Burznumèn

di Lenfadir
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La prima sera alla taverna ***
Capitolo 2: *** Incontro con Alalia ***
Capitolo 3: *** Una brutta sera ***
Capitolo 4: *** Sbirciando ***
Capitolo 5: *** Vendette ***



Capitolo 1
*** La prima sera alla taverna ***


Ricordo ancora quando si sedeva lì, a quel tavolo, con il solito sguardo perso, che non si intravedeva nemmeno sotto il cappuccio, nell’ombra della candela, sotto i pensieri, che tanto sembravano essere pesanti. A volte aspettava ore poggiato sul sudicio asse della porta, ad attendere un tavolo. Intanto mirava al di fuori delle finestre, con ansia nel corpo, quasi aspettasse qualcuno, o meglio un evento, misterioso anch’esso, ma che con coraggio si sarebbe affrontato. E vinto.
A volte, forse stanco di attendere la vittoria di quel evento che non veniva, mentre lui la aspettava poggiato lì su quel legno vecchio, si scostava da esso quasi con sdegno, facendo ondeggiare il suo mantello, nero lucente, di un velluto così magicamente pulito e nero, che quasi non sembrava esser provenuto da quella strada sudicia, esser sempre lo stesso sotto la tempesta, a volte sotto le lame e le asce che lo avrebbero voluto stracciare. Lo vedevi risoluto, il mantello, dirigersi verso il tavolo, mentre sotto di esso il suo padrone si trascinava quasi invisibile, quasi come uno spettro; con un gesto fulmineo ed elegante una mano faceva luccicare la spada da sotto il mantello, la estraeva, la posava sul tavolo. A volte tra le luci riflesse sulla lama si intravedevano anche quella specie di occhi rossi che scorgevi solo se lo fissavi nel nero del suo cappuccio (io lo feci una volta, e mi basta il terrore che ne ho provato), e quella specie di corona d’oro che doveva portare sulla fronte. Con un braccio accantonava tutto ad un lato; altrettanto faceva dei corpi degli addormentati sulla panca e si sedeva. Puntava la spada a terra, e con un colpo secco la ficcava tra le travi del pavimento, così che rimaneva eretta, muta, silenziosa, fedele, quasi fosse un cane da guardia. Un gomito poggiava lieve e possente sul tavolo, la mano destra giocherellava con una spilla d’oro e rubini, elficamente intarsiata, il volto tornava rivolto ancora verso il buio fuori la finestra.
Sono poche le parole che ho sentito pronunciare da quell’uomo misterioso. Quando mi avvicinai la prima volta, servilmente, proponendogli un banchetto da hobbit (e pronto a darglielo per intero anche per senza niente: è certo che se questi tipi si alzano e se ne vanno senza pagare, io non gli corro dietro!) lui rispose solamente: ”da bere”, con voce ferma, secca, sicura, umana, senza smuovere lo sguardo, alzando la mano sinistra e facendomi intravedere 3 monete d’argento. Io tirai un sospiro di sollievo, e corsi a prendere una bella birra, di quelle raffinate: tutti così dovrebbero essere i forestieri! (almeno per il pagamento).
Per un anno buono venne almeno una volta a settimana, sempre le stesse scene, gli stessi gesti sicuri e misteriosi. Non ho mai saputo come si chiamasse, ma io l’ho sempre chiamato Burznumèn.

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Capitolo 2
*** Incontro con Alalia ***


Era stupenda.
La sua pelle del colore del sole nelle mattine offuscate, i capelli fini come la seta, ma neri come la pece, gli occhi lucidi come le scaglie della luna che si riflette nei laghi, davano vita alla sua bellezza. Aveva qualcosa di speciale, quasi divino; eppure i suoi tratti erano palesemente umani: non c’erano di mezzo gli elfi nella sua bellezza, né i demoni con la loro lussuria. Era solo uno degli esseri più meravigliosi che ObadHai avesse mai potuto creare.
Era concentrata a scrivere sulle sue carte: cose poco importanti, forse esercizi da amanuense, o piccoli conti da cittadina. Ogni tanto arricciava la fronte, stringeva le labbra, mentre con le dita tra i capelli inventava ricci che i suoi lisci capelli subito dimenticavano. Era seduta su una pietra, in piazza fuori la mia taverna.
Numèn, stava uscendo: aveva appena pranzato, come al solito solo, in silenzio, ma sembrava stavolta più tranquillo ( se mai fossi riuscito ad intravedere qualcosa da quelle due luci rosse che scorgevo da dietro al cappuccio nero) . Gli passò affianco, quasi senza accorgersene.
Due passi più avanti si fermò. Era di spalle, ma sembrava osservarla: forse percepiva qualche sua aurea, come dicono loro, o stava pensando a qualche sua diavoleria. Passarono così due minuti, o più, giusto il tempo di togliere i boccali dalle mani dei nani ubriachi, mentre già vi si erano addormentati sopra.
Poi tornai a guardare dalla finestra. Lei forse si sentiva osservata, quindi alzò lo sguardo e lo fissava. Numèn si chiuse il mantello, coprendo la spada e lo stemma, e lentamente si voltò verso di lei. Non lo avevo mai sentito parlare così dolcemente: “ Mi dai un po’ del tuo corpo, in cambio di un po’ della mia anima?”.
Lei rimase dapprima spaventata, poi scoppiò a ridere con una semplicità tale da far sorridere perfino le vecchie rimbambite lì attorno. Mentre ancora i suoi denti brillavano ai raggi del sole, chiese: “E che me ne faccio?!”.
“ In questo mondo un sorriso come il tuo, ingenuo e reale, ha bisogno di tanta anima, per non restarne senza, quando i dolori gliela ruberanno per ottenere così anche il tuo corpo.”.
Lei si ammutolì. Lo guardava, cercando di scorgere il suo volto sotto il cappuccio, poi ne osservò le mani, intravide la spada, ed il simbolo di Vecna.
Inizialmente ne rimase colpita, poi sussurrò: “ Non sembri il tipo che va in giro a regalare anime... piuttosto sembri uno che le ruba.”
Lui era silenzioso. Lei socchiuse gli occhi e annusò l’aria. Parlò in elfico, dicendo qualcosa che sussurrava più o meno così: “ Ma dal tuo profumo sembra che mi posso fidare. Il tuo nero sembra essere di buio e solitudine, piuttosto che di morte e la tua voce nasconde rispetto piuttosto che vendetta. Ora il giorno richiede ancora di essere osservato, e questo giorno è speciale già abbastanza”. Poi continuò in comune: “in fondo sei uno sconosciuto… dimmi chi sei così almeno saprò se la tua anima è dannata”.
Numèn fece un passo indietro. Penso che sorrise, perché lei rispose ad un sorriso, poi cercò qualcosa sotto il mantello, tirò fuori una pietra blu e la diede a lei dicendo: “ Cercami qui dentro, quando lo vuoi, e io sarò da te”.
Si volse e stava per andare. “Aspetta!”, e alzandosi chiuse gli occhi; lui si fermò. Stettero così qualche minuto. Lei recitava qualcosa a labbra chiuse, forse una cantilena, e lui aspettava. Poi lei si sedette, e tornò a scrivere, e lui se ne andò senza voltarsi.
Che cosa si siano detti o scambiati in quei minuti, proprio non saprei dire; forse quelle diavolerie tra i pensieri, come fanno loro… forse erano solo rimbambiti dalla puzza di abete fresco appena tagliato, nel bosco vicino. E io non me ne voglio impicciare: eppure lei sembrava tanto una ragazzina pulita e semplice, ed invece ha avuto la capacità di tener testa a quel pazzo solitario!
La vidi solo un paio di volte ancora. Alcune volte sentii chiamarla Alalia.Altre volte ho sentito che era partita per un’isola lontana.
Bella ragazza, però. Affascinante e misteriosa come tutte le belle ragazze!

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Capitolo 3
*** Una brutta sera ***


Stava li come al solito. Guardava fuori.
La notte era chiara e la luna mandava con la sua luce tutti i malefici di cui era capace, mentre le stelle davano forma al cielo, altrimenti buio pesto come un secchio di pece.
Sembrava tutto tranquillo: la solita puzza di zuppa e le solita grida di ubriachi. Elsanìa, la nostra mezz’elfa più bella stasera aveva fatto faville e già erano un sacco i prenotati per stanotte, che pensai bene di raddoppiare la tariffa. Mi ero anche azzardato a proporre a Lui che avrebbe avuto un prezzo speciale, ma lui pronunciò una frase in elfico che doveva essere tipo “L’amore si paga con il dolore…”, poi mi disse “Non stasera, oste. Non è una buona sera.”
Io non ci feci caso, ma era serio nella voce: ero già abbastanza felice di essermela cavata con un gentile “Oste” (non si sa mai che la prendano a male) Dopo un poco alla porta si sentì una confusione che non annunciava nulla di buono. Un mezz’orco vestito a festa (cioè con un’armatura e uno stemma di un casato) entro di colpo e sbarbugliò: ” Fuori c’è il mio padrone e vuole essere servito! Oste butta fuori questa gente, che entriamo noi!.”
Elsanìa sparì nelle stanze, molti fuggirono fuori, quelli addormentati li svegliai in gran fretta e li spinsi alla porta: non che mi facesse piacere avere quella gente, ma fuori avevo visto che erano ben armati, e anche abbastanza nervosi, e se non avessi fatto così, certo mi avrebbero sfasciato il locale.
Mentre svuotavo i tavoli mi voltai verso il suo tavolo, e vidi che non si era mosso; feci per avvicinarmi al suo tavolo, e lui si voltò verso di me: fu allora che vidi due luccichii rossi all’altezza degli occhi e il brillare della striscia d’oro che portava sulla fronte. Non sembrava avere volto, perché l’ombra dentro il cappuccio era intensa. Dopo quella specie di sguardo non mi passò nemmeno minimamente per la testa di chiedergli di andarsene.
Entrarono 5 mezz’orchi, e tre umani. Poi uscirono fuori due orchi e fecero spazio ad una figura che aveva poco di umano: sembrava un demone, o comunque qualcosa di malefico che aveva assunto una forma più modesta, ma l’incantesimo era uscito male: la faccia era rossa, ma rosso vivo, e gli occhi erano tutti neri. Era alto e grosso sulle spalle, ma finiva su un corpo esile. Un mantello rosso e blu lo copriva ed un medaglione di non so chi, gli pendeva sul petto. Si sedette ad un tavolo e quindi entrarono altre 5-4 rozzi guerrieri.
Il demone fece un gesto all’orco che si avviò verso di me:” Una cena degna di noi e per il Padrone una magnifica donz…”. Si interruppe perché vide lui seduto al suo tavolo, che guardava fuori.
Goffo e rozzo l’orco si avvicinò al tavolo, poggiò i pugni rumorosamente, e mentre Lui si girava, disse “…e tu chi sei?”
Il rosso sguardo dell’orco si poggiò feroce su di lui, cercando di scrutare il volto coperto come prima dall’ombra del cappuccio. Non perveniva parola.
“Il TUO NOME!”. L’orco alzò la mano e stava per afferrare il cappuccio. Non fece in tempo ad aprire la mano, che se la trovò conficcata nella tavola di legno del muro, trafitta da un coltello che il Numèn, da sotto il mantello, con un gesto di sdegno, aveva lanciato: “sono un chierico di Vecna, e questo ti saprà bastare”. L’orco si lamentava, il demone si volse contro di lui, ed un silenzio tombale fluiva tra le orecchie dei presenti.
Io ben pensai di svignarmela in cucina. Quando tornai erano tutti fuori. Mi affaciai esitante alla finestra.
Fu allora che lo vidi combattere per la prima volta.
Dal cappuccio gli occhi rossi sembravano essere di luce e rabbia. Estrasse la spada da sotto il mantello puntandola verso il cielo stellato, la puntò verso l’avversario, e poi con un gesto deciso ed elegante tracciò una linea sulla terra umida della notte. Oltrepassò la linea e disse “Arana ni tikarde abassìum” (mi feci spiegare da un saggio tempo dopo che doveva significare qualcosa come “non varcherò questa linea senza il tuo scalpo”, in infernale ).
E fu di parola.

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Capitolo 4
*** Sbirciando ***


Una sera, poco prima del tramonto, entrò. Fuori diluviava, tanto che nemmeno le grida dei nanacci riuscivano a coprire l’ululare sinistro del vento. Lui era col solito mantello nero lucido, asciutto e lindo come appena preso dalle mani di un tessitore, col capo un po’ chino, le braccia nascoste, che sembrava quasi uno spettro. Adocchiò un tavolo ( sempre lo stesso ), tirò fuori la spada e con essa spostò i due tizi seduti da un lato; l’altro si svegliò da solo e ben pensò di fuggire ad un altro tavolo. Numèn si sedette e rimase qualche secondo a pensare. Poi da una sacca che nascondeva sotto il mantello ( per la prima volta vidi anche i suoi vestiti : un pantalone nero molto elegante, ed una camicia rossa fiamma, su cui era infilata una casacca tendente al blu notte) tirò fuori una pergamena, ed un calamaio. Iniziò a scrivere.
Scrisse un foglio intero. Poi arrotolò la pergamena e la lasciò li, col calamaio e la sacca. Gli portai il solito da bere. Lo osservavo, perché oramai era l’unico ancora sveglio, nel locale, mentre anche io sto lì per addormentarmi. Ad un certo punto smette di bere. E fissa la porta.
Da lì a qualche secondo entra un tizio. E’ tutto bagnato, sembra cercare qualcuno. Ha uno sguardo perso, forse timoroso di ciò che lo aspetta, ma si vede che non è uno sprovveduto cittadino. Vede Numèn, e gli va in contro.
Numèn lo aspetta, e poi lo fissa. Il tizio inizia.. “ Le ho portato le informazioni che aspettava, signore, “ – facendo un reverente inchino – “ Il popolo...”.
Numèn fa un cenno con la mano intendendo fermarlo e lo zittisce : “ Prendi fiato, ragazzo, ti servirà quando combatterai per il mio dio. Questo non è posto per raccontare queste cose.”.
Con una mano prese la spada conficcata tra le travi, e la fece rapidamente passare sulla testa del giovanotto che gli stava di fronte tremante… Poi mi disse : “Oste, attenzione” ( intendeva, presuppongo, alla sacca ), e andò fuori.
Il giovane lo seguì. Si fermarono pochi passi fuori alla taverna, mentre tirava giù tanta acqua che oramai sembravano fiumi i rigoli d’acqua che riempivano i solchi dei carri, nella strada. Lui era imperterrito che guardava verso la buia foresta, e il poveretto gli raccontava chissà che cosa, standogli dietro, e gesticolando molto preoccupato.
Io fui preso da una curiosità, che tutt’ora mi fa rabbrividire ( certo ero pazzo in gioventù!) : cosa mai avesse scritto, quella sera, su quella pergamena. Mi avvicinai al tavolo; feci cadere la carte a terra, e mi accinsi a raccoglierle ( mi serviva una scusa, casomai entrasse d’improvviso…).
Lessi la prima che ebbi sotto gli occhi. Era una specie di diario, scritto in comune, ma ben scritto.
Ecco cosa lessi:
Queste sono mie parole, scritte ora che la mia mente da un barlume di conoscenza è invasa.
Ancora non so perché questa veste mi appartenga, né perché questo medaglione di terrore è così fortemente legato al mio petto che non so toglierlo senza che un senso di svuotamento e dolore, insieme, m’invadono. Oramai me ne son fatto una ragione. Ma ancora m’angosciano le voci che popolano i miei sogni, e la frequente scena che turba le mie notti insonni.
Lì, nel buio che sembra provenire da uno spazio immenso senza luce alcuna in ogni direzione ( sotto i piedi e sopra la testa perfino, innanzi e, son certo, anche dietro), illuminato da un tizzone ardente, veglio. Al mio fianco una figura, vagamente femminile, appare improvvisa, e mi sussurra : “ E’ ora. Lascia questo vuoto : qui oramai nessuno ti vuole. Il tuo destino è servirlo, e qui non lo puoi fare.” Io , incredulo, non la comprendo, né so dire se la conosco, che man mano che cerco di illuminarla, lei indietreggia e non si fa vedere. “Muoviti nell’ombra e nel segreto, come il nostro dio ci insegna “ – fa cenno ad un inchino – “ Quando sarai giunto dove dovrai andare, saprai cosa fare. Io sarò lì, al tuo fianco.” Non so tutt’ora di cosa parlasse, ma lei continuava convinta: “Con te porta questa corona, ad indicare le tue nobili ragioni, e che siano gli unici tuoi occhi e ti permettano di vedere via, nel buio che la invade. Con te porta questa spada, che sia di aiuto al tuo braccio, affinché il potere di Vecna, nostro dio, imperi sulla tua strada. Ed ora vai: che nessuno sappia il destino del mondo. “.
Sussurra ancora nella mia mente questa frase, quando di soprassalto mi sveglio, ogni mattino….
Intanto si facevano più forti le voci del ragazzo che discuteva, mentre si avvicinava alla porta. Entrò Numèn, e seguì il ragazzo.
Numen diede uno sguardo al tavolino… poi mi fissò ( ero già al bancone ) e vidi i suoi occhietti rossi brillare più forti verso di me. Sudai tantissimo, e tracannai una birra tutta di un fiato.
Oramai pensavo di essere morto.
Ma il giovanotto continuava a parlare, chiedeva a Numèn di seguirlo in non so che posto, a far chissà cosa, e quindi, forse disturbato da quelle voci, si dimenticò di me.
Piantò la spada sul pavimento, iniziò a preparare la sua sacca, mise dentro le pergamene, il calamaio, qualche oggetto tirato fuori; mi chiese due pani e mi diede qualche moneta, calmo come nulla fosse, mentre il ragazzo si sbracciava e spiegava le sue ragioni, e l’importanza del suo intervento, e dell’urgenza della cosa…
Ad un certo punto afferra la spada, ed alza una mano. Il giovane azzittisce, e Numèn calmo : “Così è stato deciso, e così sarà, ma domani: Ora la mia signora mi chiama”.
Usci e lo vidi andare verso la zona più scura lì intorno, e con calma, piano piano il mantello si fonde con l’ombra, mentre il vento sembra non toccarlo nemmeno. Il giovane sta lì un poco, forse aspettando che finisca di piovere… poi si rassegna, mi chiede una stanza e va a dormire.
Il mattino Numèn entra di buon ora ( era forse la prima volta che lo vedevo di giorno ) e mi dice : “Oste, sveglia il giovane e di lui che è il momento. Che mi segui. “.
Poi esce e se ne va.
Chissà che misterioso evento lo avrebbe atteso. Ma certamente non sembrava un problema per lui. Eppure da quelle carte sembrava una persona come altre… ed invece.

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Capitolo 5
*** Vendette ***


Certo che mi incuriosì, quella notte di tempesta.
Avrei proprio voluto sapere che successe quella mattina, e dove doveva andare Numèn quel giorno. Chiesi, allora, al giovanotto, quando lo andai a svegliere, dove erano diretti. A malavoglia e un po’ pentendosi, mi disse il nome di una città vicina. Non riuscii a sapere altro.
Ma nella mia taverna ne girano di tipi, e le cose, se voglio, le vengo a sapere. Infatti non molti giorni dopo venne un bardo nel mio locale e non ci volle molto a farmi raccontare le gesta del “terribile” essere dal mantello nero e gli occhi rossi che rubò la figlia del possedente terriero.
Raccontò tante cose, ma a me erano arrivate anche voci del “possedente” sfruttatore di contadini, e non mi ci volle molto a scoprire che Numèn fu chiamato dai contadini per vendicare e porre termine ad alcune libertà che si era preso nei confronti delle “contadinelle” sue dipendenti, insieme ai suoi soldati.
Da un più affidabile amico, chiesi notizie più precise, e mi rispose con questa lettera.
Caro Amico, ecco quello che ho scoperto riguardo quella sera.
…. ( omissis ) …
Come non vi furono più soldati che ebbero il coraggio di alzarsi da terra, Numèn, si diresse verso la casa del pover’uomo. O meglio di quello che ne restava.
La scena era pietosa. La famiglia era tutta in ginocchio, implorante e piagnucolante, nella speranza di impietosire Numèn, ma l’esito sembrava scontato: nulla sarebbe rimasto di quella famiglia, e dei suoi averi.
Il possedente cercava di giustificare i suoi comportamenti e di distogliere quel potente “giustiziere” dal suo intento.
Quando Numèn fu abbastanza vicino da tagliare a tutti la testa con un colpo della sua lunga spada, il disgraziato disse: “ Non ucciderci, non distruggete tutto quello che ho: prendete in cambio una delle mie figlie.”.
Intanto si era portato dietro di loro che, col volto basso, erano inginocchiate e tremanti, a terra. Le tirò per i capelli, in modo da farne vedere il volto. Erano entrambe ragazze bellissime, dai capelli neri e ricci; la più giovane li aveva lunghi fino a mezza schiena, mentre l’altra li aveva corti fin le spalle. Vedendo che Numèn si fermò, prosegui : “ Troverete certo in lei più soddisfazione che nell’ammazzarci tutti in questo modo”. Il silenzio si era fatto glaciale, e tutti attendevano una risposta.
Numèn parlò : “ Lo scambio sembra equo: in nome di Vecna, che ella sia mia schiava, per redimere le tue colpe.”, ed indicò la giovane con i lunghi capelli. Nello stesso istante scoppiò un grido, delle tre donne presenti ( c’era lì anche la madre, e due fratelli, uno grande e uno ancora bambino ), mentre Numèn tirò la ragazza trascinandola verso la porta, mentre lei invano cercava di afferrarsi, ad ogni appiglio della casa, e l'uomo la guardava con sguardo soddisfatto.
Mentre stava uscendo, si fermò e disse : “ Neanche Vecna è così infame da vendere sua figlia, per la propria pelle. Non sei degno di vivere oltre. ” E senza neanche voltarsi gli lanciò un pugnale che lo colpì, mortalmente, alla gola. Rivolgendosi, poi al figlio maggiore :” Porta, giovane, avanti questa famiglia, più degnamente di quanto fece tuo padre, così da non farmi venire la voglia di continuare, ciò che oggi non ho finito. Questo è il volere di Vecna.”
Ed uscì senza voltarsi, trascinando con se la giovane che piangeva ed implorava, e chiamava… ma nessuno sarebbe mai venuto a liberarla dalle mani di Numèn.
Camminarono nelle vie del paese, ancora illuminato dalla luce tetra dell’incendio, per poco ancora, ma poi si diressero nella foresta. La notte era oramai fonda, e l’ululare dei lupi faceva ogni volta rabbrividire la povera ragazza ( ora legata ai polsi da una corda, con cui Numèn la tirava); ma lui proseguiva silenzioso e dritto sul suo cavallo nero, senza mai voltarsi, e ben presto la ragazza, singhiozzante, gli stava al passo.
Giunti in uno spiazzo nella foresta, Numèn si ferma, scende da cavallo, ed alle sue briglie lega la corda della ragazza.
Accende un fuoco e monta una tenda nera, a forma di cono, con una punta a croce, ai cui due estremi, vi pose due tizzoni accesi. Guardandola da lontano, così nella foresta, sembrava tanto la sua figura pure nera, avvolta nel mantello, con gli occhietti rossi che luccicano di rabbia.
Poi si avvicina alla ragazza e le punta la spada contro: con un rapido colpo di spada le taglia i vestiti che aveva addosso, lasciandola completamente nuda; la sua pelle bronzea e giovane brillava in quel nero pesto, mentre un tremito di freddo e paura, si vedeva scorrere dal volto fino alle caviglie.
“Una schiava di Vecna non va vestita con quegli stracci. Come ti chiami?”
“Esere, Signore”. La voce era docile e ancora singhiozzante.
“Mettiti questa”, le disse porgendole una tunica nera.
”Non cercare di allontanarti dal fuoco, o gli animali di questa foresta ti sbraneranno, prima ancora che avrai raggiunto quell’albero. Se hai freddo entra nella tenda. Oppure fai compagnia al cavallo. Io vado a dormire.”.
Infine prima di sparire nella tenda concluse :”Stanotte Vecna veglierà anche su di te.”

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