intento a sistemare le vaporose piume della coda.
Pochi minuti più tardi, i tre superavano il cancello. L’Archimaga
portava con sé una matassa grigia, montata su un aspo abbastanza
grande da essere portato dall’animale e tenuta a debita distanza
per via del lezzo nauseabondo che emanava. Il cordoncino, messo a bagno
nel liquido bollente, era impregnato dei poteri magici necessari
all’operazione.
Il corridore prese nel becco il rocchetto e partì di gran
carriera, ben attento a tener teso il filo. L’altro capo era
stato assicurato ad un picchetto proprio di fronte all’entrata
della villa. Un altro filo identico era stato fissato ai muri del
cortile interno.
«Quando Vorticillo avrà fatto tre giri sulle mura esterne,
unirò gli estremi con queste» spiegò, mostrando
alcune medagliette di ceralacca dorata con impressi dei minuscoli
simboli. «Per quel momento, dovremo trovarci tutti
all’interno del confine tracciato dal cordoncino. Appena
l’avrò sigillato, l’incantesimo prenderà
avvio e comincerà a risanare la Gabbia Statica.
Entro domattina dovrebbe essere pronta, così potrò
passare al consolidamento dei setti strutturali interni»
«Come saprai che ha funzionato?»
«Dovrei trovare solo i sigilli integri. Se c’è ancora del filo attaccato significa che la Gabbia
preesistente non ha accettato l’integrazione e bisogna capire il
perché; se il sigillo è spezzato, serve ripetere
l’operazione perché la gabbia era troppo debole e non
è ancora sufficientemente stabile»
«Quindi dobbiamo starcene chiusi in casa, stanotte?»
«Esatto» e a quella risposta si ritrovò fra le
braccia dell’elfo, con la sua sciarpa che le solleticava una
guancia.
«Vuoi restare chiusa con me?» propose, facendo sfiorare le punte dei loro nasi.
«Angheledrior… non mentre lavoro!» protestò arrossendo.
C’era una regola fondamentale quando l’Archimaga era all’opera: non si usciva dal seminato. Si faceva Archimagia,
punto e basta. Scherzando, parlando, perdendosi in spiegazioni, mai
mettendo di mezzo altro. Specie quando quell’“altro”
consisteva in faccende personali che le facevano tremare le ginocchia e
alterare l’aura.
«Chiamami ancora per nome e starò buono buono
finché non avrai rimesso quell’uccellaccio al suo
posto» ma prima che potesse esaudirlo, qualcosa attirò la
sua attenzione. «Perché è diventato molle?»
Seguì il suo sguardo. Il cordoncino giaceva a terra, privo di tensione.
«Speriamo non si sia spezzato, sarebbe un guaio! Non ne ho dell’altro»
Corsero allo spigolo delle scuderie, appena in tempo per assistere ad
una scena assurda. Lo struzzo stava tornando indietro di gran carriera,
le ali spiegate ed il becco spalancato in un muto grido di terrore. Le
zampe battevano sulla terra gelata, sollevando ciuffi d’erba e
sassi.
«Vorticillo!»
«Gatti! Gatti! Ci sono i gatti!» strillò, superandoli con un salto ed andando ad infilarsi nel cortile.
Dietro di lui, due scheletrici soriani fecero dietro front alla vista degli umani che si scambiavano uno sguardo interrogativo.
«Grosso com’è, si è spaventato per due gatti spelacchiati?» fece lo stalliere, perplesso.
Un altro grido arrivò dal fondo del giardino e lo struzzo
tornò verso di loro. Galileo, sconvolto dalla vista di
quell’animale enorme e sconosciuto si era infilato a tutta
velocità in cucina, tra le gambe di Romilda che aveva fatto
cadere le stoviglie ed urlava a sua volta.
«Vorticillo, calmati! Non è successo niente!»
In una frazione di secondo, lo struzzo si rimpicciolì
recuperando l’aspetto di rondone e puntando dritto contro la
padrona. Le sarebbe piombato addosso come un dardo di balestra, se non
fosse rimasto intrappolato. Jarvis, apparso sul portale dopo tutto il
chiasso prodotto dall’Aquilone, aveva lanciato un incantesimo intorno allo Spiritello. La sua faccia pallida esprimeva totale biasimo e irritazione mentre tratteneva col braccio teso quella rete.
Lo spiritello piangeva, spingendo in tutte le direzioni contro quella gabbia che lo imprigionava.
«Che sta facendo? Gli fa male!» gridò lei tentando di raggiungere Vorticillo per calmarlo.
La rondine si dibatteva garrendo tra le maglie incantate che si
rimpiccolivano ad ogni strattone. Amelia afferrò un lembo della
nassa, tirando con quanta forza aveva. Le corde magiche sfrigolarono,
colpendola con una scossa che la mandò supina a terra.
«Lo lasci andare subito!» ordinò.
Jarvis rilasciò di colpo la mano e con essa la rete, che si afflosciò sull’erba secca.
«Vorticillo! Vorticillo!» chiamò, liberandolo a fatica.
L’Aquilone ansimava, sfaldandosi come vapore tra le sue dita. L’Archimaga
si affrettò a recuperare dalla tasca la boccetta, accostandola
perché potesse infilarvisi. Lui scosse la testolina, affranto.
«Niente paga, vero?» esalò esausto.
«Non dire sciocchezze. Ho detto tredici occhi e tredici occhi
saranno» ribadì la donna, convogliando con la mano un
ricciolo della sua essenza verso l’imboccatura della boccetta.
Lui chinò la testolina nera.
«Non ho svolto il compito assegnato»
«Ci hai provato. Questo mi basta. Ora riposati un po’. Penso io al cordino»
Vorticillo la fissò un istante, prima di scivolare al sicuro da
gatti e sortilegi. Un mago degno di quel titolo sarebbe stato
così indulgente? L’avrebbe comunque ricompensato? Forse
era ora di decidersi a considerarla una vera padrona.
***
Isadora sedeva su una grossa cassa polverosa. La stanza era immersa nel
buio più totale, ma lei la vedeva benissimo. Ricordava di essere
stata in quel posto, tantissimi anni prima, anche se non le era chiaro
il perché. Ora erano solo dei muri entro cui trovava posto la
sua stanza dei giochi. Lì dentro non aveva bisogno di portarsi i
gingilli di cui si appropriava qua e là per la villa.
C’erano un sacco di cose con cui giocare, oggetti vecchi e
dimenticati dalle forme bizzarre lasciati lì da qualcuno. In un
paio di casse aveva trovato dei vestiti tarmati e dei buffissimi
cappelli, vecchi libri e fotografie ingiallite di persone che ricordava
d’aver visto o che forse aveva solo immaginato.
Ma erano altre le cose che le piaceva usare. In particolare due
sferette, che somigliavano moltissimo a quella che si era fatta
regalare a sua insaputa da Amelia. Le aveva trovate in un mucchio di
biglie di tutti i colori e dimensioni. Ce n’erano di legno, di
metallo, di pietra, di cera, di vetro. Quella coppia però le era
piaciuta particolarmente perché sembrava fatta d’acqua.
Un’acqua smeraldina che le faceva venire in mente
un’immagine che stava nel computer si Amelia, dove il mare aveva
quel colore.
Sistemò delle statuine in un bel triangolo sul pavimento coperto
di ragnatele, prese la mira e tirò la prima palla. Era stata
Amelia a parlarle di quel gioco. Bollin o Buli,
non le veniva in mente il nome giusto. Riuscì a colpire il
gruppetto sul lato, facendo rotolare a terra solo alcune di esse.
Tutt’altro che arrabbiata, raccolse la seconda sfera e si
concentrò, prendendo nuovamente la mira.
Era pronta per tirare, un occhio chiuso e puntato sul bersaglio, la
lingua fra i denti, quando sentì un rumore. Era un suono
ritmato, tre tempi di battuta, molto ravvicinati. Le lezioni di musica
le erano sempre piaciute un sacco. Un-due-tre. Un-due-tre. Veloci.
Molto veloci. Quasi indistinguibili. E più interessanti del
gioco.
Lasciò cadere la biglia smeraldina e con un salto
attraversò il soffitto, sbucando nella lavanderia. Il rumore
arrivava da fuori, dietro al muro oltre il quale non poteva andare.
Aveva provato tante volte ad uscire dalla villa, ma oltre quei muri
c’erano solo buio e voci paurose. Aveva tentato quando sua madre
era andata via. E quando anche suo padre l’aveva lasciata. Non
poteva varcare la soglia segnata dai mattoni e dal cancello.
L’avevano rinchiusa lì.
Cominciò a singhiozzare chiamando i genitori. Nessuno le rispose.
***
Malcanto spalancò le fauci, allungando il collo verso i quarti
posteriori di Desmo con un ringhio grottesco. Incitato dalla fila di
zanne, lo stallone accelerò, spingendo sui quarti posteriori.
Jarvis si volse, fulminando con lo sguardo Ang che lo seguiva sull’Incubo.
«Ha fame!» esclamò.
«Non ora»
Il palomino superò la breve discesa dietro le cucine,
proiettandosi in avanti, verso il giardino. Alle loro spalle si
srotolava il secondo giro di cordoncino. Non potendo pretendere che
Vorticillo ripetesse l’operazione di ingabbiamento, dopo che
l’incantesimo del maggiordomo gli aveva risucchiato gran parte
delle forze, era toccato a quest’ultimo accollarsi la
responsabilità di provvedere a che gli apprestamenti fossero
messi in opera correttamente e nei tempi stabiliti. E visto che
c’era, Amelia aveva deciso di includere anche i pilastri sul
fondo del giardino nel reticolo di risanamento, rifiutandosi
categoricamente di far impiegare qualsiasi formula magica
all’uomo. Aveva già fatto abbastanza danni e voleva
evitare che tracce dei suoi sortilegi andassero ad inficiare il
risultato finale. Le Gabbie Statiche erano Archimagie
piuttosto sensibili alle interferenze esterne, un lieve riverbero di
levitazione sarebbe bastato a disgregarla, danneggiando
irreparabilmente i muri portanti del palazzo.
Jarvis diede di tallone non appena raggiunsero il limitare
dell’edificio. Sentì la criniera bionda
dell’andaluso frustare l’aria. Sapeva che l’Archimaga
e il Duca lo stavano tenendo d’occhio dal salone nord. Entrambi
avevano reputato il suo intervento eccessivo e lui aveva evitato
discussioni restando in silenzio. Preferiva evitare le abituali
ripicche del padrone. Avrebbe dovuto lasciare che quell’affare la
trafiggesse, dopo la tirata sul proteggerla? Che altro modo aveva, se
non intrappolare quella scheggia impazzita? No. Neppure quando obbediva
andava bene. Quell’idea assurda di far ristrutturare il palazzo
si stava rivelando sempre più deleteria.
Corsero intorno alla fontana e di lì indietro, seguendo la linea già tracciata verso le scuderie.
Lei andò loro incontro con Vorticillo appollaiato sulla spalla.
La pancina bianca era piena di bozzi tondeggianti, il che lasciava
intendere si fosse rimpinzato per benino.
Amelia prese i due capi del filo, li annodò e prese a sigillarli
con la ceralacca. Nel frattempo i due cavalieri portarono i destrieri
nelle scuderie.
Avevano appena chiuso il box di Desmo, quando Jarvis cadde a terra rovesciando finimenti e mangime.
«Jarv? Che ti prende?» chiese l’elfo, tentando di
rimetterlo in piedi, ma quello era vuoto come un sacco di biada la sera
tardi.
Il maestro di corte non parlò: rantoli soffocati gli serravano la gola.
Non ho molto da dire in questo capitolo, a parte i soliti
ringraziamenti e l'incitamento a lasciar recensioni. Insomma, sono
appena finite le vacanze, meglio non appesantirvi oltre la
lettura!
Per Emrys: Corrado e Jarvis hanno un rapproto molto particolare,
è vero. Quanto al fatto che abbia a che vedere con la
cecità del Duca... beh, se ti dessi qualche indizio finirei a
spoilerarti e a toglierti il gusto della lettura!
Per Alicia84: sinteticissima ma precisa al punto giusto!
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Capitolo 14 *** Tavola XIII - Disarmo dei casseri ***
Tavola XIII - Disarmo dei casseri
Il malore di Jarvis
preoccupò tutti a Villa dei Gelsi. Durante la notte, il
servitore giacque nel letto in uno stato penoso: il respiro strozzato
non gli dava tregua ed era pervaso da un’acuta debolezza che lo
rendeva molto simile ad Isadora. La piccola, dal canto suo, si era
talmente spaventata al vederlo che era corsa a nascondersi sotto al
letto di Romilda, i cui manicaretti poco avrebbero potuto sulla salute
dell’uomo.
Corrado aveva fatto allontanare i servitori e tenuto con sé l’Archimaga.
Non tanto perché masticava di negromanzia più degli
altri, ma soprattutto per merito della fiducia che riponeva in
quell’entità astratta e superiore in cui lui aveva smesso
di credere da decenni. Vederla stringere la medaglietta che portava al
collo con l’immagine della Sacra Famiglia l’aveva convinto
fosse la persona giusta per assisterlo. Tanta fede doveva pur servire a
qualcosa.
«Per favore, vorresti leggermi ancora gli ingredienti della
pozione?» domandò, ascoltandola reprimere a stento uno
sbadiglio.
Amelia sedeva con il Leko aperto sulle ginocchia su uno dei tappeti
volanti del Duca, che gravitava ad una trentina di centimetri dal
pavimento. Sospirò, massaggiandosi gli occhi dietro le lenti. A
forza di ripetere, la Malia Consolidante di Roman le
stava dando il voltastomaco e la stanchezza cominciava a farsi sentire.
Erano quasi le quattro del mattino e non aveva chiuso occhio.
«Tre gocce di Preparato Domus Magna, tre gocce di Pozione Monolitaria rossa e due di Pozione Monolitaria verde (per opere realizzate in più di tre fasi costruttive impiegare cinque gocce di Pozione Monolitaria gialla con aggiunta di dieci grammi di ematite in polvere), trenta litri di acqua piovana, due litri di linfa di Alga Vescicolata Grigia (Visciularia argentea), quattro decilitri di sangue di ariete semirappreso, un decilitro di caglio purissimo di Kelpie* irlandese, duecentocinquanta grammi di Salicornia (Arthrocnemum glaucum) essiccata e fatta rinvenire in acqua bollente e zucchero, centoventi grammi di fiori e gemme non schiuse di Salice Bianco (Salix alba), venti grammi di seme di Loto Partico (Nelumbo parthica Atropurpurea)
in polvere, cento grammi di Ametista in gemma, cinquanta grammi di
Tormalina nera in polvere, quattrocento grammi di ossa triturate di
bovino adulto (preferibilmente bue, compresi zoccoli e corna), un
chilogrammo di sabbia silicea marina lavata e setacciata, due
chilogrammi di schegge del materiale costituente le strutture portanti
da trattare (incluse calci e leganti di altro tipo)»
Il Duca tornò a riflettere. Qualcosa sfuggiva all’arguzia
della sua mente di ricercatore. Jarvis non poteva essersi sentito male
per un riverbero magico, come supposto al principio, poiché
avrebbe dovuto riprendersi entro cena. E neppure poteva trattarsi di Chiasma Cosmogonico**
ipotizzato da Amelia dopo che Angelo le aveva indicato il punto dove
Jarvis si era sentito male. Il fatto che il maggiordomo si trovasse a
pochi passi da uno dei Sigilli Minori di Le Petit,
non poteva aver fatto scattare la corrispondenza tra servitore e
struttura di sevizio, trasferendo gli effetti dell’incantesimo
consolidante su di lui. Ipotesi priva di senso, perché casi
simili si verificavano solo in presenza di condizioni peculiari, non
ultimo che la persona interessata si trovasse sul Sigillo e non in prossimità.
«Gli ingredienti sono questi, non ho cambiato nulla» disse
Amelia a mezza voce. «Proprio non capisco. Nessuno di questi
elementi può dare effetti collaterali…»
L’uomo si drizzò un poco sulla poltrona, seguendo la sua
voce col capo. Pareva l’avesse colpito una crampo doloroso.
«Come hai detto, cara?»
«Ho… detto… che… non possono avere effetti collaterali» ripeté, imbambolata dal sonno.
«No. Prima»
«Prima?»
«Hai detto: “nessuno di questi elementi”?» chiese.
«S-sì» confermò titubante.
Ormai non era più sicura d’essere sveglia, ricordava a fatica.
L’uomo batté la mano sul bracciolo di pelle mentre un
largo sorriso gli riempiva di allegre grinze le guance scavate.
«Ecco la spiegazione! Che sciocco a non averci pensato prima!»
Dal canto suo, ad Amelia sfuggiva il perché di tanto entusiasmo.
«Ci siamo concentrati sull’insieme e sui singoli, ma non sulle loro combinazioni!»
Il seguente silenzio impose al Duca d’approfondire il discorso.
«Oh, perdonami. Immagino tu non abbia idea di quel che sto dicendo»
«Infatti» sbadigliò di nuovo lei.
«Stando a quanto hai scoperto, la Villa ha subito almeno sei
rimaneggiamenti dalla sua fondazione, giusto? Quindi, correggi il mio
ragionamento se errato, devi aver impiegato la Monolitaria gialla con l’ematite. È stata questa, unita al Loto Partico, a colpire il nostro Jarvis» esclamò, indicando a palmo aperto il maggiordomo che lo fissava interrogativo.
«Non capisco, Corrado. Che significa?» domandò, chiudendo il volume e tirando gli occhiali sopra la testa.
Il suo interesse per gli enigmi era prossimo allo zero assoluto.
«Jarvis ha una reazione allergica» declamò
soddisfatto, quasi fosse venuto a capo di uno dei più grandi
interrogativi della storia.
L’Archimaga sgranò gli occhi, risvegliandosi di colpo.
«A-allergica? Ma… nessuno di questi elementi può…»
«Ascolta, Amelia» l’interruppe. «Se alla Monolitaria gialla viene associata dell’ematite, significa che contiene del Liquido di Truman. È il solo solvente capace di estrapolare le proprietà magiche di quella pietra»
«S-sì, mi pare» rispose, vergognandosi per l’incertezza che metteva nelle parole.
Non era convinta di quel che stava dicendo, non aveva una conoscenza
così approfondita dei filtri che maneggiava. Di sicuro il Duca
ne sapeva più di lei a riguardo.
«Il Liquido di Truman
può avere effetti fiaccanti sui maghi. Causa vertigini,
debolezza, abbassamento temporaneo dei poteri magici. Associato al Loto Partico, che per sua stessa natura è imbevuto di sostanze tossiche…»
«Ecco che si scatena l’allergia» concluse lei.
«Ma perché solo a Jarvis? Voglio dire, anche lei è
un mago e non ne ha risentito»
Corrado sorrise, alzandosi a fatica con l’aiuto del suo bastone e dirigendosi zoppicando al letto.
«Ho maneggiato fluidi e sortilegi molto potenti, spesso
assumendomi il rischio di sperimentarli sulla mia pelle. A volte
è andata bene, altre meno. Credo che in qualche modo mi abbiano
fortificato. Evidentemente, il nostro ragazzo è più
sensibile a certi elementi. Diamo tempo all’incantesimo di agire
e domattina sarà come nuovo. Sia lui che il palazzo,
intendo» ammiccò, tastando con attenzione il palmo
sinistro dell’altro.
Il servitore, che per tutto il tempo si era limitato a rantolare, aveva
una luce strana negli occhi, che emergevano con violenza dal pallore
del volto. Si sarebbe potuto dire che la notizia non l’avesse
affatto tranquillizzato.
***
Galileo allungò gli anteriori fino ad appoggiarli sulla
superficie grigia e ruvida. Sotto i cuscinetti delle zampe percepiva un
tenue velo di frescura, sotto cui palpitava un tepore intenso.
Sfoderò gli artigli e cominciò a farli scorrere a piccoli
scatti su quella cosa enorme che se ne stava in cantina fra le botti di
vino e vecchi mobili tarlati.
Orlando rimase immobile. I graffi gli procuravano solo un debolissimo
solletico, qualcosa d’insignificante che difficilmente
l’avrebbe distolto dal suo spuntino. Il Duca gli aveva fatto
trovare là sotto una bella montagna di pezzi di granito grigio,
basalto e tufo. Pietre con un profumo tanto invitante che non aveva
perso tempo a deliziarsene.
Diversamente da quel che poteva sembrare, non si trattava di un premio,
bensì di un modo per tenerlo lontano dai lavori di Amelia.
Qualche giorno prima aveva addentato le lastre di Pietra di Prun che
sarebbero dovute servire per i nuovi sentieri del giardino, ormai
ridotti ad accidentati tratturi, buoni solo per lepri e volpi. Quando
l’Archimaga aveva sorpreso il Beccodiferro
a sbocconcellare il preziosissimo materiale come croissant, le era
preso un accidente: aveva impiegato una settimana per trattarlo
debitamente con alcuni filtri allo scopo di proteggerlo da intemperie e
usura. Aveva afferrato il drago per il grosso collare metallico tirando
a più non posso, senza riuscire a smuovere di un millimetro i
dodici tozzi e squamosi quintali. Allora l’aveva preso a pugni
sul collo, in un punto all’apparenza vulnerabile. Risultato:
Orlando aveva mugghiato sommessamente e spostato tutto il peso su quel
lato del corpo, protendendosi perché continuasse. Quelle coccole
accompagnavano magnificamente il suo pasto. Amelia aveva preso a
gridargli nelle orecchie minuscole di smetterla, di allontanarsi
subito, che quella non era la sua cena. Gli strilli avevano richiamato
il padrone che, con estrema calma e fermezza, era riuscito ad
allontanarlo aiutandosi con un Incantesimo di Sostituzione
che aveva rimpiazzato l’aroma salino della pietra bianca con
quello meno appetitoso di una canestra di pesche. Disgustato e confuso
(dopotutto, ciò che gli stava davanti aveva un’aria ancora
molto succulenta nonostante puzzasse di vegetale), si era
allontanato.
Il giorno dopo, seguendo un grosso ciottolo che il Duca aveva fatto
fluttuare davanti al suo rostro, era finito nelle cantine in compagnia
di quelle ghiottonerie.
Di tanto in tanto scendeva qualcuno. Romilda o Ang per il vino, Isadora per giocare, l’Archimaga
per sincerarsi che si trovasse ancora lì sotto e con la pancia
piena. Ora era arrivato anche quell’affarino peloso che emetteva
un rumore di sabbia fine mentre gli faceva il solletico.
***
«…e allora, fine della fiera, Chiodo mi fa: “Oh,
cioè, mica possiamo andare in giro così!”, e io
allora faccio: “Parla per te, il culo è il
tuo!”» concluse con un ghigno.
Ang fissò perplesso Diecichili prima di scoppiare a ridere di
gusto. Quel ragazzotto aveva sempre una nuova assurdità da
raccontare. Si chiamava Francesco ed era il nipote di Mino, a tutti
però era noto come Diecichili perché per scommessa,
qualche anno prima, aveva mangiato dieci chili di gnocchi in una
giornata. Chiodo, all’anagrafe Michele, era il suo compare, il
cui soprannome derivava dall’evento che l’aveva reso famoso
in tutti i paesi del circondario: ovvero l’essersi sparato per
gioco un chiodo in un orecchio quando aveva otto anni.
Una volta al mese Diecichili veniva a portare il fieno per i cavalli
del Duca ed allora aggiornava Ang sugli avvenimenti più recenti
ed interessanti. Di solito riguardavano le bravate che lo vedevano
protagonista con Chiodo. D’altra parte, Ang non s’aspettava
nulla di differente: avevano ventitré anni, poco cervello e
ormoni in eccesso. Nessuno del circondario era in grado di combinare
tanti guai quanto loro.
Scaricarono l’ultima balla dal rimorchio e sedettero nella
selleria per riprendere fiato. Dentro, l’aria era dolciastra di
cuoio e grasso. I finimenti stavano appesi in bell’ordine su
ganci d’ottone, su cui spiccava il nome del destriero cui erano
destinati.
«L’hai già stesa?» esordì il giovane, mettendosi in bilico sulla sedia.
Ang afferrò al volo l’allusione e scosse il capo.
«Un po’ di rispetto, prego» sviò, rischiando di mordersi la lingua.
Da quando frequentava Amelia, un briciolo della sua riservatezza aveva
cominciato a far radici in lui. In un altro momento gli avrebbe detto
chiaro e tondo che no, ancora non c’era riuscito e che tutti i
suoi tentativi di smuovere le acque erano falliti. E che, nonostante
ciò, la cosa non gli dispiaceva.
«Sì o no?» insisté Diecichili.
«Non sono fatti tuoi» replicò, allungandogli una birra.
Per dar meno possibile nell’occhio ed integrarsi ai braccianti
del Duca, aveva attrezzato lo stanzino con un piccolo frigorifero ed un
armadietto pieno di patatine e snack. Nessuno aveva notato che
l’elettrodomestico era sprovvisto di presa elettrica e funzionava
per conto proprio.
«Non te l’ha data! Non te l’ha data!» cantilenò dondolandosi.
L’elfo moriva dalla
voglia di dare uno strattone alla sedia per farlo finire a gambe
all’aria. Non approvava certe prese in giro da uno che, al suo
confronto, era solamente un poppante.
«Osso duro?» fece, tra un sorso ed una patatina.
«Dieci, quando avrai la mia età… no, beh, tu non l’avrai mai» si corresse.
A dividere le loro nascite c’erano circa sessant’anni. La
sua vita sarebbe stata comunque più lunga di qualunque altro
essere umano, per via di quella parte di sangue elfico che scorreva
dentro il suo corpo. Era un pensiero che lo inorgogliva ed al tempo
stesso lo faceva sentire triste.
«Ehi! Per chi mi hai preso?»
«Per il cretino che sei!» sghignazzò, allungandogli
una sonora pacca sulla nuca e facendolo raddrizzare. «Senti,
arriverà un momento in cui delle ragazze non
t’interesserà più solo quello che hanno in mezzo
alle gambe, ma anche altro. E non parlo delle tette o del sedere»
sottolineò.
«Avevo capito»
«Dalla tua faccia non sembrava»
«No?»
«No. Sembrava che stessi cercando qualche altro “posto” da palpare o… penetrare» scandì.
Per uno strano motivo, che forse tanto strano non era, l’idea di
vedere una donna come puro oggetto di piacere gli causava un senso di
disagio. Nonostante desiderasse “stendere” Amelia come
intendeva quel matto di Diecichili, non aveva intenzione di farlo solo
perché ne aveva voglia. Voleva fosse un desiderio condiviso,
libero da elucubrazioni, vissuto con semplicità.
A suo giudizio, l’Archimaga
aveva una concezione dei rapporti carnali un po’ bizzarra. Ang li
riteneva importanti, ma privi di vincoli particolari. Se due persone si
sentivano attratte fisicamente, che motivo c’era per
tergiversare? Perché negarsi il piacere e l’appagamento
che un intimo scambio d’effusioni poteva regalare? Era una cosa
assolutamente naturale! E se insieme a questo veniva a braccetto
l’amore, tanto meglio.
Invece, secondo Amelia, il motivo esisteva eccome. Pur non essendo
contraria al sesso prematrimoniale (come lui aveva temuto, data la
formazione cattolica), riteneva che tale passo meritasse d’essere
compiuto solo a fronte di un coinvolgimento duraturo. Matrimonio o
convivenza poco importava, purché l’impegno fosse serio.
Per questo era titubante a lasciarsi andare: terminati i lavori sarebbe
andata via, fine di tutto. E poi, le sue storie precedenti erano
partite in pompa magna, cariche di aspettative e promesse, per
dissolversi nell’arco di qualche tempo. L’ultima, durata
quasi quattro anni, l’aveva ferita profondamente e l’idea
di darsi a qualcun’altro, correndo il rischio di cadere nelle
stesse sofferenze, la frenava. Era stanca di vedere calpestati i suoi
sentimenti.
L’elfo non riusciva a comprendere quel punto di vista. Proprio
lei che desiderava tanto essere felice avrebbe dovuto capire che non
aveva nulla da temere dalle sue avances. Forse dipendeva tutto da quei
concetti, quei valori, di cui tanto andava fiera. Ang non aveva ben
chiaro come funzionassero. Di certo erano spesso d’intralcio, ma
talvolta aveva notato quanto lei li padroneggiasse con abilità e
successo, specie con Jarvis e il Duca.
«Che, la vorrai mica sposare?» domandò il trasportatore, preoccupatissimo.
Per lui, la parola matrimonio equivaleva al peggior tipo di suicidio.
Un baratro senza scampo. Tanto valeva stendersi davanti alle ruote del
trattore e farsi passar sopra avanti e indietro un po’ di volte,
facendosi ridurre in poltiglia. Era più dignitoso e, a suo
giudizio, memorabile.
«Oh, a proposito di donne. Stiamo preparando la festa»
Lo stalliere lo fissò interrogativamente. Il brusco cambio di discorso l’aveva spiazzato.
«La festa della patata!» esclamò esasperato
Diecichili, facendogli strabuzzare gli occhi e andare di traverso un
sorso di birra.
«Ti prego, Dieci. Dimmi che non ci sono doppi sensi in quello che stai cercando di dirmi…»
«Piantala di bere, Angelo! Te non reggi» disse il
ragazzotto, strappandogli di mano la bottiglia e scolandola d’un
fiato. «La Festa dei Campi, scemo! Quest’anno abbiamo
deciso che la frutta per il tema è la patata»
«Bene, ma ti sfugge una cosa molto importante. E mi sorprende,
visto che nasci contadino. Se lo sapesse tuo padre! O Mino, peggio
ancora» ammiccò perfido.
«Cosa?»
«Che la patata non è un frutto, è un tubero,
sveglione! Un ortaggio!» sbottò, rifilandogli una
staffilata sul polpaccio che l’amico schivò prontamente.
«No, no. Sbagli tu, bello mio» e prese a canticchiare, parafrasando un motivetto di qualche anno prima: «L’unico frutto dell’amor, è la patata! È la patata!»
***
«Io, fossi in lei, darei una rilettura a quel che ha scritto» suggerì Enrica alle sue spalle.
Il professor Martini staccò per un attimo la testa dallo schermo
del computer, sprofondando nella poltroncina del suo ufficio al
Dipartimento di Tecnologia del Politecnico. I capelli radi, dritti come
spilli sulla testa, sembravano manifestare un certo nervosismo.
«Perché, Marciano? Cos’ho sbagliato a scrivere, questa volta?» chiese indolente.
La donna rise, sedendo sul bordo della scrivania. Il docente aveva un
pessimo rapporto con le tastiere, oltre che con qualsiasi altro tipo di
apparecchiatura elettronica in generale. Il che era paradossale, visto
che il settore dell’Università per cui lavorava si
occupava dello sviluppo delle tecniche e tecnologie costruttive,
incluse quelle virtuali. D’altra parte, Martini era sì un Archimago,
ma anche uno stregone, figlio di stregoni. Dunque, la cosa non era
tanto strana per chi conosceva il suo segreto, solo esilarante.
«Scritto, è scritto giusto» rispose con un sogghigno
caustico. «Però credo che domandarle trenta volte come sta
e se va tutto bene sia leggermente eccessivo da parte sua. Non è
mai passato per uno apprensivo» concluse.
Martini rilesse la mail. In effetti aveva ragione: domandava quelle cose a righe alterne. Era insolito e imbarazzante.
«C’è qualcosa che la preoccupa? Ha paura che Amelia faccia una brutta figura?»
«Credo che dopo quasi nove mesi sia un po’ tardi per pensarci, non crede Archimaga Marciano?»
Quella fece spallucce. In quel periodo erano stati tutti molto presi a
tenersi alla larga dalle secche della crisi economica. Pensare ad una
collega alle prese col primo progetto era stato l’ultimo dei
pensieri.
Il professore lesse ancora una volta lo scritto digitale, rimuginando
su quelle domande ripetute alla nausea. Forse era davvero meglio
levarle, o la Veneziani si sarebbe allarmata. Ed al momento, non aveva
alcun motivo di spaventarla. Frasca si era talmente profuso in
complimenti e ringraziamenti che non gli pareva il caso di guastare il
tutto con patemi da mentore ansioso.
***
«Ammetto di sentirmi piuttosto bene» fece perplesso,
tastando le braccia come se si fosse accorto solo in quel momento di
possederle.
Francesca levò la testa ingrigita. In tanti anni di servizio,
era la prima volta che udiva simili parole dal maestro di corte. Di
solito le sue condizioni di salute erano esternate tramite gli
atteggiamenti ed il vestire, mai meno che eccellente. Ascoltarlo
manifestare il proprio benessere era un’autentica novità.
Faceva venire i brividi.
«Sicuro? Non sarebbe meglio che restasse a letto ancora un
po’?» cercò d’insistere Amelia, aiutando la
cameriera col vassoio della colazione che gli avevano appena portato.
L’uomo sedette sul bordo del letto, rassettando la camicia. Il
Duca aveva ritenuto saggio non farlo spogliare dopo il malore,
adducendo nebulosi motivi di fisiologia magica e alchimia eterea. Qualcosa a che vedere con presunti interessamenti dei fluidi incorporei che studiava.
Quando Jarvis fece per allungare la mano verso la giacca posata su una
sedia, questa si allontanò, trascinata via di comune accordo
dalle due donne. L’Archimaga
gli fece segno di no col dito, allo stesso modo di una madre di fronte
ad un bimbetto capriccioso. Francesca levò gli occhi al
soffitto, preparandosi alla sfuriata.
«Signorina Veneziani, ho dei doveri. E non ho mai mancato» replicò irritato.
Se la cameriera avesse saputo giocare a scacchi, l’avrebbe definita un’apertura classica.
«Lei non sta ancora bene» osservò gentilmente Amelia, incrociando le braccia.
«Ho da fare»
«Insomma, Jarvis, non cade il mondo se resta un po’ qui. Le
farà bene» ma vedendo che non le dava ascolto, decise di
protestare con più decisione: «Lei se ne starà a
letto, punto e basta! Guai se si alza prima di pranzo! Possibile che
tenga così poco alla sua salute?»
Il maggiordomo tornò ad allungarsi fra le lenzuola stropicciate
senza batter ciglio. Con un cenno ed una breve formula pronunciata a
denti stretti, richiamò dall’armadio un pigiama pulito ed
indicò la porta alle due donne al colmo della sorpresa.
Continuava a mostrarsi scocciato, eppure qualcosa diceva loro che si
macerando in un fosco divertimento.
«Jarvis, lei mi preoccupa. Dico sul serio»
«Sono d’accordo. Chiamo il padrone?» domandò
la serva, indecisa se fornire il solito quotidiano quell’alieno
che improvvisamente si trovava davanti.
«Non sarà necessario. Resterò qui a…
riposare» ribatté, cominciando a sbottonare i polsini.
Il lieve accenno di sorriso che videro comparire all’angolo della
sua bocca fu ben più inquietante delle sue scenate.
*Kelpie: demone acquatico che
assume varie forme, principalmente quella di cavallo. Si lascia montare
docilmente per poi gettare la vittima in acqua e divorarla.
** Chiasma cosmogonico: il chiasma
è uno schema di composizione artistica che ricorda una X, dove
gli arti della figura umana si alternano sulle diagonali: due a riposo
e due in tensione. Cosmogonico
invece è un termine che definisce lo studio in campo astronomico
dell’origine dell’universo. Quindi parliamo di un rapporto
uomo-universo come realtà analoghe.
Uff, credo che le spiegazioni in calce al capitolo siano le più
complicate che abbia mai scritto. Spero almeno che siano chiare!!!
Se vi incuriosisce il titolo del capitolo, la spiegazione è
questa: si tratta della fase in cui si liberano le strutture in cemento
armato dalle tavole che le contenevano durante il getto. Mi raccomando,
se trovate cose che non capite, chiedete!!!
Ormai dovreste essere rientrati tutti dalle vacanze, quindi, sotto di letture e di commenti!
Per Alicia84: aspetterò che tu capisca qualcosa in più o che ti sovvengano altre domande!
Per Gaea: sbrigati!!! Con gli esami, intendo... ^^
Per Emrys: chissà,
chissà... resta il fatto che, almeno da parte del Duca, il
rapporto è anche di carattere affettivo. Poi, per quanto
riguarda l'indebolimento, ah! No, no! Non posso proprio parlare!!!
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Capitolo 15 *** Tavola XIV - Secondo avanzamento lavori ***
Tavola XIV - Secondo avanzamento lavori
«Ti è sembrata felice?» domandò il Duca, quando la porta si fu chiusa alle spalle dell’Archimaga.
Le aveva appena consegnato la conferma del secondo pagamento,
accludendo un cospicuo extra per i lavori che stava portando avanti nel
giardino, nonostante le improvvisate di Lojana la costringessero spesso
a delle sospensioni. Quell’idriade,
ammesso che tale fosse, si stava rivelando alquanto invadente,
nonostante non attentasse più alla vita di Amelia su espressa
richiesta del maestro di corte. La Veneziani non doveva trovarla
particolarmente simpatica, giacché dopo ogni incontro rincasava
irritata dall’ennesima battuta di arresto che aveva dovuto
impartire alle opere per rispondere a sconclusionati interrogativi.
«Abbastanza» fece il maggiordomo, piatto.
«Potresti fare uno sforzo d’eloquenza ed approfondire
questa tua sintetica valutazione?» brontolò l’uomo,
sistemando con cura il sigaro tra le nocche.
Aveva promesso a quella benedetta donna che non avrebbe più
fumato in sua presenza, ma doveva ammettere che la cosa gli costava un
discreto sforzo di volontà. La mancanza di quell’aroma
dolciastro nell’aria e nella gola l’intristiva.
«Era molto felice, milord» confermò seccato Jarvis,
levando gli occhi al soffitto. «Ma resto dell’idea che la
vostra richiesta sia deleteria e pericolosa»
Corrado sospirò, spingendo il bastone da passeggio con la punta
della scarpa. Si era aspettato che proseguisse nelle rimostranze anche
in assenza del loro tecnico. Le rassicurazioni profuse da Amelia in
merito all’assoluta sicurezza delle opere non l’avevano
smosso.
«Smettila di vedere minacce in tutto ciò che faccio»
lo riprese quieto. «Sono certo che questa volta non ti
accadrà nulla. O perlomeno, nulla di più grave di quanto
sia già successo. Ritengo anzi, che la mia decisione possa solo
farti bene. Un nuovo ambiente. Uno spazio in più. Pensaci bene,
Jarvis»
Il volto magro di Carew si torse in una maschera di profondo disgusto e
irritazione. Proprio non capiva come mai la sua parola ora valesse meno
di zero. In passato le sue osservazioni, sempre pertinenti e
circostanziate, producevano lunghe riflessioni nel padrone, che
sfociavano sempre nell’ammissione della sua arguzia ed
assennatezza. Ora no. Non c’era verso di fargli cambiare idea. E
quella scriteriata non faceva altro che assecondarlo in ogni suo
capriccio.
«Non vedo come ciò sia possibile. Le avete chiesto di
dividere in due una stanza! Inserire un muro, creare una porta e
spostare il pavimento. Vi rendete conto di cosa implica questo
procedimento?»
«Ovviamente, sì» fece lui, sibillino.
Spiazzato dalla risposta, tornò ad appoggiare la schiena alla poltrona.
«Me lo auguro, ma non ne sono affatto convinto»
rimbrottò, stringendo i braccioli e puntando lo sguardo nel
cielo latteo fuori della finestra.
«Sono certo che avrai modo di comprendere ed apprezzare la
correttezza del mio ragionamento e la bontà delle mie
intenzioni, Jarvis» insisté, armeggiando con
l’accendisigari.
Rimasero a lungo nello studio, seduti l’uno di fronte
all’altro, muti. A volte capitava loro di trascorrere intere
giornate a quel modo. La servitù non badava a quello strano
sistema di comunicazione silenziosa che avevano. Di tanto in tanto
l’anziano si muoveva un poco sui cuscini del divanetto e Jarvis
li aggiustava a dovere con un semplice cenno o con brevi formule.
«Benedetto ragazzo, lo sto facendo nel tuo interesse»
pensò Corrado, amareggiato dall’indisponenza del
servitore. «Perché devi intestardirti tanto? Eppure non
dovresti, hai una mente eccelsa, una vastità di pensiero
incomparabile. Cosa ti prende?»
Un pensiero balenò nella mente del mago, improvviso come la vampa dell’accendisigari.
La scadenza dei quattro anni.
***
Appoggiò la lama del bisturi lì dove terminava la cornice
dipinta. Spinse con delicatezza, sentendo il metallo penetrare di
qualche millimetro la pellicola pittorica. Si fermò e prese un
profondo respiro. La consistenza era perfetta, il filtro aveva fatto
effetto alla perfezione. Cominciò ad incidere, procedendo mezzo
centimetro alla volta, seguendo il bordo della carta di riso che aveva
applicato il mattino precedente. Doveva essere estremamente precisa. Di
tanto in tanto si fermava, gettando un rapido sguardo al taglio appena
fatto e a quanto doveva ancora essere sezionato. Quattro metri e mezzo
di parete non passavano mai a quella velocità. Il pavimento
restava là sotto, lontano.
Tenne fermo il taglierino con la sinistra ed asciugò il palmo
dell’altra mano sulla felpa. Aveva le spalle rigide e la schiena
tesa, ma l’aveva messo in conto: creare una nuova parete era un
lavoro tra i peggiori. Soffiò sulla mano e riprese far scorrere
la lama. Per lo meno doveva ringraziare il Duca per averle consentito
di usare il suo tappeto volante, un Nain shees-la
grande quanto un tavolo, evitandole d’impiegare un ponteggio
ingombrante e pericoloso. Non che un affare del genere fosse sicuro,
però le possibilità di una brutta caduta o di strapparsi
i vestiti restandoci impigliata erano parecchio ridotte. Aveva una
stabilità di volo a dir poco eccezionale: era come trovarsi su
di un pavimento morbido e solido nel contempo. Per farlo scendere le
bastava spingere col piede in un punto preciso ed il complicato
intreccio floreale obbediva alla richiesta, abbassandosi di quota senza
alcuno scossone.
Amelia cercò con scarso successo di evitare d’abbandonarsi
alla contemplazione delle pennellate che simulavano una grottesca del
Cinquecento. La maestria dei dettagli della superficie la
impressionava, era difficile credere si trattasse di intonaco dipinto.
Incise l’ultimo tratto di zoccolatura verso mezzogiorno e, senza
perder tempo, passò a replicare l’operazione
sull’altro lato della cornice.
«Su, su, su! Veloce!» incitò il tappeto che, prontamente, la issò fino all’altezza richiesta.
Mangiò il panino che le aveva portato Isadora senza interrompere il lavoro.
«È buono?» le chiese, felice di rendersi utile.
«Un po’ freddo, ma va bene. Questo lavoro mi fa
sudare» rispose distratta, tenendo il bisturi con la sinistra, il
panino con la destra ed il cellulare bloccato tra l’orecchio e la
spalla.
Dopo due squilli, la comunicazione venne interrotta. Assestò un
paio di morsi risentiti al boccone ed inghiottì. Erano due
settimane che succedeva, cominciava ad essere agitata. Cosa volevano
nasconderle i suoi genitori, continuando a rifiutarsi di rispondere
alle sue chiamate? E che dire di Gianmaria? Quello svitato di suo
fratello le aveva parlato per cinque minuti, chiedendo alla fine di
ricordarle chi fosse lei. Roba da matti. Sembrava fosse diventata un
fantasma per la sua famiglia!
Guardò la piccola, che fingeva di star seduta su uno dei
cornicioni di gesso alla base della volta, dondolando i piedi nel
vuoto. Per lei non era affatto un problema arrivare lassù.
«Quando hai tagliato tutto, cosa fai?» le chiese incuriosita.
«Devo staccare l’affresco quel tanto che basta per far crescere il muro da spalla a spalla»
«Ma i muri non hanno le spalle!» rise divertita,
dondolandosi più forte e sparendo per metà nel soffitto
ricurvo.
«Sì che le hanno» rispose Amelia raddrizzandosi a
fatica. «La spalla è dove si appoggerà il nuovo
muro. Questa dove sono io e quella laggiù» spiegò
indicandole col capo la parete opposta.
«Però i muri mica crescono come le piante»
considerò Isadora mettendosi le mani sui fianchi e sollevando il
mento, saccente.
Lei sorrise, senza staccare gli occhi dal muro. Ora che aveva preso il
ritmo e quasi finito il panino andava più spedita. Forse sarebbe
riuscita a concludere il taglio di tutto l’affresco entro sera.
«E chi l’ha detto? Le cose crescono in tanti modi, sai?»
Il tono vago stuzzicò ancor di più la bambina.
«Gli devi dare l’acqua come fa Ang col giardino?»
La risata finì soffocata dal morso all’ultimo boccone.
«Più o meno. Un’acqua speciale» ciancicò, strizzando l’occhio.
«Una delle tue? Quelle che fai tu?!?» cinguettò stringendosi nelle braccia per l’emozione.
Amava stare a guardare Amelia mentre preparava le pozioni, anche quando
avevano un odore disgustoso o un colore orribile. Le raccontava tante
cose buffe e interessanti quando versava gli ingredienti o li mescolava.
«Esatto. Questa volta potresti darmi una mano, sai? Il filtro che
devo preparare deve essere molto freddo e tu sei bravissima in queste
cose»
«Sì!» trillò entusiasta, balzando in piedi
nel vuoto e atterrando a pochi passi da un mucchio di dischi di pietra
grandi quanto un pugno. «Questi sono i semini del muro?»
«Se proprio vuoi chiamarli “semini”» sorrise l’altra, continuando ad incidere.
***
«Dovete smetterla, o ne parlerò al padrone»
brontolò, sovrastando di poco il gorgogliare dell’acqua
nella vasca del lavatoio.
«Finiscila, Romilda. Non abbiamo fatto apposta» mugugnò Luisa, strizzando un paio di calzini.
«Nemmeno quando le avete vuotato quella roba per terra, avete
fatto apposta?» rimbrottò, guardando una canottiera di
Amelia che da immacolata ora era a macchie verdi per via di un lavaggio
sbagliato.
La cuoca non credeva alla spiegazione delle serve, secondo cui quella ed un altro paio di capi dell’Archimaga
erano rimasti casualmente in ammollo con alcune tende che avevano perso
il colore. Le conosceva bene, sapeva che prima di mettere i drappi a
bagno li scuotevano a dovere dopo aver controllato che non fossero
stati assaliti dalle tarme. Il loro racconto non stava in piedi.
Romilda aveva cominciato a sentire una certa indolenza nelle due,
specie quando si parlava di Amelia e supponeva di conoscerne il motivo.
Aveva sempre avuto l’impressione che Luisa provasse qualcosa
per Angelo e probabilmente il vederlo rivolgere i suoi affetti ad
un’altra la stava infastidendo più del dovuto. Era un
atteggiamento ridicolo per una donna della sua età. Francesca invece
era una sempliciotta che adattava il proprio umore in base a quello
delle persone con cui parlava. Non avrebbe mai dato contro
all’amica, anche di fronte ad un evidente torto. E se questa
aveva deciso di cercare una piccola vendetta, di certo Francesca non si
sarebbe tirata indietro nel darle una mano, per quanto sciocco potesse
apparire il suo comportamento.
«Vedete di sistemare questo disastro prima che lo sappia il
Duca» borbottò la vecchina, sventolando davanti al loro
naso la canotta marezzata.
«Non l’abbiamo fatto apposta» ripeté
Luisa, maledicendola per essere entrata nella lavanderia nel
momento sbagliato.
Se la cosa fosse stata scoperta una volta asciugato il bucato,
avrebbero potuto dire che per via della poca luce nel locale non
avevano notato il danno, divenuto ormai irreparabile. Una nuova uscita
in paese avrebbe fatto imbestialire Jarvis, che avrebbe ripreso a
vessare l’Archiamaga come nei primi giorni della sua venuta. Secondo il suo piano l’avrebbe fatta allontanare per una crisi di nervi.
«No. Era per…» s’intromise Francesca a occhi bassi.
I rimproveri di Romilda la ferivano sempre, anche se si trattava di piccolezze.
«Stai zitta e vai a stendere quella roba!» ruggì
Luisa, dandole uno spintone verso il fondo della stanza,
dov’erano tesi i fili per i panni.
«Ma tu hai detto…»
«Stendi quella roba!» urlò, tirandole uno strofinaccio fradicio.
Il pavimento prese a vibrare ad intervalli regolari e la cuoca
cominciò a battere gli zoccoli sul pavimento, sbraitando ad
Orlando di smetterla di grattarsi sul muro della cantina o avrebbe
controllato su di lui il filo della mannaia. Il drago si guardò
bene dal darle retta per i successivi cinque minuti.
Alla fine, quando tutto tornò alla quiete, Francesca si chinò
a raccogliere le mollette cadute. Una era finita sotto una cassapanca e
le toccò sdraiarsi sul pavimento per raggiungerla.
Allungando il braccio fra ragnatele e polvere, notò che
c’era qualcosa nell’angolo sotto al mobile. Una forma
scura, che distingueva a malapena contro una pallida aureola. La
sfiorò con la punta delle dita e la sentì morbida e
fredda. S’irrigidì. Cercò di ricontrollare.
L’alone luminoso si era indebolito e la cosa oscillava appena.
«Un topo!» gridò schizzando via velocissima.
In quel momento, attirato alle urla, il maestro di corte mise piede
nella lavanderia. Guardò con malcelato sdegno le sguattere
abbarbicate sul bordo del lavatoio e Romilda che, a braccia conserte,
lo ricambiava con l’identica smorfia.
«Dice che c’è un topo lì sotto» spiegò succinta la cuoca.
Scosse il capo esasperato dalla sceneggiata e dopo aver fissato per
lunghi istanti la cassapanca, mormorò un sortilegio a denti
stretti. Ne rotolò fuori un oggetto impiastricciato di
sporcizia, che ad un secondo incantesimo rivelò la sua reale
identità: la Misuratrice che Isadora aveva sottratto ad Amelia mesi addietro. La bambina doveva averla abbandonata lì dopo averci giocato.
«Riportatela alla Veneziani» ordinò, tendendola alle cameriere.
«Portala tu, ragazzo. Le signore hanno da fare» lo invitò Romilda, prima di tornare alle pignatte.
Jarvis la imitò, scomparendo nello scalone.
Appena rimisero i piedi a terra, Luisa riprese a strofinare
furiosamente i panni sporchi contro la pietra, mentre Francesca
tornò in punta di piedi dov’era la sfera.
S’inginocchiò e guardò sotto al mobile. Non vide
nulla. Eppure, era convinta che ci fosse una luce là sotto:
quella cosa era illuminata.
***
Fece scorrere il disco di pietra fino all’altezza giusta.
Respirava appena, concentrata sull’operazione. Trovò il
terzo foro lungo la superficie convessa del bordo e infilò il
lungo ago d’argento, sentendolo forzare la funicella verticale, e
lo recuperò dall’altro lato del disco. Fece scorrere tutto
lo spago fino a che la pietra non si trovò sospesa al proprio
posto, all’interno del reticolo.
Aveva rimosso una larga fascia di marmette dal pavimento, in modo da
congiungere il due muri. Dove fino al giorno prima aveva fatto bella
mostra di sé due fasce d’affresco, ora si scorgevano
pietre malamente sbozzate e malta che salivano verso l’alto, dove
era stata messa a nudo l’ossatura della volta. Amelia era rimasta
impressionata nel vedere con quanta perizia erano stati curvati ed
inchiodati i travetti di legno dell’impalcato che reggeva lo
spesso strato di stucco e gesso. Erano una forma d’arte degna di
lode. Poesia di un artigianato ormai perduto.
Contò i dischi che le restavano da inserire. Quattordici. Non le mancava molto ormai. Diede segnale al Nain
di spostarsi avanti, sopra le tavole che disegnavano il profilo della
nuova porta, dove il muro non sarebbe cresciuto, e riprese a
posizionare il germinativo. Al termine avrebbe avuto una scacchiera di
pietre tenuta insieme da spaghi verticali e orizzontali, dalle quali si
sarebbe sviluppata la nuova parete. Avrebbe potuto utilizzare dei
mattoni o dei blocchi di cemento, più facili da reperire, ma in
entrambi i casi il materiale sarebbe stato inadeguato allo scopo per
via delle caratteristiche fisiche dello stesso. Quel genere di
elementi, poi, pesava troppo: i cordoncini non avrebbero retto.
Inoltre, i dischi erano abbastanza piccoli da non interessare quel
gourmet di Orlando.
Le dita della donna correvano rapide sulla superficie ruvida dei
piattelli, inseguite dal guizzo dell’ago e dal lieve crepitio
dello spago. Nonostante le spalle pesassero e la schiena fosse rigida e
dolorante per via dei due giorni d’incessante lavoro, continuava
a restare concentrata. Veder nascere passo dopo passo una sua creatura
le metteva addosso una forza ed una voglia di fare inimmaginabili.
Sentiva di star bene, molto più del solito. Come semplice
architetto non avrebbe mai potuto provare nulla del genere. Progettare
e realizzare di mano propria era qualcosa che aveva del divino.
Undici dischi. Nove. Sei. Quattro. Due.
Un rumore alle sue spalle la fece sobbalzare, facendole sfiorare la
volta. Un suono breve, preciso, vagamente strascicato. Si voltò
e guardò alcuni metri più in basso. Seduto in fondo alla
sala c’era Angheledrior, con una bottiglia di vino in mano.
Quello che aveva sentito era il tappo che saltava. A terra, su una
tovaglia, aveva posato alcuni piatti e due bicchieri.
«Da quanto sei qui?»
«Da quando stavi più o meno… lì» e indicò cinque file più in basso.
Ad occhio e croce, dovevano essere passate almeno un paio d’ore.
«Ma che ore sono?» chiese, faticando a leggere le lancette dell’orologio per via della polvere sugli occhiali.
«Quasi le dieci» rispose, fingendosi assonnato.
«Le dieci?!? Oh, mamma... non me ne sono accorta! Romilda si
sarà arrabbiata non vedendomi arrivare per la cena»
Avrebbe voluto lasciarsi cadere in ginocchio sul tappeto, ma era certa
che quello sarebbe precipitato a terra in un baleno, travisando il
gesto.
«Tranquilla, la nonna sa che eri presa con questa faccenda. Per questo ti ho portato qui la cena»
Intenerita dal gesto e abbattuta, scrollò le spalle.
«Ormai sarà fredda... Mi dispiace. Tu hai mangiato, vero?» domandò preoccupata.
Non le piaceva che qualcuno si preoccupasse per lei, anche se lei stessa avrebbe fatto altrettanto e forse di più.
«No. Ho aspettato te» rispose mostrandole la bottiglia e di
fronte al suo scoramento, proseguì: «Tranquilla, è
tutto ben in caldo. Il tuo elfo di fiducia sa come fare queste
sciocchezzuole! Attacca quegli affari e salta giù»
Rincuorata, tolse gli occhiali e pulì le lenti con la manica.
«Non posso scendere» ribatté, cercando di sembrare
molto professionale nonostante la fame le fosse esplosa improvvisa nel
ventre.
«Vertigini?» sghignazzò lui.
«No. Devo annaffiare» e indicò il grosso nebulizzatore ai piedi del nascente muro.
«Tu annoda quelle cose. A questo penso io»
In capo a pochi minuti, Amelia aveva finito di posizionare gli ultimi
dischi ed era scesa dal tappeto volante per osservare lo spruzzatore
muoversi a mezz’aria, irrorando di Composto Accrescitivo di Hemiunu* le pietre che cominciavano a sfrigolare e dilatarsi lungo gli spaghi.
Si girò e gli sorrise grata, ma nello stesso istante l’espressione di Ang cambiò, accigliandosi.
«Che c’è?»
«Perché ti sei messa questa maglia? Sai che non mi piace»
Abbassò lo sguardo sulla felpa. Davanti era stampato un grande
cuore di vetro. Era il ricordo di una gita alla Biennale di Venezia.
«Ang, sto lavorando. Non posso venire qui in abito da sera. A
parte il fatto che non ce l’ho» scherzò sedendogli
accanto.
«La odio» grugnì, riempiendo i bicchieri.
«Perché? Vuoi dirmi cos’ha che non va?»
«Questo cuore. È orrendo» sputò, guardandolo appena.
«È un ciondolo in vetro di Murano. È un’opera
d’arte!» spiegò lei, sperando cambiasse
atteggiamento.
«Fa schifo» sbottò, trangugiando mezzo bicchiere di vino senza prender fiato.
«Cosa?!?»
Sapendo d’aver calcato troppo sulle parole, inspirò
profondamente per calmarsi e chiarire il motivo della sua
ostilità verso l’indumento.
«Fragolina, immagino
quanto tu sia attratta dal lavoro che c’è stato dietro
quel ciondolo, dal disegno, dalla storia di Venezia, del vetro... Lo
capisco, fidati. Tutti conoscono la magia di Venezia. È
impareggiabile. Magica!» esclamò, non riuscendo a trovare
termini più adatti. «E poi sai, Venezia-Veneziani…
è normale che tu ci tenga. Ma questa riga nera che si contorce
nel vetro, che si allarga qui e qui… sembra volerlo soffocare,
avvelenarlo. È un male pericoloso, di quelli che sembrano
allettanti e seducenti e poi si rivelano nefasti. Che non lasciano
scampo. Questo non è il tuo cuore, è un cuore
malato!» ringhiò additandolo con forza.
«Ang…» cercò d’insistere lei, ma lo
stalliere la interruppe, l’espressione contrita per il dispiacere
che le dava, eppure decisa e severa.
«Non mi piace sapere che vedi del bello in una cosa del genere.
È orrenda. Non voglio che il tuo cuore diventi
così» e le posò una mano sul petto, triste.
«A me piace com’è adesso, con le sue gioie, le sue
domande e le sue paure. È bello nella sua tortuosa
semplicità. Non metterla, ti prego. Non voglio vederla mai
più»
Indecisa se ribattere o meno, Amelia appoggiò il capo sulla sua spalla.
«Angheledrior» disse, scostando una ciocca che le
solleticava la punta del naso. «Questa è solo
un’immagine. Le immagini non possono farci del male»
«Non esserne tanto sicura, Amelia» sospirò, passando non visto la mano sul fianco.
C’era qualcosa nella voce dell’elfo che parlava di dispiaceri lontani e mai del tutto sanati.
Guardò la parete che lievitava pian piano, producendo uno sfrigolio sottile.
«Dobbiamo proprio parlare di queste cose? Non eri venuto per coccolarmi e farmi mangiare?» s’informò.
«Vero, però ho la bocca un po’ amara adesso» mugolò storcendo il naso.
Lei sollevò la testa, guardandolo di traverso. Bevve un sorso di vino e sorrise, ricambiata.
«Vediamo se posso aiutarti» bisbigliò avvicinandosi al suo viso.
*Hemiunu – Architetto che progettò e costruì la piramide di Cheope
Domando perdono se pubblico questo capitolo con un leggero anticipo
rispetto al solito. Purtroppo causa improvviso aumento delle escursioni
fuori ufficio, non ho la minima idea di come mi trovereste di fronte al
pc, quindi, prima che abbiate a che fare con la brutta copia della
Bella Addormentata...
Per Alicia84: hihihihi, vero. Diecichili (è lui che canta) ha davvero qualche cosa che ricorda Baz...
Per Emrys: mi stavo preoccupando! Se aspettavi un altro giorno chiamavo Chi l'ha visto? No, forse meglio Chi l'ha letto?
visto che siamo on-line!!!^^ Scherzi a parte, le spiegazioni sulla
ninfa o pseudo-tale? Ci saranno, non temere. E quanto allo sblocco di
Jarvis, anche quello ha un suo perché. Ma siccome sono
dispettosa, aspetto di vedere se indovini di che si tratta!
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Capitolo 16 *** Tavola XV - Tamponamenti esterni ***
Tavola XV - Tamponamenti esterni
Ang aprì la
porta con un calcio. Aveva le braccia impegnate a sorreggere Amelia e
le labbra incollate alle sue, sarebbe stato difficile trovare la
maniglia persino con un incantesimo. Gli si era avvinghiata addosso
appena l’aveva sollevata, baciandolo per tutto il tragitto dallo
scalone alla stanza.
Con la coda dell’occhio, riuscì ad intravvedere il letto. Cinque passi avanti, tre a destra.
«Ci siamo» disse, deponendola sulle coperte.
Amelia gli impedì di rialzarsi, tenendo le braccia incrociate dietro la sua nuca.
«Non andare via, dobbiamo festeggiare» piagnucolò, la voce dolciastra di baci e di vino.
«Chiudo solo la porta» la rassicurò, liberandosi senza troppa fatica dalla stretta.
«Jarvis, io ti ammazzo!» pensò mentre le sfilava gli occhiali.
Era tutta colpa sua se era in quelle condizioni, disgraziato che non era altro.
Quel pomeriggio, il Duca le aveva comunicato un’importante
decisione: voleva estendere il contratto di lavoro ad altre due dimore
che possedeva rispettivamente a Venezia e sul Gargano. Inutile dire che
la donna aveva accettato e fatto i salti di gioia per il resto della
giornata. La sua felicità era tale da meritare una bottiglia
speciale per accompagnare la cena. Era pentito d’averlo pensato
ed ancor più di aver confidato quel proposito a Jarvis: quel
dannato damerino si era offerto di selezionare il vino migliore per
l’occasione ed aveva proposto di brindare più volte. La
cosa non aveva insospettito minimamente l’Archimaga,
ma aveva allarmato lui. Già al secondo bicchiere
l’alterazione alcolica di Amelia era palese. E quando aveva
guardato l’etichetta, per poco non aveva mangiato vivo il
maggiordomo: Essan’ud hilaf,
Vampa di dragone. Un nettare elfico invecchiato tra i migliori, ma che
gli umani potevano bere solo allungato con parecchia acqua. Jarvis
aveva fatto conto sull’abitudine di Romilda, Francesca e Luisa di
diluire il vino in tavola, cosa che Amelia non faceva. Che razza
bastardo.
Mentre chiudeva la porta lo sentì attraversare il cortile. Si
stava dirigendo di certo alla fontana per la sua sveltina notturna.
«Aspetta che dica due paroline a quella schizzata» si
disse, «poi vediamo cosa avanzerà di te la prossima volta
che avrai i bollori!»
Il cantilenare di Amelia lo strappò dalla rabbia.
«Non andare… non mi lasciare anche tu…» singhiozzò.
«Sono qui, vedi? Nessuno ti ha lasciata» rispose stendendosi accanto a lei.
«Non è vero. Loro non mi vogliono» insisté, raggomitolandosi contro il suo petto.
Ang le accarezzò la schiena.
«Chi? Francesca e Luisa? Dai, lascia perdere quelle zitellacce!»
Le serve avevano malignato per tutta la sera riguardo la decisione del
Duca prima e l’ubriacatura di Amelia poi, facendo andare in
bestia Romilda, che le aveva messe a lavare i piatti. C’era da
star sicuri che non avrebbero finito prima delle tre del mattino e non
per la quantità di stoviglie, ma perché la cuoca le
avrebbe obbligate a ripassare ogni cosa almeno dieci volte. Voleva
molto bene all’Archimaga e non sopportava quel continuo denigrarla. Aveva fatto anche una bella ramanzina a Jarvis.
«Sono figlia loro… devono rispondermi! Sì, no?
Cos’ho fatto stavolta? Perché non mi vogliono bene?»
Capì che parlava dei suoi genitori. Li aveva sentiti poche volte
da Natale. Spesso rifiutavano la chiamata o lasciavano suonare fino
all’attivazione della segreteria telefonica. Quelle rare volte in
cui era riuscita a sentirli aveva ottenuto risposte strane, vaghe,
generiche. Totalmente indifferenti. Si era sentita chiedere persino di
presentarsi, nonostante il numero fosse registrato nei cellulari. Non
poteva trattarsi sempre dell’interferenza dello schermo incantato
della villa, il Duca aveva aperto un paio di varchi appositamente per
ovviare al problema. Era convinta le nascondessero grossi problemi di
lavoro. Due clienti dell’azienda in cui lavorava suo padre erano
falliti, la ditta di sua madre viaggiava fissa sulla cassa
integrazione. Lo sapeva dai giornali o dalle brevi navigazioni in rete
che faceva la sera.
«È un brutto periodo» cercò di confortarla.
«E anche se si stanno comportando male, e meriterebbero di essere
mandati al diavolo, forse è come dici tu: stanno cercando di non
farti preoccupare. Vogliono che ti concentri sul tuo lavoro»
Essendo all’oscuro della verità, poteva solo formulare
quell’ipotesi, che non lo convinceva affatto. Sapeva che la
famiglia di Amelia era fredda e scostante nei suoi confronti, che la
considerava strana perché aveva preferito studiare e
intraprendere una carriera, piuttosto che spaccarsi la schiena
nell’ignoranza. Avrebbe avuto poco di che stupirsi, se mai avesse
dovuto scoprire che quell’atteggiamento era solo un altro modo
per rimarcare quanto fosse diversa da loro.
Ripensò a sua madre, all’ultima volta che l’aveva
vista. Era triste, nonostante il sorriso. Le sue labbra si muovevano
appena implorando un perdono che non avrebbe potuto ascoltare. Aveva
accettato di allontanarlo dal suo mondo, l'aveva sacrificato alle leggi
del suo popolo, marchiandolo e confinandolo in un luogo dove non
avrebbe avuto radici. Lui era diverso, non poteva restare con i veri
elfi. La sua era stata una condanna ben peggiore della morte. Rivide la
porta nella Roccia Solitaria chiudersi, cancellando l’accesso al Bosco Eterno di Balirian.
Rivide gli sguardi disgustati della gente che l’aveva ripudiato
venir cancellati dall’incantesimo prima e dalla dinamite poi. Era
l’autunno del Ventinove ed i gerarchi fascisti avevano dato
l’avvio alle bonifiche dell’Agro Pontino. Si era trovato
solo, a piangere in silenzio fra i tronchi caduti, chiedendo
all’acqua che fuggiva perché gli fosse toccato quel
destino. Perché doveva restare solo. Perché. Ed anche
allora, aveva potuto formulare solo ipotesi.
Guardò Amelia. Respirava piano, gli occhi socchiusi ed un
sorriso inebetito sulle labbra. Le baciò la fronte. Scottava.
«Signorina, è meglio che tu vada a nanna. Prevedo un bel mal di testa per domattina» la canzonò.
Lei si mise a sedere ridacchiando, strattonando la cerniera della felpa
e borbottando qualcosa sull’obbedire ad una imprecisata maestra.
«È rotta… non si toglie!» biascicò
scoppiando di nuovo a ridere. «Io… ho deciso…
che… dormo così!» e si lasciò ricadere sulla
schiena.
Era ubriaca persa. Oltre allo sguardo lucido e le guance arrossate, lo
si capiva perfettamente dalla dolcezza liquida ed ondulata della sua
voce.
«Lascia, faccio io» si offrì, tendendo le mani.
«Cosa?» sghignazzò, rannicchiandosi con le braccia al petto e fissandolo maliziosa.
Quante volte aveva sognato che facesse quelle smorfie deliziose da
sobria? Meglio concentrarsi sulla cortesia del gesto, che sui suoi
risvolti.
«Ti spoglio io»
«Maialino!» bofonchiò ritraendosi e scalciando, quasi volesse allontanarlo.
«Giuro che non ti tocco. Vuoi vedere?» la minacciò,
afferrandole un piede e sfilandole svelto scarpa e calzino insieme.
Annuì con troppa foga, perdendo quasi l’equilibrio benché fosse seduta.
Le iridi nere divennero bianche e luminose. Amelia era stordita
dall’alcol, tuttavia percepì qualcosa percorrere gli
abiti. Il cotone del tessuto reagì all’invocazione
dell’elfo, impiegando quel briciolo di energia vitale che ancora
conservava per scorrere via dal corpo della donna. Lei, stupita e
divertita, rideva come una bambina assecondando gli strattoni della
stoffa e dei bottoni. Intanto, Angheledrior aveva tirato indietro le
coperte, giusto in tempo per accoglierla una volta rimasta con indosso
solo la biancheria intima. Maledettissima porcheria sintetica. Quella
non avrebbe risposto alle sue invocazioni.
La guardò, beatamente allungata fra le lenzuola. Moriva dalla
voglia di spogliarsi e sdraiarsi al suo fianco. Si sarebbe accontentato
di tenerla fra le braccia. Al limite di darle un morso delicato sul
fondoschiena; era una sua piccola fissazione. L’Archiamga lo fissava di rimando, senza vederlo realmente.
«Ang?» chiamò, allungando un braccio sotto al cuscino.
«Sì?»
«Vuoi fare l’amore con me?»
Restò interdetto per qualche secondo. Sembrava essere tornata
lucida, quasi che la sbronza fosse scivolata via insieme ai vestiti. Si
sporse, costringendosi a guardarla in faccia.
«Sì» ammise baciandola.
«Adesso?»
«Sì, anche adesso, ma non lo faremo perché sei ubriaca»
«Anch’io» sospirò dolcemente.
«No, tu sei ubriaca. Io sto benissimo»
«Anch’io voglio fare l’amore con te» sbadigliò stringendo il cuscino.
Si era addormentata. Non gli restò che rimboccarle le coperte e
andare ad aprire il box di Malcanto che nitriva come un ossesso.
***
Il Duca sedeva nella biblioteca grande, scorrendo con i polpastrelli la
pagina di un pesante volume. Grazie ad un incantesimo, le lettere
stampate emergevano in rilevo al primo contatto, consentendogli di
leggere il testo con facilità.
…va tuttavia ricordato che i
Flussi di Migrazione all’interno dei Portali in questione devono
essere costantemente verificati e gli ingressi mantenuti in buone
condizioni di emissività, quando si tratti di mettere in
comunicazione due ambienti fra i quali vi siano interposte emergenze
ambientali quali catene montuose, laghi, mari. In tal senso, è
auspicabile l’inserimento di una Chiave di Didin, al fine di
verificare le condizioni del Portale di Bakayev prima del suo impiego.
Tale Chiave dispone di un guscio esterno, marcato da ventiquattro rune
di chiamata e sette chiavi di vincolo, atte a garantire la
stabilità e continuità del sortilegio di spostamento, ed
un nucleo centrale costituito da un Globo Elementale contente un demone
minore o…
Corrado chiuse il libro e si diresse zoppicando fino al muro. Appoggiò la mano lì dove sapeva essere il Portale di Zavarov.
Percepiva, nascosta sotto l’intonaco, la sottile vibrazione del
passaggio che conduceva al piano di sotto, nel salone nord. Non lo
usava da almeno trent’anni. Gli pareva inutile, data la breve
distanza da percorrere. Certamente, quando il Portale era stato messo
in opera nel 1688 dovevano esserci stati dei motivi più che
plausibili per collegare quelle stanze. Ora però era deciso a
modificarlo, chiudendo l’accesso al piano terra e spostando il
punto d’arrivo. Convertire uno Zavarov in un Portale di Bakayev era
una cosa relativamente complessa, richiedeva una lunga preparazione che
certamente Jarvis avrebbe disapprovato. Tuttavia, confidava nei suoi
mezzi per convincerlo a cambiare idea e ad aiutarlo, accorciando
considerevolmente i tempi.
Accarezzò la parete ruvida, provando una certa nostalgia. Attraversare i Portali spaziali era
stata una delle prime cose che gli erano state insegnate come mago. Era
indispensabile saperli riconoscere ed usare correttamente nel momento
del bisogno. Aveva trascorso giornate intere passando dalla biblioteca
al grande soggiorno, facendo spaventare la servitù e meritando
il biasimo di sua madre. Dopo mesi di studio e d’esercizio era
riuscito a produrne uno portatile, molto piccolo, che gli permetteva
d’infilare la mano in dispensa ovunque si trovasse. Sembrava
tutto così lontano nel tempo.
«Cosa fai Corrado?» pigolò una vocina.
L’aria s’era fatta improvvisamente più fresca.
«Meditavo, Isadora. E tu, piccola? Cosa fai?» domandò appoggiandosi al bastone.
«Mmmm, niente. Giochi con me?» rispose saltellandogli
intorno su un piede solo, calpestando unicamente i riquadri neri del
pavimento.
Corrado, la cui insonnia ormai lo teneva sveglio fino ad orari
impossibili, assentì nella speranza di poter sprofondare in un
sonno ristoratore verso l’alba.
«Va bene cara, ma guarda che io sono vecchio, non corro veloce come te»
La bambina intanto si dondolava sui tacchi, guardandolo rimettere a posto il volume sulla libreria.
«Fa niente. Io volevo giocare al dottore che cura i draghi»
«E io cosa devo fare? Il vecchio drago ammalato?»
tossicchiò facendo una smorfia, che nelle sue intenzioni voleva
somigliare al grugno di un rettile.
Lei scoppiò a ridere. Al Duca sarebbe piaciuto rivederla ancora
una volta. Conosceva quella bimbetta sin dalla sua infanzia, da quando
suo padre aveva acquistato Villa dei Gelsi. Quando rideva a quel modo
sembrava tornare umana, riprendere consistenza, ed i suoi capelli
biondi davano riflessi dorati. Una volta era stata la curiosità
a spingerlo a trovare modi sempre diversi per farla felice, ora invece
era un affetto diverso, quello di un nonno che desiderava accontentare
la nipotina. Cielo, quel sentimento lo faceva sentire vecchio e giovane
allo stesso tempo.
«No! Io sono il dottore e Orlando fa il drago, perché lui
è già un drago! Tu fai il padrone del drago! Devi
chiamarmi e dirmi di venire e spiegarmi che cos’ha»
«Mi sembra una proposta assennata. Bene, dove hai lasciato il tuo paziente?»
«In giardino, davanti»
Uscirono dalla biblioteca e scesero le scale, un gradino alla volta. Il
Duca faticava a piegare la gamba sinistra ed il fantasma, ora che aveva
compagnia, non provava alcuna fretta nel raggiungere l’ingresso.
Sapeva che Orlando stava facendo uno spuntino a base di ciottoli di
fiume, che un contadino aveva scaricato là quel mattino.
Ufficialmente si sapeva che sarebbero stati utilizzati per decorare il
giardino.
«Corrado? Perché sei vecchio, tu?» chiese,
osservando con attenzione la pelle grinzosa e macchiata della mano che
stringeva il bastone.
L’uomo si fermò per riprendere fiato.
«Mia cara, gli anni passano per tutti»
«Ma io sono come quando è morta mia sorella. Io sono
uguale uguale» osservò facendo una giravolta e guardando i
pizzi dell’abito allargarsi diafani nell’aria.
Non era la prima volta che Isadora accennava a quell’evento. Lui
sapeva di cosa parlava. Era il giorno in cui era morta, quando lo
spirito era stato strappato con violenza dal suo corpo. Allora era
troppo piccola per comprendere ciò che le era capitato, ed
insisteva sul fatto che quella che aveva veduto in fondo alle scale, e
su cui avevano pianto i suoi genitori, fosse una sorella gemella di cui
non aveva mai saputo nulla. Morire a sette anni per essere scivolata su
un gradino era un destino orribile. La Duchessina Visconti y Torres de
Villa avrebbe meritato di vivere e diventare almeno una bella fanciulla
ed una buona strega, come lo era stata sua madre nel Diciottesimo
secolo.
«Come fai a dire che non sei cambiata?» domandò, asciugandosi la fronte.
«Mi vedo negli specchi. E nel quadro»
«Quale quadro? Non mi ricordo di un tuo ritratto»
«È giù, in cantina»
Quelle cantine riservavano fin troppe sorprese, sarebbe stato bene svuotarle.
Raggiunsero l’arco d’ingresso. Il ruminare di Orlando andava a mescolarsi con i richiami di Malcanto.
«E dimmi, Isadora, ti farebbe piacere se facessi portare di sopra quel quadro? Così potrebbero vederlo tutti»
«Non si può. È chiuso» sbuffò mettendo un broncio che il Duca poteva solo intuire.
«Chiuso? Oh, non ti preoccupare. Troveremo la chiave o ne faremo
fare una nuova a Gromi. E se non basterà, aprirò la porta
con la magia» si offrì.
«Ma è chiusa!» insisté petulante.
«Ma tu vuoi quel quadro?»
«No, io adesso voglio giocare con te! Vieni!» rise, cominciando a correre verso il drago.
***
Diversamente dal solito, Lojana l’attendeva seduta sul bordo
della fontana. Le gambe lisce e tornite emergevano dallo spacco
vertiginoso dell’abito giallo. Teneva la testa un poco in avanti,
facendo ricadere la chioma vermiglia sulla profonda scollatura.
Jarvis si fermò a pochi passi da lei, prendendo un’ultima
boccata dalla sigaretta, ripetendosi che il sorriso maliardo di quella
femmina non lo incantava. Era solo il segnale della sua
disponibilità.
Lojana pareva molto seria, cosa assai improbabile conoscendola. Evitava
di tormentarsi i capelli, non giocherellava coi bordi strappati della
veste da prostituta che indossava, le gambe erano immobili, accavallate
con discreto contegno.
«Mi piace, sai»
Non le chiese a cosa si riferisse, sapeva che gliel’avrebbe detto comunque.
«Amelia» esalò svagata, sollevando le spalle nude.
Il maggiordomo gettò la cicca a terra, schiacciandola con rabbia sotto al tacco.
«Mi parla, è cortese. Però si arrabbia, ribolle e
si trattiene. Mi vorrebbe picchiare, mandare via di qui, ma non lo fa.
Lo fa per te» fece, ricomparendo ad un soffio dalle sue labbra.
«Lei è buona. Molto buona»
«Non ti deve riguardare» rispose, lasciando vagare lo sguardo sui merletti rovinati attorno al seno.
Sentir parlare di quell’insopportabile presenza lo infastidiva.
Ed in quel momento, arrabbiarsi era l’ultimo dei suoi desideri.
Scelse di rivolgere la sua attenzione ad altro: prima la giacca che
cadeva a terra, poi la cintura che scivolava via dalla fibbia ed infine
i pantaloni.
«Dov’è, lui?»
«Taci» mugugnò, seguendo il dischiudersi di quelle labbra scarlatte che come ogni volta anelavano un bacio.
Improvvisamente, prima che potesse afferrarla per i fianchi, Lojana
balzò indietro, restando sospesa a mezz’aria.
Sbatté le palpebre pesantemente truccate, sgranando gli occhi
sull’uomo che aveva di fronte.
«Tu… mi guardi» ansimò esterrefatta.
«Sei pazza»
Si riavvicinò fluttuando. Lo prese per le spalle, frugando
quello sguardo scuro come se fosse una questione di vitale importanza.
«Tu mi guardi!»
Affatto impensierito dalle sue parole, Jarvis continuò a
fissarla in silenzio. Era talmente vicina da impedirle la vista di
qualunque altra cosa. L’aureola ondeggiante dei suoi capelli li
circondava, filtrando la luce delle stelle. Dietro le ciglia nere,
occhi languidi ed atterriti guizzavano impazziti sul suo viso. Attorno
alle iridi cupe c’era una linea d’un brillante color
rubino. L’aveva sempre avuta? Probabilmente sì, ma che
importanza poteva avere se quella donna aveva degli occhi strani? Dopo
tutto, non era neppure una donna. Era una creatura incantata e lasciva.
Lasciva come la sua bocca, che tremava impercettibilmente mentre gli
passava le dita fra i capelli.
«Tu… lui… mi guardi…» mormorò confusa.
Approfittando della vicinanza, Jarvis la strinse con forza a sé.
Lei non protestò. Vide la sua lingua muoversi appena fra le
labbra e questo fu sufficiente a fargli perdere la calma con cui aveva
atteso fino a quel momento. La spinse sull’erba fredda, incurante
del fatto che si trovassero in un punto dove potevano essere scorti.
«Taci» le intimò, armeggiando con le pieghe dell’abito.
Lei lo aiutava, cercando di avvicinarlo, estasiata dal ciò che
la sua mente ottenebrata credeva d’aver scoperto. Lasciò
che le scivolasse dentro con un gemito. Sentiva che la stringeva e le
sollevava i fianchi, sistemandosi meglio tra le sue gambe. Il respiro
affannato dell’uomo andava ad intrecciarsi col suo, strozzato dal
piacere che dava e riceveva.
Scansò quelle mani che tentavano di toccarlo, inchiodandole sul
terreno. Non gli sarebbe sfuggita come poco prima. L’avrebbe
avuta come ogni volta, fino in fondo. Si sarebbe macchiato ancora di
quell’abominio, possedendo quel corpo con tutta la foga che
sentiva. La vide sorridere, trascinata dalle sue spinte, la udì
bisbigliare qualcosa. Il vestito si aprì lasciandola nuda,
completamente in balia del suo desiderio. Jarvis si fermò,
sollevandosi un poco.
«Guardami» lo supplicò e lui non poté far altro che accontentarla.
Era la prima volta che si mostrava, che si offriva a quel modo. Mai
avrebbe immaginato di arrivare a tanto. A lui era sempre bastato
trovare la via fra le sue gonne, era ciò che quella prigione di
carne gli chiedeva con crescente insistenza. Ciò che ora aveva
davanti era privo di paragoni. Nella sua mente i pensieri si confusero,
il ribrezzo per quell’atto scellerato venne relegato in un limbo
lontano. Il baratro dell’orrore svanito nel mare del godimento
carnale. La divorò con lo sguardo, mentre le mani si riempivano
di quelle curve tentatrici, gustando una forma di piacere fino a quel
momento ignota. I loro fianchi ripresero a danzare mentre la esplorava,
scoprendo quale perfido e meraviglioso strumento di lussuria avesse con
sé. Nessuno gli aveva mai parlato del potere contenuto nel corpo
femminile e Jarvis, d’altro canto, aveva focalizzato la propria
attenzione unicamente sui suoi bisogni più impellenti.
L’orgasmo lo travolse, lasciandolo senza respiro. Era la prima
volta che provava una sensazione tanto violenta e piacevole. Mai prima
d’allora l’aveva trovato così meravigliosamente
appagante. Si distese su Lojana, assaporando il contatto del suo seno
contro la stoffa della camicia. Indescrivibile. Semplicemente
indescrivibile. Avvertiva la procacità della sua figura, ne era
inebriato.
Alzò la testa e con uno scatto arrivò vicinissimo al suo
viso. Quel gesto strappò un mugolio di sorpresa nello spirito
della fontana. Un bacio. Aveva cercato di darle un bacio.
Si ritrassero entrambi, spaventati da quel contatto bruscamente
interrotto. Lei portò le dita alle labbra e, senza rendersene
conto, Jarvis fece altrettanto, sconvolto. Che gli era preso? Cercare
di baciare quell’essere che aveva sempre cercato di tenere
lontano? A che scopo? Un bacio. La forma di contatto che deprecava
sopra tutte. Aveva giurato a sé stesso di non farne mai uso,
cosa lo aveva spinto a tradire i propri propositi in maniera
tanto clamorosa? E che dire di quelle carezze? Della voglia di sentire
e compiacersi di ogni parte di quella femmina impudica?
Tese la mano, sfiorandole appena il mento.
«Lojana…»
Perché la stava chiamando? Non sapeva spiegarselo.
«Tu… tu mi hai chiamata… non sei…»
disse con voce tremante rialzandosi e l’abito con lei.
«Dov’è? Dimmi lui dov’è!»
gridò svanendo nella notte.
Rimase solo, inginocchiato nell’erba. Il freddo dei primi giorni
di marzo che gli pungeva la pelle non riusciva a dare ordine alle idee.
Dai campi giunsero i terribili nitriti di caccia dell’Incubo.
Pronto per voi lettori il quindicesimo capitolo. Chissà che
lambiccarsi di idee dietro a quel che leggete! Sarei proprio curiosa di
avere i commenti di tutti i lettori.
A proposito, dove si è cacciato il mio ritardatario e fidatissimo Emrys? E Alicia84? Mi raccomando, chiunque voglia aggiungere uncommento è ben accetto, anzi, desiderato!
Per Gaea: lo so, sono un po'
cattiva con Amelia, ma trovami un autore che non bistratta un po'
l'eroe... ^^ Il memento di Ang ha sicuramente una valenza dolorosa per
lui, credo tu l'abbia potuto intuire anche da questo capitolo. Per la
dieta Orlando, se devo dire la verità, mi sono ispirata al
Mordiroccia de "La Storia Infinita". Insomma, basta draghi carnivori,
che noia! Avrai notato che qui, la gelosia di Francesca le è
costata una belal punizione. Romilda non perdona! In bocca al lupo per
gli esami e, se la prossima recensione dovesse essere troppo lunga per
EFP, hai sempre la mi amail su cui sfogarti!
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Capitolo 17 *** Tavola XVI - Seconda sospensione lavori ***
Tavola XVI - Seconda sospensione lavori
Isadora era entrata correndo nelle scuderie, chiamando Ang a squarciagola.
Il Mezz’elfo si affacciò da un box, dove stava strigliando una giumenta.
«Ehi, piccolina, che fai qui? Non vieni mai a trovarmi… ma che c’è?» domandò sorridendo.
«Amelia…» piagnucolò, le spalle che sobbalzavano per i singhiozzi.
Continuando a sorriderle, lo stalliere uscì nel corridoio, appoggiando le mani sulle ginocchia.
«Amelia tornerà fra qualche giorno, te l’ha detto
stamattina. Il Duca le ha dato il permesso di andare a casa per
Pasqua» cercò di rispiegarle per tranquillizzarla.
«Sai quanto ci tiene ad andare almeno alle messe importanti,
visto che Jarv non la fa andare manco a San Francesco per la funzione
della domenica!» scherzò.
C’era stata una diatriba infinita tra i due nei giorni seguenti l’arrivo dell’Archimaga,
che all’epoca non immaginava neppure di poter tener testa
all’arcigno servitore. Per disperazione, Amelia seguiva la messa
della domenica in radio-streaming su internet, asserendo che in quel
modo poteva virtualmente far compagnia a chi, per ragioni ben
più serie delle sue, non poteva partecipare
all’Eucarestia.
La bambina scosse il capo, continuando a premere i dorsi della manine sugli occhi.
«No! No! Amelia piange!»
Era molto tenera nella sua ostinazione. Aveva praticamente deciso di
adottarla come sorella maggiore, più che come amica. Amelia
ascoltava i suoi assurdi ragionamenti, la coinvolgeva nei lavori, le
raccontava favole e storie che aveva sentito durante il suo
apprendistato o letto nei libri. Ang mise una mano sul capo della
bambina, ora della consistenza del vapore, fingendo di scompigliarle i
boccoli biondi.
«Le manchiamo di sicuro, ma non credo…»
«Lei piange adesso! Io l’ho vista!» gridò
levando le mani dal viso e cercando di afferrare quelle dello stalliere
per trascinarlo fuori. «Ang, vai a prenderla! Vai! Adesso! Amelia
piange!»
Angheledrior rimase turbato nel vedere qualcosa che somigliava a delle
lacrime scorrerle sul faccino. Non poteva essersi inventata tutto, le
sue bugie erano facili da indovinare. Ed i suoi occhioni azzurri erano
diventati la sola cosa vera in tutta la sua figura.
«Isa, dove hai visto Amelia?»
***
Poteva passare che la signora De Ponte faticasse a riconoscerla. Prima
di tutto, quando si era affacciata dalla finestra era senza occhiali e
la sua cecità era nota al mondo intero. Secondo, la cara
vecchina aveva da poco oltrepassato la soglia dei novanta, quindi
c’era poco da stare allegri, visto che i suoi neuroni erano in
pensione da prima che lei stessa venisse al mondo. Di sicuro sentirsi
dire che i Veneziani non avevano una figlia era quanto meno ridicolo.
«Almeno ha detto che sono al supermercato» rifletté
mentre a larghe falcate raggiungeva il discount in fondo alla strada.
Il borsone non pesava molto, ma era la quintessenza del fastidio. I
marciapiedi erano troppo stretti e quando incrociava altre persone era
costretta a stringerselo addosso, camminando di sbieco per non urtare.
Il minimarket aveva un parcheggio piuttosto piccolo e privo di
recinzioni, cosa che le permise d’individuare sua madre che
avanzava con due grossi sacchetti di plastica pieni di spigoli.
«Sorpresa!» urlò, appena le fu alle spalle.
La donna lasciò andare a terra una delle borse, che conteneva
surgelati e verdura, sobbalzando vistosamente. La giovane rise,
chinandosi immediatamente a raccoglierla. Pesava quanto Orlando.
«Scusa, non ho resistito. Lo so, mamma, dovevo avvisare che
tornavo, ma non avete risposto!» spiegò raddrizzandosi a
fatica.
Sua madre la fissava interrogativamente.
«Che c’è?»
«Guardi che sta sbagliandoo persona» disse stizzita mentre apriva il bagagliaio dell’auto.
Che razza di scherzo era? Okay, il suo non era il massimo della comicità, però quello era decisamente peggio.
«Mamma, cosa stai dicendo?»
«Senta, si vede che lei è un pezzo che sta via»
fece, indicando il borsone in bilico sulla sua spalla, «e non si
ricorda bene la faccia di sua mamma. Però non sono io» e
le prese di mano la busta di plastica, cacciandola rapidamente nella
macchina.
«Ma che stai…» tentò di dire, allibita
dall’insistenza con cui teneva in piedi quel gioco assurdo.
La voce cupa di un uomo le raggiunse.
«Che succede?»
Era tarchiato e curvo sotto il peso di due pacchi di bottiglie
d’acqua minerale, che sistemò con malagrazia accanto al
resto della spesa. La larga stempiatura era lucida di sudore.
«Papà…» mormorò con un filo di voce, cancellato dall’uscita di sua madre.
«Niente, questa signorina pensa che sono sua mamma» rispose con un’aria accondiscendente.
Non pareva offesa, solo leggermente infastidita dal contrattempo.
«Magari, signorina, magari!» sorrise bonario l’uomo,
mettendo un braccio sulle spalle della moglie. «Lei ce
l’avrebbe pure l’età per esser figlia nostra, ma
guardi, si sbaglia. Figlie non ce ne abbiamo, anche se le avremmo
volute! Forse è meglio se va dall’ottico, ce
n’è uno là avanti. Ha gli occhi un po’
arrossati, forse per quello ha scambiato mia moglie con sua mamma»
Amelia era sbigottita. Le aveva appena indicato il negozio dove aveva acquistato gli occhiali che indossava in quel momento.
«No, io… Davvero non mi riconoscete? Sono Amelia!»
s’impuntò, cercando nei volti la conferma che si trattasse
di una messa in scena.
«Amelia?» chiese sua madre accigliandosi.
Sembrava non aver mai sentito quel nome prima di allora.
«Mia madre si chiamava così! È bello che ci siano
ancora delle signorine che portano quel nome. Faccia i complimenti ai
suoi» elogiò l’uomo.
«Per favore! Tua madre era una squinternata! Non che lei lo sia,
eh! Però, io mia figlia non l’avrei mai chiamata
così» specificò con uno sguardo eloquente.
Avrebbe voluto risponderle che sì, ricordava che non era mai
andata d’accordo con la nonna, che c’era stata una mezza
guerra quando era nata e che la caparbietà della matriarca aveva
condotto all’imposizione di quel nome. Cominciò ad
indietreggiare, sbattendo contro le auto ferme.
«Signorina, ha una brutta faccia. Sicura di sentirsi bene?» chiese suo padre, o meglio, il signor Veneziani.
Non scherzavano. Non la ricordavano, non la riconoscevano.
«Forse… io… mi… mi dispiace…
scusate… scusate tanto» balbettò sentendo il cuore
battere all’impazzata per la paura.
Corse via appena svoltato l’angolo. Non voleva dar loro
l’impressione di aver parlato con una pazza. Girovagò per
il quartiere per tutta la mattina. Provò persino ad entrare
nell’edicola dello zio Martino, che la trattò come una
qualunque cliente.
Saltò il pranzo, riempiendosi lo stomaco di domande, ansie e
lacrime. Avrebbe voluto cercare conforto a San Cristoforo, la chiesa
del quartiere, ma trovò i battenti chiusi. Erano stati i ragazzi
dell’oratorio a sprangarli, per poter provare in pace la Sacra Rappresentazione della Passione di Cristo. A lei pareva di fare la Via Crucis.
Nel primo pomeriggio fece un incontro insperato. Al bar del centro
sportivo vide suo fratello. Era in compagnia di una media bionda e di
un pacchetto di patatine. Il solito spuntino post-pranzo.
«Gianmaria!» chiamò.
«Ehi, ciao! Vieni, vieni!» esclamò, sbracciandosi nel farle cenno di prender posto al suo tavolino.
Lo squadrò sorpresa. Suo fratello non era mai stato
particolarmente espansivo nei suoi confronti. Si avvicinò e
sedette di fronte a lui, che attaccò discorso.
«Allora, come va?»
«Io… non so… Sono un po’ confusa» ammise.
«Sei in partenza?» le chiese additando il borsone, come se non l’avesse ascoltata.
«Veramente sono appena arrivata, Gian»
Lui sfoderò una smorfia contrita.
«Peccato. Ma mica possono durare le ferie»
«Ferie?»
Faticava a capire dove volesse andare a parare. Proprio non era in condizione di lambiccarsi il cervello in discorsi ermetici.
«Io le ho prese per il ponte del Primo Maggio, vado a Zanzibar» declamò, estasiato dalla meta esotica.
«B-bel posto. Pieno di… colori, di vita, di storia»
Voleva controllare se fosse cambiato qualcosa nella testa del fratello,
che non era mai stato un amante della cultura, straniera o italiana.
«Mmm, frega niente. Vado per il mare. Sul catalogo è una figata!»
«S-sì… credo sia… molto bello» concordò, leggermente rianimata dalla risposta.
Il solito superficiale! Per paradossale che fosse, si sentiva rincuorata.
«Senti, scusa, posso chiederti una roba?» domandò
lui, terminando la birra. «Lo so, mo’ passo per cretino
visto che è un po’ che parliamo, ma non mi ricordo come ti
chiami»
Chiuse gli occhi, ascoltando quella frase echeggiare nella mente per lunghi secondi.
«A-Amelia» sospirò.
«Ah, sì! Che scemo! Del corso di Step!»
Figurarsi se non tirava di mezzo la sua dannata palestra. Gianmaria era rimasto fissato col fitness, nonostante tutto.
«No, io sono…»
«Scusa! Sei in quello della Mirella, coso… come si chiama… Pilates!»
«Esatto» mentì a denti stretti. «Senti, non
sono sicura ma… devo fare dei lavori a casa e in palestra mi
dicevano che hai una sorella che fa l’architetto»
Doveva tentare. Parlando con Gianmaria le era balenato in mente che poteva essere opera di un suo concorrente, di un altro Archiamgo
che mirava ad avere il suo posto a Villa dei Gelsi e che aveva
modificato la memoria della sua famiglia per vendetta. Aveva persino
immaginato fosse stato quel disgraziato di Tramonti. Come poteva essere
stata cancellata ogni sua traccia? Qualcosa doveva pur essere rimasto,
un vago ricordo, un’ombra, una discrepanza…
«Io? Ma và là! Sono figlio unico! T’han detto
male» replicò divertito. «Beh, vado che
m’aspettano. Ci vediamo al corso!»
Non lo guardò andar via. Entrò nel bar.
Poco dopo piangeva seduta sull’autobus diretto alla fermata della metropolitana.
***
«Sono giorni che va avanti così. Non sarà il caso di dirlo a Jarvis?»
Romilda alzò lo sguardo dall’impasto. Per quella sera
aveva ricevuto espressa richiesta dal Duca di preparare un bel piatto
di pasta con le sarde, ovviamente con pasta fatta in casa, e la donna
non se l’era fatto ripetere due volte.
«Il padrone sa quel che fa» rispose, aggiungendo un poco d’acqua alla massa ancora troppo asciutta.
«Va bene, ma non è normale che se ne vada in giro tutta la
notte, parlottando da solo! E se si sente male?» frignò
Luisa.
«Il padrone è malato?» fece perplessa Francesca, intenta a levare la lisca ai pesciolini.
«No, ma se continua così si ammalerà di sicuro! Ha
un’età! Non può continuare così!»
La cuoca intanto aveva ripreso ad impastare. Il volto rugoso mostrava
la grande concentrazione che metteva nella creazione del manicaretto.
«E poi, che storia è questa che se ne sta appiccicato ai muri, strisciando i
piedi sui pavimenti? Sta lì a toccarli per ore! Cosa crede? Che
si spostano subito se glielo chiede? E lascia tutti quei segnacci neri che
non si riesce a tirarli via se non si sta lì un’ora a
strofinare!» grugnì, disponendo in fila le ciotoline con
gli ingredienti per il sugo.
«Tu hai detto che è un mago» intervenne
l’altra serva. «Può spostarli come gli piace, no?
Sennò che mago è?»
Di tutta risposta, Luisa si voltò, dandole le spalle e cominciò a pulire i pomodori.
***
Alzò lo sguardo. I rami degli ippocastani erano ancora spogli,
le foglie troppo minute per nascondere il cielo. Non ricordava bene
come fosse arrivata fin lì. Durante l’Università
andava spesso nel piccolo giardino lungo Corso di Porta Vittoria,
accanto al palazzo della Regione. La facciata di mattoni della chiesa
di San Pietro le era sempre piaciuta. Ora non parlava, non trasmetteva
nulla.
Guardò l’orologio. Le diciassette. A quell’ora
c’era sempre un bel via vai di persone sul marciapiede, alcuni si
fermavano alla bancarella di libri usati, zingari e ambulanti sostavano
sulle panchine sotto gli occhi severi del vigili. Guardandoli, Amelia
non poté fare a meno di chiedersi se qualcuno l’avesse
notata. Sentiva di sbiadire minuto dopo minuto.
Due ore prima Amelia si trovava al Dipartimento di Tecnologia, spaventata a morte.
«Professore che sta succedendo? Io non capisco…»
aveva singhiozzato. «Passino i vicini, ma i miei genitori…
mio fratello! Perché non mi hanno riconosciuta?»
Nel dirlo aveva cercato il proprio riflesso nella finestra. Era sempre
lei. Capelli castani, occhi verdi dietro gli occhiali, carnagione
chiara. Non era dimagrita in quei mesi e neppure era diventata una
botte! Era robusta allo stesso modo di quando era partita. Anche gli
abiti era dello stile sportivo e poco appariscente che usava fin da
ragazzina! Cosa stava succedendo allora alla sua famiglia?
«Amelia, io… ti devo delle spiegazioni»
La faccia di Martini era scoraggiante.
«Quali?»
«Calmati. Vuoi un caffè?» aveva proposto, trovandosi
di fronte un secco diniego. «D’accordo. Ma stai attenta,
queste notizie potrebbero essere brutte solo se hai intenzione di
vederle come tali. Personalmente ritengo dovresti…»
«Parli, professore!» l’aveva incitato, sbattendo i pugni sul tavolo.
Aveva sempre detestato quel suo modo di girare intorno alle questioni.
«Sì. Sì, va bene. Dunque, da dove potrei cominciare?»
«Ci diamo una mossa?» aveva sbraitato Enrica, spazientita
quanto l’altra. «Le dica cos’è la grana e
via!»
Amelia era stupita. Anche a lei quindi stava succedendo la stessa cosa?
Anche l’ipotesi che si trattasse di Carew era sfumata.
«Tu sai…»
«Sfiga mia, sì. Anche se non è proprio come la tua.
Un po’ meglio» aveva ammesso, tornando a fissare truce
l’insegnante. «Però è lui che te lo deve
dire, non io!»
L’uomo aveva cercato di sistemarsi sulla sedia, che sentiva scottare.
«Amelia, il mestiere di Archimago
comporta dei sacrifici, questo lo sai. Segretezza, difficoltà a
trovare clienti, spesso ci si allontana da casa per lunghi periodi, si
fanno contratti fortemente restrittivi, per non parlare la riduzione
dei rapporti interpersonali» aveva cominciato.
Quelle parole l’avevano terrorizzata.
«Non si diventa Archimaghi
per passione. Lo si nasce. È una condizione intrinseca. Tu sei
stata generata già preordinata a divenire una professionista
delle costruzioni magiche. È nel tuo schema costruttivo»
«La fa sembrare la predisposizione per un climatizzatore, se
gliela spiega così» era esplosa Enrica, schifata.
«Sì, scusate. Non è una cosa tanto tecnica. Dicevo? Ah, sì. Tu saresti diventata comunque un’Archimaga,
a prescindere dalle tue esperienze, dalla tua vita di tutti i giorni.
È così, punto e basta. Questo ti ha resa diversa agli
occhi di tutti. Dicevi che da piccola ti davano della sognatrice, di
quella con la testa tra le nuvole. In verità era semplicemente
quello che noi maghi definiamo in gergo Assonanza»
Conosceva quel termine solo in riferimento agli accordi musicali.
«Rispondevi a qualcosa che gli altri non sentivano» aveva
sintetizzato la Marciano, facendo nuovamente segno a Martini di
spicciarsi.
«L’Assonanza ti
rendeva una persona superiore alle altre, diversa. Non una maga, ma su
quella strada. Questa tua “specializzazione” ti ha
avvicinato alla stregoneria, ma nel contempo ti ha allontanata dai
tuoi… simili, creando una barriera di incomprensioni»
«Cosa vuol dire? Che… è il mio lavoro ad allontanarli?»
Era sconvolta. Scopriva che proprio ciò che più desiderava al mondo era ciò che maggiormente la feriva.
«Sì e no» aveva sospirato Martini. «Il distacco era inevitabile. L’Assonanza
agisce in maniera tale da difenderti dall’invadenza delle menti
“non pronte”, non recettive alla magia, ponendoti in una
condizione privilegiata. Quella gente non può capire, non
farebbe altro che creare fastidi e guai. E noi dobbiamo tutelare in
ogni modo la nostra opera. Questa barriera un po’ alla volta
avrebbe intaccato i ricordi dei tuoi cari, rendendoti un’immagine
presente, anche se sfuocata. Non doveva cancellarti del tutto»
soggiunse grattandosi la testa.
«Allora cos’è successo?»
«A dicembre mi hai detto che qualcosa già non quadrava, no?» era intervenuta Enrica, pensierosa.
«Sì. Mi hanno fatta impazzire. Era come se non gli
importasse del mio ritorno. Gli zii nemmeno ricordavano il mio nome. O
la mia laurea» aveva sospirato, irritata e depressa.
«Guarda il lato positivo, per la famiglia di idioti che ti
ritrovavi, meglio perderla che trovarla!» aveva sghignazzato
malevola.
La sua superficialità su certe questioni era allucinante. E soprattutto di nessuna utilità.
«Come ti permetti?!? È la mia famiglia!» aveva strillato Amelia.
«Era, casomai»
«Quanto sei… stronza!»
Era quasi impossibile cavarle parolacce di bocca e la Marciano era riuscita nell’impresa.
«Obbiettiva» aveva specificato con cinismo. «Dai, ti
hanno sempre considerata una nullità! Una perfetta cretina!
Meglio levarseli dai piedi»
Martini aveva decretato fosse meglio intervenire, prima che si facesse saltare alla gola dalla collega esasperata.
«Vedi Amelia, probabilmente era destino che venissi espulsa da quel nucleo familiare»
Pessima scelta di parole, avrebbe dovuto immaginarlo.
«Espulsa?! Professore, io me ne sono andata prima per
disperazione! Ero furiosa! Ma di sicuro non avevo
intenzione…»
«Cos’hai fatto?» aveva chiesto stupito.
«Me ne sono andata. Sono tornata dal Duca»
Il docente aveva fatto una faccia strana, dapprima impensierita e
subito dopo sollevata. Pareva gli avesse tolto un gran peso dalla
coscienza.
«Amelia, temo che l’unica persona che possa addebitarsi la
colpa di questo evento sia tu» aveva finito col dirle, dopo
alcuni minuti. «Vedi, l’Assonanza
era attiva sui tuoi parenti. Con ogni probabilità la tua
famiglia era molto sensibile ai suoi influssi e questo ha agevolato la
dissoluzione dei ricordi, forse cominciando già dalla tua
infanzia. Andandotene in anticipo e con rabbia, non hai dato modo
all’incantesimo di stabilizzarsi come invece avrebbe dovuto
essere. Era una cosa assolutamente necessaria in una fase così
delicata come il primo riavvicinamento. Hai spezzato il legame che vi
univa. In qualche modo, rifiutando la situazione, tu stessa hai
rifiutato la tua famiglia. L’Assonanza ha solo agito di conseguenza, cancellandoti del tutto»
***
Si fece riconoscere allungando le scarpe di cuoio nel suo ristretto
campo visivo. Lavorazione artigianale, fibbie brunite, pelle di cervo
lucida e splendente. Se ne vantava spesso e a ragione. Erano veramente
molto belle. Sprecate per i marciapiedi lerci di Milano.
Ci aveva messo poco dalla chiamata. Meno del quarto d’ora su cui
era tarato l’aggeggio del Duca. Ed ora era in piedi al suo
fianco, in attesa. Lei stava seduta sulla panchina, curva sulle
ginocchia, le braccia strette attorno al capo. Inorridì per la
mancanza di educazione. Per nulla al mondo ci si doveva disporre a quel
modo indecoroso.
Visto che non dava fiato a quella sua fastidiosa voce, meditò se
inveire perché costretto a tornare a prenderla nel giro di poche
ore anziché dopo i cinque giorni stabiliti, o restare zitto a
sua volta, carico di biasimo. Optò per la seconda, decisamente
molto più efficace su una persona ridotta a quel modo.
«Jarvis, lei ce l’ha una famiglia?» domandò ad un tratto.
«No» rispose asciutto.
Amelia annuì, lo sguardo fisso su una cartaccia.
«Anch’io. L’ho appena persa. Per sempre, a quanto pare» disse, parlando ai ciottoli del pavé.
L’uomo evitò d’indagare, quel poco che aveva udito
era sufficiente. Nell’aiuola tubavano fastidiosamente dei
piccioni grassocci. Jarvis era seriamente tentato di farli scomparire
all’istante.
«Non mi dà il benvenuto nel club?» singhiozzò, drizzandosi a sedere e asciugando gli occhi.
Non sentiva di doverle dare alcuna risposta. Dopotutto, che razza di
benvenuto doveva darle? Era talmente sciocca quando parlava a quel
modo. Rimase in silenzio, squadrando con sdegno un ausiliario che li
teneva d’occhio dall’entrata della chiesa. Certo doveva
fare una certa impressione vedere un uomo indossare una divisa molto
simile ad un abito da cerimonia.
Infine l’Archiamga si
alzò e lo seguì all’auto, dove caricò il
borsone. Rimase appoggiata allo sportello, assorta. Il maggiordomo era
immobile, l’immancabile espressione torva sulle guance scavate.
«Senta Jarvis, ha fretta di tornare alla villa?» domandò con un fil di voce.
Ci mancava solo di doverle fare qualche favore. Che le era saltato in
mente? Di passare da Piazza Duomo per fare un salutino alla Madonnina?
O di andare a gettare un ultimo sguardo a quella che era stata la sua
casa, per struggersi sotto una finestra?
«Le va un caffè?» domandò mesta la donna, fissando una vetrina lì vicino.
Sembrava una domanda, ma Jarvis vi colse un ordine nascosto. Voleva che
l’accompagnasse a bere un caffè. Aggrottò la
fronte, lottando inutilmente per tacere.
«Facciamo presto però, siamo attesi per la cena»
Non so perché, ma temo che dopo questo capitolo riceverò
un mare di critiche perché sono cattiva nei confronti della
protagonista. Ma permettetemi di citare il Mago Merlino della Disney,
quando parla con il giovane Artù, a sua volta vessato
all’inverosimile: “Sei in una magnifica posizione! Non puoi scendere più in basso di così, puoi soltanto salire!”. Siate ottimisti!
Ben arrivata a lilianrose, aspetto i tuoi commenti!
Qualcuno ha notizie di Emrys? Mi sto preoccupando…
Per Gaea: la chiusura del
passaggio al regno elfico mi è venuta in mente leggendo una
vecchia storia che parlava di un passaggio analogo, poi scomparso. Ho
solo cambiato la location e l’epoca, per ribadire che
l’uomo-non magico è davvero abile nel cancellare
l’incanto che lo circonda. Trovi Ang poco provolone? Beh,
l’idea era già emersa mentre parlava con Diecichili: la
vicinanza di Amelia lo sta cambiando un po’, in positivo
comunque! Le serve se la son cercata: chi la fa, l’aspetti! E
quanto a Jarvis, anche lui deve evolversi. O no? Il simil-Atreiu temo
proprio non ci sarà, ma chissà, forse in un'altra
fic… ^^
Per Alicia84: ribadisco quanto
detto a Gaea, ma permettimi di aggiungere che non devi farti fuorviare
dall’evoluzione di Jarvis: è più zuccone di quel
che sembra, occhio con le simpatie (anche se piccole). E non preoccuparti
se salti i capitoli ogni tanto: capita!
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Capitolo 18 *** Tavola XVII - Sistemi di risalita ***
Tavola XVII - Sistemi di risalita
Corrado aprì
il libro, lì dove indicava il cordoncino. Era un volume antico
la cui copertina esterna, fatta realizzare anni addietro in seta nera,
conteneva quella originale in pelle di unicorno di Pomerania. Alcune
grosse agate brune ne decoravano i bordi rivestiti d’ottone.
L’involucro, esteticamente più apprezzabile del contenuto,
lo lasciava indifferente.
L’incantesimo fece emergere le finissime linee d’inchiostro
che ricoprivano la pergamena. Come la maggior parte dei libri di magia,
era stato realizzato da scrivani specializzati in quel genere di opere,
amanuensi d’altri tempi che si prodigavano per perpetrare la
cultura stregonesca.
Riprese a leggere da dove aveva interrotto quella notte. I bei
caratteri corsivi scivolavano sotto i polpastrelli inariditi dalle
lunghe letture, emettendo un debolissimo fruscio. E con loro complessi
cerchi alchemici, reticoli di rune e ideogrammi di culture ormai
dimenticate, segni da riportare in vita con cenni delle mani, e nomi,
nomi, nomi. Liste di blasonati colleghi che avevano intitolato a
sé stessi l’incantesimo sviluppato in anni di ricerche e
tentativi. Anime relegate nell’oblio polveroso della storia, che
si affacciavano al mondo occasionalmente, quando si rendeva necessario
impiegare il risultato dei loro esperimenti. In tutte quelle parole, in
quel complesso rincorrersi di simboli, numeri ed ingredienti talvolta
raccapriccianti, non trovava nulla che facesse al caso suo. Niente che
riguardasse ciò che lo tormentava.
Abbandonò il volume di arti magiche e ne richiamò a
sé un altro, ben nascosto alla sommità della libreria.
Era molto meno imponente del primo e dimesso nelle decorazioni. Una
semplice punzonatura dorata correva sul dorso, disegnando spirali
d’acanto. Si posò lieve sulla scrivania, già aperto
perché potesse farvi scorrere le dita. La calligrafia era
elegante e fitta, molto inclinata verso destra. Le singole lettere si
affastellavano lungo righi invisibili, annotando e descrivendo dettagli
di sortilegi non indicati in altri testi. Erano gli appunti di suo
padre. Sulle pagine grezze e dai bordi smangiati, la spiegazione del
metodo da impiegare ora per questo, ora per quell’incantesimo,
tentativi di combinazione degli ingredienti, errori, fallimenti. Quelli
l’interessavano più di tutti. Il tono aspro e disilluso di
suo padre, la frustrazione e gli improvvisi lampi di genio scivolavano
sopra le cancellature. Aveva ancora nelle orecchie il raschiare della
lama sulla pagina, perché venisse sottaciuto ogni accenno,
seppur vago, di una presunta incapacità.
Tolse un plico dal cassetto della scrivania. Erano le copie dei rilievi che Jarvis aveva estratto dal computer dell’Archimaga.
Percorse le linee e le campiture che indicavano murature e pavimenti,
riconoscendo porte e finestre prima ancora d’incontrarle. Le
labbra sottili s’incurvarono impercettibilmente verso
l’alto, godendo dello scrupolo con cui la donna aveva tradotto
ogni cosa in forme bidimensionali. Corridoi oblunghi, stanze tozze,
inseguirsi di gradini, i denti delle lesene. Ed il vuoto degli
altissimi soffitti decorati sopra la testa. Ogni angolo di quel palazzo
era impresso fin nel più profondo dei suoi ricordi. Mani che
carezzavano le pareti appena aveva perduto la vista che si mischiavano
ai passi misurati pretesi dal suo precettore, perché la
nobiltà dei suoi natali fosse palese, anche dopo quel giorno
disgraziato.
«Dove l’hai nascosta?» chiese mentalmente,
rivolgendosi allo spirito del defunto genitore. «Perché
hai fatto in modo che la credessi perduta, sparita per sempre?»
Un quesito che sarebbe rimasto irrisolto, almeno per il momento.
«Eppure devo trovarla. Mi serve prima che scada il tempo previsto» rifletté.
Udì dei passi nel corridoio. Si avvicinavano. Tese
l’orecchio. Gli echi deformavano il suono e le pareti lo
attutivano, al punto che riconobbe a chi appartenevano solo quando
questi fu in prossimità della porta. Raccolse con calma i fogli
e chiuse i libri mentre bussavano.
«Avanti»
«Buon giorno, padrone» salutò Ang, infilando la testa fra i battenti. «Mi cercava?»
«Sì, Angelo. Ho un incarico per te. Vorrei che andassi da
Gromi a consegnare una commissione molto importante»
***
Vorticillo saettava sopra il giardino, lasciandosi dietro una scia di polvere dorata. Quando quella mattina l’Archimaga
l’aveva liberato, aveva fatto le solite scene solo per onor di
firma. Dopo l’incidente coi gatti -che ancora gli faceva drizzare
le penne sul dorso- aveva avuto modo di riflettere su quanto avesse
sottovalutato quella donna. Aveva avuto altri padroni in passato, mai
nessuno l’aveva perdonato per uno sbaglio. Pagando quanto
stabilito, per giunta. Gli avevano strappato la coda, legato le ali,
l’avevano tenuto digiuno per anni, l’avevano persino
gettato in un sacco pieno di felini furibondi. Ma questa qui,
quest’Archimaga, era diversa.
«Non fa niente, Vorticillo. Mi basta il tuo impegno» gli
aveva detto accarezzandolo, quando l’aveva fatto uscire dalla
bottiglia perché potesse mangiare.
Aveva notato che continuava a rigirare tra le dita una medaglietta che
portava al collo. Doveva considerarlo un talismano molto potente, anche
se non avvertiva alcun potere in quell’ovale. Perfino mentre
spargeva la Terra di Babilonia sulle piante, poteva scorgere la sua mano stretta a pugno vicino al collo.
«Vado bene?» garrì.
Domanda stupida, sapeva di star eseguendo alla perfezione il compito assegnatogli.
«Come sempre!» la sentì esclamare un istante dopo.
Sorvolò i corbezzoli ed i cornioli ancora rattrappiti, vedendoli
scuotersi e cominciare a germogliare appena la polvere li ricopriva. Le
aiuole fremevano e gli steli che timidamente sporgevano dal terreno si
sollevavano, prendendo la forma di siepi e arbusti. Per la fioritura
era troppo presto, avrebbero dovuto attendere che la Terra sviluppasse appieno i suoi effetti, prima di spargere un secondo composto più specifico.
«Fa’ attenzione ai sentieri, Vorticillo! Non vorrei che
cominciasse a crescerci del muschio, sarebbe un guaio!» lo
avvisò.
«Tranquilla! So quel che faccio!» fischiò, piroettando nell’aria.
Amelia accennò un sorriso. Era la prima volta che vedeva
Vorticillo tanto collaborativo. Fece ruotare il disco di Pietra Paesina
sul portatile, verificando sullo schermo la distribuzione del composto.
Erano quasi all’ottanta percento del superficie da trattare.
Ottimo. Senza contare che le piogge in arrivo indicate dal servizio
magico-meteorologico con cui era in contatto, sarebbero capitate a
puntino per diluire la Terra e farla penetrare a fondo nel terreno.
Gettò uno sguardo soddisfatto fuori della torre. Le piante
prendevano corpo a poco a poco, dispiegandosi in una la varietà
di forme e tonalità di verde che ricordavano una grande lastra
di Malachite.
«Bello!» esclamò Isadora, sdraiata accanto a lei.
Se ne stava sollevata sui gomiti, facendo dondolare i piedi che teneva
alzati sopra le voluminose balze di crinolina della gonna.
«Non dovresti stare sdraiata per terra, sai? Ti si rovina il
vestito» mormorò Amelia, strofinando la tempia contro la
sua.
Era bello poter fare quelle cose con lei quando era felice e tornava ad
avere uno spessore quasi umano. Era una finzione molto dolce, che
faceva bene ad entrambe.
Isadora mise le manine a coppa attorno all’orecchio dell’amica, sussurrandole un grande segreto.
«Io sono la fatina della Villa dei Gelsi e ho fatto una magia speciale sul vestito, così non si rovina!»
L’altra si scostò un poco per osservarla, fingendo grande stupore e ammirazione.
La fatina della villa. Era
stata la madre del Duca a coniare quell’appellativo. Spiegare
alla piccina della sua morte e della sua condizione di fantasma sarebbe
stato troppo penoso per chiunque.
Vorticillo si appollaiò con un battito d’ali sulla barra di ferro che fungeva da parapetto.
«Fatto!» disse abbassando la testolina perché l’Archimaga potesse sfilargli la saliera che portava sulla schiena.
«Bravissimo il mio Aquilone! Un tempo record, per un banchetto degno del re degli Spiritelli dell’Aria!»
Il rondone arruffò le piume orgoglioso, prima di planare sul
piatto dove l’aspettavano una manciata di occhi di coniglio, che
cominciò a trangugiare immediatamente.
Amelia intanto faceva scorrere sul monitor le planimetrie
dell’intervento, i prospetti e le sezioni, valutando il passo
successivo. Pensava con calma, riflettendo su quanto l’attendeva.
C’erano i tetti da sistemare, le tubazioni da ripulire e
fortificare, i divisori interni da stabilizzare e poi gli affreschi, le
decorazioni, gli infissi, i pavimenti e gli arredi. E tutta una lunga
serie di altre piccole migliorie che non avrebbero potuto essere
attuate prima di completare le fasi dedicate alle strutture principali.
Il giardino era un piacevole riempitivo tra un consolidamento statico
ed una verifica generale dell’edificio.
«Isa, per favore, lascia in pace Vorticillo»
l’ammonì, notando con la coda dell’occhio che la
bambina sollevava a scatti il piatto, obbligando l’uccellino a
tenersi in precario equilibrio sul bordo.
«Perché non vola via?» ridacchiò, guardandolo dimenare le ali.
«Come sarebbe? Ho volato fino adesso!» protestò lui, arrabbiato per il pasto interrotto.
«Credo che voglia sapere perché non ti stacchi da terra
come i passeri o i corvi» chiarì sommessa l’Archimaga.
Da quando era tornata alla villa, parlava a voce molto bassa. Le tisane
di Romilda o il miele di Ang non potevano nulla su quell’afonia:
Amelia aveva rassicurato sarebbe passata presto, una volta ripresasi
dalle sue sofferenze. Se la cuoca dubitava, apprensiva come fosse
davvero la nonna della giovane, l’elfo le credeva: la sua aura
era giallo pallido, screziata di toni più scuri. Un segnale
incoraggiante.
«Pfui! Non mi spreco a toccare terra, io!» replicò
altero Vorticillo, prendendo posto sull’indice che Amelia tendeva
verso di lui.
«Vedi, Isadora, le rondini…»
«Rondoni, prego! Non facciamo confusione» corresse impettito.
«I rondoni hanno zampe molto corte. Se si posassero, per loro
sarebbe impossibile riprendere quota: le loro ali sbatterebbero a
terra» disse indicando l’oggetto della discussione.
La bimba gettò indietro il capo pensierosa, le mani che stringevano le caviglie incrociate.
«Siete un po’ sciocchini. Dovevate pensarci e farvi crescere le zampine, non le ali!»
«Ehi!»
«Su, Vorticillo, calmati. Isadora non voleva offenderti»
Appena terminato il pasto, lo Spiritello
s’infilò a fatica nell’ampolla, dando la colpa
all’imboccatura che, a suo dire, si era ristretta in sua assenza.
***
Aprì le due palpebre sommitali e diede un rapido sguardo
all’intorno. Ciascuna pupilla vagliava lo spazio in una direzione
diversa, soffermandosi sui dettagli di ciò che lo circondava,
finché entrambe non scelsero di orientarsi in un unico verso.
I passi che lo avevano svegliato dal suo pisolino pomeridiano
appartenevano a quell’essere lungo e scuro che stava sempre col
padrone. Dietro di lui un filo pallido che sapeva di bruciaticcio.
Attraversava l’arco che dava su quello spazio coperto di
pietruzze pallide ed amarognole che sgranocchiava di tanto in tanto.
Sollevò il pesante muso corazzato dalle zampe, fiutando
l’aria con estrema attenzione. No, non c’era un pasto in
arrivo. Dapprima sedette con molta calma, graffiando i ciottoli del
cortile interno, poi si avviò dondolando al portale. Orlando non
amava stare per troppo tempo in superficie, in particolar modo se non
aveva da mangiare. Preferiva muoversi nella terra, al buio, lasciandosi
guidare dell’olfatto. In quell’argilla morbida emergevano
pietre gustose, grasse radici, filoni di sabbia dolcissima, pezzi di
legno marcio e, talvolta, frammenti di una cosa rossa e friabile. Li
aveva trovati tutti vicino al palazzo. Grossi pezzi spigolosi che
odoravano di uomo, dentro i quali percepiva il calore delle fiamme. Non
conosceva la parola mattoni, ma ne aveva scorti alcuni nelle mani della
femmina, quella nuova e piccoletta che metteva succulenti pranzetti
davanti ai suoi sei occhi, pretendendo che non li addentasse.
Quella cosa fredda e puzzolente che chiudeva l’entrata della sua
tana era in un angolo del giardino. La rimessa era vuota, eccezion
fatta per l’umano di poco prima. Aveva un odore sgradevole,
peggiore persino di quella cosa che stava fuori. Grugnì in
aperto dissenso, fermandosi sul bordo del buco per misurare il salto
che l’avrebbe portato nel suo rifugio.
Jarvis restò immobile, fumando e osservando Galileo affiancare il drago nell’identica posizione.
Con un boato, il Beccodiferro
tornò nel ventre del palazzo, mentre il micio schizzava
spaventato dietro le gambe del maggiordomo. Quando decise di uscire
dalla sua ombra, l’uomo aveva percorso già parecchi metri
nella notte. Galileo lo fissò con ipocrita gratitudine,
miagolando. Jarvis gli rivolse a malapena un’occhiata. Di
rimando, una coppia di tondi iridescenti tentò nuovamente di
persuaderlo.
«Stai diventando insistente» lamentò prendendolo in braccio.
***
Stavano scendendo lo scalone, dirette alla cucina, quando la bambina si fermò a capo chino sul pianerottolo.
«Mia sorella si è addormentata qui, per terra» mormorò indicando la pietra grigia.
L’Archimaga conosceva
per sommi capi la storia della piccola. Qualcosa l’aveva intuito
dalle parole, talvolta sconnesse, che le sentiva sospirare. Altro
l’aveva appreso per vie traverse dai racconti del Duca, dagli
accenni alla loro infanzia.
«Isadora…»
Lei tirò su col naso, strisciando la punta della scarpa lungo la balaustra.
«Amelia, tu ce l’hai la sorella gemella?»
Era una domanda innocente, ingenua, distratta, eppure si sentì ferita nell’ascoltarla.
«No. Ho… avevo… ho un fratello più
piccolo» disse, decidendo che, nonostante Gianmaria fosse ormai
convinto d’essere figlio unico, avrebbe continuato a considerarlo
suo fratello.
Lo stesso valeva per i suoi genitori. Potevano anche dimenticarla, non
avrebbe fatto altrettanto. Li avrebbe tenuti sempre con sé,
esattamente come la Sacra Famiglia che le avevano regalato per i suoi
diciotto anni. Non li avrebbe cancellati. Non era colpa loro.
L’omissione di Martini aveva giocato una parte importante in quel
che era successo: aveva data per scontata l’incapacità di
Amelia di reagire in malo modo. La remissività con cui si
presentava l’aveva tratto in inganno.
Non faceva altro che rimproverarselo. Quella debolezza di carattere che
l’accompagnava fin dalla più tenera età non faceva
altro che procurarle guai, e quando riusciva finalmente a metterla da
parte, ecco che le cose peggioravano. Dov’era finito il motto di
Suor Caterina “si ottiene di più con una goccia di miele
che con un barile d’aceto”? Come aveva fatto a
dimenticarlo? Proprio in quel momento, per giunta?
«Perché vuoi saperlo?»
Isadora sorrise furba.
«Se ce l’avevi potevamo metterla qui e farla addormentare, così diventavi una fatina come me»
Amelia rabbrividì al pensiero di ciò che le stava
proponendo. Morire, gettar via la propria esistenza, diventare un
fantasma, uno spirito inquieto.
«Facevamo venire il tuo papà e la tua mamma che piangevano
e non ti ascoltavano dire che eri lì, e diventavi una
fatina» proseguì, rivivendo in un angolo della mente quel
che le era accaduto secoli addietro.
Aveva gridato fino a perdere la voce, cercato d’afferrare le mani
ed i capelli dei genitori, era corsa intorno a loro. Nessuno
l’aveva guardata, continuavano a chiamare quell’altra
“la loro bambina” come se lei non esistesse. Aveva fissato
con odio la sconosciuta che le somigliava tanto, che aveva i suoi
stessi capelli biondi e gli occhi azzurri spalancati nel vuoto, che
indossava persino un abito identico al suo e che, dormendo, le aveva
portato via i genitori.
Si avvicinò all’Archimaga.
«Io non lo sapevo che avevo una sorella, magari non lo sai anche
tu. Dobbiamo cercarla!» azzardò prendendola per mano,
cercando di farle fare un girotondo.
«No. Io non ce l’ho» ribadì tremando, nella speranza che abbandonasse quei discorsi raccapriccianti.
«Ma magari…»
«No! Isadora smettila di dire queste cose!» gridò
liberandosi. «Non posso diventare come te! Non voglio! Hai
capito? Non voglio rinunciare a tutto… per… Io non voglio
morire!»
Si rese conto di ciò che aveva detto quando l’eco le
sbatté in faccia, insieme al faccino attonito della bambina.
Morire. Aveva appena usato quella parola. Morire. Isadora non sapeva di
essere deceduta. Poteva aver capito? Essersi resa conto?
«Tu… non vuoi stare con me?» pigolò, cominciando a svanire. «Non mi vuoi bene?»
Quante volte Amelia aveva rivolto la stessa domanda a sua madre quando la sgridava per motivi che non comprendeva?
«Scusami, Isadora, non… io non volevo…»
tentò di dire avvicinandosi, ma il fantasma si allontanò,
inconsistente.
«Anche tu sei come la mia mamma… e il mio papà. Sei come loro!» singhiozzò.
«No. Ti prego, Isa ascoltami…»
«Sei cattiva!»
Chiamarla non servì a nulla. Svanì in un batter di ciglia, lasciandosi dietro una scia di pianto.
***
La notte cercava d’insinuarsi dalla porticina, dove vegliava una
figura. Seduta su una seggiola sgangherata, sgranava i primi baccelli.
Nella grande cucina aleggiava l’alone di una luce incantata,
sotto la quale il maggiordomo era impegnato nella lettura delle ultime
pagine del quotidiano.
Ang irruppe a passo di marcia e capo chino. I capelli biondi nascondevano l’espressione avvilita.
«Come sta?» chiese Romilda, levando gli occhi acquosi dai piselli.
Parlava dell’Archimaga.
Dopo cena era rimasta a lungo accoccolata sul gradino dell’orto,
col capo poggiato sulle ginocchia della cuoca. Aveva raccontato quanto
successo con Isadora. Era abbattuta, triste e spaventata. Aveva enormi
difficoltà a capacitarsi della proposta che le aveva fatto,
un’ipotesi agghiacciante formulata dalla bocca di una bambina.
Francesca e Luisa erano impallidite e se l’erano data a gambe,
fingendo d’aver mucchi di abiti da stirare. Romilda l’aveva
ascoltata gemere, accarezzandole piano i capelli. Dubitava di poter
trovare le parole giuste per calmarla e la donna pareva aver solo
bisogno di un po’ di silenzioso conforto.
Dopo molte insistenze, inclusa quella del Duca sceso a sincerarsi
dell’accaduto, Amelia si era ritirata nella sua stanza
accompagnata ad Ang. Aveva frugato nelle ombre, cercando un profilo
azzurrato o un accenno di canzone. Isadora cantava sempre una
filastrocca che parlava delle stagioni e di quel che accadeva in ogni
trimestre. La ricerca era stata inutile e Ang era stato costretto, suo
malgrado, ad impiegare un sortilegio perché potesse prendere
sonno. Odiava doverlo fare. Usare la magia per imporre la propria
volontà su un’altra persona era indecente, anche se a fin
di bene.
«Dorme, ma ha il morale sotto ai piedi» sospirò,
avvicinando una sedia a quella della cuoca e cominciando a darle una
mano. «Minestrone per pranzo?» s’informò,
accennando un sorriso stanco.
Romilda rispose con un cenno del capo e riprese ad aprire i baccelli
con gesti rapidi ed esperti. Ang le teneva dietro a stento, per via dei
pensieri che gli giravano costantemente in testa. La cuoca poteva
intuirli e condividerli. La signorina che mesi prima aveva messo piede
nel cortile con l’aria di una caduta dalle nuvole, ora era
diventata una presenza familiare, quasi l’avesse sempre avuta
nella sua vita. Saperla immersa fino al collo in periodo troppo buio
per i suoi gusti, la faceva sentire impotente. Poteva solo tentare di
alleviare le sue pene dando fondo alle sue arti culinarie.
«Le avevo detto di lasciarla in pace» disse d’un tratto Carew, guadagnandosi un’occhiata furente.
Alcuni piselli caddero a terra, ruzzolando ovunque; un paio rimasero
spappolati tra le dita dell’elfo. Avrebbe voluto fossero pietre,
per tirargliele mentre lo guardava alzarsi da tavola.
«Pensi mai a quello che dici? Sul serio credi che Isadora sarebbe
rimasta a guardare Amelia fino ad oggi? Buona e zitta in un angolo
della soffitta?» ringhiò.
«Era ciò che avrebbe dovuto fare» replicò secco, armeggiando col portasigarette.
Uno scatto improvviso e gli fu accanto, le iridi nere più del cielo sopra di loro.
«No, era quello che tu volevi che facesse. C’è una
bella differenza» sibilò, gettando le ultime bucce
nell’aiuola. «Và a farti un giro dalla tua bella, io
vado a dormire. Buona notte, nonna» gridò nella porta.
«Buona notte, Angelo»
Per qualche istante si udì solo la ghiaia calpestata. Poi rimase
il debole fruscio delle fronde ad accompagnare lo scrocchiare degli
ortaggi.
Detestava vedere i suoi ragazzi discutere e mandarsi a quel paese.
Eccettuato il Duca, in quella casa erano tutti figli e nipoti per lei.
Non accettava quel genere di dissidi.
«Figliolo, non trovi di essere un po’ troppo severo? Ultimamente sembra che non ti vada bene niente»
Il maestro di corte raddrizzò con un dito il calendario appeso alla parete.
«Affatto. Ho il compito di preservare l’ordine e la
dignità di questa dimora e questo significa prendere decisioni
che non a tutti piacciono»
La vecchina annuì imbronciando le labbra. Jarvis non capì
se assentisse alle sue parole, che fingeva di condividere, o a quel
baccello che teneva in mano e che sembrava non volersi aprire.
Ben arrivata a debby 92! Rinnovo anche a te l'invito a lasciare commenti, di qualunque genere su questa storia.
Per Gaea: anche Amelia non
riesce ad accettare i risultati dell'Assonanza, ma come puoi vedere sta
cercando di reagire. No, credo che Ang non diventarà mai un tipo
molto serio, anche se al momento, la sua preoccupazione per Amelia ha
il sopravvento. Se un sasso può evolvere? Chissà! Come
puoi notare, il "caro" Jarvis conserva comunque la sua dose di
simpatia... E della proposta di Isadora che mi dici? Ancora carina e
coccolosa?
Per Emrys: eccoti qui! Ho visto
che ti sei dato da fare e hai recuperato gli arretrati! Ottimo e grazie
per tutti i commenti. Ti domandi cosa combina il Duca? Beh, credo se lo
domandino in molti fra i lettori... è un uomo che ha molti
pensieri.
Per Alicia84: lo so, lo so. La situazione è parecchio confusa, ma è il bello della suspance, no?
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Capitolo 19 *** Tavola XVIII - Sospensione causa maltempo ***
Tavola XVIII - Sospenzione causa maltempo
Un corpo tentatore,
seducente e carico di bramosia. Questo era ciò che le aveva dato
in dono e che lei aveva imparato ad usare a suo vantaggio. Sapeva dove
colpire, quali fossero quei desideri inconfessabili che tentava di
nasconderle ogni volta. Ascoltava e taceva dietro i deliri da folle
della sua condizione.
Lasciò una mano libera di vagare tra le vesti e l’erba che
cresceva rigogliosa tra le vasche della fontana. Era lì che gli
era apparsa la prima volta, in quello stesso luogo, evocata da quella
stessa mal’anima che cercava di soffocare. Lui, lui che era tanto
gelido e misurato, così distaccato, altero, falso. Era un tale
piacere guardarlo sciogliersi in vaneggiamenti mentre cadeva in
quell’inganno da lui stesso generato.
Eppure, qualcosa non andava.
«Tu sei. E non sei» sospirò, le iridi cerchiate di
scintille scarlatte puntate nel cielo. «Dov’è lui?
Dove lo nascondi?»
Lo ricordava. Il suo timore, lo stupore, la paura sul suo volto quando
l’aveva vista sorgere come l’alba dalle ombre dei suoi
sogni solitari. Non avrebbe mai potuto dimenticare il loro primo
incontro, quando lui l’aveva desiderata con tanta foga da darle
la vita.
«Sei lui. Jarvis» chiamò in un sussurro spezzato.
Quel nome. Quel nome che mai aveva pronunciato dinnanzi a
quell’uomo. Le bastava tendere una mano per riempirlo di terrore.
Poi, a poco a poco, la sua lotta interiore aveva preso a cedere. Il
distacco sprezzante con cui la trattava era andato scemando, lasciando
il posto alla furia animalesca delle pulsioni troppo a lungo sopite.
Era stato allora che aveva scorto qualcosa. Un segno, una frattura.
«Io sono Lojana. Tu sei una stella. E tu la pietra»
cantilenò, drizzandosi a sedere sulla balza levigata
dall’antico scorrere delle acque.
Teneva il capo inclinato da un lato, lo sguardo guizzante. Tornava a
fissare un unico punto solo quando la sua voce chiamava. Non quel moto
d’aria che esalava dall’interno, era un’altra la voce
che cui prestava orecchio. Una voce muta e violenta, che erompeva
improvvisa catalizzando la sua attenzione. La stessa che la trascinava
contro quei bei vestiti, che la faceva strusciare e gemere su quel
corpo che mai la degnava della sua totalità. Lei gli aveva
offerto ogni parte del suo strumento di tortura, lasciando che se ne
impossessasse. In cambio aveva solo ottenuto strani gesti. Ed il suo
nome.
Lei voleva quel corpo nella sua completa, nuda, famelica interezza.
«Dov’è lui? Dimmi dov’è» ansimò scomparendo nella rugiada.
***
«Credevo fossimo d’accordo» mormorò, scrutandolo da sopra la montatura degli occhiali.
Lui trasalì, lasciandosi quasi sfuggire di mano il sigaro che stava annusando con gusto.
«Perdonami, cara. Certe volte non so proprio dove ho la
testa» si schermì imbarazzato, facendolo sparire mezzo
scartato dentro al taschino. «Non sia mai che manchi alla parola
data!»
Amelia sorrise, guardando Francesca versare con enorme concentrazione il
the nelle tazze. Non era una mano particolarmente ferma la sua, anzi,
di solito tendeva ad allagare il tavolo con grande facilità.
Una perturbazione aveva portato pioggia battente e vento freddo su
tutta la campagna. Il cielo plumbeo era attraversato di tanto in tanto
dalle esplosioni delle folgori. La luce soffusa e grigia che ricopriva
ogni cosa aveva messo addosso a tutti un velato malessere, trasformando
gli sprazzi di primavera di una settimana prima in ricordi lontani. Il
Duca, percependo quanto accadeva, aveva indetto una riunione nel
salone. In realtà si trattava di una piacevole pausa in
compagnia, accompagnata da the e dolci.
«Jarvis, per favore, cerchiamo di dimostrarci dei buoni ospiti» lo incitò il padrone.
«Troppo tardi, l’ha già accesa»
bofonchiò Ang, seduto sul tappeto con la schiena contro le gambe
di Amelia.
Al cenno di disapprovazione dell’Archimaga,
Luisa ridacchiò, con uno stucchevole eccesso di civetteria.
Era fin troppo chiaro che non vi fosse nulla di divertente in quel che
vedeva. Francesca la imitò, ma la sua risata ricordò a tutti
lo stridio di un gessetto sulla lavagna. Affatto impensierita dagli
sguardi interrogativi che la raggiungevano, la cameriera si
servì una porzione di torta al cioccolato piuttosto generosa.
«Giovanotto, non è gentile da parte tua. Ci hai presi per
dello speck?» lo ammonì Romilda, agitando la mano nel
tentativo di dissipare il fumo.
Jarvis si limitò ad inspirare una boccata, seduto rigidamente nella poltrona di fronte.
Francesca prese a tossicchiare, nascondendo la faccia dietro un cuscino.
Amelia teneva il naso ben protetto dall’aroma dolce e caldo del
karkadè che beveva a lunghi sorsi. La cuoca e lo stalliere,
avvezzi ad odori ben peggiori, sopportavano con facilità. Il
padrone di casa stava per ordinare alle portefinestre di dischiudersi,
quando Luisa scattò in piedi con un sorriso giulivo stampato
sul volto. Una breve folata attraversò la sala non appena ebbe
aperto l’infisso, facendo rabbrividire i presenti. Amelia
spostò la sua attenzione sulla sigaretta stretta fra le dita
dell’uomo. Un lungo ricciolo di fumo saliva verso l’alto,
risucchiato fuori della porta.
«Non fa per lei» osservò piatto Jarvis, che la scrutava di sottecchi.
La cameriera accennò una risatina tornando a prender posto
accanto alla cuoca, che le rivolse una smorfia contrariata. Quel suo
atteggiamento spocchioso stava diventando insopportabile.
«Non ho mai provato il desiderio di rovinarmi i polmoni»
rispose scrutando l’orizzonte gravido di pioggia. «I miei
genitori fumavano da prima che nascessi. Odiavo l’odore che
avevano addosso, era una sorta di repellente che ci impediva di star
vicini. Vorrei aver avuto più spesso il raffreddore»
concluse versandosi dell’altro infuso.
Ang lasciò cadere indietro la testa, sorridendo sornione. Le sue
ginocchia si trovavano ad un’altezza perfetta per la sua nuca,
ottima per lasciare che lei gli affondasse le dita nei capelli,
seguendone le onde dorate.
«Che gliene importa ora? Non ha detto che ora fa parte del club
dei senza famiglia?» osservò cinicamente il maggiordomo.
Amelia guardò il suo riflesso nella tazza. Aveva ragione,
l’aveva detto e ripetuto mentre erano in quel bar del centro di
Milano. Era sola. E pure Angheledrior. Per non parlare di lui.
Perché allora sembrava che quell’uomo non avesse il
benché minimo desiderio di esternare i suoi sentimenti? Il suo
dolore? Lei e Ang ne avevano parlato per ore intere, seduti sul fieno
nelle scuderie, raccontandosi ricordi e mostrando a vicenda le ferite
ancora aperte nell’anima. Non poteva credere che Jarvis fosse
immune da quel genere di pensieri.
«Francamente non capisco perché si strugga per simile
gentaglia» soggiunse facendo cadere la cenere dalla sigaretta
sulla terrazza.
«Sei un mostro» sibilò Ang, gli occhi stretti in due
sottili fessure colme d’odio. «Certe volte penso proprio
che non meriti la fortuna che hai»
«Fortuna?» chiese storcendo le labbra.
«Sì, fortuna! La fortuna di trovarti qui, di poterti
appoggiare a qualcuno che ti ascolta e ti rispetta, a prescindere dalle
fesserie che dici!» disse allargando un braccio verso gli altri.
«E invece? Sei buono solo a sputare veleno, a dire cattiverie
ogni volta che ti va. Ti diverti a girare il coltello nella piaga. Se
mai hai avuto una famiglia, dei genitori, dei fratelli, è stato
un bene che t’abbiano perso. Nessuno si merita uno come te»
l’aggredì, puntandogli contro il dito.
Per pochi attimi, il silenzio parve cristallizzare ogni cosa nel salone.
«Su, su, ragazzi. Siamo qui per rilassarci, non per litigare» li richiamò il Duca.
I capelli bianchi e scompigliati si riflettevano sulle lenti nere creando uno stranissimo gioco di riflessi.
«Mi perdoni, signore» rispose abbassando gli occhi e
raggomitolandosi un po’ contro le gambe della donna. «Ma
non posso sopportare che parli così ad Amelia. Non è
giusto»
Il maggiordomo lo fissava sprezzante, come se lo stesse sfidando. Le sue parole non l’avevano minimamente scalfito.
«Angelo, Jarvis ha i suoi buoni motivi per parlare a quel modo.
Non sa cosa significhi nascere e crescere in una vera famiglia.
Fargliene una colpa è altrettanto ingiusto»
sottolineò con decisione.
«Non vuol dire che deve sentirsi autorizzato ad offendere chi l’ha persa!»
Il Duca scosse il capo di fronte a quella difesa appassionata e
rabbiosa. Comprendeva i sentimenti di quell’eterno giovanotto che
aveva preso al suo servizio poco prima che la Seconda Guerra Mondiale
avesse termine. Ognuno in quella stanza aveva dietro di sé una
storia analoga. Amelia era solo l’ultima della lista e
l’affetto che Angelo dimostrava per lei era ammirevole.
«Ang» chiamò Amelia, tranquilla. «Non fa niente. Lascialo perdere»
Storse le labbra, lanciando occhiate furenti al maggiordomo, quasi si
aspettasse di venir colpito da un suo incantesimo da un momento
all’altro. Non era mai accaduto in passato, meglio però
evitare di dargli l’idea.
«Non puoi far finta di non aver sentito» brontolò.
«È vero. Mica si parla così» ciancicò a sorpresa Francesca, le labbra sporche di cioccolato.
Stava per aggiungere qualcosa, ma Luisa le rifilò una gomitata nelle costole, facendole quasi sputare il boccone.
«Nemmeno a me piacciono le sue cattiverie gratuite. Anche se sono
stata io per prima a dirle. E ne sono pentita» soggiunse, di
fronte all’espressione sbalordita dell’elfo.
«É vero, l’ho detto, Ang. Ero troppo arrabbiata per
ragionare. Non so cosa mi passasse per la testa e non ho la minima idea
di cosa ci sia in quella testa,» disse indicando quella bruna del
servitore, «di cosa lei pensi di me e della situazione che si
è creata fin da quando sono arrivata. So per certo di non
piacerle» spiegò, continuando a parlare quasi sottovoce.
«Ma davvero?» replicò Jarvis sarcastico, avvolto dal fumo.
«È abbastanza evidente. Specie dalle clausole del
contratto» ammiccò, fingendosi divertita. «In tutta
sincerità, neppure io la trovo particolarmente simpatico. Questo
però non mi ha impedito di portarle rispetto e di cercare di
comportarmi in maniera corretta ed educata. Mi piacerebbe facesse
altrettanto»
«Sprechi il fiato con lui, Amelia» rimbrottò
stringendole le gambe e poggiandole una guancia sul ginocchio,
guardandola da sotto in su, ancora risentito.
Lei gli porse un pasticcino e riprese ad accarezzargli i capelli.
«Mi hanno insegnato che il perdono può fare molto. Forse
non cambia radicalmente le persone, magari le sfiora soltanto.
Però smuove sempre qualcosa. Un pensiero, una sensazione. Per
cui, con un grande sforzo» e così dicendo, liberò
le dita dai ricci dell’elfo per raggiungere il maestro di corte,
«e mi creda, sarà proprio enorme! Con un grande sforzo
dicevo, cercherò di perdonarla per tutto quello di orribile e
disgustoso che è riuscito a dire in questi giorni sulla mia
famiglia. Una famiglia che materialmente non ho più, ma che
porterò per sempre nel cuore. Perché questo è un
legame che nemmeno tutto l’odio del mondo o le magie più
potenti possono annullare. Figuriamoci le sue» ironizzò,
mostrandogli la medaglietta con la Sacra Famiglia.
Corrado pensò che parlasse da autentica strega. Il primo
comandamento della magia era riconoscere che esistessero al mondo delle
forze che neppure questa poteva domare.
«Può mettersi d’impegno quanto le pare, tirar fuori
dal cilindro tutte le malignità e le perfidie, i miei ricordi
peggiori, i dispiaceri che ho dovuto inghiottire e tacere, ma non mi
farà cambiare idea. Li amerò comunque, anche se non mi
ricordano. Anche se non posso tornare da loro. Scelgo di prendere le
sue cattiverie per lo sfogo di chi non ha un dizionario adatto a
decifrare un idioma sconosciuto. E che mi auguro un giorno
deciderà di fare un bel corso intensivo di lingue» sorrise
tendendo la mano.
Chiunque si sarebbe aspettato che Jarvis alzasse i tacchi, irritato dal
gesto, invece lo videro levare il braccio, lasciando che Amelia gli
stringesse la mano. Lui che aveva sempre deprecato il contatto fisico,
rimase immobile, quasi tremante, colto alla sprovvista dalla propria
obbedienza.
***
La stanza era illuminata a tratti dai bagliori dei lampi.
«Quando smetterà di piovere?» piagnucolò Francesca, rigirandosi per l’ennesima volta nel letto.
«Quando deve»
«Chi deve?»
«Chi deve cosa?» berciò Luisa, seppellendosi sotto al cuscino per non doverla ascoltare.
La donna si mise a sedere, tirandosi le lenzuola fin sulle spalle mentre guardava il grosso grumo di stoffa nel letto accanto.
«Tu hai detto “quando deve”. Chi deve?»
Spazientita, Luisa balzò a sedere a sua volta.
«Senti, stai zitta. Oggi ne hai combinate abbastanza, sono stufa di sentirti parlare!»
«Ma cos’ho fatto?»
In tutta risposta, l’altra tornò a coricarsi dandole le
spalle. Era fuori di sé. Ora perfino quel bacchettone di Jarvis
sembrava cominciare a cambiare idea su quella donna! No, così
non andava affatto bene. All’inizio aveva lasciato correre. Ang
s’invaghiva e perdeva interesse per il gentil sesso con una certa
frequenza. Non c’era mai nulla di serio: un paio di baci, qualche
sorriso. Tutto lì. In fin dei conti, l’essere sempre stata
al di fuori delle sue mire non le era mai dispiaciuto più di
tanto, perché apparteneva al padrone, esattamente come lei.
Erano uniti da un qualcosa che derivava dai vecchi racconti di una
volta e che ancora giravano in paese, dove il signore stabiliva i
matrimoni dei suoi dipendenti. Aveva sempre immaginato che il Duca non
avrebbe mai dato in sposa una come Francesca ad Angelo. Era fuori
questione. Ma con l’arrivo di Amelia e la scoperta che tra loro
c’era più che una banale infatuazione, il mondo le era
crollato addosso. I suoi sogni erano naufragati. Sogni che cullava da
quasi trent’anni. Si era appoggiata da subito al sostegno
indiretto che Jarvis le forniva con la sua indisponenza, il suo modo
brusco di trattare l’Archimaga,
ma ora… ora anche questo baluardo svaniva. E Francesca prendeva le
difese di quella, quando per anni non aveva fatto altro che pendere
dalle sue labbra!
«Hai visto la luce?» chiese con sospiro assorto la traditrice.
«Sono i fulmini, stupida»
«No, quella che c’era in lavanderia, prima»
«Col tempo che c’è pretendi anche di lavorare al
buio? Guarda che sei davvero assurda!» ruggì, rintanandosi
nuovamente sotto al cuscino.
Francesca guardò quella schiena curva che somigliava tanto ad un
grosso pugno. Non capiva quel che stava cercando di dirle. La lampadina
era normale che fosse accesa, in lavanderia c’era solo una
finestrella che bastava a malapena a trovare l’interruttore. Lei
parlava di quell’altra luce, quella che aveva già visto
una volta, un po’ di tempo prima. Era solo una timida aureola, un
baluginio, una nebbiolina colorata e lucente.
«Stava sotto la cassapanca. Quella dove mettiamo le cose asciutte» spiegò.
Certo la nebbia là sotto non avrebbe dovuto esserci,
perché poteva bagnare le cose già pronte per la
stiratura. Chissà come c’era arrivata?
«Ce n’è una sola e so benissimo qual è!
Adesso dormi! Domani dovremo tirar via tutto il fango
dall’androne perché quella bestiaccia ha deciso di
passeggiarci dopo aver scavato chissà dove!»
«Però…»
«Dormi o lo fai da sola!» la minacciò.
***
La pioggia aveva continuato a cadere fitta per diversi giorni, rendendo
il terreno molle e viscido. Le nubi scure si specchiavano in enormi
pozzanghere. L’acqua s’insinuava dappertutto: gocciolava
nel sottotetto dalle tegole rotte, scivolava lungo il bordo delle
vecchie finestre, ruscellava nelle cantine dalle bocche di lupo e da
fessure invisibili. Amelia era impazzita di vergogna quando aveva
scoperto che la Malia Consolidante
non aveva effetto su quel genere di danni. Serviva solo a rendere
più forti le strutture, senza saldarle. E lei ne era
all’oscuro nella maniera più totale.
«Ti costava tanto specificarlo a dovere e nel punto giusto? No,
dovevi dirlo nelle postille agli “Eventi altamente improbabili ed
inconsueti”, nell’ultima pagina del libro e senza
chiarimenti decenti!» aveva sussurrato a denti stretti contro le
incolpevoli pagine del Leko. «Razza di T-Rex con la bacchetta!
Cos’è, costava troppo l’inchiostro? Tirchio!»
sbuffò, mimando con le braccia gli arti minuscoli del dinosauro.
Così, mentre l’Archimaga
studiava col Duca uno stratagemma per metter mano alle pareti
già trattate, Jarvis e Ang erano stati incaricati di vigilare
sullo stato del basamento della dimora. Sul pavimento delle cantine
c’erano almeno dieci centimetri d’acqua che sembravano aver
tutta l’intenzione di restare dov’erano. Festoni
d’umidità decoravano le screpolature dell’intonaco e
le facce dei mattoni. L’elfo camminava scalzo con i jeans
arrotolati fino al ginocchio, lasciandosi alle spalle lunghe scie
ondulate. Si teneva rasente i muri, ascoltando il percolamento delle
acque per individuare le falle. Dal canto suo, il maggiordomo procedeva
all’asciutto grazie ad un incantesimo che spingeva via
l’acqua ed asciugava il pavimento sotto le costose scarpe di
vernice, dandogli modo di scoprire se vi fossero anche delle risalite
dal sottosuolo.
La paura più grande veniva dalle gallerie di Orlando,
perché nessuno si era preso la briga di dare un’occhiata a
quello che era andato scavando l’estate precedente. Il rischio
che qualche cunicolo crollasse trascinandosi dietro un pezzo della
villa era minimo. Tuttavia, Amelia aveva detto di non poter avere la
certezza che le fondamenta fossero intatte finché non fosse
riuscita a produrre una Lente di Kress per effettuare i debiti controlli.
Raggiunsero il punto dove la cantina piegava a nord, sotto il salone.
Nell’angolo c’era un cono di terra compatta alto quasi un
metro, alla sommità del quale si apriva un profondo cratere:
là c’era il nido di Orlando, da cui partivano tutte le
gallerie. Nella voragine umida riecheggiava il gocciolio
dell’acqua.
Ang stiracchiò la schiena, appoggiandosi ad un pilastro che
sporgeva dal muro. Jarvis era in piedi, l’acqua opaca che gli
ondeggiava intorno, lontana dall’orlo ben stirato dei pantaloni.
«Non ti ho perdonato» sbottò senza guardarlo.
«Amelia non è stata così brava da inculcarmi a
tempo di record il senso del perdono. Non capisco perché si
debba farla passare liscia a chi fa si diverte a fare del male. Ma le
ho promesso di sopportarti»
«Non ti ho chiesto di perdonarmi, Angheledrior»
I due rimasero ad occhi sbarrati per diversi secondi e diversi motivi.
L’elfo per lo stupore di sentirsi chiamare per nome dal
maggiordomo, che solitamente preferiva appellativi legati alle sue
mansioni. L’altro per il tono, pacato e consapevole di un errore
che rifiutava di sanare.
Un ghigno sarcastico stirò le labbra del garzone, che incrociò le braccia dietro la testa mettendosi comodo.
«Per caso, ti si è fatto un buco in quella testaccia?
Perché sembra che ci sia piovuto dentro e ci cresca della roba
interessante…»
I capelli mascherarono il volto dell’uomo mentre gli dava le spalle e si avviava all’uscita a larghe falcate.
***
Se Isadora avesse potuto, avrebbe trattenuto il fiato per
l’eccitazione. Frugando nella stanza dei giochi, dove ormai era
rinchiusa da molti giorni, aveva trovato un cofanetto che aveva
riconosciuto subito.
«Mamma!» gridò, stringendo il portagioie.
Quante volte aveva messo le mani sui gioielli di sua madre per giocare
ad indossarli e fingersi non più duchessina ma principessa, o
addirittura regina? Sua madre glielo permetteva solo se con lei
c’era la balia, una donna troppo pigra per sgridarla quando la
sorprendeva a giocare senza di lei. Era talmente bello sentire il
ticchettio degli anelli delle catenine e lo scorrere delle pietre
quando i monili si ammonticchiavano pesanti sul suo collo!
Chissà se sotto quel coperchio intarsiato e pieno di polvere
c’erano ancora le collane zeppe di gemme e ciondoli d’oro?
E i diademi, i bracciali, gli anelli? E gli orecchini di perle,
lunghissimi, che tanto piacevano a suo padre? Quelli che le aveva
promesso avrebbe indossato il giorno del suo matrimonio.
Armeggiò con la serratura, scoprendo che il tempo l’aveva
forzata, riducendola ad una foglia di rame accartocciata e corrosa.
Dentro non c’erano i gioielli.
«Mamma» singhiozzò, allungando la mano sul fondo percorso da numerose scanalature.
Non le aveva lasciato nulla. Nessun regalo per quando lei fosse diventata una fatina. Sapeva che non sarebbe mai diventata adulta, gliel’aveva spiegato la mamma di Corrado: le fatine
come lei restavano bambine per sempre. I suoi genitori erano felici con
sua sorella. Quella sorella sparita in una cassa di legno pochi giorni
dopo essersi addormentata.
Gettò a terra il cofanetto, che andò in pezzi. La tavoletta del fondo scivolò via, dietro al suo ritratto.
«Cattivi! Siete tutti cattivi!» urlò disperata.
Ben arrivata a natalie1977!
Forza, forza! Non fatemi stare sulle spine, ditemi i vostri pareri. Giuro che non vi mando Jarvis a casa...
Per Gaea: prendo per un impegno
serio la tua idea di scrivere qualcosa per vendicarti di Jarvis. Anzi,
se lo farai, fammelo sapere! Credo di essere tra le poche (o l'unica?)
autrice che si trova con della fanfic prima ancora di essere famosa!
Per Alicia84: Isadora è
unabambina e talvolta la sua innocenza dà dei frutti un po'
amari. Tranquilla con la suspance, un po' alla volta si chiarirà
tutto!!!
Per Emrys: dici che sei sulla
strada giusta? Mah, chissà. Non ti spoilero. Ang e Jarvis sono
in rotta, e come hai visto da questo capitolo, non sarà una cosa
che sirisolveràa breve. Per gli errori di battitura, lasciamo
stare vah. Sei solo in un periodo un po' così. Ah, visto che
citi il mio lavoro: se domani in cantiere avessi Vorticillo con me
sarebbe il massimo. Invece dovrò di nuovo trasformarmi in Jarvis
in gonnella e scarpe da cantiere e litigare con tutti. E poi dicono che
sono cattiva...
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Capitolo 20 *** Tavola XIX - Terzo avanzamento lavori ***
Tavola XIX - Terzo avanzamento lavori
Scosse il capo.
«Non la voglio. Grazie comunque» e riconsegnò la busta a Jarvis.
L’uomo la guardò con un misto di trionfo e pigra indisponenza. Per una volta concordava: non meritava quel denaro.
«Suvvia, Amelia. Sono gli accordi» intervenne Corrado lì accanto, preso dal rifare il nodo al cravattino.
«Nel contratto è stabilito che i lavori debbano essere
eseguiti a regola d’arte. Ho commesso degli errori
e…»
«Ha fatto un disastro!» proruppe il maggiordomo, indignato.
«Definizione eccessiva, anche se non nego d’aver sbagliato qualcosa» ammise lei, circospetta.
Ultimamente le sue scenate iniziavano con un pretesto qualunque per poi
sviare su altro e rinforzarsi. Aveva l’impressione che stesse
cercando in tutti i modi di farle perdere le staffe. Di certo non si
trattava di un metodo per farla reagire ai suoi problemi.
«Sbagliato?! Voi osate…»
«Jarvis? Basta, per favore» lo richiamò il padrone.
L’invettiva cessò immediatamente, sotto la minaccia di
un’eloquente oscillazione del bastone da passeggio. Lungi da lui
insistere e trovarsi in ginocchio di fronte a quella donna, senza poter
fornire spiegazioni plausibili.
«Amelia, ho già versato quanto pattuito sul tuo conto,
quindi hai ben poco da rifiutare. Ne abbiamo già parlato e sai
come la penso»
«Sì, lo so, Corrado» annuì, grata e sconfitta da quella generosità.
«Bene, siamo a posto allora. Ora vai, credo ci sia qualcuno ad
aspettarti. Non ti sei fatta bella per un vecchio cieco e il suo
amabile segretario» scherzò, stringendole
l’avambraccio col suo solito fare paterno. «Andate alla
festa e divertitevi. Trattenetevi finché lo desiderate. Jarvis
vi aspetterà, la sua insonnia di recente è
peggiorata»
Amelia girò ancora una volta lo sguardo sul servitore. Ottenerne
l’assenso per la Festa di Primavera era costato parecchia fatica,
cordiale tenacia e, se avesse potuto scorgere il livido che questi
portava al polso, qualche incantesimo costrittivo del Duca.
«Vada, si sbrighi» ringhiò.
«Perché non viene anche lei?»
La proposta era un autentico azzardo e Ang non avrebbe gradito l’incomodo.
«Vada» replicò seccato.
***
Errori, li chiamava. Giusto, erano errori, ma il tono che Amelia usava
li faceva assomigliare ad immani catastrofi quando non lo erano
affatto. Nell’impeto di assecondare le sue richieste e di non dar
noie a Jarvis, qualcosa le era sfuggito. Era giovane, al suo primo
lavoro ed aveva già avuto brutte notizie a sufficienza. Non gli
pareva proprio il caso di farne una tragedia, specie guardando
all’impegno che stava profondendo nella ricerca di una soluzione
che, era sicuro, sarebbe giunta presto.
«Stai tranquilla, mia cara. Per me sarà un vanto poter dire un giorno che ho contribuito a renderti la migliore Archimaga
di questo secolo, permettendoti di farti le ossa su queste anonime
mura!» le aveva ripetuto ogni volta che l’aveva scoperta
china sui testi di Archimagia, alcuni dei quali acquistati e fatti recapitare in gran fretta a Villa dei Gelsi.
Prima di raggiungere la festa, Amelia era scoppiata a piangere di
gratitudine e l’aveva abbracciato. Le spalle curvate dagli anni
ne avevano risentito un poco, ma era riuscito a contraccambiare mentre
lei prometteva tra i singhiozzi di non commettere altre disattenzioni.
Errori. Nonostante il parere intransigente di Jarvis, Corrado era
convinto che tutti avessero il diritto di sbagliare in buona fede. Il
desiderio di far bene portava con sé quel minuscolo onere, era
un rischio intrinseco. L’aveva provato sulla sua stessa pelle, lo
sapeva meglio di chiunque altro. Sbagliare per diletto o con
intenzione, come invece sott’intendeva il maggiordomo, era pura
perfidia. E Amelia non era certo il tipo da fare quel genere di cose.
Non aveva sbagliato di sua volontà. Non aveva scelto quell’Incantesimo Consolidante nell’intento di prolungare i lavori a suo vantaggio. Il rifiuto della paga ne era la prova.
Ad un tratto, il Duca si riscosse, colpito da un’illuminazione.
Le lenti nere scivolarono un poco sul naso. Le falangi nodose e
macchiate tremavano in cerca di sostegno. Una scheggia di
consapevolezza l’aveva attraversato, simile a quelle che lo
svegliavano nel cuore della notte quando gli studi rivelavano la loro
infruttuosità.
Errori.
Un errore.
Un unico errore.
E l’intenzione di compierlo.
Si alzò, obbligando le vecchie ossa ed i muscoli a lottare
affannosamente nel tentativo di tendersi. Fu costretto ad appoggiarsi
di peso al bastone, che temette si sarebbe spezzato sotto lo sforzo
improvviso. La testa gli girava e le forze venivano meno.
Inspirò quel tanto che i polmoni consentivano, annaspando
nell’aria che odorava ancora di fumo.
«Dannato vizio» mormorò tra sé, ripensando al
divieto imposto saggiamente dalla donna. «Se solo t’avessi
incontrata ottant’anni fa, Amelia! Sarei ancora un arzillo
giovanotto»
Mise da parte le battute di spirito e raggiunse la scrivania.
Aprì tutti i cassetti, estraendo da ciascuno quanto gli
occorreva, da minuscole ampolle a vecchi taccuini, dalle stilografiche
a scatoline che contenevano rimasugli d’ingredienti.
Richiamò a sé alcune statuette e candele sparse nella
stanza. Sparpagliò ogni cosa sul tavolo secondo un ordine
preciso, controllando e memorizzando le posizioni. Nel mezzo, gli
appunti di suo padre ben aperti e fermati con due stecche di legno
fossile. Con un semplice incantesimo chiuse la porta e tirò i
pesanti tendaggi. Non vide guizzare le tremule fiammelle che lui stesso
aveva invocato. Aveva ciò che gli occorreva: buio, silenzio,
concentrazione, ingredienti, memorie.
Ora era lui, a non potersi permettere il lusso di sbagliare.
***
Era notte inoltrata lungo le rive boscose del Torrino. Le ultime luci
della Festa di Primavera andavano spegnendosi in lontananza, minuscole
braci schiacciate dal cielo notturno. Le acque scorrevano placide,
facendo ondeggiare appena i canneti che seguivano il sospiro incostante
delle fronde.
Riparati dall’abbraccio ricadente di un salice, Ang e Amelia
avevano deciso di ritardare la conclusione della serata. Avevano
cavalcato fin lì, permettendo poi all’Incubo di andarsene a caccia. In quei giorni era parso piuttosto inquieto.
Nascosti dai rami sottili e fitti, si erano lasciati andare come due
ragazzini alla prima cotta. Frasi melense erano state accompagnate da
baci casti e sorsate di vino da una bottiglia trafugata da Diecichili e
passata sottobanco al Mezz’elfo.
Tanto calava il nettare, tanto saliva l’ebbrezza, facendo
sì che dimenticassero ogni tenerezza, travolti dalla passione
che, proprio come Malcanto, era stata trattenuta oltre misura.
«Questi sono i baci degli angeli» mormorò Amelia, le
palpebre abbassate a trattenere quella sensazione di piacevole
stordimento che le dava la bocca di Angheledrior.
I suoi baci la facevano sentire leggera, priva di peso, come se
fluttuasse in una luce tiepida e vellutata. Intorno solo sussurri e
carezze appena accennate, un popolo di refoli lievissimi
l’avviluppava dolcemente, cullandola.
«Ne hai mai baciato uno?» le domandò in un soffio.
Lei socchiuse gli occhi, faticando a mettere a fuoco i contorni del suo
volto. Quella volta il vino non c’entrava, anche se ne aveva
bevuto un po’ troppo.
«Lo stavo baciando adesso» sorrise.
Ang si riaccostò all’Archimaga per riprendere da dove avevano interrotto.
Mentre la teneva imprigionata contro il salice, iniziò a seguire
la fila di bottoncini che chiudeva l’abito. Scoprì che il
primo era già scivolato fuori dell’asola, complice.
Indugiare sarebbe stato da sciocchi e proseguì, passando al
successivo che non oppose resistenza. Così anche il terzo, il
quarto, fino all’ultimo.
Si appoggiò con un braccio al tronco, mentre con l’altra
mano giocherellava con la maglietta, facendola salire un poco alla
volta. Sentì Amelia trattenere il respiro, quando le
sfiorò l’ombelico. Stava impazzendo, voleva toccarla senza
impacci. Già altre volte aveva potuto accarezzarla a quel modo,
ma godere interamente di quel corpo era un’altra cosa.
All’improvviso lo stalliere balzò indietro tenendosi la
mano. La donna lo fissò, frastornata dalla brusca interruzione.
«Non metterti mai più quella roba!»
Confusa, non riuscì a rispondere.
«Non metterla più! Mi irrita. Sul serio» spiegò mostrandole l’indice.
Sul polpastrello era comparsa una piccola vescica. Aveva sempre detto
di non sopportare i tessuti sintetici, che il loro odore e consistenza
lo infastidivano. Non aveva mai accennato alla possibilità che
fossero in qualche modo tossici.
«Comprala di cotone, di seta, di lana, di marabù, di pelo
di coniglio,… di cuoio piuttosto! Ma non metterti addosso mai
più quella porcheria!» brontolò additandola.
Amelia seguì la direzione che indicava, realizzando solo in quel
momento che l’oggetto in questione fosse l’intimo che
indossava.
«Devo toglierla?» chiese con una strana espressione sul viso.
«Sì!»
«Ora?» proseguì innocente, lasciando cadere il vestito dalle spalle.
Stava per risponderle, ma le parole erano improvvisamente venute a
mancare. Squadrava turbato i piedi nudi circondati dalla stoffa.
«Ora?» ripeté, armeggiando con la maglia.
La guardò spogliarsi contro la corteccia grigia, il dito ancora
stretto fra le labbra. Mai, neppure nelle sue fantasie più
piccanti, aveva immaginato uno strip-tease lungo il Torrino. Di sicuro
non poteva permetterle di starsene lì in piedi senza farle
compagnia come si conveniva.
I vestiti obbedirono rapidi all’invocazione, agitandosi con tanta
foga che incespicò nei calzini e la polo faticò a
sfilarsi dalla testa. Quando riuscì a liberarsi, Amelia era ad
un passo. Le diede il tempo di scoprire con gli occhi quello che
avrebbe conosciuto con gli altri sensi. Dopo di che la spinse di nuovo
contro il tronco, facendole sentire che quello non era l’unica
cosa dura sulla sua pelle.
L’Archimaga sapeva che
Ang non era affatto magro e filiforme com’erano gli elfi. Era
più robusto, solido, umano. Era bello abbracciarlo e farsi
abbracciare: i muscoli temprati dal lavoro nelle scuderie e nel
giardino, dove di rado impiegava la magia, le trasmettevano un forte
senso di sicurezza. Ed ora lo aveva davanti com’era venuto al
mondo, in quella commistione di tratti che lo rendevano unico. Percorse
con il dorso della mano il tatuaggio, aspettandosi di sentirlo
frusciare insieme all’albero.
«Stanotte ti mangio tutta, fragolina» bisbigliò, azzerando la breve distanza che li separava.
Amelia non rispose, lasciandolo libero di dimostrarle per
l’ennesima volta che non mentiva. La sollevò di peso,
così che potesse cingergli i fianchi con le gambe. Da quella
posizione, l’elfo poté assaporarne le spalle, la
gola ed i seni come splendide primizie, maturate per lui solo. La
coprì di baci e morsi delicati, accompagnato da sospiri estatici
mente scivolavano a terra, sostenuti dai rami guizzanti del salice. Lei
neppure si rese conto di quello spostamento, abbandonata nel paradiso
delle sue labbra.
L’elfo si ritrovò seduto con le gambe strette fra le sue. Lo sguardo trepidante dell’Archimaga
tradiva il bisogno di porre fine a quel gioco, ma il suo tocco chiedeva
di poter familiarizzare appieno con l’oggetto del suo desiderio.
Rimase immobile, assaporando le carezze che gli scaldavano la pelle,
risalendo dai polpacci fin dove la sua eccitazione non chiedeva altro
che un po’ di doverosa attenzione. Attenzione che ricevette da
quegli stessi palmi che si erano lasciati solleticare dalla peluria
bionda delle gambe. Angheledrior ne approfittò per trascinarla
più vicino e riprese a baciarla, assecondando con la bocca ed il
bacino il ritmo di quel dolce supplizio.
Lasciò che lo spingesse sulla schiena, ricambiando quanto
ricevuto fin dal primo giorno alla villa. Ciascun gesto venne
ricompensato in maniera più che generosa.
«Mi farai morire, se continui» sussurrò quando la
sentì sistemarsi meglio, fingendo di sfiorare inavvertitamente
il suo sesso con la propria intimità.
Lei sorrise, continuando a danzare a quel modo, abbassandosi e stuzzicando il desiderio di entrambi.
«Angheledrior» chiamò, nell’istante in cui sentì l’elfo premere dolcemente fra le gambe.
«Piano, fragolina» ansimò, accompagnandola con le mani strette sui suoi fianchi.
Ang l’aiutò ad andargli incontro, entrando lentamente. Per
ogni spinta che l’accompagnava nel corpo di Amelia, percepiva i
loro contorni fondersi in un essere che li conteneva entrambi. Aveva
l’impressione di spandersi in quel nuovo confine come
l’acqua che irrigava un campo riarso e di sentirsi rincorrere da
un’identica ondata di ribollente marea.
Odimaé.
Non si trattava più di una semplice metafora, che voleva
l’amore carnale come rappresentazione dell’unione
sentimentale. Stavano tramutandosi in una cosa sola.
Odimaé.
L’aura di Amelia, gialla e bordata d’un rosso sgargiante,
confluiva senza distinzione in quella di Ang, verde e striata di
bianco. Ognuno era dentro l’altro, l’uno era l’altro
senza distinzione eppure riconoscibili.
Odimaé.
Una luce calda e liquida li avvolgeva, unendoli, se possibile, più di quanto braccia e cuore potessero fare.
Odimaé.
In quello spazio senza dimensioni, Amelia riconobbe la presenza del suo
amato elfo. Dentro, fuori, tutt’intorno. Si sentiva una nube
trafitta dai raggi del sole, ombra e luce insieme, in totale
completezza. Nuda nel corpo quanto nell’anima, si era offerta,
ricevendo un identico dono. Era così che aveva sempre immaginato
l’amore: un eterno e vicendevole scambio, l’intimo
riconoscersi di un tutt’uno, partecipare dell’altro. Si
lasciò andare in quelle morbide onde, desiderando di restare per
sempre dissolta nel suo compagno e Ang in lei, colmi dei sentimenti che
li univano.
Riaprirono gli occhi, tremando in preda agli spasmi
dell’amplesso, circondati dall’erba e dalla luna. Lo
stalliere sospirò, gli occhi scintillanti come quelli di un
animale selvatico. Sembrava esausto, svuotato.
«Sei una piccola ingorda, lo sai, fragolina?» la canzonò, prendendole il volto tra le mani.
Cercò le sue labbra per metterlo a tacere. Mai aveva provato un
tale, appagante sfinimento. Voleva solo godere del languore di quegli
attimi, assaporando l’odore della notte, il tenue sciacquio del
canale ed il calore di Angheledrior, che ancora la riempiva.
Nient’altro.
***
Errori, li chiamava. Semplici, banali errori. Poco importava che chi ne
avesse risentito maggiormente fosse lui. Si poteva soprassedere ai suoi
malori, alle sue proteste, ai suoi dinieghi, per poi ascoltare flebili
scuse quando era costretto a sorreggersi ad un mobile o si accasciava
negli angoli simile ad uno cencio. Aveva sibilato tutto il proprio
rancore appena l’Archimaga aveva superato al galoppo il cancello, ottenendo solo un misericordioso:
«Jarvis, ritengo avresti dovuto accettare l’invito di Amelia. Hai bisogno di fare più vita sociale»
Che razza di risposta era quella? E che dire della scusa
dell’insonnia? Lui non dormiva per ben altri motivi, non certo
per un banale disturbo del sonno. O almeno, tentava di convincersi che
fosse così. Rifiutava di ammettere la realtà: soffriva di
un problema vero, tangibile e soprattutto, curabile. Era ridicolo.
Semplicemente ridicolo.
Spiò oltre il cancello aperto. La campagna dormiva quieta ed immobile, bagnata d’argento.
Innervosito, prese a camminare intorno alla dimora, tampinato da
Galileo. Il primo quarto di luna dondolava lento nel velluto del cielo.
Andare alla festa, che idea assurda.
Diede un’occhiata al gatto che trotterellava nell’erba,
lasciandosi dietro una scia scura e ondulata. Una sensazione strana lo
pervase. Una sorta di ricordo, lontano e nebuloso, d’aver vissuto
un’analoga esperienza: lui che inseguiva una figura nella notte.
Una bella notte. Strinse i pugni guantati e, nonostante provasse una
sorta di vuoto, gli angoli della bocca s’incurvarono verso
l’alto.
Galileo scattò avanti, raggiungendo un cespuglio. Dopo
l’ispezione olfattiva, decise fosse bene ricordare a tutti i suoi
simili chi fosse il padrone. Per qualche recondito motivo, l’idea
piacque anche al maestro di corte che si avvicinò alla pianta.
Il felino non parve risentirsi del gesto, tutt’altro: le pupille
tonde si strinsero in approvazione.
Aveva appena sbottonato i pantaloni, quando una voce roca emerse nell’oscurità.
«Niente sveltina, oggi?»
Jarvis trasalì di sorpresa. Veniva da uno sgangherato capanno,
poco più in là. Una sagoma tozza e nerboruta sporgeva
dalle assi storte.
«Impicciati degli affari tuoi, nano» sibilò.
«E tu và a pisciare da un’altra parte. Quel posto è mio»
***
Ang stava disteso sul fianco, con indosso solo i jeans. Ripercorreva ad
occhi chiusi ogni gemito ed ogni brivido di quel meraviglioso amplesso
e quasi non ci credeva. Odimaé.
Non esisteva parola nei linguaggi umani per tradurre ciò che
quel termine elfico racchiudeva. L’unione più intima,
profonda e totale tra due amanti. Un legame che travalicava il semplice
piacere fisico, raggiungendo i vari strati dell’essere, fino
all’anima. Aveva incontrato l’eikonal
di Amelia, il cuore del suo essere. Vessato e mortificato per troppo
tempo, vibrava ogni volta che le loro labbra incontravano, e certo non
immaginava quanta travolgente forza fosse racchiusa nel piccolo
contenitore che era la sua fragolina.
Era stato splendido ciò che avevano provato. Indescrivibile, di
una dolcezza e potenza senza confronto, anche se spossante.
L’orgasmo che gli uomini tanto bramavano era ben misera cosa se
paragonato all’Odimaé. Non c’era tanta assoluta completezza in un comune rapporto sessuale.
Amelia era lì accanto, ancora nuda e bocconi nell’erba, in cerca dei vestiti sparpagliati qua e là.
«Che è successo?» chiese, accarezzandole un fianco.
Si volse, interrogativa.
«Lo so, avrei dovuto chiedertelo prima e adesso passo da
approfittatore» disse, strappandole un cenno d’assenso
piuttosto ironico. «Parlo sul serio. Che succede? Il tuo
angioletto dorme?» insisté, scrutando la sua spalla destra.
Amelia gli aveva raccontato che, da piccola, Suor Caterina le
raccontava che tutti portavano su ciascuna spalla un angelo ed un
diavolo. I due si contendevano giornalmente le azioni della persona che
veniva loro affidata.
Si fermò, rigirando gli occhiali e sorrise.
«Ce l’ho davanti il mio angelo»
«E… il diavoletto?» la punzecchiò.
«Anche quello» replicò divertita, arricciando il naso.
Ang represse a fatica una battuta. Voleva conoscere il motivo di quel
cambiamento d’idee. In quel mese non aveva mai dato adito a
ripensamenti sul suo modo di essere o ragionare. Allungò il
braccio e la prese in grembo, accarezzandola per scaldarla. Maggio non
era il mese adatto per starsene svestiti di notte e in piena campagna.
«Sei sicura che sia stato giusto? Per te, intendo. Non vorrei che
domattina ti pentissi d’aver infranto i tuoi principi. Jarvis non
ti farà uscire per un pezzo e dubito di riuscire a convincere
Don Pierino a montare su Malcanto per venire a confessarti» rise,
immaginando le urla del grassoccio parroco con le gambe ciondoloni
sulla groppa dell’Incubo.
«È stata la cosa giusta» confermò, cercando
le stelle occhieggiare tra le foglie. «Ho sempre cercato di
pianificare quel che volevo mi accadesse. Volevo un bel lavoro, ne
facevo uno orrendo. Volevo l’amore della vita, sono stata mollata
di continuo. Volevo tanti amici, li potrei contare sulle dita di una
mano. Volevo che la mia famiglia mi considerasse di più e
l’ho persa. Ma tutto quello che di buono mi è capitato non
ha seguito le mie pretese. Me lo sono trovato davanti senza alcun
preavviso, quando nemmeno lo cercavo. Credo che il Signore abbia
stabilito che devo imparare a vivere giorno per giorno, lasciando che
sia la vita a darmi quello di cui ho bisogno. A questo punto, non
tenterò più di pianificare mia la felicità.
Verrà lei da me e me la terrò ben stretta. Non voglio
svegliarmi un giorno e, guardando indietro, scoprire di aver perduto
anche questa occasione di poter essere felice. Non voglio perdere anche
te»
Lo stalliere era perplesso. Il ragionamento filava, specie alla luce di
quel che le era accaduto. Lo apprezzava. Di più: lo condivideva
in pieno. Restava però un’incognita, ovvero come avrebbe
fatto a portare avanti quella decisione. Amelia aveva tutta una serie
di valori e principi a cui si atteneva, dubitava fosse in grado di
accantonare il suo codice morale da un giorno all’altro come
niente fosse.
«Stai dicendo che dimenticherai tutto quello che ti hanno messo in testa all’oratorio e dalle suore?»
«No, questo non posso farlo» ammise, esattamente come
immaginava. «Dico solo che non cercherò di torcere il
collo al destino. Lo lascerò libero di agire nei miei confronti.
Così forse deciderà di essere un po’ più
generoso e la smetterà di tartassarmi. I miei principi
rimarranno comunque a far da guida, per ogni eventualità»
ammiccò.
Anche se le credeva, continuava a nutrire perplessità. Temeva
che, passata quella fase di apparente convincimento, le abitudini
avrebbero preso il sopravvento e con esse, le delusioni. Doveva fare
qualcosa. Detestava vederla piangere.
«Io non ti basto, per ogni eventualità?»
domandò corrucciato, incrociando le braccia come un bimbo
capriccioso.
Era talmente buffo che Amelia si alzò, le mani sui fianchi,
pronta a simulare una bella ramanzina. La bocca si mosse appena, senza
emettere suoni. S’irrigidì, sbarrando gli occhi e
trattenendo il respiro.
«Amelia?» chiamò.
Quella non aveva l’aria di una presa in giro. Nella poca luce
notturna riuscì a scorgere un pallore esangue allargarsi rapido
sulla donna.
«Amelia!» gridò balzando in piedi.
L’afferrò per le spalle, trovando una statua di ghiaccio.
Dietro di lei, evanescente quanto la guazza mattutina, c’era
l’Incubo col muso affondato nella sua schiena, intento a nutrirsi dei suoi sogni.
Pant! Pant! Pant! Eccomi, eccomi! Un po' di corsa causa lavoro, ma
eccomi! Un capitolo un po' piccantino per cominciare la settimana.
Ben arrivata a natalie1977. Come sempre rinnvo l'invito a lasciare un commento a questa storia.
Per Gaea:
lo so, l'ultimo capitolo è stato un po' sconcertante, con le
piccole rivoluzioni personali di Jarvis e Ang. Come vedi quest'aria di
rinnovamento è condivisa anche da Amelia. E Isa... okay, lo
ammetto, sono stata un po' cattiva, ma mi farò perdonare.
Per Emrys: sadico tu? Non direi, anzi, di sicuro ti batto! ^^
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Capitolo 21 *** Tavola XX - Spazi interni ***
Tavola XX - Spazi interni
Le foglie stormirono
lievi sopra la sua testa. Scosse il cespuglio di nontiscordardime,
facendo cadere la rugiada nella piccola ciotola di corteccia, dove
andò a mescolarsi a quella donata dalle bacche del pruno
selvatico, dai rami della betulla e da una finissima ragnatela.
Tornò indietro, facendo ondeggiare in circolo il prezioso
liquido.
S’inginocchiò accanto ad Amelia che giaceva immobile su un
letto di felci. Era tanto pallida da dar l’impressione che la
luna avesse deciso d’illuminare lei sola. Intinse le dita nella
guazza, mormorando una cantilena propiziatoria. Le toccò la
fronte, gli occhi, il naso, le labbra. Tracciò una linea dal
collo allo sterno, e cerchi su polsi e caviglie. La pelle era a
malapena tiepida. Con attenzione, le sollevò il capo e fece
cadere alcune gocce d’acqua nella sua bocca, massaggiandole la
gola perché deglutisse. Versò il resto della pozione sui
capelli bruni, affinché attirasse l’umidità
notturna intorno a loro.
La strinse a sé, facendo attenzione a non toccare i segni
tracciati. Continuò a cantare a fior di labbra, unendosi alla
brezza sottile, fino a che le gocce non scomparvero.
«Amelia, so che puoi sentirmi. La tua aura dice che sei sveglia» mormorò cullandola. «Calma, fragolina, ci sono qui io. Andrà tutto bene. È meno peggio di quel che sembra»
Avvertì un debole fremito percorrere le membra irrigidite.
L’aura ebbe guizzi d’un bianco argenteo. Aveva paura, una
paura folle. Doveva essere orribile, trovarsi prigioniera di un corpo
che non sentiva più suo. Le fece una carezza, non sapendo se
l’avrebbe percepita. Non sapeva neppure se fosse in grado di
distinguere il calore che la sua pelle tentava di trasmetterle.
«È colpa di Malcanto se non puoi muoverti. Se fossi stata
addormentata non ti saresti accorta di nulla, ma eri sveglia e questo
ha peggiorato gli effetti del morso» spiegò, poggiando la
fronte sulla sua. «Concentrati sulla mia voce. Penso io a
sistemare tutto»
La stese sulla schiena e le accarezzò le spalle, scendendo lentamente verso il petto.
«Tra poco starai bene» disse appena prima di spingere con le dita proprio sotto le clavicole.
Il biancore della sua aura lo accecò per un istante, il tempo di
oltrepassare il confine tra il mondo fisico e quello delle energie
oniriche. Il silenzio intorno l’assordava. Doveva averle fatto
molto male, ma non c’era altro modo. L’Incubo
aveva banchettato del suo piano astrale, ingolosito dalla forza dei
suoi sogni. Per raggiungerlo aveva dovuto valicare
l’impercettibile confine tra la pelle e l’anima, usando un
sortilegio tagliente come una spada.
Trovò l’eikonal
imbozzolato in una rete di filamenti sottili. Malcanto se n’era
andato satollo e soddisfatto, eppure, a giudicare dalle dimensioni di
quel gomitolo, aveva risucchiato solo una minima parte dei sogni di
Amelia. Lo raccolse e lo ripulì con attenzione delle bave,
scoprendo una sfera delle dimensioni di un pugno. Ora capiva
perché aveva faticato tanto a trattenerlo: era molto grande.
«Quanti sogni hai fatto, fragolina?» avrebbe voluto
domandarle, pur conoscendo la risposta: troppi, specialmente negli
ultimi tempi.
L’aveva ascoltata escogitare migliaia di modi per riavere la sua
famiglia. Molte volte il suo sguardo aveva raccontato fantasie taciute.
Sognava ad occhi aperti, alla luce del sole, aggrappandosi alla
speranza di realizzare ciò che creava nell’aria.
Quando finalmente l’eikonal
riprese ad emanare un tremulo luccichio, lo lasciò cadere al suo
posto e scivolò fuori dal corpo astrale. Il distacco fu violento
quanto l’ingresso, anche se avvolto in un buio soffocante. Per
qualche secondo brancolò alla cieca, poi comparvero gli alberi e
la foschia mattutina.
Trovò Amelia rannicchiata contro le sue ginocchia, tremante, le guance rigate di lacrime.
«Va tutto bene, Amelia, tutto bene» disse stendendosi al
suo fianco e abbracciandola forte. «È tutto a posto ora,
non aver paura. Su, dormiamo un po’. Ne abbiamo bisogno»
L’erba intorno crebbe rapida ad un suo cenno, avvolgendoli in una coperta verde.
***
«Non si disegna sui muri!» pigolò Isadora.
Il Duca staccò la punta del lapis dalla parete, abbozzando nel
buio un sorriso che ricordava quello di un monello colto in flagrante.
«Vero, non si fanno queste cose. È da maleducati e
incivili. Però io non sto disegnando» rispose, facendo
sparire la matita nel taschino.
«No?» chiese, affatto convinta.
Il segno sul muro somigliava ad una lettera scarabocchiata, piena di
ricciolini e ghirigori, come quelle in cima alle pagine dei vecchi
libri che piacevano tanto ad Amelia. La voce dell’anziano la
distolse immediatamente dal pensiero di quell’amicizia rotta e
non ancora pacificata.
«Sto prendendo appunti» ammise.
Isadora ridacchiò, saltellandogli attorno.
«Non è vero! Non è vero!» canticchiò allegra, seguendo il ritmo del gioco.
«Lo so, ti devo sembrare un po’ matto, non è così?»
Scorse un dondolio verticale nella nube ectoplasmatica della piccola,
che riusciva ad intravedere con la mente. Le fece segno
d’accompagnarlo e cominciarono a camminare sotto le finestre
della sala da pranzo, illuminati dall’alone iridescente della
bimba. Se fosse accaduto di giorno, li si sarebbe potuti prendere per
un nonno in compagnia della nipotina che l’assillava con le sue
filastrocche senza senso.
«Isadora, vorrei che mi mostrassi dov’è il tuo ritratto» disse ad un tratto.
A quella richiesta, Isadora si fermò di colpo, imbronciata.
«Ma non si può! È chiusa!» protestò incrociando le braccia.
Corrado scrollò le spalle bonariamente, appoggiandosi con entrambe le mani al bastone.
«E qual è il problema?»
«Tu non puoi entrare. Non sei una fatina!» insisté, cominciando a far piroette sul posto.
«Hai dimenticato che sono un mago? Posso fare le magie» e le mostrò uno strano oggetto.
Era di metallo, tondo e percorso da lunghe scanalature, intagli e
buchi. Era la commissione che poco tempo prima aveva inviato a Gromi.
Il nano era stato molto celere nel realizzare lo strumento richiesto,
limitandosi a seguire i disegni che gli aveva fornito senza modificare
nulla.
«Cos’è? Posso giocarci?» trillò estasiata, immaginando mille modi d’impiegarlo.
«Certamente, una volta che l’avremo usata»
«Ma cos’è?» ripeté, chinandosi per
guardarne anche la faccia inferiore, identica all’altra.
«È una chiave»
Isadora si raddrizzò, guardandolo storta.
«Tu oggi sei dispettoso, mi dici le bugie!» esclamò,
ammonendolo col dito. «Quella lì non è una chiave!
Io lo so come sono fatte! Sono lunghe, hanno i dentini in fondo e
girano nei buchini delle porte» fece lei, mimando ogni parola.
Corrado sorrise passando il pollice sulla superficie zigrinata.
«Questa è una chiave magica»
***
Quando riaprirono gli occhi stava albeggiando e Ang dovette darle molte spiegazioni.
Prima fra tutte dove si trovassero. Il bosco intorno a loro non
somigliava a quello del Torrino ed in effetti non si trovavano
più sulle sue rive: era la camera dell’elfo. Il Duca
l’aveva stregata in maniera tale che vi potesse crescere
liberamente una foresta. Gli Archimaghi le conoscevano col nome di Scrigni verdi.
La luce filtrava rosata tra le foglie, colorando l’erba che li
ricopriva. Alberi dai tronchi imponenti danzavano tra festoni di
caprifoglio e macchie di lamponi. Erano nati dai semi raccolti nel suo
peregrinare dall’Agro Pontino fino a San Francesco, semi di
foreste magiche e potenti. Se Amelia non aveva mai messo piede in
quella stanza era stato solo per onorare il contratto, che stabiliva la
ristrutturazione delle due ali di servizio in un secondo tempo.
L’aveva portata fin lì a braccia, poiché solo nella
sua stanza aveva tutto ciò che serviva a guarirla e Malcanto se
l’era svignata di gran carriera e con la pancia piena. Gli abiti
erano rimasti ai piedi del salice, ma li avrebbero recuperati alcune
volpi prima del sorgere del sole.
Da lontano aveva visto Jarvis sul cancello e l’aveva fatto
allontanare a gran voce. La sola idea che potesse posare lo sguardo su
Amelia l’aveva fatto impazzire di gelosia. Il maggiordomo aveva
acconsentito, profondendosi in frecciatine caustiche, cui non aveva
prestato la minima attenzione.
Infine le aveva descritto per filo e per segno quel che aveva fatto per
risvegliarla, elencando le proprietà benefiche delle piante e
sottolineando che se non fosse intervenuto subito, avrebbe impiegato
settimane per rimettersi. Per quanto l’idea di accudirla notte e
giorno l’allettasse, temeva che il morso potesse infettarla e
cancellare via via tutti i sogni, rendendole il sonno un lungo tunnel
buio, incapace di ristorare dalle fatiche.
«Perdonami, non volevo» bisbigliò contro le sue labbra.
Non parlava solo del dolore che le aveva inflitto: una linea scarlatta
segnava il limite inferiore dello sterno e lui vi volgeva
insistentemente lo sguardo. La parte elfica in lui inorridiva a quella
vista.
«L’hai fatto per aiutarmi» sorrise, sfiorandogli la punta del naso.
Lui annuì, facendo una smorfia.
Sospirò intenerita mentre la stringeva e la scaldava a forza di
baci e carezze. Dopo quell’enorme spavento, poter stare tra le
sue braccia, nuda ed al sicuro in quello spazio incantato, le aveva
fatto recuperare il dolce languore che aveva seguito la loro unione.
«Fammene uno» propose indicando il suo fianco, lì dove l’edera s’infittiva.
«Amelia, questa è una condanna» replicò
spaventato, posando una mano sulla sua. «L’edera è
segno di corruzione a Balirian,
perché cresce all’ombra ed è velenosa. Secondo le
leggi, il marchio cancella la dignità di persona a colui cui
viene impresso. Apporre un’edera è atroce. Immagina cosa
può significare per un bambino»
La dannazione perpetua, lo spregio da parte di chi l’avesse incontrato, la solitudine.
«Le immagini possono cambiare significato» lo
rassicurò. «La svastica rappresentava il sole ed era di
buon auspicio nell’antichità. I nazisti l’hanno
fatta diventare sinonimo di morte. Perché non possiamo
convertire in bene questa condanna?»
«E cosa…» attaccò scettico, subito zittito.
«L’edera richiama il contatto con la parte più
spirituale di noi. Simboleggia il trasporto amoroso, perché si
avvolge all’albero come un amante. E rappresenta l’assoluta
fedeltà. Sai che l’edera muore lì dove si
aggrappa?» ammiccò, intrecciando le dita con le sue.
«Accidenti, quanto hai studiato» si stupì.
Lei arrossì compiaciuta, tornando a guardare l’ampio tatuaggio.
«Ho cercato il suo significato dopo avertelo visto. A me sembrano
metafore molto belle, positive. E tu le incarni tutte. Penso che tua
madre abbia obbedito a delle leggi ingiuste facendoti un augurio. Ha
amato tuo padre, un essere umano, ed il suo mondo. Credo sapesse come
vediamo questa pianta. Se non ti amava, perché usarla?»
«Tu credi?»
«Un genitore ripudierebbe a forza un figlio innocente, senza
concedergli una speranza?» chiese, accoccolandosi ancora di
più.
Ang non rispose e sfiorò la medaglietta che portava al collo.
Ricordare sua madre mentre compiva quel gesto gli faceva male, ma forse
Amelia aveva ragione. Forse aveva sempre visto le cose da una
prospettiva sbagliata.
«Sicura di volerlo?» domandò, già certo dell’assenso.
L’Archimaga
avvertì un intenso calore e la strana sensazione di un liquido
che penetrava nella carne. Sul suo ventre apparve un complesso intrico
di linee color terra che si sovrapponevano ed intrecciavano, disegnando
curve sinuose entro un cerchio. Sulle prime lo prese per un nodo
celtico, di quelli che aveva studiato nella Storia dell’Archimagia
e che ornavano in abbondanza i luoghi della cultura druidica. Nessuno
però aveva gemme al suo interno, anche se in realtà si
trattava solo scintillanti gocce di colore.
«Si chiama Nibit. I tre
centri rappresentano la crescita, la protezione ed il rinnovamento. Il
nastro è la vita, con il suo scorrere tortuoso»
spiegò Angheledrior.
«Nibit» ripeté Amelia.
Notò un altro puntolino, verde smeraldo, che brillava nel centro.
«E questo?»
«Sono io che tengo d’occhio quel che ti succede, fragolina» sorrise baciandola.
***
«Tu! Brutto… brutto… lucertolone! Fuori di
qui!» gridò Luisa prendendo Orlando a colpi di ramazza
sul dorso. «Esci! Esci!»
Il drago rimase beatamente immobile accanto al lavatoio, ingollando
lunghe sorsate con un risucchio degno di un’idrovora. Aveva preso
un assaggio della vasca di pietra, che però non l’aveva
soddisfatto per via dei residui di sapone che lo velavano. I sei occhi
gialli erano socchiusi, ciascuno puntato dove preferiva, quasi che i
colpi ricevuti fossero una piacevole coccola con cui accompagnare
l’abbeverata.
«Vieni, draghetto, vieni» chiamò invece Francesca, muovendo le dita come per richiamare un gattino.
«Pensi che questo coso ti darà retta se lo chiami
draghetto?» strillò puntando i piedi e spingendo su una
zampa con quanta forza aveva.
«Beh, non so. Magari si convince che è un gatto e mi viene dietro»
«Certo, sta già facendo le fusa, infatti!» rise
isterica, scrollando il collare di ferro. «Togliti da qui,
stupido bestione!»
Il Beccodiferro sembrava sordo
ad ogni rimprovero, tanto da costringere le donne ad una temporanea
resa. Restarono in attesa, borbottando e piegando la biancheria
asciutta.
Occorse quasi un’ora perché Orlando si dissetasse. E
impiegò un quarto d’ora per trovare il modo di rigirarsi
in quell’angusto spazio e guadagnare l’uscita mugghiando
soddisfatto. Superò la porta strisciando coi fianchi sugli
stipiti scrostati e diede un’ultima scodata, trascinando via la
cassapanca dalla parete.
Un alone nebbioso e lucente si sparse in tutta la lavanderia, per dissolversi subito dopo.
«C-cos’e-era?» balbettò Luisa, rovesciando la cesta del bucato.
«Visto? Te l’avevo io detto che c’era la luce là sotto» si pavoneggiò Francesca.
In punta di piedi andarono a curiosare dietro il mobile, senza nemmeno
tentare di rimetterlo a posto. Videro solo il muro e il pavimento,
identici come in ogni angolo del locale.
«Bah, roba di magia. Sarà il padrone che fa
qualcosa» tagliò corto Luisa, recuperando i panni
sporchi ormai sparsi ovunque.
«Ma sempre lì?» fece l’altra, perplessa.
«Si vede che è comodo» rispose, resa sbrigativa dalla paura.
«In cantina?»
«Sono fatti suoi, Francesca! Lui è un mago, lo sa lui dove
deve fare le sue cose!» strillò gettando tutti i vestiti
nel lavatoio.
«Sarà…» sbuffò, restando dov’era.
«Sarà che se non la pianti lavi tu tutte queste cose qui. E le stiri anche. Chiaro?»
***
Erano passate due settimane dalla notte della Festa.
Pesanti nuvole grigie avevano ricominciato ad allagare la campagna,
incupendo ulteriormente il suo umore. Quando non se ne stava nello
studio, chino sui conti e la corrispondenza del padrone, misurava a
lunghi passi il palazzo. Uno strano nervosismo s’impadroniva di
lui ogni qualvolta se ne stava con le mani in mano. Da principio
l’aveva attribuito all’impossibilità di sfogarsi con
Lojana. Ormai non la vedeva da parecchio. Ripensare all’ultimo
incontro, ai gesti inconsulti che aveva avuto nei confronti di
quell’essere, lo inquietava. Probabilmente era un bene starle
lontano. Tuttavia, per una femmina lontana, una risultava
fastidiosamente vicina. I lavori avevano subito una nuova battuta
d’arresto a causa del maltempo e spesso incrociava l’Archimaga durante le sue ronde ossessive.
Esattamente come in quel momento. Entrando nel salottino rosso,
l’aveva trovata appollaiata sul divanetto. Non aveva fatto in
tempo a voltarsi né ad esternare la disapprovazione per la posa
poco consona che aveva assunto, che lei, dopo averlo salutato, se
n’era uscita con una delle sue insulse domande.
«Sa chi è?» chiese, mostrando un rettangolo di carta dai bordi smangiati.
Era una vecchia fotografia all’albumina, giallognola e tempestata
di minuscole macchie scure. Un ritratto. Si sorprese di vederlo dopo
tanto tempo.
«È il Duca. Doveva avere circa vent’anni»
Amelia girò la foto verso di sé, osservandola meglio, e
dando l’illusione al maggiordomo di potersene andare.
«Era davvero un bel ragazzo. Immagino non avesse ancora perduto
la vista» osservò, notando l’assenza delle lenti
nere.
Preso da chissà quale ridicolo sott’inteso, si
avvicinò. Nel ritratto i capelli erano scuri e scompigliati, la
pelle liscia e piena, aveva persino un accenno di doppio mento,
scomparso poi negli anni.
«Milord perse la vista a dodici anni. Utilizzò a lungo
degli occhi artificiali, specie quando prendeva parte a cerimonie o
eventi formali. Castani se ben ricordo. Iniziò a portare gli
occhiali alla morte del padre. Non riteneva più necessaria
quella che definiva “una ridicola buffonata”»
Amelia rimase colpita sia dalla storia che dalla inusuale
loquacità di Carew. Lui stesso dovette rendersene conto, data la
piega d’improvviso fastidio che esibì un istante prima di
cambiare discorso.
«Pensavo stesse lavorando»
«Beh, Leonardo ribadiva la necessità dell’ozio come
momento di riflessione. E non potendo procedere alle verifiche delle
fondazioni finché continua a piovere e le cantine assomigliano
ad una piscina coperta, ho deciso di dedicarmi a degli interessanti
approfondimenti su consiglio del Duca» e batté
affettuosamente sul bordo del libro che teneva sulle ginocchia.
«Comunque, sono contenta che sia passato di qui, altrimenti sarei
dovuta venire a darle la caccia per tutta la villa»
Jarvis si accigliò, indispettito dalla scampata eventualità.
«Corrado dice che è un esperto del settore» soggiunse furbescamente.
«Quale?»
«Demonologia»
L’uomo ebbe un lieve turbamento, quasi che il termine scottasse o fosse stato usato impropriamente.
«M’interessava capire come funzionano le Catene Romane. Qui ne parla diffusamente, citando parecchi casi esplicativi, ma non ho idea di cosa siano le Elegie Capitali o i Patti Alcinei» disse, porgendogli il volume.
Lo respinse: conosceva fin troppo bene quelle pagine.
«A che scopo?» s’informò sedendo all’altro capo del divanetto.
«Durante i sopralluoghi che ho eseguito dopo i primi temporali ho
rinvenuto altri due sigilli d’ottone. Sono ovali e lisci,
incastrati in maniera molto salda. Uno era in giardino,
all’altezza del bagno col Trionfo di Nettuno. L’altro nelle
cantine, infisso nel muro e nascosto dall’intonaco. Credo sia
esattamente speculare al primo che ho trovato, davanti al
cancello»
«Non vedo demoni» puntualizzò il maggiordomo, tormentando il bordo di un guanto.
«È proprio questo il punto» esclamò. «Nel Bihari ho trovato un accenno alle Catene Romane, come metodo…»
«Come metodo di sottomissione e imprigionamento di un demone,
specie se di grande potenza o di una razza antica e dominante, ai fini
di impiegarne i poteri a proprio piacimento. In genere, per proteggere
e difendere luoghi di particolare emergenza magica. Ma si tratta di un
sistema estremamente complesso, sono pochi i maghi in grado di metterlo
in atto correttamente. Il più delle volte, chi ha tentato
è stato divorato da colui che aveva evocato» aggiunse con
un’espressione truce, che non impressionò minimamente
l’interlocutrice.
Ammutolita dalla quantità d’informazioni, assentì
cercando d’annotare tutto sul quaderno. Doveva sfruttare le
conoscenze del maggiordomo, finché questi era incline a
conversare educatamente.
«Nel Vasco-Martinez viene detto che questo sistema può
essere deleterio per lo spirito prigioniero. Sono stati evidenziati
casi di decadimento dei flussi energetici» iniziò,
rovistando nel quaderno in cerca degli appunti.
«Si trattava di legature eseguite con eccesso di mezzi in
rapporto al livello dell’entità soggiogata. Lavori di
inetti che desideravano apparire più potenti di quanto fossero.
Legare un demone è una faccenda tutt’altro che
d’apparenze. Lei la definirebbe un’alta scienza»
«Il caso delle Mura di Gerico è esemplare e risale a ben prima delle Catene!»
osservò, infervorata dal discorso. «Esistono incantesimi
che possono indurre ad una tale unità tra demone e costruzione
che se viene meno uno degli incantesimi si arriva al crollo improvviso,
in concomitanza con la liberazione…»
La mano del servitore bloccò il suo scartabellare. Gli occhi scuri e seri la trapassarono.
«Lasci perdere. Dimentichi la Demonologia. Non è per lei» e fece per alzarsi.
Le ginocchia non lo ressero e rovinò a terra boccheggiando.
«Jarvis!» gridò lei balzandogli accanto. «Jarvis, cos’ha?»
«Non mi tocchi!» ansimò scansandola.
Riuscì a mettersi seduto, recuperando fiato a stento. Strinse
gli occhi, spalancandoli subito dopo. Premette le mani sul volto,
inspirando profondamente, senza trarne beneficio. Aveva le labbra
livide.
«Dov’è il Duca?» sibilò.
Amelia guardò attorno, in cerca delle lancette della pendola.
«A quest’ora… starà facendo il suo solito sonnellino»
Non le credette. Il padrone aveva ripreso a trafficare di magia,
evitando di metterlo a parte del contenuto delle ricerche. Barcollando,
attraversò la dimora. Ma lo trovò proprio là,
sulla sua poltrona preferita, beatamente addormentato a giudicare
dall’intensità del russare. Si accostò con
attenzione, scrutandolo freneticamente in cerca di un dettaglio
rivelatore. No, non stava fingendo. Dormiva.
Nuova settimana, nuovo capitolo...
Vi ho scombussolato ancora, vero?
Per Gaea: mi chiedi se Jarvis
ricorda "quando era umano". Quindi tu supponi non lo sia? Come hai
visto, il tuo adorato Ang, oggi ha dato sfoggio del suo lato elfico e
di un briciolo di gelosia (e vorrei vedere...). Quanto alla scena
bollente dello scorso capitolo, era proprio questo che volevo: rendere
tutto molto più poetico e meno carnale, senza perdere il senso
della cosa. Quanto alle aure, spero di riuscire a trovare qualche
sistema per spiegarle. E, no. Non sono romanista (argh, orrore! La
squadra del Pupone, no! Mai!), ma biancoceleste delle valli
(Albinoleffe) per amore del mio nipotino che ci gioca!
Per Emrys: dici che la madre di Corrado è stata cattiva nel dire a Isadora che era una fatina?
Non so. Io ho pensato ad una donna che non sa come spiegare ad una
bambina si sei-sette anni cosa significi essere morta. Penso sarebbe
difficile per chiunque. Comunque i pesci preferisco mangiarli, che
tirarli in faccia alle persone, stai tranquillo...
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Capitolo 22 *** Tavola XXI - Scavi ***
Tavola XXI - Piano interrato
Muri polverosi
incrostati di ragnatele. Odore intenso di stantio e roba vecchia,
velato d’incenso rancido. Frammenti di ricordi dimenticati. Aloni
di vite scomparse. Silenzio, inframmezzato da colpi di tosse.
Tastando con mano tremante, scovò una cassa di legno tarlato e
vi sedette con un lungo sospiro. Profonde rughe solcavano la fronte
già increspata dagli anni.
«Non ti piace qui?» domandò delusa Isadora. «Questa è la mia stanza dei giochi!»
Avrebbe desiderato dirle che era immensamente felice di trovarsi
lì con lei, che quel posto lo riempiva d’entusiasmo, ma lo
sconforto superava di gran lunga le sue aspettative. Aveva messo in
conto che potesse trattarsi di un vicolo cieco, di una strada senza
uscita. Di un errore. Eppure, quando aveva appoggiato il disco di
metallo sulla parete e questo si era scomposto, facendo scattare senza
alcuna difficoltà la Serratura d’Ambra, aveva creduto di trovarsi ad un passo dalla soluzione. Invece no. Era ancora esattamente al punto di partenza.
Quella che lo circondava non era la stanza nascosta creata da suo
padre: era la cripta della cappella, subito sotto la sagrestia, a
giudicare dalla scala che aveva incontrato nell’angolo.
«Corrado? Corrado, guarda!» trillò Isadora.
La vocina rimbalzava sulle pareti spoglie e su una superficie metallica poggiata chissà dove.
L’uomo risollevò un poco la testa.
«Queste sono le mie palline!» spiegò, cacciandogliene in mano alcune.
Erano fredde per il contatto con il fantasma, semplici biglie di
diversi materiali che minacciavano di sfuggirgli dalle dita
intorpidite. Ne trovò persino una di ceralacca. Credette di
riconoscervi alcune con le quali aveva giocato da bambino, ma si
trattava di reminiscenze di un tempo talmente lontano che era difficile
scindere la memoria dal desiderio del ritrovamento. Era deprimente
scoprire che la tanto agognata saggezza portata dall’età,
si accompagnava alla malinconia dei bei tempi andati.
«E questo è il loro lettino!» rise la bimba, premendogli qualcosa sul petto.
Un oggetto sottile e rugoso, profondamente inciso,
s’impigliò nella camicia. Toccandolo riconobbe un pezzo
d’impiallacciatura, forse la decorazione staccatasi da un mobile.
«Io le metto qui dopo che ci ho giocato, perché
così dormono. Si stancano tanto le palline, sai? Tu le tiri e le
tiri e le tiri, e loro rotolano lontano lontano. Rotolano tantissimo!
Poi però se ci gioco tanto non luccicano più, si
sporcano. Invece nel loro lettino rimangono pulite e brillano! Sono
più belle se brillano, no?»
Sforzandosi d’apparire interessato, l’uomo annuì. In
realtà, la sua mente correva ad altre possibilità, ad
altre ipotesi. Aveva poco tempo, anche se non sapeva esattamente quanto.
***
Oltre i vetri della finestra si apriva il cortile interno. Alcuni
colombacci tubavano sui davanzali. I loro svolazzi fruscianti
riecheggiavano a malapena sulle pareti tagliate in due dall’ombra
del pomeriggio, tuttavia Jarvis riusciva a distinguere con precisione
la nota sparsa nell’aria da ogni singola piuma. Non si trattava
di animali particolarmente belli o aggraziati, eppure qualcosa in loro
gl’impediva di staccarsi e proseguire come da programma. Restava
immobile a fissarli, la mente vuota.
Aveva predisposto ogni cosa per convertire quel maledettissimo Portale di Zavarov, per consentire all’Archimaga
di spostarsi da Villa dei Gelsi a Palazzo Baldan o alla Masseria Pietra
Dipinta. Non ne aveva alcuna voglia, anche se, a fronte di quello
sforzo, avrebbe potuto guadagnarsi un po’ di santa pace, spedendo
altrove quella guastafeste. Chi gli impediva poi di bloccare il
passaggio con la Veneziani all’altro capo? Un piccolo, innocuo
dissesto e il gioco era fatto. Nemmeno il Duca avrebbe potuto
sospettare una manomissione. O forse sì? Dopo tutto, era
risaputo quanto poco sopportasse quella presenza.
«Che diamine le sarà venuto in mente di cimentarsi con la Demonologia?» fece tra sé.
Ancora ripensava a quel colloquio con un misto di sgomento e orgoglio.
Temeva ciò che poteva annidarsi nella mente della donna,
naturalmente vocata all’insensata curiosità verso ogni
cosa. Al tempo stesso però, doveva ammettere che vederla pendere
dalle sue labbra, desiderosa d’ascoltare qualsiasi cosa avesse
deciso di raccontarle, l’aveva fatto sentire potente, come non
accadeva da tempo. L’aveva tenuta in pugno, seppur per pochi
minuti. Poco importavano le sue congetture, non sarebbe andata oltre.
Qualunque nuovo quesito gli avesse espresso riguardo i demoni e
ciò che era loro connesso, sarebbe naufragato in un vicolo
cieco. Meno veniva a sapere di quell’argomento, meglio era.
Poteva solo creare altri problemi.
«Se si mettesse in testa di rimuovere i sigilli sarebbe un problema» meditò. «Non deve succedere»
Gli esiti di quello sciagurato genere d’indagine li aveva ancora davanti agli occhi. Rabbrividì.
Ebbe appena il tempo di ricomporsi da quella sgradevole sensazione, che
percepì il padrone in lontananza. Avanzava lentamente, la zoppia
un poco più accentuata del solito, quasi avesse camminato a
lungo. Gli andò incontro, solerte. Un perfetto maestro di
palazzo.
«Vi cercavo, milord. Gli strumenti per l’intervento sul Portale
sono pronti e parte della corrispondenza richiede la vostra
attenzione» disse, porgendogli il braccio perché vi si
appoggiasse.
«Ti ringrazio d’aver atteso che terminassi di sbrigare miei affari in cantina» replicò sbrigativo.
Corrado supponeva avrebbe preteso di conoscere il motivo della sua
visita alla cripta e, soprattutto, come era riuscito ad accedervi,
poiché Jarvis in persona aveva provveduto a sigillare quei
locali. Tanto valeva confessare subito ed affrontare di conseguenza le
sue lagnanze.
Carew invece non domandò nulla, limitandosi ad accompagnarlo fin nella stanza dov’era il Portale.
Una linea di luce liquida tracciava un complicato insieme di cerchi,
rune e simboli sul pavimento di marmo. Al centro, sospesa a
mezz’aria, fluttuava una lunga asta di legno d’ulivo con
una punta di selce bianca.
Il mago si avvicinò, prendendo dalle mani del servitore il
volume che conteneva la procedura. Cominciò a leggere la prima
serie di formule, che avrebbero imposto la creazione dei contorni della
porta. Dovette ripeterle un paio di volte perché la lunga
inattività pareva aver bloccato i sigilli e le chiavi. Poi, con
una forte vibrazione, apparve un riquadro nella parete. Era molto alto
e piuttosto stretto, segno che, nei decenni, il flusso migratorio al di
là del battente aveva subito delle consistenti variazioni di
portata. Occorreva ripristinarlo prima d’inserire la Chiave di Didin. Questo era compito di Jarvis.
Il servitore si mise immediatamente all’opera, ma qualcosa in lui
tradiva un certo nervosismo. Una tensione insolita, lontana dalla
stizza dietro cui mascherava la consueta obbedienza. Si era fermato
più volte, spostando il punto d’intervento ora da un lato,
ora dall’altro, procedendo a scatti durante la trazione degli
stipiti. Alcuni respiri affannati sembravano indicare uno sforzo
superiore alle sue forze, ingenere piuttosto considerevoli.
«Qualcosa non va? Ci sono interferenze? Vibrazioni di Pavlova?»
«No. No, milord, nessuna interferenza. Nessuna» ripeté, la voce tesa.
Le sue parole non convinsero il mago che, dopo averlo udito più
volte tentare di comporre sequenze di sillabe di senso e magia
compiute, decise fosse il caso di accantonare la conversione.
«Cosa ti turba, Jarvis?» chiese, tenendo il segno con l’indice chiuso fra le pagine.
Il maggiordomo fece qualche passo per la stanza, indeciso se uscirne o
restare. Guardava l’anziano attendere pazientemente una
spiegazione, interrogandosi sulle parole giuste da usare. Non voleva
passare per un servitore inadempiente o ribelle. Non lo era mai stato,
anche quando s’intestardiva “come un goblin con le verruche”, come diceva il padrone.
«Prima… non sono venuto a cercarvi perché… vi credevo… a riposare» ammise titubante.
Corrado lasciò che l’asta d’ulivo tornasse a
fluttuare e chiuse il libro definitivamente. Ad un tratto, la
conversione dello Zavarov
aveva perduto d’importanza. La Chiave di Didim poteva attendere.
Avrebbe desiderato poter scorgere il volto di Jarvis, per comprendere
fino in fondo cosa significassero quelle parole spinte a forza fuori
dalla gola.
«Come hai detto, figliolo?»
L’uomo deglutì a vuoto, cercando nella postura
dell’altro i segni della punizione che supponeva
l’attendesse.
«Vi credevo a riposare» ripeté sconcertato.
Cancellò ogni traccia della procedura e sedette al tavolo,
rigirando assorto il bastone da passeggio. L’alone magico di
Jarvis era fermo, là dove aveva parlato. Non aveva percepito
variazioni, tremolii o sfaldamenti. Era identico al giorno precedente e
a quello prima ancora, procedendo a ritroso negli anni. Cosa allora gli
aveva impedito di scoprire la sua esatta ubicazione? A quanto pareva,
aveva a disposizione un numero esiguo di clessidre.
Con un sorriso gentile, gli fece segno di avvicinarsi.
«Credo rimanderemo quest’operazione. La mia gita sottoterra
è stata più stancante del previsto. Non mi sento in grado
d’affrontare un incantesimo tanto potente in queste
condizioni» sospirò, mentendo con arte e garbo.
«Prendiamoci un the, Jarvis. Ti và di farmi
compagnia?»
«Vado a predisporre ogni cosa, milord»
«Molto bene. Ah, dimenticavo. Chiedi a Romilda se ci sono ancora
quei pasticcini con la marmellata di ribes, erano deliziosi»
***
Le ultime braci mandavano riverberi sanguigni. Seduto di fronte al
focolare, Gromi rifletteva. Si era buttato una vecchia coperta sulle
spalle stanche per il troppo battere del maglio. Non che ne avesse
bisogno, dopo tutto i nani erano avvezzi a sopportare dolori e fatiche
ben peggiori. No, la coperta serviva unicamente a ripararlo da una
fastidiosa infiltrazione d’acqua che si era creata proprio sopra
il suo posto preferito. Perdita causata dall’incessante lavorio
di quel mastodonte squamoso. Doveva esserci una galleria che passava
tra la ghiacciaia e la sua officina, una di quelle che il bestione si
divertiva a percorrere con una discreta frequenza. Aveva
l’impressione che sapesse quanto fastidio gli procurava, quanto
le vibrazioni emesse dalle sue zampone tozze fossero deleterie per ogni
gancio ed attrezzo che trovava posto sulle pareti e sul soffitto del
laboratorio.
«Ti strapperò le squame una ad una, stupido
lucertolone» minacciò, smuovendo le braci con
l’attizzatoio.
Piccole scintille vorticarono verso la bocca nera della cappa.
Lo stangone con le orecchie a punta s’era impicciato della
perdita, insistendo che la sua femmina aveva le capacità di
rimettere in sesto tutto il soffitto e magari di dare un tocco
più professionale a quell’accozzaglia di ferri vecchi,
lame e ruggine. Sospettava stesse tramando un sistema per farla
scendere laggiù con l’inganno. Si sbagliava di grosso: i
clangori del metallo in lavorazione non gli avevano reso l’udito
tanto pessimo da non distinguere i passi di un elfo ficcanaso da quelli
della sua rispettosa compagna di letto. Per essere una che aveva scelto
di tenersi un elfo chiacchierone tra le gambe, era una che sapeva
rendere onore ad un lavoro serio e ben fatto, anche se era palese che
non ci capisse niente. Nessuna femmina, umana o nana, poteva
comprendere l’arte della metallurgia. Non avevano un cervello
adatto. A loro serviva solo per tenere in ordine la casa e crescere i
marmocchi. Ma quella là sopra aveva intuito, riconosceva il
valore di un’opera eseguita con mestiere e fatica. Almeno questo
doveva ammetterlo.
«E poi quella non mi sembra così scema da cascarci»
disse, parlando con gli attrezzi come se potessero ascoltarlo e
rispondere.
Gli avanzi delle ultime lavorazioni inghiottivano avidi la poca luce
rossastra. In un angolo giacevano le forme dove aveva colato i pezzi
per il Duca. Gli aveva chiesto di realizzare una banale chiave
incantata. Era quasi un insulto alle sue capacità. Poco
importava quali fossero le variazioni che aveva richiesto, erano tutte
cose di poco conto. Doveva ammettere, tuttavia, che realizzarla gli
aveva dato un brivido di trionfo. Per la colata aveva impiegato il
lingotto in cui aveva fuso la squama di Orlando e, con sua enorme
sorpresa, aveva scoperto d’aver creato un metallo malleabile e
resistente come l’acciaio, ma molto più recettivo
all’applicazione degli incantesimi. A quanti suoi illustri
colleghi era capitato di creare simili capolavori?
«Ti strapperò tutte le squame» ripeté con un ghigno soddisfatto. «Tutte quante»
***
Venti rotoli di rete erano stipati nell’androne. Le maglie
quadrate, larghe circa diciotto centimetri, si ammassavano flosce le
une sulle altre, in attesa d’essere impiegate.
Sulla ghiaia, un calderone ribolliva allegramente. Era più
grande di quello che Amelia aveva usato in precedenza ed aveva
preferito non sapere da dove Jarvis l’avesse tirato fuori.
Ultimamente era diventato impossibile porgli delle domande. Era
talmente assorto nelle sue meditazioni, che a volte dava
l’impressione di estraniarsi dalla realtà. Diveniva una
sorta di fluido incorporeo.
«Vederlo così mi mette ansia»
Amelia sorrise, continuando a trafficare con un paio di alambicchi colorati.
«Avete fatto pace?» domandò, dopo aver contato venti gocce di liquido azzurro cielo.
«No» sbuffò disgustato. «E non ne ho intenzione»
Levò lo sguardo, scoprendo l’elfo seduto a braccia e gambe conserte.
«Ang, siete stati amici per tanto tempo»
«Non m’interessa. È anche ora che capisca che deve
smetterla di comportarsi così. Non può continuare a non
tenere in considerazione gli altri. Solo lui è fatto di ghisa,
qui dentro» rimbrottò, rivolgendogli quell’accusa
come se fosse la peggiore al mondo.
Per lo stalliere, essere fatti di quel materiale significava essere
stati prodotti da una mano umana, con processi innaturali. Lo stava
mettendo sullo stesso piano del trattore di Mino.
Lei scosse il capo, facendo cadere sei gocce di una pozione bruna nel
bicchiere, rigorosamente di cristallo, che ospitava l’altra.
Ripose i due contenitori più grandi nel bauletto e iniziò
a mescolare i filtri. Nel giro di pochi istanti, nel bicchiere rimase
ad ondeggiare una sostanza trasparente come l’acqua.
«Sai che non so fare le ramanzine» disse, verificando
controluce l’assenza di impurità. «Però non
mi piace sapere che vi odiate per colpa mia»
«Non è colpa tua, lo sai»
«Ma il tema della discussione è partito da me e da quello
che Jarvis ha detto della mia famiglia. So che ti ha ferito sentirlo
parlare a quel modo, che ti sei sentito tirato di mezzo indirettamente,
ma pensa a quel che ha detto Corrado: lui non ha nemmeno una vaga idea
di cosa significhi avere una famiglia. Noi sì e sappiamo fin
troppo bene cosa significhi vivere senza. Chissà che diamine gli
è toccato sopportare per diventare il tipo insopportabile che
conosciamo. Solo, senza altri riferimenti che la paura e la
rabbia»
Nel dire quelle cose, ripensò alla storia di Oliver Twist. Quasi
riusciva ad immaginare un piccolo Jarvis col viso sporco ed i vestiti
logori che si arrabattava tra mille difficoltà, fino a venir
salvato dall’ingresso nel seguito dei Frasca di Cortenova.
«Fragolina, io ho sempre
cercato di accettarlo per quello che è, mai mi sono sognato
d’insultarlo. Diamine, lo conosco dal Trentanove! Lui invece non
si è mai scomodato a mettere il naso fuori dal guscio»
replicò, tirando lontano un sassolino.
«Dal… Trentanove?!» esclamò allibita.
«Sì. Sono arrivato a Villa dei Gelsi quell’anno. Te l’avevo detto»
«Sì, ma non mi avevi detto che lui era qui» disse
posando a terra il bicchiere che per poco non le era sfuggito di mano.
«Credo anche da un po’. Lui e il Duca s’intendevano bene come adesso»
«Quindi… aspetta… tu sei nato nel
millenovecentoventuno e hai novant’anni,…»
calcolò.
«A giorni» si affrettò a ribadire con un gran sorriso carico di sottintesi.
«Lo so, dopo domani» confermò, scompigliandogli i
capelli. «Ma allora, lui quanti ne ha? Quando l’hai
conosciuto era già com’è adesso?»
Ang ripensò alla prima volta che aveva visto Carew. Sembravano
passati millenni. Una stringa nera e rigida, dritta accanto al padrone.
«Praticamente identico. Persino i vestiti» ridacchiò malevolo.
La risposta impensierì molto la donna.
«Ang, lui dimostra sì e no quarant’anni. Sai cosa vuol dire?»
«Che li porta molto bene?» scherzò.
«Che ne deve avere almeno centoventi! Che razza di pozione ha
messo insieme per riuscire a mantenersi così? Che io sappia,
quel genere di intrugli ha parecchi effetti collaterali, tipo rughe
attorno agli occhi, macchie sulle mani, movimenti che
s’irrigidiscono a tratti, problemi di interazione con altri
preparati, malesseri che diventano sempre più
frequenti…»
Mentre mandava a memoria gli esiti dei ripassi e degli approfondimenti
fatti durante i giorni di pioggia, si rese conto di come tutti quei
piccoli dettagli stessero improvvisamente trovando una collocazione.
«Che c’è?»
La voce dell’elfo la riscosse. Lo fissò come se lo vedesse solo in quel momento.
«Ecco perché non si reggeva in piedi. Sta eccedendo con la Pozione dell’Eterna Giovinezza»
«D’accordo che è un gran vanitoso, ma non puoi
esserne sicura. Non gli ho mai visto preparare niente di più
complicato di un the!»
«Pensaci un attimo: quadra tutto. I guanti, i malori, l’atteggiamento»
«Fragolina?»
Amelia lo guardò, pronta all’ennesima sdrammatizzazione.
Sapeva bene che non c’era verso di riportarlo alla
serietà, specie se pretendeva d’aver ragione
sull’argomento in questione. Lui però sollevò un
dito e indicò alle sue spalle.
«La pozione bolle forte»
Dal bordo del calderone cominciavano a far capolino grosse bolle dense
che scoppiavano emettendo un suono molle. Amelia schizzò in
piedi, versando con attenzione la mistura preparata poco prima.
L’acqua nel paiolo smise immediatamente di bollire e sulla
superficie si formò una patina gelatinosa che l’Archimaga
tolse con una schiumarola. Raccolse i nuovi ingredienti da aggiungere:
bacche d’edera, ragnatele, sabbia calcarea, schegge di quarzo
ialino e ametista, foglie di mandragola in polvere e radici di alloro.
Le sparse una per una sulla pozione, stando ben attenta a non sbagliare
l’ordine. Mescolò quattro volte in senso orario,
disegnò una spirale verso il centro e riprese in senso
contrario. Dal calderone si levò un borbottio sommesso e il
preparato riprese un bollore più contenuto, emanando un lieve
vapore argenteo.
Tornò a frugare nell’Aliperti-Bresson e ne tirò fuori il Domus Magna.
Guardò con profondo affetto la boccetta dal tappo di smeraldo.
Questa volta uno smeraldo autentico, grande quanto una nocciola, non un
vetro colorato. Corrado aveva sfruttato le sue conoscenze per
sollecitare il fornitore e, già che c’era, si era
premurato di fargliela trovare sulla scrivania al suo rientro dopo quei
pochi giorni trascorsi a casa a Natale. Compreso il flacone
“degno di una grande Archimaga”,
come aveva scritto nel biglietto che l’accompagnava. Tenere fra
le mani quel regalo le risollevava il morale oltre ogni dire. Un gesto
simile era più unico che raro dalle mani di un cliente, mago o
no.
Versò le gocce prescritte nel preparato, osservando
l’intruglio verdastro cominciare a schiarire, virando a poco a
poco verso il giallo. Una volta raggiunta la giusta gradazione, avrebbe
dovuto farlo raffreddare prima di inzupparvi le reti. E per riuscirci,
serviva Orlando.
«Possiamo cominciare» dichiarò.
Lo stalliere si alzò, portando fra le braccia un grosso involto
di stoffa. Dentro era nascosto un succulento blocco di ardesia per
attirare il Beccodiferro fuori della sua tana.
Per circa mezz’ora Amelia rimase sola nel cortile, mescolando di
tanto in tanto. Uccellini cinguettavano allegri fra i rami dei gelsi.
Gli alberi avevano ripreso possesso delle posizioni che l’anno
prima avevano dovuto abbandonare per consentirle di effettuare i
rilievi.
Il drago fece capolino dalla rimessa, sbuffando assonnato. Il profumo
sconosciuto ed invitante di quella roccia l’aveva ridestato da un
pisolino che durava da un paio di giorni. Seguì l’elfo
ciondolando col muso teso in avanti e gli occhi socchiusi.
Arrivò in prossimità della postazione di Amelia, che non
degnò della minima attenzione.
«Bene, cucciolone» disse Ang, facendo oscillare
l’ardesia davanti al rostro scuro. «Facci un po’
vedere quanto sei bravo a fare buchi»
Un brontolio cupo e possente fece tremare i vetri della facciata. Sei
iridi fissavano le mani improvvisamente vuote. Le minuscole narici
annusarono con sgomento la pelle su cui era rimasto solo un debolissimo
sentore di pietra.
«Sicuro che non ti aggredirà? Sembra un po’ arrabbiato»
«Aspetta e vedrai»
Ormai del tutto sveglio, il rettile muggì e cominciò a
dare la caccia al maltolto. Avrebbe frugato da cima a fondo il cortile,
se il potente fiuto non avesse individuato una traccia poco distante.
Per prima cosa raspò a larghe zampate la superficie, mettendo a
nudo il terreno. Poi, con precisi colpi del muso corazzato,
attaccò a scavare. Terriccio, sassi, radici e vermi iniziarono
ad ammassarsi rapidamente in un cordone attorno allo scavo. Quello che
il drago non poteva immaginare, preso dal languorino, era che
l’ardesia non sarebbe rimasta a lungo dove la sentiva:
l’incantesimo di Ang aveva fatto in modo che si spezzasse in
più parti, che alla minima vibrazione si sarebbero divise per
ricomporsi altrove. Così facendo, Orlando avrebbe modellato la
vasca dove avrebbero messo a bagno le reti.
Halloween è appena passato e si vede, visto il ritardo della pubblicazione di questo capitolo. Comunque, eccoci qui.
Ringrazio i lettori anonimi, vedo che siete tanti. Su, non abbiate
paura! Fatevi riconoscere, fatevi sentire! Un parere in più (di
qualunque genere) è sempre ben accetto!
Per Gaea: mi chiedi delucidazioni sulle Catene Romane, ma ahimé... non posso dartene! Capirai a tempo debito. Magari fossi un'Archimaga davvero! Riempirei i progetti di questi Scrigni Verdi!
Ovviamente noi vediamo cose nella natura che altri popoli non vedono o
che leggono in maniera diversa. Per cui è normale che gli elfi
di Balirian abbiano un'idea negativa dell'edera.
Per Alicia84: sai che se non
faccio prender colpi non sono io! Le rimostranze di Ang dipendono, come
ho già detto, dalla sua cultura, che è diversa dalla
nostra.
Per Emrys: okay, lo ammetto: tra il Duca e Jarvis c'è un legame. Devono stare "vicini-vicini"!!!
Va bene, basta idiozie da festa... Troppo cioccolato. Orlando non viene
propriamente maltrattato. O meglio, Luisa vorrebbe, ma non può
riuscire nell'intento! E' evidente. Come hai visto però, la
chiave incantata non è servita a molto. Meno ancora a
rimaneggiare il rapporoto tra Jarvis e Corrado.
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Capitolo 23 *** Tavola XXII - Coperture ***
Tavola XXII - Coperture
Camminava in punta i piedi, danzando sui gradini di pietra chiara. Il giorno in cui l’Archimaga
li aveva appoggiati sul terreno, lei se n’era stata seduta sulla
fontana, osservandola e strillandole ogni domanda che le passasse per
la mente.
«È gentile. Mi parla» disse alla sua gemella nella vetrata, quasi attendesse una risposta.
Si appoggiò alla porta, incontrando un oggetto freddo che
sporgeva e si muoveva verso il basso sotto il peso lieve della sua
mano. Spinse e la cortina trasparente la invitò ad entrare.
Dentro l’aria era diversa, tiepida, ferma, avvolgente.
Un’erba colorata e soffice scivolò sotto i piedi scalzi.
Disegni si affollavano dalla terra al cielo e intorno ad creature tozze
ed immobili, lisce, dai corpi forati pieni di oggetti sconosciuti e
curiosi. C’erano omini, animali, pezzi di ghiaccio e di pietra,
scintillanti e colorati.
In uno vide una donna prigioniera. Era minuscola, bianchissima e
lucida. Stava accosciata su un prato candido quanto lei, stirando le
braccia verso l’alto, colta nell’atto di un eterno
risveglio. Lojana sorrise imitandola. L’abito si specchiò
nei cristalli del mobile, ricordandole la sua presenza. Un attimo dopo
giaceva sul pavimento, permettendole di esibirsi per la cieca
spettatrice nel suo librare senza veli.
Il suo sguardo cadde su uno strano essere poco lontano. Si
avvicinò e lo esaminò, accarezzandolo e percependo,
sottilissimo, un odore. Lui era stato su quella cosa concava e morbida,
per lungo tempo. La percorse con le mani, scoprendo i suoi contorni
ancora impressi all’interno. Lui sedeva lì. Lasciava che
la stanchezza entrasse nel morbidezza che lo circondava.
Cadde con malagrazia sulla poltrona, spingendosi e aggiustandosi fino a
quando le sue forme riempirono quelle inconsistenti dell’uomo. Le
sentiva tramutarsi nelle sue mani, nella sua bocca, nella sua pelle.
Lasciò che quelle ultime tracce l’avvolgessero, la
toccassero, le parlassero dei muti tormenti di chi le aveva impresse.
«Cosa fai qui?» sibilò una voce allarmata.
Sogghignò. Sapeva che l’avrebbe raggiunta. Anche se negava
di volerla, anche se negava di sentirla. Sarebbe sempre accorso al
richiamo, obbediente.
«Questa è una casa» dichiarò giuliva.
«Esci immediatamente» le intimò, rigido per il nervosismo.
Portava uno strano abito, scuro e ondeggiante. Somigliava vagamente a
quelli che indossava quando la cercava nel giardino. Era aperto e
lasciava intravvedere il torace magro.
«Mi piace» sospirò, aggiustandosi nella poltrona e agitando le gambe nell’aria.
«Vattene» insisté raccogliendo l’abito e porgendoglielo.
Lo spirito socchiuse le palpebre.
«Perché dovrei?» replicò con malizia.
Era la prima volta che gli rivolgeva una domanda che pareva avere un senso.
«Perché non ti devono vedere. La tua presenza qui è
sconveniente» ringhiò afferrandola per un braccio.
Lojana si liberò della stretta e sgranò gli occhi per un
istante, dischiudendo le labbra scarlatte e lucenti. Toccò il
punto dove le dita di Jarvis si erano chiuse su di lei.
«Non mi vuoi»
«Vattene» ripeté con urgenza. «Qualcuno potrebbe venire qui e vederti»
Inaspettatamente, la vide alzarsi. Lenta, sinuosa, infernale.
Oltraggiata. Sollevò il mento in segno di sfida prima di
voltargli le spalle. Si diresse alla vetrata, nuda, in silenzio. La sua
camminata restava eccitante nonostante procedesse impettita, i lunghi
capelli scarmigliati che ondeggiavano in un mare invisibile.
«Lojana» chiamò a mezza voce.
Si detestava per averlo fatto di nuovo. Aveva giurato di mantenere le
distanze, com’era sempre stato prima di quella notte. Lei si
fermò, girandosi quel tanto da permettergli di percorrere il
profilo procace della sua figura. Tacquero entrambi per un tempo
indefinito, studiando le reciproche reazioni.
Galileo entrò miagolando dalla porta socchiusa e non trovò di meglio che strusciarsi contro le caviglie di Lojana.
«Credi che un nome possa bastare a cancellare un rifiuto?»
domandò, inginocchiandosi ad accarezzare l’animale.
Il felino inarcò la schiena, facendo le fusa sulle sue cosce. Il
muso rivelava tutta la gratitudine per il delizioso dono di quelle
coccole inattese.
«Non puoi restare qui, ma non ho detto che non ti voglio» ammise.
I pugni dell’uomo tremavano, stretti fino a far sbiancare le
nocche. Prendeva respiri il più profondi possibili, ma
l’aria sembrava non raggiungere mai la quantità
necessaria. Annaspava in quel mare inesistente che faceva fluttuare e
spandere la chioma in una grande nube vermiglia. Distingueva bene il
colore anche in quella poca luce. Sì, era vermiglia di passione,
di brama, di sesso.
«Tu non mi vuoi» soffiò.
«Ascoltami quando parlo. Ho detto il contrario» ribadì, con la gola stretta in un nodo.
Tentava di dominarsi in ogni modo, di strapparsi di dosso la nebbia
soffocante che saliva dall’interno delle sue viscere, offuscando
ogni pensiero razionale. Le ginocchia scattavano, elettrizzate
dall’impulso d’azzerare le distanze, ma le caviglie
rimanevano bloccate, rigide.
«Parole!» rise crudele, tornando verso di lui con le mani
sulle curve seducenti dei fianchi. «Non servono a niente. Non gli
sono mai servite a niente. Lui parlava, parlava e poi veniva
strisciando ad implorarmi di placarlo. Si riempiva la bocca di parole e
poi la riempiva di me»
Il maggiordomo non era riuscito a staccarle gli occhi di dosso, la gola
che inaridiva ad ogni passo, il corpo in subbuglio che andava
coprendosi di sudore. Ogni frase che aveva pronunciato era carica di
tensione erotica, grondava una carnalità travolgente, ogni
sillaba materializzava immagini di sfrenata lussuria.
Lojana tornò ad inginocchiarsi, prendendo in braccio Galileo che
l’aveva seguita adorante. Jarvis trattenne il fiato quando le
zampette grigie le poggiarono su seno, affondando un poco nella
tenerezza della sua pelle. Il ritmico pulsare delle fusa scivolava
sulle forme spogliate simile a gocce di pioggia, ripercorrendo le vie
abitualmente accessibili solo alle sue dita.
Si alzò, flessuosa, grattando il mento del gatto che teneva in
bilico tra le braccia ed il petto. La punta della coda oscillava
soddisfatta.
«Tu sei. E non sei» disse, strofinando una guancia sul capo di Galileo.
«Taci»
Avrebbe voluto fosse un ordine, ma dalle labbra serrate era emersa una supplica. Un’indecorosa supplica.
Le iridi cerchiare di rubino risalirono dai piedi fino al volto
spigoloso. Non era uno sguardo, era una lama rovente che gli mordeva la
carne, che lacerava le vesti, che dilaniava il pensiero.
«Ora comando io»
«Mai» ribatté, aggrappandosi con rabbia al disgusto che provava per sé stesso.
Lojana depose il gatto sul tavolino accanto alla poltrona e gli si
avvicinò. Era alta quanto lui, avrebbe potuto trafiggere con i
propri occhi quelli del maestro di corte, invece lo esaminò,
tornò a scrutare il torace asciutto dove le costole premevano
appena sotto la pelle cerea. Con la punta delle dita scostò un
poco la giacca del pigiama, arrivando a scoprirgli una spalla. Jarvis
si oppose, arretrando di un passo, ma si trovò contro il mobile
alle sue spalle, dove gli apparvero, riflesse nello specchio, la sua
immagine e quella della donna.
«Tu mi hai voluta così, lui non mi può cambiare. Io
vi comando. Entrambi» ansimò, lasciando che il seno si
adagiasse per un secondo su di lui.
Quel contatto fu sufficiente a riempire di brividi il maggiordomo,
confuso e inorridito. Sapeva che c’erano lo stalliere e l’Archimaga
in giro per la villa. Sopra le loro teste. Avrebbero potuto sbucare da
un momento all’altro. E lui era inerme, incapace di sentirli. Non
sentiva quasi più. La dimora era ammutolita. Percepiva solo il
respiro caldo di Lojana sfiorargli il volto.
«No»
Solo una parola, per negare quanto aveva udito e il desiderio che non
poteva più dominare. Stava cedendo, era sconfitto. Di nuovo. La
vergogna ed il biasimo l’avrebbero colmato, se non ci fossero
state quelle pulsioni animali a ruggirgli dentro, artigliando i muscoli
e muovendoli contro la sua volontà.
«Io» sospirò lei, indietreggiando.
Sollevò le braccia passandole dietro la nuca a raccogliere i
capelli, a mostrare le sue grazie tentatrici. La seguì, docile e
affamato.
«Cosa mi stai facendo? Che anatema è questo?»
domandò, le mani che salivano ad imprigionare il volto
indecifrabile dell’altra.
La sentì ridere prima che i pantaloni andassero a far compagnia
all’abito sul pavimento freddo. Riuscì a tenersi addosso
la casacca scesa sui gomiti mentre veniva spinto con un dito sulla
poltrona.
Rimase in piedi, le gambe leggermente divaricate che celavano nella
notte l’abisso di perdizione in cui Jarvis si sentiva
precipitare. Ascoltava il grido muto con cui rispondeva al suo invito.
Si sarebbe lasciato andare, come sempre: lottando e dibattendosi in una
trappola inesistente. Lui la vittima, lei la Lamia* cui era destinato. Lui la belva e lei l’agnello. Si sarebbero divorati a vicenda, anche quella notte.
Guardò le braccia fasciate dalla stoffa arrotolata, quasi
fossero imprigionate in una catena. Posò un ginocchio sul
bracciolo, sollevandosi leggera a mezz’aria, mostrandosi e
contemplando lo spettacolo che scatenava. Voglie furiose si agitavano
dietro al volto contratto e prorompevano con ansioso vigore dalla
gabbia del corpo imprigionato sotto di lei.
Il servitore trattenne il respiro nel momento in cui Lojana prese a
stringere inesorabile il nodo dei loro corpi. Era sempre stato lui a
decidere, lui a possederla, lui a scatenare quelle reazioni impudiche
che erano il vessillo del suo appagamento. Ora, il rovesciamento dei
ruoli che lo poneva in balia del movimento dei suoi fianchi e dello
stordimento che gli provocava, lo faceva sentire violato, strappato
dall’ultimo barlume di cognizione. Eppure, l’umido calore
in cui era immerso, i gemiti all’orecchio, le mani che stringeva
avido e vorace sulle rotondità per catturarne il ritmo, erano
ciò di cui aveva un disperato bisogno. Avrebbe voluto domandarsi
il perché mentre la stringeva ed assecondava il dondolare
languido del bacino.
Lojana alzò di scatto la testa, fissando il soffitto.
«C’è luce»
***
Villa dei Gelsi quella notte aveva un aspetto molto curioso: somigliava
vagamente ad un grande arrosto, ben avvolto in una rete che la tenue
luce delle stelle faceva spiccare in tutto il suo biancore.
«Dovevi proprio farlo a quest’ora?» chiese Ang, versandole una bella tazza di tisana bollente.
L’Archimaga gli fece
segno di attendere un istante mentre controllava sul portatile che il
programma di ricezione dati fosse attivo. Attese che si aprisse il
pop-up di conferma e girò la ghiera nell’angolo della
tastiera. Vorticillo sbatté le ali, stando ben attento a non
perdere il tubicino forato che reggeva nel becco.
«É necessario spargere ora il filtro, per permettere al Domus Magna
di far attivare le proprietà dell’edera con i raggi del
primo sole. Il preparato dovrà percolare goccia a goccia sul
tetto, riposare e penetrare nella copertura col fresco perché
possa risultare efficace» spiegò con un sorriso.
Diede il via allo Spiritello e
prese la tazza che lo stalliere le porgeva, lasciando che
l’infuso le scaldasse le mani. Nonostante l’estate fosse
dietro l’angolo, dopo le ventitré sulla cima della torre
di Villa dei Gelsi spirava un vento gelido.
«Il Duca cos’ha detto di questa tua idea?» fece Ang, controllando lo srotolarsi del sottile condotto.
«Era entusiasta e, visto che c’era, mi ha dato una mano per
valutare se potessero sorgere problemi nel mettere in opera due
incantesimi contemporaneamente. Pare non ci siano Incompatibilità di Reza… no, aspetta. Incompatibilità di Rajai.
Quindi posso terminare il consolidamento dei muri e del tetto nello
stesso momento, creando un tutt’uno» spiegò,
intrecciando le dita per mostrare più chiaramente cosa
intendesse. «È davvero un uomo eccezionale! La sua cultura
magica è vastissima. Sapevi che si può sostituire
l’estratto di Cervo Muschiato con una mistura fatta di torba,
aceto di mele e sangue di limulo?»
«Usate delle cose ben strane per fare magie» sghignazzò storcendo il naso.
«Se potessi evitarlo, lo farei. Ma non sono un’elfa!» rispose sullo stesso tono scherzoso.
«No, tu sei una strega»
«Non è tecnicamente corretto»
«Invece sì» rispose stringendola e posando
ripetutamente le labbra sulle sue. «Tu mi hai stregato. Sono
prigioniero delle tue magie»
«Ang, sto lavorando…» ma la sua difesa si faceva sempre più blanda, bacio dopo bacio.
L’eikonal levava la voce
con maggior forza, annebbiandole la mente, rischiando di mandare a
monte l’autocontrollo che tentava d’imporsi durante le ore
di lavoro. Ang percepiva il suo sforzo e cercava di non eccedere, ma
era difficile: in qualche modo anche il suo eikonal rispondeva alla vicinanza di quello di Amelia.
«Ehi, che scherzi sono?» garrì il rondone, virando bruscamente verso la colombaia.
L’Archimaga e l’elfo scattarono in piedi e s’affacciarono.
«Vorticillo!» chiamò lei, cercando nel buio.
Il tubo penzolava inerte verso il cortile interno, inghiottito dal nero dei muri addormentati. L’Aquilone fischiava impaurito nel cielo notturno.
Qualcosa attirò l’attenzione dell’Archimaga: sul video del computer lampeggiava una schermata d’avviso che indicava un punto di turbamento
dei parametri magici. Controllò più volte, tentando di
ripristinare le connessioni, invano. Cercò, seguendo le
indicazioni che pulsavano sullo schermo. Al centro della falda del
corpo ovest c’era una macchia, una chiazza bianca, luminosa, che
spandeva un alone tremulo nella notte.
«Fragolina, la vedi anche tu?» chiese preoccupato.
L’elfo conosceva bene i poteri e le capacità di
bioluminescenza di muschi, licheni e funghi, nessuno dei quali cresceva
a quelle latitudini. Tantomeno sul tetto di una dimora gentilizia,
farcita all’inverosimile di incantesimi protettivi e repulsivi.
Una pianta capace di illuminare la notte era senza dubbio affascinante,
oltre che pericolosa: quel genere di reazioni di solito si accompagnava
a delle difese.
«Sì, ma… non ci sono buchi nel tetto! Sono sicura! Ho controllato!»
Amelia pulì le lenti nella maglia e le riaggiustò sul
naso. La luce era ancora lì, una pozza liquida che ondeggiava
appena sulle tegole. O, ad esser precisi, nelle tegole. Sembrava che la
terracotta fosse stata sostituita da un materiale liquido e solido nel
contempo, luminoso. Poi, improvvisa com’era apparsa, la luce
svanì.
«Che roba era?» pigolò Vorticillo, appollaiandosi sul parapetto di ferro.
«Non ne ho idea» rispose allibita.
Fece scorrere rapidamente le pagine del Vasco-Martinez in cerca del
capitolo “Tetti e coperture”. Aveva letto di tegole
ballerine, comignoli risucchianti, travi torcitrici. Di quel genere di
luci, mai.
***
«Nulla, niente di niente» fece, chiudendo spazientita
l’ennesima copertina e riponendo immediatamente il tomo nella
libreria. «Eppure qualcosa ci deve essere!»
Pile di libri ingombravano il tavolo della biblioteca. Dal corridoio
erano arrivate un paio di volte le risatine sarcastiche di Luisa e
Francesca. Aveva evitato di alzarsi e chiedere loro di smetterla solo
per non sprecare tempo prezioso per le ricerche. Dopo tutto, lo sapeva
fin troppo bene che di quelle due, l’unica che davvero nutriva
sentimenti di sincero odio nei suoi confronti, era Luisa. Francesca
faceva il pesce, seguendo la corrente a cui si trovava più
vicina: più d’una volta le era capitato di parlarle e
scoprire che prendere parte alla miriade di dispetti di cui era vittima
era un modo di dimostrare amicizia alla collega. Francesca non ce
l’aveva assolutamente con lei.
Massaggiò gli occhi e le tempie, abbattuta. Era stata per ore sul sito del Consiglio degli Archimaghi, frugando nei vari link, nelle sottosezioni, nelle FAQ, in cerca di spunti chiarificatori. Pareva che nessun Archimago
avesse mai riscontrato il suo problema. Ammesso che di problema potesse
trattarsi. In fondo, dopo la sparizione della luce, tutti i parametri
erano tornati nella norma e Vorticillo aveva completato la posa del
piccolo condotto lungo il colmo del tetto. Era certa che il preparato
avesse agito a dovere, perché una volta rimosse i puntelli
serviti per sostenere alcune parti delle coperture, queste erano
rimaste immobili, perfettamente planari col resto delle strutture.
Quindi perché tormentarsi? Era tutto a posto finalmente: tetto,
gabbia statica, fondamenta. Persino l’entrata del nido di Orlando!
«Qualcosa non quadra comunque» sospirò, issandosi sull’ultimo gradino della scala.
Meditava, mordicchiandosi il labbro, il mento sulle ginocchia. Doveva
avere l’aria di un gufo isterico, appollaiata lassù. Era
anche senza occhiali: rischiava di mettere male un piede e precipitare
da quasi tre metri sul tavolo di quercia ricoperto di volumi. Volumi
che avrebbe dovuto rimettere a posto secondo l’ordine stabilito
da Carew. Un ordine che spesso risultava inintelligibile persino al
Duca.
«Amelia?»
Sentendosi chiamare, strizzò gli occhi verso il basso, dove
distinse proprio la chioma candida di Corrado. Era in fondo alla scala
e teneva la testa inclinata, come se fosse concentrato su un rumore
insolito.
«Sì, sono io. Scendo subito»
«Per carità, non volevo distrarti dalle tue
ricerche» si scusò. «Cercavo solo di capire se eri
davvero tu, là in aria»
«In aria?»
«Infatti non sei “in aria”, solo in alto»
Troppo abbattuta dalla mancanza di notizie, l’Archimaga scosse il capo e tornò con i piedi a terra.
«Mi è giunta voce che tu sia stata testimone di un insolito fenomeno»
«Ang?»
«Angelo ha ritenuto che ti “stessi ammazzando
d’inchiostro per non cavare un ragno dal buco” e mi ha
riferito l’accaduto. Anche se temo che la sua fosse una versione
molto poco professionale»
«Perché? Cos’ha detto?»
L’uomo accennò una risatina grassa e ansimante.
«Che le tegole si sono illuminate»
«Sfortunatamente, è proprio quello che è successo.
Non ho molto da aggiungere, tranne che il portatile ha segnalato un punto di turbamento dove è apparsa la luce» spiegò, guardandolo corrugare la fronte.
«Quindi è realmente accaduto qualcosa»
Sembrava che la notizia lo preoccupasse.
«Già. Ho chiesto a Jarvis, ma ha negato di esser stato lui»
Aveva sospettato di lui perché Luisa non sarebbe mai arrivata a
tanto, per quanto inviperita. Era una cameriera, non aveva alcuna
nozione di incantesimi o pozionistica di base. O almeno, così
sperava.
«Gli hai chiesto di dirti la verità?»
«Non è Angheledrior. Dubito l’avrebbe fatto»
«Se il tuo fosse stato un ordine, ti avrebbe obbedito. Gliel’ho imposto io, ricordi?»
«Sì, certo» ammise, tutt’altro che convinta
dell’obbedienza del maggiordomo. «Resta il fatto che lui
non è stato. Ha detto che la sua insonnia è un problema
abbastanza impegnativo da impedirgli di mettersi a fare incantesimi di
tale devastante potenza. Ovviamente era ironico»
«Lo supponevo. E questo ci dice che era sincero»
bofonchiò, sempre più perplesso.
«Dov’è apparsa esattamente, questa luce?»
«Era sul tetto. Al centro del corpo ovest»
Le rughe sulla fronte del Duca s’infittirono.
«Sopra la cappella?»
«Beh, sì. Crede ci sia qualche collegamento con quei
locali o con qualcosa al loro interno? Forse converrebbe entrare a dare
un’occhiata» azzardò, incrociando le dita.
Forse quel fenomeno misterioso poteva volgere a suo favore. Immaginava
il piccolo luogo di preghiera, i vecchi quadri con santi in pose
solenni e drammatiche, i paramenti impolverati, gli inginocchiatoi
tarlati. Poteva quasi sentire l’odore di incenso misto a quello
di chiuso e abbandono. Un brivido d’emozione le corse per la
schiena, ma subito rammentò la promessa fatta ad Ang: avrebbe
lasciato che la vita giocasse le sue carte giorno per giorno, senza che
lei tentasse d’affrettarle la mano. Niente distorsioni o
forzature. Però, cosa c’era di male nel fantasticare un
po’? Anzi, nello sperare che le cose prendessero un’altra
piega?
«No, Amelia, hai promesso che non l’avresti fatto!» ribadì mentalmente la sua coscienza.
E non si poteva mettere zittire la coscienza.
Invece il Duca taceva da un po’, lasciandola preda delle sue elucubrazioni con allarmante facilità.
«Corrado?»
«Come, cara?» domandò riscuotendosi di soprassalto.
«Dicevo: crede che la cappella, o quello che c’è dentro, possano avere a che fare con quel fenomeno?»
«Nella cappella? Oh, no, no. Ne dubito. Là ci sono solo
polvere e ragnatele. Niente di magico, salvo per chi crede»
rispose, sorridendo pacifico.
«La fede non è magia»
«Forse no, ma ha molti punti in comune con essa, credimi»
disse, con l’aria di chi la sapeva più lunga di quanto
dava ad intendere.
«Corrado, a costo di passare per una rompiscatole che approfitta
della situazione per ficcanasare dove non può, ma non potremmo
dare un’occhiata? Solo per sincerarci che sia tutto in
ordine»
Teneva le dita incrociate, sperando che non le percepisse. Per
sicurezza le aveva anche figurate nella mente, appellandosi agli
sconosciuti santi custodi della cappella che, si augurava, avessero
voglia di prendere una boccata d’aria, vedere qualche faccia
nuova e sentir due preghiere. Anche lei aveva bisogno di rimetter piede
in un luogo sacro per qualche minuto e ritrovare quella familiare
sensazione di divina protezione e conforto.
Il Duca le strinse affettuosamente un braccio.
«Vedremo, mia cara. Vedremo se la Provvidenza dirà che è il caso»
Dette da un non credente, quelle parole suonavano come un garbato no.
*Lamia: figura mitologica.
Erano mostri orribili che avevano il potere di trasformarsi in donne
seducenti per divorare i propri amanti.
Buon inizio settimana a tutti! Detto da una che è appena entrata in ufficio è sintomo di follia galoppante, lo so.
Forza, adesso che andiamo verso la brutta stagione potrete concentrarvi meglio sulla lettura e farmi conoscere i vostri pareri!
Per Emrys: povero! Questa volta
ti hanno lasciato solo a recensire! Davvero credi di aver capito
perché il Duca voleva Amelia? Sei sicuro? Guarda che io non sono
un ache la fa tanto facile...
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Capitolo 24 *** Tavola XXIII - Locali di servizio ***
Tavola XXIII - Locali di servizio
«Dovrebbe pulirsi i piedi»
Il lembo superiore del giornale si abbassò, rivelando lo sguardo
cupo del maestro di corte sotto la fronte aggrottata. Detestava essere
interrotto durante la lettura delle pagine di politica interna.
Soprattutto se questo accadeva subito dopo colazione, mentre si trovava
nello studiolo, in compagnia del quotidiano, di una sigaretta accesa e
di un briciolo di meritata pace. Ancor di più se questa
seccatura si palesava dopo una notte durante la quale Morfeo gli aveva
voltato le spalle. E dire che in passato non gliene sarebbe importato
nulla di trascorrere nottate intere lontano dal letto.
Le rivolse un’occhiata carica di riprovazione, che la
obbligò a trincerarsi dietro il variopinto piumino e gli
strofinacci che teneva in mano.
«I-il f-fango. S-sul tappeto. È d-difficile pulirlo e il
tappeto è troppo grande per portarlo fuori. Noi siamo solo in
due. E poi fuori c’è Orlando che dà fastidio e lo
potrebbe sporcare di più ancora e io non voglio fare le cose per
niente e farle due volte» spiegò, aumentando la
velocità sillaba dopo sillaba, come se qualcuno la stesse
spingendo da dietro.
Muto e torvo, l’uomo si degnò d’inclinare il busto
per constatare quanto ci fosse di vero sulle suole delle costosissime
scarpe di capretto e vernice. Luisa lo seguì allungando il collo
come una tartaruga, sperando di riuscire nel contempo ad inghiottire il
groppo che le serrava la gola.
«Non lei, quella donna» chiarì.
Un gelo improvviso calò nella stanza. La mascella di Jarvis ebbe
una contrazione cattiva, crudele, prima che tornasse a sollevare due
lame scure e taglienti sulla sguattera.
«Non so di chi stia parlando» sibilò.
Luisa, spinta dalla frustrazione e dalla gelosia, insisté tra i
sussulti che le causava la paura. In tanti anni non aveva mai osato
tener testa quell’uomo, nemmeno si era mai azzardata a
disobbedirgli, ma doveva fare qualcosa. Doveva ristabilire le cose per
come le aveva sempre conosciute.
«Lo sa b-benissimo, invece. P-parlo… parlo di quella
puttana che vien su dal giardino! Come le viene in testa di portarla in
casa?»
Jarvis trasecolò e persino Francesca, rintanata ad origliare
dietro la porta accostata, rimase a bocca aperta. La sua amica non
aveva mai usato un linguaggio simile. Tranne che per l’Archimaga: di lei aveva detto peste e corna.
«Quella, qui dentro, non ci deve stare» soggiunse.
«Come osa rivolgersi a me con questo tono?»
Luisa deglutì a forza.
«E… e a lei? Cosa viene in mente di far entrare quella
là in casa nostra? Siamo gente per bene, noi!»
protestò debolmente, la voce che si assottigliava in un fragile
filo.
Aveva ancora davanti agli occhi quanto visto notti addietro. Jarvis,
nel salone nord, nella bassa luce di alcune candele. Quella scostumata
che entrava, lasciandosi cadere di dosso gli inutili stracci con cui
fingeva di coprirsi. Parlavano a bassa voce, l’uomo sembrava
volerla allontanare, ma se la ritrovava intorno, che fluttuava
mostrandogli il suo corpo nelle maniere più indecenti. Ed ecco
che lo vedeva spogliarsi, stendersi sul divano con indosso solo la
casacca del pigiama e la prostituta cavalcioni su di lui, a gemere come
la schifosa che era. Peggio ancora erano state le reazioni di Jarvis:
prima d’abbandono al deliquio dei sensi, poi la partecipazione
rabbiosa all’atto. Non li aveva visti baciarsi, ma quanto avevano
fatto era sufficiente. E così era stato notte dopo notte,
orgasmo dopo orgasmo, con Luisa disgustata e morbosamente attratta
dalla situazione, che sperava di volgere a suo favore. L’avrebbe
ricattato, avrebbe minacciato di dire tutto al padrone, se non avesse
allontanato alla svelta l’Archimaga.
Lentamente, il maggiordomo chiuse il giornale e fece il giro attorno
alla scrivania. Le dita della mano sinistra si muovevano
nell’aria. Aggiustò il guanto, forzando la mano nel
tessuto, quasi meditasse di tessere chissà quale orribile
incantesimo.
«Cosa sta insinuando? Che io non lo sia?» domandò, le labbra curvate in una piega cattiva.
La superava con tutta la testa, minaccioso.
«N-no, non intendevo…» disse tentando di
allontanarsi, ma lui la seguì passo passo fin contro il muro,
avvolgendola in un’ombra densa e pesante.
«E allora? Di cosa mi sta accusando?» la incalzò.
«Lei… lei si porta quella in casa… è una poco di buono!» piagnucolò, rannicchiandosi.
«Invece, lei che s’intromette nelle mie faccende personali,
spiando da dietro le porte come un cane pauroso per poi venire a
ricattarmi, lei è una rispettabile cittadina»
ringhiò.
Luisa sbarrò gli occhi atterrita. Dunque l’aveva vista?
L’aveva scoperta prima ancora che potesse mettere in atto il suo
piano? Un istante più tardi si sentì sollevare da terra,
presa per il collo. Cercò d’afferrare il cappio invisibile
che la soffocava, mandando ansiti strozzati. Scalciava, in cerca di un
appoggio per riprendere fiato. Il maggiordomo era immobile, la mano
appena distesa e un’espressione di vago fastidio. In
realtà, dentro gioiva. La sua forza, il suo potere, a differenza
di quel corpo, erano illesi. Come il piacere di sentire una vita nelle
proprie mani, in balia del suo capriccio, della vendetta. Non era a
quella miserabile che doveva render conto dei suoi peccati. Le mancanze
verso la propria dignità erano unicamente affar suo.
Un tremito lo percorse, distraendolo. Per la prima volta dopo molto
tempo, i muri della villa erano tornati a parlargli. Stava arrivando
qualcuno.
Lasciò andare la sguattera, che piombò a terra in un ammasso di strofinacci e divisa.
«Si ricordi che è una semplice dipendente. Posso trovarne
altre per sostituirla, più solerti e meno impiccione. Non mi
serve prepararle la lettera di licenziamento, ho altri modi per
allontanarla dal nostro servizio. Modi che non prevedono alcun futuro
per lei, né qui né altrove. Sono stato abbastanza
chiaro?»
Luisa non aveva il coraggio di guardarlo. Lacrime di spavento e
frustrazione le annebbiavano la vista. Era sola a combattere la sua
guerra, ed ora aveva perduto l’unico alleato che avrebbe potuto
realizzare i suoi desideri. Aveva un altro nemico. Non poteva
più sbagliare nulla, o la pena sarebbe stata la peggiore
possibile.
Bussarono.
«Jarvis?» chiamarono, mentre la porta si dischiudeva un poco.
Era l’Archimaga, che allungava cautamente il capo oltre l’entrata dello studiolo.
«Signorina Veneziani» scandì, ricomponendo l’immagine dell’indolente servitore.
Nascondere la soddisfazione che provava era difficile. Erano lontani i
tempi in cui aveva potuto disporre a proprio piacimento delle vite
altrui.
«Disturbo?» domandò, notando Luisa accasciata a terra.
«Come sempre»
«Andiamo, non esageri» sorrise entrando. «Ho qui la
lista a cui accennavo ieri sera. Riuscirebbe a farmi avere tutto entro
domani?»
Con una smorfia annoiata, l’uomo lesse i materiali e
l’ennesimo elenco di libri da farle recapitare. Possibile che
quella donna avesse sempre bisogno di leggere qualcosa che non si
trovava sulle scansie delle due biblioteche della villa?
«Vedrò» esalò, quasi gli costasse uno sforzo immenso.
«Bene. Oggi preparerò l’impasto per sistemare i
pavimenti delle cantine. Sarebbe bene che si tenesse lontano dalla
rimessa, devo usare l’ematite e la Monolitaria Gialla. Non vorrei si sentisse male un’altra volta» avvisò.
«Lo terrò a mente» rispose storcendo il naso. «Le occorre altro?»
La domanda era sarcastica e puramente retorica.
«Ha tempo per darmi altre dritte di Demonologia? Avrei un paio di domande riguardo…»
«Le ho detto di dimenticarsi di quella materia. Non fa per lei» tagliò corto.
Amelia sorrise di nuovo, avvicinandosi alla serva ed aiutandola ad alzarsi.
«Okay, allora le porto via Luisa. Stamattina mi sono accorta di
avere una macchia sui pantaloni e non so come toglierla. Magari ci
riesce lei»
Quando furono in corridoio, Luisa si liberò della stretta. Fece
orecchie da mercante agli sproloqui sollevati di Francesca che,
spaventata dalle parole del maestro di corte, era filata a cercare
qualcuno che intervenisse. Poco importava che la prima persona
capitatale a tiro fosse proprio Amelia: un aiuto era un aiuto e lei
aveva troppa paura per fare qualcosa. L’idea che avesse scampata
quell’orribile situazione grazie all’Archimaga peggiorò ulteriormente il malumore di Luisa. Le rivolse un ghigno astioso e si allontanò con le spalle curve.
«Lei voleva dire grazie» bisbigliò Francesca,
ammiccando in maniera goffa, «però è una gran
vergognosa. Mica è capace di dirlo a parole, sai? Fa sempre
finta di niente»
«Non importa» disse Amelia, consapevole di esserle
tutt’altro che simpatica. «Credi che riusciremo mai ad
andare d’accordo?»
Francesca ci pensò su.
«No»
«Almeno a fare in modo che la smetta con i dispetti?»
«Manco quello» replicò scuotendo il capo con forza.
«Pazienza» sospirò, scrollando le spalle.
«Te sei troppo buona. Ti faranno santa» la prese in giro la
donna, raccogliendo il cestino con i prodotti per pulire i vetri.
«Sì, Sant’Amelia Veneziani, protettrice degli Archimaghi!» rise Amelia, amareggiata.
Sapeva perfettamente che farsi voler bene da tutti era un’impresa
impossibile e che doveva accettare quel che la vita le dava giorno dopo
giorno, ma la speranza di poter dire prima o poi di avere
un’amica in più continuava a perseguitarla.
«Bello!» esclamò Francesca, dandole una vigorosa
pacca sulla schiena. «Però prima devi trovare gli Archicosi-lì, sennò non puoi fare la loro santa»
***
La cena era stata servita da un pezzo, quando Jarvis piombò come
una furia in cucina. Voltò il capo da un angolo all’altro,
frugando nelle ombre che le basse luci facevano addensare dietro ai
mobili. Ansimava, i capelli ricadevano scomposti sul volto. Un bottone
del polsino era slacciato e lasciava intravedere la pelle.
«Da quando fai anche le entrate ad effetto?» ridacchiò Ang, svuotando un panino della mollica.
«Dov’è il Duca?»
Francesca e Luisa, dopo un rapido sguardo fecero cenno di non aver
risposte per lui. Romilda allargò le braccia, a mostrargli la
cucina. Amelia scosse il capo.
«Sarà dove te lo sei dimenticato: in sala da pranzo»
lo punzecchiò lo stalliere, notando solo allora lo strano
colorito sul volto del maggiordomo.
Per quanto potesse sembrare ridicolo da dire, era roseo. Sano. Da
persona normale. Era buffo pensare che per farlo sembrare un essere
umano qualunque servisse tanta agitazione. Agitazione inspiegabile,
dato che il padrone spesso e volentieri si eclissava chissà dove
senza dar notizia a nessuno. Lo faceva da una vita, perché
Jarvis cominciava ad impensierirsi proprio ora?
«Milord è sempre in anticipo sull’orario in cui
viene servito il pasto, ma non si è presentato questa sera»
«Come?» fecero diverse voci in coro.
«Andiamo figliolo, vedrai che si è solo appisolato nello
studiolo» lo confortò la cuoca, agitando nell’aria
un cucchiaio di legno impiastricciato di risotto.
«No, non c’è. Ho già controllato. Anche nella sua stanza e nelle biblioteche»
Questa notizia era la spia di un timore fondato ed allarmante.
«Trovalo» sbottò di nuovo il garzone. «Lo sai fare, no?»
«Ang, smettila. Potrebbe essere caduto ed essersi fatto
male» lo zittì Amelia alzandosi. «Mi ha detto che in
queste ultime settimane la gamba gli dà parecchi problemi»
Porse il piatto ancora pieno alla cuoca.
«Nonna, per favore, me lo tieni in caldo? Vedrai che è questione di pochi minuti»
«Certo, tesoro. Fateci sapere dove si era cacciato. È diventato un po’ svagato»
Amelia trovò che il termine “svagato” non fosse
assolutamente adatto. Da un po’ di tempo a quella parte aveva
notato che Corrado si rinchiudeva spesso nel suo studio o passeggiava
per la villa nel cuore della notte, parlottando tra sé. Le era
capitato di svegliarsi di soprassalto, sentendolo battere colpetti
sulle pareti col bastone da passeggio. A volte restava immobile accanto
sulle scale o alle finestre, leggendo con le dita da un libricino dalla
copertina rovinata. L’aveva persino udito imprecare stizzito,
all’indirizzo di chissà chi. In altri momenti sembrava
molto abbattuto, triste.
Scesero dalla botola nella rimessa, diretti alle cantine che da qualche
tempo sembravano essere esercitare una potente attrattiva
sull’anziano mago.
«Io prendo di qui, forse è andato alla ghiacciaia»
disse Ang indicando il passaggio secondario che scendeva nel locale
delle conserve.
Non avrebbe mai lasciato sola Amelia con Jarvis là sotto.
Chissà quali atroci scherzi poteva combinarle quel damerino
impomatato. Meglio essere nelle vicinanze.
«Fai attenzione, non ho ancora richiuso il buco che ha lasciato
Orlando l’anno scorso ed è un po’ che non lo
controllo, potrebbe essersi allargato»
«Credi possa crollarmi in testa tutto quanto?» fece lui,
scrutando con un velo d’apprensione il corridoio stretto e buio
che andava ad intercettare la scalinata esterna.
«Il Duca mi aveva assicurato che gli incantesimi di conservazione
avrebbero retto, ma non saprei dire se valga per quelli murari. La
volta dovrebbe reggere, dopo tutto è una struttura autoportante,
era ancora in ottime condizioni il mese scorso. Sempre che il nostro
minatore sardo non sia andato ancora a metterci il becco»
Amelia non aveva ancora finito di parlare che un muggito rimbombò sulle pareti. Il Beccodiferro
emerse dall’oscurità delle cantine, quasi avesse risposto
al richiamo del suo nome. Il drago avanzò, dondolandosi
leggermente al ritmo dei pochi anelli della catena che ancora gli
penzolavano dal collo. Se fermò accanto ai tre, sbuffando
e protendendo il muso corazzato in cerca di una mano che lo liberasse
da un fastidioso grumo di fango che non riusciva a levare dal rostro.
Mano che l’elfo non negò.
«Perché dovrebbe essere andato là?» sibilò Jarvis, indispettito.
«Forse perché ti ostini a tenerci rinchiuse tutte le
prelibatezze che ha fatto arrivare in questi mesi e che se ne stanno
là a congelare!» l’accusò, minacciando di
tirargli contro la melma.
«Quanto è stato deposto nella ghiacciaia…»
«Litigare non servirà a trovare il Duca, devo anche
dirvelo?» li riprese Amelia. «Avanti, smettetela di tenervi
il muso, basta quello di Orlando per tutti e due! Siete adulti e
vaccinati, sarebbe il caso di mostrare un po’ di buon senso e
passare sopra le vostre divergenze. Almeno ora»
«Io non l’ho perdonato e non voglio farlo ora» soffiò Ang.
«Non che la cosa m’interessi» rispose l’altro.
«Finitela!» strillò spazientita mettendosi in mezzo
per tenerli a debita distanza. «Perché mi fate fare la
parte della maestra cattiva? Sapete che non mi piace. Siamo qui per
cercare Corrado e lo faremo senza insultarci ogni tre secondi, va bene?
Potete riuscirci?»
Gli occhi neri di Ang indugiarono un istante sul suo viso, prima di
piantarsi battaglieri su quello del maggiordomo. Amelia non poteva
vederlo, ma immaginava stesse replicando all’identica maniera.
«Per favore, comportatevi da persone civili»
Rabbonito dalla richiesta, lo stalliere le sorrise.
«Per te, sì. Per lui, no»
«Sta bene» ringhiò il maggiordomo.
«Okay. Allora, Ang alla ghiacciaia. Jarvis?»
L’uomo indicò la cantina dei vini che si estendeva parallela al braccio est della villa.
«Bene, io di là» disse l’Archimaga, accennando all’andito che immetteva nelle cantine.
Il drago rimase alla biforcazione, seguendo con ciascun paio
d’occhi le figure che si allontanavano in direzioni diverse.
Ruminava un grosso ciottolo che aveva scovato quella mattina. Era raro
che ci fossero tante persone nel suo territorio, e così
frettolose per giunta.
L’odore pungente di polvere e pietra rossa col fuoco dentro che
andava alla porta chiusa che sapeva di legno macerato, quello di grassi
ciottoli e vento che andava in quel buco troppo stretto per lui, e
l’aroma di gesso fresco e quarzo che puntava alla sua tana. Tutti
e tre possedevano una strana nota di fondo, asprigna, che nulla
toglieva alle succulente promesse che sembravano fargli. Quale seguire?
Orlando decise che l’ultimo profumo era il più invitante.
Partì al piccolo trotto, facendo tremare il pavimento ogni volta
che una delle sue zampe vi poggiava. Era un nuovo gioco, inseguire gli
umani. Divertente.
Amelia aveva un discreto vantaggio sul drago, quando si rese conto
d’essere diventata parte del suo passatempo. Per deformazione
professionale, cercò a terra eventuali crepe. Aveva sistemato
quei pavimenti una settimana prima, era terrorizzata all’idea che
si fessurassero o, peggio, che cedessero sotto il peso del Beccodiferro.
Invece sembravano tenere. L’impasto a base di quarzo ed ematite
era venuto meglio del previsto, non era stato neppure tanto difficile
stenderlo, perché era risultato della consistenza di una glassa.
Assorta nelle sue considerazioni, si trovò di fronte al muro ovest, che chiudeva il braccio settentrionale delle cantine.
Del Duca nessuna traccia. Possibile che le fosse sfuggita la sua
presenza per il troppo pensare? Rovistò sotto le volte con la
pila, ma vide solo vecchi mobili, ragnatele e il muso blindato di
Orlando che respirava affannosamente dietro di lei.
«Dimmi che tu l’hai visto»
Al silenzio dell’animale, si rassegnò a percorrere a ritroso la strada appena fatta.
«Vieni, trivella. Qui non c’è nessuno»
Camminò lentamente, puntando la luce ovunque ricordasse
nascondigli e rientranze. Di tanto in tanto Orlando la sopravanzava e
finiva con tutti e tre gli occhi destri nel fascio luminoso. Le pupille
si stringevano rapide in fili neri. Tonfi pesanti riecheggiavano sui
mattoni da trattare contro le infiorescenze saline.
L’inventario dei trattamenti di ristrutturazione era ancora ben
lontano dall’essere a metà. Sconfortante, ma allo stesso
tempo piacevole. In quel modo, Amelia sentiva di far parte di qualcosa
che somigliava per certi versi ad una famiglia.
Arrivò nel punto dove si erano separati, quando Ang sbucò
dalla ghiacciaia. Corrado non era nemmeno là.
S’interrogarono sul dove potesse essere, se nel sottotetto, sulla
colombaia o magari alle scuderie. Nessuna ipotesi sembrava plausibile.
Entrarono nel locale sotto la lavanderia e nella semioscurità
riconobbero una figura.
«Corrado?»
Il Duca si volse, affatto sorpreso dell’essere in compagnia. Fece loro un segno di saluto, cordiale come sempre.
«Jarv, vieni, il padrone è qui» chiamò l’elfo, affacciandosi all’altra porta.
«Corrado, ci ha fatti spaventare! Jarvis non riusciva a trovarla»
L’Archimaga scoprì che una densa amarezza curvava le labbra sottili dell’uomo.
«E non ti è parso strano?»
Lei sbatté le palpebre, sorpresa dalla domanda.
«Cosa? Che non riuscissimo a trovarla? La villa è enorme, poteva essere ovunque» osservò.
«Jarvis»
«Jarvis?»
«Non ti è parso strano che non potesse scoprire dove mi
trovavo, lui che conosce fin nel profondo ogni mia mossa?»
domandò.
Non ci aveva pensato. Aveva dato per scontato che il servitore fosse
preso da altre faccende, al punto da dimenticare eventuali disposizioni
del padrone. Senza contare che la sua insonnia pareva essere
peggiorata, tanto che spesso si rinchiudeva in camera durante il
pomeriggio, per tentare di recuperare il sonno perduto.
«È in un brutto periodo» lo giustificò la donna.
«Purtroppo sì. E tu sei troppo buona con lui»
Avrebbe voluto chiedergli il perché di quell’ultima
affermazione. Era vero, trattava il servitore con gentilezza e
rispetto, come sempre. Tuttavia nel tono del nobile c’era
qualcosa di sott’inteso, di non detto. Qualcosa di allarmante
quanto la sua improvvisa sparizione e ricomparsa.
«Milord» esclamò Jarvis.
Camminava impettito e ordinato, dimentico dell’agitazione di poco prima.
«Eccomi, figliolo. Perdona il trambusto. Quando si cena?»
«Non appena lo desiderate, milord» rispose, porgendogli il braccio.
I due si allontanarono, senza più rivolgersi la parola.
***
Quella mattina, Amelia aveva deciso di dare una mano a preparare una
torta per il pranzo, ma gli eventi del giorno prima continuavano a
frullarle nella mente.
«Che voleva dire, secondo te?» domandò mentre
premeva i rebbi della forchetta lungo il bordo di pastafrolla del dolce.
«Non lo so, tesoro. Certe volte noi vecchi diciamo cose che neppure noi capiamo fino in fondo»
«Non dire così, nonna»
Romilda sorrise con dolcezza, mescolando la ricotta e lo zucchero con
un vigore inimmaginabile per quelle braccia esili. La giovane Archimaga
era ormai in cima alla lista dei suoi affetti, superata solo dalla
buon’anima del defunto marito e dai figli, che vivevano e
lavoravano nei possedimenti in Sudamerica dei Frasca e di cui aveva
rare notizie. Apprezzava la sua preoccupazione per il Duca e le sue
ciance bislacche, proprio come una nipotina premurosa.
«Taglia un po’ di strisce di pasta, tesoro. Per le
decorazioni» le disse, indicando la massa avanzata e ben
appallottolata accanto alla teglia. «Voglio fare dei fiocchetti
tutt’intorno. E lascia che il padrone dica quello che gli pare,
non dargli troppo peso. È un mago e i maghi dicono montagne di
sciocchezze che non possiamo capire. Figurati un vecchio mago! Quando
si tratterà di cose importanti, lo saprai da te. Sei abbastanza
intelligente per capirlo»
Amelia le si avvicinò.
«Nonna?» chiamò sottovoce.
«Sì, cara?»
«Ti voglio bene» disse abbracciandola.
Spero perdonerete l'anticipo di questo capitolo. Come sempre la causa è una probabile settimana da inferno in ufficio...
Dò il benvenuto a just my immagination, di cui attendo commenti!
Per Gaea: ahahahaha! Jarvis con
una data di scadenza! Fantastico! O forse no? Mah! Non te lo dico.
Luisa come vedi è un osso duro, non ha proprio intenzione di
cambiare idea su Amelia.
Per Alicia84: lasciami indovinare... confusa anche questa volta?
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Capitolo 25 *** Tavola XXIV - Corridoi ***
Tavola XXIV - Corridoi e vani accessori
In tanti anni, mai
come in quel momento, le mura del palazzo gli erano parse cariche di
muti segreti. Ogni angolo era diventato estraneo, colmo di
interrogativi irrisolti.
Camminava da ore, forse giorni. Non aveva più una percezione
chiara dello scorrere del tempo. A volte riconosceva il calore del sole
su una guancia, l’umidità della notte in uno spiffero, il
parlottare sottovoce delle cameriere indaffarate, ma erano eventi rari.
La sua mente era rapita altrove. Pensava. Pensava a quel che conosceva,
alla mole smisurata del sapere acquisito nei decenni, a prezzo di
sacrifici e vani tentativi, di ore di studio e viaggi sfiancanti. Ma
ancor più, pensava a ciò che non sapeva. Ed era
un’ignoranza dolorosa. Una deplorevole, turpe mancanza.
«Devo fare qualcosa» ripeteva di tanto in tanto, quando le meningi chiedevano tregua dall’incessante lavorio.
La mano scendeva nella tasca della giacca, in cerca degli appunti di
suo padre. Accarezzava le pagine, ripercorreva i margini sgranati dal
tempo e dall’uso, respirava la polvere nascosta nella rilegatura.
Quante cose non dette, quante cancellate, quante solo accennate. Quante
volutamente sbagliate, alla maniera di Leonardo da Vinci, per depistare
chi avesse letto.
Abbozzò un sorriso. Jarvis nutriva una sincera ammirazione per
quell’uomo ed i suoi inganni. Nella sua stanza, inaccessibili,
c’erano decine di volumi sul grande artista, incluse le copie dei
Codici. Ogni sillaba scritta su genio toscano era impressa
indelebilmente nella mente del servitore. Quante volte l’aveva
sentito lodare le sue farraginose teorie del volo con ruvida alterigia,
lui, che del volo conosceva anche il più insignificante
dettaglio? Lui, che non avrebbe mai ammesso l’immensità
del suo struggersi mentre i paesaggi sfilavano via a folle
velocità oltre i vetri dell’auto?
«Dev’esserci un modo. C’è sempre»
insisteva, infilando il quaderno nella giacca e riprendendo a camminare.
Il bastone ticchettava leggero sui pavimenti, spandendo echi circolari
nell’aria. Suoni vuoti, privi del guizzo vitale capace di
suscitare le risposte che tentava di scovare da tempo. Era consapevole
che la soluzione al dilemma che l’assillava avrebbe avuto una
genesi tormentata e complessa, soprattutto non potendo rendere Jarvis
partecipe della cosa. Non spettava a lui il compito di risolvere
l’enigma. Il solo provarci l’avrebbe gettato nel baratro
della pazzia e non poteva permettere che accadesse. Non in quel
momento, col fisico che non gli obbediva. Jarvis aveva sopportato fin
troppo, non poteva chiedergli anche di sacrificare quel poco di
lucidità che gli restava per farsi del male.
Lungo il fianco sbatacchiavano gli spigoli del libretto, rammentandogli
il vicolo cieco in cui si trovava. Cieco come i suoi occhi. Cosa non
riusciva a vedere? Cosa seguitava a sfuggire alle sue domande?
Udì delle voci in lontananza. Voci di donne. Le seguì,
arrivando in prossimità di una porta socchiusa. Percepiva la
fragranza del sapone di Marsiglia pizzicare il naso ed il fruscio di un
sacchetto di sabbia che veniva manipolato con nervosismo. Erano Luisa
ed Amelia nella camera della seconda.
«Luisa, per favore. Perché ogni volta dobbiamo discutere di queste sue… trovate?»
«Non capisco di cosa stia parlando».
«Lo sa benissimo» e Corrado sentì distintamente un
braccio fendere l’aria, indicando qualcosa. «Come faccio a
disegnare un reticolo energetico, se ha riempito la scrivania con tutto
quello che ha trovato in giro? Non ho più spazio e Jarvis mi ha
proibito di “insozzare i nobili arredi di questa
magione”» citò affranta, strizzando il sacchetto.
«Sto facendo le pulizie» sbottò secca l’altra donna.
«A quest’ora!?»
Il Duca non aveva orologi con sé, ma dal tono dell’Archimaga poté intuire che il tempo per quel genere di faccende fosse passata da un pezzo.
«Le faccio quando è il momento» rispose piccata.
«Ma devo caricare il portatile! Devo fare delle ricerche».
«Beh, lo faccia sul muro quel disegno, se le serve proprio così tanto»
«In verticale? Ma lei ha idea di come funzioni un reticolo
energetico? Per essere efficace deve essere tracciato su un piano
orizzontale, così da captare al meglio i riverberi…»
«Quanti problemi» sbuffò sdegnosa.
«Perché secondo lei orizzontale o verticale è la
stessa cosa? E poi, anche se volessi, come lo attacco il computer alla
parete?» chiese spazientita.
«Io che ne so? La cosa-maga è lei. Saprà bene come fare» sghignazzò perfida la cameriera.
La ritirata di Corrado avrebbe potuto passare per un gesto poco galante
nei confronti di Amelia, tuttavia, qualcosa l’aveva spinto a
tornare sui propri passi, dirigendosi con rinnovata speranza allo
studio.
«Orizzontale o verticale?» si chiese, accarezzando il taccuino nella tasca.
Geometria. Questione di assi cartesiani. Posizioni da trovare non su un
foglio, bensì nello spazio tridimensionale. Esattamente come gli
echi del bastone, quando si erano allargati in tutte le direzioni.
«Orizzontale o verticale?» ripeté, mentre un sorriso
si allargava sul volto rugoso. «Mia cara, sei più geniale
di quanto tu creda»
***
La mola girava rapida, sbandando appena sull’asse. Il pezzo di
metallo sfregava vibrando sulla superficie bagnata d’acqua,
cantando stridulo. Ad un certo numero di giri della pietra
corrispondeva un cambio di nota, impercettibile a chi non fosse stato
istruito a percepirlo. Meno scabrosa era la superficie, più alta
era la nota.
Una voce ruppe il silenzio.
«Ehi, qui manca un pezzo di scala!»
«Non scendi» rispose Gromi senza voltarsi.
«Andiamo, nano! Dammi qualcosa per venir giù».
Tutt’altro che infastidito dall’insistenza, prese il tempo
necessario per studiare la smerigliatura appena eseguita, saggiando il
risultato col pollice in cerca di ulteriori imperfezioni. La superficie
presentava solo qualche lieve scalfittura, del tipo e quantità
che doveva possedere in quella fase della lavorazione.
Raccolse le lunghe tenaglie che stavano a mollo nel bagno di raffreddamento e se le buttò sulla spalla.
«Accidenti» esclamò vedendolo comparire oltre
l’apertura sotto di lui. «Guarda, ho cambiato idea, resto
qui».
Era molto più sudicio del solito, non c’era un solo punto
della sua pellaccia che non fosse coperto di sudore e sporcizia. Lo
stesso valeva per la barba, appiccicata in grosse ciocche ruvide.
«Ma che… ti sei messo a giocare con Orlando per caso? Pensavo che tra voi e i draghi di cava non corresse buon sangue» disse, cercando un punto comodo per sedersi sull’ultimo gradino scavato nella terra.
«Fatti gli affari tuoi, impiccione d’un Mezz’Elfo» borbottò.
Non era andato molto lontano dalla verità. Quella notte Gromi
era uscito per deviare l’acqua dalle condotte sotto la fontana ed
al suo ritorno aveva incontrato Orlando con il muso infilato nel
cunicolo che portava alla fucina. Lo scavabuchi
se ne stava là, sventolandogli la coda in faccia mentre si
grattava sullo spigolo delle due gallerie. Nella bassa luce della
lampada aveva scorto delle scaglie sollevate lungo il fianco.
Perché perdere l’occasione? Aveva affrontato il drago
brandendo la chiave serratubi come fosse il martello del Re dei Nani.
L’esito della colluttazione era andato a suo favore: cinque belle
squame oblunghe e coriacee. Per quel che riguardava Orlando, Gromi
aveva notato con sorpresa che l’asportazione delle lamine aveva
pacificato il bestione. A quanto pareva, il brutto vizio che aveva di
grattarsi ovunque serviva a liberarlo degli elementi
“morti” della corazza. Con un certo piacere, si era reso
conto che forse poteva sopportare quella vicinanza forzata.
«Se sono venuto qui è perché sto facendo gli affari
miei. E quelli del padrone» sottolineò, sventolando un
biglietto.
«Non prendo ordinazioni» ribatté, tornando al banco da lavoro.
Stupito, Ang si accucciò sugli ultimi gradini per sporgere la
testa al di là dell’apertura. Era strano vedere
l’antro capovolto, con le catene ritte come i peli sulla schiena
di un gatto arrabbiato. Aveva la sensazione che tutto fosse lì
lì per piombargli addosso.
«Questa è nuova. Da quando?»
Gromi aveva raggiunto il mantice ed aveva preso ad azionarlo con
movimenti energici e regolari. L’attrezzo mandava grassi ansiti
che ravvivavano i tizzoni.
«Da oggi. Ho dei tempi da rispettare, delle procedure, delle
leggi. Ma sono cose che tu non capisci» rispose, gettando il
blocco di metallo tra le braci e sistemandolo con le pinze. Il contatto
tra il ferro umido e le vampe sollevò sbuffi di
vapore.
«Cosa vorresti dire, sottospecie di talpa pelosa?»
«Non hai disciplina, malerba!»
«E da quando ti metti a fare l’esperto di disciplina, ciucciaruggine?»
«Bada a quel che dici, testa di fieno».
«A chi, avanzo di morchia?»
«Inutile lingua lunga» borbottò tornando indietro.
«Inutile gamba corta» replicò sghignazzando, sporgendo le lunghe leve col rischio di precipitare di sotto.
«Ma guardati, sei ridicolo!»
«Neppure tu sei mai stato una bellezza» disse, additandosi
la faccia impiastricciata di terra. «Era un po’ che non ci
insultavamo. Troppa disciplina»
«La disciplina è fondamentale in ciò che si fa.
Dovresti impararlo, così ti levi quegli stupidi fiorellini dalla
testa per metterci qualcosa di serio. Non solo il buco dell’Archimaga» gli rinfacciò. «Avanti, che vuole il mago?»
Il Mezz’Elfo
lasciò cadere il biglietto su un mucchio di rottami, dove il
fabbro lo recuperò con le pinze. Lesse attentamente le poche
righe sul foglio annerito dalla fuliggine. I denti storti fecero
capolino tra le ciocche ispide e sporche.
«Roba facile?» chiese l’altro, allungando il collo oltre i gradini.
«Facile? Non esiste “roba facile” in metallurgia» disse, ripiegando la missiva. «Solo arte».
***
C’erano stanze a Villa dei Gelsi, che Isadora conosceva meglio di
altre. Stanze piene di oggetti divertenti, dove giocare, ridere,
nascondersi. Le conosceva sin da quando era nata. La Sala Grande, la
stanza della Danza nei campi, quella dei Fiori Bianchi, quella degli
Specchi, quella col pianoforte, quella buia e senza finestre, quella
sotto al tetto dove volavano le tortore. Poteva elencarle tutte. In una
era entrata poche volte da quando il palazzo era diventato la casa dei
Frasca. E quel mattino, Isadora decise fosse giunto il momento di
andare a vedere come fosse cambiata.
Trotterellò lungo il corridoio ovest e scivolò oltre la
quarta porta. Sorrise. Quella era la sala dove suo padre si riuniva con
i suoi uomini di fiducia e lei non aveva avuto il permesso metterci
piede finché non era diventata una fatina.
C’era solo un tavolo e qualche sedia, allora. Un paio di quadri
ed una armatura completavano l’arredo. Ora, anche se con le
finestre tirate, la trovava molto più interessante. Era un
ambiente malamente illuminato, con due porte sui lati e altissime
librerie stipate all’inverosimile. Non c’erano solo libri
sui ripiani. Schegge di cristalli, pezzi di ferro lucidi e contorti,
statuine, rotoli di pergamena macchiata dal tempo e ampolle dagli
strani contenuti facevano bella mostra di sé ovunque girasse lo
sguardo. Somigliava un po’ allo studio di Corrado, ma, per quanto
piccola, Isadora sapeva riconoscere un certo ordine nelle cose. E
quello non era tipico del Duca. Era di Jarvis. Quella era
l’anticamera della sua stanza da letto, che usava come studio
privato.
Isadora camminò, un passettino alla volta, osservando rapita
tutti quegli oggetti buffi e inquietanti. Era talmente entusiasta che
non sapeva decidere con quale cominciare a giocare. In fondo, se Jarvis
non la scopriva, non aveva di che preoccuparsi. E lui, in quel periodo,
era sempre fuori da quella stanza. Non ci restava quasi più. Si
addormentava dove capitava come Galileo, chiudeva gli occhi dieci
minuti e poi si alzava di pessimo umore per trovarsi un altro cantuccio
per fare la stessa cosa.
Sull’altra libreria c’erano parecchi animaletti. Per lo
più cavalli minuscoli, bardati di tutto punto, con le zampe
incollate a basi di marmo dove spiccavano i loro nomi. Zefiro, Ghibli,
Bora, Aliseo. Nomi di venti. Poi ce n’erano altri, con dei nomi
più strani che la fecero ridere. Ne prese uno e cominciò
a muoverlo come se galoppasse sul muro. Per farlo sembrare vero imitava
anche il suono degli zoccoli facendo schioccare la lingua.
«Lascialo».
Per poco il giocattolo non le sfuggì di mano per lo spavento.
Jarvis era sulla porta. Aveva la cravatta allentata, che penzolava
tutta storta fuori della giacca sbottonata. Le sembrò più
brutto del solito.
«Perché questo cavallino si chiama Enzo? Non è un
nome da cavallo!» domandò, allungandoglielo in bilico
sulle manine semitrasparenti.
Il pericoloso dondolio della riproduzione lo fece scattare in avanti per recuperarlo.
«Rimettilo a posto e vattene».
Isadora obbedì, ma ne prese un altro.
«Questo si chiama Nuvolino» lesse dal piedistallo.
«Nuvolari!» la corresse aspro.
«Nuvolino è più bello!» ridacchiò, facendolo volteggiare come una nube sopra la sua testa.
Furibondo, l’uomo pronunciò delle parole incomprensibili,
con una voce che non pareva sua. Con un guizzo della mano le
strappò via il nuovo balocco, riportandolo al posto che gli
spettava.
«Esci di qui e non rimetterci più piede» le ordinò.
«Mi hai fatto male!» piagnucolò tenendosi il polso.
«Finiscila. Non tu non provi dolore».
«Sì, invece! Mi hai fatto male, cattivo!» insisté.
«I morti non provano dolore».
All’udirlo, la bambina ebbe un sussulto. Conosceva quella parola,
l’aveva sentita tanto tempo prima, ma non ricordava cosa
significasse. Era una parola molto triste.
«Chi è morto?» chiese, inclinando la testa da un lato.
«Tu».
Perplessa, arricciò il naso e scosse il capo, negando.
«Io sono una fatina. Cos’è morto?»
«È quello che ti è successo. Non c’era
nessun’altra bambina qui. Solo tu. Sei caduta dalle scale mentre
giocavi, come sempre. L’unica cosa che sai fare. Giocare. Hai
battuto la testa sui gradini e non ti sei mossa più. Tu non vivi
in questo mondo, non esisti. Quello che sei è solo la parte di
te che non ha voluto staccarsi da questa dimora, piccola egoista».
Non c’era una sorella gemella. Lei non c’era. La voce di
sua madre che l’ammoniva dal non correre come una forsennata per
tutto il palazzo. I giochi. Le scale. Le scale che si contorcevano e la
inghiottivano.
«È una bugia! Se io non ci sono perché ho gli amici? Gli amici li hai quando ci sei!» protestò.
«Tu non hai amici» le rinfacciò serafico, allineando
le riproduzioni con uno sguardo. «Io non sono tuo amico, lo
stalliere non è tuo amico, le sguattere non sono tue amiche,
Romilda e il padrone ti sopportano perché sono troppo avanti con
l’età per scacciarti».
Isadora sbiadì per un istante, riprendendo consistenza subito dopo.
«Amelia è mia amica!» gridò pestando i piedi.
Il loro silenzio mentre si alternavano forsennati sui riquadri di marmo era penoso quanto la voce.
«Non è più tua amica. Non ha voluto morire per
stare con te» sibilò, godendo dell’amarezza profusa
in quelle sillabe. «Nessuno ti vuole avere vicino»
Gli occhi azzurri della piccola si strinsero in due fessure rabbiose.
Un freddo denso e appiccicoso calò nella stanza, coprendo ogni
cosa di un velo pallido.
«Smettila Isadora».
Gli rispose un strillo acuto ed una patina di ghiaccio incrostò
i vetri su cui batteva allegro il sole di fine maggio. Alcune ampolle
emisero flebili suoni di incrinature.
«Isadora!» tuonò.
La vide abbassare il viso ed il morso del freddo si allentò, riempiendo la mobilia di condensa.
«Bruttone. Amelia è la mia principessa-sorella e le
principesse-sorelle sono sempre amiche. Sempre» bisbigliò
tirando su col naso. «Tu non ce li hai gli amici. Sei sempre da
solo perché sei cattivo. Dici cose cattive. E sei brutto.
Rospaccio!»
Scomparve, lasciandosi dietro una chiazza gelata.
***
Cercò l’Archimaga per tutta il palazzo, decisa a farle
ammettere che fossero ancora amiche. Non voleva credere a Jarvis,
perché sapeva quanto era cattivo, ma aveva paura. Paura che
avesse detto qualcosa di vero.
La trovò nel locale sotto la rimessa, intenta a guardare il liquido che aveva fatto uscire dal fondo di una botte.
«Isadora!» esclamò, felice di rivederla dopo quasi due mesi.
Capì che qualcosa non andava: era rimasta immobile dov’era
apparsa, singhiozzando. Le labbra le tremavano tanto da non riuscire a
parlare. Amelia rimise il contenuto della fiala nella botte e le si
avvicinò, ripulendo le mani nel grembiule.
«Isa, che c’è? Perché piangi?» le chiese.
«Tu… tu sei la mia principessa-sorella, vero? Vero Amelia
che sei la mia principessa-sorella? Anche se io sono morta?»
pianse tirandole la maglietta.
Morta. Quella definizione scatenò un brivido d’orrore
nella donna. Chi poteva aver detto la verità a Isadora,
umiliandola e ferendola a quel modo? Le veniva in mente un solo nome.
Lo stesso che apparteneva alla persona con cui aveva tentato di
discutere educatamente quella mattina, riguardo al posizionamento della
botte di decantazione. Jarvis.
«Sei la mia principessa-sorella?» squittì disperata la bambina.
L’Archimaga la fissò a lungo. Ripensò al gioco che
aveva inventato Isadora. Nulla di che, per la verità. Fingevano
semplicemente di essere due aristocratiche sorelle mentre passeggiavano
per la villa, dove incontravano nobili immaginari, di cui commentavano
i vestiti ridicoli e le improbabili acconciature. Oppure prendevano il
the, servite da inesistenti maggiordomi e circondate da dame di
compagnia e gattini miagolanti. Avevano riso tanto, si erano divertite
a fare le smorfiose negli specchi. Era il gioco di una bambina. Una
bambina che non aveva altro appiglio se non un volo di fantasia, per
non precipitare nell’angoscia.
«Che domande. Ovvio che sono la tua principessa-sorella!»
sorrise, circondandola con le braccia. «Anche se siamo tanto
diverse. Te l’avevo promesso, ti ricordi? “Io sarò
sempre e per sempre la principessa-sorella della Duchessina Isadora
Clara Blanca Maria Visconti y Torres de Villa. É una promessa, e
le principesse-sorelle mantengono sempre le promesse!”»
Sgranò gli occhi, sentendo ripetere tutta la formula inventata al momento, completa persino del suo nome per esteso.
«Te lo sei ricordato tutto!»
«Certo. Altrimenti, che principessa-sorella sarei?»
Se la ritrovò fra le braccia, solida come fosse vera, che la
stringeva forte e piangeva di gioia. L’Archiamga faticò a
non unirsi a lei. Le diede un bacio sulla guancia fresca, ripensando a
quanto aveva sentito la mancanza della sua fatina e dei suoi dispetti.
Le era mancato tutto, persino il suo svegliarla nel cuore della notte a
suon di brividi gelati, con la pretesa che le raccontasse una favola.
Rimasero sedute su una cassa per un po’, dondolando i piedi nel vuoto.
«Amelia? Io sono morta davvero?»
Sperava dimenticasse la questione, ma prima o poi, qualcuno avrebbe
dovuto affrontarla. Era una disdetta fosse toccato a Carew. Lui ed il
suo tatto indiscusso.
«Sì, Isa. È successo tantissimi anni fa. Mi
dispiace tanto. Nessuno è stato capace di dirtelo perché
sei una bambina troppo speciale, per… vederti triste. Non
volevamo farti del male, ma non c’era modo di dirtelo senza farti
soffrire».
La vide annuire, pensierosa.
«La mia mamma e il mio papà, lo sanno che sono morta?»
Era penoso doverglielo dire.
«Sì, lo sanno»
Annuì di nuovo.
«Allora non sono in pensiero, giusto? Se sanno che sono morta,
basta. Non stanno alla finestra come faceva la mamma di Corrado quando
lui usciva con Jarvis e tornava tardissimo e non si sapeva dove si
cacciavano».
Quella domanda era talmente ingenua che Amelia s’interrogò
su quanto Isadora avesse realmente compreso della propria situazione.
Le fece una carezza, sistemando un ricciolo biondo.
«No, non credo stiano in pensiero. Secondo me, i tuoi genitori
sapevano che saresti diventata una fatina in gamba. E poi, ci sono qui
io, no? A tenerti compagnia e a salvarti da quel brutto
rospaccio» la rassicurò, usando le stesse parole con cui
aveva definito il maggiordomo poco prima.
Lei sorrise, annuendo con tanta forza da farsi finire i capelli sul faccino.
«Amelia?»
«Sì, Isa?»
«Romilda stava facendo una torta. Andiamo ad aiutarla?» chiese, appoggiandosi alla sua spalla.
L’altra rabbrividì, percependo nella proposta un qualcosa di non detto.
«Bricconcella! Tu vuoi giocare con la farina!» rise cercando di agguantarla.
La bimba saltò giù, facendosi inseguire per la stanza.
«No, con le ciliegie!»
Bene, eccomi qui. Vista la nuova funzione di EFP, ovviamente le
risposte alle vostre recensioni arriveranno fuori da queste pagine.
Grazie ancora ai lettori e a chi recensisce.
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Capitolo 26 *** Tavola XXV - Confronti ***
Tavola XXV - Facciate
Gli era accaduto
d’aprire gli occhi la mattina e sentirsi triste. Allo stesso modo
gli era capitato di svegliarsi euforico. Quella mattina però,
fra le braccia della sua Archimaga,
Angheledrior avvertiva una sensazione nuova agitarsi in lui. La sera
precedente, mentre giacevano abbracciati, sfiniti dall’Odimaé,
avevano affrontato un discorso. Avevano parlato della
possibilità di avere dei figli. Era logico che Amelia domandasse
dei frutti delle loro unioni: pareva che l’idea di mettere al
mondo un bebè l’animasse di sentimenti nuovi e
controversi, brillanti e sfuggenti come la rugiada ai primi raggi del
sole. Da un lato era il suo orologio biologico a parlare,
dall’altro quella scala di valori che, nonostante tutto,
imperversava nelle sue scelte.
All’inizio l’aveva presa in giro, perché parlare di
figli significava guardare in là nel futuro, cosa che aveva
giurato di non fare più. Dal canto suo, lei aveva risposto che
dovevano tenere in considerazione la possibilità di un
“incidente di percorso”. Amelia credeva troppo nel
sacramento del matrimonio per immaginare di avere un figlio al di fuori
di esso. Ripeterle che la sua condizione di ibrido poteva significare
con buona probabilità che fosse sterile, non la rassicurava.
Anzi, la feriva. In novant’anni aveva avuto altre storie, alcune
di lungo corso, nessuna coronata dalla nascita di un bambino. Nessuna
segnata dall’Odimaé.
A poco era valso paragonarsi ad un mulo, forte e ben dotato, ma
incapace di riprodursi. Lei aveva addotto vari motivi a supporto dei
suoi timori. Primo fra tutti la difficoltà congenita a procreare
dell’essere umano, che prevedeva un numero esorbitante di
rapporti per garantire una singola gravidanza; secondo, la
diversità fra le razze umana ed elfica, che poteva ritardare
ulteriormente il concepimento; terzo, l’assenza in passato
dell’Odimaé che, a quel punto, poteva essere fondamentale.
«Non sono pronta ad avere un figlio, ora,» si era
giustificata, «ma riflettici. Potrebbe essere come dico io e che
possa succedere…» aveva suggerito, con la voce che tremava
d’emozione e timore.
Non era riuscito a reagire. Gli occhi verdi che vedeva brillare,
trepidanti e spaventati, avevano fatto vacillare la sua convinzione.
Convinzione che credeva ben radicata nella mente.
«Preferirei anch’io godermi ancora per un po’ la
nostra intimità, ma se accadesse? Se restassi incinta?»
«E se avessi ragione io, Amelia? Se fossi sterile ed il problema non ci fosse?»
Non aveva risposto subito, dandogli il tempo di scrutarle l’aura. Un cielo di gennaio. Impaurita.
«Allora… non ci sarebbero problemi».
Aveva mentito, o forse era davvero convinta di ciò che aveva
detto, ma il suo cuore non riusciva ad accettare l’idea di non
poter vivere un giorno la maternità come ogni altra donna. Come
avrebbe meritato.
Socchiuse gli occhi su un paesaggio di dolci rotondità, separate
da una valle sottile ed invitante. Aveva dormito fra le sue braccia, il
capo sul suo petto. Inspirò profondamente, assaporando le note
dell’erba mescolarsi alla pelle tiepida di Amelia. Era un profumo
sottile, che avvolgeva il quieto battito sotto il suo orecchio.
Seguì con la punta del dito la curva di un seno, pensando al
potere racchiuso nel corpo femminile. Il dono prezioso di nutrire un
altro essere, di esserne la culla, di accoglierlo e confortarlo al
ritmo del respiro e del cuore. Guardò il volto tranquillo della
sua compagna. Avrebbero mai creato una famiglia? Lui non era
battezzato, nemmeno era credente. Però doveva ammettere che gli
sarebbe piaciuto restar sveglio la notte, contemplando il pancione
muoversi mentre lei dormiva. E a differenza degli umani, sarebbe stato
un piacere ben più lungo, perché la gravidanza elfica
durava circa undici mesi.
Le sfiorò il capezzolo con la lingua, sentendolo inturgidirsi.
Accostò le labbra e succhiò piano, finché un
brivido risvegliò la donna.
«Ang» sospirò.
Sollevò la testa, incontrando uno sguardo sognante.
«Mi stavi dando il buon giorno?» chiese ammiccando.
L’aveva svegliata altre volte con quelle velate richieste, specie
dopo una discussione. Un modo per appianare le divergenze
d’opinione e ritrovare il sorriso. E lei lo perdonava sempre, a
prescindere da quei maliziosi risvegli.
Le iridi nere scesero sulle mani che le incorniciavano il seno.
«Mie» disse. «Mie e solo mie. Non voglio dividerle
con nessun altro. Almeno per ora. Sono un cuscino troppo comodo per
cederle» aggiunse, affondandovi il viso.
Quando la sentì ridere, cominciò a deporvi piccoli baci,
risalendo verso il suo viso. Le chiuse le labbra con un bacio e le fece
segno d’aspettarlo. Camminò fra i cespugli e gli alberi
della stanza. Cercò tra le foglie e tornò indietro,
sedendole accanto. In mano teneva quattro bacche di corbezzolo, bagnate
nella rugiada di una betulla.
«Tieni» disse imboccandola. «Le donne elfiche le
mangiano per ridurre le possibilità di concepimento».
L’Archimaga smise di colpo di masticare, sgranando gli occhi. Ang guardò la luce dell’alba diffondersi rosata.
«È una bella mattina per amarsi senza pensieri, non credi?» domandò, pulendole le labbra con un dito.
Inghiottì senza masticare, mettendosi in ginocchio.
«Angheledrior…»
L’elfo allungò la mano, porgendole la seconda bacca.
«Sai che sono un testone quando mi ci metto. E so essere un
grandissimo egoista se voglio, specie se ci sei tu di mezzo».
«Io…»
«Zitta e mangia» fece, poggiandole sulle labbra un altro
frutto. «Insisto che ho la capacità di far figli come i
sassi, però voglio che tu ti senta più tranquilla quando
lo facciamo. Quando sentirai che è il momento giusto, che sei
pronta… che siamo pronti per provare a fare un figlio,
tenteremo. E spero d’essere smentito. Lo vorrei uno
scarabocchietto d’Archimago che ci fa impazzire. Ripeto, al momento giusto e se si potrà».
Amelia fermò la mano che cercava di spingerle in bocca l’ultimo frutto, finendo di masticare il precedente.
«Al momento giusto» singhiozzò commossa.
Inghiottì la polpa, pensando di non aver mai provato un tale struggimento come in quel momento.
«Ang, credi… che potremo avere un bambino? Un domani? Se… ci sposeremo?»
«Se lo credi tu, posso crederci anch’io. Alla faccia del
tuo non pensare al futuro, che farò finta di non aver mai
sentito» la stuzzicò.
Amelia accettò quelle parole e l’ultima bacca nonostante
sperasse in un’altra risposta, una che contemplasse un anello ed
un credo condiviso. L’abbracciò, lasciando che la
stringesse a sé. La fece sedere fra le gambe, che teneva
incrociate, in modo che potesse cingergli i fianchi con le sue. I baci
e le carezze furono lenti e teneri, privi dell’abituale
trasporto. Quando le dita dello stalliere scesero a prendersi cura di
quel nido palpitante, si sorprese della calorosa accoglienza che gli fu
riservata. Percepiva la sua confusione, il desiderio di
maternità che si mescolava alla paura, ai dubbi morali,
stordendola, così come percepiva il bisogno che aveva di
sentirsi una cosa sola con lui.
«Credo d’avere un rimedio elfico molto efficace contro la
tristezza» sorrise malizioso, facendole chiudere la mano attorno
all’erezione che le premeva sul ventre. «Ha solo bisogno di
un po’ di calore per fare effetto».
Ad Amelia sfuggì una risatina e sollevò i fianchi, facendo scorrere i loro corpi l’uno nell’altro.
***
Le labbra si mossero, mute. Avrebbe voluto fermare quella mano.
Cancellare le parole che gli rimbombavano dentro. Un grido folle e
cavernoso. Una supplica. All’epoca non sapeva, non capiva
ciò che stava accadendo e quasi gli sfuggiva ancora in quel
momento. Paura. La paura era stata l’unica cosa vera di quel
giorno che aveva relegato nelle pieghe dei ricordi. Densa e pesante sul
suo petto. Rammentò d’aver voltato il capo un istante
prima che l’incantesimo dispiegasse tutto il suo terrificante
potere. Era stato uno sbaglio. L’aveva visto, là, proprio
davanti a lui. Immobile. Riverso. Inerme. Esanime. Un urlo gli era
esploso in gola, nell’attimo esatto in cui il mondo aveva spento
le luci. Perché avesse urlato, non aveva importanza.
Cosa aveva fatto? Che razza d’abominio era stato perpetrato?
C’erano voluti anni per averne una vaga idea ed ora, tutte quelle
ricerche, si svelavano nell’amara certezza di poter servire a ben
poco.
Ad un tratto, pensieri e ricordi si confusero, dissolvendosi in una nebbia informe. Qualcuno lo scuoteva con insistenza.
«Padrone?»
Jarvis? No. L’avrebbe chiamato milord e non avrebbe mai cercato
di smuoverlo a quella maniera. Senza contare che quella era una voce di
donna.
«Padrone, cosa fa per terra?»
Era Francesca. Sospirò, stiracchiando la schiena indolenzita.
«Mi ero seduto per riposare un poco e devo essermi appisolato» si scusò, simulando uno sbadiglio.
Non era esatto. Assorto nelle abituali meditazioni, le ginocchia
avevano ceduto di colpo, indebolite dalle peregrinazioni, mandandolo
lungo sul pavimento. Si era trascinato al muro, nell’attesa che
il maggiordomo giungesse in suo soccorso, dopo il piacevole intermezzo
con la sua amica della fontana. Corrado sapeva di come Jarvis e Lojana
s’intrattenessero: Luisa ne aveva sparlato con sé stessa,
sfaccendando per la villa. Impossibile che qualche orecchio non finisse
col prestarle ascolto. E così, in attesa di un aiuto mai giunto,
aveva finito coll’addormentarsi, accoccolato nella nicchia.
Sentì le mani ruvide della donna accalappiarlo e tirarlo su di
peso. Era tozza e corpulenta, nessuna meraviglia che riuscisse
nell’impresa.
«Non state mica bene. Non avete una bella faccia» disse, rassettandogli i vestivi con sonore pacche.
«In effetti sono un po’ stanco e dormire qui non giova
affatto alle mie vecchie ossa» ammise, frugando nelle tasche,
controllando che gli effetti personali fossero al loro posto.
«Anche Jarvis».
L’avrebbe congedata, se non avesse fatto quell’accenno.
«Davvero, Francesca? Lo vedi stanco?» domandò, con tono da comare di paese.
Il carrellino per le pulizie cigolò sotto il peso della cameriera che vi frugava in cerca di chissà che.
«Uno che dorme mezzo allungato sul tavolo, con tutte le porte e
le finestre aperte per far corrente e il pavimento bagnato sotto i
piedi, bene non sta di sicuro» spiegò, cominciando a
ripulire la giacca del mago con vigorosi colpi di spazzola.
«Avrà avuto le scarpe, immagino» tossì,
cercando di difendersi dall’irruenza domestica che rischiava di
gettarlo nuovamente a terra.
Aveva quasi l’impressione che la polvere stesse uscendo non
solo dagli abiti, ma soprattutto dal suo scheletro sbatacchiato senza
ritegno.
«No. Era senza, ho visto bene. E senza giacca, anche.
Perché forse non sono tanto furba, padrone, però ci vedo
bene. E mi sa che qualche pezzo di fodera gli si è stracciato
via dalla giacca».
«Stracciato?» ansimò, ringraziando il cielo
d’essere sopravvissuto a quelle cortesi violenze. «Mia
cara, non è da Jarvis tanta trascuratezza. Sai quanto ci tiene a
presentarsi con gli abiti in perfetto ordine» osservò con
sussiego.
Quante volte l’aveva ascoltato rinfacciargli la scarsa attenzione
che mostrava nel vestirsi, specie quando era preso dalle ricerche, lui
che non indossava un abito se aveva una piega e non era fresco di
bucato? Integerrimo nella sua linea di condotta. E un po’
fissato. Il pensiero lo fece sorridere.
«Sì, è vero. É sempre tutto tirinato
elegante» ridacchiò Francesca, facendo una smorfia buffa
che il Duca non poté cogliere. «Però ho guardato
bene, padrone. Aveva la camicia tirata su e gli si vedeva la schiena, e
sopra c’era appiccicato qualcosa di nero. Mica poteva essere un
neo! Era grosso come un uovo, giuro!»
Una macchia nera. Delle dimensioni di un uovo. Sulla schiena.
L’insonnia che peggiorava di giorno in giorno. Il bisogno di
sfogare la propria sessualità. L’incapacità di
rintracciare la sua scia magica. Stava degenerando con rapidità
crescente. Non era un buon segno.
«Allora, prenderò provvedimenti» mormorò pensieroso, rigirando il bastone fra le dita.
«Non lo vorrà mica licenziare? No, perché non va
così male… cioè, il suo dovere lo fa. Quando
è sveglio» esclamò perplessa, pentendosi di quel
che aveva raccontato.
Temeva che il Duca potesse dire a Jarvis che l’idea di cacciarlo
era stata sua ed aveva paura della reazione. Luisa aveva tremato per
giorni dopo averlo affrontato e quella mattina, quando se l’era
trovato davanti all’improvviso, era sbiancata.
«Licenziare? Oh, no, non ci penso proprio» la
rassicurò, sforzandosi di dissimulare il proprio turbamento.
«Credo invece di dovergli dare il mio aiuto nel più breve
tempo possibile, così che possa ristabilirsi. Non vogliamo certo
che il nostro maestro di corte somigli ad uno strofinaccio per i vetri,
giusto?» e così dicendo agitò il pomello di
metallo, fingendo di pulire un’immaginaria finestra.
Francesca lo squadrò scettica, immaginando un Carew molliccio
passare sugli infissi che vedeva davanti. Aveva ragione il padrone, era
una cosa che era meglio non pensare neppure.
Corrado s’incamminò zoppicando, massaggiando una spalla
indolenzita. Ad ogni passo, posizionava nella mente un diverso tassello
del mosaico, valutando ogni possibile implicazione.
Era quasi giunto allo scalone, quando fu costretto a fermarsi nuovamente.
«Padrone?» chiamò ancora la donna, rimasta indietro.
«Sì? Che altro c’è?» rispose volgendosi appena.
Ora cominciava ad aver fretta, preferiva essere lasciato in pace. Doveva pensare.
«La luce giù in lavanderia, come si spegne?»
Il quesito sarebbe stato quantomeno bizzarro, se non avesse conosciuto la persona che lo poneva.
«Ruotando la ghiera della lampada» disse con semplicità.
«No, non quella. Quella lo so come si spegne. Dicevo l’altra, per terra».
Corrado s’irrigidì.
«Cosa sai di quella luce?»
«Che è per terra, sotto la panca, e si vede ogni tanto.
Non sempre, solo… ogni tanto. Quando gli và»
ripeté, sentendosi molto stupida per non saper spiegare al
padrone cosa intendesse.
Lui sorrise, artigliando il taccuino nella tasca senza che lei lo vedesse.
«Non devi preoccuparti, sparirà» la tranquillizzò.
***
«Perché mi ritrovo a dover discutere con lei ogni volta
che le salta in mente di… procedere nelle opere?»
«Perché Corrado ritiene che essendo stato presente sin
dall’inizio dei lavori, lei sia la persona più adatta a
visionarne l’andamento. Per quanto riguarda le discussioni, la
colpa è sua che deve sempre questionare su tutto. E non provi a
negare» alluse Amelia, sporgendosi dalla poltroncina per metter
mano alla teiera. «Per favore, Jarvis, la mia è una
richiesta ragionevole e motivata»
Jarvis sprofondò la faccia nelle mani guantate, sorprendendo col suo scoramento l’Archimaga che invece si aspettava la solita scenata.
«Su, la prego, non faccia così» disse, spingendogli
vicino l’infuso che respinse schifato. «Non cerco di
avvelenarla. È the bianco, la bevanda
dell’immortalità secondo un’antica tradizione
cinese».
Gli occhi scuri e segnati scrutarono con improvviso interesse il liquido ambrato.
Vederlo in quello stato le faceva venire in mente un rudere prossimo al
crollo. Gli zigomi sporgevano vistosamente sopra le guance scavate, i
capelli leggermente spettinati, le labbra smorte ed un graffio sporgeva
con violenza dal colletto immacolato. Lojana doveva essere stata
piuttosto focosa quella notte. Anche lei stava dando prova ad
Angheledrior di una passionalità non indifferente, ma
paragonarsi a quella svitata la faceva sentire a disagio.
«Non è vero» tossì Carew, dopo aver ingollato una sorsata con troppa foga.
«Cosa?»
«Che sto crollando come un rudere. Riesco ancora a sopportarla,
segno che sono in forze» sibilò, sorseggiando con
avidità.
Amelia deglutì a vuoto, arrossendo vistosamente. L’idea
che le avesse letto nel pensiero, venendo a conoscenza dei suoi
scampoli d’intimità con Ang, la riempì di vergogna.
Quelli non erano affari suoi!
«Scusi. Però deve ammettere di non avere una bella cera» sviò.
L’uomo non la degnò d’una risposta, continuando a bere, inebetito dal risvolto magico della bevanda.
«Allora?» insisté, alludendo alla sua richiesta.
«No».
Toccò ad Amelia coprirsi la faccia con le mani, esasperata dal
solito responso. Perché era tanto assurdo tenere l’auto
fuori della rimessa per un paio di giorni? Si trattava del tempo
necessario a ventilare le cantine dopo il trattamento contro
l’umidità di risalita e l’affioramento dei sali. Di
cosa aveva paura? Che la macchina si sciogliesse sotto il sole di
luglio? Che gliela rubasse Luisa? Che ci si grattasse Orlando?
«Gliel’hanno mai detto che sa essere parecchio ottuso?»
Non c’era alcuna offesa nella sua voce, solo l’enorme
dispiacere per non riuscire a venire a patti come auspicato da Corrado.
Se il maggiordomo aveva una risposta per lei, si trattava di un diniego
senz’ombra di dubbio. Eppure aveva cercato di assecondarlo
giocando con le sue stesse armi, scegliendo con cura le parole,
studiando la presentazione della richiesta. L’ennesimo buco
nell’acqua. Doveva detestarla davvero.
Le rispose con un ghigno storto, che conservava vaghe tracce d’un sorriso ironico.
Scrollando le spalle, la donna vuotò la propria tazza e si
diresse alla porta. In fondo, non le andava di inimicarselo più
di quanto già non fosse. Meglio assecondarlo, soprattutto
considerate le sue condizioni.
«Allora, vado a controllare come procede il Distillato Scirocco
e a cercare un metodo alternativo per arieggiare l’interrato,
senza muovere la sua amata berlina di un centimetro»
specificò.
«Riferirò» disse, concentrato sul flusso che dal
beccuccio della teiera andava a riempire di un vortice dorato la
porcellana decorata.
Stava per chiudere la porta, quando si fermò ad osservarlo.
Sedeva alla scrivania del Duca, le palpebre gonfie e socchiuse, il capo
chino fiancheggiato dalle cortine brune dei capelli. Avrebbe detto che
si fosse addormentato di colpo, se non avesse notato le dita muoversi
appena, facendo ruotare la tazza. Era un’immagine avvilente.
«Permette un consiglio, Jarvis? Da amica».
«Non ne ho bisogno» rispose accigliato, senza risollevare le spalle.
Amelia lo ignorò.
«Chieda a Romilda di prepararle uno zabaione. Le farà
bene» suggerì, aggiungendo una strizzatina d’occhio.
«D’accordo» rispose, ma non si alzò.
Rimase a guardarsi tremolare nel liquido, la pelle tinta d’un
pallido tramonto. Si lasciò catturare dai riflessi cangianti
della superficie, scoprendovi qualcosa che non sapeva di possedere. La
capacità di resistere ad un ordine, anche se per pochi minuti.
Aveva ascoltato la porta chiudersi, i passi allontanarsi, sostituiti
dal silenzio, meravigliandosi d’essere rimasto seduto fino a quel
momento, reprimendo l’impulso d’alzarsi.
«Illuso» pensò scendendo le scale. «Anche se
incoraggiante. Nessun ordine diretto, solo una richiesta. Non
esattamente la stessa cosa. Non lo è affatto. Un ordine è
un obbligo, un dovere cui assolvere».
Cercò di ribadire ad ogni passo quel concetto, nonostante fosse diretto dove l’Archimaga aveva detto, finché la voce strozzata della cuoca non l’allontanò dalle sue elucubrazioni.
«Benedetto figliolo! Che ti è successo?»
***
Sollevato nonostante il disgusto, lasciò ricadere il lembo umido
della camicia su petto di Jarvis. Anche Romilda si liberò dello
spavento con un profondo sospiro. Quando aveva visto il maggiordomo
varcare la soglia con la camicia coperta di larghe chiazze rosse e
brune ed una mano sullo stomaco, aveva pensato ad un incantesimo finito
male.
«Questo sangue non è tuo. Hai sgozzato un piccione?»
ridacchiò malevolo Ang, pulendo le mani in uno strofinaccio.
«No» ringhiò, indispettito da tanto clamore. «Stavo discutendo con l’Archimaga».
L’aggiunta non era casuale. Il garzone l’afferrò per
il bavero della giacca, sollevandolo di peso dalla sedia.
«Che cosa hai fatto ad Amelia?»
I suoi occhi mandavano un bagliore perlaceo, che si rifletteva sinistro in quelli del maestro di corte.
«Nulla» ma la piega dei suoi lineamenti parlava di menzogna.
«E allora…»
«Lascialo finire, Angelo. Fallo parlare, santo cielo!»
cercò di tranquillizzarlo la cuoca, aggrappandosi al suo braccio
per liberare l’altro. «E tu, giovanotto, vedi di spiegarti
come si deve, o ti faccio un bernoccolo in fronte!»
ribadì, agitando minacciosa il cucchiaio di legno.
L’uomo attese un istante, arretrando di un passo.
«Abbiamo parlato, poi se n’è andata e io sono sceso.
Non so da dove provenga questo sangue» rispose con aria
superiore, mentre rassettava gli abiti.
«Forse ce l’ho io».
Si voltarono. Sulla porta che dava nel cortile c’era Amelia,
scura in volto. L’elfo le corse in contro, studiandola
freneticamente da capo a piedi in cerca anche solo di un livido
rivelatore.
«Fragolina! Stai bene? Sei tutta intera?» le domandò, prendendole il viso tra le mani.
«Sto bene, ma…»
Con lo sguardo indicò Isadora. La piccola si nascondeva alle sue spalle, tremando e singhiozzando.
«Cos’ha?»
«Dice che qualcosa ha mangiato Corrado. Giù, in cantina».
Gli sguardi dei presenti corsero accusatori a Jarvis.
«Credete forse…»
«Non so cosa credere, tranne che il Duca è da qualche
parte» rispose, tenendosi vicina la bambina. «E noi ora
andremo a prenderlo. Ci accompagni, per favore».
«Non credo proprio che lei possa…»
Amelia gli si avvicinò, fulminandolo con lo sguardo.
«Jarvis, la prego».
Sapeva cosa sott’intendeva ed incrociò le braccia in segno
di sfida. Quella sciocca non avrebbe mai osato obbligarlo a fare
qualcosa in maniera esplicita. Lei intuì e fece un immenso
sforzo per parlare ancora.
«Jarvis, ci faccia strada. É un ordine».
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Capitolo 27 *** Tavola XXVI - Ingressi ***
Tavola XXVI - Ingressi
«Qui?» domandò Amelia.
Isadora annuì con forza, mordendosi le labbra.
Guardarono la parete ruvida alla luce della torcia e delle luci
incantate create dall’elfo. Era lì che avevano ritrovato
Corrado quando Jarvis credeva di non poterlo ritrovare.
«Ci deve essere una porta, un passaggio,…» mormorò Ang.
«No» replicò secco il maestro di corte.
«Jarv, se Isa dice che il Duca è dall’altra parte, ci sarà andato in qualche modo.»
«Nei cabrei non si parla di un portale qui sotto. C’è lo Zavarov
al primo piano ed un altro al piano terra, ormai inutilizzabile»
disse Amelia, appoggiando l’orecchio al muro e passando i palmi
sull’intonaco.
Il maggiordomo rifilò uno sguardo compiaciuto al garzone, sfilando una sigaretta dall’astuccio dorato.
«Ma ciò non significa che non possa esserne stato creato
uno di cui siano state volutamente omesse le tracce»
specificò lei, ascoltando il suono prodotto dalle nocche sul
muro.
Mattoni e terra, nessuno vuoto che risuonasse, identificando la presenza di un vano nascosto.
«Io lo saprei! E sono certo che…» sbraitò in una voluta di fumo.
«Jarvis, anche se avesse studiato ogni documento più a
fondo di quanto ho fatto io, lei non ha tutti i secoli di questa villa!
Come pretende di conoscerne certi dettagli? Sa bene quanto me che i
maghi hanno il brutto vizio di tacere su alcuni dettagli
“irrilevanti”» l’interruppe spazientita,
passando la luce della torcia raso muro per scoprire i contorni del
passaggio.
Da quanto aveva detto Isadora, Corrado non sembrava stare molto bene
prima di sparire. Era pallido e balbettava cose incomprensibili.
«Io…»
«Cosa? Sei più vecchio di quel che dai a vedere? L’avevamo capito, sai, menhir?» scherzò Ang, battendogli una mano sulla spalla.
L’uomo si liberò con uno strattone poco convinto. Era
strano. Il peso di quella mano l’aveva disgustato, ma il corpo
non aveva reagito con la solita stizza. Un brivido di fastidio lo
percorse.
«Amelia?» bisbigliò Isadora, dondolandosi sui
talloni. «Lì, in terra» ed indicò col mento
un punto a poca distanza dai piedi della donna.
Nel pavimento c’era una fessura, dentro cui ruotava lentamente
qualcosa. Amelia cercò d’estrarla, rimediando un taglio
sull’indice.
Scrollando il capo, il servitore tese la mano, pronunciando poche
parole sottovoce, ed il contenuto saltò fuori dalla spaccatura.
Un tondo di metallo, la cui superficie era solcata da incisioni e fori.
L’Archimaga lo
ripulì nella maglia. Impossibile non riconoscervi la mano di
Gromi: alcuni dettagli della lavorazione erano inequivocabilmente
frutto di sapienza metallurgica nanica. Lo rivoltò, osservando
entrambe le facciate. Era freddo ed emetteva una strana vibrazione, un
impulso discontinuo, aritmico. Perfino il colore del materiale era
inconsueto: uno grigio con curiosi riflessi violacei.
«Cos’è?» chiese Ang.
«La chiave magica di Corrado» spiegò orgogliosa Isadora.
Amelia rigirò lo strano strumento, spingendo e tirando in cerca
di un sistema di apertura. I segni che vedeva non avevano alcun senso:
non erano formule, rune o simboli noti.
«Mai visto nulla del genere» disse porgendola al maggiordomo che si rifiutò di toccarla.
Quello sguardo incredulo non era tipicamente suo. Aveva l’aria di
chi si trovava di fronte a qualcosa di incomprensibile, di cui non
riusciva a capacitarsi.
«Isa, fammi vedere come l’ha usata Corrado».
Felice di mostrare quanto sapeva, la piccola prese il disco e lo rimise
nella fessura, spingendolo fin quasi a farlo scomparire. Sì
udì uno scatto, come se, nascosto nel pavimento, vi fosse un
gigantesco ingranaggio. Una linea si allungò ai lati della
fessura, emanando una luce pallida. Spirali e complicate linee
serpeggiarono nel riquadro di fronte a loro, creando una sorta di
graticcio. Ci fu uno sbuffo d’aria, una nube luccicante che
s’avvolse rapida salendo verso la volta, quasi che la parete
sbadigliasse. Poi tutto sembrò tornare come prima, anche i
disegni erano scomparsi.
«É aperta?» chiese dubbioso Angheledrior, in cerca di segnali di pericolo.
Con cautela, Amelia tese la mano, che sparì nel muro. Alle sue
spalle poteva immaginare lo sguardo incredulo di Carew. Ma se si fosse
voltata, avrebbe scorto l’orrore stirargli i lineamenti.
Lui non conosceva quell’apertura. Non sapeva della sua esistenza.
Non l’aveva mai percepita. Mai. Eppure avrebbe dovuto. Lui doveva
saperlo!
«Sì».
«Ed è… sicura?» s’informò ancora
lo stalliere, avvicinandosi e giocherellando con la superficie
impalpabile.
Lei ritirò la mano, aprendola e chiudendola per verificare se
avesse problemi. Ogni osso era integro ed i muscoli funzionanti. Non
aveva sentito variazioni di temperatura dall’altro lato.
«Andiamo» fece alzandosi.
***
Romilda restò immobile, finché la nube iridescente non si
dissolse. Francesca e Luisa stavano barricate dietro la vasca del
lavatoio, sporgendo appena gli occhi. L’anziana era seduta sulla
panca del bucato a rammendare una presina, quando la luce aveva fatto
la sua apparizione.
«S-stai bene?» azzardò la prima.
«Romilda?» chiamò l’altra.
La cuoca scacciò con la mano un ultimo ricciolo pallido, prima di alzarsi.
«E il Duca ti ha detto che questa roba dovrebbe sparire? Bene,
che si spicci o mi sentirà» mormorò. «Per
colpa di questa sciocchezza avete perso almeno un quarto d’ora e
io ho bisogno di una mano per la cena!»
«Ma… tu stai bene. V-vero?»
«Ragazzona, ti sembro il tipo che per si mette a frignare per un
po’ di vapore? Prova a mettere una mano nelle mie pignatte,
vediamo cos’è peggio!» e se ne andò,
asciugando le mani nel grembiule.
Era stato come affondare nella nebbia, in uno di quegli inverni di
quando era giovane e fuori non si vedeva ad un palmo dal naso. E quelle
due si facevano patemi per una simile idiozia.
«Una volta si aveva paura della frusta del padrone, adesso basta
un po’ di fumo» rifletté entrando in cucina.
Gettò uno sguardo alla luce che entrava dalla porta, augurandosi
di vederla scomparire, cancellata dalle ombre di Amelia e dei ragazzi
che tornavano col Duca.
***
Avevano immaginato un buio fosforescente che si srotolava in ogni dove,
cancellando i contorni e lo spazio. O una caduta senza fine verso un
pavimento nascosto chissà dove. Invece, dopo il lieve frizzare
del passaggio, si erano trovati in una stanza illuminata debolmente da
un’apertura nel soffitto. Lì, spicchi di luce cadevano a
terra tagliati da lame nere di gradini metallici. Ed il baluginio di
Isadora gettava ombre tenui attorno agli oggetti.
Silenzio. Denso e ovattato da far fischiare le orecchie.
Muffa. Legno. Polvere. Una nota rancida.
«Incenso!» esclamò l’Archiamaga, riconoscendo il sentore inconfondibile della resina. «Dobbiamo essere nella cripta della cappella!»
Il suo entusiasmo era incomprensibile agli altri. Alla fine dei conti,
era riuscita a metter piede là dove sperava. Il vago senso di
sacro che filtrava dal piano superiore era un balsamo, un sentore quasi
di famiglia. Le riportò alla mente la sagrestia
dell’oratorio dopo le processioni, dove lei, Suor Caterina e la
Madre Superiora aspettavano i chierichetti con un premio in biscotti e
Coca-Cola per il buon servizio fatto. Luce bassa, fumo di candele e
turiboli, occhi vacui nell’ombra.
«Lui è mio amico! Io gli tiro sopra le cose e lui le
prende. È bravo» spiegò Isadora, additando il putto
barocco su cui si era soffermato lo sguardo dell’Archimaga.
Faceva parte di ciò che restava di una vecchia credenza, dove i
denti di minuscoli insetti affondavano con gusto da decenni. In alcuni
punti i buchi erano talmente fitti da creare paesaggi lunari nel legno.
«Credo di sì» concordò.
La piccola li guidò verso il fondo del locale, mostrando loro il
suo ritratto, la scusa con cui il Duca l’aveva convinta ad
indicargli quell’accesso. La tela era annerita del tempo e dalla
polvere dei secoli, ma ancora si scorgeva il visino tondo e gli occhi
azzurri della Duchessina circondati dai boccoli ritoccati d’oro.
L’abito era diverso da quello che indossava nelle sue
apparizioni, più ricco e fastoso. Per l’occasione le
avevano fatto anche indossare dei gioielli: lunghe collane di perle e
gemme colorate ed anelli sproporzionati per la finezza delle sue
piccole dita.
«Stiamo perdendo tempo» rimbrottò Jarvis, in una nuvola di fumo.
Purtroppo aveva ragione, non potevano soffermarsi sul dipinto.
«La spenga, qui sotto è pieno di cose a cui basterebbe un
nulla per incendiarsi!» lo riprese, tornando a rivolgere un
sorriso affettuoso alla bambina. «È davvero bello, sai? Il
pittore è stato molto bravo. Dovremmo portarlo di sopra e
appenderlo da qualche parte».
«Anche Corrado lo voleva portare su» rispose Isadora, con un tremito nella voce.
Si volse appena, stringendo la manine sullo stomaco.
«Muoviamoci» insisté il maggiordomo, inspirando un’altra boccata.
L’acredine del sollecito gli fece guadagnare un’occhiata
spazientita della donna, che tentava di approcciare la cosa con quanta
più delicatezza possibile. Lo spavento di Isadora era stato tale
che, quando l’aveva raggiunta per cercare aiuto, Amelia aveva
faticato a scorgerla: era poco più di un velo di tulle
nell’aria.
Jarvis fraintese, pensando che il rimprovero fosse diretto alla
sigaretta che si consumava lenta fra le sue dita. Tirò
un’altra boccata con ostentato disprezzo, quando notò con
la coda dell’occhio una sferetta d’acqua che fluttuava
molle sopra la mano dell’elfo.
«Ti prego, muoio dalla voglia di aiutarti a darle retta» lo provocò Ang.
Il maggiordomo fece schioccare le dita, il liquido ondeggiò,
spargendo qualche goccia a terra. Un riso beffardo distese le labbra
del garzone, mentre una maschera impenetrabile calava sul volto
dell’altro.
«Isa, fammi vedere dov’è sparito Corrado».
Il fantasma arretrò di qualche passo, mostrando un rettangolo posato a terra.
«Quello. Quello l’ha mangiato!»
Si avvicinarono, sporgendosi un poco, con Isadora che tratteneva Amelia
per la maglia, terrorizzata all’idea di veder sparire anche lei.
Tre volti si rifletterono sulla superficie metallica.
«È uno specchio».
«Arguto, stalliere».
«Almeno io miglioro, tu sei sempre lo stesso» ringhiò.
Amelia aveva l’impressione di essere in compagnia di due bambini
dell’asilo, capaci solo di darsi fastidio a vicenda. Non
c’era tempo però per dividerli e sgridarli separatamente,
né insieme.
«Dobbiamo trovare il modo di farlo funzionare» disse,
passando la mano lungo la cornice, troppo semplice e lineare per essere
stata prodotta secoli addietro come il resto della mobilia intorno.
Aveva letto di quel genere di sistemi si spostamento, come sempre
troppo poco per poter operare a colpo sicuro. I portali mobili erano
affari da stregoni di un certo livello, non da comuni Archimaghi. E questo non rientrava nella già ristretta casistica di cui aveva vaghissime nozioni.
«Funzionare?»
«Sì, Isadora. Dobbiamo passare dall’altra parte per recuperare Corrado».
«No! No! Tu non devi andare! Loro vanno!» piagnucolò spingendola fino a farla cadere seduta a terra.
Avrebbe voluto tranquillizzarla, dirle che sarebbe andato tutto bene e
che sarebbe tornata nel giro di pochi minuti, ma l’angoscia che
vedeva dipinta sul suo faccino glielo impedì.
«Non è una brutta idea. Pensiamo noi a recuperare il Duca,
non c’è bisogno che tu venga» disse Angheledrior,
sbirciando nel riquadro.
Doveva ammettere che qualcosa lo metteva in agitazione e preferiva tenere lontana Amelia da qualunque pericolo.
«E chi vi riporterà indietro? Sapete aprire la porta
dall’altro lato?» domandò scettica, guardando il
maestro di corte tacere con ostinazione.
Amelia non immaginava cosa si muovesse nella mente vacillante
dell’uomo che aveva davanti. Il tarlo del dubbio aveva cominciato
a farsi strada nel servitore. Se non aveva mai saputo di quel
passaggio, sorto dal nulla davanti ai suoi occhi, cos’altro
poteva essergli stato nascosto? Come? E perché? Lui doveva
sapere, era suo compito esserne informato.
«Nemmeno lei ha la minima idea di cosa troveremo dall’altra parte» l’accusò.
«Mi pare che, da questo punto di vista, siamo tutti sullo stesso
piano» sospirò lei, tornando a concentrarsi sullo specchio.
Lungo la cornice erano disposti degli incavi delle dimensioni di un
pollice. In alcuni erano state appoggiate delle sferette. Ne prese una.
Era di legno di sandalo. Non sembrava possedere alcuna magia.
«Sono le mie palline» mormorò Isadora, piegata sulle
ginocchia accanto all’amica che le esaminava. «Io ci gioco,
ma Corrado dice che sono magiche»
Cominciò a raccogliere quelle rotolate lontano, aiutata
dall’amica mentre Ang manteneva le altre al loro posto con un
incantesimo. Dal canto suo, il maestro di corte sovrintendeva alle
operazioni torturandosi dietro ad un’assoluta indifferenza orlata
di tabacco.
«Le hai spostate, dopo che Corrado è sparito?»
Isadora scosse il capo, recuperando una biglia da dietro una cassa.
«Non mentire» s’intromise Jarvis, gettando a terra il mozzicone.
Gli occhi scuri trapassarono la minuscola sagoma.
«Io non le ho toccate! S-sono… sono…» singhiozzò, andando a nascondersi dietro l’Archimaga.
«Calma, Isadora. Jarvis è solo preoccupato, non voleva offenderti. Vero?»
L’uomo non rispose, incrociando le braccia con noncuranza e
sostenendo il suo sguardo. Era una sfida a sé stesso. Non aveva
ricevuto un ordine, non doveva rispondere. Doveva farcela. Forse
così avrebbe potuto…
«Vero?» insisté.
Fissò il volto della donna per un istante di troppo.
«Sì» fu costretto ad ammettere.
«Quindi, vediamo se ho capito. Corrado ha messo qui le tue
palline. E poi cos’ha fatto?» chiese, invitando la piccola
ad uscire e ad affiancarla.
Esitava e teneva d’occhio con soggezione il servitore.
«Isa, stai tranquilla. Non succederà niente di brutto» la rassicurò.
Isadora fece un sospiro, scostandole una ciocca dagli occhiali. Aveva
paura che Amelia scomparisse, come aveva fatto Corrado. Anche lui aveva
detto che tutto sarebbe andato bene. Però voleva rivederlo. Era
diventato vecchio giocando con lei.
«Corrado ci è salito sopra, sopra lo specchio. In piedi. E quello l’ha mangiato».
***
«Fragolina, siamo ancora qui» osservò perplesso Ang.
Aprì gli occhi, sperando in una svista, ma attorno a loro erano
ancora le pareti della cripta coi loro festoni di ragnatele impolverate.
«Che occhio clinico, stalliere. Notevole» sibilò Jarvis.
Si pentì d’essersi messa nel mezzo. Ora rischiava di sorbirsi i loro battibecchi senza via di scampo.
«Litigherete dopo. Fate attenzione a non muovervi troppo, alcuni
incantesimi di trasferimento possono iniziare con un brusco risucchio e
richiedono tempi più lunghi per attivarsi» intervenne,
scrutando intorno in cerca di movimenti e luccichii rivelatori.
Il maestro di corte armeggiò per l’ennesima volta col
portasigarette, snervato. Era abbastanza chiaro che non si sarebbero
mossi di lì e disquisire di portali non giovava al suo
turbamento. Aveva bisogno di distendere i nervi, di ritrovare in
bandolo della matassa. Aveva sigillato la cripta decenni addietro,
com’era possibile che non avesse notato il passaggio da cui erano
entrati?
«Se intende dire secoli, le rammento che non possiamo
aspettare» sbottò, rigirando un’altra sigaretta fra
le dita.
In risposta, Amelia l’afferrò insieme all’astuccio e
li gettò oltre la scala a chiocciola. Isadora scoppiò a
ridere.
«Non ora, Jarvis. Non ora» scandì irritata Amelia,
recuperando un istante dopo la solita espressione di quieta
condiscendenza. «Le fa male. E fa male a noi, soprattutto adesso!
Forse Corrado ha usato una formula, una parola d’ordine per
attivare il portale».
La bimba disse che era così, che aveva detto qualcosa, ma che non era riuscita a sentirla.
«Che frase avrebbe potuto usare?» si chiese l’Archimaga.
Vagliare gli interessi del suo cliente era un’impresa proibitiva, ma doveva tentare.
«Non diciamo sciocchezze. Queste cose accadono solo in quegli
stupidi racconti per bambini! Inutili invenzioni senza capo né
coda. È semplicemente…»
«Conosci le favole? Sei una sorpresa dietro l’altra, oggi.
Non sai delle porte, ma delle fiabe sì» l’interruppe
sarcastico Angheledrior.
«Smettetela. E poi, che ci sarebbe di strano? Ali Babà
diceva “apriti sesamo”, perché con noi non dovrebbe
funzionare?»
Due paia d’occhi corsero veloci al pavimento riflettente, che
trovarono al proprio posto. Un terzo puntò esasperato al
soffitto. Era evidente che Corrado non poteva aver pensato ad una
chiamata tanto sciocca.
«Siamo ancora qui, se non l’avesse notato.»
«La smetta, non fa ridere. E poi, io sto provando a farla aprire. Lei no» l’ammonì imbarazzata.
Doveva ammetterlo: per un istante aveva sperato che funzionasse proprio
come nella fiaba. Sarebbe stato buffo, senza dubbio, ma avrebbe fatto
recuperare loro il tempo perso fino a quel momento. Ormai erano passate
quasi due ora da quando Corrado era sparito lì dentro.
«Dunque, vediamo. Se fossi Corrado, cosa userei per parola d’ordine? Fluidi incorporei?» azzardò.
«No, niente» disse Isadora, controllando la cornice. «Non è giusto».
«Formula di Coquille?»
«Ritenta» la incoraggiò Ang.
«Chiave di Didim? Prismi di Orlovsky? Sequenza eliogenica di Caldes?»
«Dove ha sentito queste cose?» chiese Jarvis sbigottito.
Erano tutti termini, oggetti e diciture di formule d’alta
stregoneria, che difficilmente quella brutta copia d’una
fattucchiera avrebbe potuto scovare nei suoi stupidi libri di Archimagia.
«Non le ho solo sentite, so anche cosa sono e a cosa servono, se
proprio vuole saperlo. Corrado non ha insegnato solo a lei. Mi ha dato
un’infarinatura di scienze occulte.»
«Giusto quella poteva darle» malignò.
«Falla finita, Jarv, o giuro che…»
«Ci sono!» esclamò Amelia, mettendo a tacere sul
nascere l’ennesima lite a forza di strattoni ad entrambi.
«Ah, davvero?» bofonchiò scettico il maggiordomo, controllando il polsino della camicia.
«Basterà chiedere alla lamina di farci passare»
disse trionfale la donna, ricevendo in cambio uno sguardo interrogativo
dall’elfo ed uno di puro biasimo dall’altro.
Isadora saltellava rapida sul posto, sperando che Amelia si sbagliasse
e che non andassero da nessuna parte. Non voleva restare sola.
«Ma per favore, la…» attaccò rabbioso il secondo.
Sorda alle lamentele, l’Archimaga si chinò un poco in avanti, fissando il proprio riflesso nella lastra.
«È permesso?» domandò educatamente.
«…smetta di dire eresie, non…»
Jarvis non riuscì a terminare la frase. Lo specchio si
riempì di minuscole onde e svanì, inghiottendoli, mentre
una voce d’oltretomba rispondeva con un cupo “avanti”.
***
«Ringrazi Suor Caterina, che diceva sempre che con le buone maniere si ottiene tutto» tossicchiò.
L’aria sapeva di stantio, molto più della cripta della
cappella. Peggio, puzzava di marcio e putredine. Un lezzo opprimente e
vischioso. L’oscurità intorno a loro era tangibile.
«Isa?» chiamò.
«Credo sia rimasta dall’altra parte, come le hai chiesto. A
te dà retta, chissà come mai…»
sghignazzò, avvertendo lo spostamento d’aria di una
scrollata di capo. «Secondo te, dove siamo?»
Tese la mano in un punto imprecisato ed invocò quello che i maghi chiamavano fuoco fatuo.
La fiamma guizzò azzurra per pochi istanti, troppo flebile
persino per illuminare le sue dita. Qualcosa sembrava soffocarla.
Subito dopo, la torcia dell’Archimaga fendette la tenebra.
Intorno a loro si stendeva un ambiente simile alla ghiacciaia. File
concentriche di mattoni s’inseguivano verso l’alto verso il
basso, scomparendo là dove la luce non riusciva a spandere il
proprio chiarore.
«Non ne ho idea. Non ricordo questo locale sui carteggi. Chi
l’ha creato voleva mantenerlo segreto. Lei che dice,
Jarvis?»
Silenzio. Un silenzio allarmante.
«Jarvis?»
Il cono freddo della lampada disegnò ombre tetre sul volto
scavato di Carew. Aveva gli occhi chiusi, strizzati
all’inverosimile. Le labbra avevano un tremito lieve, il tremito
di chi sta recitando una preghiera di fronte al termine dei propri
giorni. Una vena pulsava rabbiosa sulla tempia.
Ang lo afferrò per un braccio, scuotendolo con tanta forza da
obbligarlo a riaprire le palpebre. Le iridi scure guizzarono nel buio,
baluginando come quelle dei gatti. Lo afferrò per il mento,
facendolo voltare. Forse tutti quei passaggi gli stavano dando alla
testa. Ma intravide ancora quel riflesso.
«Tu non la stai raccontando giusta, Jarv. E prima o poi vuoterai il sacco, ci scommetto» l’avvertì.
L’altro non ebbe il tempo di rispondere.
«Guardate».
La voce di Amelia riecheggiò lungo le pareti curve. I due uomini
seguirono dove stava indicando. Il pavimento di mattoni si perdeva nel
buio, proprio come la cupola, ma approssimativamente al centro di esso,
stava sospesa una specie di enorme pigna. Le scaglie erano lucide, di
un bruno scuro quasi nero, pulitissime al confronto del resto del
locale.
«Corrado deve essere là dentro» disse lei,
illuminando una serie strascicata di impronte nella sottile sporcizia
che ricopriva il pavimento. «Vediamo se c’è un modo
per entrare».
Grazie ai lettori tutti.
Un piccolo avviso: siamo alla dirittura d'arrivo, mancano pochi
capitoli alla conclusione, quindi dateci dentro con i commenti! Grazie
ad Agathe per aver inserito questa storia fra quelle da ricordare!
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Capitolo 28 *** Tavola XXVII - Portali ***
Tavpòa XXVII - Portali
«N-non posso» balbettò arretrando.
«Amelia, ma che…»
«No!»
Avevano dovuto girare attorno a quello strano contenitore fluttuante
più d’una volta per scoprire che, all’apparenza, non
possedeva accessi visibili. Le scaglie nascondevano con maestria
eventuali maniglie o incavi. L’unico modo per scovarli era
avvicinarsi di più, ma appena avevano fatto un passo in avanti,
il pavimento aveva cominciato a muoversi. I mattoni avevano strisciato
gli uni contro gli altri, sollevando una foschia rossiccia. Lo stridio
polveroso aveva riecheggiato lungo le pareti, mentre a poco a poco,
qualcosa era filtrato tra le giunture. Acqua. Acqua che inghiottiva i
laterizi con un sommesso gorgogliare. Nel giro di una manciata di
minuti, i quattro metri che li speravano dalla pigna erano stati
tramutati in una pozza dalla profondità indefinibile: il fondale
era nero e confuso.
La sola idea d’infilare un piede in quel lago incantato le faceva girare la testa.
«Amelia non c’è niente di cui aver paura» cercò di rassicurarla l’elfo.
Lei scosse lentamente il capo, gli occhi sbarrati dietro le lenti.
Batteva i denti dal freddo, come se fosse già zuppa da capo a
piedi.
«Non posso… non posso farlo» disse con un filo di voce.
Quella massa liquida la stava soffocando senza neppure toccarla. Era un grande occhio fisso e minaccioso.
«Amelia? Fragolina, guardami».
Gli occhi neri di Ang si sostituirono a quell’immagine angosciante.
«Non c’è niente di cui aver paura. Niente» ripeté, ma non riusciva a credergli.
Nella sua voce c’era un’incrinatura, qualcosa l’aveva
spaventato. Forse percepiva un incantesimo nell’acqua o forse,
come gli aveva raccontato una volta, si trattava di acqua morta.
I comuni mortali la conoscevano col banalissimo nome di acqua
distillata. Un liquido vuoto, senza alcuna particolare qualità.
Un elemento raccapricciante per gli elfi, un’anomalia, un
abominio della natura. Tossica quanto un veleno, perché incapace
di portare vita.
Acqua morta o incantata che fosse, per l’Archimaga
cambiava poco la situazione. Aveva le gambe come blocchi di pietra per
il terrore. Ed il riflesso molle della pigna sulla superficie piatta le
faceva schizzare il cuore fuori del petto. Il sangue le pulsava
violento in testa, al punto che fischi acuti le torturavano i timpani.
Le braccia di Angheledrior la strinsero e le labbra si posarono sulla
sua tempia, nel tentativo di rassicurarla. Però lo sentiva.
Sentiva il tremito leggero che tentava di mascherare. Anche lui aveva
paura.
«Ang, io…» gemette.
«T-tranquilla. C-ce la faremo» disse prendendole il volto
tra le mani, ma la sicurezza lo stava rapidamente abbandonando.
«D-dobbiamo solo p… passare. Stare… attenti».
Alla donna sfuggì un singhiozzo spaventato mente lo guardava rivolgere uno sguardo carico d’ansia al lago.
«Finitela» sbottò d’un tratto Jarvis, afferrandoli entrambi e scaraventandoli avanti.
Pareva essersi risvegliato dallo shock del passaggio nello specchio,
più astioso e indisponente dei prima. Amelia cercò di
puntare i piedi per non cadere oltre il bordo, inutilmente. La spinta
ricevuta la mandò dritta oltre l’ultimo mattone, mentre
ancora Ang la sorreggeva. Sentì il liquido freddo e pungente
penetrare nelle scarpe, risalendo rapido oltre le caviglie, le
ginocchia. La trafiggeva come migliaia di spilli di ghiaccio,
lunghissimi. Cercò d’aggrapparsi alle spalle del suo
compagno che sentiva chiamare, gridare, vicinissimo eppure
irraggiungibile.
Avrebbe voluto poter camminare sulle acque o dividerle come il Mar
Rosso, per essere nuovamente all’asciutto, al sicuro.
Agitò braccia e gambe, scomposta, sperando bastasse a tenerla a
galla, ma l’acqua continuava a salire e non c’erano
appigli. Onde minacciose le salivano sopra la testa, spruzzi si
abbattevano sulle lenti, impedendole di vedere. Gli abiti ormai intrisi
la strascinavano giù, impedendole i movimenti. Il freddo la
indeboliva. Cercò di gridare, di ritrovare la mano di Ang, di
udire la sua voce in quel tumulto senza fine. E quell’enorme
oggetto scuro se ne rimaneva là, davanti a lei, a gravitare
quieto.
***
Il sole illuminava ampi riquadri del soggiorno. Galileo dormiva beato
sul poggiapiedi, acciambellato in maniera tale che il muso restasse
protetto dalla luce pomeridiana. La punta della coda spariva sotto al
mento impiastricciato dei resti del suo ultimo pasto: una lucertola
troppo pigra per darsela a gambe nelle crepe del muro. Avrebbe tanto
voluto assaggiare quella grossa lucertola che viveva nelle cantine, ma
per quanto ci provasse, non riusciva a scalfire le squame grigie.
L’aveva leccato un paio di volte, ma la sua pelle non sapeva di
buono. Magari era così anche dentro.
Il pensiero del pasto a base di drago divenne sogno ed il micio
sfoderò gli artigli, mentre la lingua scivolava a ripulire le
fauci pronte all’assalto.
***
Stava raggomitolata su sé stessa, tossendo e singhiozzando,
domandandosi cosa fosse accaduto. Ang era al suo fianco, steso sulla
schiena. L’aveva tenuta stretta fino a poco prima, quando la sua
voce era riuscita a farsi strada come un tuono nella tempesta,
risvegliandola.
Dietro di loro, il pavimento era orizzontale ed asciutto, esattamente
come era stato fino a poco prima. Ogni mattone era tornato ad occupare
il proprio posto. Eppure lei grondava acqua.
«Co… cosa è successo?»
L’elfo prese un profondo respiro, poggiando il dorso della mano sulla fonte.
«Non so. Un attimo prima non c’era niente, poi tutta quella roba… da dove è uscita?»
«Malia Protettiva,
credo. Non so di che tipo, ma piuttosto efficace» ansimò
Amelia, poggiandogli la testa sulla spalla. «Questo genere di
incantesimi fa leva su qualcosa in particolare, una paura di solito, ma
che c’entri tu con la mia paura dell’acqua?»
«Quale acqua?» chiese lui, senza nemmeno aprire gli occhi.
Solo allora l’Archimaga si accorse che era coperto di graffi e polvere giallastra. Ed era asciutto.
«Che cosa hai visto?»
«Quello che tu chiameresti inferno» rispose rabbrividendo.
«Rottami, carcasse di auto, muri, immondizia. Liquidi che
bruciavano la terra. Cemento ovunque. Una nebbia grigia e
puzzolente».
Il solo citare quelle cose gli provocò un conato tanto forte da farlo piegare sul fianco.
«Hinterland» sospirò stanca, mettendosi a sedere.
Avrebbe dovuto immaginarlo: cosa poteva temere un elfo, se non la distruzione della natura?
«Cosa?» domandò imitandola.
«Dico, sembra l’hinterland di una metropoli: discariche e palazzine a perdita d’occhio».
Lui le fece una carezza, come a sincerarsi che fosse davvero lì.
«Avevo paura che ci sarebbe crollato tutto addosso, così
ho cercato di trascinarti, ma tu non stavi ferma un attimo. Tiravi un
po’ di qui, un po’ di là. E alla fine siamo arrivati
contro quest’affare ed è sparito tutto».
«Credevo di affogare. Vedevo acqua dappertutto»
replicò indicandosi. «Evidentemente questo tipo di
incantesimo agisce sul singolo intruso e cessa una volta superato un
determinato limite».
«Intendi… superare la nostra paura? Che l’abbiamo sconfitta?»
«Credi di esserci riuscito?»
«No. E tu?»
«Nemmeno. Anzi, sono sicura di averne più di prima»
ammise tremando al ricordo di quanto aveva passato. «E Jarvis?
Dov’è?»
Guardarono intorno, spiando nell’oscurità che avvolgeva la
stanza. La torcia che funzionava a scatti per via dell’acqua al
suo interno, sputacchiando guizzi di luce improvvisa.
«Eccolo!» esclamò Ang, indicando alla loro sinistra. «Ma che sta…»
Amelia strinse le palpebre dietro gli occhiali ancora umidi, tentando di mettere a fuoco l’immagine.
Il maggiordomo camminava a zigzag, schivando ostacoli invisibili che
spesso l’obbligavano a tornare sui suoi passi. Il maleficio agiva
sbarrandogli il passo e tirandogli i vestiti, al punto tale che, con
una giravolta, si liberò della giacca.
«Lasciatemi! Non toccatemi! Non toccatemi, ve lo proibisco! Ve lo ordino!» gridò ad evanescenti assalitori.
Tentava di lanciare incantesimi, ma in quella semisfera pareva che gli
unici a funzionare fossero quelli predisposti a difesa
dell’oggetto in cui era scomparso il Duca. L’Archimaga cominciò a chiamarlo a gran voce, per cercare di indirizzarlo verso di loro.
«Non ti sente. Non mi sentivi tu che mi avevi addosso!»
osservò Ang. «Dobbiamo sperare che passi abbastanza vicino
da prenderlo e tirarlo qui».
Occorse un tempo indefinito, prima che riuscissero a mettere in atto il
piano. Ogni volta che Carew sembrava giungere a portata di mano, ecco
che uno strattone lo faceva allontanare in un’altra direzione,
come se la Malia sapesse dell’aiuto che volevano dargli.
«Toglietemi le mani di dosso!» sbraitò quando riuscirono a sottrarlo all’inganno.
«Datti una calmata, Jarv, o ti ributto dov’eri» ringhiò Ang, afferrandolo per la camicia.
Il bel tessuto di lino era stropicciato e strappato, e
quell’ennesimo scossone non fece che peggiorarne l’aspetto,
facendolo uscire dai pantaloni altrettanto malconci.
«Datemi una mano» li richiamò la donna, tastando le
scaglie brunite. «Dobbiamo trovare l’entrata».
Era strano. Il materiale di cui era fatta quella pigna sembrava
metallo, ma al tocco era tiepido e vellutato. L’idea che si
trattasse delle squame di qualche grosso animale - magari un drago -
non era poi tanto balzana.
«Perché non bussa?» la punzecchiò il maggiordomo, scrutandola con sufficienza.
«Non penso sarà così semplice. Questo… coso
è una sorta di scrigno. E se non è opera di Corrado, come
suppongo, dubito troveremo alla svelta un sistema per aprirlo»
spiegò, provando a spingere alcune placche.
«Ma davvero? Prima sembrava convinta che le buone maniere fossero
indispensabili» sogghignò, trovandosi subito affiancato
dallo stalliere che lo fissava torvo.
«Tu farai una brutta fine se non tieni a freno quella lingua, lo
sai?» l’avvisò, facendo scrocchiare le nocche prima
di aggiungersi alla ricerca.
Tastarono, tirarono e pigiarono ogni minuscola sezione, senza trarne
alcun cambiamento. Avevano camminato in circolo così a lungo da
aver cancellato le tracce di Corrado, ma ormai non sarebbero servite a
nulla: se non potevano entrare, potevano fare ben poco.
Jarvis, non visto, aveva sfilato un guanto per tentare di ricevere
informazioni da quell’oscura presenza. Tuttavia, attraverso il
palmo, non era giunto altro che un anomalo tepore.
«Proviamo» mormorò Amelia, fissando il rompicapo.
Tese la mano e batté tre colpi. Gli altri due la raggiunsero,
sperando di trovarla davanti ad un nuovo passaggio. Invece era
lì, ferma, con una smorfia di disappunto sul viso.
«Gliel’avevo detto che non sarebbe stato semplice» disse abbattuta a Jarvis.
***
«Romilda?» pigolò una vocina dietro di lei.
L’anziana si voltò, scorgendo a malapena la sagoma della bambina all’altro capo della stanza.
«Piccola, che fai qui? Dove sono Amelia e i ragazzi?»
domandò, abbandonando la bacinella dove stava sciacquando le
vongole per la pasta di quella sera.
«Ha mangiato anche loro» singhiozzò,
raggomitolandosi contro la dispensa. «Però Amelia ha detto
che tornano. Con Corrado».
Con calma, la cuoca avvicinò una sedia e vi prese posto, assorta.
«Allora bisogna crederle. Sai che la nostra Amelia mantiene le sue promesse».
Isadora annuì, pulendosi il naso sulla manica. Aveva paura.
Paura di non rivedere la sua amica. Paura che morisse. Perché
Amelia non voleva morire e nessuno doveva farle il dispetto di
ucciderla. Nemmeno Jarvis, perché se lo avesse fatto, lei gli
avrebbe fatto più male che poteva. Gli avrebbe portato via i
suoi bei cavallini, avrebbe rotto le ampolline colorate e strappato
tutti i libri che leggeva. Amelia doveva tornare. Viva. Non fatina come lei. Anche perché la mamma di Corrado aveva detto che poteva esserci una sola fatina per ogni casa. Fatina, ma intendeva fantasma. Ormai lo sapeva.
«Romilda?»
«Sì, piccina?»
«Lo sai che Amelia è la mia principessa-sorella?» domandò, serissima.
«Certo».
«Romilda?»
«Sì?»
«Vuoi giocare che io faccio la principessa e tu la cuoca
bravissima che aspettano la mia principessa-sorella?» propose.
***
«Ma che razza di… coso assurdo sei? Eh? Ti vuoi aprire?» inveì l’elfo, assestando pugni in ogni spazio vuoto a disposizione.
Probabilmente stavano tentando da ore di scovare un punto debole, una
fessura, una serratura, qualunque cosa aprisse lo scrigno. Aveva
provato ad evocare l’acqua che aveva intriso i vestiti di Amelia,
per cercare di scoprire una commessura fra le scaglie, ma qualunque
tipo di magia era inibito dalla Malia,
anche quelli non stregoneschi. Jarvis se ne stava in disparte,
apparentemente annoiato dalla situazione. Aveva smesso da un pezzo di
fare tentativi.
«Stupidissimo coso! Ti prenderei a calci se non mi facessero male le gambe!» gridò Angheledrior.
Scrollò le spalle di fronte all’insistente
immobilità di quell’oggetto. Sentì una mano posarsi
sulla sua spalla, facendolo voltare. Amelia lo fissava con gli occhi
spalancati ed un accenno di sorriso.
«Che c’è?»
«Ang, sei un genio!» esclamò l’Archimaga prima di baciarlo.
Si sdraiò a terra e scivolò al di sotto della pigna.
Esaminò con attenzione la faccia inferiore, passando la punta
delle dita nei pochi spazi vuoti. Scoprì alcune sottilissime
intaccature, disposte in modo tale da creare delle specie di punti
fissi.
«Teoria di Sunila: il
miglior modo per agire su un oggetto magico levitante è
stabilizzarlo, creando un legame con l’ambiente
circostante» recitò a mezza voce, ricordando un brano del
Bourquard sulla Teoria dei nodi cosmogonici.
Iniziò a rivoltare i mattoni, levandoli dal loro alloggiamento.
Le unghie lunghe non erano mai state una passione per lei, ma in quel
momento le rimpiangeva: le fughe tra le tavelle di cotto erano sottili,
le avrebbe fatto comodo poter far leva con qualcosa di altrettanto
fine. Impilò i laterizi in quattro torrette che posizionò
sotto le tracce. Una volta che ebbe posizionato l’ultima, la
pigna emise una sorta di sospiro, il suono soddisfatto di chi
può sedere dopo ore di fatica, e si adagiò sugli appoggi.
Strisciando e trascinandosi con i gomiti, Amelia fece capolino dallo
stretto passaggio rimasto fra le scaglie ed il pavimento. Era
più sporca di prima, benché la sua espressione fosse di
totale trionfo.
«Notevole».
«Grazie, Jarvis».
«È la prima volta che le fai un complimento» osservò perplesso Ang.
«Non mi pare di averne fatti. Intendevo dire che è
notevole la quantità di porcheria che riuscita a portarsi
appresso».
La donna socchiuse gli occhi, sorniona.
«Non le consiglio di continuare. Potrebbe venirmi voglia di
abbracciarla forte-forte-forte» minacciò bonaria, facendo
mezzo passo verso di lui con le braccia protese.
In quel momento, le squame persero a ritrarsi all’interno,
scoprendo una lama di luce calda ed accogliente, che andava
allargandosi rapida.
«Cos’è?» chiese Ang, notando come
all’interno lo spazio si estendesse in lunghezza, ben oltre la
dimensione della pigna.
«Uno Strappo» disse lei, saggiando gli stipiti ed entrando.
«Strappo?» fece seguendola.
«Sì. Una smagliatura spaziale. Si potrebbe creare un
intero palazzo nel guscio di una noce. Giardini, cantine e sottotetti
inclusi. Ovviamente bisognerebbe poi trovare il modo per
entrarci» spiegò, avanzando nel corridoio. «Non
è opera di un Archimago,
questa è magia allo stato puro. Nessuno di noi è in grado
di padroneggiare le pieghe spaziali a questi livelli, né ha il
potere di farlo».
Jarvis non l’ascoltava. Camminava alle loro spalle, scosso da
tremiti sottili e fastidiosi. Una strana sensazione di gelo gli
punteggiava la fronte e la nuca. Non conosceva quel luogo, come non
sapeva nulla della prima porta, di quella nello specchio, dello scrigno
squamato. Di tanto in tanto sfregava le mani e lo stomaco, percependo
duri i bordi del metallo sotto pelle. Gli amuleti rispondevano a quel
posto, quasi vi fosse una chiamata nascosta nelle pareti. Gli occhi
scuri guizzavano fulminei oltre le schiene di chi lo precedeva lungo il
corridoio. Aveva voglia di una sigaretta.
Infine, senza alcun preavviso, il passaggio scomparve e si ritrovarono
in una stanza circolare. Al centro c’era un tavolo di pietra
chiara, sporco di polvere grigiastra, su cui era stato gettato un
pugnale dalla lama violacea.
«Sapevo sareste arrivati».
A quelle parole, Amelia provò la sgradevole impressione
d’essere oggetto di sguardi invisibili. Intorno, specchi
riflettevano le loro immagini all’infinito. Girò attorno
al desco di pietra e trovò Corrado all’altro capo, seduto
a terra. Gli si inginocchiò accanto, prendendolo per mano.
«Ci ha fatti morire di spavento. Isadora è corsa a chiamarci quando è sparito nella cripta».
Lui abbozzò una smorfia pentita.
«Mi dispiace molto» disse, chinando il capo fino a farsi
scivolare via dal naso gli occhiali neri. «Mi dispiace».
Una goccia bagnò la mano della donna. Le lacrime scendevano copiose lungo la pelle raggrinzita e fra le palpebre vuote.
«Corrado, si calmi. Va tutto bene. La porteremo via di qui».
«Mi ha mentito» disse, levando il volto in cerca di qualcuno che non era l’Archimaga.
«Cosa?!» esclamarono all’unisono lei e l’elfo, esterrefatti.
Come poteva il Duca dire una cosa simile? Era un’assurdità
almeno quanto lo era immaginare Jarvis cordiale ed affabile.
«Ha mentito ad entrambi. Lo capisci?» insisté,
piegando il capo in direzione del maestro di corte, di cui aveva
percepito la presenza.
Stava in piedi, quasi contro la parete. Una parete su cui non c’era alcuna traccia della sua figura.
«Jarvis, non ho potuto… non posso più… ci ha ingannati per tutto questo tempo».
«Si può sapere di cosa sta parlando, Corrado? Io non le ho mai mentito!»
Il mago scosse il capo, coprendo la mano con la sua.
«Perdonami, Amelia. Perdonami» si scusò con voce
rotta. «Non è di te che parlavo. Anzi, non solo tu non hai
colpa alcuna in questa storia, ma mi sei stata immensamente
d’aiuto per tentare di venirne a capo. Ben più di quanto
tu creda. Purtroppo, ciò che è accaduto, non può
essere riparato come speravo».
Nel frattempo, Angheledrior si era avvicinato al tavolo, studiando
ciò che lo ricopriva. Non era polvere. Assomigliava alla cenere
spenta di un camino, fredda e sbiadita dalla fiamma. Qua e là
sporgevano schegge annerite, pezzi di carta, resti di una catenina e di
quello che sembrava un orologio da taschino. Vi intinse la punta del
dito, ritraendola subito dopo, disgustato e frastornato.
«Cos’è questa robaccia, padrone? Sa di… morto».
Non udì la risposta. Venne scaraventato a terra con tale violenza da perdere il respiro per qualche secondo.
Quando riuscì a prendere fiato e voltarsi, vide una scena a cui
mai si sarebbe aspettato di assistere: Jarvis aveva gettato i guanti ed
affondava le mani in quella secca putredine. Aveva l’aria di chi
cercava disperatamente un caro ricordo che temeva perduto per sempre,
quasi ne dipendesse la propria vita. Spruzzi di cenere e rimasugli
indefiniti cadevano volteggiando a terra.
«Non cambierà nulla, Jarvis» disse Corrado, ascoltandolo frugare sul tavolo.
Amelia si alzò, scrutando la superficie di pietra. Ora che la
guardava meglio, si rendeva conto di quanto somigliasse ad un’ara
sacrificale.
«Corrado, cosa…»
«È una lunga e vecchia storia, Amelia. Una storia di cui,
ormai, io e Jarvis siamo gli unici testimoni» rispose, intuendo
la sua domanda. «Sacrifici inutili e sciocchi, dettati dalla
gelosia e dal delirio d’onnipotenza. Ma non è questo il
luogo per parlarne» concluse, facendo leva sul bastone per
rimettersi in piedi.
Mentre parlava, il maggiordomo s’irrigidì, sbarrando gli
occhi su quanto teneva fra le dita tremanti. Frammenti gialli, che
emanavano un impercettibile alone magico.
«Lascia quella roba» gli intimò Ang, allarmato.
C’era un che di arcano in quelle misere cose, qualcosa che gli diceva che non andavano maneggiate.
Jarvis scosse la testa, ammutolito. Rigirò i pezzi con orrore e
disperazione. Non poteva credere che stesse accadendo davvero. Non a
lui.
Un gridolino strozzato rimbalzò sugli specchi.
«Jarvis! Lei… lei ha un… un buco sulla schiena!» esclamò atterrita l’Archimaga.
Gettò un’occhiata da sopra la spalla, ma la parete gli
rimandò l’immagine di un grosso gatto grigio, abbarbicato
sul bordo del tavolo. Una coppia di topazi baluginava pallida e vuota
nel muso. L’animale si girò di scatto, soffiando
silenzioso negli specchi, il pelo ritto sulla schiena inarcata.
Chiedo perdono per il ritardo, di solito pubblico prima, ma è un
periodaccio col lavoro e i regali da andare a comprare... Comunque
tranquilli: risponderò a tutte le recensioni che DOVETE
lasciare! ^^
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Capitolo 29 *** Tavola XXVIII - Soglie ***
Tavola XXVIII - Soglie
«Perché non ci sei tu? Cosa c’entra quel gatto?» chiese l’elfo, portandosi accanto all’Archimaga.
Vedeva sé stesso, la donna, il Duca. E un gatto grigio che gli
ricordava Galileo, con la differenza che il soriano non aveva due
topazi nel cranio. E cos’era quel piccolo pozzo che sprofondava
nel suo corpo senza lasciar uscire una sola goccia di sangue?
Il maestro di corte non gli prestava attenzione: era tornato ad
analizzare le schegge gialle emerse dalla cenere. Le labbra sottili
vibravano e tacevano, inseguendo il riverbero appena visibile che
emanavano. Si curvò sul tavolo, respirando con tanta foga da
sollevare sbuffi grigi e densi.
Dove la ricerca del servitore aveva spostato la patina,
s’intravvedevano delle linee scure. Tratti di un disegno, che
all’Archimaga
ricordò gli studi antropometrici di alcuni designer. Pareva che
qualcuno avesse inciso una specie di tavola anatomica – sebbene
stilizzata – nella tavola. Ripulì un breve tratto,
scoprendo un sopracciglio, parte della fronte, dei capelli. No, non si
trattava di uno studio anatomico. Assomigliava ad una lastra tombale
contenente il ritratto del defunto. Ma che senso aveva? Che fosse stata
divelta da un sepolcro ed utilizzata per compiere riti di magia nera?
Lì dentro?
La sola idea d’aver avuto in qualche modo a che fare con faccende
del genere la sconvolse. Era blasfemia, eresia della peggior specie!
Dubitava esistessero preghiere o riti in grado di cancellare le tracce
di quegli abomini.
«Amelia, cara, vorresti togliere la mano di lì? Non riesco a vedere» domandò il Duca.
Amelia abbassò perplessa lo sguardo sul tavolo, mentre spostava
lentamente il palmo, trascinando via un mucchietto di residui. Al di
sotto della superficie lucida e fredda, come incastonata nella pietra,
una pupilla bruna la fissava. Poco più in là ce
n’era un’altra identica.
Cacciò uno strillo, balzando indietro, fin contro gli specchi.
Onde molli si propagarono nei pannelli, quasi fossero fatti
d’acqua. Le immagini si confusero, distorcendosi. Scintille
dorate sprizzarono nell’aria, tracciando una finissima ragnatela
attorno al maggiordomo ed alla tavola di pietra.
«Chissà perché immaginavo nera la montatura dei
tuoi occhiali. Verde ti dona decisamente di più» disse
Corrado, risistemando le lenti nere sul naso.
Con andatura dondolante, l’anziano mago si avvicinò
all’uomo, che aveva ripreso a frugare nella cenere, imbrattandosi
come un bambino.
«Jarvis» chiamò, poggiandogli una mano sulla spalla.
Lo ignorò. Aveva l’espressione di un invasato. Una foga allucinata traspariva dal volto tirato.
«Figliolo, è inutile. Non troverai ciò che cerchi. Lo sai bene quanto me».
Già tempo addietro gliel’aveva detto. Eppure, nella sua
cocciutaggine, non gli aveva creduto. Ma si trattava di ostinazione o
di speranza? Jarvis conosceva il significato di quella parola? Non ne
aveva idea.
Tese il braccio e raccolse i frammenti tanto preziosi per il maggiordomo. Solo allora lui parve accorgersi della sua presenza.
«Il raughbar è
perduto. Non potrete ricongiungervi» sospirò, mostrandogli
come neppure un incantesimo riuscisse a ricongiungere i pezzi.
«È colpa mia, avrei dovuto capirlo. Mi dispiace,
figliolo».
Lo stregone era sincero. Dover dare quella notizia a Jarvis lo feriva
profondamente. Aveva tentato invano di recidere il laccio che lo legava
ad un destino che reputava ingiusto. Le sue sparizioni, i suoi studi,
le lunghe ore di meditazione. Tutto inutile. Benché non gli
spettasse, aveva deciso di assumersi la colpa di ogni cosa.
«Dispiace?» tuonò il maggiordomo, riavendosi all’improvviso.
Le parole emerse dalla sua gola erano talmente cariche di sbigottimento e rabbia da ricreare onde negli specchi.
«Dispiace?!» ripeté furioso. «Io sono
condannato a questo!» e premette le mani sul petto ansimante.
Corrado annuì, facendo un cenno per calmarlo. Le iridi brune si velarono di pietra, rattristate.
«Lascia che ti spieghi…»
«Spiegare? E cosa?» domandò, svuotato. «Questo
ero io! Avevamo un accordo! Un vincolo! Dovevo tornare libero! Io
morirò!» gridò, schiacciando sulla tavola le
schegge del raughbar.
Crollò sulle ginocchia, le braccia stretta attorno al capo in un inutile tentativo di difendersi dal destino.
«Ma che succede? Tu ci capisci qualcosa?» bisbigliò Ang.
Lei annuì lentamente, le mani premute sulle bocca. In un
secondo, decine di tasselli avevano improvvisamente trovato il loro
posto e molti altri erano saltati in aria. Lampi di chiarezza e tenebre
di confusione si susseguivano rapidamente nei suoi pensieri.
«Fragolina?» la incitò timidamente, cingendole i fianchi.
Il contatto col suo corpo la risvegliò un poco. Si sforzò di deglutire, per ritrovare la voce.
«Credo… credo che Jarvis sia un demone».
«Cosa?!»
«Sì, il… raughbar è anche detto… cuore demoniaco.
È una pietra-talismano, dove è racchiusa l’essenza
del demone. Più il demone è antico, più il raughbar
è difficile da separare dallo spirito e da distruggere. E
quei… dischi di bronzo erano… lo legavano… alla
villa. Ma… non avrebbe dovuto potersi muovere o
allontanare… doveva esserci rinchiuso… Io… non
so…»
Erano talmente tanti i dettagli, gli elementi, che riunirli in un filo
logico era quasi impossibile. Quando credeva d’averne individuato
uno, lo sentiva spezzarsi. Aveva letto troppo poco nei testi di Demonologia per conoscere le implicazioni della separazione di uno spirito dal suo cuore.
«Allora è per questo che non voleva gli guardassi l’aura. I demoni non l’hanno».
Tutto d’un tratto, Angheledrior scoprì di aver vissuto per
decenni a fianco di una creatura – perché non poteva
più definirla persona a quel punto – di cui non
riconosceva nulla. Persino la sua immagine era divenuta nuova ed
estranea, pur essendo rimasta la stessa.
«Attenti a come parlate» ringhiò il servitore,
puntando l’indice contro di loro. «Io non sono “un
demone”. Io sono un marid! Un signore degli spiriti! La mia stirpe governa questo mondo da prima ancora che prendesse forma!»
«Jarvis, non lo sei più, da molto tempo» lo corresse
tristemente il Duca. «E non tornerai ad esserlo».
***
«Mio padre ci ha ingannati» disse Corrado, tornando ad accoccolarsi a terra.
La stanchezza per le lunghe ore passate fra tentativi
d’incantesimi affrancatori ed il mancato riposo, l’avevano
indebolito.
«È passato così tanto tempo da allora, che
supponevo di aver dimenticato molti dettagli di quegli eventi. Invece
non è così».
Amelia s’inginocchiò di nuovo al suo fianco, spaventata ed ansiosa di sapere.
«Corrado… cosa sta succedendo? Questo posto, chi
l’ha creato? Cosa sta succedendo a Jarvis? Sempre che si chiami
così…»
L’uomo annuì stancamente all’ineluttabilità
degli eventi. Le vecchie spalle non erano in grado di sostenere oltre
quel peso. Un peso che non avrebbe dovuto esservi posto, mai e poi mai.
«No. In effetti voi avete visto solo un’ombra del vero
Jarvis Alden Carew» confermò. «Quella polvere sul
tavolo, i pochi resti anneriti. È ciò che resta del vero
Jarvis, il mio precettore».
Un brivido percorse i presenti. Gli sguardi corsero alle mani del maggiordomo, affondate nella cenere.
«Allora ero solamente un ragazzino di dodici anni con un
precettore severo e brillante. Un inglese, che mio padre aveva
conosciuto durante un viaggio a Londra. Era un mago come noi, ed
estremamente abile. Nonostante ciò, aveva scelto di dedicarsi a
coltivare giovani menti».
Ricordava bene l’altero precettore, camminare nella biblioteca
declamando con attenzione i passi dei testi, tracciando prima
nell’aria e poi su carta complessi intrecci di formule magiche.
Sapeva trasmettere passione con ogni gesto, in ogni sillaba.
«Mio padre lo assunse sulla scorta della profonda impressione che avevano suscitato in lui gli studi di Demonologia
di cui Carew si occupava a tempo perso. Da quando vivevamo a Villa dei
Gelsi, mio padre non aveva fatto altro che tentare d’imbrigliare
più saldamente l’entità che vi era stata racchiusa.
Come avrai letto, i vincoli che legano i demoni ad un edificio, come le
Catene Romane, hanno una scadenza, oltre la quale allo spirito è consentito di ritirarsi».
Il tonfo sordo di un pugno che si abbatteva sulla pietra lo interruppe.
«Ero stato attratto qui con l’inganno. Esseri inferiori si
erano fatti beffe di me! Di me! Mi avevate imprigionato per secoli con
incantesimi e sacrifici che mi placassero, ma non vi bastava
più!» esclamò, stringendo nel palmo ciò che
restava del suo cuore.
Un gioiello che nelle epoche lontane aveva domato anime e distrutto
regni, ora non poteva neppure ricongiungersi all’altra
metà di lui.
«A mio padre non bastava» specificò Corrado. «Ripeteva che era uno spreco, limitare un marid entro quattro mura. Desiderava porre a suo servizio ogni stilla di potere disponibile ed inutilizzata».
Fece una breve pausa, ricordando i lunghi e feroci dibattiti che
animavano le serate tra il genitore e l’insegnante. Discussioni
che terminavano tra porte sbattute con frustrazione e grida di collera.
«Jarvis si opponeva, trovava le richieste di mio padre pericolose
ed avventate. Ma non poté sottrarsi alla sete di conoscenza che
l’attanagliava. Cominciò a lasciarsi trascinare, a tentare
ogni genere d’esperimento per scindere dalle mura la presenza che
vi era rinchiusa. Io, giovane ed inesperto, immaginai la
grandiosità del progetto e diedi il tormento al mio precettore,
perché mi coinvolgesse. Jarvis era titubante, non mi riteneva
pronto, ma mio padre lo convinse della mia utilità. Non potevamo
sapere quali fossero i suoi piani. Già in quel momento, le sue
menzogne ci avevano condannati» sospirò, stringendo con
mani tremanti il bastone.
Il maestro di corte s’immobilizzò per un istante.
«Libero… volevo tornare ad essere libero. Essere
ciò che ero sempre stato. E punirli dell’oltraggio subito
per quattro secoli».
I pochi frammenti ancora vivi del raughbar rilucevano debolmente in mezzo agli altri, anneriti ed inesorabilmente perduti, morti.
«Direi… che siete riusciti nell’intento»
mormorò Amelia, lanciando sguardi fugaci al maggiordomo
allungato sulla tavola di pietra, alla disperata ricerca delle ultime
schegge del proprio cuore.
Sapere di aver avuto a che fare con una creatura di tale immane potenza
le dava le vertigini. Come si sarebbe comportata, se fin
dall’inizio lui si fosse palesato per ciò che era? Avrebbe
avuto il coraggio di insistere su certe questioni? Si sarebbe azzardata
a tenergli testa? Probabilmente no. Allora perché sia il Duca
che Jarvis avevano taciuto?
«Non esattamente. L’intento di Jarvis era di liberare il marid,
continuando a soggiogarlo, imponendogli la propria volontà
costantemente. Fu per questo che scelse di tentare la strada dell’Incarnazione».
«Fui io a suggerirla» sibilò acido il servitore.
«Quello sciocco mi stava concedendo una possibilità di
fuga senza rendersene conto. Era così preso dalle sue stupide
ricerche che fu quasi inutile far leva sul suo orgoglio di
studioso» soggiunse, calcando con spregio sulla parola studioso.
Parlava a capo chino, nascosto dai capelli scuri, la voce tagliente di disperazione.
Era talmente ridicola l’espressione che aveva avuto
quell’umano quando, parlandogli attraverso lo specchio -lo stesso
specchio che avevano attraversato per giungere lì -,
l’aveva indotto a credergli e a percorrere quella via. Era
bastato dargli l’imbeccata, per spingerlo a credere d’aver
scoperto “un metodo”. Assurdità. Un marid
libero era in grado di compiere quella metamorfosi a proprio
piacimento. A lui occorreva solo uno spiraglio, per potersi svincolare
e compiere la propria vendetta. Sarebbe stato quel mago a fornirglielo,
o così aveva inutilmente sperato.
«Parlare con te lo convinse di possedere le chiavi per gestire un
potere immenso, ed in qualche modo, aveva ragione. Trovaste il modo di
sottrarti in parte all’incantesimo che ti legava alla
villa» proseguì Corrado, intuendo i suoi pensieri.
«La Catena Romana» intervenne l’Archimaga, ma Corrado scosse il capo.
«No, mia cara. Chi per primo imprigionò lo spirito, fece molto peggio. Gli strappò il raughbar e lo relegò qui dentro, prima di trasferire ciò che restava dello spirito entro le mura».
Le rughe s’infittirono dolorosamente sul volto del mago. La donna
intuì che in quel che non diceva si nascondeva un segreto troppo
grande per poter essere rivelato.
«Ma… i sigilli di bronzo… sono tipici delle Catene» obbiettò a malapena lei.
«Non quelli. Amelia, conosci troppo poco della Demonologia
per essere in grado di distinguere i vari sigilli atti ad imbrigliare i
poteri di uno spirito furioso ed etereo. Quelli che hai trovato, lisci
e privi di iscrizioni, li mise mio padre. Fanno parte
dell’incantesimo che studiò per liberare il marid».
Dunque aveva frainteso il senso di quei vincoli. Con una punta di
tristezza, dovette costatare la pochezza del proprio sapere ed il
desiderio bruciante di apprendere, anche se la materia era fuori della
sua portata.
«Jarvis, da ricercatore coscienzioso qual’era, decise di
procedere per gradi. Suppongo non si fidasse del tutto del suggerimento
ricevuto e comunque, era un tipo troppo prudente per azzardare. Il
primo corpo che diede al marid
perché potesse incarnarsi, fu quello di un gatto randagio. Non
avrebbe corso alcun rischio, concedendogli d’incarnasi in un
animale relativamente innocuo».
«Quel gatto?» domandò Ang, indicando il riflesso all’altro capo della stanza.
«Esattamente, Angelo».
Lo stalliere trasalì.
«Dimmi che non sei imparentato con Galileo» fece, fissandolo di sbieco.
Il maggiordomo tacque, seguitando le ricerche nella cenere.
«Lo prendo per un no. Ti ringrazio da parte sua. Quella povera bestiola non merita…»
Non concluse lo sberleffo, zittito dall’apprensione di Amelia.
Cominciava a temere le reazioni della figura vestita di scuro. Corrado
aveva detto che non era più un marid, ma se si fosse sbagliato?
«Come l’avevano… preso?» cercò d’insistere lei.
Aveva il sospetto che senza conoscere quel dettaglio, non avrebbero capito molto di quel che stava accadendo.
«Il marid era stato
imprigionato nel Cinquecento, poco dopo l’edificazione del
palazzo, usando un rito terrificante. Un rito da rinnovarsi ad ogni
successione ereditaria e che non poteva essere interrotto, onde
mantenere costante il legame con l’entità».
Di nuovo prese tempo, soppesando le parole.
«Viene chiamato Lapis animae. La pietra delle anime» e toccò l’ara con la punta del bastone.
Angheledrior rabbrividì sentendo quelle parole, come se
l’aria si fosse riempita di neve e ghiaccio. Amelia non
aveva mai letto nulla di tanto inquietante.
«Un sacrificio, per mantenere relegato lo spirito.
Nell’antichità era uno dei rituali più diffusi tra
gli stregoni. Cosa che ci inimicò rapidamente la Chiesa. Non
posso certo biasimarli, dovevamo sembrare dei pazzi assetati di
sangue» considerò fra sé. «Per secoli, il
nuovo padrone di casa ha compiuto un sacrificio su questa lastra,
immolando un parente stretto. Possibilmente un figlio».
«Sì» confermò il servitore, ancora curvo
sulla cenere. «Sangue del proprio sangue in cambio
dell’obbedienza».
I suoi ansiti ricordavano quelli di una belva affamata.
«Nei suoi studi, Jarvis scoprì che non era necessaria la
morte della vittima sacrificale. Era richiesto solo il sangue per la
riuscita del cerimoniale. In nessun testo si utilizzava la parola
“vita”. Lo comunicò a mio padre, che però non
parve soddisfatto di quanto scoperto fino a quel momento».
Quanti insulti, quanti strepiti aveva udito quel giorno. E Jarvis aveva incassato ogni parola senza fare una piega.
«In forma animale, il marid
era vincolato da un unico sigillo, ma nonostante ciò era
impossibilitato ad impiegare i propri poteri. Aveva bisogno di un corpo
diverso, in grado di lasciar fluire e dominare la magia. Ed il corpo
umano era perfetto per lo scopo. Cosa che ovviamente, comportava un
numero maggiore di sigilli per impedirne la fuga» spiegò,
le labbra curvare in una piega sempre più amara. «Credo
che mio padre abbia scoperto allora questo posto».
«Vuol dire che esisteva già?» domandò Amelia, guardando intorno in cerca di uno stemma araldico.
«Sì, mia cara. Deve averlo creato il fondatore della villa, approfittando dei limiti imposti dalla Lapis animae, che esclude alcuni spazi come il cortile interno dall’influsso e dagli sguardi del marid.
È una pessima idea, quella di permettere ad uno demone, di
qualunque livello, di ficcanasare ovunque, specie se lo vuoi dominare.
A questa stanza non si accedeva dal percorso che abbiamo seguito. Un
tempo l’ingresso era altrove. Suppongo sia stato spostato dopo
quella notte».
«Quale notte? Quella in cui…»
«Per l’appunto» annuì.
Aveva intuito subito i suoi pensieri. Sì, parlava proprio della notte in cui aveva perduto la vista.
«Sì. Quella notte infame» ringhiò il
maggiordomo, gettando a terra le ultime manciate di cenere rimasta.
«Mio padre convocò me e Jarvis nel suo studio, con la
scusa di parlarci di un’importante scoperta. Ci fece attraversare
lo specchio e ci ritrovammo qui fuori. Ci spinse ad entrare
e…»
La voce tremò ed alcuni colpi di tosse lo ridussero ad un affannoso silenzio.
«E?» cercò d’ insistere l’elfo, preoccupato.
«Accadde in pochi attimi. Mio padre ci fece disporre ai due lati
della pietra. Cominciò un incantesimo, che ci lasciò
intorpiditi ed in balia della sua scelleratezza. Uccise Jarvis,
approfittando della debolezza che lo pervadeva da qualche tempo.
L’attimo dopo toccò ai miei occhi» concluse con un
singhiozzo strozzato, mentre le mani tremanti salivano a tastare le
palpebre vuote.
«No. No, un attimo» lo interruppe Amelia, confusa.
«Corrado i vostri occhi… sono… sono là
dentro! Nella pietra!»
«Mi rendo conto che non è facile capire» concordò.
«È impossibile! Corrado, che cos’ha fatto suo padre?
Che motivo aveva di uccidere il suo precettore? Non posso credere che
l’abbia fatto per… per… gelosia
professionale!»
«No, infatti» s’intromise il servitore.
Il gatto grigio negli specchi stava sull’ara inarcato e col pelo
ritto. L’uomo invece era in piedi, impettito e gelido, intento a
fissare le linee scure nella pietra, che riproducevano il ritratto del
defunto precettore.
«Era solo brama di potere. Aveva letto gli appunti
dell’inglese, era scomparso più volte in un luogo che non
potevo controllare e di cui mi impediva di fare cenno a loro»
sputò, indicando il Duca. «Aveva capito come
ottenere ciò che desiderava: una marionetta piegata al suo
volere. Non poteva darmi un corpo qualunque. Doveva essere in grado di
ospitarmi senza fare resistenza. E quello dell’istitutore,
provato dall’insonnia, era perfetto. Mancava solo una cosa: il
legame che avrebbe spezzato la mia volontà».
Corrado riprese a parlare.
«Il sortilegio che mio padre creò per incarnare il marid prevedeva quattro Sigilli Muti
posti sull’edificio, così che vi restasse legato. Quelli
che hai trovato durante i rilievi. Altrettanti erano collocati nel
corpo della vittima, affinché i poteri imprigionati nelle pareti
potessero passare da queste al corpo. I miei occhi, sacrificati al
volere di mio padre, furono incastonati nella lapide, perché
assoggettassero lo spirito. Ma il passaggio più delicato era
l’infiltrazione della carne nel marid».
«Il corpo nel demone? Non il contrario?» domandò Ang, perplesso.
«No, Angelo, l’opposto. Mio padre depose il corpo di Jarvis
sulla tavola, dopo avervi inciso la sua immagine. Gli specchi di
mercurio intorno a noi, avrebbero trasferito i tessuti allo spirito
incorporeo, rendendolo… umano. Il buco che porta sulla schiena
è la prova che il processo è ancora incompiuto».
«Lo fermi, allora!» gridò il servo, afferrandolo per
le spalle. «Non voglio morire per mano vostra!»
L’anziano sospirò, poggiando una mano sulle sue. Comprendeva la sua angoscia, ma non poteva aiutarlo.
«È troppo tardi. Per anni ho riletto gli appunti di mio
padre, senza trovare traccia di errori. Solo qualche tempo fa, dopo il
problema delle piogge, ho capito che qualcosa non andava. Mio padre ha
volutamente commesso un errore».
«Quale?»
«Ha scritto che per essere libero, avresti dovuto attendere fino
al 2014, quando il sortilegio avrebbe perduto efficacia. Prima di
allora, il corpo di Jarvis non avrebbe terminato di ricomporsi.
È qui che ha mentito. Lui ha fatto in modo di camuffare la data
del 2011, in cui la salma sarebbe scomparsa, con il 2017. È
stato sufficiente un incantesimo da bambini, per fuorviarci per
decenni. Entro poco tempo, sarà tutto concluso».
«Vuole dire che se Jarv… cioè, se lui termina di
diventare umano adesso, non potrà più svincolarsi?»
«No, Ang. Credo intenda che cesserà di essere un marid» rispose Amelia.
Provava compassione per il maggiordomo o chiunque egli fosse. Lo
avevano cambiato contro la sua volontà, lo avevano resto un
altro.
«Ho tentato di recidere i fili che vi uniscono. Ho tentato»
ripeté addolorato, richiamando a sé il pugnale forgiato
da Gromi.
Il filo della lama era smangiato e scheggiato. La rete che li univa era
troppo potente, aveva lavorato per troppi anni, suggendo le forze del raughbar, arrivando a distruggerlo mentre creava qualcos’altro.
«Non sono mai stato in grado di impormi su di te, figliolo. Non
l’ho nemmeno desiderato. Forse eri troppo potente per sottostare
al mio volere o forse qualcosa nell’incantesimo è andato
storto e tu hai vissuto da uomo libero al mio fianco. O, più
semplicemente, ti volevo affrancato almeno quanto lo desideravi tu
stesso. Ma ci ha ingannati, ci ha mentito. Ed io non posso più
aiutarti» sospirò affranto
Jarvis si volse, scrutando la trama di scintille che solo lui poteva
scorgere. Gli ultimi avanzi di quella vita spezzata se ne andavano
insieme ai resti del suo cuore e di ciò che era stato. Si
avvicinò barcollando alla lastra, gli occhi sbarrati. Il gatto
zampettava rigido sulla pietra. Non parlò. Non accennò a
voler distruggere nulla. Ripercorse il ritratto più volte,
tentò ancora di riunire i frammenti.
«Venite, usciamo da qui» suggerì Amelia, prendendolo per un braccio.
Il maggiordomo si lasciò trascinare fuori, seguendo lo stalliere che sorreggeva il padrone.
Visto che ci approssimiamo al Natale, tanti auguri a tutti i lettori e recensori!
Su, fatemi un regalino e lasciatemi una marea di commenti sotto l'albero!
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Capitolo 30 *** Tavola XXIX - Rivestimenti ***
Tavola XXIX - Rivestimenti
Odiava quel soffitto bianco e piatto. Vederlo ogni mattina la metteva di pessimo umore.
«’giorno, capo» trillò una vocina poco lontano.
Si rigirò sotto le coperte, dissimulando un sospiro abbattuto
con uno sbadiglio. Il rondone era appollaiato sulla ringhiera del
soppalco, dondolando la coda forcuta nell’aria. Il Consiglio degli Archimaghi
le aveva assegnato quell’appartamento - modernissimo, luminoso,
particolare ed asettico quanto una stanza d’ospedale - che lei
avrebbe volentieri scambiato con la catapecchia in cima alla scala di
Gromi. Qualunque cosa, pur di tornare indietro, in quelle stanze
altissime e variopinte, che erano un po’ troppo fredde in quella
stagione.
«Buon giorno, Vorticillo. Che giorno è?» chiese, strizzando gli occhi alla luce opaca del mattino.
Non c’era verso. Le sveglie mattiniere stavano diventando un
lontano ricordo, come pure il piacere di starsene al calduccio sotto le
coperte. Ogni bella sensazione provata in passato stava evaporando
sotto i raggi della malinconia. Dov’era Isa che la svegliava a
suon di carezze con le sue manine ghiacciate?
«Uno in meno di ieri, uno in più di domani all’eternità» declamò l’Aquilone, gonfiando il minuscolo petto piumato.
«Non dovevo leggerti le massime di Suor Caterina» disse, nascondendo il volto nel cuscino.
I libri. Le due biblioteche della Villa. Immensi scrigni di conoscenza,
delle cui pagine aveva letto si e no un millesimo. Sotto di lei,
accanto all’entrata, c’era una libreria praticamente vuota.
Era incapace di riporre i suoi volumi di Archimagia sui ripiani di cristallo.
«Sul serio, che giorno è?» chiese di nuovo.
Udì un veloce frullo d’ali andare e venire. A Vorticillo
non dispiaceva quell’appartamento a doppia altezza, tuttavia
doveva ammettere che volare sopra il giardino di Villa dei Gelsi era
più appagante. Sempre che si evitasse di considerare i gatti.
«Uno e nove prima, uno e due dopo. L’altro numero è
troppo lungo» borbottò rifilando un’occhiataccia al
calendario sulla scrivania di sotto.
Continuava a faticare con la matematica, anche se aveva trovato un
sistema per leggere le doppie cifre. Solo quelle con l’uno
davanti.
Diciannove dicembre. Erano passati quasi sei mesi da quando Jarvis
l’aveva allontanata dalla dimora dei Frasca di Cortenova. Sei
mesi durante i quali aveva sentito d’essere tornata a camminare
su quello scomodo confine che divideva le due realtà di cui
faceva parte. E quel muoversi in bilico l’aveva spinta a
riflettere in continuazione sul dolore di Angheledrior, il suo non
sentirsi mai completamente parte di un mondo, il bisogno di appartenere
a qualcuno per sentire di esistere, di essere vivo.
«Come la volpe del Piccolo Principe» mormorò fra
sé, mentre si metteva a sedere, le ginocchia strette contro il
petto.
Aveva sempre ritenuto fosse un passaggio inflazionato di quel
libriccino, ma solo in quei mesi si era resa conto del suo significato.
Non passava attimo senza che pensasse a quanto era accaduto. Dedicava a
quei ricordi almeno una ventina di minuti appena sveglia, ed ore ed ore
prima di addormentarsi.
***
Erano trascorsi alcuni giorni, da quando avevano appurato la
verità circa il maestro di corte ed il patto scellerato che
aveva privato Corrado della vista e dell’ammirato precettore.
Il Duca, sfinito, aveva trascorso intere giornate a letto in un
continuo dormiveglia. Al suo fianco si erano alternate le cameriere,
Amelia e persino Romilda. Isadora andava e veniva in punta di piedi,
dimentica della solita allegria. Jarvis si era rinchiuso nei suoi
alloggi, barricato in un ostinato silenzio. Il palazzo stesso sembrava
svuotato. A tavola e negli angoli si parlava con tono non più
alto di un respiro, quasi ci si aspettasse lo scatenarsi di potenti
forze occulte da un momento all’altro.
L’Archimaga e lo stalliere erano scesi una seconda volta alla pigna. Usando la Lente di Kress,
che era stata prodotta per la verifica delle fondazioni, erano riusciti
a scorgere, seppur debolissimi, i filamenti incantati che ancora
legavano i due Jarvis.
«Credi che lo senta? Che soffra?» aveva chiesto ad Ang,
allungando la mano in quel reticolo che non poteva percepire in alcun
modo.
«L’hai mai visto provare dolore per qualcosa? A parte
quando ha avuto quella reazione allergica alla tua pozione?»
«No».
Probabilmente, il loro Jarvis non avvertiva alcun tipo di dolore, se
non quello derivato dalla nuova condizione umana che andava acquisendo
stabilmente. Condizione che seguitava a rifiutare.
Appena il Duca aveva mostrato un tenue miglioramento, Amelia aveva
cercato di chiarire con lui alcuni dubbi sul servitore e su ciò
che li attendeva. Pensare che il mago potesse accollarsi il peso di
futuri eventi la metteva in allarme: aveva già fatto troppo per
tentare di liberarlo, la sua salute precaria ne era la prova.
«Isadora vedeva il passaggio. Per lei era come una porta
qualunque e l’attraversava senza problemi, scatenando
l’onda luminosa che Francesca e Luisa vedevano di tanto in tanto.
A noi, esseri in carne ed ossa, occorreva una chiave» aveva
spiegato il Duca con la bocca impastata dalla stanchezza. «Ho
trovato i dettagli della sua realizzazione fra gli appunti di mio
padre, e così, l’ho potuta affidare a Gromi. Ha adoperato
una lega di sua invenzione, molto adatta a questo genere di manufatti.
Vorrei poterla studiare meglio, col suo aiuto».
«Ma come ha fatto Jarvis a non sentirla mentre attraversava quel varco?» aveva domandato l’Archimaga, aiutandolo a prendere un sorso d’acqua.
Possibile che quell’uomo riuscisse a pensare ai suoi studi anche in quel momento?
«In primis, il passaggio era nascosto appena oltre il pelo del Lapis Animae, dunque illeggibile ai suoi poteri. Secondo, aveva sparso per tutta la villa dei Nodi di Stewart, prima che verificassi l’esatta ubicazione del portale».
Si trattava dei minuscoli scarabocchi che Isadora gli aveva visto fare
sulle pareti. Grazie a quegli ideogrammi aveva creato un ulteriore
limite all’occhio attento del maggiordomo.
«Una volta oltre, non ho avuto più bisogno di sotterfugi
per nascondermi alla sua vista. Così ho potuto agire
indisturbato. O almeno, era ciò che credevo» aveva tossito
sistemandosi sui cuscini, aiutato dalla donna. «Nonostante le tue
riflessioni, che ho carpito dalle nostre conversazioni ed origliandone
altre – spero perdonerai che l’abbia fatto, per poi
sfruttarle senza fartene accenno -, l’incantesimo ideato da mio
padre era troppo potente, ed avanzato negli effetti, perché
potessi scioglierlo. Temo che il nostro mastro di fucina avrà
parecchio da ridire sullo stato di quello splendido pugnale»
aveva sospirato tra un rantolo e l’altro.
«Cosa accadrà, ora? A Jarvis, intedo».
C’era stata una venatura d’apprensione nella sua domanda,
cosa che, in qualche modo, aveva fatto piacere a Corrado. Il mago aveva
taciuto. Era impossibile avanzare certezze assolute nel campo della
Demonologia.
«Non saprei. Credo sia la prima volta che un demone perde la sua
natura per assumerne un’altra in maniera irreversibile»
aveva detto rabbuiandosi. «Povero Jarvis. Avrei dovuto immaginare
che mio padre non fosse uomo da concedere la libertà a
ciò che riteneva di sua proprietà ed una sua creazione,
soprattutto. Ha ingannato Jarvis, me. Ingannava i braccianti, gli altri
maghi, mia madre. Cosa potevo aspettarmi? Per decenni sono rimasto
fermo nelle mie convinzioni di figlio, invece di guardare in faccia la
realtà che ben conoscevo».
Era stata una confessione amara, benché doverosa. L’ammissione di aver fallito per affetto filiale.
Un pomeriggio, il maggiordomo aveva fatto il suo ingresso nella stanza dove si trovava l’Archimaga.
I lavori erano ripresi a fatica, dopo tutto quel trambusto. Le era
andato in contro impettito come d’abitudine, gli abiti in
perfetto ordine, la solita sprezzante alterigia sul volto scavato.
«Jarvis… c-come si sente?» aveva tentato di chiedere
lei, ma le parole avevano faticato a formarsi nell’aria.
Qualcosa nell’aspetto del servitore le aveva dato i brividi. Una
scossa sottile e silenziosa aveva trapassato l’aria.
L’aveva osservato sfilare i guanti e mostrarle i palmi.
«Guardi» aveva ordinato.
Erano ustionati e si distingueva chiaramente un margine circolare.
Aveva abbassato le palpebre, trattenendo il fiato per l’orrore.
«Guardi» aveva ripetuto, sbottonando la camicia e mostrando un segno identico in mezzo al torace.
Amelia aveva distolto lo sguardo, impressionata dal pulsare della carne viva.
«I sigilli si stanno fondendo con questa carne. Ne stanno diventando parte».
Pareva le volesse rivolgere un’accusa precisa.
«Mi dispiace, Jarvis» aveva detto.
«Non le credo. E non m’importa» ed aveva allungato una mano.
La stanza era diventata buia, la sedia sotto di lei era svanita.
All’improvviso, un senso di vuoto e di caduta l’aveva
travolta. Infine, aveva sentito qualcuno scuoterla senza tanti
complimenti, cercando di farle aprire gli occhi con leggeri schiaffi.
«Signorina? Sta male?»
«Cazzo, ci mancava pure una strafatta!» aveva sbottato un’altra voce.
Erano degli sconosciuti, persone di cui non aveva memoria. Le era
occorso qualche secondo per rendersi conto di star osservando un
selciato sporco e fresco d’ombra. L’aria aveva un odore
pessimo, unto, pesante.
«D-dove… dove sono?» aveva domandato, girando lo sguardo intorno.
A poco a poco, i rumori avevano ricominciato a penetrarle le orecchie.
Auto, chiacchiericci, tubare di piccioni, clacson, grida di ambulanti,
motorini, sferragliare di tram e saracinesche. Era in una città.
A Milano, di fronte alla chiesa di San Pietro, in Corso di Porta
Vittoria. Cosa faceva lì?
«Sta male?»
A chiederlo era uno dei due ausiliari.
«Di cosa si è fatta? Maria? Ecstasy? Crack?»
Era stato quello scorbutico a parlare, un tizio sulla cinquantina e
l’espressione schifata, che pareva averla presa per una
tossicodipendente.
«Dov’è Jarvis?» aveva chiesto, ma nessuno capiva di chi stesse parlando.
Aveva cercato intorno, fra i tronchi degli ippocastani, sui
marciapiedi, lungo i muri dei palazzi, finché l’aveva
scorto, accanto alla bancarella dei libri. Gli era andata incontro con
le mani alla bocca dello stomaco, sollevata nel vederlo ed allo stesso
tempo irritata per quella sorpresa di cui non afferrava il senso.
«Si può sapere che le è venuto in…» ma
la voce roca del vigilante l’aveva fatta voltare: le stava
domandando se le valigie erano sue.
E lo erano. Borsone, baule. Alcuni libri erano stati infilati tra le
cinghie esterne del set da viaggio. Si era voltata di scatto verso il
maggiordomo, allibita.
«È a causa sua che è successo. È colpa sua.
Lei non ha alcun diritto di restare a Villa dei Gelsi. Il suo contratto
si conclude qui» era stata la risposta alla muta domanda sul suo
volto.
Parole piatte, atone e durissime.
«Che sta dicendo? Io non ho fatto nulla, lo sa!» aveva
detto cercando d’avvicinarlo, ma lui era arretrato di un passo.
«Se sono in queste condizioni, è per colpa sua».
«Non è vero, Jarvis!» aveva protestato.
Era rimasto immobile, lei però non l’aveva raggiunto.
L’aveva inchiodata lì dov’era, guardandola dritta in
faccia, spaventandola con l’odio di quello sguardo. Il suo
risentimento era profondo, sincero e totale. Ai suoi occhi, la catena
di avvenimenti degli ultimi mesi derivava dalla venuta dell’Archimaga.
«Non osi rimettere piede a palazzo, o gliela farò pagare
cara» aveva intimato, svoltando rapido dietro la rivendita
ambulante.
«Jarvis!»
Era stato inutile: il maestro di corte era scomparso.
«Jarvis, non puoi farmi questo!» aveva urlato, girando su sé stessa in cerca della figura magra e scura.
Gridare non era servito a farlo tornare indietro, allo stesso modo le
sue lacrime o il lasciarsi cadere in ginocchio sull’asfalto
sudicio del marciapiede. Le era toccato anche pagare una multa per aver
abbandonato le valigie in un’area pubblica.
Quello, per Amelia, era stato l’inizio di un periodo buio. Per un paio di settimane era stata ospite di Enrica, poi il Consiglio le aveva dato una casa, da Archimaga,
in attesa che il suo caso venisse preso in esame. C’erano cose
che nel mondo dei maghi procedevano di pari passo con quello normale:
la burocrazia era una di quelle. Così, le lungaggini per
l’istruttoria della pratica perché potesse riavere il suo
lavoro avevano cominciato a srotolarsi lungo i giorni e le settimane.
Si era ritrovata a fare da assistente a Martini e ad Enrica, prima che
questa decidesse di passarle un lavoretto di poco conto e parecchio
fastidio.
«Sai, per tenerti in allenamento» le aveva detto, ma Amelia temeva che per quanto abili, gli avvocati del Consiglio non avrebbero potuto nulla contro lo strapotere assunto da Jarvis per il convalescente Duca.
***
Poteva perdonare quel semi-umano, semi-marid
o che altro era? La carità cristiana contemplava
quell’opzione? Sperava di no, che ci fosse una clausola che
vietasse di perdonare chi era nato demone, perché davvero non
sapeva trovare la forza per passare sopra quel che le aveva fatto.
Strapparla a quella che stava diventando la sua nuova famiglia era
stata una crudeltà senza pari. Troppo umana per essere
demoniaca. Un marid degno di
quel nome le avrebbe inferto sofferenze atroci, questo sì, ma
avrebbe fatto in modo che qualcuno potesse assistervi. Quel genere di
demoni era noto per la tendenza a mostrare in pompa magna le proprie
opere.
Purtroppo Suor Caterina non aveva potuto esserle d’aiuto come
aveva sperato: al convento le avevano detto che era partita in fretta e
furia per l’Africa, per sostituire una consorella gravemente
ammalata. Aveva tentato di contattarla via mail, ma il computer della
missione veniva messo in funzione solo un giorno alla settimana per
risparmiare elettricità. Senza contare che aveva potuto
raccontarle solo una versione pesantemente censurata della
realtà. Dubitava avrebbe potuto comprendere fino in fondo la sua
disperazione. Nella succinta risposta, Suor Caterina l’aveva
confortata e sostenuta, a prescindere dall’astrusità di
alcune sue spiegazioni. In particolare, l’aveva spronata a non
lasciarsi abbattere dalla situazione:
Ricordati quel che ti ripetevo quando
eri piccola: il Signore ci manda messaggi, ogni giorno. È un
chiacchierone e ha sempre qualcosa da dirci. A volte vuole che
l’ascoltiamo, perché siamo lontani da Lui. Altre, invece,
vuole che diventiamo la Sua mano. Ci dà la possibilità di
realizzare qualcosa di buono, anche se a noi sembra non sia così.
Girò la testa da un lato all’altro, domandandosi cosa ci
fosse di buono in quella soffitta polverosa e buia. L’aria era
fredda e stantia, mossa di tanto in tanto da uno spiffero dello smog di
Milano che scivolava all’interno delle vecchie capriate.
«Andiamo, capo. Mi fai un sorriso? Dai!»
Vorticillo le si era appollaiato sulla spalla e si strusciava contro il
suo orecchio, facendole il solletico. Se non avesse prestato la dovuta
attenzione a quelle moine, avrebbe rischiato di cadere di sotto: era
seduta con le gambe penzoloni nella botola che portava giù, dove
viveva la committente, la signora Schloss. Universalmente nota come
filantropa, la strega aveva costantemente bisogno di giovani di belle
speranze – e poche pretese – che curassero le sue
orripilanti chincaglierie da mostra. Il che, comportava il mantenimento
in buone condizioni dei locali che le ospitavano, cioè la
soffitta.
«Capo, sto aspettando…» la stuzzicò.
Poteva negargli un gesto simile? Vorticillo era l’unico su cui
sentiva di poter fare affidamento. Martini le aveva taciuto il segreto
dell’Assonanza, la sua
famiglia l’aveva dimenticata, Jarvis l’aveva allontanata
dalle persone a cui voleva bene, Enrica le aveva rifilato quella
fregatura. Un elenco di perdite decisamente troppo lungo, per
aggiungervi anche il suo Aquilone. A fatica, un accenno di sorriso le curvò le labbra.
«Senti, direi che per oggi abbiamo fatto abbastanza. Possiamo
andare e prendere un po’ di caldarroste al chioschetto vicino
alla fermata dell’autobus. Ti và?» propose,
grattandogli la testolina.
Vorticillo garrì in approvazione. Le castagne arrostite erano di recente diventate uno dei suoi cibi preferiti.
«Meglio queste o gli occhi di coniglio?» domandò Amelia poco dopo.
«Che domande. Gli occhi!» pigolò risentito.
Erano sotto la pensilina, in attesa del pullman. Vorticillo se ne stava
nella sua ampollina, nascosta in una tasca e stappata, da cui
estrofletteva una voluta di fumo per accalappiare i pezzi di
caldarrosta che lei gli porgeva. Il freddo di dicembre mordeva,
nonostante fosse ben imbacuccata nel giaccone. Non aveva infilato i
guanti per poter sbucciare le castagne. Il cartoccio improvvisato con
un quotidiano lasciava passare tutto il calore accumulato durante la
cottura. Lo sentiva rovente per contrasto con l’aria gelata.
Temeva quasi che incendiasse la carta del giornale. Mentre finiva di
sbucciare una castagna, un pezzetto di buccia le si infilò sotto
l’unghia.
«Cillo? Riesci a tirarla via? Ho le dita intorpidite»
Con uno sbuffo falsamente scocciato, lo Spiritello protese un ricciolo
di vapore e levò la scheggia. Amelia sospirò, osservando
la minuscola briciola annerita. Le aveva fatto malissimo, eppure si
trattava di un nonnulla. Angheledrior avrebbe evitato si facesse male
in maniera tanto sciocca. L’inverno precedente avevano mangiato
caldarroste fatte abbrustolire in un angolo del giardino e l’elfo
le aveva private una ad una della scorza prima di porgergliele.
«Asciutta!» ciancicò Vorticillo dalla tasca. «La faccia asciutta!»
Disapprovava il suo abbandonarsi alle lacrime e si prodigava nel farglielo notare.
«Giusto. Faccia asciutta. Grazie Cillo» singhiozzò, passando il dorso della mano sulle guance.
«Figurati capo, dovere. È il nostro quello che arriva?»
Dal fondo della strada giungeva il muso quadrato di un autobus. L’Archimaga
caricò la borsa sulla spalla e si avviò al limitare del
marciapiede. Un paio di persone si allontanarono dal chiosco,
scansandola in malo modo e passandole avanti. Evitò di
protestare. Erano manovali di un cantiere lì vicino, gente che
si alzava prima del sole e lavorava al gelo tutto il santo giorno. Ne
aveva visti tanti quando era stata solo un architetto e ne aveva il
massimo rispetto. Le ricordavano suo padre, che tornava tardi per fare
un po’ di straordinari, per consentire loro di vivere senza
preoccupazioni.
Sibilando, il mezzo si fermò. Le porte si aprirono, riversando
luce giallastra e pendolari irritati sulla banchina umida. Amelia si
fece da parte, per farli passare. Un misto di odori e voci si sparse
intorno, cancellando la città per qualche secondo. Frugò
nel giaccone, in cerca dell’abbonamento, e si preparò a
salire.
Aggiustò di nuovo la borsa, controllando
l’intensità del flusso discendente. Il conducente ebbe a
ridire con un passeggero troppo petulante, altri si unirono alla
discussione. I muratori balzarono avanti, sbraitando a loro volta.
Pochi istanti dopo l’autobus ripartì senza l’Archimaga.
I piedi le erano rimasti incollati all’asfalto, la via sbarrata
da una figura appena scesa. Era talmente sorpresa da quella vista che
faticava a parlare e come lei, anche chi aveva davanti taceva.
«Luisa!» esclamò lasciando cadere il cartoccio,
pieno di bucce e scarti, ed abbracciando l’ultima persona che
avrebbe mai pensato d’incontrare in quella zona di Milano.
La cameriera protestò, liberandosi e tentando d’individuare un ingresso entro cui sparire.
«Lavoro qui, ora» concluse altezzosa, indicando il civico da cui era uscita poco prima l’Archimaga.
«Dalla Schloss?» chiese Amelia perplessa.
La strega era tutto fuorché una facile da gestire, talvolta era persino peggio di una loro vecchia conoscenza.
La cameriera spiò intimorita l’immenso palazzo.
L’abitazione della maga era all’ultimo piano, cosa che
doveva ignorare.
«Pare che qui attribuiscano ai miei servigi il valore che
meritano» fece, cercando di darsi un tono di superiorità.
«Luisa, l’hanno… licenziata?» s’informò timidamente.
«Licenziata? Cielo, no! Me ne sono andata!» replicò orgogliosa.
Per un attimo, Amelia aveva temuto che Jarvis stesse allontanando
tutti, preso da chissà quali assurdi deliri di onnipotenza o
mitomania.
«Perché? Insomma… io non c’ero più. Ero un problema in meno per lei».
Luisa moriva dalla voglia di mentirle riguardo ad Ang, di dirle che
l’aveva dimenticata, che erano stati insieme, ma era proprio per
lo struggimento dell’elfo che non aveva resistito. Sapere di non
poter occupare quel vuoto nel suo cuore l’aveva convinta ad
andarsene. Decise di fornirle solo una parte dei suoi motivi.
«Non tollero di vivere e lavorare per un degenere» sibilò risentita.
«Corrado non è un degenere! Solo perché…»
«Corrado? Io parlo del suo erede» l’interruppe con un
ghigno, facendo sgranare gli occhi all’altra per la sorpresa.
«Erede? Corrado aveva un figlio?»
«Ora che è morto, sì» mormorò sprezzante.
La notizia, detta a bruciapelo, gelò il sangue all’Archimaga.
Dovette sostenersi al muro, con Vorticillo che la chiamava a gran voce
e Luisa che pigiava tranquilla il bottone del citofono per farsi
annunciare alla nuova padrona.
«Circa due mesi fa. Nel sonno. Non ha sentito niente, se
può consolarla. Jarvis era il… il… insomma, ha
aperto lui il testamento e si è trovato a ereditare tutto
quanto. Si vede che il padrone non ci stava più con la testa.
Solo ad un vecchio pazzo e malato poteva venire un’idea
così ridicola!» concluse, scomparendo nell’androne
buio.
Scommetto che siete presi dal turbine delle feste. Beh, ci sta tutto, lo sono anch'io.
Anche se siamo agli sgoccioli, ben arrivata a FeverOfCullen. Aspetto un tuo parere!
Quindi, ecco il mio regalo per questo week-end di feste e tanti auguri ancora!
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Capitolo 31 *** Tavola XXX - Fine lavori ***
Tavola XXX - Fine lavori
«Chiodo, prendi Bertona! Ve-lo-ce» scandì Diciechili, appiccicato al citofono.
L’Archimaga decise fosse meglio glissare sul chi fosse “Bertona”.
Quando era scesa dalla corriera poco prima, nella piazzetta di San
Francesco, non si era aspettata quel comitato d’accoglienza.
Diecichili e Chiodo avevano abitudini notturne e trovare il primo ben
sveglio alle nove del mattino era stata una sorpresa. Lo era diventata
un po’ meno quando il ragazzo aveva ammesso di non aver chiuso
occhio.
«É Capodanno!» era stata la sua giustificazione.
Già. Era il primo giorno dell’anno ed essere lì, in
quel momento, le faceva scorgere un buon auspicio nella data.
Chiodo scese indossando un casco graffiato, occhialoni e sciarpa sopra
quello che aveva l’aria di essere un pigiama. Li guidò ad
una saracinesca rugginosa che prese a calci, finché non
sentì uno schiocco all’interno. Sferragliando,
l’avvolgibile cominciò a salire, spinta dai due. Dentro,
una sagoma informe era nascosta da un lenzuolo tenuto con mollette e
scotch da pacco.
«Ciccia, ecco Bertona» gongolò Diecichili.
Le speranze della donna scemarono all’istante.
«Ma… è… un’Apecar?»
Il ragazzo le mise una mano sulla bocca.
«Ssstt! Per Chiodo è come se fosse la sua donna! Parlane
bene!» l’ammonì e, in effetti, l’altro stava
amorevolmente ripulendo il ruotino anteriore con uno straccio.
«L’abbiamo modificata, fila a centodue netti! È un
po’ instabile in curva, ma bilancio io, tranquilla».
Amelia pregò stesse facendo lo sbruffone: era sempre meno convinta di giungere integra a destinazione.
Chiodo prese posto nell’abitacolo, schiacciandosi contro la
portiera per far accomodare l’ospite. Il fracasso del motore era
insopportabile tanto fuori quanto dentro.
«Capo, posso arrangiarmi?» cinguettò impaurito Vorticillo.
«Cosa?» chiese il pilota, pensando parlasse a lui.
«Niente» tagliò corto. «Okay, vienici dietro senza farti vedere» bisbigliò nella tasca.
Traballando in maniera preoccupante, il treruote si avviò
lentamente al cancello. Vibrava al punto tale che i contorni delle cose
apparivano sdoppiati.
Con la medesima, esasperante indolenza, attraversarono San Francesco.
Amelia d’aver accettato. A piedi, a quell’ora, avrebbe
dovuto scorgere i pilastri al limite della proprietà, invece
della chiesetta.
Vorticillo, in forma di corvo, planava fra i tetti scuotendo sconsolato il becco.
«Chiodo, possiamo accelerare? Ho fretta» provò ad incitarlo.
Le rispose con un mugugno simile ad un “adesso”.
Superarono l’ultima cascina. In un altro momento, Amelia si
sarebbe soffermata ad osservare i decori dei mattoni, le
irregolarità della malta, i nidi abbandonati dalle rondini. Ora
desiderava solo raggiungere la villa.
Chiodo si fermò, pigiando sul pedale a colpi ritmati, facendo
salire di giri il motore. Pochi secondi dopo, Bertona filava spedita
sull’asfalto. Dovevano aver raggiunto i cinquanta all’ora,
ma chiusa nella cabina sussultante, Amelia era incapace di notarlo.
Balzarono sulla sterrata, aumentando gli scossoni. Dietro, Diecichili
ululava come un pazzo, spostando il peso da un lato all’altro
nelle curve, quando sentiva una delle ruote posteriori sollevarsi
troppo.
Il corvo li inseguiva gracchiando.
Fu forse per lo spavento o per la spasmodica attenzione a non farsi
sfuggire la borsa fuori del finestrino, che i quattro pilasti apparvero
all’improvviso, con il loro torreggiare malinconico.
I ragazzi ignoravano cosa passasse fra quei piloni, non avevano i
poteri di Angheledrior o Jarvis. Doveva essere lei a sbloccare
l’accesso, doveva impedirgli di sbatterci contro o sarebbe finita
male.
«Fermati, Chiodo!» gridò, ma lui bofonchiò “velocità”.
L’ingresso si avvicinava sempre più, salendo al cielo malaticcio insieme agli incitamenti forsennati di Dieci.
***
L’Archimaga provò
un secondo tuffo al cuore. Era impreparata a quello spettacolo. Dopo
aver superato incolume i pilastri, ciò che aveva davanti
somigliava ad un rudere prossimo a franare su sé stesso, ben
diverso dai suoi ricordi. Gli intonaci erano spenti, porzioni di muri e
tetto erano squarciate. La torretta pendeva a sinistra. Perfino un
gelso era stato spezzato.
Una figura stava avvinghiata al cancello.
«Ang!» esclamò, saltando giù prima che il mezzo si fermasse.
L’elfo spalancò il battente, prendendola fra le braccia.
«Ohilà, Angelo! Ti abbiamo portato un regalino»
canticchiò Diecichili dal rollbar mentre l’amico baciava
con foga la sua donna.
«Ang, ci guardano» bisbigliò imbarazzata Amelia, sentendo una mano stringerle il seno.
Lui rimase ad osservare quelle guance arrossate, segno dell’inguaribile timidezza che gli era mancata da impazzire.
«Scusa» sorrise, sollevandola per farle stringere le gambe intorno ai fianchi e riprendendo a baciarla.
«Gira, Chiodo. Abbiamo finito» rimbrottò Diecichili, battendo sul tettuccio.
Bertona disegnò un semicerchio sghembo ed imboccò a ritroso la via.
«Come t’è saltato in mente di farti accompagnare da
quei matti?» le domandò, prendendole il viso tra le mani,
a sincerarsi di non star sognando.
«L’hanno preteso in nome della vostra amicizia. Avevo
altra scelta?» spiegò, intristendosi. «Perché
non mi hai cercata, Ang? Credevo saresti venuto a prendermi, per
riportarmi indietro…»
Sospirò, addolorato dalla domanda.
«Non ti ho abbandonata, Fragolina, credimi. Volevo venire da te, ma non ho potuto».
«Perché? Non…»
S’interruppe, seguendo l’elfo fino al gelso spezzato.
«Il giorno in cui ti ha allontanata, ho affrontato Jarvis. Gli ho
detto che non aveva il diritto di farlo e che ti avrei seguita. Fossero
andati in malora lui, giardino, cavalli e tutto il resto! Noi siamo
legati, una cosa sola» ringhiò, poggiando la mano sulla
corteccia. «Sono riuscito ad arrivare fin qui, prima
che…»
Il palmo scivolò sul tronco scheggiato, insieme al suo singhiozzo affranto.
«Mi ha vincolato a questo tronco, Amelia. Sono un cane alla
catena. Devo restare alla villa o morirò. È stato bravo,
ha scelto bene l’ultimo incantesimo che è riuscito a fare.
Giuro che avrei preferito lasciarci le penne per venirti a cercare, lo
giuro! E ci ho anche provato, ma… ha maledetto i muri, per
impedirmi di cercare la mia fine. Non potevo uscire. Allora non mi è rimasto che
aggrapparmi alla speranza di rivederti. Sentivo il tuo bisogno di
tornare» spiegò, poggiandole la mano sul Nibit.
«E quando ieri sera ho sentito che ti avvicinavi, stavo
impazzendo di gioia» aggiunse, gli occhi neri che brillavano.
La vibrazione che vi scorgeva era infinitamente più dolce di quella che Amelia aveva provato lungo il tragitto.
«Cos’è successo qui? Cade tutto a pezzi! E le barriere? Sono svanite!»
Si sentiva defraudata del suo operato: impegno e fatica cancellati con un colpo di spugna.
«Gli incantesimi sono caduti alla morte di Corrado» disse
Ang, rabbuiandosi. «Scusami, avrei dirtelo in un altro
modo».
Lei scosse il capo, stringendogli la mano rassicurante.
«Ho visto Luisa prima di Natale e mi raccontato tutto».
«Davvero? E come sta?» fece lui, sorpreso.
Amelia fece spallucce, seguendolo verso il desolante spettacolo offerto dal palazzo.
«Scorbutica come sempre. E mi odia».
«Allora sta bene» sorrise stringendola.
«So che Carew è stato designato erede dei Frasca».
Lo stalliere annuì, pensieroso.
«Il Duca aveva disposto i documenti per l’adozione insieme
al testamento. Adesso è Jarvis Alden Frasca di Cortenova.
Sbaglio, o suona malissimo?» sogghignò.
Tentò malamente di mascherare il sollievo che le dava la sua ironia. I sei mesi di vuoto stavano scomparendo in fretta.
«Perché Jarvis non ha ripristinato i sortilegi? È dovere del proprietario».
«Pare che il nostro nuovo padrone abbia qualche difficoltà
gestionale» ed aveva un’espressione d’inequivocabile
divertimento.
«Se ignora la sequenza, l’elenco è nel cabreo…» iniziò, subito interrotta.
«Fragolina, non riesce a
farne nemmeno mezzo. Da quando è umano ha disimparato la magia.
Ha fatto danni assurdi per mettere insieme banalissime
stregonerie» e indicò una finestra sventrata fino al
pavimento. «E quello per cercare di aprirla. Immagina il
resto».
«Capo, abbiamo del lavoro! E tanto anche!» garrì Vorticillo, appollaiato sulla gronda della cucina.
Era incerta se esserne felice o meno.
Un movimento furtivo nell’andito catturò la sua attenzione.
«Isadora!»
La bambina le corse in contro, evanescente. Nonostante la gioia, non
riusciva a riprendere l’opacità tipica di quando era
felice. Doveva dipendere dall’assenza degli incantesimi, che
amplificavano in qualche modo le sue capacità.
«Amelia!» pianse abbracciandola. «Tu… tu
rimani! Rimani qui! Gli ghiaccio il naso a quel rospaccio se lo fa
ancora! Non deve rapire la mia principessa-sorella!»
All’inizio tacque commossa, poi si unì alle sue lacrime.
Paragonato al gelo della stagione, il freddo della piccina era un
delicato tepore. La bambina le raccontò di quanti dispetti aveva
fatto a Jarvis in quei mesi, per dargli la lezione che
meritava: aveva nascosto gran parte degli oggetti del suo studio
– eccetto
i cavalli, perché con quelli voleva giocarci e non poteva
perderli -, creava lastre di ghiaccio nei corridoi e nelle stanze
quando
lui passava, lo svegliava nel cuore nella notte tirandogli via le
coperte. Aveva anche riempito di neve la sua stupidissima macchina, al
punto che, all’ennesimo tentativo di avvio, il motore aveva
mandato tante scintille e fumo, prima di tacere per sempre.
«Amelia, devi vedere una cosa» la richiamò Ang.
Raggiunsero lo studio che era stato di Corrado. Nell’aria
aleggiava ancora l’odore del sigaro del mago, abbandonato ormai
spento sul bordo di un posacenere. Sulla scrivania era stato posato un
suo ritratto, risalente a qualche anno addietro. Doveva essere la foto
di una premiazione, a giudicare dalla targa che stringeva nelle mani e
dalla soddisfazione sul volto grinzoso.
L’elfo frugò nei cassetti della scrivania, facendo un
baccano allarmante. Amelia si guardò attorno, aspettandosi di
veder comparire l’erede.
«Jarvis è sordo. Non sente niente» la tranquillizzò Isadora facendo smorfie in un vetro.
«Ha ragione. È uno dei pochi vantaggi del nuovo Jarvis: la
villa non gli parla più» concordò Ang.
Lo stalliere trovò quel cercava e lo porse alla donna. Era una
busta col sigillo in ceralacca dei Frasca, ormai spezzato. Era il
testamento di Corrado. L’Archimaga sfilò il documento, leggendone con attenzione il contenuto.
«Lo sospettavo» ammise strizzando l’occhio.
***
Buio. Caldo ed accogliente. Silenzioso. Un guscio impenetrabile dove
sentirsi libero, potente, padrone. Dove privarsi di quel corpo
impacciato e dotato di vita propria. Dove essere solo. Lontano dal
mondo. Il buio delle notti eterne che lo inghiottiva fin dal principio
dei tempi. Il buio dei cuori umani di cui si era nutrito per millenni.
Passi frettolosi sul parquet. Lo scorrere delle tende. Lo sbattere
della finestra. Di nuovo quella sguattera. Avrebbe trovato il modo
per…
«Non si respira qui dentro!» ansimò una voce che avrebbe dovuto essere altrove.
Balzò a sedere, lacerando il bozzolo delle coperte. La luce lo
ferì agli occhi, cancellando la stanza, ed un refolo
punteggiò la pelle di brividi. Nascose il viso dietro le mani,
segnate dalle ustioni dei sigilli. Altre due, identiche, campeggiavano
sul suo torace e sulla schiena, poco sotto la linea delle spalle.
Altri passi. Lei che si avvicinava. Intollerabile.
I piedi poggiarono sul pavimento, percependo un fastidioso strato di
polvere e rimasugli di sporcizia. Mai fastidioso quanto la presenza
dell’Archimaga nella sua dimora. Nella sua stanza!
«Che fa qui? Le avevo vietato…» ruggì alzandosi.
Amelia gli diede le spalle.
«Si copra, per l’amor del cielo! Un po’ di decenza, è un nobile!»
«Se ne vada!» urlò, incurante della propria nudità.
«No, milord» l’ammonì ironica e risoluta,
agitando l’indice. «Una conversazione civile dovrebbe
iniziare con un “Buon giorno. Prego, si accomodi” - cosa
che farò anche se non l’ha detto – e proseguire con
un “É andato bene il viaggio, stanotte?”, a cui
risponderei con un educato “No, il riscaldamento sul treno era
rotto, era pieno di ubriachi dai festeggiamenti, il pullman era in
ritardo di mezz’ora per il ghiaccio e l’autista ancora
addormentato, e sono stata costretta ad accettare un passaggio da
Diecichili e Chiodo con un trabiccolo che minacciava di andare in pezzi
da un momento all’altro, ma grazie per
l’interessamento”» sparò tutto d’un
fiato.
Prese una poltroncina, voltandola in maniera tale da poter evitare di
guardare il nuovo, discinto Duca, e vi si lasciò cadere esausta.
«Mi perdoni, so che non le interessava, ma è stato un
incubo. Anche se ne è valsa la pena» soggiunse.
Jarvis la fissava con tanto odio che pareva intenzionato a liquefarla
con la sola forza del pensiero. Le aveva imposto di star lontana, ma
quella donna aveva bisogno di un gesto chiarificatore, inequivocabile.
Le tende di arricciarono fino al soffitto, il lampadario si
coprì di fiori ed i ciocchi nel caminetto scattarono
sull’attenti prima d’emanare una buffa musichetta da
carillon.
«Accidenti» mormorò Amelia impressionata, spiandolo
da sopra la spalla. «Angheledrior aveva ragione: se la passa
piuttosto male, se quell’incantesimo era per me.
Perché… era per me, vero?»
«Ovviamente!» sibilò, franando sul letto con la testa fra le mani.
Come poteva lui, un marid,
sovrano del mondo degli spiriti, al cui volere si erano piegati popoli
e nazioni, essere stato ridotto ad un giullare? Ad una indegna
caricatura che nemmeno riusciva a reggersi in piedi? Per non parlare
del fastidioso prurito che lo perseguitava da tempo.
Sollevata dall’udirlo rintanarsi sotto le coperte, si
girò, accostando la poltroncina al letto. Dal groviglio informe
emergevano solo gli occhi e la fronte del nuovo Duca, velati da una
ciocca piuttosto sporca. E nella stanza non erano l’unica cosa ad
esserlo.
«Sa, speravo di trovarla intento a spiegare ad Isadora chi
fossero Tazio Nuvolari o Enzo Ferrari. Lei che narrava le loro imprese,
per farle capire come mai aveva chiamato così i suoi cavalli.
Cavalli che, avviati al declino, ha bardato di tutto punto e mutato nei
soprammobili che tiene nello studio».
Le sopracciglia scure s’inarcarono. Difficile dire se per rabbia o sorpresa.
«Chi le ha…» bofonchiò.
«Me l’ha raccontato Angheledrior. Modo originale per pensionarli» osservò.
La sua sincerità irritava l’interlocutore che taceva, preso da un groppo allo stomaco.
«Dicevo. Immaginavo una scena simile, anche se ritenevo
più probabile trovarla a rotolarsi con Lojana, ma ho costatato
che le mie capacità di veggente sono pessime» ammise,
accennando una risatina.
Jarvis sentì qualcosa che gli si rimescolava dentro. Era diverso
da ciò che provava quando Lojana lo stuzzicava, diverso dal
fastidio causato dal ghiaccio che regolarmente Isadora creava al suo
passaggio, dalla sensazione di repulsione al pianto di Romilda.
«Venga al dunque e se ne vada! Che vuole? Denaro? Cianfrusaglie
ha che ha scordato? Se le riprenda e sparisca! Porti via anche lo
stalliere se proprio ci tiene, si accomodi» soggiunse perfido
allungando il collo sudicio oltre le lenzuola altrettanto sporche.
«Mi liberi una volta per tutte dalle vostre inutili
esistenze!»
Un violento manrovescio lo colpì in pieno volto, lasciandolo a bocca aperta. Era stata proprio la remissiva e gentile Archimaga a colpirlo? A giudicare da come agitava la mano, la risposta doveva essere affermativa.
«La madre superiora ci puniva così, quando sbagliavamo il
Segno della Croce. Duretto, ma efficace. Quindi, signor Duca, se vuol
continuare questa conversazione da persona civile, la smetta con questo
atteggiamento o mi ripeterò. Sono stata chiara?»
l’avvertì. «E si faccia la barba, per favore! Sembra
un istrice!»
Fece segno di sì, sbattendo le palpebre per l’incredulità.
«Ha detto bene. Sono quei per riprendermi le mie cose. La mia famiglia, innanzitutto».
«Lei non ce l’ha» ribatté, inabissandosi all’istante per evitare un secondo schiaffo.
Il formicolio sulla guancia era insopportabile e un liquido trasparente gli annebbiava la vista.
«Parla della mia famiglia nativa, che ho perduto per sempre. Ma
io parlo della mia nuova famiglia. Angheledrior, Isadora, la nonna,
Francesca. Anche Orlando e Gromi. E… pure lei, Jarvis. È
perfetto come cugino rompiscatole» disse, strattonando le coperte
fino a scoprirgli nuovamente la testa.
«Mi rifiuto…» protestò, trattenendo le scarne difese.
«Ha poco da rifiutare, Jarvis» lo zittì,
mostrandogli il testamento. «E non provi a raggirarmi: Corrado
mi ha donato le stanze dove alloggiavo e l’accesso alle
biblioteche, con la clausola di utilizzarle in pianta stabile. Ergo,
non posso essere cacciata da casa mia e dalla mia famiglia».
Così dicendo gli sventolò il testamento sotto al naso, ma l’uomo lo scansò.
«La smetta di fare il difficile».
«Faccio come mi pare. Io sono il Duca!» schermandosi con le braccia appena vide la mano dell’altra levarsi.
Amelia sbuffò, lasciando cadere il proposito ed il braccio insieme.
«Mi creda, lo so. E congratulazioni per avere avuto un padre
meraviglioso. Una persona che l’ha amata come se fosse davvero
suo figlio, a prescindere dalla sua reale natura».
«Che sta dicendo?» chiese, mentre la guardava frugare nella
borsa, da cui emerse un libretto dalla copertina tempestata di agate.
«Cos’è?»
«Il diario di Corrado».
«Impossibile. Io avrei saputo…»
«Ne dubito» rispose, indicando un Nodo di Stewart
sulla copertina. «Non l’avrebbe potuto leggere neppure se
Corrado gliel’avesse messo davanti al naso. E se lo asciughi, che
cola».
Jarvis passò velocemente la mano sul volto, ritraendola appiccicaticcia.
«Credo che avesse intuito cosa voleva farmi ed abbia trovato il
modo d’infilarlo tra le mie cose. Ascolti cosa scriveva tre anni
fa: “Più d’ogni altra cosa, è importante che
Jarvis sia in grado di sopportare il distacco dalla forma entro cui
è costretto. Da troppo tempo è relegato in un involucro
rigido ed inerme. Se lo abbandonasse senza le dovute cautele, temo gli
sarebbe impossibile tornare al suo stato di marid. Rischierebbe di precipitare privo d’identità in un limbo senza fine”».
S’interruppe, cercando la pagina successiva, spiando la razione
attonita di Jarvis da sopra la montatura degli occhiali. Quelle
considerazioni, con ogni probabilità, non l’avevano mai
sfiorato. L’ipotesi di scoprirsi troppo debole per sopravvivere
al distacco dall’organismo ospite, per poter tornare ad essere un
signore del mondo dei demoni, l’aveva sconvolto, benché
cercasse di mascherarlo.
«“Devo passare dai muri, è l’unica soluzione,
ma le mie competenze esulano da queste operazioni. Mi occorre un Archimago
che rimetta in sesto la villa e, per osmosi, la parte incorporea di
Jarvis. E a Jarvis serve un amico che lo sostenga, più di quanto possa
fare io”» riprese, rintracciando i segnalibri che aveva
sparso qua e là durante la lettura. «“Credo che
Martini mi abbia indicato la soluzione a tutti i nostri problemi. Dice
che la sua allieva è abile e comprensiva. Spero che Jarvis
capisca che lo faccio nel suo interesse. É sempre stato un
ragazzo sospettoso”. “Devo liberarlo. Subito. La sua
sofferenza cresce ogni giorno. Ha smesso di dormire e gli impulsi del
suo corpo stanno prendendo il sopravvento”. “Accade troppo
in fretta e, per quanto Amelia si sforzi di completare i lavori prima
possibile, temo sia tardi”. “Mio padre ha mentito. Ora lo
so. Ma non voglio che a pagare sia Jarvis. Forse potrò fare poco
per lui, ma tenterò. Oggi, dopo la mia visita nella cripta, ho
scoperto che mi ha cercato, aveva paura, temeva per la mia vita. Quale
demone mostrerebbe tanto affetto?”. “Voglio che
viva”».
Chiuse il libro, posandolo sulle ginocchia.
«Corrado le voleva bene. La vedeva come un figlio e quando ha
scoperto il raggiro del padre, si è dato da fare perché
lei non pagasse un prezzo troppo alto. Voleva che questa sua nuova
libertà fosse un dono, non una condanna come lei crede. Per
questo riteneva la mia presenza ben più importante che al
principio: voleva che “l’amico” fossi io. Lo ha
scritto in un altro passaggio. Diceva che avevo la pazienza e la
capacità di perdonare che servivano per aiutarla ad affrontare
meglio “la sua nascita”. Era un uomo generoso e
l’amava molto. Gliel’ha dimostrato chiudendo gli occhi per
molti anni».
«Cosa vuol dire?» chiese, fissandola indispettito accarezzare la copertina del diario.
«Corrado ha scritto che finché i suoi occhi, incastonati
nella lapide, fossero stati aperti, lui avrebbe avuto il pieno
controllo sulle sue azioni. Ma ha scelto di chiuderli, concedendole il
dono del libero arbitrio».
«Mente!» ringhiò.
«Qualcuno l’ha mai obbligata a fare ciò che riteneva
sbagliato? Lei ha scelto di sua iniziativa se obbedire alle richieste
che le venivano avanzate, valutandole con un metro di giudizio che si
addiceva alla sua carica di maestro di corte. Quante volte ha rifiutato
le mie proposte? O ha imposto divieti? O vuol forse dirmi che Corrado
la obbligava a sopportare la mia presenza a suon di punizioni? A me non
risulta» concluse.
Jarvis restò in silenzio. Il numero delle volte in cui era stato
punito in quel secolo di convivenza era tanto esiguo da svanire.
L’Archimaga
sospirò, sorridendo con dolcezza alla scorbutica lumaca che
rifletteva impaurita, avvolta dal suo guscio di stoffa macchiata e
maleodorante.
«Renda onore al suo ricordo» suggerì.
«E come? Tenendola qui?» sibilò, confuso da quel che aveva appena sentito.
Gente, ci siamo: il prossimo sarà il capitolo conclusivo di questa storia. Grazie a erikanordkapp, che arriva alla fine della storia, ma che mi auguro di ritrovare nelle recensioni finali.
Comincio a ringraziarvi fin da ora per averla letta, recensita o anche solo sbirciata.
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Capitolo 32 *** Tavola XXXI - Collaudo ***
Tavola XXXI - Collaudo
«Renda onore al suo ricordo» suggerì.
«Come? Tenendola qui?» sibilò, confuso da quel che aveva appena sentito.
Il suo padrone, l’uomo che aveva servito, gli aveva offerto
più libertà di quanto immaginasse e lui l’aveva
rifiutata. Erano stato ingannato, di nuovo! Quell’uomo aveva
taciuto! Gli aveva fatto credere d’essere schiavo quando ogni
porta era spalancata!
«Credevo avessimo chiarito il punto, ma se proprio vuole darsi la
zappa sui piedi, sappia che è stato lei a predisporre tutto in
maniera che non potessi lasciare il servizio presso i Frasca»
disse Amelia, ostentando calma assoluta.
«Sciocchezze!» inveì, salvo interrompere la sequela
d’improperi già pronta quando vide comparire copia degli
accordi presi un anno e mezzo addietro.
«Ma lei gira con tutta quella carta?» domandò perplesso.
«Sì, visto che ha una sua utilità».
«Capo, per me parla troppo. Devo strappargli la lingua? »
gracchiò Vorticillo, appollaiato sul davanzale della finestra.
«Calmo, va tutto bene» rispose, facendogli segno di appoggiarsi sulla sua spalla.
Obbediente, l’Aquilone riprese le sembianze di rondone e la raggiunse.
«Attento a quel che dici, coso. O ti faccio la festa» minacciò, gonfiando il petto minuscolo.
La donna sollevò gli occhiali sulla fronte per leggere.
«Cito: “A tutela delle opere e del buon esito dei rapporti
clientelari, si dispone che il contratto decada qualora si verifichi
una delle seguenti condizioni: 1. Decesso del professionista
incaricato;” – grazie per averla messa come primo punto,
molto gentile – “2. Grave impedimento psicofisico o
conflitto d’interessi, per qualsivoglia causa, da parte del
professionista incaricato; 3. Abbandono volontario e senza motivazione
della dimora denominata Villa dei Gelsi da parte del
professionista”. Al di là delle ripetizioni
terminologiche, alla luce degli eventi, direi che avesse in programma
sin dal principio di darmi una spintarella per fare in modo che
rompessi il contratto di mia iniziativa, o sbaglio?»
L’uomo serrò la mascella per impedirsi di urlare. Doveva
essere stato distratto da chissà che per aver omesso una sola,
remota, sciocca eventualità. Com’era possibile che avesse
sbagliato, lasciandole la porta aperta?
Jarvis stava seduto al centro del letto, curvo in avanti, l’aria
di chi doveva porre una domanda e non riusciva a formularla. Amelia
provò un certo dispiacere nell’essere stata tanto
drastica, ma non poteva attendere che il Consiglio degli Archimaghi
le desse ragione. E nemmeno permettere che il nuovo Duca
s’impuntasse come un bambino capriccioso. Corrado avrebbe
disapprovato, ne era certa.
«Lo prendo per un assenso, milord» fece lei, sistemandosi
meglio sulla poltroncina che subiva una serie di scossoni, trasmessi
dal tappeto che tentava di volarsene via. «Ora, io ho rispettato
le clausole. Sono viva, non ho gravi impedimenti o conflitti
d’interessi, né mi sono allontanata di mia iniziativa.
Cosa che, peraltro, mi era vietata, visti i salti mortali che sono
stata costretta a fare per elemosinare due uscite»
sottolineò con lieve cinismo.
Lasciò che Jarvis meditasse qualche minuto sulle sue parole.
Aveva previsto le avrebbe trovate indigeste. Quello che non aveva
immaginato era lo stato pietoso in cui l’avrebbe incontrato.
Osservandolo meglio, si rese conto che era dimagrito, sulle braccia
emergevano le vene, sulla schiena premeva la linea della colonna
vertebrale.
«Jarvis, lo ammetta: ha sbagliato. Ed è stata la cosa migliore che potesse fare».
Lo sguardo bruno e tagliente la fece trasalire. Il nobile aveva degli scatti di vitalità spaventosi.
«È pazza. Pazza!» gridò.
«D’accordo, signor Duca. Vuole sbarazzarsi della
sottoscritta? Un modo c’è» replicò,
mettendosi a braccia conserte, quasi volesse sfidarlo.
La notizia lo riscosse ed un accenno di ghigno stirò le labbra sottili e screpolate.
Ang, dietro la porta, si domandò se per caso Amelia non fosse
impazzita per l’eccesso di malsani incantesimi che vorticavano
nella stanza. Abbassò lo sguardo su Isadora, che spiava tra i
battenti. Accanto a lei erano apparse Romilda e Francesca, che
tendevano l’orecchio e incrociavano le dita.
«Me lo dica! Glielo ordino!» tuonò.
«Deve scrivere un atto di rescissione dalle prestazioni»
disse a denti stretti, alzandosi. «Lo firmeremo entrambi, lo
invierà al Consiglio degli Archimaghi e tutto sarà risolto in un mese. Io me ne andrò, lei riavrà la villa, il Consiglio archivierà la pratica. Fine».
Chiuse la finestra, dato che il freddo si stava facendo insopportabile
e il tanfo di chiuso era dissipato. Voltandosi, si rese conto che non
solo Jarvis era ridotto uno straccio: la camera era polverosa, il
pavimento coperto di cicche di sigarette ed abiti stropicciati.
«Tenga» e gli porse carta e penna, che languivano sullo scrittoio in un angolo.
L’uomo poggiò il foglio sulle coperte, senza però
iniziare a stendere quanto indicato. Sembrava che un interrogativo
avesse sollevato altri dubbi nella sua mente. La qual cosa fece ben
sperare l’Archimaga.
«Allora, milord?» lo incoraggiò gentilmente.
«Cosa dovrei scrivere?» sibilò, gli occhi fissi sul foglio immacolato.
Domanda strana, per chi aveva gestito decenni di corrispondenza.
«Comincerei dall’intestazione. Data, luogo, scrivente. Di seguito il resto» suggerì.
«Cosa dovrei scrivere?» ripeté, stringendo la penna con tutte le dita.
La teneva allo stesso modo di un bambino.
«Descriva i motivi oggettivi per cui mi esonera del compimento
delle opere. O meglio, perché preferisce fare a pezzi Villa dei
Gelsi con le sue stesse mani, piuttosto che lasciare che esegua i
lavori previsti. Eviterei di segnalare la sua viscerale antipatia verso
di me. Di solito il Consiglio
non lo ritiene un motivo sufficiente alla rescissione. Come anche il
fatto che lei mi accusi di aver avuto un ruolo nella sua
“nascita”. Dubito che la prenderebbero per un sano di mente
se dicesse loro che era un marid, mentre oggi è un essere umano».
«Cosa-dovrei-scrivere» sillabò irritato.
«Fragolina,
permetti?» chiese Ang, ormai oltre la porta della camera.
«Penso che, in realtà, il signorino non ti stia domandando
cosa deve scarabocchiare. La sua è una domanda… sai, che
si dice per sottintendere una cosa ovvia?»
«Retorica?»
L’elfo si avvicinò al letto, facendo indietreggiare il
Duca. Dopo lo schiaffo, riteneva ogni distanza, inferiore a quella di
un braccio, passibile di infiniti pericoli.
«Jarvis, quante sono queste?» chiese, mostrando tre dita su una mano e quattro sull’altra.
Lui le fissò, corrugando la fronte.
«Quante sono?» insisté.
L’uomo volse il capo dall’altro lato.
«Jarvis?»
«Non lo so!» urlò, gettando a terra penna e carta. «Non so quante siano quelle stupide dita!»
La risposta lasciò senza parole chi ascoltava, dentro e fuori la stanza.
«Come ti dicevo, il nostro ragazzone ha qualche problema».
Amelia sbatté le palpebre, sbigottita.
«Me ne sono accorto l’ultima volta che è venuto
nelle scuderie mi ha chiesto quante balle di fieno avesse portato
Diecichili e, quando gli ho detto di contarsele da solo, è stato
un’ora a guardarle per poi dirmi che non era compito suo, fare
quei conteggi» ridacchiò malevolo.
La rivelazione era sorprendente solo fino ad un certo punto. La donna
riprese a scorrere con attenzione gli appunti del precedente Duca,
arrivando alle ultime pagine del taccuino.
«Ecco qui… “I demoni sono entità incorporee
ed onniscienti. Gli esseri umani, solidi da riempire con minime
quantità di sapere. Che cosa accadrà a Jarvis, se non
posso impedire la fusione di questi due sistemi? Quanto rimarrà
dell’uno nell’altro? Il sapere albergherà integro in
lui, come dopo lungo apprendimento, o dimenticherà ogni cosa?
Oppure manterrà solo una minima parte del suo sapere, quanta ne
può contenere il suo nuovo stato?”» lesse l’Archimaga, assorta. «Direi che abbiamo la risposta».
Divenire umano aveva cancellato gran parte del sapere sia del marid
che dell’uomo: Jarvis possedeva la magia, tuttavia non era in
grado di padroneggiarla, così come tutto il sapere dentro di
lui. Questo spiegava ogni cosa, inclusa l’insonnia che
l’affliggeva da mesi. Era come un bambino, che doveva imparare
ogni cosa dal principio, essere guidato e corretto. Doveva imporre
abitudini e volontà ad un corpo che aveva abitato, ma non
conosceva. Poco importava che, all’atto pratico, avesse
abbastanza male maniere per opporsi gli aiuti.
«Mi ascolti, Jarvis. Per favore» disse Amelia, sedendo sul
letto accanto a lui. «Sa che non le ho fatto niente, anzi. Il mio
operato le è servito a superare la fase di umanizzazione, stando
agli appunti di Corrado. Senza i lavori alla villa, il corpo in cui si
è incarnato non avrebbe sopportato l’unione delle due
entità. Questo però adesso non m’interessa».
Gli prese una mano, stringendola fra le proprie, accarezzandone il dorso con gentilezza.
«Jarvis, si rende conto della fortuna che ha avuto?»
Il Duca la fissò scettico. Davvero vedeva un evento positivo in tutta quella marea di disgrazie?
«Corrado, per tutto il bene che le voleva, le ha fatto il
più grande dei doni. Un dono che tutti noi abbiamo vissuto e di
cui abbiamo memoria solo attraverso i nostri genitori e parenti».
Jarvis seguitava a non capire. E quelle mani ancora fredde, chiuse intorno alla sua, lo infastidivano.
«Corrado, come un autentico padre, l’ha aiutata a
nascere» spiegò, gli occhi che brillavano. «Lei si
è reso conto di venire al mondo come persona, cosa che noi
nemmeno riusciamo a immaginare. Corrado non poteva impedire al marid
di morire, poteva però aiutare un uomo a nascere» sorrise,
stringendo un po’ di più la mano dell’improbabile
neonato.
Il tremito che avvertiva era più che comprensibile. Jarvis aveva
deciso di combattere la sua nuova natura: accettare l’idea di una
mutazione, di una trasformazione, di una nascita, era per lui
inconcepibile. Aveva paura, sentimento più che umano, che in
secoli, forse millenni, non doveva aver mai conosciuto. Ecco
perché suo padre, il suo nuovo padre, aveva voluto che qualcuno
gli fosse accanto. Gestire le emozioni umane era cosa tutt’altro
che semplice per chi già le conosceva, figurarsi per chi stava
iniziando a scoprirle.
«Mi perdoni, Jarvis, ma… quello è un occhio nero?» domandò, sporgendosi per controllare.
Lui si ritrasse, provando un’immensa sensazione di disagio. Era talmente vicina, cordiale. Disposta a parlare, a capire.
«Colpa sua. Non guarda dove cammina» fece Ang, girando lo sguardo intorno.
«Ang, alzare le mani non è mai la soluzione» lo ammonì.
«Non l’ho picchiato. Era in scuderia e siccome non se ne
andava e continuava ad insultare, gli ho sfilato il sacco del mangime
da sotto i piedi. Che colpa ne ho, io, se ha sbattuto la faccia contro
l’anta del box che avevo lasciato appositamente aperta? Poteva
sbattere da un’altra parte o caderci con un’altra parte del
corpo» rimbrottò.
«Sapevo che l’avevi fatto apposta!» ringhiò
Jarvis, riempiendo la stanza di paperelle di gomma che esplodevano come
bolle di sapone.
Amelia era indecisa su chi tra quei due stesse manifestando un minor livello di maturità.
«Deve ringraziare qualunque dio gli venga in mente, perché
se fossi stata incinta ed avessi dovuto partorire nostro figlio lontano
da me, e non avessimo potuto crescerlo insieme, ti giuro che quel coso
senza cervello l’avrebbe pagata molto più cara!»
borbottò l’elfo, poggiando la fronte al muro.
Si rifiutava di guardare l’amico di un tempo, la rabbia era troppa. L’Archimaga l’abbracciò.
Tutta l’ansia che aveva percepito nella voce di Angheledrior
l’aveva convinta che non si trattasse di semplici ripicche. Come
lei, aveva temuto di non poter mai più avere una vera famiglia.
«Adesso basta» li esortò la cuoca, entrando insieme
ad Isadora e a Francesca. «Credo che Jarvis abbia dovuto
sopportare abbastanza per oggi. Gli avete dato una bella raddrizzata.
Ora fatelo respirare».
Il Duca la fissò stranito. Era stato molto duro con quella donna
negli ultimi tempi, aveva offeso lei e la sua cucina solo per il gusto
di farlo, eppure lo stava proteggendo.
«La nonna ha ragione, abbiamo tempo per chiarire tutti i
dettagli. Vero, milord?» disse Amelia, sospirando sollevata.
Dubitava di reggere ancora quella conversazione. «Abbiamo tempo
per discutere, litigare e… imparare. Se mi permette di
restare» ammiccò.
Messo alle strette da quei volti che lo scrutavano ansiosi, Jarvis acconsentì con una nervosa scrollata di capo.
«E se vogliamo dirla tutta, suppongo ti sia accorta che non sa a
cosa serve la vasca da bagno» ridacchiò Ang, tenendola
stretta a sé.
Aveva ragione: aloni scuri e lunghe gocce di sudore asciutte tingevano
la pelle dell’uomo; uniti all’incuria generale, gli davano
un aspetto da clochard. Cercò fra gli indumenti gettati a terra
qualcosa di abbastanza lungo da coprirlo. Scovò una veste da
camera spiegazzata e gliela gettò addosso.
«Su, su. Dopo un bel bagno si sentirà meglio. Magari
verrà a trovarla anche Lojana» scherzò, aiutandolo
ad alzarsi.
«Viene su ogni giorno» sbuffò Francesca.
«Cosa?!»
«Sì, sì. Canta quando sale le scale» confermò Isadora, imitandola.
«Viene qui, anche se lei è in questo stato?» chiese sbalordita.
«E come non potrebbe? È la mia Horla» replicò abbattuto, appoggiandosi ad Ang.
«Horla?» domandò Amelia, perplessa.
Aveva già udito quel nome, eppure le sfuggiva il contesto. Dove l’aveva sentita?
«Per l’esattezza, era l’Horla di Carew. Me l’ha detto il Duca, pochi giorni prima di morire».
Qualcuno si schiarì la voce con fare eloquente.
«Tuo padre, non “il Duca”» corresse Romilda.
Corrado, relegato a letto dopo gli eventi nel sottosuolo della villa,
aveva trascorso intere giornate leggendo. Si era imbattuto in un testo
di Maupassant, intitolato “Le Horla”. Vi erano narrati i
deliri di un pover’uomo, convinto d’essere perseguitato da
uno spirito che era metafora delle sue paure. Allo studioso era bastato
poco per comprendere. In un vecchio testo sulle possessioni demoniache,
aveva scovato un riferimento a quegli esseri. Per i comuni mortali, le Horla
si manifestavano con fobie e attacchi d’ansia, mentre per i
maghi, queste angosce assumevano forme concrete e tali rimanevano
finché il mago non trovava il modo di sconfiggerle o accettarle.
A Jarvis però, questa possibilità era negata.
«Milord… mio padre» si corresse, «mi chiese di
cercare tra gli averi del precettore. Fu lì che trovai molti
biglietti per il teatro. Era una passione che condivideva con…
mio… nonno?» azzardò, ricevendo un segno
d’assenso dai presenti. «Carew e… mio nonno,
seguivano gli spettacoli di una giovane cantante d’opera
spagnola, Carmen de Loja, di cui erano invaghiti entrambi. Carew
l’amava, ma deplorava la sua vita mondana, le sue frequentazioni,
senza contare che biasimava tutto quel che riguardava il contatto
fisico».
«Mi sembra di conoscere questa storia. “Non mi toccate!
Lasciatemi stare!”. Lo urlavi quando siamo andati a recuperare
tuo padre» sogghignò Angheledrior.
La sua risata non era di scherno, era carica di comprensione.
«Carew voleva un rapporto platonico con Carmen, era la sua musa
ispiratrice, ma lei era troppo esuberante per accettarlo.
Evidentemente, anche lui desiderava altro, benché fosse incapace
d’esternarlo. Mio padre pensava avesse avuto degli insegnamenti
piuttosto rigidi e… violenti» disse, massaggiandosi la
guancia, lì dove era stato colpito dall’Archimaga, che arrossì di vergogna. «Il conflitto interiore fu tale da generare Lojana».
«E suo nonno? Cosa c’entra?» domandò Amelia, incuriosita dal racconto.
«Mio padre è certo che, alla base di ciò che
è accaduto, ci fosse la gelosia di suo padre, che non accettava
la relazione fra Carew e Carmen. Ricordava una litigata furiosa tra i
suoi genitori nel cuore della notte. Mia… nonna aveva scoperto
la sua infatuazione e doveva avergli dato un ultimatum. Così,
mio nonno decise che se non avesse potuto avere Carmen, non
l’avrebbe avuta nemmeno Carew. Per questo l’ha usato come
vittima sacrificale. Purtroppo, quando ho cominciato ad assimilare il
corpo di Carew questi era ancora vivo. Pertanto ho ereditato Lojana.
Lei appartiene a quell’uomo, è lui che avrebbe avuto il
potere di farla scomparire. Ecco perché non mi lascia in pace:
io sono Carew e non lo sono. Sono entrambi e nessuno dei due».
Amelia tornò a sedere sulla poltroncina. Altro problema, altro
lambiccarsi, altre discussioni. Vista da lì, la situazione si
complicava ad ogni passo.
«Beh, pensiamo ad una cosa alla volta. Non è
meglio?» propose Francesca, frastornata da quella girandola di
parole.
La proposta fu accettata di buon grado. Romilda si offrì di
andare a preparare un pranzo coi fiocchi per celebrare il ritorno
dell’Archimaga, mentre
Francesca e Amelia si sarebbero preoccupate di ridare un aspetto
decente alla stanza. Isadora andò a festeggiare con Orlando e
Galileo. Ad Ang rimase l’ingrato compito di spiegare al padrone
come ci si lavasse, compito che mai avrebbe permesso toccasse alla sua
donna.
Stavano uscendo tutti, quando si voltarono, richiamati
dall’esclamazione soffocata di Francesca. All’altro capo
del letto, Amelia fissava inorridita tra le lenzuola.
«Jarvis… non è quello che penso io…» balbettò l’Archimaga,
indicando una chiazza il cui lezzo l’aveva raggiunta non appena
aveva scostato le coperte. «La prego… è troppo
grande per fare la pipì a letto!»
L’uomo non rispose, scambiando uno sguardo indecifrabile con l’elfo.
«Gliel’avevo detto che non ti controlli
granché» sghignazzò Ang, battendogli una mano sulla
spalla.
***
Il sole brillava con tutta la forza del pomeriggio inoltrato. Orlando
ronfava beato sotto al gelso che, fino a poche ore prima, era stato il
perno della catena di Angheledrior. Ogni tanto, un venticello sottile
agitava le foglie e qualche bacca precipitava con tonfi sordi sulla sua
corazza, andando in pezzi.
Galileo, astutamente, se ne stava raggomitolato nello spazio che restava tra la gola del drago ed il terreno, sonnecchiando.
«Non ci credo che l’ha fatto per davvero» mormorò Francesca, intenta a sbattere una tovaglia.
Per lei era quasi un’assurdità poter rivedere quello spiazzo così come era sempre stato.
«Nemmeno io» rispose Romilda, sorridendo stanca alle puntarelle che stava terminando di mondare.
Levò lo sguardo nel cortile invaso dalla luce. Ang e Amelia
erano seduti nella porta della stanza dello stalliere, lei fra le gambe
di lui con la schiena contro il suo petto, avvolti in lenzuola
d’erba e fusti di lino intrecciati. Anche se i postumi dell’Odimaé
la rendevano languida e coccolona più del solito, ciò non
le impediva di perdonare l’apprendista mago per quel che aveva
fatto.
«Te l’ho sempre detto che quella felpa era orrenda» rise, guadagnandosi una gomitata non troppo convinta.
Subito dopo pranzo, Jarvis aveva tentato di sciogliere per
l’ennesima volta l’incantesimo con cui aveva imprigionato
lo stalliere. Per aiutarlo a focalizzare il punto su cui agire, non si
era trovato di meglio della famigerata felpa col cuore di Murano.
Rimbrotti e sibili isterici si erano sprecati, prima che il Duca
riuscisse finalmente a trovare la giusta concentrazione per prepararsi
a lanciare l’incantesimo. La formula aveva funzionato, facendo
tornare integro l’albero e dissolvendo il legame con Ang, ma
l’indumento tanto amato dall’Archimaga
era sparito. O meglio, era servito per ricucire la spaccatura del
tronco, al punto tale da integrarsi con esso. Il risultato più
eclatante però, si vedeva tra le fronde: le grosse more scure,
ormai pronte per essere mangiate, erano state sostituite da cuori di
vetro delle stesse dimensioni. Cuori identici a quello che campeggiava
sulla stampa, di finissimo vetro veneziano, percorso da una fascia non
più nera, ma del colore delle more. Di tanto in tanto una bacca
si staccava dai rami per il troppo peso e precipitava a terra, andando
in frantumi.
In quel momento, Malcanto attraversò il cancello, seguito al
piccolo trotto da Violacielo, il suo puledro. Calpurnia era riuscita
finalmente a portare a termine la gestazione, regalando all’Incubo
un erede tutto zampe e zanne, il cui mantello aveva
un’improbabile tonalità di lilla, simile a quella che
tingeva il cielo poco dopo il tramonto. Era stata Isadora a notarlo e a
decidere il nome.
«Bisognerà pulire l’aiuola. Non vorrei che qualcuno
si facesse male» sospirò Amelia, vedendo il puledro
annusare l’erba dove brillavano le schegge di vetro.
«Credo non ce ne sarà bisogno, capo» pigolò Vorticillo, appollaiato sulla grondaia.
Aveva ragione: i due Incubi avevano preso a sgranocchiare quegli improbabili frutti con gusto, producendo suoni stridenti e raccapriccianti.
Isadora uscì dall’androne, camminando rigida e coi pugni
serrati. Si diresse dalla cuoca, tirando calci alla ghiaia. Dietro di
lei erano rimasti mucchietti di neve che andavano squagliandosi
rapidamente nella calura. Dall’espressione dell’anziana
ebbero conferma dei loro sospetti.
«Non ci credo, hanno litigato di nuovo… è la quarta volta da stamattina!»
«Se Jarvis fosse una donna direi che è “in quei
giorni”» bofonchiò, rientrando nella stanza per
vestirsi, imitato da Amelia.
Si cambiarono senza fretta, aiutandosi a vicenda. Dal suo rientro alla villa, l’Archimaga
aveva cominciato a vestire seguendo le richieste del suo compagno: non
c’era quasi più traccia di indumenti sintetici nel suo
guardaroba.
«E Lojana è brutta!» sentirono urlare alla bimba.
«Fantastico, ora se la prende pure con la Horla…»
disse lui, affacciandosi. «Eh, sì. Guardala là,
come se la ride dalla finestra. Ci scommetto quello che vuoi che si
è appena rivestita. Poi Jarv viene a farmi certe tirate e a
dirmi che si sente… com’è che ha detto? Ah,
sì: “violato e degradato ad oggetto di piacere”. A
me sembra che gli piaccia. Uh, accidenti, Marcella»
esclamò, udendo uno strillo acuto.
Amelia si affacciò appena in tempo per vedere una parte del
tetto cedere ed afflosciarsi sotto il peso della neve che Isadora aveva
creato in uno scatto d’ira. Neve che avrebbe dovuto essere nel
cortile, ma che era finita altrove, spinta da un maldestro incantesimo
del padrone di casa, ora affacciato alla finestra. Rannicchiata dietro
le ampie spalle di Francesca c’era Marcella, la nuova cameriera,
che aveva ancora parecchi problemi ad abituarsi all’inconsueto
menage. Era poco più che una ragazzina, ma aveva avuto
già a che fare con fantasmi e draghi nella dimora in cui
lavorava la sua famiglia. La poveretta però era quasi svenuta
per lo spavento quando aveva incontrato Lojana, che se ne stava ad
attendere il Duca nello studio, nuda e in una posa affatto composta. E
vedere un tetto che cedeva non l’avrebbe aiutata di certo.
«Cillo?» chiamò sconsolata.
Aveva ancora parecchio lavoro da fare con i nuovi rilievi, quella era
l’ennesima tegola tra capo e collo, nel vero senso del termine.
«Tranquilla, mi tengo pronto» garrì, prendendo il volo.
Amelia vide Ang fare un cenno in direzione del cancello ed
un’ombra sparire rapida. Gromi doveva aver sentito il fracasso
delle travi che si flettevano e le tegole che precipitavano nel
sottotetto, e doveva aver deciso di dare un’occhiata, in attesa
di ricevere qualche commessa da parte sua.
«Sai, a volte mi chiedo se davvero volevi tornare in questa
gabbia di matti» le disse l’elfo, posandole un bacio sulla
tempia.
L’Archimaga sorrise serafica. Non avrebbe scambiato quel manicomio con nessun altro posto al mondo.
E così si conclude questa mia prima original, che si è
meritata la creazione di unbannerino apposito. Carino, eh? Ci ho
lavorato un bel po'...
E' stata davvero una bella esperienza, che conto di ripetere al
più presto. Il riscontro delle letture è stato
incoraggiante, avendo sempre scritto nel fanfom di Harry Potter non
sapevo bene cosa aspettarmi, ma non posso che essere felice del
risultato!
Un grandissimo ringraziamento va a tutti i lettori che hanno seguito,
capitolo dopo capitolo, le vicende di Amelia e di tutti gli abitanti di
Villa dei Gelsi, primi fra tutti i miei fedelissimi: Emrys, Gaea e Alicia84, che non hanno mai mancato di farmi avere i loro pareri. Grazie anche a Columbine_Iceshimmer, natalie1977, scricci_, bloodingeyes, erikanordkapp, FeverOfCullen e victorialol, che hanno inserito "Archimagia" tra le storie seguite o preferite.
Con questo vi saluto e... alla prossima storia!
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