La scelta più facile

di rolly too
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Nader siede in silenzio sulle mie ginocchia e guarda fuori dal finestrino con aria disinteressata. Una signora bionda, aggrappata al palo di sostegno, poco distante da noi, ci guarda male. Disapprova la mia mano sulla gamba di Nader o forse la sua pelle olivastra, non so. Non m'importa.
«È strano sentirti tacere.» sussurro al suo orecchio sporgendomi in avanti fino a che il mio petto non tocca la sua schiena.
«Sono solo stanco, Pietro. Lo sai.»
Certo che lo so. È così dopo tutte le partite. Non importa se vince o se perde. Esce dal campo sfibrato e rimane tranquillo per un po'. Ma di solito non tace.
«Ci guardano tutti male.» commenta poi. Ad alta voce, come fa sempre. Alcuni, che fino a pochi secondi prima avevano gli occhi fissi su di noi, si voltano in fretta in un altra direzione. L'autobus prosegue rombando la propria corsa e anche Nader continua: «Che maleducati.»
«Ti guardano perché sei bello.» lo prendo in giro soffiando piano sul suo collo.
Sorride e si lascia andare all'indietro. Si appoggia a me e chiude gli occhi.
«No.» risponde tranquillo. «Ci guardano perché io sono un ragazzo e sono seduto in braccio a te, che pure sei un ragazzo.»
«E allora? Ti dà fastidio?»
«No.»
Argomento chiuso, allora. Non c'è bisogno di aggiungere altro. Che guardino, se è quello che vogliono. Dov'è il problema?
Nader si agita un po'. Si muove in fretta, si gira di lato, appoggia la schiena alla parete dell'autobus, mi prende il volto con le mani e mi bacia. Io ricambio e quando si allontana da me gli sorrido.
Sento qualcuno che borbotta un Che indecenza, quindi mi sporgo di nuovo verso Nader e stavolta lo bacio io. Ma questa volta con un po' di passione in più. Lui ride contro le mie labbra e sta al gioco. Ma poi, dopo un po', si allontana e mette su un cipiglio severo che mi ricorda tanto quello di suo padre.
«Sei davvero un cattivo ragazzo, Pietro jan
«Tu ci sei stato.»
«Io ci sto sempre.»
Ride di nuovo e dopo non si muove più. Non gli interessano i commenti della donna bionda che si sta rivolgendo a un'altra passeggera e fa notare la nostra incredibile mancanza di rispetto. Proprio in quel momento l'autobus si ferma e sale una vecchietta tutta ossa con le sporte della spesa. Si guarda un po' intorno, in cerca di un posto, ma nessuno si muove. Faccio per chiedere a Nader di alzarsi, ma lui è già in piedi ed è già filato a recuperare la nonnina. Le prende le borse e l'accompagna accanto al sedile su cui ero sistemato e l'aiuta a sedersi senza sbilanciarsi per le brusche frenate dell'autobus, poi poggia le borse a terra, vicino a lei.
«C'è gente incivile a questo mondo, nay?» mi domanda dopo aver rivolto un sorriso alla donna. «Nessuno che si alza per far posto a una signora anziana!»
Sento dei movimenti da alcuni dei sedili alle mie spalle. Mi pare di sentire anche l'imbarazzo di chi si sente chiamato in causa. Ottimo.
«La gente è ignorante.»
«Sicuro. Non capisco proprio come si faccia a non sentirsi in colpa.» Si rivolge alla signora e procede: «Prende spesso l'autobus?»
«Oh, sì.» conferma lei con aria grave. «Ma nessuno ha più rispetto. Fanno finta di non vedermi se mi fermo vicino a loro.»
«Tremendo.» Commento. Nader annuisce e subito dopo prenota la fermata.
«Signora,» continua prima di avviarsi verso le porte d'uscita «lasci perdere questa gente ignorante e se deve sedersi lo chieda chiaro e tondo. Magari ascoltano di più.»
Non aspetta nemmeno una risposta e si allontana. Io lo seguo, trascinandomi appresso il suo borsone. Non so cosa ci tenga dentro ma pesa tantissimo.
«Spero che tua madre abbia cucinato qualcosa di buono.» mi dice mentre camminiamo verso casa. «Sto morendo di fame.»
«Un giorno o l'altro ci ridarai i soldi di tutto quello che hai mangiato in questi anni?»
«Nemmeno per sogno!» esclama. Ride ancora. «Non  ne ho così tanti.»
Si rabbuia un attimo, riflette, poi mi guarda serio e mi chiede a voce più bassa:
«Stai dicendo che sono mozahem
«Non so se sei mozam, so solo che mangi tantissimo.»
«Mozahem.» mi corregge con un sorriso. Si è rilassato e adesso cammina guardando il cielo che si sta facendo scuro. «Invadente.»
«Ah!» esclamo. Sì, me l'ha già detto qualche volta, ma io me lo dimentico sempre. Lui e il suo maledetto farsi. Conosce solo qualche parola e le ripete in continuazione, come se questo potesse aiutarlo a ricordare quella lingua che non ha mai saputo. La madre, a quanto mi dice, che è nata a Kabul e vive in Italia da più di vent'anni, non gli ha mai parlato davvero in farsi. Solo qualche parola buttata qua e là, che lui però ha imparato e che ha deciso di usare.
Mi fa infuriare.
«Parla in modo che possa capirti, Moretto!» gli dico, stizzito.
«Ehi, non arrabbiarti.» apre le mani davanti al petto in segno di resa e sorride. Sa che basta questo.
Quando arriviamo al condominio sembra rinascere. Fa le scale a tre a tre e mi lascia arrancare dietro di lui. Al settimo piano sono senza fiato, lui è fresco e riposato come se avesse volato.
«Ti odio.» gli comunico ansimando.
«Non ci credo neanche un po'.»
«Faresti bene a crederci.»
«Se mi odiassi non mi avresti baciato davanti a tutti, nay
Lo dice mentre apro la porta e mio padre è proprio lì davanti, e ha sentito tutto. Saluta entrambi con un gesto della mano, afferra la borsa di Nader dalle mie mani e la poggia in un angolo.
«L'hai baciato davanti a tutti per davvero, Pietro?» mi domanda sollevando un sopracciglio.
Io annuisco, mi avvicino al divano e mi siedo con malagrazia.
«Qualcuno, in autobus, commentava l'indecenza del nostro rapporto.»
«Ah,» fa lui con aria comprensiva «sì, immagino che una dimostrazione pratica del vostro affetto fosse il modo migliore per metterli a tacere.» sbuffa e commenta a bassa voce: «Sei identico a tua madre.»
Ed è sfortunato a dirlo nel momento esatto in cui lei esce dalla cucina, lo guarda male e poi si rivolge a me.
«Ti sta facendo un complimento, credimi.» Si volta poi verso Nader e continua: «Vuoi farti una doccia? La cena è pronta tra mezz'ora.»
«Volentieri!»  approva Nader. Trascina il suo pesante borsone in bagno e allontanandosi fa un piccolo inchino a mia madre.
«Sei una donna meravigliosa, Liliana.»
Mia madre annuisce con le labbra tese in un piccolo sorriso e gli fa cenno di sbrigarsi.
«Davvero dicevano che la vostra relazione è indecente?» mi domanda poi, accigliata.
«Sì.» rispondo con leggerezza. Sono commenti che non mi fanno nessun effetto. Che dicano quello che vogliono! Chi se ne frega.
«Alla gente piace parlare, Lilly.» cerca di placarla mio padre, ma già è troppo tardi. «Lasciali dire, qual è il problema?»
«Il problema è che non capisco come mai alle persone piaccia commentare la sessualità degli altri. Cosa gliene importa, a loro, del sesso delle persone con cui mio figlio va a letto?»
Ed era precisamente qui che non volevo arrivare... Fa sempre un brutto effetto sentirle dire certe cose. Anche perché, e la conosco e lo so bene, comincerà presto con la sua tirata sulla naturalezza dell'omosessualità e tutte queste cose che mi ripete da quando ho otto anni. E ancora non ha capito che, davvero, non m'importa di quello che dicono gli altri.
«Non vedo come possa interessare loro se mio figlio bacia un ragazzo o una ragazza. Cosa c'è di sbagliato? L'omosessualità dipende da...»
«Da un insufficiente apporto di testosterone al centro dell'accoppiamento, che si trova nell'ipotalamo, e che regola il sesso da cui una persona sarà attratta.» recito alzandomi dal divano quando sento che Nader ha chiuso l'acqua della doccia. «E dato che la frequenza dell'omosessualità è la stessa della combinazione di capelli rossi e lentiggini è la stessa, non capisci perché la gente si stupisce di due ragazzi che si baciano ma non di Pel di Carota con la faccia piena di lentiggini.» M'interrompo e sbuffo. «Lo so, mamma, e apprezzo il tuo interessamento.»
Mi dirigo verso il bagno e apro la porta. Nader non chiude mai a chiave, anche se non è casa sua, e mi guarda con un sorrisetto soddisfatto. È nudo e coperto di acqua che gocciola sul pavimento e che asciugherà poi, come sua abitudine; tiene in mano l'asciugamano che si è portato da casa e sembra essersi ripreso dalla partita.
«L'ho sentita parlare di testosterone.» mi comunica mentre inizia ad asciugarsi. Mi siedo sull'orlo del bidet, lo guardo e annuisco.
«Mi ha spiegato di nuovo perché sono gay e perché non capisce come mai la gente si stupisce se ci vede mentre ci baciamo.»
«Sai, io credo che sia un po' fissata. Che dici?»
«Le piace affrontare il lato scientifico delle situazioni.»
«Sì.» annuisce lui infilandosi i pantaloni. «Ma quando una mi chiede se voglio del monossido di di-idrogeno...»
«È soltanto acqua. Ormai dovresti averlo imparato.» sbuffo. «Lo sai che è fatta così.»
«Se tu dopo tre anni non hai ancora capito cosa vuole dire mozahem, allora non vedo perché io dovrei sapere che il monossido di di-idrogeno è acqua.»
«Tu hai dieci in chimica!» protesto ancora, indignato. E ti rifiuti di passarmi i compiti, aggiungerei, ma taccio perché so che una frase simile può guastargli l'umore per il resto della giornata.
«Certo che ho dieci in chimica, mancherebbe anche che non fosse così! Papà mi ucciderebbe e sai che è capace di farlo.»
Ma certo che l0 so. Il suo terribile padre super-chimico, che lavora in una super-casa farmaceutica americana e ritiene che io sia un super-rompiballe. Me l'ha detto miliardi di volte.
«Sì, sì.» lo guardo mentre afferra la maglia pulita che si è portato da casa e continuo: «Ma è mai possibile che ti ci vogliano ore per vestirti? Se non ti sbrighi mia madre butta giù la porta e viene a recuperarti così come sei.»
Mi lancia un'occhiata ammonitrice e chiude gli occhi.
«Mi riesce difficile vestirmi se tu continui a guardarmi. E poi, non posso fare due cose per volta.»
«Infatti.» esclama mia madre che, come supponevo poco fa, è venuta a vedere che cosa stiamo combinando. «Il tuo cervello è programmato per fare una cosa sola alla volta, dato che possiedi un basso numero di connessioni fibrose tra i due emisferi cerebrali.»
Nader mi rivolge un'occhiata eloquente e mia madre, purtroppo, la intercetta.
«È giusto sapere le cose come stanno, Nader. Comunque, la cena è pronta. Sbrigati a vestirti, dai. Pietro, vieni via.»
Obbedisco senza nemmeno provare a protestare, perché quando mi rivolge quello sguardo deciso so che è meglio non contraddirla.
Trotterello dietro a lei fino alla cucina, sperando che abbia cucinato qualcosa di buono.
«Pizza!» esclama Nader congiungendo le mani, estasiato, dopo averci raggiunti. Si siede raggiante accanto a me, mio padre gli sorride e scuote la testa.
«Allora Nader,» inizia mia madre dopo qualche minuto che stiamo mangiando. Pronuncia Nader con quella sua r dal suono tondeggiante e marcato che la contraddistingue sempre quando parla «come è andata la partita? Avete vinto?»
Lui annuisce e fa per parlare, ma a me sembra davvero dispiaciuto di dover abbandonare la sua pizza.
«Sì.» conferma. «Ma non ho giocato bene, nay, Pietro?»
«Non molto.» ammetto io.
Nader annuisce.
«Sì, infatti. Matteo il migliore in campo, direi.»
«Come sempre.»
«Pietro,» commenta mio padre con tono sorpreso «non capisco. Perché dici queste cose a Nader? Non è carino.»
«Dovrebbe mentire per fargli un piacere?» gli domanda mia madre con aria severa. «Non è molto leale.»
«Lo so, però...»
E come sempre si accorge che, forse, è meglio tacere. Lui e le sue strampalate idee. È convinto, e fermamente, che per fare piacere alla persona con cui si sta insieme bisogna mentire e dirle solo quello che vuole sentirsi dire. Diciannove anni di matrimonio a quanto pare non sono riusciti a mettergli un po' di sale in quella zucca vuota che si ritrova e a fargli capire che no, non funziona così. Fortunatamente mia madre non è dello stesso parere, dice sempre quello che pensa, soprattutto se sa che è vero, e mi ha insegnato a fare lo stesso. E Nader lo ha sempre apprezzato.
«Ma è vero!» esclama infatti a mia difesa. «Nessuno gioca come lui. E poi, io a pallavolo non sono proprio il massimo.»
«Molto meglio nel salto in alto.» commento io, che l'ho visto in azione e so cosa è in grado di fare quando è di buon umore.
«Sì, infatti. E poi, mi piace di più»
«Allora perché giochi a pallavolo?» interviene mia madre, che non riesce a concepire come si possa fare qualcosa che non piace. Ed è questo il motivo per cui ha abbandonato la facoltà di giurisprudenza a cui l'aveva indirizzata suo padre ed è diventata anatomopatologa.
«Non so.» risponde allegramente Nader. «Mia madre un giorno mi ha visto che giocavo al parco con alcuni compagni di classe, mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto provare a farlo in modo più serio e io le ho risposto di sì.»
Mia madre ha un sussulto, come se qualcuno le avesse gentilmente piantato uno spillo nel fianco, si sforza di sorridere e con un voce imbarazzata commenta:
«Contento te...»
Nader non coglie la sua perplessità e torna a concentrarsi sulla sua pizza. È di umore più che ottimo e non smette di sorridere nemmeno per un secondo.
È solo dopo che mia madre ha finito di lavare i piatti che lo invito ad andare nella mia stanza. Mi precede lungo il corridoio e quando arriviamo si lascia cadere sul mio letto. Mi guarda e sorride.
«Allora?»
Gli lancio il libro di matematica e mi siedo accanto a lui.
«Ecco qui. Ellisse e iperbole.»
Mi guarda scettico, poi scuote la testa.
«Non ancora, no!» esclama. «Non ne posso più di questa roba. Se solo ti decidessi a studiare non sarebbe così complicato.»
«Studiare è faticoso.»
Mi rivolge un'occhiata implorante e io mi riprendo il mio libro.
«Traditore.» lo accuso. «Dovresti aiutarmi.»
«Non faccio i miracoli, Pietro jan.» mi dice con la sua voce carica d'affetto. La usa solo quando mi chiama in quel modo e a me non dispiace, nonostante gli abbia più volte detto che mi dà fastidio. O almeno, glielo dicevo fino a quando non ha smesso di chiamarmi così davanti ad altri.
«Non ti chiedo un miracolo, ma una spiegazione.» ribatto allora.
«Quando si parla di te le due cose coincidono.» Incrocia le braccia sul petto e mi guarda con un piccolo sorriso. «Non rompere, Pietro jan
«Non sei autorizzato a chiamarmi così quando mi rifiuti un favore, stronzo.» gli rispondo, ma non sono serio e lui lo sa.
«Se mi chiami così non hai speranze.»
«Per favore!» torno alla carica allora. Stavolta lo supplico e spero davvero che ceda. Mio padre è stato chiarissimo al riguardo: un'altra insufficienza in matematica e passerò tutto il tempo che resta da qui al mio diciottesimo compleanno (centonovantasei giorni!) agli arresti domiciliari.
«No, na fahmidi, non hai capito. Se non ti metti a studiare come si deve, io non ti aiuto più.»
«Razza di bastardo!» esclamo allora, furioso. «Ma l'hai capito che se non prendo almeno sei non posso più uscire di casa?»
«Certo che l'ho capito.» risponde lui, serafico. Davvero non gliene frega niente, al maledetto! «Vorrà dire che ti verrò a trovare a casa tutti i giorni.»
«Non penso che ti vorrò ancora.»
«Allora me ne starò a casa mia, nay? Nessun problema.»
Rimango zitto qualche secondo. Lo guardo per bene per cercare di capire che cosa gli passi per la testa, ma con lui è impossibile. Sorride ed è praticamente sdraiato sul mio letto. Tiene una gamba stesa sulle coperte, con il piede che sporge oltre il bordo, l'altra appoggiata mollemente al pavimento. La testa è poggiata sul braccio ripiegato e con la mano libera gioca con uno degli spaghi del cappuccio della felpa che indossa.
E in tutto questo, io sono qui a cercare inutilmente di convincerlo a darmi una mano. Non che non abbia ragione, in effetti, ma non capisco la sua mancanza di disponibilità. Ha sempre accettato di buon grado di aiutarmi con le materie in cui ho delle difficoltà e la matematica non è mai stata un'eccezione. Ma è la prima volta che rifiuta.
«Senti,» mi dice tirandosi a sedere quando si accorge che non intendo mollare «voglio davvero che ti vada bene il compito. Te l'ho già detto un milione di volte: sai quello che c'è da sapere. Devi fare gli esercizi! Sei capace, ti ho fatto vedere come si fa.»
«Sì, sì, grazie tante.»
«Non arrabbiarti...» sussurra. Mi si avvicina e mi dà un bacio sulla tempia. «Lo faccio per te.»
Lo scosto con la mano e lo guardo male.
«Sembri mia nonna, quando fai così.»
«Tua nonna è una persona intelligente, allora.» ribatte lui alzandosi di scatto e incrociando le braccia. Parla chinandosi in avanti verso di me, incredibilmente serio. «Pietro jan, non ci sarò sempre io a spiegarti come funziona. Abbiamo già ripassato ellisse e iperbole decine di volte e so che sai come fare. Se ti sento chiedere un'altra volta di darti una mano, ti giuro che me ne vado.»
E quando fa così, a me viene sempre da chiedermi se lo farebbe davvero. Ma desisto sempre. Questa volta, però, mi ha fatto incazzare.
«Aiutami.» gli chiedo di nuovo.
Mossa sbagliata. Si raddrizza, mi guarda male, afferra la borsa che mio padre ha portato nella mia stanza ed esce. Sento che saluta garbatamente i miei genitori, poi il rumore della porta di casa che si apre e si chiude.
Non scherzava. Se n'è andato davvero.

 

 

Ebbene, è da un bel po' che ho questa storia nel computer, e oggi ho deciso di provare a pubblicare il primo capitolo, così, per vedere che effetto fa. So benissimo che ho altre due storie non complete, ma non ho nessuna intenzione di abbandonarle, soprattutto "I segreti degli altri", il cui prossimo capitolo dovrebbe arrivare entro il mese.
Ma questa storia mi ispira parecchio e ci sto scrivendo un sacco, quindi... Per quanto riguarda le parole in farsi: io mi sono affidata ai libri per confermare il loro significato, che comunque è sempre spiegato, dal momento che Nader traduce sempre quello che dice. Le ritengo importanti per il suo personaggio, quindi ho deciso di tenerle, nonostante avessi pensato di eliminarle. Le uniche che non vengono tradotte nel testo sono nay (no) e jan (suffisso che significa "caro"), dal momento che comunque, considerate le frasi, sono abbastanza intuitive.
Mi pare d'aver detto tutto.

Mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensate.
Baci,

rolly too

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Il fatto è che conosco bene Nader, e so che quando dice di voler fare qualcosa poi la fa. È questo che l'ha spinto a entrare nella squadra di atletica. Aveva detto di volerlo fare e voilà, dopo tre giorni era stato ammesso. Quello che non sopporto è che spesso usa questo atteggiamento con me. E io che ci casco... Così, poi, come ogni volta, mi tocca andarmelo a riprendere. Perché lui fa così. Ha spento il cellulare, lo stronzo, e quando ho provato a chiamarlo a casa per sentire come stava, dopo tre giorni in cui sembrava completamente sparito dalla circolazione, mi ha risposto sua zia, che è arrivata in Italia da quattro mesi e parla soltanto in farsi, tanto che lui stesso mi dice di non riuscire a capirla. Bastardo! Sapeva benissimo che ero io, lo sentivo borbottare dall'altra parte della cornetta.
E così mi sono costretto a fare le corse per riuscire a studiare per bene storia ieri, in modo da avere oggi il giorno libero per andarlo a cercare. Martedì. L'unico giorno in cui non ha allenamenti di niente. Niente pallavolo, niente atletica. Ho provato ad andare a vedere se per caso era in officina da suo zio, cambiando tre autobus per fare questo, e ovviamente lo stronzo non s'è fatto trovare.
Così, armato di pazienza e di una considerevole scorta di biglietti per autobus e treno, mi sono messo alla sua ricerca. E quando lo trovo, giuro che lo prendo a pugni.
Che poi aveva ragione lui. Il compito è stato più che sufficiente anche senza il suo intervento, ma non posso sopportare che mi abbia negato il suo aiuto nel momento in cui gliel'avevo chiesto. Scendo dall'autobus più o meno dalle parti della sua gelateria preferita e mi metto a cercare. Peccato che, in zona, ci sia anche la sua pasticceria preferita. E so bene quanto Nader ami i dolci.
Andare all'officina dello zio di quel bastardo, tra l'altro, mi ha preso un sacco di tempo e sta già iniziando a farsi scuro. L'ultimo autobus per tornare a casa è alle sei e mezza e sono già le cinque e quaranta. Se non riuscissi a trovarlo, giuro che vado a bussare alla porta dell'ufficio di sua madre e che resto lì finché non mi dice dov'è.
E mentre cammino per strada, sperando in una sua miracolosa comparsa, inizia a suonare il cellulare. Mia madre, che già adesso comincia a rompere! Questa sera, come mi ha ricordato con aria truce questa mattina, ci saranno a cena i santissimi genitori di mio padre, come lei ama definirli, e non è prevista una mia assenza. Anzi, direi che una mia assenza sarà debitamente punita.
Con la morte.
Rispondo svogliatamente e le spiego in breve che sto andando a cercare di ritrovare il mio fidanzato, giusto per sapere se è vivo e ancora interessato a me o se posso gettarmi su altri fronti.
Magari potrei trovarmene uno sano di mente, per cominciare.
E ovviamente arrivano le sei e venticinque e, quando sono alla fermata, l'unica cosa che è passata davanti ai miei occhi è stata il mio autobus. Giustamente. Poi dicono che nascere di venerdì 17, tra l'altro di un anno bisestile, non porta male. L'unico giorno in cui gli autobus sono in anticipo è quello in cui rischio la pelle se arrivo tardi a casa.
Fantastico. L'unica speranza che posso avere è che mio padre sia ancora in giro e che non sia già arrivato a casa, cosa assai probabile, e che faccia uno sforzo di volontà e passi a prendermi.
Mi arrischio a telefonargli e proprio mentre lo faccio la sua macchina sbuca da in fondo alla strada. Fa lampeggiare i fari un paio di volte e capisco che è lì proprio per me. Un po' perplesso, mi affretto ad avvicinarmi e a salire e quando lo guardo capisco che è lì perché mia madre l'ha obbligato.
«Sei un ragazzo scarognato.» commenta dopo che l'ho salutato. «Ho visto l'autobus passare mentre venivo qui.»
«Sì, abbastanza. Con chi ce l'hai?» gli domando, ma giusto perché, se parla di mia madre, almeno non comincerà a rompere le balle a me su quello che è successo con Nader.
«Liliana!» strepita dando un pugno al volante. «Tua madre.» Specifica, come se avessi bisogno di un ulteriore chiarimento. «Puoi spiegarmi perché odia così tanto i nonni? Dimmi un po', a te piacciono, vero?»
Ma certo che mi piacciono. Nello stesso modo in cui mi piacciono le vespe in macchina, le punture di zanzare e le interrogazioni di chimica. Li adoro. A dire la verità non è che voglia loro male, è che sono noiosi e che parlano giusto perché hanno la bocca. Li apprezzerei molto di più se la smettessero di ripetere che non ho rispetto per i miei genitori, che mia madre dovrebbe stare a casa a fare figli invece che analizzare i corpi dei morti e che mio padre fa male a non imporle un controllo maggiore. Come se fosse possibile controllare quella donna.
«Le piacerebbero di più se la smettessero di criticarla.» faccio notare. Chissà che per una volta capisca e la smetta di ammorbarmi con questo argomento...
«La pensi come lei.» mi accusa allora. «Ti fai influenzare.»
«Io mi faccio influenzare?» esclamo allora, indignato, battendo la mano sul cruscotto. «Tu sei pazzo! La verità è che ha ragione, ecco cos'è! Sono insopportabili, tutti e due. Sai quanto sono stanco di sentirmi dire che non vi porto rispetto? Giusto perché non sono il nipote perfetto che vogliono! O meglio, che tuo padre vuole. Perché tua madre, in caso tu non l'abbia notato, dà sempre ragione a lui. E lui parla troppo! E soprattutto dice solo cazzate!» Ormai sto urlando e mio padre è furioso, lo vedo.
«Se ti sento un'altra volta dire una cosa simile, ti arriva un ceffone.» mi ammonisce, ma non m'importa. Che ascolti, una volta tanto, e che la smetta di invitarli a cena!
«Puoi tirarmi tutti i ceffoni che ti pare.» replico poggiandomi al sedile. Mi fa male la testa da quanto sono incazzato. «Questo non cambia la situazione. Mia madre non ha niente da spartire con gente così.» E dovrebbe ritenersi fortunato se gli permette di farli entrare in casa.
In realtà non è che lei spadroneggi in questo modo in casa. È che è piuttosto influente.
«Bravo.» fa allora lui con sarcasmo. «Ascolta quello che ti dice.»
Non gli rispondo nemmeno, tanto so che è inutile parlare con lui. Se mia madre è sempre pronta a dialogare, mio padre, quando si arrabbia, è da evitare. Se non si ammette che ha ragione lui è capace di infuriarsi e strepitare per ore, lamentandosi della sua scarsa autorità e della mia sfacciataggine. Come se fosse colpa mia se lui non è in grado di difendere a parole le proprie opinioni.
«Posso sapere cosa diavolo stavi facendo in giro?» attacca dopo un po', forse stanco del silenzio. Una cosa che non ho mai capito. Perché si deve ostinare a parlare? Se uno tace, evidentemente, è perché non ha niente da dire. E io sono troppo occupato a pensare a Nader per fregarmene di quello che mi dice. Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto quel folle! Se non lo trovo, lo so bene che è in grado di non farsi vedere né sentire per settimane. L'ha fatto, due anni fa, quando ci frequentavamo da poco. Due settimane prima di avere di nuovo sue notizie. E sua madre che rispondeva in farsi alle domande che le facevo al telefono.
«Cazzi miei.» E stavolta il ceffone arriva davvero, e fa male. So benissimo che non vuole che parli in modo così volgare, ma a essere sincero me ne importa ben poco. Io parlo come mi pare e se non gli va bene può anche fare a meno di ascoltarmi.
«Sono tuo padre!» esclama, come se ci fosse bisogno di ricordarmelo. «Ho diritto di sapere che cosa vai a fare in giro.»
«Non sono cose che ti riguardano.»
Non mi va proprio di spiegargli ciò che è successo tra me e Nader, e soprattutto non voglio che sappia che sto impazzendo senza di lui. Non sopporto non averlo intorno ed è patetico ammetterlo. Ma poi, anche se non lo fosse, mi piacerebbe pensare di poter essere libero di scegliere a chi raccontare quello che mi interessa. Sicuramente non glielo dirò solo perché me lo chiede con un tono di voce più alto del normale. Funzionava quando avevo cinque anni, questo sì, e probabilmente anche quando ne avevo dieci, ma ora come ora penso di essere perfettamente in grado di tener testa a qualche urlo e qualche minaccia.
Quando arriviamo a casa e apriamo la porta vedo mia madre e penso che sono davvero fortunato a non doverla andare a trovare in carcere. Ha sguardo omicida e labbra tirate, segno evidente che si sta trattenendo dal dire qualcosa di sgradevole a mia nonna, che dev'essere già arrivata da un pezzo e sta tenendo uno dei suoi sermoni contro la donna moderna.
«Ma perché proprio non vuoi fare altri bambini, Liliana?» le domanda con tono compassionevole.
Non so da quanto continua con questo discorso, ma se va avanti ancora un po' sarà la prossima cliente di mia madre. E non ci vorrà nemmeno molto per accertare le cause del decesso...
«Non sono una macchina da riproduzione.» commenta allora mia madre con tono secco. Sta scagliando la carne sui piatti con una rabbia che penso davvero che potrebbe uccidere. Mio padre la guarda un istante e sembra capire subito l'aria che tira, perché le gira ben largo e va in salotto, a chiacchierare con il nonno, fermo davanti alla televisione accesa. Altra causa del nervosismo di mia madre.
Tra i due gruppi, non so quale scegliere. Rimanere in cucina a cercare di placare l'ira di mia madre è da folli; ma anche andarmene e permetterle di dire qualsiasi cosa all'onorevole antenata, che prosegue imperterrita la propria argomentazione a favore delle famiglie numerose, ignara del pericolo che corre, non sarebbe la mossa più intelligente. Allo stesso modo, unirmi ai due, in salotto, che fanno discorsi da uomini, come piace tanto a mio nonno, non mi ispira.
Alla fine decido di rinunciare e di rifugiarmi nella mia stanza. Prendo il cellulare e provo a chiamare di nuovo Nader, tanto per fare. Ma il telefono suona a vuoto e dopo un po' parte la registrazione della segreteria telefonica.
Lo odio! Maledetto, mi prende in giro. Sa benissimo che lo sto cercando, e nonostante questo si ostina a rendersi irrintracciabile. Anzi, è proprio per questo che lo fa. Ah! Ma quando lo trovo...
«Pietro!» La voce di mia madre è il suono delle unghie che grattano sulla lavagna, quando mi chiama con quel tono. Terrificante.
«Che cosa c'è?» urlo di rimando, sperando vivamente che non mi chieda di andare lì. Non ho voglia di sorbirmi il suo dibattito con la nonna. E vorrei anche evitare i commenti maligni di mio nonno sui miei strani amici. Ovvero Nader.
«Vieni subito qui!» Ecco. Poi dicono che una madre sa sempre cosa vuole il figlio.
Torno in cucina con la stessa vitalità con cui parteciperei a una marcia funebre e quando vedo che sono già tutti seduti a tavola mi trattengo dallo sbuffare. Mancava solo questo.
«Sei in ritardo, ragazzo.» sbotta mio nonno con cipiglio severo.
«Ero impegnato.»
«È ora di cena.» commenta allora lui continuando a fissarmi. «Bisognerebbe stare insieme, ad aspettare che sia pronto.»
«Sì, be',» replico io prendendo posto accanto a mia madre «la prossima volta farò più attenzione.»
Mi è anche passata la fame. Avrei voglia di prendere a pugni qualcuno, Nader magari, ma non sono sicuro che sia un buon metodo per risolvere i problemi. Con tutta probabilità finirei in carcere e non sarebbe poi un granché...
«Allora, ragazzo.» continua mio nonno con tono pratico, guadagnandosi un'occhiataccia per niente nascosta da parte di mia madre «Ti sei finalmente deciso a mettere la testa a posto?»
Lo guardo di sottecchi mentre seziono la mia bistecca e penso un po' a cosa rispondere. Sto per aprire bocca che mia madre mi precede.
«Non mi sembra che ne abbia mai avuto bisogno.» fa notare, acida. Mio padre sospira e si porta una mano davanti al volto, mio nonno sembra scioccato.
«Non puoi dire, Liliana, che si stesse comportando come si conviene. L'ultima volta che siamo stati qui, con lui c'era...»
Nader. Ovvio. Solo che, l'ultima volta che sono stati qui, Nader era mio amico. Ora, invece, è il mio ragazzo. Semplicemente. E già allora mio nonno mi aveva fatto notare quanto fossero ambigui i nostri atteggiamenti, solo perché Nader mi aveva abbracciato prima di andarsene. Per un momento mi viene da mentire, da dirgli che ha interpretato male la nostra amicizia, che non deve temere di dover ammettere di avere un nipote interessato ai maschi. Poi intercetto lo sguardo di mia madre e cambio idea.
«C'era Nader.» concludo io con un piccolo sorriso. «Il mio ragazzo.»
Mio nonno ha la faccia di uno che ha piantato i denti in un limone e mia nonna, credo, sta per avere un infarto. Mio padre, invece, sembra scioccato. Sibila il mio nome con tono di avvertimento e più lo vedo arrabbiato e più la situazione mi diverte. E la cosa migliore di tutte è che mia madre è estremamente soddisfatta.
«Che cosa hai detto?» domanda mia nonna con voce sottile, forse sperando d'aver capito male.
«Ho detto che c'era Nader. Sai, il tizio con gli occhi chiari e i capelli ricci, lunghi. Te lo ricordi?» aspetto che annuisca debolmente prima di sorridere ancora e continuare. «Ecco, è il mio ragazzo.»
«Francesco!» tuona allora mio nonno guardando mio padre. «Come puoi permettere un simile scempio sotto al tuo tetto?»
«Non è uno scempio, papà.» protesta lui debolmente, ma io per primo ammetto che non è molto convincente. Sembra deluso di non potersi rendere invisibile. «Nader è un bravo ragazzo.»
Nader è uno stronzo che non risponde al telefono. Ma questo lo tengo per me.
«Signore,» interviene mia madre, «l'omosessualità è perfettamente naturale. E non è sbagliata.»
«Un uomo dovrebbe unirsi solo a una donna!» protesta mia nonna, scioccata.
Mi piace la piega che ha preso la serata, anche se solo che mio padre vorrebbe evitare tutto questo. Egoisticamente, mi diverte scioccare i suoi genitori. Evito di pensare che, dopo quello che ho detto, diventeranno più freddi nei miei confronti. Forse il nonno non mi parlerà neppure più, chissà... Non mi fa piacere, ma stranamente l'idea mi sembra talmente surreale che nemmeno la prendo seriamente in considerazione. Se si va avanti così, comunque, la cena terminerà molto prima del previsto.
«Ragazzo, se questo è uno scherzo di pessimo gusto...»
«Non lo è, nonno, te lo posso assicurare.» continuo. «Ma non dovresti reagire così. Non faccio niente di male.»
«Ignori le leggi della natura!»
«La natura prevede anche questo.» commenta, serafica, mia madre. «L'essere umano, dopotutto, non è l'unico a praticare l'omosessualità. Moltissimi mammiferi hanno atteggiamenti omosessuali, nessuno si sognerebbe di dire che non è naturale.»
«Si tratta di animali!» esclama mia nonna.
Mio padre, in tutto questo, sembra essere invisibile. Io, invece, inizio a sperare che non ne nasca un pandemonio. Non vorrei – ed è possibile – che i miei genitori si trovassero a litigare a causa mia. So bene che quando i nonni se ne saranno andati mio padre affronterà mia madre, come fa solo quando è solo con lei e sa che nessuno può vederlo, ma mi auguro che la situazione si risolva pacificamente, come sempre.
«L'essere umano è un animale.» ribatte mia madre. «E non capisco perché dovreste colpevolizzare mio figlio per un istinto che è insito dentro di lui...»
«Questo ragazzo va aiutato!» quasi urla mio nonno. «Va ricondotto verso atteggiamenti sani!»
«Il comportamento di Pietro è sano e tu dovresti smetterla di gridare, papà.» La voce di mio padre è stanca, ma non è quello che ha fatto ammutolire tutti. In realtà, nessuno si aspettava il suo intervento. Da parte mia, immaginavo che ben presto questa discussione sarebbe stata portata avanti solo da mia madre e mio nonno, come accade tutte le volte che i due hanno visioni diverse riguardo una qualche materia. Ma mio padre, stranamente, ha deciso di prendere le mie difese.
«Se a lui sta bene così,» prosegue, calmo «sarebbe bene se tutti noi ne stessimo fuori. Se è felice allora io non ho nulla da ridire.» Aggiunge, anticipando il nonno, che sembrava sul punto di parlare e che ora tiene la bocca aperta in un'espressione di stupore che lo fa sembrare abbastanza ebete «Papà, mamma, credo davvero che dovreste andare via, adesso.»
E questo è il colpo di grazia. Persino mia madre è ammutolita. Mio padre che prende abbastanza coraggio da cacciare di casa i propri genitori, sia pure con gentilezza! Nessuno avrebbe potuto prepararmi a qualcosa di simile.
«Sì, credo anch'io che sia meglio.» approva debolmente mia nonna. Si alza, mi carezza i capelli mentre esce dalla cucina e si allontana per prendere i soprabiti. Mio nonno la segue poco dopo. Mio padre si alza, li accompagna alla porta, li saluta e quando torna sembra sfinito.
«Papà,» dico piano quando mi rendo conto che tutto quello che è successo è dovuto a me «mi dispiace per quello che è successo. Ho sbagliato.»
Ma lui alza una mano per tacermi e mi sorride debolmente mentre, come se nulla fosse, si serve l'insalata.
«Hai fatto bene. Hai detto la verità, è quello che ti abbiamo insegnato. Forse sei stato un po'... precipitoso. Ma immagino che tu sia stanco di sentirti dire che nulla di quello che fai va bene.»
Mi stupisco ancora di più e mia madre non è da meno. Senza badare a noi, mio padre continua:
«Lo faceva anche con me, quando avevo la tua età. Diciamo che magari tu rifletti meno di quanto facessi io.»
Non rispondo e nemmeno mia madre dice nulla. Rimaniamo a guardarlo mentre finisce con calma la sua cena, e solo quando lei inizia a sparecchiare io mi alzo e vado nella mia stanza.
Afferro il cellulare che ho lasciato sulla scrivania e guardo il display. Nulla. Assolutamente nulla. Non un messaggio, non una chiamata. Insomma, nessun segno di vita. Ciò vuol dire che Nader è davvero incazzato e che non basteranno tutte le telefonate del mondo per fargli cambiare idea. Ovviamente.
Quindi, il progetto per domani è quello di andarlo ripescare a casa sua e costringerlo a ragionare. Perché, in effetti, non ha motivo di incazzarsi per cose simili. Ok, io avrò sbagliato a chiedergli aiuto nonostante sappia benissimo che devo solo studiare, ma lui, per certi versi, è davvero insopportabile. È davvero il caso di punirmi così per una scemenza simile? Perché lui lo sa che mi fa diventare matto non avere sue notizie. Certo che lo sa, anche se io non gliel'ho mai detto. Capisce sempre quello che mi passa per la testa, nonostante tutto, e questo non sempre è un bene.
Ma se lo vedo, prima di dirgli qualsiasi cosa, lo prendo a pugni. Non ci si comporta così.

 

Sono tornata! E con un assaggio della famiglia di Pietro e della cocciutaggine di Nader, direi. Che posso farci? Da brava autrice imparziale quale sono, adoro questi due ragazzi. Sì sì.

Bibby111: innanzitutto, ti ringrazio molto più che infinitamente per il tuo commento, mi ha fatto immensamente piacere sapere che la storia ti ispira. Per quanto riguarda l'Islam non penso che lo inserirò, o almeno, non lo farò in modo approfondito. La madre di Nader è senz'altro islamica così come lo è sua zia, ma lo stesso non si può certo dire di lui. Quindi, dal momento che per il protagonista la religione non è particolarmente influente non lo sarà nemmeno per la storia. Oltre a questo, la mia motivazione va anche ricercata nel fatto che non conosco molto bene quel Credo (e infatti mi sto informando più che posso per aiutarmi con la caratterizzazione di Fazila e Farzana) e non vorrei che, comunque, la religione diventasse un punto focale della storia, dato che mi sembra un argomento delicato che io non mi sento di trattare. Dopo questo monologo, ti ringrazio di nuovo con tutto il cuore e spero che continuerai a seguire la storia.

Bene, ho detto tutto. I vostri commenti, positivi o negativi che siano, mi fanno sempre un grandissimo piacere, quindi se volete farmi sapere cosa ne pensate non abbiate paura di farlo.

Baci,

rolly too

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


E quindi, tutto quello che posso fare è prendere l'autobus e andare in centro. E da lì, prendere un altro autobus e andare a casa sua. Perché, giustamente, abita esattamente dall'altra parte della città rispetto a me. E quindi devo partire con due ore di anticipo rispetto all'orario che mi sono prefissato e pregare di non perdere la coincidenza degli autobus.
Sono furioso, assolutamente. Perché già so – va sempre a finire così – che alla fine mi farà sentire in colpa per qualcosa che non ho fatto. E quindi io dimenticherò che è lui quello che non si degna di rispondere al telefono. Nossignore! Si concluderà tutto con me che dico Hai ragione, Nader, scusa; segno tangibile della mia evidente cretineria. E va bene...
Come se non bastasse, quando arrivo davanti a casa sua vedo che lì, proprio davanti al portone, c'è quell'imbecille cosmico di Luca, che, se posso dire, meriterebbe una morte lenta e dolorosa, giusto perché non si fa mai i fatti suoi e perché ce l'ha con Nader. I motivi di questo suo odio indiscriminato, attualmente, sono ignoti. Ma neanche questo importa... Spero solo, a essere sincero, che non mi faccia troppe storie. Anzi, spero che non mi parli nemmeno. Che faccia finta di non vedermi. Cosa che sarà ben difficile, considerato che è attorniato dal suo gregge di belanti adulatori. Uno più deficiente dell'altro. Li sceglie per la capacità fisica, immagino. Ho visto personalmente uno di loro stringere una mela nella mano e ridurla a un ammasso poltiglioso.
«Ehilà, fighetto!» mi saluta quando mi avvicino all'ingresso. Guarda storto i miei vestiti e mi sorride. «Come stai?»
«Bene.»
«Come mai sei qui? Pensavo che passassi i pomeriggi a suonare il violino...» Qualcuno dei suoi, per motivi che davvero non cerco di comprendere, ride.
«Ho altro da fare.»
«Cosa? Sei venuto qui a trovare il tuo fidanzatino?» Ride anche lui e questa volta il motivo è più che palese. Ma non me ne frega nulla. Che ridano! Dov'è il problema? Preferisco Nader, con tutti i suoi difetti, alle ragazze con cui escono loro. In quanto a intelligenza, forse sono addirittura a livelli inferiori rispetto a questo bel gruppetto di body-builder che mi trovo davanti. Uno più muscoloso dell'altro.
«Dicono che sia divertente scopare con degli uomini, fighetto.» Altre risate.
Ma stavolta sorrido.
«Lo è. Ma sai? Dicono anche che chi passa le giornate in palestra, a gonfiare i muscoli, lo fa perché deve compensare la mancanza di qualcos'altro...»
Il più palestrato di quei tizi assurdi si avvicina con aria minacciosa, e ci vuole tutta la mia volontà per non fare capire che me la sto facendo sotto e che spero che non mi metta le mani addosso. Ma quando sento Luca ridere con naturalezza capisco che il mio timore è infondato.
«Sì, dicono così.» Sospira. «Be', senti, ci si vede in giro. Ciao, fighetto.»
Lo saluto con un gesto della mano, supero lui e i suoi amici, mi avvicino ai campanelli e li guardo mentre si allontanano. Luca in testa, tutti gli altri dietro. Mamma anatra con gli anatroccoli.
La porta si apre prima ancora che abbia il tempo di suonare il campanello. Alzo la testa e vedo la zia di Nader che mi guarda dal terrazzino e mi fa segno di salire.
Quando arrivo all'appartamento è lei ad accogliermi. Sembra sola in casa.
«Prego, entra.» mi dice stentatamente con un sorriso. E io entro. La casa è piccola, minuscola, con i muri colorati. Il salotto ha pareti giallo intenso, con mobili in stile africano. «Prego, siede.» continua la donna, indicandomi una seggiola pieghevole vicina al tavolo da pranzo. Obbedisco, titubante. Mi sembra maleducato rifiutare.
«Nader è in casa?» mi azzardo a chiedere, ma la donna non sembra ascoltarmi. «Nader è in casa?» ripeto, e solo allora si gira.
«Io no capisce.» si scusa con un sorriso gentile.
«Nader.» dico allora. E stavolta sembra intuire quello che voglio. Annuisce freneticamente, il velo verde, mollemente avvolto attorno al collo, che le scivola lungo una spalla. Con un gesto veloce lo sposta fino a coprire i capelli scuri e mi indica la porta che conduce alla zona notte.
Aprire le porte scorrevoli di casa di Nader mi mette sempre un po' di ansia. A differenza di quanto accade a casa mia, sono sempre tenute chiuse. Anche quando, in estate, fa caldo e l'aria non circola. Ho visto la stanza di sua madre perché un giorno Nader me l'ha mostrata, ne ricordo le pareti blu intenso e i mobili in stile orientale. So che nella stanza c'è un bagno e una piccola stanza che loro usano per stendere il bucato. Ma dal piccolo antro in cui mi trovo si vedono solo tre porte chiuse. Quella della stanza di Fazila, madre di Nader; quella del bagno e quella della camera di quell'imbecille di Nader stesso. La apro senza troppi complimenti e quello che non mi aspetto è di trovare le serrande sbarrate e la luce spenta.
A Nader piace la luce, e di solito la stanza è fin troppo illuminata. Uso il display del cellulare per fare luce – perché non ho mai capito come funzionino gli interruttori della corrente in questa casa. Non sono per niente disposti in modo logico – e mi avvicino al letto di Nader. E lui, effettivamente, è lì e sta dormendo, con le coperte tirate al livello degli occhi. Ha il volto arrossato e trema lievemente. Gli sfioro una guancia e la sento bollente. Capisco che sta male e vorrei andarmene, ma lui è già sveglio. Mi guarda stranito, come se non mi avesse riconosciuto, poi borbotta qualcosa in farsi, si tira a sedere e muove una mano nel buio fino ad accendere la luce. Si porta una mano alla testa, scosta i capelli ricci dalla fronte sudata e mi guarda, le mani abbandonate in grembo, sopra al piumone.
«Perché sei qui?» domanda con voce roca, impastata per il sonno.
«Non ti sei più fatto sentire.»
«Certo che no. Sto male.» Si fa ricadere sul materasso e mi guarda stancamente. «Sono incazzato con te. Lo sai, no?»
«Non ti ho fatto niente, però.» rispondo. In effetti, non è proprio la verità. Ma la sua reazione è stata decisamente esagerata, per la miseria!
«Non è vero.» Sembra risentito. Si gira sul fianco e mi fa spazio. Mi siedo sul letto e lo guardo.
«Stai proprio male, eh?»
«Sì.» Tossisce un paio di volte. «Mi tratti male.» si lamenta poi.
Scatto in piedi, furioso. Piccolo bastardo!
«Non è affatto vero!» grido e lui sembra allarmarsi.
«Parla piano!» esclama, ma le sue parole sono bloccate da un colpo di tosse. Quando gli passa, torna a guardarmi. «Se mia zia sente, verrà qui. Lo dirà a mio madre.»
«C'è qualcosa di male?» Certo che c'è. La madre di Nader non sa di noi due. Per quanto la riguarda, io sono solo un suo amico. E immagino che non sarebbe facile, per lui, spiegarle che in realtà non è così. E soprattutto, non sarebbe facile convincere la zia, di cui non capisce più che qualche parola, a tacere.
«Bene.» riprendo a bassa voce. «Ma non è vero che ti tratto male.» A parte la storia dei compiti di matematica, non gli ho fatto niente. E ora mi vuol far sentire in colpa! Ma non ci riuscirà. Sono io a essere arrabbiato con lui, non il contrario!
«Sì, invece.» ribatte lui. È accigliato, offeso. «Mi prendi in giro davanti agli altri. Hai detto davanti a Luca e ai suoi amici che sono un piagnone, una femminuccia! Mi hai fatto star male.»
È vero. Me ne ero completamente dimenticato. È successo un paio di settimane fa, tornavamo da scuola insieme. Nader aveva gli occhi arrossati per il pianto. Aveva passato la ricreazione in lacrime per la rabbia, causata da un voto sbagliato come risposta a un'interrogazione praticamente perfetta, seguita da un'indifferenza del professore e dalle prese in giro di un compagno di classe. Risultato: c'era voluto quasi tutto l'intervallo a calmarlo, e anche mentre andavamo alla stazione degli autobus continuava a fremere e a passarsi le mani sugli occhi lucidi e gonfi. Era stato allora che avevamo incontrato Luca. C'eravamo fermati un attimo a parlare, come facciamo sempre quando lo troviamo, l'avevamo lasciato sbeffeggiarci un po' e alla fine lui aveva chiesto a Nader se si sentisse bene. Al che io ero intervenuto, spiegando che era nervoso e che per questo aveva pianto. E l'avevo chiamato piagnone e femminuccia. Davanti agli altri.
«Se le mie parole ti hanno offeso, non l'ho...» sto già dicendo, ma lui mi interrompe con uno scatto nervoso della mano. Si siede e mi guarda negli occhi.
«Non sono state le tue parole a offendermi, Pietro.» specifica. «Sei stato tu. Tu, e nient'altro. E io non avevo fatto niente per meritarmi quelle cattiverie.»
Ecco. Tutto qui. Basta questo per farmi sentire malissimo. Certo, ha ragione. Perché, in effetti, le parole, da sole, non fanno niente. Ci vuole qualcuno che le pronunci e nella fattispecie a pronunciarle sono stato io. Cattiverie gratuite. Ma non sono disposto ad ammetterlo.
«Stai dicendo cazzate, Moretto.»
«Non chiamarmi Moretto.» sputa lui e solo così capisco che è davvero incazzato. Di solito non dice nulla quando lo chiamo così. Sorride, per lo più. «Sto dicendo che mi dà fastidio.»
«Era una minchiata e tu te la sei presa.» ribatto io. Non è possibile che muova una tragedia da due parole dette scherzando! Ho capito che ci sta male, ma con un minimo di ritegno. «Lo sai che Luca nemmeno mi sta simpatico...»
«Questo non ti ha impedito di dargli retta mentre diceva cattiverie su di me. Hai riso di me!»
Tossisce ancora, talmente forte da perdere il fiato. Si porta le mani alla testa e geme.
«Stai male.» dico allora alzandomi. «Ne parleremo quando ti sarai ripreso. Non ragioni.»
«Sto ragionando benissimo, invece.»
«Non mi sembra.»
«Fai così perché non vuoi ammettere di esserti comportato in modo cattivo, Pietro!» esclama allora. «Dimmi perché mi hai detto quelle cose. Ti do fastidio?»
Pigola le ultime parole con tono di supplica e a me viene istintivo abbracciarlo, come faccio sempre quando lui scoppia a piangere e siamo soli. Solo che questa volta si tira indietro. Come se mi avesse trafitto con un coltello seghettato. Fa male uguale. Anzi, forse un po' di più. Se mi avesse trafitto con un coltello seghettato, magari colpendomi nei punti giusti, probabilmente sarei morto e a quest'ora sarebbe tutto finito. Ma non è così, a quanto pare. Devo continuare a guardarlo, e sta per mettersi a piangere, e cercare di fare in modo che non si accorga che le sue parole stanno facendo effetto. Perché lui lo sa. Nader è uno che sa come parlarmi.
«Niente di quello che fai mi da fastidio.» lo rassicuro allora. Non m'interessa più che non mi abbia risposto al telefono per tre giorni. Voglio soltanto che mi faccia un sorriso. «Moretto, a me piace un sacco così come sei. Però te la prendi troppo per cose che non vogliono dire niente.»
Si acciglia.
«Quello che ho detto a Luca non lo pensavo davvero. E quando ti ho chiesto di aiutarmi in matematica l'ho fatto perché mi piace quando mi dai una mano. E se ho insistito... Be', prima che te ne andassi sembrava divertente.»
«Ti diverti con poco, Pietro jan .» borbotta, ma già il fatto che mi chiami così vuol dire che non è poi tanto arrabbiato. «Davvero non lo pensi?»
«Certo.» lo rassicuro prendendogli la mano. «Te lo giuro, Moretto. Non starei con te, se non fosse così.»
«Va bene.» annuisce allora. «Bakhshida . Perdonato, ma solo perché sono ammalato.»
Annuisco, mi sporgo in avanti e gli bacio la fronte.
«Bravo, Nader! Grazie.»
Fa per dire qualcosa, ma la porta si apre e mi sento gelare quando vedo sua madre.
«Ciao, Pietro.» mi saluta con un sorriso. Ma non sembra contenta di vedermi. Soprattutto, guarda con sospetto i pochi centimetri che mi distanziano da Nader. A quel punto mi alzo in fretta, mi avvicino alla scrivania e afferro a caso un paio di libri di scuola.
«Signora Fazila, è un piacere vederla. Me ne stavo giusto andando.» mi volto verso Nader, gli faccio un cenno con la testa. «Be',» improvviso. «grazie per la spiegazione di matematica. E per i libri. Te li riporto domani, faccio le fotocopie.»
«Certo.»
Faccio in tempo a uscire dalla stanza che lo sento raccomandarsi tra un colpo di tosse e l'altro:
«Non sciuparli!»
E io non li sciupo. Li tengo per bene mentre corro giù per le scale e anche mentre sono alla fermata dell'autobus. Spero solo che sua madre non si sia accorta che quelli che ho preso sono testi di storia. Potrebbe essere complicato spiegarle per quale motivo, se ho bisogno di ripetizioni di matematica, me ne vado con libri di tutt'altra materia. Ma non importa. Tutto sommato, non mi sembra che li abbia visti. E anche se fosse così, ci si potrebbe sempre inventare una scemata qualsiasi per giustificare le mie azioni. Come se non fossimo abituati a farlo! Nader, che costantemente le racconta frottole per giustificare il suo attaccamento a me, ormai è diventato talmente bravo che nemmeno io riesco a capire quando lo fa. Prima era nervoso, sbatteva continuamente le palpebre, si torceva le mani. Ora, quando dice bugie, lo fa con una scioltezza e una tranquillità snervante. E questo, un po', mi spaventa.

 

Sono tornata! Ecco a voi il terzo capitolo di questa storia delirante. Be', che dire? Nello scorso si presentava la famiglia di Pietro, in questo mi è sembrato giusto dare un piccolo spazio anche a quella di Nader. E poi, qui c'è anche Luca in versione mamma anatra con i suoi ammiratori, come si fa a non odiarli? Dovrei essere più obiettiva, lo so...

Lady Aika: innanzitutto... Grazie per il commento! Ne sono stata estremamente felice! Secondo: per carità, non distruggere il modem a causa mia. Terzo: sono felicissima che i personaggi ti piacciano! Io ce la sto mettendo tutta per renderli nella maniera migliore possibile, ma non è per niente facile. E sapere che li hai apprezzati, be', mi fa veramente impazzire di gioia. E sì, anch'io adoro Liliana. Forse è il personaggio che preferisco. Vedremo se riuscirò a farle avere una parte un po' più rilevante, più avanti.

Smanukil: Grazie infinitamente per il tuo commento, mi ha fatto un piacere immenso! E sono contenta che Pietro e Nader ti piacciano, così come apprezzo molto il fatto che disapprovi i nonni di Pietro (d'altra parte, un po' mi stupirei se qualcuno fosse d'accordo con loro!), ho fatto del mio meglio per renderli insopportabili. La mamma di Pietro a quanto pare è un po' nella hit parade di tutti quelli che hanno letto questa storia, me in primis, e questo mi rende davvero felicissima. Ah, e ancora più felice mi rende il fatto che tu abbia notato il papà di Pietro! Povero uomo... Sono davvero, davvero contentissima per quello che mi hai scritto, davvero.

Ringrazio anche tutte le persone che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare, e tutti quelli che leggono soltanto. Grazie!
Sarei felice di sapere cosa ne pensate di questo capitolo.

Baci,

rolly too

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Scendo tre fermate prima della mia, deciso a camminare un po'. Solo che il mondo, a quanto pare, è davvero piccolo e mi trovo accanto a Luca, che se ne sta di fianco a me con le mani in tasca, in silenzio.
«Ehilà, fighetto.» mi saluta dopo qualche passo. È solo, questa volta. Chissà che fine hanno fatto gli allegri anatroccoli.
«Luca.»
«Come mai già di ritorno? Il fidanzatino ti ha scaricato?» Mi guarda strano e a me sembra che pronunci la parola fidanzatino con un certo disgusto.
«Cos'hai contro di lui?»
Mi aspetto che neghi, che dica che non c'è nulla, anzi, ma Luca non è così. Sorride, mette una mano in tasca, afferra un pacchetto di sigarette, ne estrae una e la accende. La infila tra le labbra, pensieroso, poi sorride.
«Mi sta antipatico.» spiega poi. «Insomma... Sempre a frignare. A volte, quando ci sono le finestre aperte, lo sento che parla con sua madre. Si lamenta sempre.»
«Che dice?» Curiosità... Ho paura mentre glielo chiedo. Non vorrei venire a conoscenza di fatti che, forse, sarebbe meglio se non conoscessi.
«Bah, cazzate varie. Questo ce l'ha con me, Mi trattano male, Mi prendono in giro, Ho giocato male, L'arbitro preferiva l'altra squadra ... Come fai a sopportare uno così?»
«Non è male come dici. Senti solo alcune cose.»
«L'amore rende ciechi.» cita saggiamente lui. «E sordi.»
«Come ti pare. Non è a te che deve piacere.»
«Giusto.» approva. «In fin dei conti, per quello che ci parliamo io e lui...»
«Appunto.»
«Senti,» fa dopo un po'. «sabato sera faccio una festa per il mio diciottesimo compleanno. Ci vieni, fighetto? Puoi portarti dietro anche il piagnone, se ti fa piacere.»
Evito di fargli notare che non è carino chiamarlo così.
«Perché no? A che ora?»
«Alle otto di sera, al rustico dell'autostrada. Hai presente qual è, no? Quella vecchia casa marrone, accanto al casello...»
«Quella con il campo da calcio, da pallavolo e da tennis?»
«Sì, sì, quella là. Sai come arrivarci?»
«Bah, posso provarci. Penso di sì, comunque.»
«Bene. Allora ci si vede là.»
«Bene.»
«Ci si vede, fighetto!»
«Ciao.»
Si allontana con una mezza corsa. Mi verrebbe quasi da corrergli dietro, dirgli che no, ho cambiato idea, alla sua festa non ci vado, non m'interessa, perché mai dovrei essere presente? Sono forse un suo amico? Certo che no! Ci vediamo ogni tanto, in giro, quando capita. Non ho nemmeno il suo numero di telefono e non so dove abita. Non so neanche quale sia il suo cognome, cosa me ne frega della sua festa? Niente, ovviamente, ma siccome sono un idiota-che-non-pensa-mai (come dice Nader, che forse poi non ha tutti i torti) ora mi tocca andarci. Perché non sono così maleducato da disdire all'ultimo momento. E quindi, ora devo anche farmi venire un'idea qualsiasi per un regalo, giusto per non farmi riconoscere e presentarmi lì a mani vuote. E quindi, dato che ormai sono in giro, tanto vale non rientrare proprio in casa e vedere se riesco a recuperare qualcosa di decente prima delle sette di sera. Prendo il cellulare e compongo il numero di Nader, dal momento che lui di solito ha idee migliori delle mie.
«Pietro jan!» esclama rispondendomi. Ha la voce ancora roca e tossisce un po'.
«Senti un po', Moretto, siamo invitati a una festa, sabato sera. Ci vieni?»
«Sono malato .» protesta piccato. Lo sento borbottare qualcosa di incomprensibile, dall'altra parte della cornetta.
«Lo so che sei malato, però oggi è mercoledì e la festa è sabato. Se stai meglio ci vieni?»
«Devo chiedere alla mamma
E chiedi alla mamma, Nader! E sua madre dirà di no. Perché Fazila è fatta così. Non la conosco bene, ma da quanto mi ha raccontato Nader è contraria a feste, uscite tra amici e giri che non contemplino la scuola o la palestra come obiettivo. E il fatto che Nader, invece, sia un amante delle feste, non fa che aumentare i litigi tra i due.
«Tua madre ti dirà di no.»
«Infatti. Gliel'ho chiesto e mi ha detto che non posso
Come volevasi dimostrare. Ma se conosco Nader...
«Però io ci vengo lo stesso
Precisamente. Alla fine non l'ascolta mai.
«Bene.»
«Che festa è? »
Ecco. Ora devo solo trovare un modo per spiegargli che è la festa di Luca prima che mi butti giù il telefono. Perché lo so bene che appena pronuncio il nome dell'altro Nader si infuria e riaggancia. E mi toccherà spendere altri soldi per telefonargli di nuovo, fino a che non si decide a rispondere e ascoltare quello che ho da dire. E magari anche a darmi un consiglio per il regalo.
«Il diciottesimo di Luca.»
«Cosa?» esclama allora lui dall'altra parte. «No, Pietro jan, scordatelo. Non ci vengo
«Andiamo, Moretto, che ti costa? Non sei obbligato a parlarci!»
«Non me ne frega nulla.» Ovviamente. Quello che è strano è che non abbia ancora riattaccato. «Vacci da solo
«Non fare il difficile, Nader.» E soprattutto, non farmi incazzare. Santo cielo, può venire anche solo per stare con me e farmi compagnia, considerato che non conoscerò nessuno degli invitati.
«Ti ho detto di no
«Ma mi lasci da solo?» provo quindi, sperando che il mio tono lo faccia commuovere.
«Certo.» Che insensibile. «Puoi stare con Luca, no? Magari potete parlare male di me
«Che cazzo stai dicendo, Nader? Mi pareva che ci fossimo chiariti! Non volevo offenderti, l'ho fatto...»
«Senza pensare.» conclude lui con voce secca. Tossisce un po', poi prosegue. «Lo so. Però tu continui a non renderti conto di quanto mi hai fatto stare male. E comunque, è inutile che insisti, per la festa. Vacci da solo e divertiti. Conoscerai qualcun altro
«Sei una lagna, lo sai?»
«Sì. Adesso lasciami in pace, voglio dormire
Chiudo la telefonata senza nemmeno rispondergli. Vaffanculo, Nader! Non capisco che cosa gli prenda. Sta diventando insopportabile, ultimamente. Sempre a lamentarsi, a trovare qualcosa che non va, a farmi mille problemi per un mare di cazzate.
Bene. Vorrà dire che alla festa ci andrò davvero da solo. Conoscerò gente interessante e mi divertirò anche senza di lui. Meglio, anzi. Non avrò nessuno che mi rimarrà sempre attaccato a brontolare.
Mi è anche passata la voglia di andare a cercare il regalo. Decido di tornare a casa, e al limite guarderò un po' la televisione. Perlomeno fino a che non mi verrà l'ispirazione giusta per preparare la cena.
Quando arrivo non c'è ancora nessuno. In compenso, però, un bel biglietto rosso fa bella mostra di sé proprio sullo schermo della televisione. È di mio padre.

Non funziona, se ti interessa. Tua madre ha deciso di sfogare la sua rabbia repressa sui cavi, quindi adesso non si vede più niente. Stendi il bucato. Non preparare la cena per me, resto fuori. Buona fortuna.

E grazie per l'augurio, papà. Sarò a casa da solo con una donna che per evitare di uccidere i suoceri ha pensato bene di tagliare i cavi del televisore. Ottimo... Dubito che si prodigherà per farlo mettere a posto. Forse è la volta buona che ci convince a farlo sparire. È da anni che prova a convincerci della malvagità della TV, inutilmente. Ma magari questa volta l'avrà vinta lei...
E quindi, se siamo soli in casa, tanto vale iniziare a preparare la cena. Mentre mi affaccendo ai fornelli, cosa che personalmente odio, mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa che possa ispirarmi per il regalo di Luca. E non trovo niente, naturalmente. Solo un vecchio libro di mia madre, lasciato aperto sopra alla tavola. La prima cosa che vedo quando mi avvicino è la foto di un corpo umano praticamente aperto in due. Cuore, polmoni, intestino, e tanti altri organi carini. Tutto ciò condito da una discreta quantità di sangue. A lato della foto, i relativi ingrandimenti. Giusto per vedere meglio. Richiudo il volume, sperando che questo mi aiuti a controllare il contato di vomito che mi invade tutte le volte che vedo una cosa simile. Risultato? Nessuno, ovviamente.
Ma non importa. Potrebbe essere un buon regalo, comunque. Magari Luca decide di darsi alla medicina.
È mentre prendo in considerazione l'ipotesi di incartare il libro e di presentarmi alla festa con quello che sento la porta di casa che si apre e il rumore dei tacchi di mia madre sul pavimento. E mi viene in mente che non ho tolto il biglietto dalla televisione.
«Ciao, Pietro.» mi saluta mia madre entrando in cucina. Tra le mani ha il foglietto rosso. Stracciato.
«Ciao, mamma.» ricambio. Lascio che mi dia un bacio sulla guancia e le indico i piatti.
«Risotto. Sono appena tornato, non ho fatto in tempo a fare altro.»
«Va benissimo.» approva. «Mettilo in tavola, io arrivo subito.»
Si allontana spedita, come sempre quando deve fare qualcosa di importante. Solo che io ho il dubbio che la cosa importante sia prendere i telefono e chiamare mio padre per rimproverarlo per ciò che mi ha scritto, così la fermo.
«Mamma.»
«Sì?»
«Mio padre scherzava.»
Mi sorride.
«Lo so, tesoro, ma non è per quello che sto andando di là. Voglio solo mettere via le scarpe che tu hai lasciato sul tappeto.»
Mi sento un po' colpevole. Lo faccio sempre e lei, tutte le volte, le mette a posto. Facendomelo notare, in modo che possa rimuginare a lungo sulle mie colpe e comprendere quali siano i suoi sforzi per rendere abitabile questa casa.
«Allora, sei riuscito a parlare con Nader?» mi domanda quando torna.
La guardo storto.
«Come lo sai?»
«Me l'hai appena confermato.»
«Vabbè, al di là di questo?»
«È da parecchio che non viene qui.»
«Questo è vero.» ammetto. «Comunque sì, gli ho parlato.» E poi, per cambiare argomento: «Vado a una festa, sabato sera. Per te va bene?»
«Certo.» annuisce lei. «Ti ci devo portare?»
«No, penso che andrò in moto.»
«Va bene, ma non devi bere. Me lo prometti?»
Sospiro.
«Sì, mamma, te lo prometto.»
«Che festa è?»
«Diciottesimo di uno che conosco.»
«E intendi fargli un regalo?» il suo tono è quello di una che sa benissimo che non è solo di idee che ho bisogno.
«Sì.» confermo alzandomi per sparecchiare. «E ho bisogno di finanze e di idee.»
«Per le finanze parla con tuo padre.» ribatte lei. «Per quanto riguarda le idee...»
Fa una breve pausa. Sembra concentrata, e quindi arrivo da solo alla conclusione.
«Parlo a mio padre?»
«Sì, credo che sia la cosa migliore.»
Mia madre, per quanto riguarda i regali, è esattamente come me. Poche idee e poca disponibilità finanziaria.
«Dovresti prendergli qualcosa di utile.»
«Ci proverò.»
E ci provo davvero. Finito di cenare esco di nuovo. Vado in centro, a passeggiare davanti alle vetrine dei negozi, in cerca di qualcosa di interessante da regalare a Luca. Ma, incredibilmente, trovo solo regali che andrebbero bene per Nader. Per qualche strano motivo mi viene da pensare che, se decidessi di comprargli qualcosa, non l'accetterebbe. È un'idea strana, priva di fondamento. Nader è sempre stato entusiasta dei miei regali e non c'è niente che dovrebbe farmi pensare che in futuro non sarà così. Eppure...
Alla fine, come sempre, non risolvo niente. Torno a casa a mani vuote e di cattivo umore per i pensieri che ho fatto su Nader. La prima cosa che faccio è andare a letto. Forse, dormire mi porterà consiglio e riuscirò a mettere fine al cattivo umore di Nader e anche a trovare qualcosa di adatto per Luca. O forse, come è più probabile, otterrò solo di rimandare ancora lo studio di fisica, con il risultato che domani il compito andrà male un'altra volta. Guardo per un po' il libro, indeciso, fino a che non capisco che non me ne importa niente.
Lo lancio sulla scrivania e m'infilo sotto le coperte, spossato. Non mi sembra nemmeno di avere sonno, eppure mi addormento all'istante.

 

Ed ecco il quarto capitolo! E Nader che si comporta da stronzo... D'altra parte, il ragazzo è capriccioso.

Smanukil: Be', Nader comunque avrebbe potuto rispondere al telefono, no? Alla fine dei conti, lo stava davvero evitando per la storia della matematica... Come ho detto poco fa, è proprio capriccioso. Luca ti sta davvero così antipatico? Bene, anche a me, a essere onesta. Sì sì. E la casa di Nader piace pure a me, mi sono ispirata all'appartamento di una mia amica: mi ha davvero incantata.
Ti ringrazio tantissimo per il tuo commento e per i complimenti, mi hai resa felicissima. Grazie!

Ringrazio anche tutte le persone che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare, e tutti quelli che leggono soltanto. Grazie!
Sarei felice di sapere cosa ne pensate di questo capitolo.

Baci,

rolly too

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


A quanto pare, la mia visita ha fatto tornare il buonumore a Nader. Mi ha chiamato, questa mattina, per confermarmi la sua presenza a scuola e la sua assenza alla festa di sabato. Non ha voluto sentire ragioni di sorta né preghiere né suppliche. Non verrà. Fine del discorso.
E così, nonostante tutto, per quanto riguarda il regalo sono al punto di partenza, con la differenza che ormai è venerdì e che il mio tempo per trovare qualcosa di adeguato si riduce a ventiquattro, misere, ore.
«Ciao!» mi saluta allegramente Clio quando entro in classe. La dolcissima Clio, la mia preferita. È una ragazza minuscola, con i capelli ricci, scuri, tagliati corti; enormi occhi neri e un naso incredibilmente adunco di cui va fiera. «Come stai?»
«Bene.» rispondo avviandomi verso il mio banco. Appoggio la cartella a terra e la guardo. «Come mai così di buon umore?»
«Sabato vieni alla festa?»
«Quella di Luca?»
«Sì.»
«Certo. Ci sei anche tu?»
Annuisce e mi guarda con fare cospiratorio.
«Allora ho una proposta per te. E non puoi rifiutare!»
Sospiro e le sorrido.
«Che razza di proposta è, se non posso rifiutare?»
«Zitto e ascolta!» mi ammonisce lei. Tira fuori da non so dove un blocco per gli appunti scritto fittamente e una matita, mi mostra entrambi, poi dà un'occhiata veloce alle scritte.
«Allora, senti un po': per il compleanno di Luca abbiamo deciso di regalargli un cellulare nuovo, con touch screen e tutte quelle cose fighissime dei cellulari di ultima generazione.» riassume con tono pratico. «Abbiamo diviso equamente il prezzo tra... diciamo una quarantina di persone. Solo che una si è tirata indietro all'ultimo e quindi abbiamo una quota vacante.»
Vuoi che le mie preghiere siano state ascoltate e qualcuno sta per dirmi che tutto ciò che devo fare è aggiungere soldi per un regalo già scelto?
«Quindi,» continua «abbiamo bisogno di qualcuno che partecipi al regalo e mi dia i soldi che mancano, perché io non ho nessuna intenzione di rifare i conti e tanto meno di pagare due volte. Sono dieci euro, ci stai?»
Ma certo che ci sto! E ci sto così tanto che già le do i soldi, così che non faccia in tempo a cambiare idea e che nessuno mi freghi il posto.
«Però, cazzo, quaranta persone e dieci euro a testa? Sono un sacco di soldi.»
«Lo so.» annuisce lei. «Il fatto è che quegli aggeggi costano un sacco e noi volevamo fargli un bel regalo come si deve.»
«Mi pare giusto.» sospiro dandole il denaro. Mi sembra che questa sia una grandissima fortuna, tutto sommato. Non ho nemmeno dovuto fare lo sforzo di andare in giro per cercare qualcosa di adatto...
«Ottimo!» esclama lei, entusiasta. «Viene anche Nader?»
«No.» borbotto sbuffando. «Dice che Luca gli sta antipatico.»
«Lo immagino.» Ride. «Diciamo che non sono compatibili, eh?»
«Volendo dire così.»
Si allontana saltellando. Non so se sia pazza, probabilmente sì, ma mi sta simpatica. Si ferma vicino alla porta, saluta con un abbraccio Sara, che invece è sempre seria ma che lei adora, riprende la sua colletta. Mi consola sapere che ci sarà almeno lei alla festa.

L'unica cosa che mi impedisce di scavalcare il cancello, a ricreazione, e fuggire, è che Nader lo andrebbe a dire a mia madre. Lui e la sua completa incapacità di tenere i segreti.
«Andiamo, Pietro jan, non fare così, l'interrogazione non è andata tanto male!» cinguetta alle mie spalle, sperando di incoraggiarmi. L'unica cosa che mi ispira, invece, è un istinto omicida. Mi verrebbe da girarmi e strangolarlo...
«Il professore mi ha detto che quando mi vede gli viene voglia di cambiare mestiere.»
«Sì, questo è vero.» ammette. Sembra scoraggiato, ma poi mi sorride. «Andiamo, Pietro jan, non credo che tua mamma ti farà tante storie.»
«Lei non fa mai problemi per queste cose, Moretto, lo sai.»
«Giusto.» Sospira. «Tuo papà capirà, no? È la prima volta che ti va male un'interrogazione di geografia!»
«Lo spero. Senti, Moretto, ci vieni alla festa di sabato?»
«Ancora con questa storia?» sgrana gli occhi e mi allontana con uno spintone amichevole. «Te l'ho già detto, Pietro, non ci vengo.»
«Ma dai! Ti incazzi per così poco?»
«Tu mi istighi.» protesta.
«Esagerato!» esclamo. «Ma dai, che ti costa?»
«Mi costa un sacco, anche perché la mamma ha detto che se mi azzardo a uscire mi chiuderà in casa per tutta la vita.»
«Lo dice sempre, ma poi...»
«Sì, lo so, però adesso che c'è khala Farzana è molto più cattiva. E poi, te l'ho già detto che Luca lo odio e che non intendo venire alla festa. Perché insisti? E poi, non ci viene anche la Clio?»
«Sì, però non è la stessa cosa se tu non ci sei.»
Mette su uno dei suoi ghigni e alza un po' la testa.
«Non fare il furbo, Pietro jan. Per una sera sopravvivrai, credimi.»
«Magari conosco un altro e inizio a uscire con lui.»
Mi guarda male e sembra che le mie parole lo abbiano fatto star male, anche se io sto solo scherzando. Vorrei rimangiarmi quello che ho detto, giusto per non litigare di nuovo, ma non lo faccio. Voglio vedere quale sarà la sua reazione e lui sembra averlo capito.
«Dove lo trovi un altro che ti sopporti come faccio io?»
«Ehi! Che stronzo...»
«Certo. Però ti piaccio.»
«Sì, direi di sì.» ammetto la mia sconfitta e alzo le mani in segno di resa. «Vieni a pranzo da me?»
Scrolla le spalle e scuote la testa.
«Non posso, Pietro jan. Vieni tu da me, piuttosto. La mamma ha preparato sabzi challow, lo sai che mi piace.»
«Riso con spinaci e agnello. Che schifo.»
«Solo perché tu non mangi carne di agnello!» protesta. Non gli piace che commenti la cucina di sua madre, ma Fazila non è poi questa gran cuoca e in particolare i suoi risotti sono mostruosi. E mi piace vederlo quando si arrabbia, nonostante sappia che è crudele, da parte mia.
Suona la campanella e torniamo in classe.
«Ci vieni alla festa, Moretto?» provo di nuovo durante il tragitto.
L'occhiata che mi rivolge in risposta è chiarissima. No, non ci viene. E ho come l'impressione che se glielo chiedo di nuovo me la farà pagare cara.
«Nay. Ci viene la Clio. Stai con lei.»
«Sì, però non è la stessa cosa!»
«Non me ne frega nulla.»
«Ti prego!»
«Non rompere, Pietro.» mi liquida alla fine spingendomi verso il mio banco.
Mi sembra strano, in questo periodo. Rideva di più, tempo fa, ed era più gentile. Ma adesso... Non è mai successo che si sia rifiutato di uscire con me, anche per andare in un posto che non gli piaceva. Ha sempre accettato di buon grado, e anche in passato siamo usciti con Luca e la sua compagnia, nonostante si odiassero a vicenda. E adesso? Mi piacerebbe sapere che cosa è successo, ma non so come fare per chiederglielo. E, tra l'altro, non conosco nessuno che potrebbe aiutarmi a risolvere questo mistero. Nader non ha molti amici, e quei pochi che ha ritengono che io sia un inaffidabile approfittatore che si diverte a prenderlo in giro fingendo di volergli bene. Nessuno di loro mi direbbe mai nulla su di lui. E quindi, che fare? Che fare?
Quando terminano le lezioni Nader mi abbandona per andarsene all'officina di suo zio. In compenso, mi raggiunge Clio, che abita poco più avanti di casa mia e ogni tanto fa la strada insieme a me.
«Ehilà!» mi saluta mentre mi raggiunge correndo.
«Come mai sarò onorato della tua presenza, oggi?»
«Al passa a prendermi a casa tra un'ora.» spiega con un sorriso enorme. «Mi porta in un posto segreto. Una sorpresa!» trilla con la sua voce acutissima.
Al, ovvero Alfredo, il suo ragazzo, è stato per anni soltanto un nome mormorato in classe, quasi come se si fosse trattato di un'entità non meglio definita di cui era preferibile non parlare apertamente.
«La settimana scorsa» racconta mentre mi saltella accanto «mi ha portata a correre con le moto.»
«Figo. È stato divertente?»
«Sì, parecchio, anche se io non sono proprio brava. Sono uscita di pista, qualche volta.»
«Succede.»
Mi rendo conto di essere stato un po' troppo brusco, perciò mi sforzo di sorriderle. Dalla faccia che fa, però, non sembra molto convinta.
«Non stai bene?»
No, per niente. Sono nervoso, arrabbiato, confuso. Voglio sapere che cosa sta succedendo a Nader, perché si allontana da me. Non posso assolutamente domandarglielo e questo è un dato di fatto. Un altro dato di fatto è che non so nemmeno come fare per poter trovare almeno un indizio che giustifichi il suo comportamento insensato. Perché è lui, indubbiamente, quello strano. Se penso a quello che ho fatto nell'ultimo mese, mi sembra che non ci sia stato niente di strano, di insolito. Il mio solito modo di fare, di parlare, di pensare. Ma Nader, invece... Non so nemmeno quando sia iniziato. Forse quando è arrivata sua zia, e la pressione di sua madre si è fatta ancora più insostenibile. Oppure quando suo padre ha di nuovo rimandato il loro incontro, nonostante fosse fissato da più di quattro mesi. Da quello che ne so io, da quando Nader ha scoperto che suo padre non sarebbe venuto a trovarlo, cinque mesi fa, non l'ha più richiamato. E questo lo fa soffrire.
Ma a pensarci bene, ad analizzare con calma tutto, è successo dopo... È stata dopo il nostro ultimo litigio che ha smesso di chiamarmi, al pomeriggio, e che ha iniziato a rifiutare i miei inviti. Uno solo, in verità, e a una festa di una persona che lui non sopporta, lo ammetto, ma è molto strano.
«Sto benissimo.»
«Non raccontare balle.» m'ammonisce allora Clio agitando un dito con fare minatorio. «Se ti chiedo se stai bene, pretendo una risposta onesta. Se volessi una bugia, te lo direi.»
«Ma davvero?» ribatto, ignorando il suo appunto. «Dici alle persone quando non vuoi che ti dicano la verità?»
Annuisce. «Ma certo!» esclama. «Quando chiedo ad Al, per esempio, se sono ingrassata. Lui non deve mai dire la verità!»
«Ingrassata?»
«Certo.»
«Ma, Clio, sei uno stecchino!»
«No, no, tu dici così,» sospira, ma sta sorridendo. «in realtà mi sono incicciottata per bene. Non entro più nei jeans dell'anno scorso. Ma non è di questo che stavamo parlando, mi pare.»
«Sì, be', mi hai chiesto se sto bene e ti ho detto di sì. Non ti basta?»
Mi dà un pugno sulla spalla e mi prende per un braccio, costringendomi a fermarmi. È incredibile quanta forza riesca a mettere in dita così sottili.
«Non prendermi in giro, dai. Posso fare qualcosa per aiutarti?»
Scuoto la testa e guardo basso.
«Ma no, no, figurati.»
«Come ti pare.»
Non sembra per niente soddisfatta. Non che m'importi granché, a essere onesti.
«Be',» dice all'improvviso «io ti lascio qui. Vado a prendermi un gelato.»
La saluto con un cenno del capo e la guardo mentre si allontana. Che strana tipa.

 

Ed ecco il quinto capitolo! Non molto da dire, in realtà, è una cosa abbastanza di transizione. Diciamo che tutti questi primi capitoli lo sono, e solo dal prossimo inizierà a complicarsi la situazione... Per raggiungere il caos più totale, come mio solito. Ma non disperate, che prima o poi si spiega tutto!

Bibby: Finalmente una a cui piace Luca! Il mio povero pulcino... Sono i suoi amici che sono odiosi, povera stella, lui è tanto buono! Bene, detto questo. Sono contentissima che la storia ti piaccia, sì sì, e stai pure tranquilla: non mangio nessuno se non commenta, non occorre chiedere perdono! E poi, questo commento mi ha resa talmente felice che, credimi, mi rallegra anche per il capitolo precedente. Grazie mille!

Smanukil: Nader è antipatico, dici? Hai ragione, assolutamente. Poteva andarci a quella festa, anche se era di Luca! Ma si sa che poi quello che uno fa lo paga... Ah! Non anticipo niente. Però un bel viaggio nel Triangolo delle Bermuda, in effetti, potrebbe essere una buona soluzione... La soluzione a tutti i problemi! Ma questo è solo l'inizio *risata malefica*. Dopo questo sproloquio, ti ringrazio immensamente per il commento, che mi fa sempre felicissima. Grazie!

Sono da internare, lo so. Ma state pure tranquilli, che la mia follia non è contagiosa.

Bene, detto questo, passo a ringraziare tutte le persone che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare, e tutti quelli che leggono soltanto. Grazie!
Sarei felice di sapere cosa ne pensate di questo capitolo.

Baci,

rolly too

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Sapevo che avrei dovuto chiedere informazioni per la festa, ma non mi andava di fare la figura dell'idiota che non si ricorda mai le strade. Giusto per non farmi riconoscere. E quindi, eccomi a girovagare come un deficiente per questa maledetta rotatoria.
«È semplicissimo,» mi ha detto mio padre questa mattina «guarda, basta che vai verso l'autostrada e alla rotatoria, prima del casello, giri a destra.»
Eh. Fosse facile! Io, di strade, a destra, non ne vedo neanche una. Ed è già la sesta volta che faccio il giro della rotatoria. Comincio un po' a seccarmi, anche perché tutto questo correre in tondo mi sta facendo venire su la cena di tre sere fa. Mi ci vorrà mezz'ora per riprendermi, una volta arrivato. E sarò persino in ritardo, come sempre. Quindi, alla fine, mi farò riconoscere comunque...
Alla fine mi arrendo. Mi fermo al lato della strada e prendo il cellulare. Sono stato davvero un idiota a non farmi dare il numero da Luca! E adesso chi chiamo? Poi mi viene in mente che forse, forse, ho il numero della Clio in memoria. Ringrazio il cielo e già che ci sono anche la terra quando lo trovo.
«Clio, ti prego, dimmi che sai spiegarmi come si arriva alla festa.» imploro.
«Sì, sì, tranquillo: te lo spiego. Allora, sei alla rotatoria?»
«Sì.»
«Bene. Adesso vai avanti e sulla destra, dove c'è il parcheggio, c'è una stradina sterrata. Tu vai giù per di là, sempre dritto. Qualunque cosa vedi, non fermarti, che è la strada giusta.»
Qualunque cosa vedi, non fermarti. Non so se il suo intento sia quello di rassicurarmi, ma non c'è riuscita. Ma come sarebbe a dire Qualunque cosa vedi, non fermarti? Mi chiedo davvero come abbia fatto Luca a trovare questo posto. Però faccio lo stesso quello che ha detto la Clio. E non appena imbocco quella dannatissima stradina sterrata, che fa sobbalzare la moto per via delle buche, capisco quello che voleva dire. Mi ha mandato in un cantiere! Fantastico.
«Sei arrivato, finalmente!» esclama la voce di Luca quando finalmente scendo dalla moto, vicino a una villa con i muri marroni. «Pensavo che ti fossi perso.»
«Ci sono andato vicino.» borbotto togliendo il casco.
«Non saresti l'unico.» commenta lui scuotendo la testa. «A Giorgio è venuto male a furia di continuare a girare per quella rotatoria.» Indica con il pollice un ragazzo seduto su una sedia in mezzo al cortile, pallido come la neve.
«Come lo capisco.»
«Sì? Be', se stai per svenire ci sono delle sedie, lì, oppure c'è da bere, sul tavolo. Tra poco arriva anche la roba da mangiare.»
Si allontana con un sorriso e io mi avvicino alle bevande. Non faccio nemmeno in tempo ad avvicinarmi al tavolo che sento qualcuno che mi afferra bruscamente per un braccio e mi tira da una parte.
«Eccoti!» strilla la Clio. Sembra furibonda. Mi caccia tra le mani un pezzo di carta non meglio definito e una penna, poi mi spinge a calci verso la villa.
«Ehi, ma che stai facendo? Sei impazzita?»
«Cammina! Ci siamo dimenticati il biglietto, prima, quindi lo devi firmare adesso. C'è il bagno là,» mi mostra una porta chiara in un corridoio basso e buio «entraci, firma quel pezzo di carta ed esci senza dare troppo nell'occhio. Hai capito?» blatera a velocità folle. Mi chiedo come faccia a parlare senza impappinarsi.
«Sì, sì, ho capito...» brontolo, ma obbedisco senza troppe storie. Non credo che Luca si risentirebbe molto se ci vedesse mentre firmiamo questo dannato biglietto, ma la Clio sembra più agguerrita che mai e non mi sembra proprio una buona idea contrariarla.
«Scusa.» esclamo aprendo la porta, perché ovviamente, come si conviene a uno come me, ho beccato in pieno un tizio con i capelli rossi che ci era proprio dietro. «Ti ho fatto male?»
«No, no.» risponde tranquillo lui. Prende a lavarsi le mani e mi guarda sullo specchio, mentre, alle sue spalle, appoggio la carta al muro e compio, solerte, il mio lavoro. «Sei una delle vittime di quel mostriciattolo con i capelli corti?» mi domanda.
«Se intendi la Clio, allora sì.»
«Non lo so come si chiama, ma sei già il ventunesimo che entra qui con quel biglietto e quella penna.»
Lo guardo e alzo le sopracciglia.
«Scusa, ma da quant'è che sei qua dentro?»
Ricambia il mio sguardo e scoppia a ridere.
«Ma no, cos'hai capito?» si passa una mano sul volto e scuote la testa. «Ero fuori, sotto al portico. E ti dico che sei il ventunesimo.»
«Bah, mi fido.» Ripiego con cura il biglietto e lo metto in tasca.
Lui non dice più nulla e mi precede alla porta. Quando esco anch'io Clio è fuori e mi fissa. È la persona più impaziente che conosca.
«Hai fatto?» domanda.
«Sì.»
«Devo controllare?»
«Non ce n'è bisogno, per la miseria, so scrivere il mio nome!»
«Non si sa mai.»
«Clio?»
«Che vuoi?»
«Rilassati un po'.»
Ma non mi ascolta nemmeno. Vede una macchina che si avvicina alla villa e prima ancora che io abbia il tempo di aprire bocca ci è già corsa incontro.
«Il tuo fidanzatino non viene?» mi domanda all'improvviso Luca, che mi si è avvicinato senza che me ne accorgessi.
«No.» sospiro. «Sua madre non lo lascia.»
«Di' piuttosto che mi odia.»
«Non credo che sia proprio odio. Diciamo piuttosto che non gli piaci.»
«Lui non piace a me.» chiarisce subito. «Però è strano vederti da solo.»
Sì, è strano. Ed è anche abbastanza fastidioso. Perché ora che la Clio è andata a tormentare una ragazza che non ho mai visto prima, io sono rimasto da solo. Non c'è nessuno a cui me la senta di avvicinarmi e intavolare una conversazione, un po' perché moltissimi dei presenti – e sono davvero tanti! - rispecchiano il canone del body-builder che a me proprio non ispira, un po' perché mi sembrano tutti impegnati a parlare tra loro e l'idea di intromettermi mi sembra maleducata. E quindi, tra l'opportunità di rimanere in piedi, da solo, a fare l'imbecille, e quella di prendere il coraggio a due mani e andare da qualcuno per vedere se, pietosamente, accetta di fare finta di prendermi in considerazione, scelgo la più logica. Me ne rimango fermo dove sto, da solo, a fare l'imbecille. E ci rimarrei anche tutta la sera, se non fosse che la Clio torna correndo verso di me, tenendo per mano un ragazzo dall'aria svogliata che ha tutta l'aria di voler essere altrove.
«Sei già tornata di buon umore?» la accolgo con un sorriso.
«Sì, perché sono riuscita a raccogliere tutte le firme.» Io la Clio la vedrei bene come raccoglitrice di firme professionista. Non ci sarebbe scampo a una così.
«Ottimo.»
«Lui è Al.» Mi presenta il tipo che sta con lei. Lo saluto con un cenno della testa e lui fa lo stesso. Siamo appena fuori dal portico della villa, la musica è alta e lei strilla per farsi sentire. «Non ci voleva venire, l'ho costretto.»
«Me lo immagino!»
Ma lei già non mi ascolta più. Facendo scivolare i piedi a terra cerca di trascinare ancora il povero ragazzo ma lui, che è ben più alto e grosso di lei, rimane fermo e la guarda sorridendo, fino a che non decide, mosso da pietà, di assecondarla. Muove un passo avanti e lei ne approfitta per mettere più forza nel suo gesto, così che nel giro di poco sono scomparsi entrambi. Probabilmente, conoscendo Clio, lo sta costringendo a ballare. E considerando com'è lei, sono certo che c'è riuscita.
Torno al tavolo con le bibite e mi siedo lì vicino, solo. Dal momento che non ho niente da fare, prendo il cellulare e chiamo Nader. Almeno, se non riesco a trovare un modo per parlare con qualcuno qui, posso chiacchierare con lui a distanza.
«Ehilà, Moretto...» lo saluto quando mi risponde.
«Pietro jan! Sei alla festa?» Ha ancora un po' di tosse e aspetto che gli passi prima di rispondere.
«Sì. Si sta bene qui, hai fatto male a non venire.»
«Stai mentendo.» commenta tranquillamente lui. «Non mi avresti chiamato, altrimenti
«Okay, mi hai smascherato.»
«Non ci voleva tanto.»
«D'accordo, ma non darti arie. È che ormai è vecchia. Dovrei trovare qualcosa di nuovo da dire, non credi?»
«Sì, mi sa che è meglio.» Ride. «Dai, Pietro jan, vuoi dire che non c'è nessuno di interessante, lì?»
«Sembrano tutti palestrati.»
«Tutti quanti? Ma insomma, siete così pochi
«Non siamo per niente pochi! Ci saranno duecento persone...»
«Tutte palestrate
«Sì.»
«Nay, non ci credo nemmeno un po'.» Sospira, tossisce un paio di volte e poi continua: «Adesso ascolta, fai come ti dico. Ora metti giù il telefono, vai un po' in giro e cerchi qualcuno un po' in sovrappeso, d'accordo? Quando l'hai trovato, vai lì e gli chiedi come si chiama. E poi parla con lui. Se stai sempre al telefono con me nessuno ti verrà vicino, vedrai. Sembri antipatico, sempre al cellulare.»
«Si sarebbe evitato tutto questo, se tu fossi venuto con me.»
«Non provarci nemmeno, non attacca. Dai, fai come ti ho detto
«Me la pagherai, Moretto.»
«Ci conto
Riattacco e provo davvero a seguire le sue istruzioni. Ma fatico davvero a trovare qualcuno che attiri la mia attenzione. C'è uno un po' in sovrappeso, vicino all'altro tavolo, ma sta mangiando con una foga tale che l'unico motivo per cui mi verrebbe in mente di avvicinarmi sarebbe quello di chiedergli come faccia a ingurgitare tutto quel cibo in così poco tempo. Che abbia mai pensato di iscriversi a una di quelle gare di mangiatori di hot-dog?
Ma alla fine scorgo la mia preda. Anche lei sola, vicino alla rete del campo da calcio, guarda davanti a sé senza espressione. Mi avvicino.
«Ciao.» le dico cercando di sembrare cortese. «Sei sola?»
Mi rendo perfettamente conto che la domanda è cretina, perché è ovvio che è da sola, dal momento che non c'è nessuno vicino a noi, ma non mi è venuto in mente nient'altro da dire e non vorrei mai che arrivasse un qualche fidanzato geloso che, prima ancora di sentire le dovute spiegazioni che gli assicurerebbero che non deve temere per la virtù della sua ragazza, decidesse gentilmente di cambiarmi i connotati.
«Secondo te?» risponde infatti lei, e mi guarda, piegando leggermente la testa ricciuta da un lato, nello stesso modo in cui io guarderei uno strano animale sconosciuto.
«Sì, so che era una domanda idiota.»
«Ottimo.» sorride. «Ce ne sono alcuni che non se ne rendono conto. Mi chiamo Marta.»
Marta. Dove ho già sentito di una ragazza che si chiama Marta? Sono sicurissimo che qualcuno me l'abbia già nominata, una volta, ma la mia mente sembra rifiutarsi di ricordare dove.
«Pietro.»
Si siede a terra, sull'erba, con le gambe incrociate, e dal basso dove sta mi guarda di nuovo, il naso un po' arricciato in un'espressione buffa.
«E come mai sei venuto qui da me? La fidanzata ti ha lasciato e cerchi qualcuno con cui dimenticare il dolore?»
«Sai, sei cinica.»
«Grazie.»
«Però ci sei andata vicina. Anche se non ho una fidanzata, non sono stato lasciato e non ho dolore da dimenticare.»
«Il che è sicuramente un bene.»
«Sono d'accordo.»
«Ma allora non capisco come ho fatto ad andarci vicino.»
Be', è molto semplice, mia cara Marta: non ho una fidanzata, ma un fidanzato sì, e l'idiota in questione non mi ha lasciato – ma lo lascerò io, molto presto, se continua a comportarsi così –, però si è rifiutato di venire alla festa con me e l'ha fatto con il preciso intento di farmi incazzare, così non sono per nulla addolorato, ma seccato sì. E mi sento anche un po' solo e spaesato, se posso aggiungere.
«Non credo che abbia importanza.» conclude prima ancora che possa aprire bocca. «Sai giocare a calcio?»
«No.» Non mi chiedere di giocare a calcio, ti prego! Ho sempre odiato quello sport con tutto il cuore. Credo che nei miei geni sia codificata anche la mia completa incapacità di mantenere il controllo di un pallone e di capire in quale delle due porta io debba tirare. Sono uguali, per la miseria, che differenza fa se il pallone entra in una o nell'altra?
«Un maschio che non sa giocare a pallone?» esclama lei e sembra sinceramente stupita.
«Pare che sia così.»
«È interessante. C'è una palla, lì in fondo.» Con il dito indica una forma sferica in fondo al campo. «Facciamo due tiri?»
Mi domando quale parte del Non so giocare non abbia capito. Anche perché mi guarda come se si aspettasse che io vada a recuperare il maledetto oggetto, e io non ho voglia di farlo. Ma alla fine mi arrendo. Non sono davvero in grado di sostenere uno sguardo simile per più di tre secondi.
«Finalmente!» esclama quando torno con il pallone tra le mani. «Non è difficile. Dacci un calcio, e vediamo cosa riesci a fare.»
Niente. Assolutamente niente. Io, il calcio, alla palla l'ho dato. Ma questa Marta, che è scattata in piedi a una velocità incredibile, mi si è avvicinata e con un movimento che non sono riuscito bene a identificare me l'ha rubato. Lei sì che sa giocare. Si porta davanti alla porta e mentre avanza mi urla:
«Ma dai! Cerca di rubarmela!»
E io ci provo. Ed è difficile perché lei non mi ci lascia nemmeno avvicinare, ma continua a ridere e alla fine, quando finalmente riesco a sfiorare la sfera con la punta della scarpa, mi fa lo sgambetto e con una piccola spinta mi butta a terra. E a quel punto viene da ridere anche a me.
«Sei fuori di testa!» le dico mettendomi carponi e afferrandola per un lembo della maglietta. Le do uno strattone e anche lei cade.
«Guarda, ti sei macchiato!» esclama indicando i miei pantaloni. Ovviamente. Me l'aveva detto, mia madre, che avrei fatto meglio a mettere quelli neri... Ma io non l'ho ascoltata. E la chiazza verde e marrone sulle ginocchia e sulla parte esterna della coscia sinistra è ben visibile sul bianco. Mi ucciderà, quando sarà ora di riempire la lavatrice.
«Pazienza.» commento. «Direi che hai vinto, comunque. La palla è entrata in rete.»
«Ovvio che ho vinto.»
«Davvero è così ovvio?»
«Sì. Io sono bravissima e tu non sai giocare.»
«Questo è vero.»
Mi alzo in piedi, le tendo la mano e lei, afferrandola, si dà una potente spinta che le fa riacquistare l'equilibrio e che, in compenso, rischia di farlo perdere a me.
Guarda oltre la mia spalla, verso le tavole apparecchiate, e commenta:
«Credo che sia pronta la cena.»
La sua osservazione mi sembra legittima, considerato che l'immagine è simile a quella di un'orda di formiche che si getta su una briciola di pane.
«Allora?» mi domanda mentre, seduti, mangiamo. «Sei a scuola con Luca?»
«No.»
«E allora come l'hai conosciuto?»
Come l'ho conosciuto? Fatico un po' a ritrovare quel ricordo nel caos della mia mente. E il caldo che fa non contribuisce di certo. Sento i capelli sudati attaccati alla fronte e il volto bagnato.
«Stava sotto casa del mio fidanzato. Mi ha chiesto se avevo un accendino.»
«Fidanzato?» domanda allora lei, mettendo in risalto l'ultima lettera.
«Sì.» E io, memore della cena con i nonni, sono già in atteggiamento di difesa. «È un problema?»
«Non occorre che ti scaldi tanto!» protesta davanti al mio tono scortese. «Era solo una domanda. E comunque no, non è un problema. Per questo dicevi che ci sono andata vicina?»
Annuisco.
«Si è rifiutato di venire perché Luca gli sta antipatico.»
«Sta antipatico a tanti.»
«Anche a te?»
«Lo trovo un po' insipido.»
«Insipido?»
«Sì, esatto. Non è una persona profonda. È una lastra di ghiaccio sull'asfalto. Sciolto il ghiaccio, non c'è niente sotto.»
La metafora è interessante e guardando Luca che, poco distante da noi, si serve abbondantemente di birra, non posso fare a meno di immaginarlo spiaccicato al suolo, con il volto deformato in una lastra di ghiaccio che ha i suoi occhi e i suoi colori.
«E quindi perché sei qui?»
«Per lo stesso motivo per cui lo sei tu, immagino.» sospira. «Me l'ha chiesto e gli ho detto di sì senza pensare.»
«Già. Direi che abbiamo commesso lo stesso errore.»
«Sì e no.»
«In che senso?»
«Non è proprio un errore. Io mi sto divertendo.»
«Anch'io.»
«È il tuo cellulare quello che suona?»
È il mio cellulare. Ma io, distratto dalla confusione e dalla musica che, ininterrottamente, è sempre più forte, non me n'ero accorto. È un messaggio ed è di Nader.
Come va? Domanda. E mi sembra di vederlo mentre mi rivolge uno dei suoi sorrisi d'incoraggiamento.
Bene. Prendo a scrivere. Il tuo metodo ha funzionato, però lei non è in sovrappeso.
La risposta arriva poco dopo.
Eccezioni che confermano la regola, non ti distrarre! Il mio metodo è infallibile. È femmina?
E questo è il suo modo per dirmi di stare attento a quello che faccio, perché in un modo o nell'altro lo verrebbe a sapere. Tanto più che, poco fa, nascosta tra gli alberi, mi è sembrato di vedere, avvinghiata a un ragazzo, una tizia che mi pare si chiami Nargis e che fa parte degli amici afghani di Nader. E, da quello che so, ha la lingua lunga.
È femmina. Lo rassicuro.
Non risponde più e capisco che è perché è soddisfatto del proprio operato, che mi ha consentito di trovare compagnia per questa sera, e perché è contento che non mi stia piacevolmente intrattenendo con un altro maschio.
«Dicono che sia meno stressante stare con un maschio che con una femmina.» considera all'improvviso Marta sorseggiando della birra.
«Chiunque l'abbia detto non conosce Nader.»
«Chiunque l'abbia detto non era una femmina che stava insieme a un maschio.»
«Sì, volendo immagino che si possa dire anche così.»
All'improvviso si fa attenta e con la mano mi fa segno di tacere. Il motivo di tale suo scatto è ignoto.
«Senti che bella questa canzone?» mi domanda con voce eccitata. Si volta a guardare la band che sta suonando e il portico colmo di gente, davanti a loro, che si muove a ritmo di musica.
«Vieni a ballare?» mi domanda, ma non deve importagliene molto di quello che penso, perché mi afferra per una mano e prima che io possa dire qualsiasi cosa mi trascina tra la calca. E allora io ballo. In realtà so di essere abbastanza impacciato e immagino di non riuscire nemmeno ad andare a tempo, ma non importa. Mi diverto e lei, che continua a ridere, sembra fare altrettanto. Non so quanto continua. So solo che fa caldo, la musica è forte e il pavimento sembra tremare sotto i nostri piedi, e la ressa è impressionante e l'aria è pesante, irrespirabile, e i vestiti si attaccano alla pelle sudata e ho bisogno di respirare. Aria. Voglio aria, la voglio adesso.
Mi allontano dal portico e mi porto in mezzo al parco di fronte alla villa. C'è qualche coppietta appartata da qualche parte, vicino a me. Un ragazzo, vicino alla recinzione, vomita. Un gruppetto di quattro o cinque persone, dalla parte opposta, chiacchiera tranquillo, avvolto in una nuvoletta di fumo di sigarette. Luca, seduto sopra al tavolo, scola un'altra birra in compagnia dei suoi amici. Ha il volto più rosso che mai e sembra estremamente agitato.
Ma qui, almeno, c'è aria. Sono quasi le undici di sera e si è alzato un venticello leggero. Mi siedo sull'erba, poggio le mani sulle ginocchia e guardo il cielo.  È nuvoloso e secondo me ci sono buone probabilità che si metta a piovere. Fantastico. All'improvviso mi sento stanco. Sono spossato, ho un cerchio alla testa e penso che, tutto sommato, farò anche fatica a rimettermi in piedi. Non ho più voglia di stare qui. Voglio andare a casa, farmi una doccia, togliermi quest'odore di sudore di dosso, mettere i pantaloni in lavatrice prima che mia madre veda la macchia. Luca non si accorgerà nemmeno della mia assenza, brillo com'è. E nemmeno Marta, tutto sommato. Non si è nemmeno resa conto che mi sono allontanato.
Faccio fatica a rimettermi in piedi e mi dirigo verso la mia moto. Per un istante mi sembra quasi che mi sia venuta la febbre. Sarebbe tutta colpa di Nader, se fosse così. Se veramente sono ammalato, e penso di sì, è perché me l'ha passata lui. Perché io sono stato così imbecille da avvicinarmi troppo a lui quando non si sentiva bene. Ottimo. Così imparo a non ascoltare mia madre quando mi impartisce le sue lezioni di medicina spicciola.
Ma la moto non parte. Ci provo, ci provo davvero, a dare gas, ma non c'è verso. Sembra che si sia ammutinata. Il motore emette solo una specie di gracidante cigolio tormentato, come l'urlo di battaglia di un uomo che muore, poi più niente. Cazzo. Che cosa, che cosa mi trattiene dal lasciarmi prendere dalla rabbia e darle un calcio che le tiri via quelle migliaia di euro che ha addosso?
«Qualche problema?» domanda una voce accanto a me. Mi volto e vedo il ragazzo con i capelli rossi che ho urtato prima in bagno.
«Non parte la moto.»
«Lo vedo.»
«Hai qualche idea per farla partire?»
«Non sono un meccanico, ma il rumore che ha fatto prima mi fa pensare che sia arrivata la sua ora.»
È la stessa identica impressione che ha dato a me. E quindi, rosso, hai qualche soluzione da propormi o sei qui per prendermi in giro?
«Merda.» borbotto sottovoce, ma lui mi ha sentito.
«Non hai un linguaggio fine.» commenta.
«No, infatti. Dovrei?»
«Ah, non mi riguarda.»
No, anche secondo me. Se chiamo ora i miei genitori per farmi venire a prendere, come minimo mi becco due mesi di punizione. Perché me l'avevano detto, loro, di portare la moto dal meccanico per farci dare un'occhiata...
«Dove abiti?» chiede all'improvviso il rosso.
«In corso Padova.»
«Ah, sì. La strada per andare in centro.»
«Già.»
«Be', è a dieci minuti da qui. Se vuoi ti porto a casa.»
«Perché dovresti farlo? Non sai nemmeno chi sono.»
E quindi il rosso ride. In realtà, il problema è che io non so chi è lui. Non che l'idea di salire in macchina con uno sconosciuto mi spaventi più di tanto, ma nemmeno mi sembra una cosa intelligente da fare.
«Mi chiamo Sebastiano.» si presenta.
«Io Pietro. Ma non è molto più di prima, no?»
«Sai che ti dico?» fa allora lui con un sorriso. «Sei un rompiballe. Lo vuoi questo passaggio sì o no?»
«Sì.»

 

Ed ecco qui il sesto capitolo! Spero vivamente che vi sia piaciuto.
Spero di avere un vostro parere, sarebbe molto gradito.

(Da oggi utilizzerò lo spazio apposito per rispondere ai vostri eventuali commenti, perciò non li troverete più in fondo alla pagina, ma tra le risposte nello spazio recensioni).

Baci,

rolly too

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Non so nemmeno perché ho acconsentito. Fatto sta che lui mi ha indicato una vecchia macchina che più che altro a me sembra una caffettiera e io ci sono salito senza pensarci più di tanto. Sarà che a me questo tipo non sembra davvero nulla di così particolare, sarà che sorride sempre, fatto sta che non ci ho riflettuto più di tanto e ho accettato la sua proposta.
«Come ti è sembrata la Marta?» mi domanda subito dopo che ha messo in moto.
«Mi hai spiato?»
«No. Ma osservo molto. Tu sei sempre stato con lei.»
«Sì, be', non conoscevo quasi nessun altro.»
«Ma la ragazza con i capelli corti, il mostriciattolo, lei sì. E anche Luca.»
«Sì, be'...» In verità non mi andava di stare con Clio, più che altro perché mi sembrava di fare il terzo incomodo. Lei è sempre rimasta con Alfredo e io non volevo intromettermi. E Luca... da quando io e lui saremmo amici?
«Credo che mi abbia invitato più che altro per fare numero.»
«Fare numero è importante, alle feste.»
«Non necessariamente.»
«Non sei uno che ne frequenta molte, vero?»
No, assolutamente. Se posso evitarle lo faccio, anche se a volte è difficile, considerato il temperamento di Nader.
«Tu sì, invece?»
«Oh, sì. Sono interessanti.»
«Immagino che ognuno la veda a modo suo.»
«Infatti.»
«E tu? Sei amico di Luca?»
La risata che segue alla mia domanda è talmente intensa che per poco non finiamo fuori strada. Fantastico. Sono su una macchina alla cui guida c'è uno spostato.
«Io, Luca, l'ho conosciuto questa sera!» esclama.
«Cosa? Ma allora che ci facevi lì?»
«Mi sono imbucato.» Mi dice queste parole come se fossi estremamente tardo e non capissi una cosa semplicissima.
«Un amico di un amico di un'amica mi ha detto che ci sarebbe stata questa festa, così ho preso la macchina e ci sono venuto. È stato un bel disastro trovarla, comunque, anche perché non ho potuto chiedere a nessuno dove fosse il posto. Quando mi sono trovato in quel cantiere ho seriamente pensato che sarebbe saltato fuori un assassino da una gru e che mi avrebbe fatto a pezzi senza troppi complimenti.»
Che poi è quello che ho pensato io. Ma questo non cambia le cose. Ricapitolando, mi trovo nella macchina di uno squilibrato che si è imbucato alla festa di un ragazzo che nemmeno conosce e che così, su due piedi, mi ha chiesto se volevo un passaggio. E io gli ho detto di sì! Ma che cos'hai nella testa, Pietro?
«Abiti vicino a casa mia?» gli chiedo cercando di dare intonazioni particolari alla mia voce. Ma non ci riesco. Soprattutto quando sposto lo sguardo sul contachilometri. Se per caso dovessimo scontrarci contro qualcosa, di noi non resterebbe nemmeno polvere.
«No. Perché?»
«Be', ti sei offerto di accompagnarmi.» gli faccio notare. «Se abitassi distante...»
«Abito a Chiampo.»
«Chiampo?» replico io, scioccato. «Ma come cavolo ti è venuto in mente di accompagnarmi a casa? Stai a un'ora di macchina da qui!»
«Certo.» annuisce lui. «E su per i colli, anche. Ma non importa. Mi sei sembrato interessante.»
A lui sembra tutto interessante. È pazzo, senza dubbio.
«Sei gay?»
«Come, scusa?» Non sono sicuro d'aver capito bene.
«Ti ho chiesto se sei gay.»
Sono un attimo indeciso sulla risposta. Se gli dico di sì, rischio anche di ritrovarmi davanti uno che, al pari dei miei santissimi antenati, pensa che io debba essere purificato. Potrebbe anche portarmi in un campo e darmi fuoco così, tanto per gradire. Oppure gli dico di no e rischio di scoprire che lui sa già che lo sono, e quindi la domanda aveva il solo scopo di far passare il tempo. Poi mi viene in mentre mia madre. Di' sempre la verità, Pietro. Un uomo che mente è un uomo debole.
«Sì. Perché ti interessa saperlo?»
«Così. Sei il primo che lo ammette così facilmente.»
«Non dovrei?»
«Oh, no, fai benissimo. Non c'è niente di cui vergognarsi. Sono secoli che tento di spiegarlo ai miei genitori, ma loro sono convinti che meno persone lo sanno meglio è.»
«Perché, sei gay?»
«Chi? Io?»
E chi altri, testa di legno? Come mi duole ricordare, siamo completamente soli. Io e lui, in una macchina che fa il rumore del Titanic che affonda, a chiacchierare delle mie preferenze sessuali. A chi altro avrei potuto chiedere?
«Sì, lo sono.» risponde annuendo con vigore. «È per questo che mi imbuco alle feste.»
«Per trovarne altri?»
«Esatto. Sei fidanzato?»
«No.» E non so, davvero non so perché lo dico. Mi basta il tempo di rendermi conto di quello che ho fatto che sento lo stomaco che si contrae violentemente. Nader! Come ho fatto a dire di no? Come?
«Fermati!» gli ordino con urgenza.
«Eh?»
«Ti ho detto di fermarti, subito!»
E lui obbedisce. Mi getto fuori dalla macchina prima ancora che sia del tutto ferma e vomito sul marciapiede.
«Ehi!» mi richiama Sebastiano. «Ehi, ti senti male?»
Ma perché gli ho detto di no? Cosa, nella mia mente, mi ha spinto a rinnegare Nader e a mentire, fingendo che lui non ci sia? Mi sentirei meglio, forse, se qualcuno mi fustigasse. Il mio povero Nader! Con che crudeltà lo tratto...
«Mi raccomando, butta fuori tutto prima di risalire in macchina. Se mi rovini la tappezzeria ti mando il conto a casa.»
«Sto bene.» mormoro. Mi passa un fazzoletto di carta per pulirmi la bocca e una caramella alla menta.
«Sicuro?»
«Sì.»
Non ho il coraggio di spiegargli il motivo del mio malessere né la forza per smascherare la mia bugia. Guida in silenzio fino al corso. Io tengo gli occhi chiusi. Mi sento la testa pesante e lo stomaco in subbuglio. E ho freddo. Nonostante il calore dell'aria, mi sento tremare.
«Mi sa che sei ammalato.» commenta rallentando. «Dimmi qual è casa tua, da qui io non so più dove andare.»
Lo fermo davanti al mio condominio e scendo con passo malfermo.
«Grazie.»
«Ma di niente, ti pare! Sai, secondo me faresti bene ad andare a letto e riposare. Hai un aspetto orribile.»
«Grazie.»
«Non è un'offesa! Dai, vai, non voglio che ti prendi una polmonite per colpa mia.»
«Non prendo la polmonite, è estate.»
«Sì, sì. Be', che fai qui?»
«Ti pago la benzina.»
«Ma sei pazzo?» sbotta allora lui. «Non li voglio i soldi, ti ho accompagnato per farti un favore, mica per altro! Vattene, dai. Se tiri fuori anche solo un centesimo, la considererò un'offesa enorme.»
«Bene.»
Non insisto più, non ne ho la forza. Lo ringrazio di nuovo e mi allontano. Arrivo al cancello un po' barcollando e quando infilo la mano in tasca per tirare fuori le chiavi sento che c'è anche un pezzo di carta all'interno. Lo tiro fuori e lo fisso per un po'. Ho la vista un po' annebbiata, ma capisco ugualmente.
Mi ha dato il suo numero di cellulare.
«Già a casa?» commenta mio padre quando apro la porta di casa. «La festa era noiosa?»
Non faccio nemmeno in tempo ad aprire bocca che continua, con tono più preoccupato:
«Ti senti poco bene?»
«Sto male.»
«Sei pallido, infatti. E puzzi di vomito.» Mi si avvicina e mi si para davanti.
«Tirati via da lì,» gli intimo «devo andare a vomitare.»
Mi lascia passare e io penso solo a raggiungere in fretta il bagno. Quando ne esco, mia madre è lì fuori, lo sguardo severo puntato su di me. Ha tra le mani il mio pigiama e un asciugamano pulito.
«Hai bevuto?»
«No.» Prendo gli oggetti che mi porge e torno a chiudermi dentro.
«Lavati e vai a letto. La moto?»
«Te lo spiego quando ho finito.»
L'acqua calda della doccia sembra sciogliere, per un attimo, la stretta che sento allo stomaco. Non riesco a fare a meno di pensare a quello che ho detto. Come ho potuto dire di no? Perché, dannazione? Perché?
Mi infilo sotto le coperte e le tiro fin sotto gli occhi. Sto congelando.
«Allora?» domanda mia madre entrando in camera e sedendosi sul bordo del letto.
«Non partiva, l'ho lasciata alla festa.»
«E come sei tornato?» Mi poggia una mano sulla fronte e, dopo aver appurato che è ben calda, mi passa il termometro.
«Mi ha dato un passaggio un tizio.»
«Uno che conosci?»
«No, l'ho incontrato lì.»
«E non ti è sembrato avventato accettare un passaggio da uno sconosciuto?»
«Sì, ma ci ho pensato dopo.»
«Sei stato stupido. Ieri sul mio tavolo c'era un ragazzo poco più grande di te. Era stato aggredito da un uomo che aveva accettato di seguire, nonostante non lo conoscesse. Trai da solo le tue conclusioni o stai troppo male per farlo?»
«No, ho capito.» brontolo. «Non lo farò più, giuro. Ma non parlarmi del tuo lavoro prima di dormire.»
«È il ciclo della vita, Pietro. Ci sono i ginecologi, gli ostetrici, i pediatri, i chirurghi e i geriatri. Servono anche gli anatomopatologi.»
«Mai detto il contrario. Ma è angosciante.»
«Come ti pare. La morte ti spaventa perché non la conosci.»
«Non sono in vena di un discorso sulla morte.»
«Me ne rendo conto. Il verdetto?»
Tende la mano e io le passo il termometro.
«Trentotto e tre. I miei complimenti. Devi esserti impegnato.»
«Ce l'ho messa tutta.»
«Cerca di dormire. Domani vado a prendere la tua moto.»
«Grazie, mamma.»
Non la sento nemmeno uscire dalla stanza, perché mi addormento prima.

La mattina dopo sto meglio, ma non sono in grado di cancellare i miei sensi di colpa e la sensazione di bruciante desiderio nel momento in cui, riordinando in fretta la mia scrivania, mi torna tra le mani il biglietto che Sebastiano mi ha lasciato nella tasca del giubbotto. Mi vergogno di me stesso, perché non capisco quello che mi succede. Nader! Urla la mia mente. Nader! Pensa a Nader, Pietro. E io ci penso. E so bene che è lui l'unico di cui mi importa veramente. Il mio Nader... Eppure, proprio ieri sera mi sono dimenticato di lui, della sua dolcezza, del suo sorriso. E perché? Perché? Se me l'avesse chiesto qualcun altro – questo è il mio dubbio – sarebbe stata la stessa cosa? Senza pensarci, sovrappensiero, avrei dato la stessa risposta? Non ho mai nascosto la mia relazione con Nader, non mi sono mai sentito in imbarazzo nel momento in cui qualcuno mi chiedesse quale fosse il nome della mia fidanzata e io mi fossi trovato costretto a spiegare che, in realtà, era un fidanzato. Ma l'influenza di Sebastiano mi ha fatto mentire. E quindi? Che cosa devo fare, adesso?
Per prima cosa, decido di chiamarlo, Nader. Forse sentire la sua voce mi aiuterà a prendere una decisione. O forse no. Ma è meglio tentare e quindi, ignorando con difficoltà il biglietto che tengo ancora in mano, con  il numero in bella vista, mi aggiro per la stanza in cerca del cellulare. Non riesco nemmeno a pensare mentre ribalto coperte e cuscino nella speranza di trovare il maledetto oggetto, e quasi non sento mia madre che entra nella stanza.
«Che cosa fai?» mi domanda con aria indagatrice.
«Cerco il mio cellulare. L'hai visto?»
«No.» risponde, secca. «Ma se l'hai dimenticato da qualche parte significa che una parte di te voleva allontanarsene, per questo il tuo subconscio rifiuta di ricordare dove l'hai messo.»
«Interessantissimo, mamma,» replico in fretta, scocciato, «ma è molto più probabile che l'abbia lanciato sul letto ieri sera e che questa notte sia caduto mentre dormivo.»
«Dovresti riflettere su quello che il cellulare significa per te in questo momento, invece, e pensare se c'è qualcosa che ti turba e che vi è collegato.»
«L'unica cosa che mi turba è che non lo trovo e mi serve.»
Mi guarda male e arriccia le labbra.
«Usa quello di casa.»
«Certo, così tu e papà ascoltate tutto quello che dico. Comunque, perché sei venuta a cercarmi?»
«Per vedere se stavi meglio. A quanto pare è così, giusto?»
«Sì, certo.» borbotto, frugando con insistenza sotto al materasso. Ma il telefono non si fa vedere. Afferro il cuscino per spostarlo dal letto e dalla fodera cade, direttamente sul pavimento, il telefono. Me ne riapproprio, vincitore, e guardo mia madre per farle cenno di andarsene, ma lei, che ha capito tutto, se n'è già andata. Lancio un'ultima occhiata al foglietto, che ancora non ho lasciato, e mi riprometto di gettarlo nella spazzatura appena esco dalla stanza.
Porto il telefono all'orecchio, in attesa che Nader risponda, e non riesco a non trasalire quando sento che la voce dall'altra parte della cornetta non è la sua.

 

Smanukil, dicevi che secondo te Sebastiano ci provava? Direi che ci hai azzeccato, no? Comunque.
Pensavate che mi fossi dimenticata di questa storia, vero? E invece no! Non vi libererete di me così facilmente. Sono solo un po' lenta.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. In ogni caso, mi farebbe piacere avere un vostro parere.

Ringrazio tutte le persone che hanno letto, commentato, inserito la storia tra le seguite/preferite/da ricordare.

Baci,

rolly too

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


«Sapevo che avresti richiamato.» commenta la voce di Sebastiano, tranquilla, quando risponde.
Sebastiano! Ho chiamato lui, e non Nader. Nader, che pure stavo cercando. Era con lui che volevo parlare e invece ho chiamato Sebastiano. Forse ha ragione mia madre quando dice che dovrei prendere in considerazione l'idea di andare in analisi.
«Sebastiano?» gracchio, sperando di scoprire che mi sono sbagliato, che in realtà c'è ancora Nader dall'altra parte.
«No, la Fata Turchina.» risponde lui. «Ma certo che sono Sebastiano, chi altro, sennò? Allora, stai ancora male?»
Taccio e l'unica cosa che riesco a fare è sedermi sul letto, in silenzio, e passarmi una mano davanti al volto. Com'è potuto succedere? È sbagliato, sbagliato! Ma che cosa ho in testa?
«Ci sei ancora?» domanda Sebastiano.
«Sì, sì.» mormoro. «Sì, certo. Sto meglio, sì.» farfuglio in risposta alla domanda precedente.
«Non mi sembra proprio.» commenta lui. «Parli in modo strano
«Ho solo... sonno.» brontolo. «Non ho dormito bene.»
«Un vero peccato.» replica lui. «E dimmi, la tua moto
«Non so ancora niente. È andata a prenderla mia madre.»
Segue qualche istante di silenzio.
«Tua mamma sa guidare una moto
«Mia madre guiderebbe un tirannosauro, se esistessero ancora e se avessero un volante.»
«Che figata!» esclama. Eh, già, una figata pazzesca. Soprattutto quando lei, piena del suo spirito di giustizia e della sua incomprensibile avventatezza, non si fa scrupoli a premere sull'acceleratore per inseguire qualcuno che le ha tagliato la strada. «La vorrei anch'io una mamma così
«Non sai quello che dici.»
«Tu non sai quello che dici. Mia mamma è tanto buona, però non fa niente. Non sa guidare, non sa usare il computer, non sa nemmeno usare il cellulare. Io le voglio bene, sai, però a volte è un po' come un soprammobile
«Un soprammobile...» ripeto. Che cattiveria, parlare così della propria madre!
«Non è importante.» conclude lui con tono frettoloso. «Piuttosto, com'è che hai già chiamato? Non hai avuto bisogno di pensarci a fondo, per chiederti se è davvero quello che vuoi fare?» La sua voce canzonatoria mi irrita e mi fa ricordare che, in effetti, sarebbe stata proprio quella la cosa giusta da fare. Perché io, in realtà, volevo chiamare Nader. Nader! Ed è Nader che chiamerò. Punto.
«Sì, be', in realtà ho sbagliato numero.»
«Oh-oh!» esclama lui, poi scoppia a ridere. «Vuol dire che lo conosci abbastanza bene da digitarlo senza pensare? Sono lusingato
«Piantala!»
«Eh
«Avevo il biglietto in mano e l'ho letto senza pensare. Adesso scusa, ma devo proprio riattaccare.»
Riaggancio e getto il cellulare sul letto. Al diavolo! Non chiamerò Nader. Andrò direttamente da lui. E fingerò di essermi dimenticato il telefono a casa, così nessuno mi disturberà.
Non finisco nemmeno di pensare e sono già davanti alla porta di casa.
«Prendi il telefono.» si raccomanda mia madre con voce perentoria. «Se ti sentissi male e avessi bisogno di chiamare l'ospedale, ti pentiresti sapendo di averlo lasciato a casa.»
La mia cara mamma e il suo inguaribile ottimismo.
«Va bene, va bene.» borbotto tornando nella mia stanza. «Però preferirei non averne bisogno.»
«Te lo auguro.» sorride lei.

La zia di Nader mi mette sempre soggezione, un po' perché non capisce quello che dico e io non capisco quello che dice lei; un po' perché mi sorride sempre e la pelle, che ha il colore della sabbia, si tende vicino alla bocca; un po' perché, con il suo velo verde che le copre i capelli scuri e lo sguardo intenso dei suoi occhi neri, mi fa venire in mente terre sperdute, immerse nel deserto, e sole e cielo azzurro che qui non si possono vedere.
«Nader jan!» chiama allontanandosi da me e andando verso la stanza del mio ragazzo – e poi, che cosa farebbe se scoprisse quello che c'è davvero tra me e lui? Mi offrirebbe ancora il té? Mi sorriderebbe ancora? - ma faccio fatica persino a capire che sta pronunciando il suo nome.
Per risposta sento qualche parola borbottata in farsi, l'immediata correzione di Farzana e poi dalla porta avanza, con gli occhi gonfi di sonno e la camicia stropicciata, Nader.
«Non dirmi che dormivi a quest'ora!» esclamo vedendomelo comparire davanti in quelle condizioni.
«Mi avevi detto che chiamavi, quando finiva la festa.» mugugna invece lui.
È vero, ha ragione. Gliel'avevo detto, ma poi mi è passato di mente.
«Sì, lo so. Ma ero talmente stanco che mi è venuta la febbre e mi sono dimenticato.»
«Faccio finta di crederti.» replica lui. «Se aspetti, mi vado a cambiare e usciamo.»
«D'accordo.»
Nader torna nella sua stanza e io, seduto sul divano, aspetto guardandomi intorno. E non posso fare a meno di rabbrividire quando sento la chiave che gira nella serratura della porta d'ingresso, perché so benissimo che quella è Fazila che ritorna dal lavoro, e a cui non piace mai trovarmi qui. E adesso che ne ho bisogno, pure zia Farzana è scomparsa. E io sono solo davanti alla madre di Nader, che, al suo solito, mi rivolge un'occhiata carica di sopportazione e solo dopo si decide a farmi un sorriso.
«Salaam, Pietro jan.»
«Buongiorno, Fazila.»
«Stai aspettando quel pigrone di mio figlio?»
«Ha detto che si deve cambiare.»
«Certo, capisco. Ti trovo bene, Pietro caro. A scuola come va?»
«Tranquillo. Nader mi ha aiutato con l'ultimo compito di matematica.»
«Sì, a lui piacciono i numeri.»
«Vero. È stato molto gentile.» È il mio ragazzo, Fazila! Perché non ti accorgi di niente? Come fai a credere ancora alla storia dei compiti?
«E le ragazze?» chiede lei.
«Forse ce n'è una... con cui potrei uscire ogni tanto.» Sai che non mi interessano le ragazze, Fazila cara. Perché menti ancora? Perché costringi me a mentire? Perché non riesci ad accettarlo? So che lo sai, Fazila. Non sei una sprovveduta, non sei una sciocca. Conosci bene il tuo Nader, sai tutto quello che gli passa per la testa, perché lui non è capace di nasconderti niente. E tu? Tu ancora taci?
«Sarebbe bello.» sospira sedendosi accanto a me. Lancia un'occhiata fugace alla porta del corridoio e dice a voce alta:
«Nader! Disgraziato ragazzo, cosa stai facendo? C'è il tuo amico che ti aspetta!»
«Arrivo, arrivo!» la voce di Nader arriva scocciata, ma dopo poco ci raggiunge e mi sorride. «Andiamo?»
«Certo.»
«Non fare tardi, eh?» si raccomanda Fazila. Ci guarda mentre usciamo, scuote la testa e chiude la porta alle nostre spalle.
«Senti un po', Moretto,» dico allora mentre scendiamo le scale «credi che tua madre sospetti qualcosa?»
«Di noi due?»
«Sì.»
Sospira.
«Non lo so. Credo di no... Voglio dire... Io non gliel'ho mai detto, ho cercato di non farglielo capire. Però a volte mi viene il dubbio che lo sappia, che l'abbia capito. Io non sono bravo a nascondere le cose. Soprattutto queste.»
«Se lo capisse, credi che te ne parlerebbe?»
«Non lo so.» All'improvviso mi sembra sfibrato, distrutto. «Pietro jan, non voglio parlare di queste cose.»
Va bene, Moretto, va bene. Ma pensaci un po': e se Fazila sapesse già? Guardala mentre ti osserva, mentre ci osserva. Non lo vedi anche tu che i suoi occhi hanno una consapevolezza strana, come se nascondesse un segreto? Non la senti quando parla di ragazze, e chiede come mai sia io che te non abbiamo nessuna che ci interessi?
«Raccontami della festa.»
La festa... Non volevo arrivare qui. Non volevo che mi ricordasse quello che ho fatto, quello che ho detto. Sebastiano. Come ho potuto mentire? Come ho fatto a ignorare Nader con tale facilità? Avevo appena dichiarato di essere omosessuale, non sarebbe stato altrettanto semplice parlare di Nader?
«È stata normale.» rispondo comunque. «Ho conosciuto una ragazza che mi ha costretto a giocare a calcio con lei.»
«E com'è andata?» chiede lui, che sa benissimo quale sia il mio rapporto con quello sport.
«Terribile. Mi ha stracciato, ovviamente.»
«Non avevo il minimo dubbio.»
«Ti ringrazio. Il tuo conforto mi è di grande aiuto.»
«Ma è la verità, nay
«Sì.» ammetto. «E tu? Sei sempre rimasto a casa?»
«Mmm. Baba ha chiamato dall'America.»
Fantastico. Il tono di Nader si è spento, a quelle parole. Non possono essere buone notizie, dunque. Come sempre. E come sempre, io non so che cosa dire. Di che conforto potrebbe essergli una considerazione sul fatto che il padre non ha  tempo per prendere un aereo e venire a trovarlo?
«E che cos'ha detto?» gli domando comunque, cercando di non mostrare il disappunto.
«Che sta lavorando tanto.» borbotta Nader allungando una mano per fermare l'autobus che sta passando proprio in quel momento. Tutti i sedili sono liberi, ma sono tanto larghi che ci sediamo in due sullo stesso. Nader si fissa le ginocchia e si tormenta le unghie, pensieroso. «Ha detto che non viene nemmeno il mese prossimo.»
«Ah.»
«Però, ascolta...» riprende, titubante.
«Cosa?»
«Quando è finita la scuola mi ha chiesto di andare lì. Un mese.»
Un mese. Negli Stati Uniti. Quando è finita la scuola. Tra undici giorni. Un mese intero senza vedere Nader. E anche senza sentirlo, perché i miei genitori non mi permetterebbero mai di fare un'intercontinentale. Odio il padre di Nader.
«Pietro jan
«Sì. Bello.» rispondo meccanicamente, senza riuscire a fare di meglio. Ho la gola secca.
«Per favore, Pietro jan, non fare così!»
«No, senti,» gracchio. Poi sospiro e mi calmo. Non ci si comporta così, Pietro. Nader ha il diritto di vedere suo padre. «Senti,» riprendo, più convincente, «va bene. Ci devi andare. Non lo vedi da tanto tempo... Nader, vai lì e divertiti.»
Fa un sorriso tirato e annuisce.
«È da quasi un anno che non lo vedo. Anche a me dispiace andare via, ma non è poi per così tanto.»
«Trenta giorni.»
«Sì.»
Scendiamo dall'autobus vicino alla stazione, andiamo in Campo Marzio e ci sediamo a terra, sull'erba secca.
«La ragazza come si chiama?» domanda Nader all'improvviso. È di nuovo allegro come prima. Non pensa più all'America, né a suo padre. Ha in mente la festa.
«Marta. E avresti anche potuto venire con me, tra parentesi.» aggiungo. «Luca si è fatto vedere solo quando sono arrivato e poi ha bevuto talmente tanto che non si è nemmeno accorto che sono andato via prima.»
Lo sguardo di Nader si affila e io mi mordo le labbra. Ecco, sta per iniziare l'interrogatorio. Come ho fatto a lasciarmi scappare un'informazione tanto importante?
«Prima?» chiede infatti Nader.
«Non l'ho detto.» tento di salvarmi. Non voglio che inizi a farmi domande. So benissimo che finirei per dire qualcosa di troppo, perché Nader è uno stratega e io non penso mai prima di aprire bocca.
«Non sono ahmaq, fesso, Pietro jan. Ho sentito che l'hai detto.»
«E va bene, va bene, l'ho detto.» mi arrendo. E adesso, devo solo fare attenzione a quello che dico. «Era presto.»
«Come mai?»
«Non stavo bene.»
«Cos'avevi?»
«Febbre.»
«Ed è durata un giorno solo?»
«Sì. Forse ero solo stanco.»
«Ma non ti divertivi?»
«Ma sì, soltanto che non mi sentivo bene, te l'ho detto.»
«E ti sei fatto venire a prendere?»
«No.» E adesso attenzione, Pietro, attenzione... «Ero in moto.»
«E hai guidato anche se stavi male, incosciente?»
E adesso? Ammetto di essermi fatto accompagnare da un ragazzo che nemmeno conosco, come un folle, o dico di essere tornato in moto, da solo?
La voce di mia madre mi attraversa in un lampo la mente.
Un uomo che mente è un uomo debole.
Decido di dire la verità.
«Mi ha accompagnato a casa un ragazzo. La moto non partiva.»
Nader tace per qualche secondo, poi mi guarda con intensità.
«Chi?»
«L'ho incontrato lì, si chiama Sebastiano. Ha visto che avevo problemi con la moto.» Il ricordo mi riempie, di nuovo, di sensi di colpa. All'improvviso ho la nausea, ma la ignoro. Non devi vomitare davvero, mi ripeto. È soltanto una reazione psicologica. Puoi controllarla se riesci a calmarti. Ma è difficile, con Nader davanti. Come ho fatto? Come ho fatto? Nader, che amo così tanto... L'idea di un mese senza di lui mi fa impazzire, eppure non ho avuto un momento di esitazione nel fingere di dimenticarmi di lui. E ora, mentre mi guarda, con gli occhi chiari puntati nei miei, è difficile resistere alla tentazione di confessargli tutto. Ma farlo non andrebbe bene. Conoscendolo, dirglielo servirebbe solo a rompere definitivamente con lui. Non mi concederebbe una seconda opportunità, non per una cosa così.
«E così,» continua lui, «Sebastiano ti ha riportato a casa.»
«Sì.»
«Che tipo è?»
«In che senso?»
«Avete parlato? È simpatico?»
Non sbilanciarti, Pietro.
«Bah, non saprei. Abbiamo chiacchierato, ma erano solo cinque minuti di macchina. Non abbiamo parlato di niente di importante, al solito. Sai... Chiacchiere.»
Ti sto mentendo, Moretto, ti sto mentendo! Mi ha chiesto se sono fidanzato, e io gli ho detto di no. Non so perché l'ho fatto. Se vuoi, prova a giungere tu alle tue conclusioni. Io non saprei davvero che cosa dire.
«D'accordo.»
Tace, e anch'io non so più che argomento tirare fuori. Alla fine, stanco di quel silenzio, mi butto.
«E tua zia? Si ferma ancora?»
«Forse. Non sembra che voglia tornare là.»
«Le piace l'Italia?»
«Credo di sì. Io non capisco niente di quello che dice. Però sta imparando un po' di italiano.»
Di nuovo silenzio.
«Ma questo Sebastiano...» riprende poi Nader, insistente. Basta così, insomma! Perché continua a pensarci? «Lo vedi ancora, poi?»
«Ma che cosa vuoi?» sbotto, stanco di quel discorso. «No che non lo vedrò di nuovo!»
Nader si ritrae davanti alla mia rabbia. Ma non ce l'ho con lui. Voglio solo dimenticare Sebastiano, e più ne parliamo più mi rendo conto che è difficile.
«Non so nemmeno chi sia! Ci siamo incontrati lì, mi ha riportato a casa e basta!» Mi ha anche dato il suo numero di telefono, Nader. Io l'ho già imparato a memoria e questa mattina, invece che chiamare te, ho chiamato lui.
«D'accordo, d'accordo...» Alza le mani in segno di resa e mi sorride. Ma non sembra molto convinto.
Un uomo che mente è un uomo debole, Pietro.
Ma non ho mentito. Ho taciuto una parte degli avvenimenti, tutto qui. Non sono debole.
«Andiamo a mangiare qualcosa?» propone debolmente Nader alzandosi da terra. Annuisco e mi alzo anch'io. Ma improvvisamente non ho più voglia di stare lì. Non mi va di rimanere con lui, che non si fida mai di me, che mi lancia occhiate furtive, che organizza i discorsi in modo da portarmi a ingannarmi e a dire la verità. Sa che ho nascosto qualcosa, perché sa interpretare bene le mie espressioni. Ma non voglio che mi assilli.
All'improvviso, con cattiveria, penso che non vedo l'ora che passino questi undici giorni.

 

Pensavate che mi fossi dimenticata di questa storia, vero? E invece no! Procede solo un po' a rilento...
Che dire? Spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto almeno un pochino. Nel frattempo, vi ringrazio per averlo letto.
Mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensate.

Baci,

rolly too

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


«Sono già pentito.» piagnucola Nader quando arriviamo vicino all'aeroporto. Fazila guida in silenzio, con un velo azzurro, di stoffa leggera, avvolto mollemente attorno alla testa. I capelli neri sono raccolti in uno chignon basso e alcune ciocche libere le incorniciano il volto.
«Un mese non è tanto tempo, Nader.» replico io cercando di non dare intonazioni particolari alla mia voce e resistendo all'impulso terribile di chiamarlo Moretto.
«Credevo che avessi voglia di vederlo.» lo rimbrotta Fazila a bassa voce. È quello che penso anch'io. Soltanto ieri sembrava entusiasta all'idea di vedere il padre, e oggi sembra del tutto propenso a chiedere alla madre di girare la macchina e tornare a casa.
«Non sono mai stato in America.» tenta di giustificarsi.
«C'è una prima volta per tutto.» replico stancamente io, accomodandomi meglio sul sedile posteriore. Ma nemmeno a me va che Nader parta. Sento che nel momento in cui se ne sarà andato – perché partirà, alla fine, anche se non vuole – crollerà tutto. «E poi, tu parli bene l'inglese. Conoscerai qualcuno lì, non sarà male.»
«Questo non lo sai.» borbotta lui scendendo dalla macchina. Scendo con lui e guardo oltre la cappotta, per vedere se lo sportello di Fazila si apre. Ma rimane chiuso.
«Non lo so, Pietro jan, non lo so se sto facendo la cosa giusta.» abbassa la voce, spaventato all'idea che Fazila possa sentirci.
«È normale che tu adesso abbia paura.»
«A lui io non piaccio.»
«Cosa stai dicendo?»
«È la verità, Pietro jan. Io ne sono sicuro.»
«Ma allora perché hai voluto partire?»
«Perché io invece gli voglio bene.»
Ha gli occhi pieni di lacrime. Il mio povero Nader. Vederlo così abbattuto mi fa star male, ed è peggio quando poggia la mano che trema sugli occhi chiusi per asciugare le lacrime. Vorrei abbracciarlo, dargli un bacio, per fargli capire che gli sono vicino, che gli voglio bene e lo aspetto, qui in Italia, ma non posso. È tremendo, perché so che è quello che anche lui vorrebbe, che lo farebbe stare meglio, e invece la presenza di Fazila ce lo impedisce.
«Forse dovremmo andare.» singhiozza dopo un po' indicando con la testa ricciuta l'ingresso dell'aeroporto.
Sento come se avessi ingoiato della colla. Non credo di farcela ad andare lì e vederlo mentre si allontana piangendo. So bene che starà via soltanto per un mese, e che probabilmente la tristezza gli passerà una volta arrivato negli Stati Uniti, ma è anche vero che vederlo piangere, per un qualsiasi motivo, mi fa stare malissimo. Adesso che sono arrivato fin qui, vorrei tornare a casa. Lo sguardo mi cade sulla fermata dell'autobus che c'è qui vicino, e basterebbe così poco per allontanarmi in fretta...
«Non voglio che vieni anche tu.»
Non vuole. Perché non lo voglia, non lo so. Forse non mi interessa nemmeno saperlo. Non vuole, punto. Fazila scende dalla macchina, ci guarda, poi borbotta qualcosa di incomprensibile a Nader, che annuisce e le risponde con qualcosa di altrettanto incomprensibile.
«Ci vediamo.» mi saluta Nader, semplice. In quelle poche parole mi sembra di sentire molto più che un arrivederci. È un addio, e io lo so. Ma lui?
Si allontanano insieme. Io rimango fuori dalla macchina, in piedi, a guardarli mentre vanno via trascinando la valigia di Nader. Mi appoggio allo sportello e mi fisso le scarpe. Poi, senza pensare, tiro fuori dalla tasca il cellulare e compongo il numero di Sebastiano. Non so perché lo faccio, non so nemmeno quando io l'abbia imparato a memoria. Non ricordo d'averlo fatto, ma lo so.
«Provi un'attrazione irresistibile per me, ammettilo.» esclama con voce suadente quando risponde. Ma io non ho voglia di scherzare. Nader non è ancora partito e già mi manca. E io, schifoso come sono, telefono a un altro mentre dovrei pensare a lui. Che verme.
«Hai cinque minuti?»
«Hai una voce orrenda. Che succede? Sei depresso?»
«Boh. No. Sì, no. No. Sono stanco.» Mezza bugia.
Un uomo che mente...
Non sono debole. È vero a metà. Sono stanco. Di Nader, di me, di noi. Non lo so. Di tutto.
«L'importante è essere convinto
«Certo.»
«Allora? Cos'è che ti affligge?» il suo tono è canzonatorio, ma sembra sinceramente interessato.
«Niente. Volevo parlare.»
«Parliamo allora. Di che cosa
«Di te.»
«Sono il mio argomento preferito, lo ammetto.» sospira lui. «Che vuoi che ti dica
«Boh, quello che vuoi.»
«In questo momento sto guardando un film. Non so se lo conosci. Green card. L'hai visto?»
«No.»
«Ti piacciono le storie romantiche?»
«No.»
«Questa lo è. Guardalo
«Sei fidanzato?» Voglio sapere se lui, a differenza di me, ha il coraggio di dire le cose come stanno. Ma io sono debole. Lui? Non lo so. Oggi mi sento di non sapere niente. Sono confuso, ho la testa pesante e non riesco a pensare. E Nader piange, nella mia testa.
«Lo ero.» brontola in risposta. «Ma non ha funzionato
«Perché no?»
«Divergenza d'opinioni.» spiega, sbrigativo. «Non voleva che in giro si sapesse che stavamo insieme. I suoi non sapevano ch'era gay
«A volte non è facile dirlo.»
Nader non è mai riuscito a farlo. Ma come potrebbe trovarne il coraggio? Fazila non è aperta a questo genere di cose. Non c'entra l'Afghanistan, non c'entra la sorella, anche se Nader sostiene che sia così. La verità è che Fazila non approva, e basta. Se i miei genitori fossero come i miei nonni, nemmeno io gliel'avrei detto. Ma io, con la madre che ho, sono sempre libero di dire e fare quello che voglio. L'importante, poi, è sapere affrontare le conseguenze. Ecco quello che sostiene. Lei ha ragione. Ma non è così facile. Avrei dovuto impedire a Nader di partire. Come? Non lo so.
«Questo te lo concedo.» replica. «Ma cosa si vuole fare? Tenerlo nascosto per tutta la vita
«La gente non capisce.» La gente non capisce mai. Io non capisco nemmeno me stesso. Come posso pretendere che mi capiscano gli altri? È assurdo il mondo in cui viviamo. Guardo le lancette dell'orologio che si muovono, penso a Nader che ogni secondo si allontana sempre di più da me, al fatto che sono al telefono con un altro ragazzo proprio nel momento in cui meno dovrei. Che schifo. Mi detesto. Odio tutto questo.
«La gente... Chi se ne frega della gente
«Vero. Ma non è facile.»
«La vita non è facile.» ribatte duramente. «Eppure viviamo. Ma non deprimiamoci, su, o prima o poi ti vai a buttare da un ponte, abbattuto come sei. Forza, raccontami un po'. Quanti anni hai
«Diciassette. Tu?» Non m interessa saperlo.
«Diciannove. Vai a scuola
«Sì.»
«Che scuola fai
«Il liceo.»
«Scientifico
«Linguistico.»
«Carino. Ti piace
«Non lo so. A volte.»
«Sempre molto deciso.» Di solito, Sebastiano, di solito sì. Oggi no. Oggi non riesco a essere nemmeno sicuro su chi sono. Perché sono qui? Perché non sono rimasto a casa, come mi aveva proposto, inizialmente, Nader? È tutto così sbagliato, così sbagliato...
«Tu?»
«Io cosa
«Cosa fai?»
«Ah... Io niente. Non studio, non lavoro
«Vivi con i tuoi?»
«No
«Ma allora...» Ma allora come fai a mantenerti? Perché vivi solo, se non vuoi arrangiarti da solo? Ma che senso ha?
«Babbo paga l'affitto.» spiega cantilenando. «A lui va meglio così. Sai, a me non piace tanto la sua nuova compagna. Litighiamo sempre
«Tu non le piaci?»
«Lei... boh. È una brava donna. A me non piace e basta. È così grave
«No.»
«Senti,» riprende dopo qualche istante di silenzio «e se uscissimo?»
«Uscire?»
Non ho voglia di pensare. Non sto facendo davvero caso alla conversazione. Parlo, perché così passa il tempo. Se sento qualcosa, se devo ascoltare, penso meno a Nader. Al fatto che se ne va. Per un mese. E se non tornasse? Se lì incontrasse qualcuno che gli facesse cambiare idea su di me? Lo sto trattando male e forse un po' ci spero che si stanchi, che mi dica che non ne può più, ma in fondo non è vero. Sono innamorato di lui. Dell'idea che lui lo sia di me. E se poi non lo fosse? Se si rendesse conto che è stato tutto un enorme sbaglio? Che cosa farei io?
«Sì. Andare a fare un giro
No. No. È sbagliato, Pietro, sbagliato! Non si fa. Pensa a Nader, al tuo Nader.
«Quando?»
«Bah, che giorno è oggi
«Giovedì.»
«Giovedì... Va bene domani
«No, domani ho un impegno.» Domani sarà il giorno in cui mi renderò conto che Nader è davvero lontano. Non vorrò vedere nessuno.
«Sabato
«D'accordo.»
«Allora, senti, domani ti chiamo e ci mettiamo d'accordo
«Va bene.»
«Ci sentiamo
«Sì.»
«Ciao
«Ciao.»
Riaggancia. Io sto fermo lì, immobile. Non so per quanto. Fa caldo, e io sono sotto al sole, ma non mi sposto. Aspetto Fazila.
Quando torna, il velo sui capelli è sistemato per bene e lei sembra calma e rilassata. Al contrario di me.
«È partito.» mi annuncia. «Chiamerà quando arriva.»
«Sì.»
«Non fare quella faccia triste, Pietro jan.» dice salendo in macchina. Salgo dal lato passeggero e la guardo mentre allaccia la cintura. La imito, lei mi rivolge un sorriso caldo e prosegue: «Starà via un mese, e non è tanto.»
«No, lo so.»
«Sai, sono felice che tu sia amico suo. Lui è un ragazzo particolare, non sta molto con gli altri. Ma ti vuole bene.»
Lo so. Lo so, e anch'io gliene voglio. E sono sempre la persona che lo fa soffrire di più. Perché sono così sbagliato? Cos'ho nella testa?
«Sarà meglio che ti porti a casa.» sospira alla fine. «Sei stato via tanto tempo. I tuoi genitori saranno preoccupati.»
Non rispondo. I miei genitori sanno dove sono e non faranno storie. Mia madre è convinta che l'unica cosa importante sia che torni. Poi, non è un problema suo dove vado o quanto sto via.
«Credi che starà bene, lì?» le domando all'improvviso, senza nemmeno sapere perché.
«No.» È stata brutalmente onesta e forse avrei preferito una bugia. Lo stomaco mi si attorciglia e mi sento gelare.
«Ma allora, perché...» Perché l'hai lasciato partire? Gli neghi tante cose che gli farebbero bene, Fazila, e adesso gli permetti di andare a farsi del male?
«Lui voleva vederlo.» replica lei prima che io riesca a finire la frase. «Si accorgerà da solo di quello che è in realtà suo padre.»
«È così tremendo?»
«No.»
«Allora non capisco.»
«Lui sta bene da solo. Non gli importa né di Nader né di me.»
Rimango zitto. Non so nemmeno che cosa pensare. Sarà un mese difficile, per il mio povero Nader. Come farà, in America, lui che da solo è sempre così smarrito? Come farà a resistere, se non si troverà bene? Mi sembra quasi di vederlo piangere, da solo, a migliaia di chilometri di distanza da me, da sua madre e da casa. Povero Nader. Come farà? Come?

«Stai bene, Pietro jan.» mi saluta Fazila quando si ferma davanti a casa mia.
«Anche tu.»
Mi lascia il tempo di scendere e riparte in fretta. Guida veloce, superando di parecchio il limite di velocità. Scompare in poco tempo e io mi limito ad andare a casa camminando lentamente. Mi sento le gambe pesanti. Sono a pezzi. Non riesco a smettere di pensare a Nader, e più ci penso più mi manca il respiro. Un mese... È tantissimo tempo.
Io e Nader siamo rimasti senza incontrarci per settimane, dopo i nostri litigi. Ma sapevo che lui era poco distante da me, e che mi sarebbe bastato prendere l'autobus o la moto per raggiungerlo e parlargli, e fare pace. E poi, frequentiamo la stessa scuola. Non è difficile incrociarsi per i corridoio. Ma adesso? Se mi viene voglia di vederlo, di sentirlo, che cosa faccio? Fare una chiamata intercontinentale è improponibile per le mie tasche. E sicuramente non posso prendere l'aereo e andare lì. Ho sempre odiato le attese. Saranno i trenta giorni più lunghi della mia vita.
Non sono assolutamente preparato ad affrontarli.

 

Ehm... Sì, lo so, lo so, è passato un sacco di tempo. Mi scuso, ma sono stata impegnatissima.
Bene. Finalmente Nader è partito, Pietro comprensibilmente si rivolge altrove e Sebastiano ne approfitta. Di tutta la storia è l'unico innocente e buono, povera stella...
Mi farebbe moltissimo piacere sapere che cosa ne pensate di questo capitolo.

Nel frattempo, ringrazio tutti quelli che hanno letto e commentato il capitolo (Smanukil, ti adoro), chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare. Grazie di cuore!

Baci,

rolly too

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Il punto non è uscire con Sebastiano. Non faccio un torto a Nader se ho un amico.
Il punto è, e ne sono consapevole, nonostante non stia facendo niente per evitarlo, che Sebastiano mi attira. È squallido, ed è sbagliato. Però è così e io non riesco a farci niente.
Nader è partito da solo due giorni e io sono già pronto a uscire con un altro. Che poi, nelle mie intenzioni c'è solo un'amicizia, ma non so cos'abbia in mente Sebastiano e, comunque non ho intenzione di chiederglielo. Una parte di me – e ignorarla è più difficile di quanto sia disposto ad ammettere – spera che Sebastiano si riveli un'alternativa a Nader, che ultimamente è troppo strano e mi da sui nervi. Ora che è lontano non è così immediato parlarne male, perché soprattutto mi manca, ma alla fine non posso far finta che le cose non stiano davvero così. Tra me e Nader sta finendo tutto, e non sono nemmeno certo che lui se ne renda conto.
«Finalmente eccoti qui!» esclama Sebastiano quando mi vede arrivare. Sono un po' in ritardo, in effetti, come mio solito. «Pensavo che ti fossi perso.»
«Traffico.» borbotto. Non mi piace che la gente mi faccia notare i miei ritardi, anche se effettivamente Sebastiano non ha tutti i torti. Dev'essere qui almeno da mezz'ora.
«Ho bisogno di un caffè.» mi dice Sebastiano all'improvviso. «Mi sono alzato da un'ora e ho sonno.»
«Come ti pare.»
Ci infiliamo nel primo bar che ci capita a tiro e lui ordina due caffè, senza nemmeno chiedermi se mi va di berne uno. Quando la cameriera ci porta le tazzine fumanti, lui mi guarda e mi sorride.
«Allora, com'è che eri così depresso quando ti ho chiamato?»
«Non ero depresso.»
Ha gli occhi scuri, caldi. Sono molto diversi da quelli di Nader. Hanno una luce un po' sinistra, come quelli dei cattivi dei fumetti. È molto più bello di Nader. Ha lineamenti più regolari, è più curato. I capelli sono ben pettinati, il pizzetto è regolato con molta cura. Gli guardo le mani. Sono grandi, con le unghie tenute corte e la pelle intorno mangiucchiata. Nader ha belle mani, invece.
«Be', d'accordo. Allora non eri depresso. Comunque, che fai stasera?»
Stasera? Niente, probabilmente. Non ho nessuno con cui uscire, e se anche ce l'avessi non saprei dove andare. E comunque non ho voglia di andare da nessuna parte, a pensarci. Forse rimarrò a casa a guardare un film. O forse inizierò veramente a studiare per cercare di recuperare qualche materia, o rischio davvero di non passare la maturità. In ogni caso, non intendo fare nulla di tutto ciò che di solito faccio con Nader.
«Non so.» rispondo, onesto. «Credo che rimarrò a casa.»
«Che noia!» esclama Sebastiano, e scoppia a ridere. «Questa sera c'è una festa in una villa, dalle mie parti. Ti ci porto.»
«Non ho voglia di uscire. E non mi imbuco alle feste di gente che non conosco.»
«Li conosco io. È una ragazza che veniva alle elementari con me. Non si accorgerà nemmeno di noi, fidati.»
«Non mi sembra comunque il caso.»
«Ti passo a prendere alle otto, fatti trovare pronto. Non suono il campanello, non so nemmeno come ti chiami. Mettiti in strada, in un punto dove posso vederti.»
«Ti ho detto che non ci vengo.» Mi sembro Nader mentre dico quelle parole. D'altra parte, sono quelle che mi ha detto lui prima della festa di Luca. E io ora mi sto comportando come lui.
Chissà se è già arrivato a casa di suo padre, se ha avuto modo di sistemarsi. Probabilmente sì. Forse questo mese per lui non sarà così terribile come crede Fazila. Magari troverà qualche modo per comunicare un po' con suo padre, o forse conoscerà qualcuno. Quel pensiero mi infastidisce e per un attimo sento la gelosia che mi invade. Ignoro Sebastiano che ancora mi fissa dall'altra parte del tavolino, e faccio finta di non rendermi conto che sono io quello che sta uscendo con un altro – ma è solo per amicizia, ho bisogno di un nuovo amico – mentre Nader probabilmente sta ancora cercando di capire come funzionano le cose là. Ma Nader non ha bisogno di tanto tempo per adattarsi, mi dico malignamente. Lui è uno che fa presto a capire.
Cerco di non pensare a quello che direbbe mia madre se sapesse ciò a cui sto pensando. Devo smetterla di farmi influenzare da quello che lei penserebbe di me.
«Ci vieni, perché vengo a prenderti. Non te l'ho chiesto.»
Sospiro e decido che faccio prima a non ribattere. Stasera, alle otto, non mi farò trovare, tutto qui. Si stancherà di aspettare in strada e andrà via.
«E se non ti trovo in strada suono tutti i campanelli finché non ti trovo.» chiarisce.
Ok, il mio geniale piano non funziona. Ma lui non può obbligarmi a fare qualcosa che non voglio.
«Non darmi ordini.»
«Hai bisogno di divertirti. Te ne offro l'occasione. E senza complicazioni!» continua. «Tanto lì non conoscerai nessuno e potrai fare quello che vuoi.»
Scuoto la testa e bevo il mio caffè ormai freddo.
Questo suo modo di fare mi irrita. Prende le decisioni al mio posto, e non ha nessun diritto di farlo. Da un altro punto di vista, però, mi piace. È sicuro di sé, non ha bisogno di qualcuno che gli dica di non piagnucolare, di smettere di lamentarsi di tutto. Non è come Nader, non ha bisogno di me. Se la cava anche da solo.
Faccio appena in tempo a concludere quel pensiero, e Nader non mi manca più.

«Stasera esco.» annuncio ai miei quando rientro a casa.
«Dove vai?» domanda mio padre.
«Sono fatti suoi.» lo rimbecca mia madre. «Basta che sia prudente. E non provare a salire in macchina con uno sconosciuto, Pietro, perché la prossima volta te la faccio pagare.»
«No, non ti preoccupare. Vado con un amico, guida lui.»
«Digli di andare piano.»
«Sì, mamma, sì.»
Senza aggiungere altro vado in camera mia e mi chiedo se non sto sbagliando a comportarmi così. Mi guardo allo specchio in cerca di qualcosa che mi dia una risposta, ma non lo trovo e alla fine decido che devo piantarla di farmi queste paranoie. Basta, basta!
Nader è partito, e non tornerà prima di un mese. Quindi che cosa posso fare? Una soluzione potrebbe essere chiudermi in casa e rimanere solo fino al suo ritorno, oppure smetterla di farmi menate, perché lui non se le farà, negli Stati Uniti, e continuare a vivere la mia vita. Quando poi tornerà da me, allora parleremo, e forse capiremo che la nostra relazione non ha più futuro. Potrebbe essere la soluzione più intelligente.
Le otto arrivano in fretta e io, alla fine, mi ripeto che non sto facendo niente di sbagliato e scendo le scale con passo lento, contandole, e quando finalmente arrivo in strada vedo che Sebastiano è già lì che mi aspetta.
«Fammi indovinare» gli dico salendo in macchina «sono in ritardo?»
«No, sono appena arrivato.» Scoppia a ridere a il suo di quella risata mi irrita e mi attira allo stesso tempo. Vorrei sentirlo ridere ancora, almeno per capire se mi piaccia o se, invece, lo odi. «Cerca di non vomitare, questa volta, che abbiamo un sacco di strada da fare.»
«L'altra volta stavo male.» ribatto, piccato.
«Lo so. Ma cerca di non vomitare lo stesso.»
Non rispondo nemmeno e rimango ad ascoltare la musica che riempie l'abitacolo. La tiene a volume alto, però mi piace. Non parla mentre guida, e faccio finta di non vedere che supera i limiti di velocità.
Guardo fuori dal finestrino, con il cielo ancora chiaro delle sere d'estate e la strada che poco a poco mi diventa sconosciuta, finché iniziamo ad avvicinarci ai monti e a percorrere i primi tornanti. Lui rallenta, con una mano cambia canzone. Mi guarda e sorride, ma non dico niente e anche lui tace.

Quando arriviamo mi rendo conto che anche se nessuno mi conosce, a questa festa, nessuno se ne accorgerà. Non ho mai visto tante persone riunite in un sol posto con il solo pretesto di fare un po' di casino, e capisco anche che il trucco è essere disinvolto, così come lo è Sebastiano.
Non facciamo nemmeno in tempo a mettere piede nel cortile della villa che mi trovo un bicchiere di birra in mano e una ragazza che mi parla e mi dice qualcosa che non capisco. Tenta di prendermi sottobraccio e io la scanso, perché non mi piace farmi toccare da gente che non conosco, soprattutto se è ubriaca, e lei lo è di certo.
Bevo la birra e una volta che ho svuotato il bicchiere mi rendo conto che qualcuno l'ha riempito di nuovo. Ci sono ragazzi che girano con le bottiglie di alcool in mano e riempiono tutti i bicchieri vuoti che vedono, e il mio non ha fatto eccezione. Mando giù anche quello e vado a riempirlo da solo. Bevo qualcosa che non è birra, ma sembra più forte, e ne prendo ancora.
Un ragazzo mi si avvicina, inizia a parlarmi e io gli rispondo. Sento che parla una voce che non è mia, dico cose che non direi se avessi bevuto meno. Ma io faccio presto a perdere la testa, e non mi faccio problemi. Sto bene così. Non penso, sto bene. Non voglio fare altro.
Bevo un altro bicchiere e sento qualcuno che mi afferra per il polso. Mi volto e mi trovo davanti il volto sorridente di Sebastiano.
«Vieni con me.» mi dice sovrastando la musica e il chiasso di quelli che chiacchierano. Una parte di me non vuole seguirlo, ma gli vado dietro lo stesso.
Mi porta in un'altra stanza, in fondo a un corridoio, chiude la porta e fa girare la chiave. Solo quando sento il rumore del chiavistello che gira mi risveglio dal mio torpore e mi rendo conto che sono da solo con Sebastiano in una camera da letto di qualcuno che non conosco, con la porta chiusa a chiave e lui che mi è vicino, vicinissimo.
«Sei bello.» mi dice, e io non faccio né dico nulla, perché prima che possa anche solo pensare a una risposta lui mi ha già baciato.
«No!» esclamo spingendolo via, e quando si stacca da me mi sorride e mi poggia la mano sulla spalla.
«Sei sicuro che non vuoi?»
Non rispondo, l'alcool mi annebbia di nuovo la mente, non capisco quello che succede. Forse sono io che mi muovo verso di lui e lo bacio, forse no. In ogni caso, non mi sposto e non lo allontano, perché quel bacio mi piace e non voglio che finisca. Nella mia testa Nader è solo un nome senza significato. Non c'è un volto, dietro. Non c'è nulla. Solo un'accozzaglia di lettere senza significato.
Lascio che Sebastiano mi tocchi, che mi carezzi il petto e mi baci di nuovo. Rispondo ai suoi movimenti e lo lascio fare. Mi rivolge un sorriso malizioso, si inginocchia davanti a me e vorrei che non lo facesse, perché sono eccitato e non voglio che se ne accorga, ma non faccio nulla per impedirglielo.
Lascio che mi cali i pantaloni e i boxer, sento la sua bocca calda che mi accoglie, chiudo gli occhi e non capisco più niente.


Ok, è passato un anno da quando ho aggiornato l'ultima volta.
Chissà se c'è ancora qualcuno dei miei vecchi lettori. Probabilmente no, però va bene così.
Ho ripreso questa fiction e come si può notare il rating è passato da giallo ad arancione (ma non è colpa mia! Ha fatto tutto Sebastiano che nella mia testa è molto malizioso) e probabilmente entro il prossimo capitolo diventerà rosso, perché sì.

Baci,
rolly too

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