ARANCIO di nous (/viewuser.php?uid=89958)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 1 *** I ***
ARANCIO I
Ci sono
giornate
in cui non si sa che fare. Alzarsi o crogiolarsi nel letto fino alla
morte.
Sebbene la seconda ipotesi fosse allettante, la data imponeva il
rendersi
presentabile al pubblico. Shikamaru
Nara
concetrò tutta la sua attenzione nel focalizzare
l’ubicazione della sua
divisa. Avrebbe
sicuramente preferito
continuare a dormire: le ricorrenze di Konoha erano particolarmente
noiose.
Indossò la divisa da chunin. Sbadigliò e
legandosi i capelli uscì dalla stanza.
La casa era
insolitamente silenziosa; probabilmente gli altri lo avevano preceduto.
Suo
padre, come lui, non era il tipo da dare eccessivo peso alle feste di
stato. Vi
partecipava esclusivamente per il suo grado. Essere jonin implicava
anche
questo e Shikamaru ne aveva fatto esperienza con quella mattina di
sonno privato.
Per sua madre la cosa era differente: Yoshino nutriva un genuino
entusiasmo nei
confronti di quegli eventi mondani. Appeso all’uscio della
residenza Nara vi
era un drappo arancione. L’entusiasmo di sua madre era
decisamente esagerato.
L’ossessione
degli abitanti di Konoha per quel giorno era al limite del maniacale.
Le vie
del villaggio erano invase da decorazioni arancio. Troppo colore.
Troppa
ipocrisia. Ma che cosa poteva farci se loro avevano voluto
così. Prese la via
più breve per il Palazzo dell’Hokage. Il suo scopo
era di arrivare il prima
possibile incontrando il minor numero di persone e edifici con
suppellettili
arancioni. Quel colore, in quel giorno, lo metteva a disagio. Conosceva
il
perché, ma riteneva fosse meglio tacere e continuare a
pensare a fatti propri.
La filosofia del minimo sforzo era il suo credo e non vi avrebbe
rinunciato per
una questione morale.
Shikamaru
poteva
chiaramente scorgere i volti dei Kage. Primo. Secondo. Terzo. Quarto.
Quinto. Sesto.
Aveva trovato interessante come gli abitanti della foglia avessero
eclissato il
governo Danzo non solo non raffigurandolo mai, ma anche non
considerandolo mai
come Rokudaime. In effetti, l’attuale sarebbe stato il
settimo. A Konoha si
aveva l’abilità innata di nascondere gli eventi
spiacevoli fino a perderne
memoria.
«Avete
redatto
il rapporto della missione?»
«Si»
«E
lo avete
consegnato?»
«No.
Il
Rokudaime è attualmente occupato»
«Capisco,
ma provvedete
il prima possibile»
«Sarà
fatto.»
Questa
assicurazione bastò al vecchio per allontanarsi e lasciare
solo il ragazzo in
mezzo al corridoio. Appena l’odioso uomo voltò
l’angolo, il giovane si rilassò.
Da un po’ si domandava da quanto avesse iniziato a
comportarsi da bravo
soldatino. Non se lo ricordava, ma se si guardava attorno vedeva che
tutti
erano a modo loro cambiati anche se sembravano sempre gli stessi. Si
ravvivò la
zazzera bionda, credendo fosse un valido modo per allontanare quei
pensieri
scomodi.
Il biondo
aveva
sempre creduto che crescendo i problemi sarebbero scomparsi, ora, alla
veneranda età di vent’anni, si era accorto di
averli solo sostituiti con le
scartoffie. Aveva ben altri progetti per la sua età, ma il
passato è il passato
e i sogni sono sogni. Quello che si immagina da bambini, spesso, si
rivela
un’utopia. Da tempo aveva imparato a mettere da parte le
fantasie passate. Ogni
giorno che trascorreva il mondo appariva meno bello di come fosse anni
prima.
Non era
nella
sua indole passare il tempo a deprimersi lungo i corridoi del palazzo
dell’Hokage, ma il solo pensiero di tornare a lavoro lo
bloccò. Quel benedetto
rapporto andava consegnato, nella speranza che non fosse mai letto.
Odiava
profondamente quel genere di missioni. Eliminazione. Nemmeno si
ricordava il
volto si tutti quelli a cui aveva tirato un kunai fatale. Persino
l’ultimo non
gli veniva in mente. Lo aveva guardato dritto negli occhi, mirato e
colpito. Un
tiro pulito, un centro perfetto tra le cavità oculari.
Mosse i
primi
passi in direzione dell’ufficio. Quella aveva tutti i
presupposti per
presentarsi come una pessima giornata. Gli stendardi arancione acceso
fuori
dalli vetri ne erano la prova. Ancora trenta passi e avrebbe varcato la
soglia
della stanza, ancora trentacinque passi e si sarebbe trovato affianco
il suo
capo ad assistere a quell’ingloriosa ricorrenza.
ARANCIO
«Cantami,
o Diva, del Pelìde Achille
l'ira
funesta che infiniti addusse
lutti
agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose
travolse alme d'eroi,
e
di cani
e d'augelli orrido pasto
lor
salme abbandonò»
(OMERO,
Iliade, libro I)
I.
«Vedo
che lavori
molto, Naruto» . Il biondo si voltò sorpreso.
«Shikamaru»
disse come svegliato da un lungo sonno. «Anche tu
qui» e il suo sguardo tornò a
puntare l’arancione di fuori. Alla fine quella trentina di
passi non era
riuscito a farla.
Il moro
accorciò
le distanze, portandosi affianco al compagno.«Non ti
piacciono proprio, eh? ».
«Dovrebbero!?».
Naruto accennò un sorriso sghembo non degnandolo di uno
sguardo. Shikamaru
ormai aveva acquisito una certa esperienza nel gestire il biondo in
situazioni
come quella. Ogni anno quel siparietto si ripeteva con le stesse
modalità e
tempi. Forse il dialogo variava, ma il succo no.
Divagazione.
«Il
grande capo
ci starà aspettando. Andiamo…».
«Non
ti
preoccupare non saremo certo noi in ritardo».
«Quell’uomo
non
perde proprio il vizio…».
«Già…».
Silenzio e
mugugni.
«Mhn…».
«Mhn…ma
ti rendi
conto!?».
Sfogo.
«Che?».
«Questa
festa…».
«Ah…».
«Questa
festa…non ha senso».
«Festeggiano
l’uccisione di Madara. Ti celebrano.».
«Stronzate.»
Solo
mettendo il
sale sulla ferita questa si sarebbe cicatrizzata. Shikamaru sapeva che
solo
dando da dire a Naruto lo avrebbe aiutato a fare pace con il mondo.
«Stronzate.
Io
non ho fatto nulla. Nulla degno di essere celebrato. Lo sai, hai visto:
ha
fatto tutto lui. Da solo. Io…io alzato un polverone senza
combinare nulla di
concreto…»
«Lo
hai ucciso.»
«Mi
sono
limitato a dargli il colpo di grazia. Il grosso lo ha fatto
lui.». Naruto
fissava i drappi arancioni come volesse incenerirli con lo sguardo. Per
una
decina di secondi rimase immobile senza nemmeno prendere fiato.
Shikamaru
comprendeva come l’amico ribollisse di rabbia nel guardare
fuori dalla
finestra.
«Mi
sono trovato
lì nel momento adatto, non mi merito nulla.»
Liquidò così il moro, svoltandogli
le spalle e comprendo i trenta passi che lo separavano
dall’ufficio
dell’Hokage. Shikamaru strinse le spalle fissandolo entrare,
per poi seguirlo,
come era consuetudine negli ultimi anni.
Fu svegliato
dal
brontolio del suo stomaco. Erano giorni che intervallava momenti di
torpore a
rari attimi di lucidità. Non si ricordava nemmeno
l’ultima volta che avesse
toccato cibo. Decise , quindi, che era arrivato il momento di
svegliarsi e
andare a fare qualcosa per affermare il suo essere vivo. Forse avrebbe
ucciso
qualcosa. Si sarebbe alzato, sarebbe corso nel bosco e avrebbe preso
qualcosa,
qualsiasi cosa.
Fece perno
sulle
braccia per sollevare il busto. Il braccio destro rispose
all’impulso , il sinistro
no. Ad essere precisi l’intorpidimento coinvolgeva la parte
sinistra del
torace, la spalla, il braccio, la mano, le dita. Tutto era
addormentato.
Supino, portò
la mano destra a
massaggiarsi la zona vicina al cuore. Il palmo poteva avvertire un
intenso e
febbricitante calore a fior di pelle.
Rimase a
pancia
all’aria ancora a lungo, dopo che il suo stomaco lo
svegliò, ad accarezzarsi il
petto. Si era perso ad osservare le macchie di umidità sul
soffitto. Alcune gli
sembravano dei cavolfiori andati a male, con mezzi di intonaco cadenti
ed
umidicci; altri componevano codici. Tondo grande. Tondo grande. Tondo
piccolo.
Cerchio. Tondo grande. Continuò a decriptare le chiazze
marroni sopra la sua
testa fino a sentire la mano della stessa temperatura del torace. Ormai
poteva percepire
nuovamente la sua parte sinistra. Decise, allora, che era giunto il
tempo di
alzarsi e andare ad uccidere qualcosa, anche se ormai non aveva
più fame.
Trovava
scomoda
quella sensazione di bruciore di quando si cessa di avere fame senza
aver
mangiato nulla.
Fuori era
discretamente caldo. Uscì dal suo rifugio senza maglia. Le
fronde di
vegetazione, umide di mattino, gli stavano lasciando un alone
appicicaticcio
addosso. Si sentiva come grande carta moschicida. Una di quelle che sua
madre
metteva d’estate fuori dalla finestra della cucina. Si vedeva
circondato da
mosche. Ma lì, a parte qualche fastidioso stormo di
moscerini, non c’era nulla.
Forse qualche grassa larva intenta a mangiare le piante
dall’interno, ma nulla
che somigliasse ad una mosca. Troppo spesso la sua mente viaggiava
più veloce
della realtà.
Con quei
suoi
dannati occhi vedeva cose straordinarie. Però, di una
realtà alternativa non
aveva la più pallida idea di che farsene. Lo stavano
ingannando. Prima il mondo
si era preso beffa di lui ed ora anche le parti che componevano il suo
corpo.
Avrebbe preferito il silenzio a quel ronzio di mosche nella sua testa.
Agli insetti
si
sostituì uno scrosciare d’acqua. Probabilmente
nelle vicinanze doveva esserci
un fiume. Si diresse verso la fonte del rumore. Cacciare in quel
sottobosco era
troppo complicato, meglio pescare. Era da una vita che si nutriva di
pesce.
Con la testa
vuota si ritrovò davanti ai salti di una torrente.
L’acqua era eccessivamente
limpida per occultare le sue prede: dei pesci tonti che non sanno che
sopra di
loro vi era il predatore. Li fissò con intensità,
come se il suo sguardo
potesse uccidere anche loro. Quelli se ne rimanevano attorno al un
masso, vivi
ed ignari di tutto. Sorrise. Questa volta avrebbe dovuto sporcarsi le
mani per
uccidere.
Si
avvicinò
ancora, fino ad essere sopra il suo pasto. L’ombra del
ragazzo cadeva al di là della
roccia. Era stato un abile ninja e non avrebbe rovinato la sua caccia
spaventando il cibo con la sua proiezione. Constatò ancora
quanto l’acqua fosse
limpida. Vide la sua immagine riflessa e la ignorò.
Fulmineo, ruppe la
superficie con il braccio, avverrò la vittima e la
portò fuori. Il suo riflesso,
in sua manciata di secondi, si ricompose.
Un giovane
uomo
con in mano un pesce. Un grosso pesce, un pasto adatto per una persona
sola.
Non si riconosceva. Era da un po’ che non si guardava in uno
specchio. Lo
scoprirsi diverso dal ricordo che aveva di sé, lo
lasciò basito. Era magro,
forse a causa della sua dieta fatta di sonno. Aveva il viso scavato.
Una
leggera barba incolta gli copriva il mento e le guance. I capelli erano
arruffati. Lo sguardo incredibilmente vuoto. Non era più
lui. La sua immagine
lo guardava con espressione severa.. Poteva distinguere chiaramente il
limite tra
ossa e muscoli sulle braccia e sul torace scoperto.
All’altezza del cuore vi
era una cicatrice, il segno di un’ustione, più
scura rispetto al pallore
cadaverico delle sue membra. Quella dannata cicatrice lo tormentava da
tempo.
Ma era un ricordo, uno brutto che non si vuole dimenticare.
Fissò la macchia
sul petto. Voleva entravi dentro ed accedere a quelle memorie. Ora che
era
lucido, desiderava sapere che cosa fosse successo, che fine aveva fatto
il suo
vecchio io. Strinse il pungo, fino a sentire le unghie entrare dentro
la carne
del pesce. Non riusciva a capire cosa lo infastidisse maggiormente: se
la
nostalgia di sé, o l’incapacità di far
riaffiorare i ricordi. Scaraventò
l’animale sulla riva. Con un balzò lo raggiunse.
Prese il kunai che portava al
fianco, lo affondò nel ventre della bestia.
Infilò dentro il taglio rosso la
mano e la portò fuori con le viscere del pranzo. Si
guardò attorno. Un grosso
ramo secco sarebbe bastato ad alimentare un piccolo fuoco. Appena
trovò la
legna adatta, la portò vicino alla sponda. Trafisse il pesce
con un rametto
verde e conficcò lo spiedo a terra. Compose dei sigilli.
Serpente, pecora,
scimmia, cinghiale, cavallo, tigre.
«Katon!»
Ora poteva
prepararsi un pasto decente.
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Capitolo 2 *** II ***
ARANCIO II
II.
Il suo ingresso
fu accolto dallo sguardo del Rokudaime. Naruto si meravigliò di vederlo già a
lavoro, ma non lo diede a vedere. Si accinse a percorrere quei cinque passi,
abbassando gli occhi, che per un attimo avevano incontrato quelli comprensivi
del vecchio sensei. Lui aveva imparato a conoscerlo meglio di nessun’altro. L’Uzumaki
non voleva dargli la soddisfazione di trattarlo come un bambino, per l’ennesima
volta. D’altronde, per il biondo era
sempre stato così. Ogni legame forte, che avesse costruito con una persona a
lui cara, era andato a colmare il vuoto di una famiglia mai avuta. I suoi
maestri avevano recitato da fratelli maggiori, zii e genitori. Non aveva mai
ritenuto di poter considerare Kakashi alla stregua di un padre, era più uno zio
incostante: un’ ombra sempre presente alle sue spalle, che però lo aveva
lasciato solo molte volte. Non gliene poteva dare colpa, aveva compreso che
quello era il suo modo d’essere.
Naruto si
accostò alla scrivania, continuando ad analizzare i listelli di parquet sotto i
suoi piedi. L’Hogake lo seguì con la coda dell’occhio, continuando a dedicarsi
alle scartoffie sul suo piano di lavoro.
«Sei in
ritardo…». Disse atono.
«Sono arrivato
all’ora in cui dovevo arrivare».
«Potevi darmi
questa soddisfazione, non capita spesso che io sia in anticipo…».
Naruto lo
squadrò dall’alto con sufficienza.
«Scendi con me
dopo?». La voce del Rokudaime si fece improvvisamente seria. Il ragazzo,
prontamente, distolse lo sguardo dalla figura seduta vicino a lui. I piedi si
mossero automaticamente e lo portarono tre passi più avanti, di fronte alla
parete vetrata. Era sempre stato incapace di rimanere fermo in situazioni a lui
scomode.
«Non ho ancora
deciso…».
Shikamaru attendeva
sull’uscio. Nessuno aveva prestato attenzione al suo ingresso. Aveva potuto
chiaramente sentire come il tono della conversazione fosse cambiato e come,
tutt’attorno, l’aria fosse diventata densa. L’allievo ed il sensei erano
arrivati, nuovamente, ad un irreversibile situazione di stallo. Era uno
stratega, sapeva che doveva intervenire un nuovo elemento per sbloccare la
situazione.
Bussò sul legno
massello della porta aperta per rivelare la sua presenza.
«Ah…Shikamaru.». Kakashi alzò il volto nella
sua direzione accogliendolo con una velata espressione bonaria.
«Sono venuto ad
informarla che ora di andare.»
«E’ già ora!?
Come vola il tempo....».
Si alzò
frettolosamente dalla sedia, prese il soprabito appeso alla spalliera. Se
infilò, continuando a fissare il moro.
«Sei tu la
scorta oggi, vero?».
«Sì, signore.».
«Bene, andiamo.»
Afferrò il cappello e si diresse verso il jonin che lo attendeva. Ma il suo
percorso si bloccò a meta strada.
«Naruto, che
fai?».
Il ragazzo, di
spalle, non lo degnò né di un sguardo, né di un accenno di risposta. Quel
silenzio, però, per Kakashi fu più efficace di qualsiasi parola.
«Come ti pare.».
Appoggiò il copricapo in testa e fece cenno a Shikamaru di andare.
Lo stratega
rimase immobile per un po’ a guardare la schiena dell’amico. Sperava di vederlo
distogliere lo sguardo da oltre il vetro e seguirli. Purtroppo era consapevole
che questo non sarebbe mai successo, non in quel giorno. Fece perno sul tallone destro. Si voltò. Con
le mani in tasca ripercorse i passi del suo capo.
Anche Naruto
cominciava ad essere una seccatura.
«Anche
quest’anno l’eroe fa i capricci.»
«Già….».
Strinse gli
occhi e si morse il labbro inferiore fino a sentire il sapore metallico del
sangue. Naruto odiava quel giorno e avrebbe fatto di tutto per non sentire più
quei discorsi. La parola eroe lo
disgustava. Un tempo avrebbe dato il braccio destro per sentire inneggiare il
suo nome associato a quella, ma ora era tutto diverso.
Per gli altri era facile scegliere la versione
dei fatti che più si adattasse alle circostanze. Konoha doveva essere salvata
da un fedele e valoroso ninja di Konoha. Aveva desiderato a lungo diventare
l’eroe del suo villaggio. Lo era stato. La sensazione era durata un nulla. Non
aveva senso essere acclamato nuovamente. Lo vedevano come un eroe assoluto che
salvava tutto e tutti ad ogni situazione di pericolo, in ogni circostanza. Eroe
una volta, eroe per sempre.
Quel 13 maggio,
il salvatore di Konoha fu il suo nemico. Che fosse stato un atto eroico o no,
cosa importava. Naruto aveva urlato al mondo che lui non era un eroe, ma
nessuno lo aveva ascoltato. Non sopportava quell’ingrata attribuzione di
merito.
Il silenzio
annunciava una disgrazia imminente. Davanti alle porte del villaggio si
stagliava il profilo di due ombre. Poteva distinguere le fattezze del compagno.
Quel chakra spaventosamente freddo. Un brivido gli percorse la schiena. Paura
ed eccitazione. Avrebbe combattuto, lo sentiva delle ossa. Era certo, che un
giorno, si sarebbero scontrati e, sicuramente, sarebbero morti.
Naruto era
pronto ad attaccare un nemico che non accennava a muoversi. Il biondo si
sentiva ignorato. Lo stavano ignorando. Era praticamente impossibile che due
ninja di tale calibro non si fossero accorti di lui. Madara di fronte a Sasuke.
Sasuke di fronte a Madara. Una luna ambrata
illuminava di un lugubre bagliore quel poco che riusciva a vedere dei
volti dei due nukenin. Le labbra di Sasuke si aprivano
e chiudevano ritmicamente. Sicuramente stavano parlando. Naruto dalla sua
posizione non riusciva a sentire che un minimo brusio. I due Uchiha
continuavano a stare immobili. Due statue. Se la stavano prendendo comoda, come
se avessero avuto tutto il tempo del mondo, come se non ci fosse nessuno
disposto a combattere per Konoha. Lui era pronto a combattere e basta. Al
diavolo il villaggio. Farsi guerra. Morire. Era pronto. Quello era il suo
momento: l’amico tanto cercato era lì. Meno di sessanta passi da lui. Sentiva
la frenesia espandersi per tutto il corpo. Il timore era annullato
dall’eccessiva dose di adrenalina, che circolava nelle vene del ninja di
Konoha.
Sasuke si mosse. Naruto
sobbalzò. Il vecchio amico aveva solo inclinato la testa in avanti, come per
riflettere. Il biondo lo vide
sollevare il capo e rivolgerlo verso di lui, in un tempo che sembrò infinito.
Il moro portava sul volto una smorfia simile ad una sorriso. Un’espressione
artefatta. L’Uzumaki vedeva in quella bocca leggermente piegata all’insù la
brutta copia di quei ghigni di sfida, che tante volte si erano scambiati a
dodici anni. Ma gli occhi erano diversi. Quello sguardo gli fece gelare il
sangue. Quelle iridi scarlatte avevano un disegno nuovo. Naruto si sentiva
trafitto da quegli occhi. Vi leggeva una follia mai vita sul viso del ragazzo,
ne in nessun uomo. La sua mente elaborò velocemente che quello non poteva
essere Sasuke.
«Naruto, proprio
tu».
Le parole furono
accompagnate dal braccio sinistro allungato verso il biondo, come ad invitarlo.
Per la prima volta in vita sua , quel Sasuke gli aveva teso una mano, ma quello
non era il Sasuke che si era più volte promesso di salvare.
Si sentì
miserevolmente preso in giro. Avvertì il
calore pervadergli il corpo, la rabbia
affanargli il respiro e velocizzargli il battito, gli occhi del nemico su sé,
dentro di sé, tutto l’allenamento per controllare il Kyūbi rivelarsi inutile.
Il ninja sentiva che quel folle la stava chiamando. Stava invocando la parte
più inconscia di quello che era stato un fratello. Sasuke lo aveva tradito. Lui
si era tradito. Quello che il biondo non aveva preso dal demone, ora, lo stava reclamando
l’Uchiha.
Poi venne il
buio.
Naruto non
riusciva esattamente a ricordare cosa fosse successo. Aveva solo immagini
frammentarie. Sasuke. Fuoco. Madara. Sangue. La sua mente aveva registrato solo
questo.
Odiava ammettere
che rammentava solo di essersi svegliato a terra con un ricordo dei suoi
vestiti e zuppo di sangue. Odiava ammettere di avere provato una irrazionale
odio nel momento in cui aveva visto Sasuke seduto, inespressivo, su quello che
doveva essere l’architrave della porta del villaggio.
A quella visione
concentrò tutta l’energia che aveva in corpo nel suo colpo migliore. Lo avrebbe
scagliato all’amico, come ringraziamento. Ma qualcosa lo portò a voltarsi. Una
sensazione che partiva dalla viscere. Sentiva la necessità di guardare oltre la
sua schina.
Madara stava lì.
Malfermo sulle gambe. Grondante di sangue. Con una maschera da vecchio in
volto.
Naruto riconduceva a quel momento la firma
delle sua condanna ad eroe.
Guardò fiero la
detonazione. Non si era reso conto con quanta rapidità avesse cambiato
bersaglio. Si voltò in direzione di Sasuke.
Guarda cosa ho fatto. Ora siamo solo io e
te.
Ma tutto l’odio scomparve e lasciò posto alla
pietà. Colui con cui voleva combattere aveva la casacca stracciata e
innaturalmente rossa. Naruto non sentiva più il suo sguardo su di sé. Quegli
occhi parevano guardare altrove, anche se stavano fissando nella direzione del
biondo.
Naruto non
riusciva a sostenere oltre quello scontro impari e silenzioso. Rivolse le
spalle ai resti della porta di Konoha ed analizzò brevemente ciò che rimaneva
di Madara.
La stanchezza si
fece largo tra la sue carni travagliate. Gli arti inferiori non erano più in
grado di sostenerlo. Chiuse gli occhi e si accasciò.
Sasuke Uchiha, a
gambe incrociate davanti al fuoco, si sentiva la testa pesante. Era ipnotizzato
dall’imbrunirsi della pelle del pesce. Troppo vicine alla fiamma, alcuni
brandelli di squame bruciavano velocemente lasciando il loro posto ad aloni
neri.
Sin dall’infanzia aveva imparato ad utilizzare
il suo elemento. Più che una sua peculiarità era una cosa di famiglia. Di padre
in figlio, ogni Uchiha che si rispetti, prima dello Sharingan, doveva saper
manipolare il fuoco. Si era più volte domandato come poteva essere carbonizzare
una persona. Forse era come stare a guardare quel pesce da troppo lasciato a cuocere.
Aveva letto che un uomo che brucia ha un odore dolciastro, ma non lo aveva mai
annusato in prima persona. C’era stato un periodo in cui non uccideva nessuno.
In cui tutto era allenamento. Quando nel suo mondo ancora resistevano gli
ideali.
Afferrò lo
spiedo. Si ricordava un vago sapore di arrosto. Bastava illudersi che fosse
buono per mangiare. Soffiò un paio di volte per disperdere il calore. Avvicinò
la bocca per addentare la carne. Sentì la porzione di pelle sotto il naso
bruciargli. Aspettò un po’, osservando il diradarsi dei fumi provenienti dal
pesce. Nuovamente, si avvicinò. Avvertita una temperatura accettabile per la
sua lingua, aprì la bocca ed addentò il fianco dell’animale. Masticò
lentamente, non per gustare il sapore ma per trovare qualcosa di buono.
La carne bianca
dell’animale aveva un retrogusto di pesce. Il sapore predominante era quello
dello strato superficiale quasi carbonizzato. Aveva la bocca piena di cenere.
Cenere, sangue e polvere. Sentiva affogarsi
nella nube incandescente delle ripetute deflagrazioni. Doveva socchiudere gli
occhi per continuare a vedere.
Lasciò cadere il
pasto a terra. Entrambe le mani gli raccolsero il volto. Andò a massaggiarsi le
tempie. Il suo campo visivo era concentrato ad uno spiraglio tra i due palmi.
La sua attenzione era localizzata in una manciata di centimetri. Una fila di
formiche si dirigeva a conquistare il pesce.
Il capo era
Madara. Lui voleva essere a capo di tutto. Voleva prendere tutto. In un modo o
nell’altro aveva preso parte di Sasuke. Aveva portato al crollo di quel
castello di carte, che per il ragazzo era la realtà. Aveva fatto breccia in
quell’animo scoperto di bimbo sperduto. La semplicità di occhio per occhio,
dente per dente continuò ad essere il suo irrazionale credo.
Quella
successione di pallini neri, zampettava sul segno lasciato dai denti. Dentro e
fuori. Anche per loro quel cadavere doveva avere la temperatura ottimale per
essere lentamente smembrato. Il moro pensava che anche lui un giorno sarebbe
stato mangiucchiato da quelle insignificanti bestiole. Probabilmente avevano
digerito anche i suoi affetti. Da tempo il suo passato non c’era più.
«E’ ora.»
«Cosa dovrei
distruggere!? Qualcosa che non c’è.»
«Konoha non è
mai stata così debole. Approfittane.»
«No! Mi è stata
spianata la strada una volta. Lo concedo a mio fratello, ma a Konoha non posso
permetterlo. Devono perdere ciò che hanno di più caro, non quello che gli
rimane. »
«Distruggila e
basta.»
«Non prendo
ordini da te.»
«Che ingrato...e
dire che sono stato io a permetterti di arrivare a questo giorno.»
«Mpf». I suoi
nuovi occhi guardavano la maschera di Madara.«Ho ridimensionato i miei obiettivi.»
«Mi stai dicendo
che non vendicherai più Itachi?»
«Konoha sarà
distrutta. Per mio volere, non per il tuo! Sarò io a decidere quando sarà il
momento per rendere onore a mio fratello…»
«Illuso…»
«Sei solo un
intralcio.»
«Ragazzino…»
«Ora siamo
uguali. Abbiamo lo stesso potere.»
«Tu non sei
nemmeno vicino al mio livello. Credi che avere ottenuto lo Sharingan Eterno ti
renda simile a me!? Non farmi ridere. Sei solo un presuntuoso ragazzino
inesperto.»
«Quanto può
durare ancora quel corpo che ti porti in giro?»
«Cosa?»
«Io sono giovane
e non posso altro che migliorarmi. Tu sei vincolato da quel bamboccio che usi
per muoverti. Per questo hai lasciato combattere solo me…tu non puoi con quel
corpo…Inoltre…»
«Taci!»
«Perché? Il
ragazzino ha scoperto il tuo punto debole?», ghignò, tutto andava come si era
immaginato, «Inoltre, chi meglio di me può fare breccia nel Nove Code…»
«Che vuoi
fare?!»
L’ospite d’onore
degli Uchiha era già arrivato.
«Naruto, proprio
tu.»
Il demone era
dinnanzi a lui, confinato nel biondo. Entrambi erano diversi dall’ultima volta,
ma abbastanza potenti per il suo scopo. Con
suoi occhi poteva addomesticare la volpe ed adempiere al suo nuovo
obiettivo; Madara non avrebbe visto l’alba.
Un attacco dopo
l’altro, esplosione dopo esplosione. Quella potenza era inarrestabile ed
indomabile.
La testa gli
stava esplodendo, le formiche gli avevano cominciato a mangiare il
cervello.
Il Kyubi era
distruzione. Puro odio. A stento riusciva a controllarlo, a non farsi spazzare
via dall’enorme quantità di chakra generato.
La pelle
bruciava. Sentiva gli insetti camminargli sulla carne viva.
Il corpo del suo nemico stava cedendo. Contava i
secondi che impiegava a rialzarsi da terra. Il lasso di tempo si allungava ad
ogni caduta. La maschera arancione aveva iniziato a cadere a pezzi. La pelle
fittizia iniziava a perdere di tensione. Il corpo cominciava a mostrare l’età
dell’anima.
I morsi di
quelle creature erano insopportabili. Gli stavano sulle labbra, sulle cavità
del naso, sulle palpebre. Mordevano e maciullavano.
Il nove code non
smetteva la sua opera distruttiva. Sasuke
sapeva che doveva farlo rientrare il prima possibile. Non aveva
intenzione di morire. Non lì. Non avrebbe dato a Konoha il privilegio di avere
il suo cadavere. Il guerriero concentrò il suo potere sugli occhi. Il suo
demonio cominciò a materializzarsi. Per la prima volta sotto gli attacchi della
volpe vide la sua armatura scalfita e fiotti di sangue uscire dal suo corpo. Le
fiamme nere si alzavano su campo di battaglia. La volpe e il ninja combatterono
per un tempo indecifrabile. Quei suoi maledetti occhi chissà per quanto tempo
li ingannarono.
Il dolore si
fece insopportabile. Scattò in piedi. Nel lanciarsi cadde a carponi sul greto del
torrente. Tuffò la testa in acqua. Le formiche sarebbero morte affogate.
Nessuna si sarebbe salvata. Decimava insetti ad occhi aperti, scrutando il
vicino letto di ciottoli. I capelli nuotavano trasportati dalla leggera
corrente. Poteva sentire il fresco delle liquido annidarsi tra la barba.
Nell’apnea, si sentì purificato. Ma i polmoni cominciavano a reclamare
ossigeno, Sasuke dovette riemergere per respirare. Fece forza sulle braccia,
per sollevare il capo ed il collo come fossero un blocco unico e rigido con la
schiena. Si fermò con la punta del naso a pelo dell’acqua. I capelli per metà
ancora immersi. La barba aderente alle guance magre. Gli mancò l’aria vedendo,
da fuori, l’ombra si una figura con nove code sui sassi del fondale del rio.
Konoha si era
tinta di arancio. Ogni finestra ed ogni lampione portava vessilli arancione. La
gente si era riversata sul viale principale. Alcuni sventolavano la loro
bandierina, altri intonavano canti e urla di gioia. I più mattinieri si erano
guadagnati un posto sotto il palco alla fine di quel taglio sul villaggio.
Sullo sfondo del palazzo dell’Hokage, la massima autorità si apprestava a
tenere il tradizionale discorso da cerimonia. Naruto vedeva l’Hakate nascosto
dietro il palco ligneo, anche esso con fastidiose decorazioni. Un mare si
persone ad attendere le parole di un uomo che dava fiato a frasi fatte. In tre
anni, il sensei non aveva cambiato tipologia di discorso, evidentemente i suoi
collaboratori avevano trovato la formula efficace per gettare fumo negli occhi
del popolo. L’eroe non vuole essere
elogiato, poiché ritiene che tutto i cittadini di Konoha sono stati eroici nel
riportare il villaggio al suo fasto originario. Il biondo, dall’alto
dell’ufficio dell’Hokage, se la rideva si cuore sentendo quel passaggio e
vedendo la popolazione alzarsi in un giubilo.
I bambini
stavano sulle spalle dei genitori, facendo vedere i sorrisi sdentati e
sventolando la bandierina arancione. Come lui, anche le nuove generazioni
avevano bisogno di avere miti. I piccolo erano giustificati. Gli adulti, senza
eccezioni erano un branco di idioti. Lui ne era il re.
Quella baraonda
sarebbe andata avanti fino a tardi. Dopo il pomposo discorso istituzionale, gli
abitanti del villaggio avrebbero preso d’assalto le bancarelle e gli stand
gastronomici. Gli uomini si sarebbero ubriacati, le donne spettegolato e i
bambini giocato in suo onore. Oltre un falso eroe in certi momenti si sentiva
un capro espiatorio per far aumentare gli introiti di Konoha.
«Naruto…», disse
una voce femminile alle sua spalle. La riconobbe immediatamente.
«Non sei di sotto a festeggiare, Sakura!?»
«Non ne avevo
voglia...» La ragazza fece una panoramica della sala in cui era appena entrata.
L’amico non si era voltato nemmeno per salutarla. «Ho saputo che a breve avrai
un’altra missione in solitaria.» disse passandosi la mano desta sul gomito
sinistro, come per mascherare il disagio, «Quando parti?»
«Domani.»
Naruto si voltò,
perdendosi gli ultimi attimi del discorso dell’Hokage. Percorse i trentotto
passi che si mettevano tra lui e l’uscio. Sakura se lo vide passare vicino senza
che la degnasse di uno sguardo. Il biondo sparì nel corridoio. La ragazza abbandonò le
braccia lungo i fianchi. Strinse i pugni per farsi sbollire la rabbia.
Salve a tutti. Grazie a coloro
che hanno messo la storia tra le seguite. Un particolare ringraziamento
va ad ilarione e Sarhita che hanno recensito.
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Capitolo 3 *** III ***
ARANCIO III
III.
Anche l’acqua
era sua nemica. Lo leggeva in quelle lievi increspature. Quel rigagnolo si
stava prendendo gioco di lui. Lo stava deridendo. Lo stava uccidendo con
l’illusione della pace. Tutta l’acqua nel suo corpo era complice del fiume. Si
sentiva affogare. D’istinto, i palmi e le ginocchia indietreggiarono di poco,
il necessario per non far leggere al suo nemico informe il terrore sul suo
volto.
Tachicardia. La
stessa che sentiva dopo anni d’allenamenti. La stessa che sentiva dopo ogni
scontro. La stessa che sentiva emergere quando pensava alla sua morte.
L’Uchiha presagiva che il suo cuore
sarebbe arrivato al limite, presto. Sarebbe scoppiato. Avvertiva la pressione
che il muscolo stava esercitando sul suo sterno. Gli sarebbe esploso nel torace
fracassandogli tutto. Le costole si sarebbero sbriciolate e i polmoni sarebbero
diventati una poltiglia grigiastra. Oppure, una volta che la pressione
dell’esplosione li avrebbe svuotati di tutta l’aria che contenevano, avrebbero
risucchiato tutto il sangue, che da lì a poco gli avrebbe riempito il corpo. Si
sarebbe gonfiato di sangue. Sarebbe morto affogato nel suo stesso sangue.
Forse, negli spasmi della morte, avrebbe vomitato tutta quella inconsistente
gelatina rossiccia che una volta era stata parte del suo corpo. Forse si
sarebbe liberato di tutta quella fastidiosa roba rossa. Sarebbe morto leggero.
Aspettava il
sapore di ferro salire dalle viscere lungo la gola. La bocca era secca. Il naso
aveva smesso di funzionare. L’aria non arrivava ai polmoni. Il suo battito era
talmente accelerato da impedire ai suoi organi di dilatarsi. Respirava. Ma non
riusciva ad assaporare l’aria. La sentiva entrare, ristagnare per una frazione
di secondo in bocca ed essere espulsa.
La sensazione di debolezza dovuta
all’asfissia, lo fece cadere sui gomiti. Sasuke si trovò con il naso a tre dita
dal suolo polveroso. Si sarebbe aspettato di sentire le carezza dei radi ciuffi
d’erba sul suo volto. Sulla pelle veniva sfiorato solo dal ruvido turbinio di
terra secca sollevato dal suo tentativo di respirare. Precipitò di lato per
aver più spazio per continuare a vivere. Vedeva il suo torace alzarsi ed
abbassarsi convulsamente. Su e giù. Stava morendo. Nei suoi vent’anni era morto
troppo spesso. Se si fosse risvegliato sarebbe morto ancora. Ancora. La morte
alla fine l’avrebbe ucciso per noia.
La sua era una signora machiavellica. Una dama
gentile e meschina. Amorevole e fatale. Dal basso ventre alla gola un brivido
caldo si fece largo tra le sue carni. La dopamina manteneva il battito
accelerato. Inarcò la schiena per gustare al meglio il tocco dei crini scuri
che ricadevano su di lui. Lei era pallina, non di un biancore malato come il
suo, ma lunare. La pelle avorio delle sue mani danzava sul suo torace, pronto a
non accoglier più aria. Lei era bella. Una bellezza che non si limitava alla
forma, ma a tutta la sua essenza. Una bellezza ipnotica che più volte aveva
catturato il guerriero.
Sasuke era
troppo pieno di lei. Vedeva le sue iridi verdi nella volta di vegetazione che
lo sovrastava. La sua bocca sottile e dorata in quello squarcio di sole che si
faceva largo tra le fronde e le nubi di un cielo spento. Il corpo faceva da
cassa di risonanza al ricordo delle parole sagaci e argute della dama. Strinse
il pugno afferrando frammenti di vegetazione spontanea e terra come se fossero
le leggere vesti della delicata signora alla sua presenza. L’incosciente
piacere di essere accompagnato da una creatura di tale magnificenza si aggiunse
alla paura e al tedio della continua sensazione di morire. Appagante era
l’illusione di trattenere la musa a sé. Disarmante la certezza di essere stato
catturato dalla diva. Il dolore proveniente dalla cicatrice sul petto gli iniziò
a sembrare gradevolmente lacerante. La mancanza d’ossigeno, in quel momento, avrebbe significato affogare in lei. Forse
sarebbe morto.
Passava la lama
sull’incavo tra incide e pollice per valutare quanto fosse affilata. In
penombra, seduto sul pavimento freddo della sua abitazione controllava
attentamente la qualità del suo armamento. La luce delle ultime ore del giorno
veniva filtrata dalla fessure lungo la persiana. Il sinistro bagliore dei ferri
si rifletteva sul suo volto di giovane uomo.
Con il tempo
aveva imparato a prestare una cura maniacale per il suo equipaggiamento.
L’esperienza di molte battaglie gli aveva insegnato a scegliere quali dovessero
essere le sue armi. C’era chi portava con se katane, spade o spadini di vario
genere. Lui prediligeva armi corte e da lancio, ma pratiche anche nei corpo a
corpo. Kunai. Shuriken. Spiedi, all’occorrenza.
Portò il kunai
vicino a viso per analizzarlo meglio. Pasò un dito lungo il suo profilo. Troppo
poco affilato per essere utile.
L’affilatura era
un processo semplice. Sapeva bene come rendere un’arma inutilizzabile, fatale.
Sistemò la lama sulla pietra abrasiva ai sui piedi. Impose una leggera
angolazione all’arma e la guidò sulla superficie ruvida. Numerose volte, finchè
non fu soddisfatto del risultato. Passò all’altra faccia del kunai. Al filo
opposto. Con insistenza sfregava la lama sulla pietra per renderle estremamente
tagliente. Doveva essere in grado di ferire il nemico al tocco. Immediatamente
doveva lacerare e non concedere all’avversario la consapevolezza del taglio.
Prese un altro
kunai ed incominciò ad analizzarlo.
Le armi per un
ninja erano un semplice strumento. Non erano essenziali, ma facevano comodo.
Naruto le usava perché non amava usare le sue tecniche per sporcarsi le mani
con nemici che non lo meritassero. Aveva sperimentato sul campo il fascino di
un combattimento essenzialmente basato sui fondamentali ninja, sulla
semplicità. Se si conosceva dove colpire, tutto poteva diventare letale. Le sue
armi dovevano essere letali. Uccidere silenziosamente. L’affilatura era
diventata il suo rito prima di ogni missione. Una veglia alle sue lame, alle
sue compagne. Ormai era solo con loro sempre più spesso. L’eroe era in grado di
lavorare senza team. Lui si bastava.
Aveva odiato
stare solo. Ora la solitudine era l’unica cosa che cercava negli scontri e
forse nella vita. Non avere nessuno da proteggere e non avere nessuno a cui
rendere conto delle proprie azioni. Una sorta di palliativo alla libertà
privata dagli stereotipi comuni.
L’eroe era un
assassino ben addestrato, tutto qui. Konoha era una fabbrica di assassini.
Passò la lama
dell’ennesimo kunai sulla punta del medio. Sentì un leggero solletico e dopo
poco vide l’impercettibile solco tingersi di rosso. Guardò il sangue riempire gli
argini del taglio e straripare. Quella ferita era un’insignificante prova delle capacità dell’arma.
Si mise il dito
in bocca, per disinfettarlo con la saliva. Quella lesione autoinflitta non
meritava una medicazione. Era un bel taglio, uno di quelli che non sporcano i
ferri con cui sono stati prodotti. Naruto adorava quel genere di ferite.
Riassumevano forse quel genere di pulizia che aveva cercato crescendo. Il
caotico ragazzino snobbato da tutti era diventato uno shinobi dal maniacale
ordine mentale. Per la gente rimaneva il solito ragazzino, meno caotico e più
eroico. Un eroico ragazzino con una serie di affilati kunai, taglienti shuriken
e appuntiti spiedi distesi in tre file dinnanzi a lui.
Il tempo del
compiacimento per il suo bel lavoro si era andato affievolendo con il tempo.
Meccanicamente prese il marsupio, appoggiato alle sue spalle. Aprì la tasca
principale. Estrasse il kit di primo soccorso e lo ripose in una tasca
secondaria. Era ancora nuovo, non lo aveva mai utilizzato ne aveva mai avuto la
curiosità di aprirlo.
Passò in
rassegna le armi che aveva di fronte. Prese i kunai, li raggruppò e li ripose
verticalmente in uno scomparto interno. All’accademia gli avevano insegnato
come disporre ogni tipo di arma nel modo più convenevole. Lui dopo anni aveva
tirato fuori dalla sua memoria quelle noiose lezioni. Kunai: verticali, anello
verso l’alto. Shuriken: disposizione parallela. Spiedi: verticali. Tutto
perfetto. Richiuse l’allacciatura.
Ora doveva solo
superare la notte. Si alzò e appoggiò il suo bagaglio sul tavolo. Si diresse in
camera. Nel breve corridoio si sfilò la maglia. Oltrepasso la porta aperta. La
sua stanza era misera. Letto. Sedia . Armadio. Aveva rinunciato a comodino,
scoprendo l’utilità del pavimento come luogo per appoggiare la sveglia.
Piegò con cura
la maglia e l’appoggiò sulla seduta di paglia della sedia presa dalla cucina.
Slacciò i pantaloni e se li fece cadere lungo le gambe. Pigramente alzò i piedi
per toglierseli del tutto e poterli appoggiare sullo schienale, sopra la
maglia. Tutto rigorosamente nero. Da tempo i colori vivaci erano stati
abbandonati nel suo vestiario.
Due passi per
arrivare al letto e caderci sopra. Un secondo per accorgersi di avere ancora il
coprifronte addosso. Sbuffare. Slegarselo dalla fronte e tirarlo in qualche
parte della stanza. L’Uzumaki conosceva la procedura a memoria. Prima di ogni
missione faceva sempre così. Non era l’abitudine, ma l’inspiegabile necessità
di seguire gesti prefissati la sera prima per avere la certezza del successo il
giorno seguente. Naruto aveva sviluppato una ritualità scaramantica. Tutto
iniziava con il preparare le armi e terminava con il non riuscire a dormire. Avrebbe
passato la notte aggiustando la mira sulla porta del bagno, con qualche vecchio
shuriken sdentato.
Disteso sul
letto, allungò la mano sinistra sotto la rete. Riconobbe l’oggetto al tatto. Lo
tirò su. Il sacco logoro tintinnava di un rumore metallico. Il biondo lo aprì
quel poco, che bastava a far uscire uno shuriken, distrutto al punto giusto.
scusate per il ritardo...ho avuto dei problemi con la connessione.
grazie a coloro che hanno letto e che mi seguono ...e poi...
p_chan:
Grazie di aver recensito. Mi fa piacere che apprezzi la mia scrittura.
Non faccio spoiler, ma la storie non è lunga come pensi, anzi.
ilarione: Grazie.
Sarhita: Grazie. Avevo paura che fosse incomprensibile, ma l'effetto confusione è arrivato. Ne sono felice.
a breve il IV capitolo
nous
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Capitolo 4 *** IV ***
ARANCIO IV
IV.
Sentiva il corpo
pesante. Non più suo. La mente era altrove. Lontana dal tempo e dallo spazio. Era
riuscito a scappare dal luogo della battaglia. Le sue gambe avevano retto fino
al confine. Poi non c’era più nulla. Se ci fosse stato qualcosa d’importante se
lo sarebbe ricordato.
Aveva la certezza di essere ancora vivo. Mezzo vivo. Non
sentiva nulla di sé, ma se sapeva di esserci allora era vivo. Doveva essere
ridotto male. Piedi. Gambe. Braccia. Mani. Dita. Chissà se c’erano ancora. Non
provava dolore. O era talmente messo male da non sentirlo più, o non aveva
alcun motivo per avvertirlo. Il risvegliarsi senza avere alcuna nozione
spazio-temporale, implicava sempre delle domande dalla risposta poco
soddisfacente.
Nella peggiore
delle ipotesi non era riuscito a fuggire. Konoha lo aveva preso subito; oppure,
lo aveva raggiunto e riportato indietro. Lo avevano curato per tenerlo in vita
per il tempo necessario ad interrogarlo, giustizialo e condannarlo.
Nella migliore
delle ipotesi era riuscito a fuggire e qualcuno, vedendo le sue condizioni, lo aveva portato
chissadove e lo aveva curato. Se lo aveva riconosciuto, per riscuotere la
taglia sulla sua testa. Se non lo aveva riconosciuto, per pura pietà.
Prendere la
mira.
Respiro
profondo.
Lanciare.
«Ti sei svegliato.»
Soave voce femminile.
Tentò di cercare
la fonte del suono con lo sguardo. Lei era fuori del suo campo visivo. Cercò di voltarsi. A malapena riuscii ad
accennare l’azione.
«Non ti muovere.
Sei ancora troppo debole.»
Sentì i passi
leggeri della donna farsi più vicini. Poteva avvertirla al suo capezzale.
Inaspettato giunse un panno bagnato sulla fronte del guerriero. Contornò gli
occhi. Il naso. La guancia destra , poi la sinistra. La bocca.
«Ricordi come ti
chiami?» La stoffa umida stava massaggiando il collo.
«Sa…Sasuke…» le
parole facevano fatica ad uscire. Sembravano anni che non apriva bocca. Sentiva
la gola secca. La disidratazione gli impediva di parlare.
« Sasuke…E poi?»
« Sasuke…e
basta.» La voce era rauca, come se il suono gli morisse in gola.
La donna
sembrò comprendere il bisogno del suo ospite. Allontanò il panno. Sasuke sentì lo
sciabordare d’acqua. Lei si fece sopra di lui e gli pose la stoffa grondante
sulla bocca. Il ninja bevve avido. Mai aveva avuto così tanto desiderio di dissetarsi.
Mentre stava soddisfacendo la sua gola, la
fissava. Voleva capire le sue
intenzioni. Cosa si nascondeva dietro a
quelle iridi verdi, che riuscivano a vincere i suoi occhi maledetti.
Centro.
Uno.
Due.
Tre.
Centro.
Abbandonato sul
suo giaciglio, Sasuke sentiva le mani avorio della sua dama addrentrarsi tra i suoi inestricabili
capelli. Un tocco leggero e donatore di quiete. Dal basso la fissava e
rinunciava a dare risposte a quei fastidiosi perché che tormentavano la sua
testa.
I crini d’ebano, sottili, piacevolmente
profumati. Quei pozzi verdi dei suoi occhi. Quel disegno delle sue labbra.
Nulla in quel viso era sovrabbondante, nulla era volgare. Tutto era armonioso e
bello nella sua semplicità.
Il guerriero
guardava la donna quasi di nascosto per timore di poterle fare del male. Lei
cercava i suoi occhi per vedere al di là
di quello sguardo imperscrutabile. Allora lui li socchiudeva. Lei rideva ed
avanzava nell’esplorazione del corpo di lui.
Una mano fissa
sulla chioma, l’altra scendeva tra le
cicatrici e il profilo del torace.
«Gli dimostrerai
che la loro pace dipende da te?», il suo dolce massaggio si concentrò sullo
sterno.
«Gli dimostrerai
che la loro felicità dipende da te?», iniziò a punzecchiare la sua pelle con
piccole scariche di energia.
Sasuke
reclinò la testa inspirando.
Lei si avvicinò
al suo orecchio. «Gli dimostrerai che la loro vita dipende da te?».
Appoggiò la mano sul suo torace.
«Li ucciderai?».
Il ninja espirò.
«Moriranno
tutti.»
La sua musa era
lì, pronta a giacere accanto a lui. La sentiva continuare il gioco di dita sul
petto e distendersi meglio alla sua sinistra. Si costrinse a non guardare i
suoi occhi. Scrutava il soffittò combattendo contro il desiderio di rimanere
incantato dal suo viso.
«Loro ti hanno fatto dono dell’odio e della
vendetta. Per questo si sono condannati a morte con i loro discendenti e i loro
affetti. L’inganno verrà ripagato con l’inganno. Non vedranno nemmeno la loro
fine.»
Il fiero Uchiha
era cullato dalle parole della sua diva. Lei lo avrebbe guidato nell’odio e lo
avrebbe riportato finalmente a vivere.
Centro.
Uno.
Due.
Tre.
Lo shuriken non
si conficcò sul legno della porta. Cadde a terra.
Non si era mai
posto certe domande. Non ne aveva avuto il tempo. Normalmente non si doveva provare
piacere nel dolore. Ma lui ad ogni piccola scintilla di energia che lo
trafiggeva era pervaso da un brivido d’eccitazione. Forse era lei che lo
tranquillizzava. Forse era continuare ad odiare che lo rendeva diverso. La sua
musa aumentava la forza di volta in volta. Quel gioco sapeva di violenza. Lui
ne avvertiva la pericolosità. Il dubbio cominciò a formularsi nella sua
annebbiata mente. Ma quando lei si adagiò sul suo corpo, immediatamente, ogni
sospetto del guerriero di attenuò.
La delicata mano
ferma sopra lo sterno. Le abili dita cominciarono a disegnare cerchi sulla sua pelle. Sasuke sentì il torace avvampare.
Se fosse stata solo eccitazione, si sarebbe lasciato torturare. Tutto quel che
stata succedendo gli puzzava di morte. Nel disegno invisibile sul torace vedeva
scorrere troppa energia. L’istinto di sopravvivenza fu più forte di ogni altro.
Si tirò su. La prese per i polsi e la trascinò sotto di sè. Si trovava mantido
di sudore. Per la prima volta la guardò fissa negli occhi. Lei sorrideva maliziosa.
«Che cosa mi hai
fatto?» ringhiò lui.
Canzonò sicura,«Le
mie parole e la mia bellezza sono state sufficienti ad ingannarti.»
Lui le strinse i
polsi ulteriormente. Il grazioso volto di lei si tramutò in una smorfia di
sfida.
«Chi giura
vendetta non ha bisogno né dell’amore né della pace. Chi uccide per odio è già
morto. Uchiha,tu non hai bisogno di vivere!»
La fanciulla concentrò
tutto il chacra sul sigillo composto sul petto di Sasuke.
«Muo..»
Le parole le si
strozzarono in bocca. Sopra di lei, quegli occhi rossi le stavano strappando la
vita. Il ninja sentiva le pulsazioni del polso, che stritolava, perdere intensità e
frequenza. Sempre più lento. Fino a
sparire. La sua musa era svanita.
Dall’alto poteva
guardarla bene nelle sua maschera di paura. Era bella. Aveva un bel corpo, un
bel viso. Probabilmente un bravo ninja. Probabilmente una persona che non
desiderava altro che la sua testa. Per lui, era questo l’unico motivo plausibile
per quel tentativo di condanna a morte.
L’inganno verrà ripagato con l’inganno.
Si alzò dal corpo esanime.
«Strega…»
Mano al petto.
Era riuscita a ferirlo. Sentiva il frizzare l’aria sulla carne viva. Non
sembrava avere causato altri danni. Non sembrava essere riuscita a fare niente.
Onore ed orgoglio erano già stati feriti abbastanza in passato, altri danni
sembravano irrilevanti.
Sasuke si guardò
attorno alla ricerca di qualcosa con cui coprirsi. A terra giacevano i vestiti che si era tolto
poco prima. Vi si avvicinò, li sollevò e li indossò. Aveva bisogno di
uscire da quel posto. Di respirare aria vera.
Abbassò la
maniglia della porta che lo separava dal mondo. L’anta si aprì silenziosamente.
La oltrepassò e la richiuse alle sue spalle.
Si sarebbe aspettato
di trovare le stelle, invece vi era solo
un lungo corridoio. Una nefasta luce arancione di torce che non c’erano.
L’aveva già vista. Avanzava, ma il ricordo del luogo non veniva.
Una leggera
emicrania. Una lieve pulsazione della tempia destra. Si portò la mano a
massaggiare la parte dolorante. Evidentemente non era ancora abituato ai nuovi
poteri. Abbassò lo sguardo quasi a difendersi da quella luce improvvisamente fastidiosa. Non
si sarebbe fermato che qualche secondo per quel disturbo.
Riprese il passo
e lentamente alzò il capo. Si bloccò. Boccheggiò tra l’incredulo e lo spaesato.
Due fari. Due bulbi fiammeggianti. Due enormi occhi rossi lo stavano fissando.
Non potevano essere davanti a lui. Non ora. Non nuovamente.
Sentì la ferita
fresca ardere. Il corpo gli stava prendendo fuoco. Quello sguardo lo stava
divorando. Il dolore alla testa era ingestibile. Tutti i pensieri tornavano a
galla e si confondevano. Quell’immonda creatura giocava con le sue sinapsi.
Quel demonio doveva essere altrove.
Crollò in ginocchio a terra. Si afferrò la testa
tra le mani.
Non gestiva le
memorie. Ogni ricordo veniva estratto dal suo subconscio. Ogni barriera veniva
valicata. Il mostro sotto il suo letto era venuto a prenderlo. Era uscito. Non
sarebbe bastato urlare Onii-chan nel
cuore della notte. Itachi non c’era.
Cominciò a
ondeggiare con il busto. Le braccia ad avvolgere il torace. Avanti. Indietro.
Avanti.
Itachi non
sarebbe venuto.
Shuriken
terminati.
Buona notte.
un leggero richiamo alla storia biblica di Giuditta...
grazie
nous
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Capitolo 5 *** V ***
arancio V
V.
Per una vita ti
insegnano cosa devi fare e come lo devi fare. Ti insegnano a seguire uno schema
prefissato. Un qualcosa che c’è e che non si vede. Uno schifo di vita, in uno
schifo di mattina.
Naruto voleva
ignorare l’immagine riflessa sullo specchio del bagno. La luce alogena e la
pelle di un’innaturale tonalità verdognola. Il fusibile ancora freddo e il sole
ancora spento. In quelle prime ore del giorno, simili a tante altre, portava i
segni di una notte dal sonno disturbato. Ravvivarsi i capelli, legare il copri
fronte. Spegnere la luce uscendo dal bagno. Prendere la bisaccia e agganciarla.
La solita routine che Naruto odiava, eppure non sapeva farne a meno. Perché
sapeva, o meglio sentiva, che se solo una volta fosse uscito da quello sistema,
che gli si era creato attorno, sarebbe caduto. Il suo equilibrio era nato
perdendo l’avventatezza dei suoi anni. La battaglia, che lo aveva fatto cambiare,
la stava ancora combattendo. Costantemente in allerta contro la sua realtà.
L’Uzumaki aveva un nemico, un solo nemico da cui temeva la morte: il se stesso in
cui lo avevano fatto diventare.
Uscì di casa,
senza nemmeno inchiavare. Dentro quelle mura non vi era nulla di interessante,
in più nessuno sarebbe mai voluto entrare lì dentro, eccezione fatta per
Sakura. Il biondo non si curava dell’interesse che la compagna nutriva nel
fargli le pulizie. Quella ragazza era la persona più vicina quando voleva
ognuno lontano. Stava lì e cercava di avvicinarselo e lui freddamente la
respingeva. E dire che l’aveva desiderata a lungo. E dire che lei lo aveva
desiderato a lungo. Lui ora era simile a quell’altro lui.
Come un’ombra si
aggirava tra le vie avvolte nel gelo mattutino. Ovunque il silenzio, lo stesso
che si respira nei cimiteri. La notte era il regno degli avi di Konoha. La
città che cade e risorge. La città che non dorme mai.
Naruto sentiva
su di se gli occhi nascosti degli Anbu, ma continuava a sfrecciare come il
vento, ignorandoli. Davanti a lui solo il profilo delle porta principale. I
passi che si rallentano fino a interrompersi davanti al blocco delle
sentinelle.
Con un gesto
meccanico, estrasse dalla tasca i permessi redatti dall’Hokage. Non li
sfiorarono nemmeno, bastò il nome di Kakashi a farlo passare. Quanta fiducia in
un semplice nome. Se fosse stato lui la guida di Konoha, altri avrebbero avuto
fiducia nel prossimo semplicemente leggendo la sua firma su un foglietto.
A passo lento
oltrepassò la monolitica costruzione. Se avesse voltato il capo avrebbe ancora
visto l’amico con lo sguardo perso, le macerie e quell’ultimo incontro. Naruto,
nelle mille e una volte che aveva lasciato il villaggio in quegli anni, non
aveva mai avuto la forza di compiere quel gesto. Guardarsi alle spalle per
vedere quello che stato era troppo doloroso e lui era un debole. Andare avanti
sempre e comunque. Ingoiare il rospo e con il groppo alla gola non confidare
nel passato.
Erano compagni.
Erano amici. Erano fratelli. Erano nemici. I migliori nemici che potessero
essere. Perché rivaleggiare implicava conoscersi e ammirarsi. Provare invidia
per l’altro e tentare di superarlo. Sia lui che Sasuke avevano imparato a dire
addio per inseguire la propria strada. Naruto comprendeva che la sua strada si
era interrotta, o aveva subito una lunga deviazione.
Nel bosco
soffocato dalla nebbia ogni pensiero si faceva ovattato. Non era mai stato
riconosciuto come un grande pensatore, ma quel silenzio e quell’atmosfera gli
strappavano dal cuore le più belle e tristi riflessioni mai uscite dalla bocca
di uno shinobi. Da solo, nel vuoto del salto, il ninja pensava che il villaggio
avesse tradito lui.
L’aria densa del
mattino gli fece aprire gli occhi. Il gelo, che da terra gli penetrava nelle
ossa, lo fece alzare. Poi la fame. L’odore della brace. Il ricordo di una cena
lontana.
Sasuke sentiva
l’aria umida del mattino scivolargli addosso. Non sentiva particolarmente
l’esigenza di cibo.
Si sentiva bene,
in pace con il suo mondo.
Tutto quello che
c’era stato e tutto ciò che non era mai avvenuto, era passato. Non gli
importava. Un nuovo giorno, un nuovo inizio, dopo il caos. Aprire gli occhi e
riconoscere la realtà. Ciò che è vero si distingue da ciò che non lo è. Sasuke
non aveva la certezza di ciò che era stato e quando. Il tempo aveva perso
consistenza davanti all’ombra della sua vita. Un Uchiha che non sa più come
vivere il suo nome. Disperso in un bosco dove gli anni durano secondi e tutto
perde senso.
Sasuke non aveva capito nulla. Non sapeva se darsi
dello stupido od elogiarsi della sua genialità. Era stato uno stupido, ma era
stato eccezionale nell’essersi accorto di quanto si fosse mosso bene in quel ruolo. La superbia e la
stupidità sono compagne. Se gli altri erano stati esseri inferiori, lui era
inferiore a tutti. Non era stato capace di riconoscere la mano che il suo
vecchio mondo avrebbero potuto tendergli. Ma andava bene così.
Ormai aveva
visto tutto, quello sguardo lo aveva portato lontano. E andava tutto bene.
Una scintilla di fuoco, frammenti
incandescenti, che come lucciole, si alzano dal braciere, per poi spegnersi. La
vita del guerriero era quella. Ora che galleggiava nella aria aveva la certezza
che presto il contatto con la terra l’avrebbe spento. Il campo di battaglia era
la tomba degli shinobi.
Camminava vicino
la riva del fiumiciattolo. Non aveva una meta precisa. Non un luogo dove
andare. Seguiva l’acqua a ritroso
addentrarsi nella vegetazione selvaggia.
Fratellino ti sei perso nel bosco?
Hai gambe per saltare e polmoni per
respirare. Corri. Lascia per i rami secchi ti graffino la pelle. Lascia che
l’aria ti si scontri addosso. Se ti
fermi sei morto. Nessuno qui è pronto a
spingerti. Nessuno ti salva. I grilli scappano al tuo passaggio. Le mosche
volano via.
Sei entrato nel bosco. Sei partito con
l’intenzione di andare a caccia. A caccia di cosa?
Di
una preda, un’illusione, un’utopia, un sogno, un’idea. È una persona quella che
vai inseguendo?
Per
cosa sei entrato nel bosco, per inseguire l’immagine che hai di
quell’individuo…
Salta. Più in alto. Fino a raggiungere la
volta degli alberi. Non restare fermo a guardare. Se riesci mantieniti sempre
in moto. Le gambe possono riposare ma tu devi continuare a procedere. Lontano.
Il limite non è stabilito.
E dopo
che avrai trovato l’idea inseguita, che farai?
La ucciderai e ti ciberai delle sue carni.
Allora sarai tu a scappare dai ricordi.
La lascerai scappare. Allora continuerai
a vagare nel bosco scappando e inseguendo.
La ignorerai e passerai oltre. Ti
sei già fermato.
Fratellino, ti sei già perso!?
Il
bosco è grande e inghiotte tutto. Il bosco non attende che altri corpi per
rinnovarsi. Tu lo sai: la terra reclama i suoi figli. Elementi chimici che
rinnovano il mondo. Un giorno anche tu tornerai a casa.
Sono io, fratellino, l’incubo che devi
inseguire?
Se
sì, io non scappo. Correrò con te che mi cerchi. Sarò l’ombra dei tuoi passi e
la gioia dei tuoi tormenti. Un ricordo che ogni giorno perde di consistenza.
Ho visto
le stelle cedere posto all’alba e tu hai guardato con me il sole morire
all’orizzonte, anche lui inseguito dalla notte. Il buio rincorre la luce, poiché
coesistono e senza l’una non esiste l’altro. Corrono insieme , come noi due.
Il bosco finge di essere immobile e vede
tutto passare. Ha visto anche te. Ha riso.
Fratellino, sei tu il mio vero nemico?
O sono io il tuo?
Il
sangue non crea fratelli. Siamo diversi, ma non siamo mai stati così simili.
Fratello. Quello che ci unisce non si vede.
Fratellino, sei mio amico?
Vuoi uccidermi tu?
Sono
stanco e ho bisogno di qualcuno di cui mi fido. Non voglio più sentire i
discorsi della gente. In quel bosco di persone mi sono già perso. Da quel punto
non ho più ritrovato la strada.
Fratellino, siamo pronti a lasciarci alle
spalle i sogni?
Vivremmo per nulla, forse ci basteranno i
ricordi. Sarà un rassegnarsi e perdersi. Ma nulla è perfetto. Se sei entrato
nel bosco, te ne sei già accorto. Credimi nulla è più bello e deprimente di
inseguire una chimera.
È giorno e poi sarà di nuovo notte.
Fratello, amico, compagno, ma soprattutto,
nemico, prega per me.
Che
la fine di questo mio viaggio sia piacevole.
egregi
signori che per sbaglio seguite questa storia mi scuso per il ritardo,
impegni vari mi hanno impedito di avvicinarmi al pc e dunque inviare.
ringuazio
la fedele p_chan che ha recensito gli ultimi due capitoli ,
nonchè una mia storia originale, il che mi ha fatto molto
piacere. grazie mille p_chan!!!
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Capitolo 6 *** VI ***
arancioVI
VI.
Cosa è un ninja
se non un mercenario. Dov’è l’eroismo nell’essere un assassino?
Dal suo nascondiglio
fissava il suo obiettivo, come un cacciatore che ha trovato la sua preda. In
quell’appostamento, Naruto non trovava giustizia. L’attesa mancava di
adrenalina, non c’era nulla che annunciasse uno scontro. Nulla. Forse
quell’uomo sarebbe caduto a terra e basta. Morendo non si sarebbe accorto che
la sua vita stava finendo.
Aveva sentito
dire che prima di morire si rivive tutta la propria esistenza, ma non vi
credeva. Se il biondo fosse morto in quel momento, pensava, avrebbe maledetto
il suo nemico. Se la sua vita finisse in quel momento non l’avrebbe rivista
come un vecchio film, con le lacrime agli occhi e la nostalgia nel cuore. No.
Sarebbe morto. Fine.
Dubitava che
dopo la morte ci fosse qualcos’altro. Aveva
idee confuse a riguardo. Pensare che la sua anima potesse vagare su questo
mondo senza un corpo era una fantasia. L’essenza dimora nel corpo. E finito il
corpo rimane il ricordo. Poi non dovrebbe esserci altro.
Ma era un
ipocrita e lo sapeva. Anche se non ci fosse stato nessun dopo, lui regalava una
morte rapida: aveva paura di lasciar al nemico il tempo per maledirlo.
Dalle fronde
vedeva chiaramente i movimenti di quell’uomo. Era ancora lontano, proseguiva
incurante lungo il sentiero che costeggiava il fiume. Cosa avesse fatto, a Naruto non era dato
sapere. Era un uomo scomodo, per questo un signore lo voleva morto. Era un
assassinio scomodo, per questo avevano chiamato lui. Era un mercenario, nulla
di più.
Leggeva il quel
passo cadenzato tranquillità. Più si
avvicinava, più se ne convinceva. Vedeva
sul volto del suo obiettivo la quiete di chi non ha nulla da temere. Ciò
lo turbava. Perché quell’uomo non aveva le sembianze di un ladro, di un traditore,
di un truffatore o di un assassino. Sembrava un uomo con una famiglia a casa.
Una persona rispettabile e ben voluta da tutti. Ma quelli non erano discorsi da
farsi. Quell’individuo doveva morire.
D'altronde anche lui era un assassino e non lo dava a vedere.
Scrutò ancora quella faccia alla ricerca di qualche increspatura che rivelasse le sue intenzioni.
Ma quello camminava.
La morte doveva
essere talmente veloce da non rompere quella sacra quiete. Aprì la bisaccia e estrasse un kunai. Attese.
Una statua nel fitto del bosco.
Un istante
preciso per far scattare fulmineo il
braccio in un gesto pulito.
Il suo obiettivo
aveva seguito le previsioni del ninja. Era passato incurante davanti alla sua
postazione, lo aveva sorpassato e dato le spalle.
Per tutte le
abilità che quell’individuo avesse dimostrato per essere giustiziato a morte, a
Naruto non pareva che un semplice uomo. La katana che portava alla vita, a mo di
samurai, gli sembrava più una vanità, che una necessità. Aveva imparato a dare
nobiltà al proprio nemico per non sentirsi un vile cecchino. Ed ora, a missione
finita, gli balenò il dubbio che l’uomo, con il kunai conficcato alla base
della nuca, sapesse già della sua morte e la avesse accettata stoicamente.
A questo punto
sarebbe potuto scendere e controllare che effettivamente ci fosse un cadavere
dinnanzi a lui. Chissà se quel presunto samurai, con la katana legata alla
cintola e il bel vestito, avesse imparato a morire nella quiete in cui era
vissuto. Quel corpo era caduto a terra senza un rantolo ne uno spasmo. Naruto
leggeva eleganza in quella morte silenziosa.
Aveva gli occhi
ancora aperti. Una sorta di antico rispettoal ninja impediva di voltare il cadavere. Non voleva guardarlo
in faccia oltre quel vago profilo che ne percepiva. Nella sua quiete
probabilmente faceva finta di
respirare polvere. Sarebbe stato
inutile scavare una tomba per uno sconosciuto, sapendo che avrebbe dovuto lasciare il corpo al bosco, in
bella vista a far dar monito ai viandanti. Il signore voleva che alle sue vittime
non fosse dato il riposto della terra. Forse più tardi degli scagnozzi
sarebbero passati e avrebbero fasciato quei resti di bombe carta e li avrebbero
fatti brillare. O altro. Il suo compito era finito lì.
«Ti lascio il
kunai.»
Si congedò dal
caduto e si inoltrò tra la vegetazione.
Nonostante il suo
unico compito fosse stato svolto alla perfezione, avvertiva un forte senso di
insoddisfazione. Un vuoto allo stomaco che raffreddava il sangue e pretendeva
che le gambe andassero più veloci. Un ritmo più incalzante. Puro vento tra gli
alberi. La tuta nera che aderiva come seconda pelle al corpo a causa nella
velocità. Essere più rapido del proprio
flusso di pensieri. Sfidare la logica del cervello e seguire l’istinto delle
viscere. Solo per far sparire quella sgradevole sensazione che avrebbe finito
per annullarlo. Inseguire qualcosa che non c’era, un obiettivo che era già
stato oltrepassato.
Un rovo gli
graffiò la guancia, ma non si accorse di un segno in più. Sentiva di dover
correre e seguire quel senso d’instabilità che gli dava la terra appena toccata
dai piedi che solcavano più l’aria che il suolo.
Correva fino ad
annullarsi nel bosco, fino a perdere ogni concezione di se, fino a
regolarizzare il proprio respiro con quello che vi era attorno.
Lui non era più
Naruto Uzumaki.
Lui non era più
il ninja eroico di Konoha.
Lui non era più
colui che avrebbe portato avanti il sogno di chi non c’era.
Lui era solo vuoto da colmare.
Lui era un uomo
in stato vegetale.
Lui era un
dipinto venuto male.
Lui era un libro
che non valeva la pena di essere letto fino alla fine.
Lui era il fratello che non si era riuscito ad
uccidere.
Ora, il ragazzo,
voleva solo correre fin dove le gambe lo avrebbero portato. Se necessario al di
là del bosco, dell’orizzonte, delle nubi, della sua vita.
Correva, perché
correre in quel momento, pareva dare senso a tutta la sua esistenza.
Era l’istinto a
dire che forse in quella direzione c’era chi aveva dato per perso. Si aspettava
che appena superata quella fitta barriera di alberi avrebbe visto la sua
prepotente aria da ragazzino snob. Era naturale ricostruirselo mentalmente con
tutta la superbia del passato. Con tutto l’egocentrismo degli anni in cui ancora erano compagni.
Dietro
quell’ultima cortina di alberi, nella luce che filtrava ad illuminare una
piccola radura, Naruto credeva nel
ragazzino del passato.
Invece non vi
era altro che erba. Tutta lo splendore del sole allo zenit non ha il potere di
illuminare un’illusione vinta dalla più cupa delusione. Naruto aveva avuto
l’impressione che lui lo stesse chiamando, che lui fosse sempre stato lì a
chiamarlo. Ma in quel luogo non vi era nessuno. Sarebbe stato più semplice se
fosse morto, se fossero morti insieme anni prima. Entrambi si sarebbero
rassegnati alla loro inconciliabile solitudine. Invece lui continuava
segretamente a sperare. Non era una questione di orgoglio ferito, ma una
ricerca necessaria come quella d’aria. Sperare segretamente che il suo compagno
camminasse ancora tra i vivi. Il nome Uchiha era morto con Madara. Nessun
comunicato parlava più di lui. Anche i villaggi ninja si erano dimenticati di
volerlo morto.
Il vento gli
stava scombinando i capelli biondi. Appena ritornato a casa li avrebbe
tagliati, pensò.
Si era fermato
su limitare del bosco e si guardava attorno cercando la ragione che lo avesse
condotto lì. Un fantasma. Sentiva la
presenza. Ma forse era solo un ricordo che si trascinava dentro. Attorno a lui
vi era solo vegetazione, un muro nero d’alberi che lo osservavano.
Sapeva che non
era solo. Non si sentiva in pericolo. Se ne stava là, imbambolato come un
pivello, a dare un nome alle ombre. Si muovevano con il vento. Avanti.
Indietro. Ritmicamente.
La pace di
quell’uomo abbandonato lungo la via, la pace eterna dei morti era il respiro
della terra. La sentiva salire dai piedi. Il desiderio di movimento era morto.
A quel punto, forse, non c’era nemmeno la necessità di fare ritorno. No, non
c’era. Lui voleva stare fermo a godere di quella danza di ombre. La pace che
tanto aveva cercato di raggiungere era tutta lì. Le promesse che non aveva mia
mantenuto stavano tutte lì.
Naruto provava
una sensazione troppo grande per avere un nome. Un fulmine che attraversa tutto
il corpo e che fa venire i brividi lungo la schiena. Qualcosa che secca le
labbra e azzera la salivazione. Era come sentire gli organi cambiare
disposizione. Era un po’ come quello che
si diceva dell’amore, solo che non lo era.
I ninja non
devono essere confusi. Un bravo guerriero non deve esternare le proprie
emozioni. Si deve essere impassibili e lasciare che dentro bruci l’inferno.
Bisogna crescere per scoprire che non si sa più piangere, come quando si era bambini.
E il biondo quelle lacrime di gioia le avrebbe fatte cadere a terra se solo ne
fosse ancora stato capace. Quello spettacolo, quel piacevole malessere
interiore valeva più della rabbia e del dolore. Pareva più efficace del
benessere di un intero villaggio. Ciò che riappacifica il tormento del cuore non aveva
valore. Per quanto poteva essere da egoisti, l’Uzumaki, davanti a quell’ombra
che emergeva dalle altre, avrebbe rinnegato la sua nazionalità. Avrebbe voluto
urlare, strapparsi i capelli, saltare. Ma gli anni gli aveva portato via tutto.
Forse nulla era sparito e quello che Naruto sentiva dentro era solo confinato
nella scorza dell’eroico shinobi che gli si era calcificata addosso.
grazie a tutti
(lode a p_chan)
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Capitolo 7 *** VII ***
arancio VII
VII.
Se in quel mare
di buio ci fosse stato anche solo il ricordo di quell’assurdo personaggio, Naruto
sarebbe stato quasi felice. Ma lì forse c’era più di un’immagine sfuocata. Era
lui. Era quell’animale strano e superbo. Il silenzio del suo avanzare,
quell’abilità ninja di non farsi sentire.
La leggerezza di chi ha imparato a non avere peso e con non curanza fa
finta di non esistere.
Il sensei gli
aveva insegnato l’importanza di sapersi muovere il più silenziosamente
possibile per non compromettere le missioni e farsi notare dai nemici. Sasuke
lo aveva appreso molto velocemente. Sasuke era bravo a concentrarsi.
Naruto lo ammirava segretamente per
questa sua capacità, lui aveva difficoltà ad assimilare gli insegnamenti di
Kakashi. Era stupido. Per quanto fosse forte e coraggioso, gli mancava quel
qualcosa in più che il suo compagno pareva possedere. E se adesso credeva che chi avesse davanti fosse un dannato
idiota, riteneva di non aver ancora raggiunto quella naturale abilità del suo
nemico.
Riconosceva i
profili umani dell’ombra e sapeva che nome assegnargli. Si era immaginato,
qualche volta guardando il loro vecchio campo d’allenamento, quale forma il
corpo del compagno avesse assunto. L’ultima volta che lo aveva visto era
diventato un uomo come lui. Un demonio non tanto diverso da lui. Quel sorriso e
poi la mente non ricordava altro.
I raggi solari
leggermente delineavano la fisionomia di quel traditore. Ma quella luce
sembrava perdere intensità su quell’essere.
Naruto pensava a quanto potesse essere cresciuta l’oscurità nell’altro. In
quell’uomo non vedeva più il diavolo che lo aveva reso un eroe, non vedeva il
compagno di un tempo. Quello sembrava un Sasuke diverso da tutto ciò che era
venuto prima. Una persona completamente differente da quella che aveva vissuto
nella memoria del biondo. Il tempo era passato e li aveva cambiati. Forse
nemmeno l’Uzumani era quello di anni prima. Forse ,senza rendersene conto, era
talmente cambiato da far sorgere il dubbio negli altri che fosse veramente lui.
Erano diventati entrambi uomini, entrambi adulti, entrambi si erano affossati
lungo quel percorso che così dolorosamente si erano scelti.
Quel Sasuke si
fermò. La luce del sole non era abbastanza
forte per illuminargli il volto. Naruto, però, ne poteva scorgere l’incuria. Forse
gli salì alla gola la nostalgia del vecchio compagno. Incredulo davanti a quel corpo, avrebbe voluto scattare e
dargli un pugno in pieno viso. Sentirsi insultare ancora, come in un piacevole incubo in cui tutto si
svolge come nel passato. Ma non riusciva a schiodare i piedi da terra. Era l’oscurità di quella maschera scavata. Un
contenitore di risentimento ed odio che era stato logorato da dentro. Non provava
più invidia. Non aveva senso provarla. Non sentiva nemmeno pietà. Sasuke non
avrebbe voluto.
Ad una decina di
passi da lui vedeva quell’ombra aprire gli occhi. Sarebbe stato meglio che li
avesse tenuto socchiusi ancora un poco. Il tempo necessario perché Naruto
distogliesse lo sguardo e non potesse leggere il vuoto di quelle iridi insanguinate.
Se solo avesse
voluto, Naruto sapeva, l’Uchiha avrebbe
potuto farlo sprofondare nelle sue illusioni. Nessuna sarebbe stata
eguagliabile alla visione del cadavere dell’amico, forse, mosso ancora dal
rancore.
Aveva già visto
quello sguardo,ne aveva già visto uno simile. Era a casa di Sakura. Non
ricordava nemmeno più il motivo. Sopra la mensola vi erano delle bambole. Avevano
quegli occhi vitrei, imperscrutabili. Occhi che portano dentro un’immensa
tristezza senz’anima. Sasuke aveva rubato gli occhi ad una di quelle
donnicciole di porcellana.
Era solo un
fantasma senza tomba quello che aveva davanti, solo uno spirito maledetto che
vagava per il bosco. La fattura che qualche nemico gli aveva lanciato prima di
spirare.
Quella visione,
però, era così reale. Non aveva la consistenza dei sogni ma l’odore di terra umida
della realtà.
«Teme…». Sussurrò con un filo di voce, aspettandosi di
riceve come risposta dobe.
Non ci fu alcun fiato.
Sasuke stava impassibile. Solo in capelli erano in movimento, scossi da una
leggera brezza che aveva iniziato a far frusciare le foglie.
Il biondo si ritrovò
di nuovo ad avere quel maledetto groppo alla gola. Aveva anche gli occhi lucidi,
se qualcuno glielo avesse chiesto era colpa del vento e non della nostalgia di
quegli insulti. Lui non era il tipo da piangere, non davanti ad un Uchiha. Non
davanti a quel bastardo di Uchiha.
Abbassò la
testa, stringendo i pugni. Raccolse la forza e riempì i polmoni d’aria. «Teme! »,
urlò con la voce rauca di chi trattiene a stento il pianto.
Teme, una parola da tempo taciuta. Il
teme era lui. Il siparietto mai concluso di quei fraterni insulti. Nemmeno sta
volta lui avrebbe risposto. Non ne aveva voglia. Non aveva la voglia di
soddisfare quella tempesta che gli offuscava la mente. Non avrebbe dato una
conferma al passato. Era stanco di quello strano gioco. Un passo avanti e due
indietro. Come se gli fosse impossibile procedere. Ed inevitabilmente non
restava che fermo sulla sua posizione.
Teme. Avrebbe dovuto tirargli un pugno.
Ma che senso aveva colpire l’aria. Forse ancora stava sognando. Perché lui non
si sentiva vivere. Non aveva una ragione d’essere, non un motivo per muovere il
prossimo passo.
Konoha.
«Konoha…». Un
impercettibile schiudersi delle labbra.
La faccia
lamentosa del dobe davanti a lui sgranò gli occhi. Era nella sua testa, logicamente
aveva sentito.
Doveva essere distrutta.
Perché
quell’idiota continuava a guardalo meravigliato, quasi speranzoso. Non aveva
sentito!?
Sasuke
Uchiha aveva distrutto, o doveva
distruggere, Konoha. Non se ne ricordava. Aveva in mente le macerie di qualcosa.
Casa sua. Un covo nascosto. Un villaggio. Era confuso.
Non c’era un
luogo a cui fare ritorno, ma quella fastidiosa voce gli chiedeva di tornare.
Più cercava di isolasi, più quella tampinante presente lo assillava. Naruto era
sempre stato decisamente fastidioso. Era
un tarlo che gli divorava le sinapsi. Che gli faceva nascere dentro una rabbia
profonda. Perché lui non era mai stato come il biondo. Preferiva morire, invece
che mostrarsi debole. Solo odio. Konoha non esisteva più. Quel petulante essere
doveva rassegnarsi. Non ci sarebbe mai stato un ritorno.
Quella maschera
di ghiaccio portò il suo sguardo spento sul ninja biondo. Naruto rabbrividì,
pronto per essere catapultato di una strana dimensione. Ma non sentì nulla. I
suoi piedi erano ancora saldamente ancorati a terra. Sentiva il vento sputargli
in faccia. Era lì, davanti a lui stava Sasuke. Tutto qui. Davanti a lui stava
quello che era Sasuke. Non rammentava quel compagno dall’aria assente. Ora
quelle biglie rosse puntavano lui.
Naruto si ricompose.
Cercò di dare un contegno al suo volto. Si lisciava la maglia nera e si
immaginava la reazione di Sakura al suo posto. Sarebbe scoppiata a piangere,
come l’ultima volta. Si sarebbe bloccata. Gli occhi le si sarebbero riempiti di
lacrime. Poi le mani alla bocca, per soffocare le emozioni. Con le prime stille
anche lei sarebbe caduta a terra, con poca eleganza, atterrando sulle
ginocchia. Avrebbe continuato a piangere, a testa china. In preghiera davanti
all’icona del suo primo amore. Il grosso difetto della compagna, era che
ragionava ancora come una donna e non come un ninja. Per questo lui era
l’assassino e lei il dottore.
Sasuke, davanti
all’addolorata non avrebbe reagito, sarebbe rimasto inespressivo, come ora lo
era davanti a lui.
«Non credo che
ora abbia senso riportarti al villaggio.» Disse in risposta al sussurrò
dell’altro, con il tono serio di chi non ha più voglia di scherzare.
« Non ha più
senso portati al villaggio.» ,distolse lo sguardo su un frammento di cielo,«Non
ho voglia di sprecare tempo a convincerti a tornare per poi farti giustiziare.»
Abbassò lo
sguardo analizzandosi le nocche della mano destra. C’era una vecchia cicatrice.
Perse tempo attendendo una qualche reazione del suo interlocutore. E dopo quel
nulla, diresse le iridi, ancora un poco lustri, sul moro, interrompendo la
pausa.
«Tu, vuoi per
caso tornare?»
Il silenzio
rispose.
«Come
immaginavo. Sai, neanche io ho voglia di tornare». Detto ciò, mise le mani in
tasca e si mosse di qualche passo.
Il Naruto della
sua testa era diverso dal vecchio Naruto. Gli venne il dubbio che quella fosse
già la realtà e non fosse più parte del sogno. Forse quei suoi occhi lo avevano
fatto impazzire e lo aveva spinto dove non si può più tornare indietro. Forse
sarebbe bastato aprire bocca e provare a parlagli. Sentiva che doveva
distogliersi da ciò che il suo cervello supponeva. Stava giocando una partita
con la sua mente. Ora sentiva il dovere di scontrarsi con la realtà per toccare
quanto fosse vera.
«Stai
rinunciando al villaggio?». Si accorse di avere una voce raspante. Da quanto tempo
non parlava. Non sapeva più che suono producesse la sua gola scossa dall’aria.
Il suo
interlocutore nemmeno lo guardò. «Forse».
Quella non era
la realtà. Il dobe non avrebbe mai asserito ciò. Sasuke si stava domandando in
quale perversa illusione fosse caduto. Non gli era mai capitato di rimanere
così lucido e consapevole.
«Perché
continuate a tormentarmi?»Naruto potè notare come l’espressione di Sasuke si
increspò. Un alone di ira ed esasperazione.
«Cosa!?»
«Perchè?», ruggì
il moro.
Naruto era visibilmente sorpreso da quell’inaspettata reazione.
Avrebbe voluto chiedere il motivo di quella domanda. Venendo il nukenin riprendere fiato, nel vano
tentativo di ritornare inespressivo, si trattenne.
«Perché anche
tu?»
«Ma di che cazzo
stai parlando?»
«Ti diverti Kyūbi?».
Il tono della voce del moro era di
nuovo alterato. Il biondo lo vide guardarsi attorno. Fare qualche passo per
avere una visuale più completa. Aveva abbassato le spalle e flesso gambe, come
se dovesse prepararsi ad un combattimento. L’unico con cui scontrarsi era lui,
il suo vecchio compagno di squadra. Ma il moro non degnava il biondo della
minima attenzione. Sorrideva con quel suo ghigno terrificante e con quei
dannati occhi offuscati scrutava furente attorno.
«Ti stai
divertendo Madara? Bastardo, ti diverte, vero!?». Urlava, come poche volte
Naruto lo aveva sentito fare. E gli fece una immensa pena, perché il nemico che
cercava era morto.
«Sasuke», era
difficile non far trasparire quel disagio che provava dentro,«Madara è morto.
Lo…lo abbiamo ucciso insieme.»
Il traditore si
bloccò. Gli stava dando le spalle, spoglie e cadaveriche. L’Ukumaki non
ricordava come fossero le spalle dell’amico prima di quel giorno. In quel
momento Naruto non riusciva proprio a ricordare come fosse il suo compagno.
Aveva sempre avuto quell’aria trasandata? Forse sì e lui da ragazzo non ci
aveva mai dato peso. A Sakura non sarebbe piaciuto. Lei se lo sarebbe voluto
portare a casa, come uno stupido cucciolo, gli avrebbe sistemato i capelli proprio come
ad una delle sue bambole. Era un pensiero assurdo. Ma in quel momento gli venivano in
mente le galline che inseguivano il perfetto Sasuke. Perché Sasuke era bello.
Perché Sasuke era forte. Perché Sasuke aveva quell’aspetto misterioso che alle
donne piaceva tanto. Per lui era solo un pallone gonfiato, ma per le ragazze
era diverso. Per loro era sempre tutto diverso.
«Già…è morto…».
Flebilmente l’Uchiha interruppe i contorti ragionamenti del biondo. Seguì
quella che al ninja parve come una risata. «Giusto…». Il moro si era di nuovo
spento, atono.
«Di tanti ..non
mi sarei aspettato proprio te»
«Nemmeno io»
«Per quale
motivo…»
Naruto non
capiva se doveva rispondere o meno. Non
gli sembrava una conversazione quanto un soliloquio. Se lui ci fosse stato o
meno non importava. Non riusciva a cogliere i fili del discorso dell’altro. Desiderava
rispondere per sentirsi meno estraneo. Il motivo della sua presenza non lo
sapeva, lo sospettava, ma era più una sensazione che una certezza.
«Ho sentito che
dovevo venire…»
«Come gli altri,
sei venuto per vendicarti…»
«Credo di essere
venuto perché ho sentito che mi hai chiamato, amico…». Non pensò minimamente a
quello che disse. Amico!? Il Sasuke che conosceva si sarebbe tagliato un
braccio piuttosto di farsi chiamare amico da lui. Si dannò , perché non era
stato capace di dare peso alle parole e quello che ne era uscito era stato un
discorso melenso e senza logica. Aveva risposto d’istinto, aveva detto male. Si
aspettava una reazione da quel ragazzo di spalle, una qualunque.
Quello, invece
di lanciarsi all’attacco, stava fermo in un’ascetica calma, come se le cose di
questo mondo non gli importassero più. Naruto espirò rassegnato. Se non erano
già passati alle mani, allora erano veramente cambiati.
«Madara…»ridacchiò
facendo voltare il biondo, che incontrò il profilo indecifrabile.
«Cosa vuoi…amico»
L’ultima parola suonava
distorta, quasi stridente marcata dalla voce dell’Uchiha.
Forse era da una
vita che si aspettava quel momento, ma non sapeva come agire. Si era sempre
immaginato uno scontro all’ultimo sangue. Quella sembrava più conversazione
senza argomenti da trattare. Era snervante. Tutte le parole che aveva infilato
mentalmente una dietro l’altra negli anni, gli erano svanite dentro. Tutto ciò
che aveva programmato di fare si era annullato in quell’inattesa esigenza di
parlare di Sasuke. In fondo lui non voleva nulla. Aveva serbato la speranza di
rivederlo, ma ciò non giusticava la sua presenza lì.
Si morse il
labbro inferiore, come se il dolore lo
facesse ragionare più velocemente. Naruto credeva di essere in quel luogo
semplicemente perché doveva esserci. Cosa voleva non era certo di saperlo. In
quel momento avrebbe voluto sfogarsi e basta, perché gli stava salendo l’agitazione
e quel groppo alla gola non voleva scendere.
Il vecchio
compagno era migliore di lui a parole. Lo era sempre stato. Come poteva parlare
con lui, le loro voci non potevano avere la naturalezza di quelle di due amici
che non si vedono da tempo. I nemici si possono sconfiggere anche a parole, ma
si deve conoscere per cosa si sta lottando. Lui ignorava tutto. Sasuke agiva in
solitaria, come unico compagno aveva il suo orgoglio. Gli avrebbe voluto dire
quanto fosse stato doloroso saperlo irraggiungibile. Non ne aveva la forza.
Lo guardò,
sperando di trovare nel volto dell’altro la risposta. Ma non era facile leggere
in quel profilo. Ci sarebbero state mille cose che in quel momento avrebbe
voluto dirgli, sapeva che non gliele avrebbe chieste mai. Non avrebbe mai riversato
anni di preghiere e maledizioni. Non era sicuro che quelle domande che gli
vagavano in testa avessero soluzione.
Sasuke, intanto,
attendeva che il biondo aprisse bocca.
Dischiuse le
labbra, attendendo che uscisse un qualche suono. Silenzio. Solo il gelo nel
volto del moro. Naruto si sentiva trafitto da quello sguardo scarlatto, che non
si distoglieva da lui. Se non avesse detto qualcosa sarebbe stato Sasuke a
tiragli fuori le parole dal profondo dello stoamco.
«Sasuke…».
Quelle iridi maledette chiedevano di continuare.
Sai Sasuke, non so nemmeno io perché sono
qui.
Naruto cominciò ad analizzare i suoi calzari.
Quel che
è fatto è fatto e certo ne tu , ne io possiamo tornare indietro e cancellare
tutto quello che è successo. Forse sarebbe bello, ma non sono del tutto scemo
come mi credi, so benissimo che noi non possiamo essere più compagni.
Sinceramente ora ti considero più amico di altre persone.
Erano sporchi di polvere. Non era sicuro che avrebbe avuto voglia di pulirli.
Anzi tu sei l’unico
che io possa considerare un vero amico.
Trovava
i suoi pensieri strani ed ingestibili. Si sarebbe morso la lingua
pittosto che esternarli. Se dalla sua bocca fosse uscito uno di quei
discorsi mentali, si sarebbe morso la lingua fino a farsela sanguinare.
No,
noi siamo stati amici.
«…Noi siamo
nemici ».
Sentite
quelle
parole, Sasuke si voltò completamente verso il biondo. Era
strano, ma per la
prima volta dopo tanto tempo l’aria aveva una consistenza. Le
parole erano
taglienti. Quella era una dichiarazione di guerra. Ed era bellissimo.
L’Uchiha
pensò che poteva riconoscersi bene nel ruolo del nemico. Lui era
il nemico. Nemico
del suo stesso sangue. Lui era il nemico che conosceva
l’avversario e sapeva
dare una nuova dimensione alla crudeltà. A lungo il moro era
stato nemico di se
stesso, ed ora se ne compiaceva. Se non lo fosse stato, non sarebbe mai
assaporato questo momento. Non si sarebbe mai riconosciuto nemico.
Il biondo era il
suo passato. Sasuke non stringeva nelle mani il proprio futuro. E questa era
una debolezza. Si era dimenticato il suo obiettivo. Forse le sue gambe dovevano
solo condurlo fino a quel luogo, davanti all’unico amico, a confessarsi nemici.
L'odore acre dell'erba inebriò i suoi polmoni.
«Cosa voglio?»
Sai cosa voglio, Sasuke? Ho promesso pace e
voglio ottenerla. Ma se non conquisto la mia pace non potrò mai portarla in
questo mondo. Tu, bastardo, sei la mia piaga. Finché io e te non regoleremo i
conti, io non saprò se avrò la forza di rendere giustizia in questo mondo.
Naruto,
guardando il suolo, prese a camminare. Contava i passi che li separavano.
Cinque. Sei. Otto. Dieci. Undici. Undici passi per stare di nuovo al fianco del
proprio compagno. Le gambe pesanti come mai nella sua vita. Ma ormai era
l’istinto che lo guidava e quella nuova ragionata avventatezza.
Sasuke
continuava a guardare avanti. Attendeva una risposta.
Si desidera una cosa solo quando non la si può
più ottenere. Il ninja della foglia aveva paura di perdere per sempre
l’occasione per far finire tutto. Era certo che esclusivamente loro conoscessero
il modo per trovare le ragioni delle proprie
esistenze.
Un attimo eterno
pareva poter decidere il senso del loro incontro. Immobili nel silenzio della
foresta cullata dal vento.
Naruto sollevo
il braccio, caricando un pugno.
Sasuke sentì la
pressione sulla spalla. La mano chiusa del nemico. Calda di calore umano. Il
vento prese vigore e spazzò via le incertezze.
«Battiamoci». Un
sibilo nella ritrovata voce del bosco.
La stretta si
sciolse ed il palmo aderì alla spalla nuda. Una spinta per allontanarsi ed
oltrepassarlo. L’ululato dell’aria tra gli alberi lì spinse l’uno agli antipodi
dell’ altro.
«Ti va?».
I due si
fermarono. In piena contemplazione del proprio nemico. Naruto aveva espresso la
sua volontà. Sasuke sembrava avere silenziosamente
accettato. Il cielo si muoveva sopra di loro. Le chiome danzavano. Le ombre si
rincorrevano.
Naruto portò le
mani alla nuca, sul nodo che reggeva il comprifronte. Con
calma, gustando la sensazione di quella stoffa sotto i polpastrelli, lo sciolse. La fascia
si allentò e gli scese di un poco lungo la fronte. Lo afferrò per una delle sue
estremità liberate e se lo sfilò definitivamente, lasciando la chioma libera di
essere torturata dalla brezza violenta. Quel coprifronte se lo era sudato, ma
ora lo odiava. Fu l’adrenalina in circolo a fargli chiudere il pugno attorno a
quella dannata piastra di metallo. Forse, fu l’emozione a fargli scaraventare
quell’oggetto lontano, oltre le sue spalle.
Gli occhi
cerulei si incotrarono con quelli vermigli. Naruto sorrise, come non faceva da
tempo. Seguendo il suo avversario si preparò per combattere. Non si sarebbe mai
aspettato che in un situazione come quella, lui fosse felice. In quel ghigno di
sfida c’era tutto quello che aveva provato in quella lunga lontananza. Gioia.
Dolore. Vendetta. Sdegno. Ammirazione. Rispetto. Invidia. Nostalgia.
Era
felice. Finalmente si sarebbero compresi, come solo loro potevano. D’improvviso
quegli anni parevano non essere mai trascorsi.
Grazie a coloro che leggono.....
p_chan, mi tocca ringraziarti
di nuovo...mi fa sempre piacere leggere le tue recensioni. grazie ancora....
saluti,
nous
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Capitolo 8 *** VIII ***
arancio vII
VIII.
Non ricordava il volto di sua
madre. Una voce della lontana infanzia gli diceva che forse quella donna
assomigliasse un poco a lui.
Segretamente, aveva conservato la
foto di sé con i suoi cari sotto il cuscino per tanti anni, ma poi si era
lasciato tutto alle spalle. Aveva
spiccato il volo. Le sue ali, via via, si erano fatte più forti. Ora potevano
reggere lo scontro con il vento. Ora poteva sfidare le correnti con
naturalezza, senza dover riflettere su come adattare il proprio corpo all’attrito
dell’aria.
Era in picchiata. Un taglio nei
venti. Le ali allineate al corpo. Lo sguardo vigile a contare i metri che lo
separavano dal suolo. Una mare verde in cui tuffarsi. Sentire il fragore delle
onde, che come sirene confondevano le idee.
Se ci si abbandonava a quel canto
si affogava. Se non si aveva la forza di riaffiorare si perdevano battiti.
Ma la sua caduta libera non si poteva frenare. E
giù. Sprofondare in un abisso smeraldo. Un abisso che era denso, come le speranze
ed i sogni. Un liquido che lo vestiva, come le memorie.
Con quei suoi oceani verdi guardava
il falco e rideva. Sapeva che non sarebbe tornato. Che non sarebbe riemerso. Quella
sirena maledetta aveva tentato di ammaliarlo per poi abbandonarlo alle acque. Allora, per
lui non era ancora giunto il momento di stringere le ali al corpo.
Era veloce.
Incantevole si inabissava.
Il rapace aveva smesso di chiedere
ossigeno. Non ne aveva più bisogno. Il suo essere si era adattato alla
consistenza del verde. Volava in apnea nell’acqua. Solo lui poteva. Solo lui ne
aveva la determinazione. I suoi erano polmoni d’acciaio.
Scendeva. Toccato il fondo
avrebbe controllato sotto il suo vecchio cuscino, tentando di scoprire se qualcuno
avesse toccato quel suo tesoro.
Lui era ancora piccolo e non si
ricordava nemmeno lo scatto. Quella donna che lo teneva in braccio era la più
bella che avesse mai visto. La madre che non avrebbe mai visto invecchiare.
Il padre da cui non sarebbe mai
riuscito a farsi rimproverare. Nessuno sarebbe mai stato orgoglioso di come
bene avesse imparato a volare da solo.
Lui era solo.
Sotto il cuscino non avrebbe mai
ritrovato quel sorriso materno e quella fierezza paterna.
Suo fratello non avrebbe più
giocato con lui. Non avrebbe mai più sentito il calore della sua schiena.
L’acqua bruciava gli occhi. In
quel mare di incertezze poteva distinguere le sue lacrime.
Forse quella foto sarebbe
sprofondata con lui. Sarebbe rimasto il suo più grande tesoro. Sommerso.
Avrebbe continuato a tenerla
nascosta sotto il letto. Si sarebbe
infilato sotto le coperte attendendo, a luce accesa, che suo fratello passasse
davanti all'ingresso della sua stanza ad auguragli la buona notte.
Poi avrebbe spento la luce. Accoccolato
in quel tepore avrebbe fatto finta di dormire. Ma intanto aspettava di sentire
il passo leggero di quella donna lungo il corridoio. Il rumore della porta che
veniva aperta.
Lui se ne rimaneva lì a far finta
di dormire. Lei gli si sarebbe avvicinata.
Lui avrebbe solo fatto finta di
dormire. Sentiva le coperte sollevarsi e riadagiarsi sul corpo, un po’ più su
di dove erano.
Era bello sapere che lei gliele
avrebbe rimboccate ogni sera quelle coperte.
Il calore di un bacio sulla
fronte.
Lei lo avrebbe visto sorridere
beato. Sapeva, che stava solo facendo finta di non essere sveglio. Teneva solo
gli occhi chiusi.
«Dormi, piccolo mio. Fa bei
sogni!». Come era dolce e calda quella voce. Sarebbe stato bello potere
stringere quel calore e portarselo dietro come un’ombra.
Come sempre, la mamma si sarebbe
allontanata verso la porta. Da sotto le coperte, si era preparato a seguirla
con lo sguardo stanco. Le spalle magre e quei capelli neri, scuri come i suoi.
Lei era la donna più bella che avesse mai visto. Desiderava gustarsi la figura
materna fino a che non fosse sparita dalla stanza.
Il falco era volato a lungo,
aveva visto il sole sorgere e tramontare. Ora che scendeva la notte, doveva
riposare le ali ferite dall’acqua.
Era giunto il momento di chiudere
gli occhi, abbandonarsi a quel torpore e farsi cullare dal bacio materno.
Dormi, piccolo mio.
---
grazie,
nous
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Capitolo 9 *** IX ***
arancio IX
IX.
“Non ho voglia di
aspettarti e non ho voglia di capirti.
Perché per capire la realtà bisogna amarla e
io,
la realtà che tu vivi non la amo più.”
DAVIDE TOFFOLO,
Pasolini.
La sera si stava
infiltrando dentro di lui. Naruto, nell’incertezza del salto, avvertiva il
freddo trafiggergli le ossa. L’aria era pungente. Forse solo lui la sentiva
così. Non era stagione per avere brividi. Ma lui li aveva. Ed era come se il gelo
nascesse da dentro e si espandesse a tutto ciò che aveva attorno.
Si domandava se
fosse ancora vivo. Forse quella, che stava così meccanicamente percorrendo, non
era la strada di casa, ma una via verso l’aldilà. Dritto verso un inferno in
cui non credeva. Ma dal ritrovarsi a Konoha o davanti la faccia di un qualche
dio, non cambiava molto. Ovunque i suoi passi lo portassero, lui non poteva
cambiare ciò che era stato. La sua dannazione la stava vivendo. Vivo o morto
che fosse.
Non provava
dolore. La mente non era lì, solo il corpo c’era e sembrava non avere
coscienza. Un automa che seguiva un percorso prestabilito. Le numerose missioni
svolte glielo avevano impresso a fuoco nella parte più nascosta del cervello.
Agiva senza volerlo. I piedi comandavano e il resto placidamente seguiva.
Il peso degli
anni sulle spalle e la consapevolezza che nulla sarebbe mai stato lo stesso.
Non per lui. Forse il mondo avrebbe continuato a girare e le persone ad amarsi
ed uccidersi, ma lui non sarebbe mai stato più lo stesso. In lui la verità e la
menzogna si erano unite. Da quell’immondo parto era nato quel freddo che
sentiva dentro. Era colpevole. Il traditore della patria, dei compagni e degli
amici. Lui aveva tradito in nome del fratello.
Erano simili ed
immensamente diversi. Due corpi in collisione. Un’energia spaventosa e
primordiale. Detriti del passato che si spargevano nel nulla che vi era
attorno.
A volte si
sentiva una marionetta nelle mani del caso. Sarebbe stato semplice non essere
responsabile delle proprie azioni. Essere libero perché inconsapevole di essere
schiavo.
Il cervello
scollegato dal corpo, disperso nel bosco a rivedere quella successione
d’immagini. Lui per cento volte era caduto a terra.
Non si rialzava.
Di nuovo a
mezz’aria, trattenendo il respiro. Saltare.
La tensione. L’eccitazione. Pronti a lanciare
il migliore colpo. Energia che defluiva dal corpo per concentrarsi in un unico punto.
In un secondo la vita veniva decisa. Un lampo. Un bagliore ancestrale. Ancora
una volta pronto a rimanere accecato.
La chioma biondo
sporco si scuoteva per la resistenza dell’aria. Senza soffrire, procedeva verso
la sua dannatamente amata patria. Gli occhi cerulei puntavano l’orizzonte,
senza guardare nulla. Ceco continuava a farsi guidare dalle gambe.
Una afona
deflagrazione. Spaventosa e distruttiva nella sua immensità. Non riusciva a
capire se la sua mente riportasse fotogrammi senza suono, o se il certo boato
gli avesse perforato i timpani, rendendolo sordo. Era stato scagliato lontano.
La terra ed il
sangue raggrumato gli facevano da vestito. Il tempo gli era sfuggito dalle
mani. Il sole era alto. Nella diapositiva successiva doveva essere in procinto
di tramontare. Doveva riempire quel vuoto. Si era immaginato il suo corpo, come
un sacco di carne, essere fatto rotolare per metri. Probabilmente era svenuto.
Per questo aveva avuto quella sensazione
di ferro in bocca, quel calore tipico delle ferite profonde, quel
malessere e stordimento che si prova dopo una botta in testa.
Konoha era
sempre più vicina. Naruto era veloce. Era vento. Anche se i suoi pensieri si
erano persi. Il suo corpo sapeva gestire lo sforzo. Forse non aveva più
energie. Forse si sarebbe fermato pochi metri da casa. Lui non era lì e finché
la sua mente non fosse rientrata in simbiosi con il corpo non ci sarebbe stata
ne stanchezza ne dolore. Era una macchina. Una corpo senza anima. Un puro
meccanismo che continua a funzionare senza il bisogna di qualcosa di
intangibile che lo governi. I piedi dell’automa forse sarebbero affondati di meno
nel fango. Se la sua anima fosse tornata, forse i rami si sarebbero rotti sotto
il suo peso. Tutte quelle incofessabili colpe sicuramente erano macigni.
Quel bastardo
gli aveva affidato i suoi ricordi, i suoi errori e i suoi tormenti. Era bastato
uno sguardo per ricevere in testamento quella sua maledizione che lo aveva
tormentato tutta la vita. Ora il cuore condivideva un dolore mai rivelato. Ora Naruto
sapeva cosa l’altro avesse patito. Ogni scelta porta a delle conseguenze,
saperle accettare significa essere maturi. Poteva affermare che erano cresciuti
troppo in fretta. Non avevano le spalle abbastanza forti per affrontare quella
tormenta che li sconfiggeva dentro. Non avevano abbastanza forza per portare la
maschera del guerriero imperturbabile. Erano fratelli. Avrebbero condiviso le
loro colpe.
Sasuke era il
traditore.
Naruto era il
traditore.
Avevano
disubbidito alla patria.
Avevano
abbandonato gli amici.
Avevano
combattuto il proprio fratello.
Sul cielo
cominciavano a comparire le prime stelle. Quella sarebbe stata una notte senza
luna. Una lunga notte rischiarata solo dalla luce fredda degli astri. Un
meraviglioso tetto sotto il quale abbandonarsi al sonno. Perdersi
completamente. Sognare. Vedere un altro sé ed il mondo che prende una piega
diversa.
Sakura vedendolo
arrivare gli sarebbe corsa incontro. Lo avrebbe abbracciato con le lacrime agli
occhi. Era felice. Era stata preoccupata. Tutte le sua ansie sarebbero state
sfatate presto. Alle sue spalle la ragazza avrebbe visto il suo antico amore. Sasuke
era di nuovo a Konoha. La squadra 7 era
di nuovo completa. Si sarebbero fissati, tutti e tre, e avrebbero riso.
Naruto non
poteva più sognare. Aveva versato il veleno della realtà sui suoi sogni. Il
passato era morto da tempo. Tutte quelle promesse fatte a Sakura le aveva
infrante.
Non c’era più
nessuno da riportare indietro. Nemmeno lui doveva tornare. Nulla andava portato
a casa.
Però
la sua carcassa procedeva. Senza anima. Senza voglia. Non aveva l’esigenza di
andare avanti. Lui doveva restare fermo. Lasciare che tutto il sangue
rimastogli nel corpo uscisse a bagnare la terra. Il sangue andava pagato con il
sangue. La vita glielo aveva insegnato. Il fatto che fosse ancora vivo, forse,
era il segno che dovesse continuare a respirare. Morire ora sarebbe stato
troppo facile. La sua punizione era vivere. Vivere per chi ora non c’era. Per
chi non sarebbe stato più che un ricordo del passato. Un’anima destinata a
vagare sulla terra senza una tomba a cui tornare.
Erano
precipitati, come una violenta pioggia.
I
corpi premuti a terra. La nebbia in testa.
Ogni
muscolo, ogni osso dava dolore. Ma nulla sembrava rotto. Forse qualche costola.
Mentre respirava aveva delle fitte. L’aria era pungente. Dolorosa. Un braccio
non rispondeva. Tentò si sollevarsi con l’altro. Non aveva mia creduto che il
suo corpo pesasse tanto.
Una
volta sollevata la faccia dal suolo, sputò. Polvere, sangue, saliva: una
poltiglia vermiglia.
Scrutò
attorno. Quel paesaggio lunare, non poteva trovarsi in mezzo al bosco. Loro non
erano più sulla terra. Quello era un sogno. Un incubo. Ma il sangue era reale.
Se
fosse stato tutto un’illusione, la sua mente non starebbe passando in rassegna
ad uno ad uno i frammenti di quell’improbabile film.
Konoha
era talmente vicina da poter riconoscere i profili delle mura. Casa c’era
ancora. Lui stava tornando fedelmente all’alveare. Lui non aveva volontà. Lui
era un’ape. Era destinato a tornare. Ad ubbidire.
Per
una vita aveva disubbidito, pensando che la sua morale fosse superiore ad
impersonali regole. Era affogato in un mare di guai, ma ne era riemerso eroe.
Per la prima volta eroe. Quando si diventa importanti per qualcuno le
responsabilità aumentano. Presto qualcuno lo avrebbe visto come un esempio da
imitare. Un’icona. Non poteva stare più rimanere attaccato al suo mondo di
ideali. Era tempo di crescere ed essere un ninja rispettoso delle leggi per
quanto giuste, sbagliate, irrazionali che fossero.
Quanto
tempo era passato da quando voleva fare ancora l’Hokage?
In
quei due anni avrebbe voluto scavare una fossa e sprofondarci dentro. Sparire.
Non voleva sentirsi chiamare eroe. Non voleva vedere quei sorrisi luminosi di
chi lo incontrava. Konoha era un vestito stretto, pesante, che non lo faceva
respirare più.
Le
porte, alte e fredde, incombevano su di lui, pronte per crollargli addosso.
Forse era ancora in tempo per voltarsi e lasciarsi il suo mondo alle spalle.
Scappare, tornando a morire nel bosco. Una scossa lo attraversò. Ora era
integro. Mente e corpo. Si rese conto di essere troppo debole per ritornare sui
suoi passi. Ormai era tardi. Sentiva le gambe deboli, instabili, incapaci di
sorreggerlo ancora. Sorrise al pensiero che forse non sarebbe nemmeno riuscito
a ritornare.
Anche
il fiato era corto. Per quanto tempo aveva corso? Quando si era allontanato dal
bosco?
Davanti
a sè vedeva solo l’ingresso di quella prigione chiamata casa. Salì con lo sguardo lungo la porta lignea. Due
metri. Tre metri. Cinque metri. Forse sei. Probabilmente di più. Proseguì. In
alto si distingueva il punto dove il muro vecchio si innestava sul nuovo. Nonostante
fossero passati due anni da quando era stato ricostruito, quella cicatrice era
ancora visibile. Non aveva mai osato voltarsi per scrutare il limite tra la
vecchia struttura ed il cielo. Là lo attendevano i fantasmi. Ora, però, era
curioso di vedere se quegli occhi persi che vagano nella sua memoria c'erano
ancora. Per Naruto, quel ricordo viveva nei mattoni e nel legno rimasto in
piedi alla furia del loro ultimo incontro. Lui stava lì. Era sempre stato lì,
pronto a farlo sentire inadeguato. Lui doveva rimanere lassù, irraggiungibile.
Lo
sfondo della notte non permetteva di vedere nulla. Appollaiato sul quel muro
non vi era nessuno. L’aria di quella sera era tutta sua.
Sasuke
non poteva essere lì. Non si era più rialzato.
Quel
fantasma era stato raggiunto e superato.
Sasuke
era nel bosco. Non aveva più bisogno di tornare a Konoha. Naruto non aveva più
motivi per vederselo sulla porta del villaggio.
L’aria
di quella sera era tutta sua, Sasuke non ne aveva più bisogno.
«Mi
è stato riferito che Naruto è stato ferito gravemente nell’ultima missione.» pronunciò
l’Hokage, non distogliendo lo guardo dai fogli sparsi sul tavolo.«Non è da
lui…».
La
ragazza scrutava il vecchio sensei. La voce dell’uomo era atona, sembrava più interessato
alle sue scartoffie che alla salute di uno dei suoi migliori ninja. Credeva che in tutto il villaggio solo lei
fosse davvero preoccupata per Naruto.
«Sakura…ti
ha detto qualcosa?»
«Ha
parlato di un’ imprevisto.»
Il
suo compagno non le aveva raccontato nulla. Da tempo non l’aggiornava più
riguardo le missioni. In quella stanza d’ospedale era stato freddo ed evasivo.
Sakura avrebbe dovuto rispondere a Kakashi che imprevisto fu l’unica parola che uscì dalla sua bocca come risposta
alle molte domande che gli fece.
Fissava
il parquet dell’ufficio dell’hokage, così lontano dall’ ospedale, così diverso.
Il
Naruto con cui era cresciuta non c’era più. Ogni volta che tentava di
incontrare lo sguardo del ragazzo ne aveva la certezza. Il suo Naruto non c’era
più. Ciò che rimaneva di lui stava guardando il soffitto della triste stanza.
Ebbe l’impressione che stesse facendo di tutto per evitare i suoi occhi verdi. Tutte
le risposte dovevano risiedere in quell’asettico intonaco bianco.
Sakura
non poteva capire.
«Sakura?»
La
voce del Rokudaime la destò. Doveva essersi eclissata nei propri pensieri,
Kakashi la stava fissando interrogativo.
«S-si?»
«Quando
torni da Naruto, digli che, appena si rimette, voglio il rapporto della
missione. D’accordo?». La ragazza ebbe l’impressione che sotto la maschera
l’uomo le stessa sorridendo. Rassicurante. La ragazza doveva sembrare al
maestro una bambina smarrita.
Annuì.
«Ora
vai.»
Sakura
fece un piccolo inchino in direzione dell’autorità per congedarsi. Si voltò,
dirigendosi verso la porta. L’aprì e l’accompagno dolcemente nel suo chiudersi.
Delle
bandierine arancioni sventolavano dimenticate
su qualche balcone. Non era più un giorno di festa. Le persone
affollavano le strade distratte e perse nei loro affari. I bambini giocavano a
rincorrersi lungo la strada. Alcune donne stavano comprando delle verdure che
avrebbero cucinato per cena in un chiosco lungo la strada. Dei ninja in libera
uscita stavano bevendo assieme, discutendo animatamente. Armi, combattimento,
donne. Konoha era serena. Protetta dai suoi guerrieri. L’eroe della città era stato ferito, ma nessuno lo sapeva. Il villaggio continuava ad essere sicuro nella
sua ignoranza. Bastava avere la certezza che qualcuno avrebbe protetto il suo
popolo e la sua patria: la vita procedeva.
Nonostante
tutto, il villaggio nascosto della foglia era rinato, più fiorente di prima. Del
passato non si faceva memoria. Non vi era interesse nel raccontare i tempi bui.
Non c’era nessun pericolo, non c’era bisogno di allarmarsi. I nemici erano
caduti. Gli eroi erano caduti. Gli uomini continuavano a vivere. Mantenere il
silenzio diventava una garanzia per continuare ad esistere.
Nessuno
avrebbe saputo dell’ultimo grande guerriero Uchiha che, nel fitto del bosco,
stava guardando il cielo, senza vederlo.
Nessuno
sarebbe venuto a conoscenza di quel ninja che, alle porte del suo villaggio,
aveva pregato perché tutto quello che aveva
vissuto si mischiasse al suo sangue per non dimenticare.
Naruto
portava in sé il vecchio compagno di viaggio. In quella notte erano morti
entrambi. Ma questo era un loro segreto, un patto tra fratelli.
Nessuno
doveva sapere.
Fine
I personaggi apparsi
in questa storia appartengono a Masashi Kishimoto.
Mi scuso per l’enorme ritardo
nell’aggiornamento. Nel frattempo mi sono successe parecchie cose e complice la
mancanza di internet e di tempo sono stata un po’ assente.
Questo, cari miei, era l’ultimo capitolo.
Ogni storia deve finire. E questo è il momento dei saluti e dei ringraziamenti
a coloro che hanno letto e apprezzato e a quelli a cui ciò che ho raccontato
non è piaciuto.
Grazie a tutti.
nous
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