Uno strano incontro

di Darik
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1° Capitolo ***
Capitolo 2: *** 2° Capitolo ***
Capitolo 3: *** 3° Capitolo ***
Capitolo 4: *** 4° Capitolo ***
Capitolo 5: *** 5° Capitolo ***
Capitolo 6: *** 6° Capitolo ***
Capitolo 7: *** 7° Capitolo ***
Capitolo 8: *** 8° Capitolo ***
Capitolo 9: *** 9° Capitolo ***
Capitolo 10: *** 10° Capitolo ***



Capitolo 1
*** 1° Capitolo ***


1° CAPITOLO

“Sveglia, dormiglione!”

La luce passò dalla finestra appena aperta, investendo in pieno viso il ragazzino ancora a letto

che stiracchiandosi e mettendosi seduto, osservò lo scocciatore.

Ci volle qualche secondo perché i suoi occhi si abituassero alla luce.

“Asuna” disse semplicemente.

“Proprio io” rispose una bella ragazza con i capelli rossicci e legati in due lunghi codini. “Forza Negi, devi andare a scuola”.

“Uffa, ma devo proprio?” sbuffò Negi cercando i suoi occhiali sul comodino.

“Che razza di risposta!” replicò Asuna. “Sono forse le parole di uno che vuole diventare insegnante?”

“Ok, ok”.

Mezzo assonnato, Negi andò nel bagno, dove trovò già tutto pronto per cambiarsi.

E mentre lui si lavava, Asuna tirava fuori gli abiti per la giornata.

Poi andò in cucina a preparare la colazione.

Negi uscì dal bagno e cominciò a vestirsi.

Era una vera fortuna che Asuna vegliasse sulle sue mattinate, dato che lui non capiva niente di vestiario e più di una volta aveva rischiato di presentarsi a scuola con accostamenti di colori che avrebbero fatto morire d’infarto chiunque fosse dotato di un po’ di senso estetico.

Lei era anche un’ottima cuoca, e quindi la colazione, il pranzo e la cena erano sempre squisiti.

Quel giorno non fece eccezione e un’invitante colazione si presentò agli occhi di Negi.

Asuna invece stava guardando il telegiornale. “Tsk, continua la caccia a quanto pare” dichiarò commentando un servizio appena conclusosi.

“Stasera dunque non ci sarai?” domandò Negi iniziando il pasto.

“No. Devo accompagnare Konoka a quella festa. Ieri sera, appena tornata a casa, ho setacciato l’armadio per trovare un abito adatto. E non ne avevo. Quindi me l’ho devo far prestare da Konoka. Mi cambierò qui e andrò non appena torna tua madre”.

“Spero che ti divertirai”.

“Figurati. Non sono mai voluta andare a simili feste, le considero una vera pizza. Stavolta ci vado solo per fare un favore a un’amica”.

“Dovresti cercare di svagarti invece. Come baby sitter e come distributrice di giornali lavori cosi tanto. Un po’ di relax ti ci vuole”.

“Con un angioletto come te, il lavoro non è mai difficile”. Asuna arruffò con una mano i capelli di Negi, che arrossi.

“Ah” si ricordò lei “Arrivando stamattina, ho incontrato tua madre. Ti manda tanti baci”.

“Come al solito” fece lui rassegnato.

Suo padre, una sorta di avventuriero-archeologo alla Indiana Jones, stava fuori di casa, e con casa s’intendeva il Giappone, quasi tutto l’anno.

Dimostrava di non aver dimenticato la sua famiglia grazie alla valanga di cartoline e souvenir che spediva dai posti spesso più esotici e strani.

Mentre sua madre era la classica donna in carriera: usciva la mattina presto, rientrava la sera tardi e si faceva sentire durante la giornata solo tramite telefono.

Telefonate che non andavano mai oltre lo schema del ‘sono io, tutto a posto? Bene, ciao’.

Meno male davvero che c’era Asuna.

Era lei che in pratica gli permetteva di fare vita sociale, portandolo fuori, facendogli svolgere sport, aiutandolo nello studio e difendendolo dai bulli.


Il treno della metropolitana era pieno come al solito.

Tante facce diverse, ma tutte ugualmente rientranti in due ben distinte categorie: studenti e impiegati.

La diversità in quell’ambiente era garantita dalle varie pubblicità attaccate sopra i finestrini: persone e oggetti di tutte le risme.

Negi, tenuto per mano da Asuna, si guardò intorno, poi fissò Asuna, che stava a sua volta osservando qualcosa davanti a se.

“Asuna? Asuna mi senti?” la chiamò lui.

La ragazza si ridestò. “Oh si. Che succede?”

“Senti, ti volevo chiedere se…”

Negi si guardò intorno nuovamente. “Niente”.

Asuna lo guardò perplessa, poi tornò a fissare in un punto davanti a se.

Negi riprese a osservarla, accorgendosi che l’obiettivo di Asuna era davanti a lei ma un po’ spostato verso l’alto.

“Asuna, cosa stai guardando?”

La ragazza fece un cenno col capo verso un manifesto.

Raffigurava un uomo sui trent’anni, con gli occhiali, vestito elegantemente e in una posa da galantuomo figaccione.

“Si tratta di quel Takamichi” costatò lui.

“Si, è davvero bellissimo” commentò lei mangiandoselo con gli occhi. “E sicuramente è anche una brava persona. Ispira cosi tanta fiducia”.

“A me non piace” dichiarò Negi.

“Be, ovvio. Tu sei un maschietto”.

“No, intendevo che non mi piace come persona. Diffido di qualcuno che per mestiere recita”.

“Non vorrai mica dire che tutti gli attori sono dei criminali?”

“Certo che no. Dico solo che anche se lui appare bello, gentile, intelligente e galante, non è detto che debba esserlo veramente. E neanche gli servirebbe, essendo bravo a recitare”.

“Sia quel che sia, io so bene che non lo incontrerò mai. Quindi posso accontentarmi delle apparenze”.

Arrivò la loro fermata, i due scesero e usando le scale mobili raggiunsero la superficie.

Entrambi studiavano all’istituto Mahora, una vera e propria città dello studio, che inglobava, in un’area grande quanto due campi da golf, un asilo, una scuola elementare e media, licei e un’università tra le più prestigiose del paese.

Oltrepassarono la cancellata d’ingresso, insieme ad una fiumana di altri studenti.

“Allora, tu segui il tuo flusso di coetanei, io devo seguire il mio. Ricordati di non dare confidenze a eventuali sconosciuti. Ci vediamo all’ora di pranzo” si raccomandò Asuna.

“D’accordo. Senti Asuna…”

“Si?”

Negi distolse lo sguardo. “Ecco… io so che il mese prossimo ti diplomerai… e quindi…”

Asuna inarcò un sopraciglio, poi capì. “Non preoccuparti. Anche se mi diplomo, resto sempre in quest’università. Continueremo a vederci”.

“Lo so. Però avrai più da studiare…. Insomma, non avrai troppo tempo libero”.

“Allora temi che non potrò più badare a te? Non pensarci neppure. Tu sei come un fratello per me. Il mio dolce fratellino” concluse lei baciandolo su una guancia.

Gli regalò anche uno splendido sorriso e andò verso i suoi amici, che la salutarono allegramente.

Negi invece era rimasto di sasso.


La mattinata scorreva tranquilla e monotona nella classe di Negi.

Soprattutto nell’intervallo.

I compagni di Negi si abbandonarono alle solite discussioni, riguardanti film, cartoni, fumetti e strani siti internet.

Negi invece guardava fuori dalla finestra come se volesse scorgere qualcosa.

“Ehilà, Negi!” lo salutò qualcuno con una formidabile pacca sulla spalla.

“Chi… Kotaro!”

“L’unico e il solo” disse un vispo ragazzino con i capelli neri folti saltando sul banco di Negi e mettendosi seduto con le gambe incrociate.

“Che fai?! Scendi, se ti becca la maestra saranno dolori!” lo rimproverò Negi.

“Figurati se mi spaventa quella vecchiaccia. Piuttosto, parliamo di te, signorino dal cuore solitario”.

“Che stai dicendo?”

“Come che sto dicendo? Guarda che l’ho capito benissimo che sei cotto di quella là”.

Negi divenne rosso come un peperone. “Di… di che diavolo parli?!”

“Parlo di Asuna, fessacchiotto. Vi ho visto diverse volte quando arrivate a scuola. O quando lei viene a prenderti o ad accompagnarti in altre occasioni. In ogni caso, te la mangi con gli occhi”.

“Non.. non è vero!”

Kotaro lo scrutò divertito. “Ah si? E allora cosa stavi guardando dalla finestra adesso? Da qui si vede chiaramente l’edificio del liceo”.

“E allora?”

“Ho studiato questa posizione da quando hai chiesto alla prof di spostarti a questo banco, un mese fa. Da qui si può osservare non solo il liceo, ma anche la classe di Asuna.” Kotaro tirò fuori un minuscolo binocolo e tramite esso guardò fuori. “Ed eccola là, la tua dolce baby sitter”.

“Smettila!” gridò Negi strappandogli il binocolo.

E quando lo ebbe in mano, si accorse che era solo un giocattolo.

“Te la stai prendendo davvero troppo” commentò Kotaro.

Come se fosse sfinito, Negi si abbandonò sulla sedia. “Uff, e va bene. Ma promettimi che non lo dirai a nessuno”.

“Sta tranquillo. E poi in questo modo siamo pari, visto che anche tu conosci un mio segreto. Tu sei l’unico a sapere del gruppo di cani che allevo al parco. Mia madre invece odia a morte i cani, e se lo venisse a sapere, mi rinchiuderebbe in casa”.

“Comunque il segreto è tutto qui: sono innamorato di Asuna. Punto”.

“E hai intenzione di dichiararti?”

“Sarei solo ridicolo. E’ un amore impossibile. Io ho 13 anni, lei 18. Io senza di lei non saprei fare niente. Lei invece è fantastica, sa fare di tutto, è orfana ma ha saputo affrontare il mondo, lavora, si paga gli studi da sola. Si è auto realizzata. Io sono solo un moccioso”.

“Ma ti vuole bene, no?”

“Certo, però in me vede un fratellino. La cosa mi fa piacere, tuttavia non potrà mai diventare quello che voglio io. Devo rassegnarmi”.

“Su con la vita” gli disse Kotaro rifilandogli un'altra mega pacca sulla schiena. “Solo alla morte non c’è rimedio”.


La sera, Asuna aveva preparato la cena per se e per Negi, e dopo aver mangiato, era in attesa di Konoka.

Con lei, Asuna si sarebbe recata alla festa.

Gli orari erano stati stabiliti alla perfezione, e le due ragazze sarebbero partite non appena la madre di Negi fosse rincasata.

Suonarono il campanello, e Asuna andò ad aprire. “Konoka. Ben arrivata”.

La sua amica, una bella ragazza con lunghi capelli castani, la abbracciò. “Ti vedo ogni giorno più in forma. E dov’è il piccolo Negi?”

Negi arrivò dal corridoio. “Salve, signorina Konoe”.

Konoka non rispose e corse ad abbracciarlo con forza. “Ma è sempre più carinissimo questo qui! Asuna, domani facciamo a cambio? Voglio essere la sua baby sitter per un giorno. E’ troppo carino il piccolo Springfield” esclamò, mentre Negi tentava invano di resistere a quella presa.

“E’ una persona, non un giocattolo” le ricordò l’amica.

Andarono a cambiarsi nella stanza di Negi, mentre quest’ultimo restò nel soggiorno davanti alla tv.

Nonostante fosse solo un ragazzino, alla fine cedette alla tentazione: alzò il volume e silenziosamente si accostò alla porta chiusa della sua camera, origliando e chiedendo mentalmente perdono.

Origliare era sbagliato, ma almeno riusciva a resistere alla tentazione di sbirciare.

“Dai, mettiti questa gonna, Asuna, farai un figurone”.

“Io sono a disagio con le gonne”.

“Ti ho già detto che non puoi presentarti alla festa con i pantaloni. Non sarebbe elegante. Mettiti questa gonna e poi il body”.

“Un body?! Ma stai scherzando?! Cos’è quella roba?! Sembra che sul petto ho un balcone!”

“Smettila di lamentarti e infilatelo, io te lo attacco dietro”.

“No, ferma. Mi vergogno!”

Dopo qualche animato secondo di lotta vestiaria, scese il silenzio e Negi tornò subito al suo posto.

Dalla sua stanza uscirono Konoka e Asuna, vestite quasi come due principesse delle favole.

Tuttavia Asuna era davvero una variante sexy, poiché il suo body le lasciava scoperte le spalle e aveva un notevole decolleté.

La gonna era piuttosto lunga e ampia, con un lieve spacco.

Infine, sulle braccia portava due guanti bianchi lunghi fino ai gomiti.

“A-Asuna…” mormorò Negi arrossendo.

Istintivamente Asuna si coprì il petto. “Aahh! Hai visto? Pure Negi s’imbarazza! Io mi devo togliere questa roba!”

“Non dire sciocchezze” replicò Konoka.

“Negi, perdonami se mi faccio vedere cosi da te”.

“Non… non fa niente” la tranquillizzò lui coprendosi gli occhi e cercando con le dita di ostacolare i suoi occhi desiderosi di guardare.

Proprio in quel momento rientrò la madre di Negi.

E Konoka approfittò di quella porta aperta per spingere fuori la sua amica.

“Buonasera a tutti” salutò allegramente.


La festa era cominciata alle nove e mezzo, e si svolgeva in un ampio salone scintillante situato al pianterreno di un palazzo, uno dei tanti palazzi, enormi e costruiti secondo ardite architetture, del nuovissimo quartiere di Tokyo-Sol: in pratica, avrebbe dovuto essere il primo centro commerciale grande quanto un quartiere intero.

I partecipanti al ricevimento erano tutte persone famose e ricche, o entrambe le cose.

Tutti con indosso abiti che una persona normale non potrebbe comprarsi neppure con una vita di stipendi.

E tutti molto a loro agio in quell’ambiente.

Con un’unica eccezione: Asuna Kagurazaka.

La poverina se ne stava dietro uno dei tanti tavoli riccamente abbelliti. Tentando di sorseggiare un bicchiere di liquore.

“Asuna, cosa fai lì? Vieni” la richiamò Konoka.

Quest’ultima sembrava davvero trovarsi a suo agio alla festa.

D’altronde era di famiglia nobile, addirittura imparentata con quella imperiale.

Asuna invece era una figlia di nessuno.

E questo contribuiva a farla sentire un pesce fuor d’acqua.

Si fece coraggio e raggiunse la sua amica.

“Lo sapevo che non dovevo venire qui. E si può sapere perché mi hai chiesto di accompagnarti? Mi sembri decisamente a tuo agio”.

“Perché anche se non è la prima festa di questo tipo cui partecipo, è la prima volta che vi partecipo senza mio padre. Quindi volevo qualcuno vicino” fu la risposta.

“Chissà quante persone avrebbero fatto a gare per accompagnarti”.

“Io preferisco avere vicino te. Ci conosciamo da tanti anni. E poi come potrei dimenticare tutte le volte che mi hai protetta quando eravamo piccole? Ero la vittima preferite di tutte quelle bullette, e senza di te, la mia infanzia sarebbe stata davvero un inferno”.

“Figurati, non ho fatto niente di speciale” si schernì Asuna “Però lascia che ti dica una cosa: potevi almeno procurarmi delle scarpe più comode. Con queste qui ho difficoltà pure a stare in piedi e …uops!!”

Detto fatto, Asuna mise un piede in fallo e rischiò di cadere all’indietro.

Ma delle forti braccia la presero al volo.

“Faccia attenzione, signorina” le disse una calda voce maschile.

Asuna si girò per ringraziare quella persona e rimase senza fiato. “Ta…Takhata Takamichi?!”

“L’unico e il solo” rispose l’attore sfoderando un bel sorriso. “E lei, signorina, è…”

“Asuna… Asuna Kagurazaka!”

La ragazza si perse in quello sguardo e nel sorriso di Takamichi.


Da quel momento, la serata per Asuna cambiò totalmente.

Dopo una prima ora di noia e imbarazzo, la seconda ora di festa fu davvero coinvolgente.

Si misero a sedere su delle comode poltrone in pelle, parlando e bevendo.

Takamichi si dimostrò un conversatore affascinante e pieno di garbo.

Capace di spaziare su ogni argomento.

E Asuna pendeva dalle sue labbra.

Konoka, intenta a chiacchierare con una sua conoscente, li osservava a distanza, soddisfatta di vedere quanto l’amica fosse presa dalla presenza di Takamichi.

Le aveva anche portato da bere, per rendere Asuna un po’ brilla e farla sciogliere ulteriormente.

Al quarto bicchiere, che Takamichi era andato a prenderle, Asuna avvertì un lieve capogiro.

Konoka, che non aveva mai perso d’occhio la novella cenerentola, se ne accorse e la raggiunse subito. “Asuna, che ti succede?” domandò preoccupata.

Takamichi intervenne prontamente. “Forse ha bevuto un po’ troppo. Lei non si preoccupi signorina, accompagnerò io la sua amica a darsi una rinfrescata”.

L’uomo, reggendo per un braccio Asuna, la accompagnò fuori dalla sala.

Konoka li osservò allontanarsi, poi decise di tornare dalla sua conoscente, che tuttavia vide dirigersi verso uno dei bagni insieme a un uomo e tenendosi una mano sulla bocca e l’altra sullo stomaco.

Intanto Takamichi, portando fuori la sua ultima conquista, incrociò un suo amico.

Che non badò ad Asuna.

“Sono le 11 e 34. Ricordati che tra dieci minuti la festa si trasferirà all’esterno” rammentò l’altro a Takamichi.

“Non preoccuparti, farò presto” rispose quest’ultimo.


Asuna era sveglia, ma anche in una sorta di torpore, si guardava in giro senza riconoscere ciò che vedeva.

Per questo non protestò quando fu portata non verso i bagni ma verso gli ascensori.

E non protestò quando, percorrendo un corridoio vuoto, fu condotta, quasi trascinata, dentro un lussuoso appartamento.

Takamichi la adagiò su un divano e chiuse la porta a chiave.

“Sei magnifica, semplicemente magnifica” mormorò l’uomo passandosi la lingua sulle labbra. “Sei proprio il tipo che piace a me, giovane e pura”.

“Uhnn… ma dove… dove sono?” borbottò Asuna mettendosi una mano sulla fronte.

“Si sta già riprendendo? Strano. Oh be, poco importa, mi piace quando lottano un pò’” disse tra se e se Takamichi cominciando a slacciarsi la cintura.

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Capitolo 2
*** 2° Capitolo ***


2° CAPITOLO

Konoka guardò l’orologio: erano le undici e cinquantotto.

“Dove diavolo sono finiti?”

Asuna e Takamichi erano scomparsi da tanti, troppi minuti e lei cominciava a preoccuparsi: Asuna si era forse sentita male?

Ma in quel caso perché non chiamarla?

Gli altri invitati si erano trasferiti all’esterno, ormai era rimasta solo lei a vagabondare per l’enorme e vuoto salone.

“Aspetto altri cinque minuti, se non si fa sentire nessuno, vado a cercarli”.

Il cellulare di Konoka squillò e lei rapidamente lo prese, guardando il numero: “Asuna! Pronto? Sono io”.

Dall’altra parte arrivarono solo scariche, unite a un rumore ansimante.

“Konoka… vienimi a prendere…” disse una voce insicura.

“Asuna! Cos’hai? Che è successo?”

“Vienimi a prendere…. Sono al quinto piano… vieni….” E chiuse il contatto.

Agitata, Konoka lasciò la sala andando agli ascensori e salì fino al quinto piano.

Davanti a se c’era solo un lungo corridoio, vuoto.

Cosi com’erano vuoti quasi tutti gli appartamenti dell’edificio.

Tokyo-Sol era un quartiere molto recente, e aveva da poco cominciato a riempirsi.

La ragazza si avventurò nel corridoio, chiamò debolmente, quasi come se temesse di disturbare, la sua amica.

Nessuno le rispose, allora riprovò col cellulare.

Sobbalzò quando la suoneria del telefono di Asuna risuonò vicinissimo a lei.

Konoka si guardò intorno smarrita, poi individuò la fonte del rumore: proveniva da una stanzetta affianco a lei.

Titubante aprì la porta, scoprendo cosi uno sgabuzzino per le scope.

E stesa sul pavimento, c’era Asuna.

Konoka gridò per la sorpresa e s’inginocchiò con slancio sull’amica.

“Asuna! Asuna! Cosa ti è successo?!”

Asuna aprì gli occhi e mormorò il nome dell’amica.

Poi strinse i pugni come per farsi coraggio e tentò di mettersi a sedere, avendo comunque bisogno dell’aiuto di Konoka.

“Ha cercato… ha cercato…” tentò di dire Asuna, con un’espressione stordita, da persona appena svegliatasi.

“Cosa?! Cosa?!” domandò con angoscia l’altra.

Che, come se fosse stata colta da un’orribile illuminazione, si portò le mani sulla bocca. “Non… Takamichi non avrà cercato di farti qualcosa di…?!”

Sentendo quel nome, Asuna sentì il sangue ribollire nelle vene.

E gli occhi riempirsi di lacrime.

Sbatté con forza un pugno sulla parete.

“Quel porco…. Io lo ammazzo! Lo ammazzo! Negi aveva… aveva ragione!”

“Chiamiamo la polizia!” propose Konoka.

“No!” rispose con uno scatto Asuna. “Ora… ora non mi sento bene… mi deve aver… somministrato qualcosa… ora… non so pensare… portami a casa…”

“Ma sei sicura?”

“S-si… cioè… si! Adesso… non saprei fare niente. Cosa… cosa ho dovuto fare per riuscire a… chiamarti…”

Senza essere troppo convinta, Konoka la aiutò a rialzarsi.

Solo allora si accorse che il vestito di Asuna aveva la gonna strappata all’altezza della cintola.

E che il body e il petto erano ricoperti da macchie rosse.

“Quello… quello è sangue?!” disse additando le macchie.

“S-si… quando ho capito cosa volevo fare… gli ho rifilato un calcio in bocca… e sono scappata… sono andata…. Finita… qui… credo..”

Sconvolta e stupita, Konoka condusse Asuna agli ascensori facendole da sostegno.

La sua amica barcollava, almeno tre volte rischiò di cadere, e dentro gli ascensori sembrò sul punto di addormentarsi.

Raggiunto il salone, non ebbero problemi a uscire dal palazzo senza farsi vedere, poiché tutti gli ospiti erano ancora fuori.

Konoka chiamò un taxi e si fece condurre alla casa di Asuna.

Durante il tragitto, strinse a se l’amica, come a volerla proteggere da sguardi indiscreti.

In lontananza si udirono delle sirene, forse la polizia.

Giunte a destinazione e pagato il conducente, Konoka aiutò Asuna a salire le scale del suo appartamento.

Asuna era ancora intorpidita, quindi non appena fu portata nella stanza da letto, crollò sul materasso.

Konoka telefonò al padre: “Papà, sono io. Senti, questa sera resto a dormire da Asuna. Se è successo qualcosa? Be, diciamo di si. Comunque ti dirò tutto domani mattina. No, non preoccuparti, stiamo bene, adesso. Domani saprai tutto. Fidati. Va bene, ciao”.

Chiuso il contatto, Konoka rimase a vegliare sull’amica.


Negi fu svegliato dal rumore della sveglia.

“Umpf, Asuna non c’è” borbottò alzandosi.

Andò nel bagno e subito dopo dovette tornare in camera a prendere la roba per cambiarsi.

Indossò gli stessi abiti del giorno prima e andò in cucina, dove percepì un forte odore di caffè.

E vide sua madre intenta a leggere il giornale, mentre la tv era spenta.

“Ciao, mamma” fece lui.

“Ben svegliato” rispose la madre guardandolo un momento e sorridendogli, per poi riemergersi nella lettura del giornale.

“Notizie di Asuna?”

La donna fece cenno di no, poi guardò l’orologio: “Vieni, ti accompagno a scuola”.

“Eh, ma sono solo le sette e mezza”.

“Lo so, ma cosi avrai il tempo di fare colazione lungo il tragitto. Conosco un bar dove fanno delle brioche buonissime”.

Negi borbottò qualcosa e accese la televisione.

Quasi come se non aspettasse altro, venne trasmessa un’edizione straordinaria: “Omicidio nel mondo dei vip. Stanotte è stato assassinato l’attore Takahata Takamichi, 30 anni. Takamichi è diventato famoso per…” e seguì la descrizione della carriera dell’illustre scomparso.

“Uhm, sarà un duro colpo per Asuna” pensò Negi mentre iniziava a preparasi la cartella.

Al giornalista del TG giunse una telefonata. “Ci comunicano che c’è già una persona sospettata per l’omicidio. Una nostra troupe ha seguito le auto della polizia fino alla casa dell’indiziato, di cui sta avendo ora l’arresto”.

L’immagine cambiò, mostrando un appartamento con davanti tre auto della polizia e un gruppo di poliziotti che portavano fuori due persone, due ragazze: una era ammanettata, l’altra invece era solo tenuta sotto braccio da una poliziotta.

Gli agenti cercavano di allontanare gli obiettivi delle telecamere dai volti delle due ragazze.

Coprirono quest’ultime anche con delle giacche.

Ma qualche pezzo dei loro visi si intravide comunque.

E Negi si sentì venire meno, perché quella casa e quelle ragazze le conosceva molto bene.

Specialmente quella ammanettata.


Asuna picchiettava con le dita sul tavolo, tenendo lo sguardo fisso su di se.

Era già un’ora che l’avevano chiusa in quella stanza vuota, con un largo specchio sulla parete destra.

La ragazza aveva visto abbastanza film polizieschi per sapere che si trattava di uno di quegli specchi trasparenti solo da un lato.

Chissà quanti occhi celati in quel momento la stavano studiando.

Comunque fino ad allora non erano stati troppo scorbutici: quando l’avevano prelevata a casa, le avevano dato il tempo di cambiarsi. Sarebbe stato umiliante andare alla polizia in pigiama.

E adesso le avevano pure tolto le manette.

Avevano anche specificato che poteva girare per la stanza, ma lei non se la sentiva di alzarsi dalla sedia.

E chissà dove era finita Konoka.

Che diavolo stava succedendo?!

In quel momento entrarono nella stanza tre persone, due uomini e una donna.

Gli uomini si misero ai lati della porta, la donna si sedette davanti ad Asuna.

“Sono il detective Sanae” si presentò la sconosciuta.

Asuna rispose dicendo il suo nome.

“Lo so già” replicò Sanae. “Bene, signorina Kagurazaka, lei sa perché è in stato di fermo?”

“No, proprio no”.

“Allora sarò molto rapida: signorina Kagurazaka, lei è sospettata dell’omicidio di Takahata Takamichi”.

Sentendo quel nome, Asuna strinse i pugni, cercando di mantenere il controllo.

“Co-cosa sta dicendo?”

“Quello che ho detto. Il signor Takamichi è stato ritrovato cadavere nel suo appartamento. La morte risale a poco prima della mezzanotte, per l’esattezza tra le undici e quaranta e le undici e cinquanta. Cinque coltellate, con un coltello da cucina, al petto. Il corpo era ancora caldo quando la polizia è arrivata, perché informata da una vicina quasi nel momento stesso in cui avveniva il delitto”.

“Non sono stata io!” esclamò Asuna sporgendosi in avanti.

“Però lei risulta essere l’ultima persona che l’ha visto vivo”.

“Quel porco ha cercato di violentarmi! Avete sicuramente perquisito la mia casa. Non avete trovato il vestito strappato? E non avete parlato con la mia amica Konoka?”

“Abbiamo parlato con la signorina Konoe. Ha descritto una situazione davvero drammatica. Ma questo non la assolve, signorina Kagurazaka”.

“Come non mi assolve? Di cosa sta parlando? Sono io la vittima!”

“E allora come mai sul suo vestito strappato c’erano tracce di sangue?”

“Perché per difendermi, l’ho colpito. Ma gli ho dato un calcio in bocca. Non l’ho certo accoltellato!”

“Tuttavia, dal colpire con un calcio, come ci ha raccontato anche la sua amica, all’accoltellare il passo non è molto lungo”.

“Non l’ho accoltellato! Io non saprei mai uccidere!” ripeté Asuna, sforzandosi di trattenere le lacrime.

La Sanae se ne accorse e cambiò atteggiamento.

Mise una sua mano su quella di Asuna. “Se lei l’ha fatto per difendersi, non è una colpa sua. La giuria sarà clemente”.

Asuna ritirò la mano con uno scatto e altrettanto rapidamente si alzò in piedi.

Sanae, con un gesto del braccio, bloccò i due uomini che già stavano per scattare anche loro.

“Non sono un’assassina!” insisté Asuna “E poi scusate, voi siete risaliti a me perché io vi ho chiamato stamattina presto, dato che volevo denunciare Takamichi. Se fossi la sua assassina, non sarei dovuta sparire nel nulla? Mi sarebbe bastato non chiamarvi!”.

“Questo è vero” ammise Sanae “Tuttavia noi poliziotti sappiamo meglio di altri quanto possono essere ingannatrici le apparenze. Per ora la finiamo qui. Più tardi le faremo altre domande. E fino ad allora dovrà restare qui in stato di fermo. Dove sono i suoi genitori? Può permettersi un avvocato, o ne vuole uno d’ufficio?”

Asuna, improvvisamente esausta, si rimise a sedere. “Sono orfana. E lavoro part-time come baby sitter, soprattutto, e anche come distributrice di giornali. Dice che possono permettermi un avvocato?”

“Credo di no. In tal caso, se occorrerà, gliene verrà assegnato uno d’ufficio. Arrivederci, signorina Kagurazaka”.

I tre agenti uscirono dalla stanza.

Rimasta sola, Asuna si coprì il volto con le mani.

Non poteva nemmeno permettersi un pianto di sfogo, non voleva dare spettacolo alle persone dietro lo specchio.

Lei, accusata di omicidio.

Ne sarebbe uscita?

E chi la conosceva avrebbe voluto ancora frequentarla?

Certe accuse ti marchiano a vita.

“Negi… vorrai vedermi ancora?”


“Andiamo, dammi qualche notizia!” imprecò Negi maneggiando una radiolina.

Non riusciva ad avere notizie di Asuna.

Avrebbe voluto andare subito al commissariato, ma la madre si era opposta.

I ragazzini come lui dovevano pensare alla scuola, non alle accuse di omicidio.

Tuttavia le ore di lezione erano state una tortura continua, preso dalla smania di sapere cosa stava succedendo ad Asuna, era stato difficile lottare contro la tentazione di accendere quella radio in classe.

Ora che finalmente c’era l’intervallo, poteva usare la radio ma il segnale era disturbato.

“Dannazione!” gridò.

“Ehi Negi” disse Kotaro affiancandolo “Che ti prende?”

“Sai che hanno assassinato quel Takamichi?”

“Si, la televisione non parla d’altro da stamattina”.

“E sai che hanno accusato Asuna di ciò?”

Kotaro sbiancò: “Che cosa?! Il TG che ho visto io diceva che avevano arrestato qualcuno, però niente nomi”.

“Sia quel che sia, l’hanno arrestata! Che assurdità! Asuna è una persona meravigliosa, che non farebbe del male a nessuno!”

“Se è innocente, vedrai che la assolveranno”.

“Vorrei tanto crederlo! Ma se i poliziotti sono arrivati a ritenere colpevole una persona insospettabile come lei, allora chissà cos’altro potrebbero combinare! Konoka è stata rilasciata subito, d’altronde la sua famiglia ha mosso all’istante un esercito di avvocati, per lei. Ma per Asuna niente! L’ho chiamata prima, nell’intervallo, per avere notizie. Konoka mi ha detto che ha tentato di proteggere Asuna, di dire alla polizia come sono andate le cose. Ma non può trovarle un avvocato. E sai perché? Perché i portavoce e gli avvocati della sua famiglia hanno stabilito che i Konoe non devono avere niente a che fare con un’accusata di omicidio! Bastardi!!”

Negi riprese ad armeggiare intorno alla radio, e ancora niente.

“Al diavolo!” sbraitò lanciando per terra la radiolina. “E’ inutile come tutte le cose di casa mia!”

Quella reazione aveva attirato l’attenzione di alcuni compagni rimasti nell’aula: chi aveva mai visto il tranquillo e sempre posato Negi Springfield perdere le staffe?

“Fatevi gli affari vostri!” ordinò Kotaro, mostrando il pugno ai suoi compagni e facendosi subito obbedire.

Davanti alla vista dell’amico, a capo chino e percorso da fremiti, Kotaro ebbe un’idea.

“Senti, forse ti sembrerà una stupidaggine, però io credo di conoscere un modo per discolpare Asuna”.

Negi lo guardò speranzoso. “Ovvero?”

“Ultimamente girano strane voci, che parlano di un sito internet attraverso il quale si può prendere contatto con una persona, una sorta di genio della legge che risolve ogni caso”.

Negi rimase allibito. “Mi stai prendendo in giro?”

“Assolutamente no! Lo so che sembra assurdo, tuttavia diverse persone ne hanno parlato. Dicono che sa risolvere casi di ogni tipo e che predilige i casi disperati”.

“Ti sembra che una leggenda urbana possa aiutare Asuna?!”

“Non è una leggenda. Ne hanno parlato persone attendibili”.

“Molte leggende urbane sembrano attendibili. E poi, come si chiama questo o questa detective? E se è tanto capace, come mai i giornali e i TG non ne parlano? Perché certamente dovrebbero parlare di un simile fenomeno”.

“Be, questo non lo so. Comunque ho l’indirizzo. Www. Wal. Kr”.

“Mi sembra solo un’enorme stupidaggine, comunque grazie del pensiero” rispose Negi.

Che tanto non avrebbe mai provato.

Figurati se in quella situazione poteva perdere tempo dietro a delle fantasie.


Era infine arrivata la sera.

Asuna stava ancora attendendo, stavolta in una cella del commissariato.

Le avevano anche portato i pasti, mentre doveva chiamare tramite un campanello per quando doveva andare al bagno.

Non c’erano specchi magici, ma una piccola telecamera.

“Dio mio, che attesa snervante. Sapessi almeno cosa succede”.

La porta si aprì ed entrarono il detective Sanae e un uomo, giovane ed elegante, con i capelli neri moderatamente lunghi e gli occhiali.

Lo sconosciuto portava anche una grossa borsa.

Porse la mano ad Asuna. “Piacere di conoscerla, signorina. Io sono Teru Obata. E sono il suo avvocato d’ufficio”.

La perplessità di Asuna diventò puro sgomento. “Avvocato?! Non vorrete mica dire che…”

“Esatto” rispose la Sanae. “Asuna Kagurazaka, lei è formalmente accusata dell’omicidio di Takahata Takamichi”.


“NO!!” gridò Negi davanti alla televisione.

Al TG della sera avevano appena annunciato che erano spuntati ben due testimoni contro la principale indiziata, ovvero Asuna, che ora era ufficialmente accusata dell’omicidio e pertanto sarebbe stata trasferita in carcere in attesa del processo.

Negi fu tentato di correre dalla madre per avvertirla.

Ma già dalla sua stanza la sentiva impegnata nell’ennesima telefonata d’affari.

Dopo l’arresto di Asuna, aveva deciso di restare col figlio.

Portandosi il lavoro a casa però, quindi era come se non ci fosse.

E sicuramente troppo impegnata per trovare un avvocato che aiutasse Asuna.

Negi cadde a terra in ginocchio, cominciando a piangere.

“Asuna… Asuna… non è possibile! Come farai?!”

Doveva aiutarla, ma come?

Lui era solo un bambino.

Già, solo un bambino.

E allora, tanto valeva fare una cosa cretina, che solo un bambino avrebbe potuto fare.

Accese il suo computer, andò su internet e digitò l’indirizzo che gli aveva dato Kotaro.

Gli apparve una schermata bianca.

Al centro, una finestra dove scrivere, come per le chat.

Scuotendo la testa, Negi cominciò a scrivere.

“C’è nessuno?”

Apparve un’altra scritta sotto la sua.

“Buonasera. Di cosa hai bisogno?”

“Uhm, devo ammettere che non mi aspettavo una risposta. Dunque…”

Negi continuò: “Ha sentito dell’omicidio di Takahata Takamichi?”

“Certamente”.

“La persona sospettata è una mia carissima amica. Voglio scagionarla”.

“Il caso va studiato. Comunque potrei accettarlo”.

“Vi avverto che non ho soldi”.

“I soldi non m’interessano”.

“Davvero?”

“Si. Incontriamoci a questo indirizzo”.

Apparve un indirizzo accompagnato dall’orario, le undici.

“Ma questo, è matto!” pensò Negi “Crede davvero che una persona accetterebbe un simile appuntamento al buio? Se tutto va bene non ci sarà nessuno. O altrimenti ci sarà qualche maniaco. Vediamo un po’ dove può spingersi”.

“Non c’è un altro orario?”

“Quale preferisci?”

“Le quattro e mezzo” propose Negi.

“Va bene. A domani, alle quattro e mezzo. Da solo”.

“Assurdo, davvero assurdo. Solo un’idiota ci andrebbe, tsk”.


Puntuale, il giorno dopo Negi si avventurò nel quartiere indicato dal sito.

Non era una zona degradata, anche se in periferia.

Una serie di case bianche, tutte uguali tra di loro e tutte a due piani, collegati da una scalinata esterna.

In mezzo alle varie case, un dedalo di stradine asfaltate, dove in teoria le macchine potevano pure passare, ma se andavi a piedi o su due ruote era meglio.

Negi, ormai impegnato in quella follia, teneva il cellulare a portata di mano.

Quella era la sua prima arma.

La seconda era Kotaro: oltre ad averlo coperto nel doposcuola, dicendo ai genitori di entrambi che sarebbero andati a vedere un film, sarebbe stato lui ad avvertire chi di dovere nel caso Negi non fosse più tornato.

Il ragazzo guardò il foglio su cui aveva scritto l’indirizzo: la casa era proprio davanti a lui.

Tante piccole voci gli gridavano che stava compiendo una follia.

Però, dopo aver sentito che il processo ad Asuna sarebbe iniziato a breve, e dopo che la madre si era nuovamente rifiutata di accompagnarlo dalla sua amica, aveva messo a tacere tutti i dubbi.

Il piano indicato era quello superiore, Negi salì le scale e ad ogni passo, si sentiva sempre più spiato.

Anche se l’appartamento aveva le finestre chiuse.

Giunto alla porta, dopo un lasso di tempo che gli parve un’eternità, bussò.

E il suo battere diede forza sufficiente alla porta per aprirsi. Non era chiusa, solo accostata.

Negi si avventurò dentro l’appartamento, avvolto nel buio.

In fondo al corridoio, davanti a lui, giungevano però delle voci.

Cautamente avanzò, finché non vide anche delle luci biancastre, provenienti da un’altra stanza.

Era una stanza con una parete piena di televisori, alcuni affiancati, altri fissati uno sull’altro.

Trasmettevano programmi diversi, soprattutto telegiornali, in varie lingue.

C’era anche una scrivania, con una poltrona e un computer portatile aperto.

L’attenzione di Negi fu però attirata da un’altra cosa: dolci.

Intorno al computer c’erano quattro vassoi, tre pieni di dolci di tutti i tipi, mentre sul quarto tazze per il the e cubetti di zucchero.

“Che diavolo è tutta questa roba?” mormorò Negi.

“Buongiorno” disse qualcuno alle sue spalle.

Negi sobbalzò e corse a ripararsi dietro la poltrona, osservando il nuovo arrivato.

Era un ragazzo, sui venticinque anni, con capelli neri lunghi e folti.

Indossava jeans azzurri e una maglia bianca abbastanza larga, era a piedi nudi e leggermente curvato in avanti.

Quello che colpì molto Negi era comunque il suo volto: impassibile, privo di emozioni e pallido. Gli occhi erano incorniciati da due profonde occhiaie.

“Chi-chi sei?” balbettò Negi.

Lo sconosciuto, che teneva le mani in tasca, si grattò il polpaccio destro usando il piede sinistro.

“Io sono L”.

 

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Capitolo 3
*** 3° Capitolo ***


3° CAPITOLO

La persona che si era presentata come L con calma avanzò verso Negi, che intimorito si scansò.

Ma L si limitò a saltare agilmente sulla poltrona per sedersi, restandoci poi con i piedi sopra.

Prese da uno dei vassoi alcuni confetti, cominciando uno dopo l’altro a mangiarli.

Il tutto ignorando Negi.

Il quale decise di azzardare un tentativo di dialogo. “Ehm, ecco, buongiorno. E’ lei il detective?”

“Sì” rispose semplicemente l’altro.

“Io sono quello che le ha scritto ieri sera. A proposito dell’omicidio di Takahata Takamichi”.

“Lo so. Ho studiato il caso. Non c’è molto da dire. E’ colpevole”.

“Che cosa!?”

L parlava tenendo sempre lo sguardo rivolto verso i monitor. “Sono sbucati due testimoni che l’hanno vista commettere l’omicidio e poi scappare via dal luogo del delitto. Quindi è colpevole”.

Negi si sentì fremere di rabbia. “Come… come osa dire una cosa del genere?! Cosa ne sa lei di Asuna Kagurazaka?”

“Il mondo è pieno di ragazzine stupide. Forse era un’amante arrabbiata perché stava per essere mollata”.

“Non è vero! Asuna non è niente del genere!”

“O magari era andata lì per fare un servizietto e poi non è stata pagata a dovere”.

Negi inizialmente non sembrò capire il riferimento, poi sbiancò e pieno di rabbia sferrò un pugno contro quello sconosciuto, usando il braccio con l’orologio.

L lo bloccò senza problemi afferrandolo al volo per il polso.

E solo allora guardò Negi negli occhi.

“Mi dispiace, ma questo non sembra essere un caso per me interessante”.

Fremendo per la rabbia e la disperazione, Negi scappò via.

L riprese a mangiare dolci versandosi una tazza di the.


Asuna era in una stanza del carcere adibita ai colloqui privati con i detenuti, intenta a parlare col suo avvocato, Teru Obata.

Erano anche in attesa dei risultati degli esami tossicologici che la ragazza, su consiglio dell’avvocato, aveva svolto subito, la sera precedente.

Questo perché lei affermava di essere stata drogata da Takamichi.

“Si mette male per me, vero?” esordì Asuna.

“Temo di sì, signorina. Purtroppo sono sbucate fuori queste due testimonianze che sembrano davvero incastrarla” rispose Obata.

“Ma con esattezza, cosa hanno visto questi due?”

Obata tirò fuori dalla sua borsa alcuni fogli, si sistemò meglio gli occhiali sul naso e si schiarì la voce: “I due testimoni si sono presentati insieme al commissariato. La prima testimonianza è di Chisame Hasegawa. La ragazza abita nel palazzo affianco a quello dove è avvenuto l’omicidio”.

****

“Uff, che pizza, non c’è mai niente di buono in tv. Tranne che la sottoscritta” sbottò Chisame chiudendo la televisione e sdraiandosi su una poltrona per leggere un po’.

Il tutto in attesa che arrivasse la mezzanotte, così lei avrebbe potuto andare a letto rispettando la tabella di marcia fissata insieme al suo dietologo.

Improvvisamente udì delle grida provenire dal palazzo affianco al suo e più precisamente, dall’appartamento che stava di fronte al suo.

I due palazzi distavano una quarantina di metri, e anche a causa dei vetri fissi della parete del soggiorno, non riusciva a comprendere le parole. Comunque capì che si trattava di un uomo e di una donna.

E che erano impegnati in una discussione molto accesa.

Forse pure troppo accesa.

Chisame scrollò le spalle e riprese a leggere.

Quando una delle due persone che aveva sentito litigare, improvvisamente urlò.

Non era una parola gridata, ma un urlo strozzato.

A quel punto Chisame si preoccupò e si mise a scrutare l’appartamento di fronte attraverso il vetro.

Si vedeva chiaramente il soggiorno, illuminato ma deserto.

Poi sulla scena arrivarono due persone, un uomo e una ragazza con i capelli rossicci e vestita di bianco.

Lui teneva per i polsi lei, e sembravano impegnati in una lotta.

D’un tratto, con uno strattone la ragazza in bianco si liberò e colpì più volte l’uomo al petto, con un coltello.

Infine entrambi caddero a terra, e rotolando scomparvero dalla sua visuale.

Sconvolta, Chisame afferrò il telefono portatile.

****

“Ed è stata proprio lei a chiamare la polizia. Quando poi gli agenti l’hanno interrogata, l’ha identificata come la persona da lei vista nel momento del delitto” concluse Obata.

“Che follia” commentò Asuna portandosi una mano sul viso “Non c’è stata alcuna lotta. Quel bastardo mi aveva drogata. Ne sono sicura. Magari quando mi ha portato da bere. Di quando mi ha condotto nel suo appartamento, ricordo solo immagini, come in un sogno. Ma quando mi ha messo sulla poltrona, ho cominciato a riprendermi. E non appena l’ho visto avvicinarsi a me slacciandosi i pantaloni, ho capito. Mi sono alzata, mi sentivo le gambe deboli, lui ha cercato di afferrarmi. Mi sono concentrata, l’ho spinto indietro, e quando lui è tornato alla carica, chiamandomi ‘lurida puttana’ gli ho rifilato un calcio in bocca. L’ho imparato guardando i film di arti marziali. Lui è caduto a terra ed io mi sono diretta alla porta. E poi… poi…”

“Poi cosa?”

Asuna si mise le mani sulla testa. “Non… non lo ricordo. La mia memoria si blocca nel momento in cui metto la mano sulla maniglia. Poi… il buio”.

“Non ricorda cosa ha fatto?”

La ragazza scosse la testa.

“A questo punto, sembra doversi inserire la seconda testimonianza, quella del signor Ken Masters, rilasciata subito dopo quella di Hasegawa”.

****

Ken Masters aveva appena finito di fare sollevamento pesi.

Dato il suo lavoro, non aveva perso tempo a trasformare il suo nuovo appartamento in una sorta di mini-palestra perfettamente accessoriata.

Come ultimo tocco, aveva finito di ascoltare per la decima volta la canzone ‘Eye of tiger’.

Anche gli atleti hanno le loro credenze, e Masters credeva che, dopo l’allenamento, bisognasse sempre attendere la fine della canzone e non spegnere lo stereo non appena finiti gli esercizi.

Un gesto scaramantico.

Poi, una bella doccia e infine a nanna.

Gli atleti come lui dovevano rispettare programmi quotidiani precisi.

I corpi allenati, infatti, si acquistano con grande sforzo, ma basta un niente per perderli.

L’uomo quindi finì di ascoltare la canzone, e si preparò per la doccia.

Fu allora che udì qualcuno litigare, nell’appartamento sopra il suo.

A quanto pare erano un uomo e una donna, impegnati in una discussione molto accesa.

“Mah, Takahata sta litigando con la sua ultima fiamma?”

Riuscì a capire alcune parole e frasi brevi, del tipo: “Non puoi non pagarmi”, “Sei solo una puttana”, “Sparisci” o “Fottiti”.

Poi udì un urlo, dopo alcuni tonfi, come di corpi che cadono a terra.

A quel punto si preoccupò abbastanza.

Decise di andare a vedere cosa fosse successo, indossò un capotto e andò alla porta.

Proprio allora sentì qualcuno correre nel corridoio.

Aprì la porta e intravide una ragazza vestita di bianco e con capelli rossicci, correre via infilandosi per le scale.

La inseguì, ma raggiunto il piano sottostante, la figura era scomparsa.

****

“A quel punto ha deciso di chiamare la polizia. Ed è stato immediatamente informato che alcune pattuglie si stavano già dirigendo lì”.

“Io non ricordo quella corsa. Gliel’ho già detto: dopo che ho toccato la maniglia, tutto diventa buio per me. Mi sono risvegliata in quello sgabuzzino e concentrandomi ho chiamato la mia amica, Konoka Konoe” spiegò Asuna.

“Però, se lei era davvero sotto l’effetto di qualche droga, non può escludere a priori di aver davvero fatto quella corsa” replicò Obata.

“Be, penso di no… cioè… oh, al diavolo! Non ho nessun ricordo!”

Bussarono alla porta dell’ufficio, entrò un uomo che porse un fascicolo a Obata.

L’avvocato lo lesse, accigliandosi leggermente man mano che leggeva.

“Buone nuove?” domandò Asuna.

“No, non credo proprio” dichiarò con rammarico Obata “Questi sono i risultati degli esami tossicologici. Non hanno trovato delle tracce di sostanze chimiche. Unito al fatto che la polizia non ha trovato tracce di sostanze stupefacenti o simili nell’appartamento di Takamichi, le cose si mettono davvero male per noi”.

Asuna s’irrigidì. “Cosa sta dicendo? C’è la testimonianza di Konoka…”

“A cui credo. E anche un giudice e una giuria potrebbero crederle. Il guaio però è che essere in buona fede, non assicura la veridicità di ciò che si è visto”.

“Cioè, vuole dire che potrebbero accusarmi di aver fatto la commedia davanti a Konoka?!”

Serio, Obata annuì. “Purtroppo non ci sono vere prove che lei sia stata drogata. C’è solo la sua parola. Una cosa del genere, unita alle due testimonianze, rischia di farla apparire solo come carnefice. Potrebbero accusarla di aver ucciso Takamichi in preda alla collera, perché era la sua amante e lui voleva scaricarla. O peggio ancora…”

“Non lo dica!” urlò Asuna. “Io non sono una puttana!”

“E le credo!” rispose prontamente Obata. “Solo che l’accusa ha gli elementi necessari per farla condannare per omicidio, magari pure premeditato”.

Asuna si alzò e diede le spalle a Obata, stringendosi tra le braccia e chinando il capo.

L’uomo le andò vicino. “Si faccia coraggio. Studierò una strategia di difesa, io credo che lei sia innocente. E farà di tutto per farla scagionare. Intanto sono riuscito ad ottenere di anticipare al prima possibile l’udienza per fissare la cauzione, sperando grazie alla giovane età e alla fedina penale immacolata in una cifra ragionevole”.

“La ringrazio di cuore”.


Negi tornato a casa, era steso sul suo letto e piangeva.

L’incontro con quel misterioso L aveva fatto nascere qualche speranza.

Durata solo qualche secondo.

“Maledetto! Come si è permesso di dire quelle cose su Asuna?! Bastardo! Bastardo!”

Il ragazzo si sentì spiato e si voltò verso la porta, senza vedere nessuno.

Forse era sua madre.

Ma che gli importava ormai?

Tanto era sempre come se non ci fosse.

Solo Asuna c’era sempre stata per lui.

E ora che era nei guai, lui non sapeva come aiutarla.

Cosa poteva fare?

Farla evadere?

Sì, come no, un ragazzino di tredici anni che s’improvvisa maestro delle evasioni.

Non poteva neppure andare a trovarla da solo, perché al penitenziario difficilmente avrebbero fatto entrare un bambino neanche accompagnato.

Insomma, era inutile.

Poteva solo aspettare e pregare perché tutto si risolvesse per il meglio.


Il giorno dopo, Negi andò a scuola con l’espressione distrutta.

Aveva dormito poco, avendo passato molto tempo a piangere, e ora barcollava.

“Ehi Negi!” lo salutò da lontano Kotaro, per poi andargli subito incontro.

“Cavolo! Ma che hai fatto? Sembra che non dormi da una settimana”.

“Solo una nottata” precisò l’altro.

“Dimmi, com’è andata all’appuntamento?”

Negi strinse a pugno le mani. “Una stronzata! Tutto falso!” sbraitò.

“Eh? Sei sicuro?”

“Sì! E per favore, non parlarmene più!”

Kotaro alzò le mani. “Ok, ok”.

I due entrarono e cominciarono le lezioni.

Che a Negi non interessavano.

Si limitava a guardare fuori dalla finestra, verso il liceo.

Come faceva prima dell’inizio di quella dannata faccenda.

“Negi Springfield!” lo chiamò qualcuno.

Negi non se ne curò, non gliene importava nulla se l’insegnante lo riprendeva.

“Negi, c’è un pacco per te” lo avvertì Kotaro.

Davanti alla porta della classe era apparso un corriere, con indosso una tuta e un berretto rossi.

In mano aveva un pacco abbastanza grosso.

“Scusi” intervenne l’insegnante “Ma io sto facendo lezione”.

“Mi dispiace, signora. Ho ricevuto istruzioni di consegnare questo pacco a Negi Springfield qui e a quest’ora” spiegò il corriere.

La cosa destò la curiosità di Negi.

Con lieve irritazione, la donna acconsentì e li fece andare nella sala professori, in quel momento vuota, cosi la consegna del misterioso pacco non avrebbe disturbato le lezioni.

Rimasti soli, Negi cominciò a scartare il pacco.

“Non dovrei firmare una ricevuta?”

“Non deve. Semmai sono io che devo fare qualcosa per lei, signorino”.

“Eh?”

“Accetto il suo caso”.

Negi si bloccò: non solo per le parole, ma perché la voce del corriere era cambiata.

Alzò lentamente lo sguardo e scrutò l’uomo.

Il quale si tolse il berretto, cui era attaccata una parrucca di capelli castani.

Sotto quest’ultima, dei folti capelli neri.

Il falso corriere con la punta del dito si tracciò una linea a scendere, dall’occhio destro fino alla bocca: aveva la faccia truccata.

Sotto l’occhio s’intravedeva un forte coloro scuro, mentre il resto della pelle smascherata era molto pallido.

Infine l’uomo si toccò la base della colonna vertebrale, e come se fosse scattato un meccanismo, la sua posizione passò da perfettamente dritta a leggermente curvata in avanti.

Davanti a quest’ultima azione, venne a Negi la tentazione di ridere, ma lo stupore lo trattenne.

“L?!”

“Esattamente. Accetto il tuo caso. Mi dispiace delle parole di ieri, ma dovevo saggiare le tue intenzioni. E questa Asuna Kagurazaka merita una chance, poiché per lei hai pianto tutta la notte”.

“Eh? Come fa a saperlo?”

L prese un polso di Negi, lo sollevò e gli indicò un punto dell’orologio, affianco ad una delle piccole viti del cinturino.

Aguzzando la vista, Negi si accorse di un cerchietto sottile e grande quanto la punta di una matita.

“E’ un piccolo microfono” spiegò.

Negi rimase sbalordito: davvero facevano microfoni cosi piccoli?

“Ehi, un momento, vuole dire che ha spiato le mie parole a casa mia?!”

“Una cosa sbagliata ma nel mio mestiere necessaria. Dovevo sapere le tue intenzioni. Se studi una cosa la cambi. Quindi bisogna studiarla quando si esprime spontaneamente. Allora, accetti il mio aiuto?”

Negi si chiese se valeva la pena fidarsi di questo L.

Certo era un tipo quantomeno strano.

Ma anche intraprendente, forse pure troppo.

E comunque aveva delle capacità.

Pensò infine ad Asuna e il resto gli venne facile.

“Ci sto!”

“Bene, allora finisci di aprire il pacco”.

Negi obbedì: dentro il pacco c’erano due bastoncini, sui quali erano state infilate due fila di mele caramellate a mo di spiedini.

L prese uno dei bastoncini e cominciò a mangiare con calma.

Negi fece altrettanto.

E trovò tutto davvero buono.

 

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Capitolo 4
*** 4° Capitolo ***


4° CAPITOLO

Una volta finita la scuola, Negi volle subito cominciare le indagini con L.

Si trovavano in un vicolo poco distante dal Mahora.

“Sei certo di voler venire con me?” gli chiese il detective.

“Si! Non posso restarmene con le mani in mano mentre Asuna è nei guai!”

“Come vuoi. Ma le regole le fisso io, sia ben chiaro”.

“Chiarissimo”.

“Allora cominciamo stabilendo che tu verrai con me solo quando io te lo permetterò. Quindi continuerai ad andare a scuola la mattina. Tue assenze troppo prolungate potrebbero dare nell’occhio e guastare l’anonimato che mi è essenziale. E ogni pomeriggio, dovrai assicurarti di avere qualcuno che ti copra”.

“Ho un amico che sarà ben lieto di farlo”.

“E allora ci incontriamo oggi pomeriggio alle cinque. E mi raccomando, metti dei jeans azzurri”.

“Eh? Perché?”

Ma L era già sparito.


Negi, tornato a casa, chiamò subito Kotaro per informarlo degli ultimi sviluppi e creare insieme un piano di copertura.

Dopodiché attese trepidante il momento in cui avrebbero iniziato le indagini.

Accese la tv per sapere se c’erano state novità e non ne trovò.

La polizia era stata piuttosto abile nel nascondere le notizie alla stampa.

Intanto il nome di Asuna non era trapelato.

Si sapeva solo che la persona sospettata era una ragazza, un elemento sul quale i media si erano subito scatenati con illazioni tra le più varie, che andavano dall’amante fino alla sorella nascosta o alla figlia segreta.

Non si conosceva neppure il volto della ragazza.

Quella era un’altra buona cosa.

Cosi, quando Asuna sarebbe stata per forza scagionata, non avrebbe passato il resto della vita additata come una possibile assassina.

Ora bisognava passare al contrattacco e per farlo era prima necessario coprirsi.

Perciò, arrivata l’ora X, prese il telefono. “Kotaro, sono io. Allora è tutto pronto?”

“Affermativo. Vieni a casa mia, poi da lì andremo al cinema. Uscirai di nascosto usando una porta d’emergenza. Ufficialmente, per tre ore e mezza, tu starai con me al cinema. Verso le otto e mezza, rientrerai dalla stessa porta. Ricordati di farmi il segnale. Uao, è supereccitante! Mi sembra di essere in un film!”

“Cerca di non montarti la testa. Ora vengo” disse Negi chiudendo il telefono.

Uscendo di casa, vide la madre seduta nel soggiorno e impegnata nell’ennesima telefonata d’affari.

“Mamma, io vado al cinema con Kotaro”.

La donna gli fece un gesto con la mano, come a dire ‘ok’, dopodiché si rituffò nella telefonata.

Negi sospirò rassegnato e se ne andò.


Il piano andò come prestabilito. Kotaro rimase nel cinema a vedersi due film di Godzilla in successione, mentre Negi alla chetichella uscì da una porta antincendio e raggiunse la casa di L.

Il suo ‘capo’ lo attendeva davanti all’ingresso, con uno zaino sulle spalle.

E stava sgranocchiando dei biscotti.

“Sono qui” annunciò Negi.

“Bene. Per prima cosa ci recheremo sul luogo del delitto” dichiarò L.

Sotto la scalinata c’erano due biciclette con la quale si diressero verso il palazzo di Tokyo-Sol.

“Andiamo a cercare prove?” domandò Negi.

“Foffio fefificafe feffe fofe” rispose L con un leccalecca in bocca.

“Come prego?”

L si tolse il dolce dalla bocca. “Voglio verificare delle cose”.


L riprese a sgranocchiare i suoi biscotti. “Allora, il primo soggetto è Chisame Hasegawa. Il nome non ti dirà niente, perché forse la conosci come Chiu”.

“La idol e presentatrice di quei programmi per bambini?”

“Esatto. E’ lei che afferma di avere visto Asuna colpire a morte Takamichi”.

Dicendo questo, L iniziò ad andare avanti e indietro.

Negi seguiva col capo i movimenti di L. “Ha intenzione di parlarle?”

“Non necessariamente. E poi sarebbe difficile. Hasegawa è una persona molto gelosa della sua privacy. In studio è sempre solare e allegra, ma nella vita di tutti i giorni è una persona seria e posata. Persino il gossip non ha quasi niente su di lei. Quel tipo di giornalisti sono molto bravi a inventare di tutto basandosi su qualche dettaglio. Ma la cura di Hasegawa nei confronti della propria immagine è maniacale, la serietà con cui affronta la carriera è totale, e loro restano quasi sempre a bocca asciutta. Le poche foto sulle riviste la mostrano mentre passeggia o mangia qualcosa al bar. Niente che possa dare addito a pettegolezzi”.

Negi annuì. “Capisco. Però vorrei che mi spiegasse una cosa”.

“Ovvero?”

“Perché per dirmi queste cose sta camminando sulla ringhiera a ottanta metri dal suolo?!”

I due infatti si trovavano sul tetto del palazzo dove era stato compiuto l’omicidio.

Il tetto era anche una terrazza, circondata da un’alta ringhiera dalla quale si godeva una visione panoramica di Tokyo.

Ed L stava camminando avanti e indietro proprio su quella ringhiera.

Con assoluta calma, sgranocchiando biscotti e col vento che gli arruffava i capelli.

Negi era inebetito: voleva dirgli di scendere.

Ma se quella mossa fosse stata collegata alle indagini?

E se cercava di afferrarlo per farlo scendere, non avrebbe invece corso il rischio di farlo cadere?

“Insomma, L, sono già quindici minuti che sta passeggiando su quella ringhiera! Cosa vuole fare?”

“Zuccheri e aria fresca. Un mix vincente” rispose lui con semplicità.

Negi cautamente si avvicinò alla ringhiera.

Più il tempo passava, più si innervosiva.

“Fai attenzione che non ti cada nulla di sotto” lo avvertì L.

Negi guardò giù e vide un piccolo gruppo di persone alla base del palazzo.

Concentrando vista e udito, intravedeva i gesti e udiva un mormorio indistinto.

Tuttavia già immaginava cosa stessero dicendo.

Poi vide una persona, una ragazza, appoggiarsi alla parete-finestra di un appartamento del palazzo che affiancava il loro.

L’appartamento si trovava più in basso rispetto ai due, subito sotto il tetto adiacente.

La ragazza li osservò, e scosse la testa.

A quel punto L sembrò cadere di lato.

Verso il vuoto.

Dalla piccola folla sottostante giunse, lievemente, un grido.

Negi si protese per afferrare quello sconsiderato di L.

Che però, dandosi la spinta con la gamba nel vuoto e usando come perno la gamba ancora appoggiata sulla ringhiera, fece una rotazione su se stesso, modificò la traiettoria di caduta e cadde in piedi sul terrazzo.

Tutto era avvenuto cosi rapidamente che Negi stava ancora con le braccia protese verso un punto ora vuoto.

L tirò fuori dallo zaino una maglia bianca uguale alla sua.

“Il colore dei jeans va bene. Metti la maglia”.

Quando Negi ebbe finito L, continuando a mangiare biscotti, disse “Scendiamo di sotto”.

Allibito, Negi lo seguì.

Una volta scesi dal palazzo, L disse a Negi di andare avanti, attraversando la strada che separava i due palazzi.

E alcune persone, di quelle che si erano raggruppate per assistere allo strano spettacolo, prima sembrarono riconoscerlo, poi scossero la testa, dicendo che era troppo piccolo.

Dopo anche L attraversò la strada, e lui fu riconosciuto, attirandosi mormori di disapprovazione.

L non se ne curò, intento com’era a mangiare biscotti.

E Negi non volle chiedergli niente quando arrivò, perché non sapeva cosa dire.

Entrati nel secondo palazzo, salirono con l’ascensore fino all’ultimo piano.

“Bene, Negi. Ora è il tuo turno” dichiarò L.

“Ovvero?”

Da una tasca, L trasse un piccolo taccuino con penna annessa.

“Vai a quella porta e bussa” ordinò consegnando il tutto a Negi.

Che perplesso obbedì, mentre L andò a nascondersi nelle scale affianco all’ascensore.

Il ragazzino bussò e poco dopo la porta venne aperta da una bella ragazza, vestita in modo casual e con lunghi capelli castani raccolti in una coda di cavallo.

“E tu chi saresti?” domandò la ragazza squadrando il ragazzino da capo a piedi.

“Io… ehm… ecco… io..” balbettò Negi.

La giovane puntò gli occhi sul taccuino.

“Oh, immagino che tu sia un mio piccolo fan, eh?” disse grattandosi il naso.

Prese il taccuino, scrisse qualcosa e lo riconsegnò a Negi facendo un lieve sorriso.

“Ora torna a casa, piccolo” concluse la ragazza chiudendo la porta.

L fece cenno a Negi di raggiungerlo.

Negi guardò il taccuino. C’era scritto: “Con affetto, Chiu!”

“Quindi quella era Hasegawa!” esclamò Negi. “Cavolo, io conosco Chiu, ma al naturale è cosi diversa rispetto a come appare in TV”.

“Esatto. Ora tocca a me. Tu nasconditi” dichiarò L tirando fuori dallo zaino una cartelletta e un paio di occhiali.

Li indossò coprendo del tutto le sue occhiaie.

Poi premette un punto alla base della sua schiena, che magicamente diventò dritta.

“Urca!” esclamò Negi.

Gli venne il sospetto che L avesse una colonna vertebrale meccanica.

E l’idea lo fece sorridere.

Con calma L andò alla porta di Hasegawa e bussò.

La ragazza tornò ad aprire.

“E lei chi è?” domandò guardinga.

“Salve, sto facendo una raccolta di fondi per i bambini orfani. Mi potrebbe dare un’offerta?” domandò L.

“Ma che sta dicendo?” pensò Negi stupito.

Intanto Chisame, inarcando un sopraciglio, squadrò L da capo a piedi, poi si guardò intorno e dalla tasca trasse una mazzetta di banconote.

“Tenga. Donazione anonima” precisò Hasegawa richiudendo la porta.

L tornò da Negi.

“E allora?” domandò incuriosito quest’ultimo.

“Andiamo a fare merenda” rispose L “Ha offerto lei”.

E superò Negi andando verso l’ascensore.


Il primo film di Godzilla non stava entusiasmando molto Kotaro.

La parte iniziale era stata piuttosto lenta, anche se gli insettoni preistorici non erano male.

Sperò comunque che arrivato il momento dello scontro tra i medesimi insettoni e il mitico Big G, le cose sarebbero migliorate.

Guardò l’orologio.

Erano le sette e mezza e a Negi restava solo un’ora per tornare al cinema.

Dopo di che, appena giunto dietro la porta da cui era uscito, l’amico gli avrebbe fatto un segnale e Kotaro sarebbe andato ad aprirgli.

Ma era una cosa che andava fatta finché durava il film.

I movimenti si notano poco nel buio della sala.

Che comunque avevano scelto ad un orario in cui era poco affollata.

Kotaro si chiese se non la stessero facendo troppo pesante.

Ma Negi era stato categorico: la misteriosa persona che aveva contattato per aiutare Asuna, voleva restare nell’anonimato più assoluto, quindi niente azioni che avrebbero potuto in qualche modo collegarli.

Poteva solo aspettare quindi, sperando che l’amico non si ficcasse in guai grossi.

D’altronde era anche una sua responsabilità, visto che lui aveva indirizzato Negi verso quel misterioso sito.

Intanto arrivò il momento dello scontro tra Godzilla e lo sciame di insettoni.

“Vai Big G! Bruciali tutti!” esclamò il ragazzino.


Negi fissò sbalordito L: sembrava una macchina divoratrice di zuccheri!

Nella mezz’ora in cui erano stati in quel bar, L, seduto con i piedi sulla poltrona, aveva già mangiato quattro ciambelle, cinque cornetti, due coni gelato, tre leccalecca e adesso stava gustando una grossa fetta di torta alla panna.

Particolare poi il modo in cui teneva il cucchiaino per la torta: lo reggeva per un’estremità usando solo la punta di due dita.

La sua voracità era tale che Negi, accontentatosi di una sola fetta di torta, non gli aveva chiesto niente su di lui e sulle strane azioni compiute poco prima.

Né, d’altronde, L sembrava intenzionato a parlare, essendo solo concentrato sul cibo.

Un’altra cosa che colpiva era che L mangiava mantenendo sempre un espressione impassibile.

Niente versi o smorfie da ghiottone.

Bensì uno sguardo serio e controllato, come un chirurgo che effettua un’operazione.

Lo strano detective chiese poi un caffè e il conto.

E quando il cameriere gli portò un vassoio con la tazza e il porta zucchero, L prese il caffè e lo verso in quest’ultimo, mescolò col cucchiaio tenuto sempre per l’estremità, bevve tutto di un fiato facendo attenzione a non dimenticare neppure un granello di zucchero, lesse il conto e pagò in contanti il perplesso cameriere.

Infine uscì, seguito a ruota da Negi.

“Ehm” azzardò quest’ultimo “Non pensa che tutto questo zucchero possa farle male?”

“Lo zucchero è indispensabile per il cervello. E per la mia salute non mi preoccupo. Fino ai trent’anni circa, il metabolismo regge perfettamente tale ritmo” fu la risposta.

“Sarà. Comunque…”

“Eccolo” indicò L.

Mentre la giornata cominciava a volgere al termine, una grossa auto sportiva entrò nel parcheggio sotterraneo del palazzo dove era avvenuto l’omicidio.

L e Negi vi rientrarono, presero l’ascensore e salirono fino al penultimo piano.

Poi si nascosero nella tromba delle scale.

Poco dopo, da un altro ascensore, arrivò un uomo alto e molto robusto, con indosso un completo sportivo e capelli biondissimi.

Fischiettando lo sconosciuto entrò in uno degli appartamenti.

“Quello è il secondo testimone, Ken Masters” spiegò L prevenendo Negi. “E’ appena rientrato dagli studi televisivi, dove tiene un programma sugli sport e sul culturismo. E’ un uomo che tiene molto al suo fisico e alla sua immagine di grande sportivo. L’anno scorso ha vinto il premio come sportivo giapponese dell’anno. Questo perché si è ripreso splendidamente da un brutto incidente automobilistico, tornando come prima. E anche lui tiene molto alla sua privacy”.

“Capisco”.

“Andiamo al piano di sopra” ordinò L.

Giunsero davanti all’appartamento dove era avvenuto l’omicidio, ancora sigillato dai nastri della polizia.

Vedendo quel luogo, Negi sentì aumentare l’angoscia per Asuna.

“Aspetta qui” disse L tornando al piano di sotto.

Negi cominciava a non capirci più niente.

Che senso aveva tutto quello che stavano facendo in quella giornata?

Tanto più che il film di Godzilla sarebbe finito tra venticinque minuti, rischiando cosi di far saltare la copertura.

Poi udì dei tonfi lontani, quindi la voce di L: “Corri qui!”

Pur non capendo, Negi eseguì l’ordine e correndo scese al piano sottostante, vide L che gli faceva cenno di andare verso le scale, e una volta raggiunte L lo mise dietro di se e scesero di un piano.

Dopo un po’, udirono una porta aprirsi, dei passi, un ‘Mah!’ e la porta che si chiudeva.

Ritornarono al piano superiore.

“Bene” commentò L “Ora voglio che correndo fai il percorso inverso. E quando passi davanti alla porta di Masters, bussa forte e grida aiuto. Poi scappa fino all’appartamento di Takamichi”.

Negi era sempre confuso, ma obbedì ancora.

Scattò in avanti, si fermò alla porta di Masters, batté forte gridando: “Aiuto! Mi aggrediscono! Aiuto!” e poi corse fino al piano superiore, fermandosi col fiatone davanti alla porta di Takamichi.

Poco dopo, sentì leggermente la porta di Masters aprirsi, poi un’imprecazione, probabilmente, e infine la porta che si chiudeva bruscamente.

L raggiunse Negi, con in bocca un nuovo leccalecca. “Afufa è fuafi fifufafenfe fiffofenfe”.

“Eh?!”

L si tolse il leccalecca. “Scusa. Il gusto ciliegia mi aiuta molto. Dicevo che quasi sicuramente Asuna è innocente”.

“Quasi?! Davvero?”

“Be, esiste un 1% di possibilità contrarie, comunque penso proprio che lo sia”.

“E su cosa si è basato?” domandò Negi.

Sprizzava una confusa euforia da tutti i pori.

“I testimoni non sono attendibili” riprese L “Partiamo dal primo e più importante testimone: Chisame Hasegawa.


Orbene, Chisame Hasegawa è miope. Non è in grado di distinguere bene le figure oltre una certa distanza. Infatti non è riuscita a riconoscere noi due nonostante prima, sul tetto, fossimo a solo quaranta metri di distanza da lei. Mentre le persone in basso sono riuscite a riconoscerci nonostante fossero a ben ottanta metri di distanza. Quando poi ha aperto la porta davanti a me ho riconosciuto sul suo naso i segni, leggeri, degli occhiali.

Non ha riferito alla polizia questo particolare a causa della sua carriera: Chisame Hasegawa tiene molto alla sua bellezza, al suo apparire, ritiene che gli occhiali stonino troppo. Per questo cerca di tenerli nascosti. Sul lavoro e fuori casa usa delle lenti a contatto. Indossa occhiali solo quando è in casa e anche in quel frangente fa sempre attenzione a non farsi beccare mentre li ha indosso. Neppure se deve affacciarsi alla finestra. O se ha di fronte un bambino che desidera solo un autografo. Per lo stesso motivo è impossibile che qualcuno possa sapere di questo suo difetto.

Sono sicuro che lei ha visto effettivamente qualcosa quella sera, ma si trattava di una sfocata figura bianca che colpiva un’altra figura sfocata.

E’ stato il litigio che afferma di aver udito prima del delitto a rafforzare la sua sicurezza di poter testimoniare tenendo nascosto il suo problema.

Lo stesso riguarda Ken Masters, perché ha la stessa mentalità, lo stesso desiderio di apparire perfetto per non perdere pubblico.

E grazie anche al riserbo con cui ha circondato la sua vita privata, nessuno immagina che l’incidente di un anno fa ha lasciato invece il segno, sulla sua gamba destra.

Ho esaminato la sua cartella clinica e scoperto che se prova a camminare normalmente, in teoria ci riesce, ma a prezzo di dolori lancinanti. Per questo fa incetta di antidolorifici quando deve apparire in tv, lo sportivo dell’anno non può permettersi di farsi vedere zoppicare.

Quando è in casa, la faccenda è diversa, si rilassa e non usa gli antidolorifici.

In tal caso però, è obbligato a zoppicare, quindi la sua velocità diminuisce.

Una persona che corre dall’appartamento di Takamichi fino alle scale di questo piano, ci impiega dai ventotto ai trenta secondi.

Masters per arrivare alla porta ci ha messo la prima volta quarantasette secondi, scesi a quaranta quando sembrava che ci fosse un’emergenza. Quindi mi risulta difficile credere che la notte dell’omicidio sia riuscito a intravedere la figura dell’assassino o assassina. Al massimo può aver sentito qualcuno scendere lungo le scale.

Anche lui ha creduto di poter testimoniare venendo convinto dal litigio udito prima.

E inoltre, conosceva i dettagli perché glieli ha rivelati Hasegawa. Stando al rapporto della polizia, i due si sono presentati insieme al commissariato. Probabilmente lei ha detto a lui cosa ha visto, permettendo quindi a Masters di avere dei particolari da riferire. E lui ha riferito le stesse cose di Hasegawa, usando le stesse parole.

La loro testimonianza, unita alla visione dei filmati della festa, ha fatto fare uno sbagliato due più due alla polizia”.


“Incredibile” mormorò Negi “Ma se quei due non erano testimoni attendibili, perché diavolo hanno testimoniato?”

“Dovere di bravi cittadini. Una buona cosa, che purtroppo in loro è stata contaminata dal divismo” spiegò L.

“Se le cose stanno cosi, allora possiamo far scagionare Asuna!”

“Meglio di no, per ora”.

Negi rimase di sasso. “E perché?”

“E’ tutto troppo studiato. Non trovi strano che due personalità famose, entrambe con degli handicap e molto attente alla loro fama, pronte anche a mentire ‘innocentemente’ pur di non danneggiare quest’ultima, si siano trovate nello stesso momento ad essere testimoni dello stesso delitto? Qualcuno una volta disse che due coincidenze fanno un indizio. L’indizio è che Asuna è stata incastrata”.

“Incastrata? Non può essere. Chi può avere interesse a farla finire in prigione?”

“Lo scopriremo. Comunque, dato che qualcuno trama nell’ombra contro Asuna, allora è meglio se resta in prigione, dove sarà al sicuro. Farla tornare in strada potrebbe renderla un bersaglio. Non dimentichiamo che comunque c’è un assassino in questa storia”.

“Mi sa che ha ragione” ammise Negi chinando il capo. Gli occhi caddero sull’orologio. “Cavolo! Il secondo film sta per finire! Devo tornare al cinema”.

“Ci vediamo domani, stesso luogo e stessa ora. Indagheremo su come Asuna è finita a quella festa” disse L tirando fuori un altro leccalecca.

Negi annuì e corse via.


Sullo schermo avevano cominciato a scorrere i titoli di coda.

E Kotaro aveva iniziato ad innervosirsi: dove era finito Negi?

Probabilmente se la stava prendendo troppo, in fondo erano solo due ragazzini in un cinema.

Però quella era una faccenda di omicidio, quindi non voleva correre alcun rischio.

Finalmente dal suo cellulare arrivò uno squillo con il numero di Negi.

Sollevato, Kotaro si alzò alla chetichella e si diresse verso la porta d’emergenza, l’aprì ed entrò trafelato Negi.

Ritornarono ai loro posti e le luci in sala si riaccesero nell’istante in cui si sedettero.

Kotaro fece un sospiro di sollievo. “Uff, per un pelo. Come è andata?”

“Bene. Molto bene” rispose raggiante Negi.


Nota dell'autore: l'idea dei due testimoni invalidi e ingannati dal litigio l'ho presa dal bel film 'La parola ai giurati' con Jack Lemmon.

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Capitolo 5
*** 5° Capitolo ***


5° CAPITOLO

“Sono già quattro giorni” commentò Negi mentre preparava la cartella.

Quattro giorni senza poter vedere la sua Asuna.

E chissà cosa stava pensando lei in quel momento.

Si sarà sentita abbandonata?

No, mai! Lui non l’avrebbe mai abbandonata.

Però doveva dimostrarglielo.

E sua madre non voleva accompagnarlo, era ormai evidente.

Sempre impegnata nei suoi affari, e ad ogni tentativo, come pure quella stessa mattinata, rispondeva che in quel momento non aveva tempo.

Non aveva mai tempo.

Basta, Negi non l’avrebbe più aspettata.

E proprio in quel momento si ricordò che c’era una persona capace di accompagnarlo da Asuna.

Ovvero Konoka.


Quando la scuola era da poco finita, e mancavano almeno quattro ore all’appuntamento con L, prima di tornare a casa Negi aveva chiesto a Kotaro di accompagnarlo dall’amica di Asuna.

Tuttavia, a causa di un contrattempo, l’amico poté accompagnarlo quando non mancava molto all’appuntamento col detective.

“Ho comunque il tempo di chiederle questo favore” pensò Negi.

Kotaro si era inizialmente eccitato, perdendo subito entusiasmo quando gli fu spiegato che L non c’entrava nulla.

Negi salì le scale per l’appartamento di Konoka: la ragazza abitava in un attico molto lussuoso, all’ultimo piano di un palazzo di proprietà della famiglia Konoe.

Cosi Eishun Konoe si era assicurato che la figlia non avesse problemi col vicinato.

Il ragazzo si annunciò al citofono e Konoka andò subito ad aprire.

“Negi, che piacere vederti!” esclamò lei abbracciando con forza l’ospite.

“Off, piacere mio. Come stai?”

Konoka lo fece accomodare. “Di salute, bene”.

“Capisco”.

L’appartamento era molto sobrio e raffinato, uno spazio luminoso dove il colore dominante era il bianco. Al centro c’era un grande divano a pois, con cinque cuscini dello stesso colore a coprire lo schienale. Il pavimento era coperto da una morbida moquette bianca. Sul camino c’era una serie di foto che ritraevano Konoka con varie persone amiche.

Negi, sedendosi vicino al divano, diede un’occhiata: lui si aspettava che la maggior parte delle foto riguardassero Asuna. Ma anche se c’era, quasi tutte le foto mostravano la Konoe insieme ad una bella donna, più grande di lei e dall’aria molto professionale.

“Vuoi che ti prepari the e pasticcini?” domandò la padrona di casa.

“No, grazie” rispose Negi, notando come la ragazza avesse gli occhi un po’ arrossati.

“Se vede che è preoccupata per Asuna. Del resto, è stata lei a chiederle di accompagnarla a quella festa, quindi si sente responsabile. E’ davvero una persona sensibile” pensò lui.

Tale pensiero lo incoraggiò. “Senti Konoka, vorrei chiederti un favore”.

“Quale?”

“Mi accompagneresti a trovare Asuna? Ho il forte sospetto che a mia madre non interessi”.

A quelle parole, Konoka impallidì. “Perché… lo chiedi a me?”

“Se andassi da solo, non mi lascerebbero entrare. Ho bisogno di una persona maggiorenne. E poi, tu tieni ad Asuna quanto me, siete amiche, quindi la tua vista la rincuorerebbe di sicuro”.

“Be, questo può essere… tuttavia, io non posso”.

“Eh? E perché?”

“Perché… perché ho da fare. Anzi, proprio adesso mi sono ricordata che ho un appuntamento urgente”.

Konoka tirò fuori una borsetta e sembrò controllare un block notes.

“Ho tanto da fare, torna un’altra volta! Adesso non ho tempo” disse a Negi quasi supplicandolo.

Negi inizialmente rimase assai sorpreso, ma durò poco.

Perché sentendo quelle frasi, già troppe volte sentite a casa sua, qualcosa scattò dentro di lui.

“Adesso basta!” tuonò Negi balzando in piedi.

Konoka sussultò a quella reazione.

“Ma si può sapere cosa vi ha fatto la povera Asuna?! Prima mia madre, adesso tu! Perché, perché volete abbandonarla al suo destino?! Siete talmente disinteressate a lei che non vi preoccupate neppure di trovare una scusa decente!

Mi fate schifo! E mi fai schifo soprattutto tu! Quante volte Asuna ti ha aiutato? Non siete amiche sin da quando eravate piccole? Tutte le volte che ti ha protetta, non contano niente per te? Sembra di no, visto che non vuoi andarla a trovare! E un avvocato, per Asuna non hai voluto trovarlo, vero?!

Te ne freghi di Asuna, proprio tu che tra l’altro sei responsabile di averla accompagnata a quella dannata festa!

Sei un essere spregevole, sei…”

Il rumore di uno schiaffo interruppe lo sfogo di Negi.

Konoka fremeva e piangeva a dirotto. “Come osi?! Dannato moccioso, come osi dirmi questo?! Cosa ne sai della mia vita, di quello che ho passato? Asuna mi ha oppresso, ma comunque le voglio bene. Io non volevo che finisse cosi! E ora fuori! Fuori da casa mia!!” urlò indicando la porta.

Negi, ammutolito e toccandosi la guancia colpita, uscì.

Ritornò da Kotaro.

“Che hai fatto alla guancia?” chiese lui.

“Niente” rispose Negi.


All’orario fissato, e sempre con la copertura ‘cinematografica’ di Kotaro, Negi si recò da L.

Trovò lo strano investigatore seduto, con i piedi nudi sopra la sedia, davanti ad alcuni monitor.

Le gambe erano piegate fino al petto, le mani posate sulle ginocchia, il volto protesto verso gli schermi.

Circondato da vassoi di dolci, L in quel momento stava rimuginando intensamente.

“L, sono…”

L lo bloccò alzando un braccio, poi gli fece cenno di avvicinarsi.

Facendolo, Negi si accorse di cosa L stesse guardando: erano filmati a colori di una festa, con tanto di sonoro, anche se giungeva solo come brusio indistinto.

In un salone che a Negi sembrò familiare.

In un angolo dello schermo, c’era la data.

“Ehi, ma quella… non sarà mica la festa dove è avvenuto l’omicidio?”

“Si” rispose L senza distogliere lo sguardo.

“Dove ha trovato questi filmati?”

Con quella domanda, Negi si rese conto di altri strani dettagli cui in precedenza non aveva dato peso: come faceva L a sapere cosa avevano testimoniato Hasegawa e Masters? E come aveva ottenuto la cartella clinica dell’uomo?

La polizia aveva messo una barriera alle informazioni, per impedire il caos mediatico.

Nessuno conosceva i dettagli.

L prese alcuni confetti, iniziando a mangiarli uno alla volta. “Ho le mie fonti. Successo niente, oggi?”

“Perché me lo chiede?”

“Hai la guancia rossa”.

“E come fa a saperlo? Non si è mai voltato verso di me”.

L indicò uno dei pochi monitor spenti.

Sulla sua superficie era riflessa l’immagine di Negi.

Tuttavia era una superficie piuttosto scura, quindi non era proprio come guardare in uno specchio.

Eppure…

“Incredibile!” pensò Negi toccandosi quella guancia.

“E’ stata tua madre?”

La domanda di L sorprese Negi. “No, non è stata lei. E poi, come fa a sapere che sto con mia madre?”

“Questo non lo sapevo” ammise L “Tuttavia il rossore dimostra che si tratta di uno schiaffo recente. Difficilmente possono avertelo dato a scuola, sei un ragazzino troppo beneducato, più probabile che sia successo dopo la scuola. E la quantità di rossore indica che si è trattato di una mano femminile. Un maschio avrebbe lasciato un segno maggiore”.

“Niente male. Comunque non è stata mia madre. Non ne avrebbe nemmeno l’occasione”.

“Problemi con lei?”

“Anche se fosse, non sono affari suoi”.

“Si, hai problemi. Dimmi solo una cosa: tu sei nato dopo nove mesi dal matrimonio?”

“Be, si”

“Quindi non sei nato né troppo presto né troppo tardi?”

“Si, ma cosa c’entra?”

A quel punto accadde una cosa strana: L sorrise.

Un sorriso rassicurante.

E cosa ancora più incredibile, gli mise una mano sulla testa e delicatamente ci picchiettò sopra col palmo.

Un gesto che di solito si fa con i cani, ma viste le stranezze di L, era ovvio che non intendeva offendere.

Quello era un gesto di affetto.

“Tranquillo, tutto si sistemerà. Dai tempo al tempo”.

Prima che Negi potesse dire qualcosa, L ritornò serio e dai confetti passò ad altri dolcetti. “Hai parlato con una persona che poi ti ha colpito?”

“Si”.

“E come mai? Riguarda Asuna?”

“Infatti. E’ la persona che Asuna ha accompagnato alla festa”.

“Ovvero Konoka Konoe”.

“Come lo sa? No, non lo dica… ha le sue fonti”.

“Esatto. Avete litigato?”

Mentre Negi raccontava, L poggiò la punta del pollice sul labbro inferiore.

“Fino a ieri” continuò Negi “ non avrei mai sospettato di Konoka. Voglio dire, mi è sempre sembrata una persona onesta e sensibile, nonché grande amica di Asuna, che sin da quando erano piccole l’ha sempre protetta e aiutata. E invece… “

“Interessante” commentò L versandosi del the in una tazza, in cui infilò alcuni cubetti di zucchero. Poi mescolò il tutto usando un leccalecca a gusto the. “Soprattutto la reazione di Konoka: rabbia e lacrime. E le ultime due frasi: ‘Asuna mi ha oppresso, ma comunque le voglio bene’ e ‘Io non volevo che finisse cosi!’. Come se, secondo le sue intenzioni, sarebbe dovuto succedere altro”.

“Sta insinuando che Konoka ha voluto incastrare Asuna per omicidio e poi si è pentita?”

“La prima cosa, no. La seconda, si. Hai notato altri particolari?”

“Be, che forse Asuna non è neppure la sua migliore amica. A casa sua, Konoka tiene tante foto, e la maggior parte la ritraggono con una donna che non conosco, più grande di lei ”.

L si voltò di scatto verso Negi. Lo guardò con occhi penetranti. “Sapresti riconoscere quella donna?

“Ecco” Negi arrossì per l’imbarazzo “Penso di si”.

Premendo i tasti del computer con solo la punta degli indici, L attivò dei programmi di ricerca, e i filmati della festa iniziarono a scorrere avanti.

Inoltre ci fu uno zoom che permetteva di scorgere i volti.

Ma anche cosi per Negi erano solo una massa di volti anonimi che si muovevano a velocità innaturale.

“Eccola!” esclamò L.

Zoomando ulteriormente, inquadrò Konoka che stava parlando con una persona, una donna.

“E’ lei?” chiese L.

“Si. Ehi, quella è Asuna!” esclamò Negi.

Vedendola in quelle immagini, ancora felice, sentì una stretta al cuore.

E accarezzò lo schermo.

I due videro Konoka ricevere un bicchiere dalla sua conoscente e portarlo ad Asuna.

Poi si vide Takamichi accompagnare Asuna fuori dal salone, Konoka si riavvicinò alla donna con cui si era intrattenuta prima. La conoscente però era andata al bagno insieme ad un uomo.

Visto ciò, Konoka cominciò a gironzolare per la sala.

L’ora del video indicava che erano le undici e trentaquattro.

Dieci minuti dopo, gli invitati si spostavano all’esterno, ma Konoka rimase dentro, passeggiando senza una meta.

Alle undici e cinquantotto le suonò il cellulare, la ragazza lasciò la sala.

E non apparve più.

L fece tornare l’immagine su quella donna, mise in pausa e la scrutò, mettendosi di nuovo il pollice sul labbro.

“Quella è una famosa giornalista, e lavora per Sakura Tv” spiegò il detective “Si chiama Kiyomi Takada. La sua presenza lì è dovuta al fatto che Sakura Tv era tra gli sponsor della festa. Questo perché è tra i finanziatori di Tokyo-Sol. Parecchie personalità di quella rete erano a quella festa. E…”

Il volto di L si illuminò: muovendo le dita con incredibile agilità richiamò alcuni dati: il curriculum di Masters e Hasegawa.

“Entrambi sono diventati famosi lavorando a Sakura Tv. Come pure Takamichi. Poi hanno cambiato rete, ma questo non impedisce che siano rimasti vecchie amicizie. Il cambio di rete è avvenuto sette mesi fa e loro si sono trasferiti in quegli appartamenti, secondo i dati, proprio sette mesi fa. Takamichi solo due mesi fa”.

“Sta dicendo che quella Takada può c’entrare con l’omicidio?”

“Vedremo. Intanto vediamo cosa ha fatto durante la festa”.

Le immagini tornarono indietro, lo zoom si concentrò su Takada e il suo accompagnatore.

La donna, che aveva una grossa borsetta, entrò in uno dei bagni, mentre l’uomo, piuttosto corpulento, con occhiali e baffi, rimase fuori ad aspettarla.

Aspettando, fermò uno di passaggio e gli chiese qualcosa.

“Non si sente niente” obbiettò Negi.

L premette altri pulsanti: sull’immagine si aprì una finestra, attraversata da una linea rossa deformata da picchi.

Apparve poi un’altra linea, collegata da una freccia al punto del filmato che interessava loro.

La seconda linea fece sparire la prima.

“Ho isolato, dai rumori della festa, quelli che ci interessano” spiegò L.

“Dove li prendi tutti questi congegni?”

L guardò Negi e sfoderò uno strano sorriso, da bambino furbetto.

Poi tornò a concentrarsi sul filmato.

****

L’uomo sembrava fare la guardia al bagno dove si trovava Takada.

Fermò una persona che passava di lì.

“Scusi, ha una sigaretta?”

“Certo” rispose l’altro porgendogliene una da un pacchetto.

“Scusi un momento, chiedo anche al mio capo”.

Aprì lievemente la porta, infilando di poco la testa nella spazio creatosi e mise una mano sul bordo della porta, con le dita piegate verso l’interno del bagno, per tenerla ben ferma.

“Miss Takada, vuole una sigaretta?”

“No, grazie, è meglio se non fumo” rispose una voce di donna proveniente dall’interno del bagno.

“E’ sicura che non vuole aiuto?”

“Tranquillo, Demegawa. Sono sicura che tra poco mi passerà”.

Demegawa congedò l’uomo delle sigarette. “Sarà per la prossima volta”.

Rimasto solo, continuò ad aspettare.

Un gruppetto di signore si avvicinò al bagno. “Oh, scusate, signore. Ma devo chiedervi di aspettare o di usare un altro bagno” intervenne lui.

“E perché, scusi?” domandò una delle invitate.

“Il bagno è occupato da una persona molto gelosa della sua privacy”.

“Ovvero?”

“Kyomi Takada”.

A quel nome, le signore si guardarono e si allontanarono.

Finalmente Takada uscì dal bagno.

“Mi potresti dare un bicchiere d’acqua?”

“Subito”.

Demegawa fermò uno dei camerieri che stava per raggiungere gli ospiti da poco usciti.

Prontamente il cameriere andò a prendere una bottiglia d’acqua e un bicchiere e li porse a Demegawa, che a sua volta li portò alla Takada, in attesa davanti alla porta del bagno.

Dopo aver bevuto, i due raggiunsero gli altri ospiti.

****

“In quel momento erano le undici e cinquantanove” annotò L.

“Sembra che possiamo escludere anche lei” disse Negi.

“Andiamo” disse L.

“E dove?”

“Al palazzo della festa. D’altronde il bar di ieri sera era davvero ottimo”.


“La situazione sta diventando troppo pesante! Basta!” esclamò Konoka al telefono.

“Cara, ti ho già detto di avere pazienza. Le cose andranno bene, vedrai” rispose la voce dall’altra parte.

“Ma come bene?! Asuna è stata arrestata e incriminata! Se avessi saputo che le cose finivano cosi, non ti avrei mai detto di si!”

“Io ho solo cercato di venirti incontro. L’approvazione e l’ispirazione sono venute da te. Comunque non posso negare una mia parte di responsabilità, lo ammetto”.

“Che tu lo ammetta è il minimo! Sei tu che hai sbagliato i calcoli!” strillò Konoka mettendo giù bruscamente la cornetta.

“Asuna! Asuna! Mi dispiace tanto!” esclamò la ragazza tra le lacrime.


Asuna guardava il cielo dalla finestra della sua cella.

La cella era piccola, con solo una brandina, un tavolino e uno sgabello.

Doveva già ritenersi fortunata che l’avessero portata in cella d’isolamento, lontana dai veri criminali.

Una buona cosa, che tuttavia compensava poco il fatto che il giudice non avesse concesso la cauzione.

Ma quello che l’angosciava veramente era ben altro: nessuno era venuta a trovarla dal giorno dell’arresto.

Aveva tanti amici e amiche.

Perché nessuno veniva?

Soprattutto, perché non venivano Negi e Konoka?

Possibile che l’avessero abbandonata?

Impossibile, loro la conoscevano e sapevano che non poteva essere un assassina.

Però le cose stavano davvero cosi?

Nella sua memoria di quella sera c’erano cosi tanti buchi, che sotto sotto cominciava a chiedersi se davvero non fosse lei la colpevole.

Aveva ucciso Takamichi, magari per difendersi e in preda ad un delirio dovuto alla droga?

E poi aveva dimenticato tutto, come succede agli ubriachi?

Scosse la testa e si portò le mani al viso.

“Dio mio, perché mi succede questo?”

Si ridestò e guardò l’orologio. Mancavano quindici minuti all’incontro con il suo avvocato, per la strategia difensiva.

Obata si considerava abbastanza ottimista.

Lei invece, temeva di non saper più cosa pensare.

 

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Capitolo 6
*** 6° Capitolo ***


6° CAPITOLO

Il salone delle feste era diventato ormai tanto, troppo familiare, per Negi.

Lì la sua Asuna aveva vissuto i suoi ultimi momenti felici prima di precipitare nell’incubo.

L invece scrutava quella sala, muovendosi con la sua andatura curvata in avanti e con le mani in tasca.

Qualche inserviente gli gettava delle occhiate incuriosite.

O forse irritate, per la presenza di un tipo strano come L in un luogo pensato per gente altolocata.

“Negi, andiamo in quel bagno” ordinò poi L tirando fuori l’ennesimo leccalecca.

Il detective si fermò davanti alla porta.

La fissò intensamente, quasi volesse penetrarla con gli occhi.

“Fu afeffami fui”.

Negi porse l’orecchio. “Prego?”

L si tolse il leccalecca dalla bocca. “Aspettami qui” disse, ed entrò.

“L, quello è un bagno per signore…” obbiettò Negi, inutilmente.

Fortuna che gli impiegati del palazzo non se n’accorsero.

Almeno questo pensava Negi.

Invece quello strano tizio non era stato dimenticato da uno degli inservienti.

Che si avvicinò con fare un po’ minaccioso.

“Ehi tu, ragazzino. Dov’è quel tipo strano che stava con te prima?”

“Ehm, è andato via…” provò a giustificarsi Negi.

“Non l’ho visto uscire. Temo invece che sia andato nel bagno delle donne!”

Prima che Negi potesse fermarlo, l’altro era già entrato.

Negi si sentì paralizzato dalla tensione: cosa sarebbe successo?

E lui cosa doveva fare?

Scappare?

Non ci teneva a fare la figura del vigliacco.

Qualche minuto dopo l’uomo uscì, con un’espressione alquanto contrariata.

Negi si preparò al peggio.

“A quanto pare avevi ragione, ragazzino. Nel bagno non c’è nessuno. Comunque la prossima volta che rivedi quel tizio, digli che è meglio se non gironzola qui dentro”. Detto questo, l’inserviente se n’andò.

La cosa lasciò esterrefatto Negi: che significava che nel bagno non c’era nessuno?

Passarono altri minuti, quanto bastava perché Negi cominciasse a pensare davvero che L se n’era andato.

Ad un tratto da dentro il bagno, o meglio, dietro la porta, si udirono dei lievi colpi.

A quel punto Negi decise di dare un’occhiata dentro e non appena fece per aprire la porta, andò a sbattere contro qualcuno.

“Negi, non si sbircia dentro il bagno delle donne” esclamò L.

“Ehi, ma da dove sbuchi?!”

“Andiamo nel bar. Mi serve qualcosa di dolce”.

Un bip inascoltato arrivò dalla tasca di Negi. Il suo cellulare si era scaricato.


Kotaro stava seguendo l’ennesimo film al cinema, ufficialmente in compagnia di Negi.

Gli squillò il cellulare, lesse il numero.

“Cavolo, è la casa di Negi. Ma lui ora dovrebbe essere dall’investigatore”.

Kotaro rispose. “Pronto?”

“Ciao Kotaro, sono la mamma di Negi”.

Il ragazzo rimase senza parole: era la prima volta che la madre di Negi gli rivolgeva la parola.

In passato non solo l’aveva vista pochissimo, ma non gli aveva mai neppure parlato, solo rapidi cenni di saluto, prima di perdersi in qualche telefonata d’affari o nella lettura di montagne di scartoffie.

Cosa poteva mai volere?

“Salve, signora. Che posso fare per lei?”

“Mi passi Negi? Al suo cellulare non risponde”.

Kotaro si guardò intorno freneticamente. Doveva improvvisare.

“Ehm, Negi adesso non può venire a parlare. E’ al bagno”.

“Capisco. Forse puoi aiutarmi anche tu. Sapresti dirmi se c’è qualcosa che non va? In questi ultimi giorni, mi sembra strano”.

“Be, signora, si tratta della faccenda di Asuna”.

“Ah si?”

“Si, signora. E’ ovvio che Negi sia molto preoccupato per lei”.

“Davvero?”

“Certo. Le vuole molto bene, la considera come una sorella”.

Anzi, molto di più, però questo ritenne di non doverlo dire.

“Capisco. Grazie, Kotaro”.

Cosi terminò la telefonata.

Kotaro alzò le spalle e riprese a godersi il film.


L e Negi erano tornati nello stesso bar dell’altra volta.

Il detective era sempre seduto con i piedi sulla poltrona, mangiava caramelle una alla volta e giocava con i cubetti di zucchero.

“Si può sapere dove eri finito in quel bagno?” domandò Negi con una coca cola in mano.

“Ora compirò una piccola magia”.

L iniziò a mettere uno sull’altro i cubetti di zucchero.

“Facciamo conto che c’è una donna, che chiameremo X.

Questa donna è alla festa la sera dell’omicidio.

Quando vede Takamichi e Asuna andare via, alle undici e trentaquattro, si fa accompagnare nel bagno da un suo aiutante.

Una volta nel bagno, deve raggiungere l’appartamento di Takamichi.

E deve farlo uscendo dal bagno senza farsi vedere.

Il metodo esiste. Infatti i bagni di quel palazzo possiedono una rete di condotti per la ventilazione, abbastanza grossi perché ci passi una persona e ramificati in modo da raggiungere qualunque punto del palazzo in pochi minuti. Io, procedendo con calma, ci ho messo ventidue minuti. X, che conosce bene lo schema dei condotti e si muove più velocemente, ci ha messo sicuramente molto meno tempo. Per una questione di manutenzione, dentro ogni condotto ci sono degli appigli appositi a mo di scaletta, per permettere l’arrampicata.

Inoltre nei bagni, gli ingressi dei condotti d’aerazione sono camuffati, nascosti, per questioni estetiche.

Li puoi individuare cercando le correnti d’aria.

Aprirli è molto facile, se si ha un minitrapano di quelli silenziosi. Altrimenti li devi sfondare, ma in tal caso è meglio non farsi vedere più lì.

X sa dei condotti perché essendo un pezzo grosso di una delle aziende finanziatrici del palazzo, non ha certo avuto problemi a procurarsi i progetti di costruzione.

Perciò una volta nel bagno tira fuori dalla borsetta, un modello piuttosto grande, un abito bianco, probabilmente una tuta, una parrucca di capelli rossicci, entra nel condotto e sale indisturbata fino al luogo designato.

Il condotto sbuca nella cucina di Takamichi.

I dettagli di ciò che avviene dentro sono ancora da definire, ma sbirciando dalle fessure della grata, ho ricostruito la scena nella sua sostanza: probabilmente X inscena una finta lotta col cadavere di Takamichi. O magari è solo stordito. Comunque finge una colluttazione davanti alla parete-finestra del soggiorno e comincia tale lotta non appena Hasegawa si affaccia richiamata dal rumore del litigio. Litigio che quasi sicuramente era già stato inciso su un registratore.

Date le condizioni dell’ambiente, non era necessario che le parole e le voci fossero giuste. Sarebbe bastato far capire che si trattava di un uomo e di una donna che litigavano accanitamente.

X colpisce più volte mortalmente Takamichi, poi fa uscire di scena entrambi.

X sa che Hasegawa è miope, il suo mestiere l’ha portata a conoscere tanti piccoli segreti, che per un motivo o per un altro non si dicono. Capita, in quegli ambienti.

Quindi Hasegawa non è in grado di capire che in quel litigio c’era qualcosa di sbagliato.

A quel punto, resta da creare il secondo testimone.

X non può correre il rischio di farsi vedere da Masters.

Infatti, pur sapendo dell’handicap di quest’ultimo, non sa da che punto del litigio egli ha deciso di andare a vedere.

Per questo non parte dalla porta, ma passa attraverso un altro condotto, il quale, tagliando tra i muri, le fa guadagnare almeno venti secondi, facendola uscire sulla scalinata a sinistra dell’appartamento di Masters.

Perciò, non appena sente la porta aprirsi, le basta limitarsi a scendere lungo le scale correndo, l’unica cosa che Masters ha chiaramente sentito.

Quando lo sportivo rientra in casa, X rifà lo stesso percorso al contrario, chiudendo tutte le grate dietro di sé, e torna nel bagno del salone, dove si cambia.

E’ inoltre molto astuta, perché sa che la polizia può scoprire i condotti e far crollare il suo alibi.

Ed è qui che entra in gioco il suo complice.

Il quale ferma alcune persone per far capire e vedere loro che X si trova nel bagno.

Per rendere il tutto più realistico, X ha nascosto un registratore dietro la porta del bagno attaccandolo con del nastro adesivo.

Il registratore contiene una serie di risposte precise, una dopo l’altra, a precise domande, come l’offerta di una sigaretta.

Una volta tornata, X deve solo cambiarsi, recuperare il registratore, chiedere un bicchiere d'acqua per creare un nuovo testimone e infine riunirsi alla festa, alle undici e cinquantanove.

Cosi facendo ha creato un alibi perfetto per sé e anche per il suo complice, alibi testimoniato da persone e da telecamere.

Quello però che non immaginava era che dietro la porta sarebbero rimaste alcune tracce del collante usato per il nastro adesivo, nel punto dove stava il registratore, ovvero il punto dove il suo complice metteva la mano quando si affacciava dentro il bagno.

L’ho scoperto attaccandovi l’incarto di un leccalecca, che invece non riusciva a restare attaccato altrove.

“Incredibile” disse Negi.

Oltre che dalla ricostruzione, era rimasto colpito anche dalla scultura verticale a forma di X che L aveva creato con i cubetti di zucchero.

Come diavolo riusciva a fargli stare uno sull’altro se erano inclinati?

“Magia!” commentò L tirando di nuovo fuori quel sorrisetto da bambino birbante.

Negi si strinse nelle spalle. “Comunque immagino che questa X sia Takada, vero?”

“Le probabilità sono basse, ma è stata quasi sicuramente lei”.

“Eh? Ma se le probabilità sono basse… mah, ci rinuncio. Ritieni che possiamo denunciarla?”

“No” rispose L cominciando a mangiare uno dopo l’altro i cubetti di zucchero. “La mia ricostruzione, pur corretta nella sostanza, è indiziaria. Prove vere non ce ne sono. Un bravo avvocato, di quelli che Takada può permettersi, la farebbe uscire nello stesso giorno dell’arresto. E poi ci sono altri aspetti da chiarire. Ma il seguito alla prossima puntata”.

Negi guardò l’orologio. “Cavolo, è vero. Tra poco il film finisce e deve tornare a casa. Ci vediamo domani, L. Sei fantastico!”

Uscendo dal bar, Negi si rese conto solo allora che aveva cominciato a dare del tu ad L.


Quando Negi ritornò a casa, una cosa lo colpì subito: il silenzio.

Come mai non sentiva sua madre?

Le altre sere era impegnata in una delle sue telefonate o letture di lavoro.

Guardò dappertutto e non c’era.

Che avesse ricominciato a fare la latitante?

No, lo avrebbe avvertito.

E poi verso quel ora ritornava sempre a casa.

Che le fosse successo qualcosa?

Forse si era sentita male e l’avevano ricoverata.

Ma avrebbero dovuto avvertito col cellulare, no?

Solo allora lo prese e si accorse che era scarico.

Una certa angoscia s’impadronì di lui.

“Mamma!” esclamò apprestandosi ad uscire.

Non appena aprì la porta, se la ritrovò davanti.

“M-mamma!?”

“Negi, stavi uscendo?”

“Stavo andando a cercarti”.

“Sono uscita a fare una passeggiata”.

“Oh be, allora… cosa c’è per cena?”

“Niente cibi precotti” disse la donna.

“Come mai? I tuoi affari non ti hanno permesso di preparare uno dei soliti pranzi precotti?”

Non c’era ironia o critica nella voce di Negi.

Era una semplice constatazione.

Eppure la madre ne rimase colpita.

“E che non avevo voglia di prepararlo. Volevo uscire e schiarirmi le idee”.

“Problemi con qualcuno dei tuoi affari?”

“Ritieni impossibile che io possa parlare di cose umane, vero?”

Anche in questo caso, nessun sarcasmo, solo una constatazione.

Negi la guardò incuriosito. “Cosa c’è che non va?”

“Tutto. Come donna, sono assorbita da continue questioni finanziarie. Come moglie, in pratica sono ancora nubile. E come madre…. Sono un disastro. Tre su tre. Un disastro!”

“Mamma…”

La donna andò a sedersi. “Negi, tu vuoi molto bene ad Asuna, vero?”

“Si”.

“E adesso capisco il perché. E’ la figura di riferimento di cui tutti i bambini hanno bisogno. Vorrei tanto averlo capito prima. Mi dispiace, Negi, mi dispiace tanto”.

Lacrime cominciarono a scenderle lungo il viso.

“Forse… continuò lei “forse avrai pensato che io e tuo padre non ti volessimo. Non mi stupirebbe, visto quello che facciamo, anzi, non facciamo per te. Ma ti giuro che non è cosi. Quando ci siamo sposati, volevamo un figlio, lo volevamo a tutti i costi. Però dopo… non lo so. Forse ci siamo sentiti inadatti, forse ci siamo preoccupati troppo della carriera, per il bene della famiglia. Cosi facendo, abbiamo finito per rendere il mezzo uno scopo. E ci siamo dimenticati di te. Io, davanti alla tua sofferenza per Asuna, non sono riuscita a capire. Per questo non ti ci ho mai accompagnato. Tu avrai forse pensato a delle scuse. Non lo erano. Semplicemente, e orribilmente, non ne capivo il perché. Che razza di madre sono stata?! Che razza di madre permette al proprio figlio di considerare una cosa normale, abitudinaria, il non prendersi cura di lui?”

Negi non credeva ai suoi occhi.

Non aveva mai visto la madre esprimere cosi i suoi sentimenti.

Con lui, tra l’altro.

“Mi dispiace tanto!!” esclamò infine la madre coprendosi il volto con le mani e piangendo a dirotto.

Negi corse ad abbracciarla.

“Mamma, non piangere” le disse cominciando a piangere anche lui.

“Devi… devi odiarmi, vero?”

“No, non potrei mai odiarti, mamma! Mai!”

“Piccolo mio! Vuoi davvero una madre orribile come me?”

La risposta fu un abbraccio ancora più forte.

Per diverso tempo rimasero abbracciati.

Poi il cellulare della donna squillò.

Quel suono li fece separare.

La madre si sistemò i lunghi capelli biondi, riacquistò sicurezza e rispose: “Pronto?. Oh, è lei Mr. Fiji. La questione delle nostre quotazioni in borsa? Be, sa cosa le dico? Che possono aspettare. La richiamerò io quando ne avrò voglia. Non mi aspetti alzato!”

La donna chiuse il cellulare buttandolo in un angolo.

“Ora, che ne dici se ti preparo la cena? Forse mi ricordo come si fa”.

“Sono sicuro che lo ricordi perfettamente. Hai una memoria di ferro” rispose Negi asciugandosi le lacrime.

“Tuttavia” continuò lui “avresti potuto avvertirmi che uscivi”.

“L’ho fatto” replicò lei. “Ti ho lasciato un biglietto e… ops”.

Si era messa istintivamente la mano in una tasca del cappotto. E ci aveva trovato il biglietto.

“Scusa, senza volerlo me lo sono portato dietro”.

Si guardarono.

E iniziarono a ridere.

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Capitolo 7
*** 7° Capitolo ***


7° CAPITOLO

“NO!” gridò Asuna svegliandosi di soprassalto.

Si guardò intorno e dopo un po’ riconobbe la sua cella.

Un orologio digitale, inserito sopra la porta, indicava che erano le otto del mattino.

Asuna aveva il fiatone ed era sudata.

Sapeva il perché: aveva avuto un altro incubo.

Erano cominciati dalla sera prima, dopo l’ultima discussione con il suo avvocato e la sua proposta.

****

“Che cosa ha detto?!” esclamò Asuna con un’incredulità palpabile.

“Mi dispiace, signorina. Davvero. Ma le cose si stanno mettendo molto male” rispose a malincuore Obata.

“E pensa che dichiarami colpevole possa risolverle?!”

“E’ una possibilità per ottenere uno sconto di pena. Capisco che lei si ritiene innocente, anch’io lo credo, ma le prove sono contro di lei. Lei afferma di essere stata condotta da Takamichi nel suo appartamento sotto l’effetto di una qualche droga. Tuttavia nel suo organismo e nella casa della vittima non è stato trovato niente. Due testimoni, di cui uno oculare, dichiarano che c’è stato un litigio tra lei e la vittima, un litigio che non c’entrava molto con l’autodifesa. Il suo abito bianco era macchiato col sangue della vittima. E non ha saputo fornire una vera ricostruzione di cosa è accaduto quella sera, a causa dei suoi vuoti di memoria. Potrebbe essere una dimostrazione che lei è stata drogata. Però potrebbe pure essere un inganno. Come quello, sosterrà l’accusa, ordito davanti alla sua amica per fingersi una vittima. Insomma, è la sua parola contro una marea di indizi e prove accusatori. Se deciderà di patteggiare, potrò ottenere una condanna per omicidio colposo”.

“Omicidio colposo? Cioè, l’avrei ucciso ma senza l’intenzione? In questo modo, non solo sono comunque un’assassina, ma mi sembra che non è più neanche autodifesa”.

“L’accusa vorrebbe che la spiegazione dell’autodifesa fosse quantomeno diluita. In questo modo si farebbe dai nove ai quindici anni”.

Asuna sbiancò. “Nove o quindici anni?!”

“Sempre meglio che passarne da venti a trenta” obbiettò l’avvocato.

Che tuttavia non ebbe il coraggio di guardare in faccia la sua cliente.

“Io…. Io le farò sapere” concluse Asuna chinando il capo.

****

“Nove o quindici anni. Per molti non sono tanti. Però io sono innocente”.

O almeno era questo che credeva, in parte.

In fondo, come poteva essere certa di non averlo ucciso?

La sua maledetta memoria sembrava giocare a nascondino sui fatti di quella sera.

Poteva essere sicura di non averlo colpito con un coltello?

E poteva essere sicura che si fosse trattata di legittima difesa?

E’ autodifesa quando si ferma alla prima coltellata.

Non quando si colpisce altre quattro volte.

E gli incubi…. Quegli incubi che le avevano reso la notte orribile… che si ripetevano uguali non appena chiudeva gli occhi.

Incubi in cui era lei che colpiva Takamichi al petto.

Lo colpiva con un’espressione orrenda.

Perché era un’espressione di gioia sanguinaria.

Non potevano essere i ricordi di quella sera?

Forse quella droga aveva solo fatto venire alla luce il suo lato oscuro.

Una Dark Asuna bramosa di sangue.

Una parte di lei le disse che si stava solo facendo suggestionare.

Ma chi glielo poteva assicurare che in fondo alla sua mente non si celasse un mostro?

Si rannicchiò sulla branda mettendosi in posizione fetale.

Da quanto tempo non lo faceva?

Dai tempi dell’orfanotrofio, quando solo nel silenzio della notte poteva sfogare le sue lacrime, la sua frustrazione, accumulatasi durante la giornata a causa delle angherie delle sue compagne.

Scherzi crudeli, attuati da ragazzine che si credevano chissà chi solo perché più grandi di qualche anno.

E nessuno con cui confidarsi, cui chiedere aiuto.

Il suo istituto le permetteva di seguire le scuole pubbliche, per l’altro di qualità.

Cosi aveva conosciuto Konoka.

Ma quando dalla scuola era riaccompagnata all’orfanotrofio, le cose cambiavano.

I tutori erano inutili, le bastarde sapevano sempre essere santarelline quando c’erano gli adulti.

Nessuno le credeva.

Era la sua parola soltanto.

Come nel caso attuale.

Con la differenza che allora Asuna era consapevole di essere una vittima e si era sforzata di diventare più forte, per non subire più cose simili e impedire che anche altri le subissero.

“Il processo è domani. Se non sono sicura di me stessa… forse la soluzione di Obata è la cosa migliore. O forse dovrei dichiararmi colpevole e basta?”

Il piccolo campanello della porta suonò ed entrò un agente.

“Kagurazaka Asuna, hai visite” annunciò.

“Obata è venuto prima del previsto oggi. Un impegno ammirevole, ma temo ormai sprecato” pensò la ragazza mettendosi a sedere.


L, accucciato sulla sedia e con le gambe piegate verso il petto in modo da tenere i piedi ben piantati sulla poltrona, aveva ordinato una serie di dolcetti al cioccolato in modo che formassero una w.

Una w che stava in piedi, come la x fatta con gli zuccherini.

Tuttavia quando Negi era entrato nell’appartamento del detective, quella w era già finita in bocca a quest’ultimo.

“Eccomi!” annunciò il ragazzo piazzandosi con un saltello affianco a L.

“Mi sembri di buon umore” osservò L impassibile.

“Sono accadute delle cose bellissime. Mi sono riconciliato con mia madre! E’ stato meraviglioso! E poi…”

Il rumore di un fax interruppe Negi, L raccolse il foglio e lo esaminò.

“Di che si tratta?” volle sapere Negi.

“E’ un elenco di farmacie” rispose l’investigatore.

“Farmacie?”

“Stamattina ho potuto leggere i verbali degli interrogatori ad Asuna da parte della polizia”.

“Davvero?”

Negi rimase molto incuriosito, perché in quei giorni nessuno aveva fornito dettagli sull’accusa di omicidio.

Saputolo, L gli raccontò tutto.

Negi fremette di rabbia. “Quel… porco! Quel lurido maiale!! Ha osato mettere le mani su Asuna?! Allora chiunque l’abbia ucciso, ha…”

L gli mise un dito sulla bocca. “Non dire altro. Non hai l’età per capire e parlare di queste cose”.

“Va bene, scusa. Allora, cosa c’entrano le farmacie?”

“Vieni con me e lo scopriremo” disse L avviandosi verso l’uscita.


Il pomeriggio non era mai monotono per Toshio.

Essendo impiegato in una farmacia della capitale, il lavoro non mancava mai.

E l’essere nella città di Tokyo bilanciava la posizione non centrale del negozio: clientela continua ma non assillante.

Certo quando si era laureato in medicina, non pensava che sarebbe finito dietro un bancone.

Ma da qualche parte bisognava pur cominciare.

“Mi scusi” disse un ragazzino presentandosi davanti a Toshio.

L’impiegato non l’aveva mai visto. “Salve, giovanotto. Che ti occorre?”

Il ragazzino gli passò un foglietto.

“Uhm, si abbiamo questa medicina. Ora vado a prendertela”.

Quando Toshio tornò, vide che il piccolo cliente aveva un’aria afflitta.

“Che succede?” gli domandò.

“Sa, io ero un grande fan di Takahata Takamichi. Era un idolo per me. E sapere che è morto, mi addolora tantissimo”.

“Capisco. Sai, era un cliente di questa farmacia”.

“Davvero?”

“Si, non veniva proprio spessissimo, ma diciamo che almeno una visita ogni uno o due mesi la faceva”.

“Uao! E che medicine prendeva?”

“Be, questo non posso dirtelo. Sono medicine per adulti. Comunque è un vero peccato che non ci sia più. Senza contare che pagava sempre in contanti”.

“Ah, va bene. Comunque la ringrazio per avermelo detto. Forse diventerò anch’io un cliente fisso di questa farmacia”.

Il ragazzino fece un inchino e uscì.

Pochi minuti dopo, una persona particolare entrò nel negozio.

Indossava occhiali neri e aveva un’aria solenne e marziale.

E pur indossando abiti borghesi, puzzava di poliziotto lontano un miglio.

Il nuovo arrivato si piazzò davanti a Toshio.

“Bu… buongiorno” disse quest’ultimo impallidendo lievemente.

“Buongiorno” esordì l’altro “Mi serve un’informazione. Devo sapere se quest’uomo è un vostro cliente, cosa ha comprato da voi e quando”.

Sul bancone piazzò la foto di una persona.

Toshio lo squadrò e si rilassò ma non troppo. “Perché lo cerca?”

“Non sono questioni che la riguardano. Lo conosce o no?”

“Veramente, non so se posso…”

“Intende forse nascondere qualcosa?”

“No, glielo giuro!” esclamò il commesso agitandosi nuovamente “Noi non nascondiamo niente! Né tantomeno facciamo cose sbagliate, come vendere medicine sottobanco! E solo che… è vietato dare informazioni che violino la privacy dei …”

“Dunque è un vostro cliente. Grazie per l’informazione” disse lo sconosciuto andandosene.

Toshio rimase quanto meno perplesso.

Non sapeva il perché, però s’immaginava che con quel tizio sarebbe successo molto di più.


Fuori dalla visuale della farmacia, Negi appariva pensieroso.

“A cosa stai pensando?” gli domandò L raggiungendolo e togliendosi gli occhiali.

“Non mi è piaciuta molto questa recita. Io di solito non sopporto chi recita, mi suona falso”.

“Meglio cosi” commentò L “Comunque direi che ci siamo”.

“Ah. Quindi il quarto tentativo è stato quello buono?”

“Ofa fuofiafo a fafa” disse L con un nuovo leccalecca in bocca.

“Prego?”

“Ora torniamo a casa. Mi serve qualcosa di dolce”.

L si premette di nuovo un punto alla base della colonna vertebrale, che da dritta tornò curvata in avanti.

Negi, che davanti a quello spettacolo sentiva fortissima la tentazione di ridere, decise che alla fine avrebbe dovuto chiedergli come faceva.

Salirono sulle biciclette e se ne andarono.


L’avvocato Obata trovò Asuna stranamente radiosa.

“Immagino che le sia capitata una bella cosa” osservò.

“Oh si” affermò Asuna.

“Sono felice per lei. Mi dica, ha riflettuto sulla mia proposta di ieri?”

“L’ho fatto eccome!”

“E dunque cosa ha deciso?”

“Che rifiuto ogni patteggiamento. Io sono innocente. Non ho ucciso Takahata Takamichi, nonostante lui abbia tentato di abusare di me”.

Ogni parola fu scandita con notevole sicurezza.

“Ma è sicura? L’impianto accusatorio….”

“Non m’importa cosa credono. Io non sono una criminale. E le dirò di più. Non m’importa neppure se mi condanneranno. La vita è niente se si perde il rispetto e la fiducia in se stessi e negli altri. Ed io non intendo rinunciarvi. Né intendo smettere di lottare”.

Obata si grattò dietro la testa. “Be, signorina, devo ammettere che la sua determinazione le fa onore. Se ha deciso cosi, allora anch’io darò il massimo per farla scagionare, nonostante le possibilità siano non proprio altissime”.

Asuna fece un lieve inchino.

Il cellulare di Obata squillò.

“Scusi un momento” disse l’uomo alzandosi e avvicinandosi alla porta.

Approfittando di quella pausa, Asuna tirò fuori un foglietto da una tasca.

Ce ne era voluto per convincere i poliziotti a lasciarglielo.

Nonostante fosse solo un pezzo di carta.

Che per lei aveva però un valore immenso.

‘Io e mia madre crediamo in te. Ti vogliamo bene, Negi’.

Parole scritte che si erano ormai stampate nella mente di Asuna.

“Accidenti” disse Obata conclusa la telefonata. “Devo fare una cosa urgente in banca. Temo che il colloquio finirà prima del previsto. Comunque non c’è molto da dire ancora. La nostra posizione è non colpevole, giusto?”

“Esatto” rispose la giovane cliente.


“Allora, mi spieghi cosa hai scoperto?”.

Negi ed L erano tornati alla casa di quest’ultimo, che sedutosi alla solita maniera subito aveva cominciato a sezionare una torta al cioccolato con ripieno di ciliegie.

Con accuratezza, L scavava nel dolce per raggiungere e prendere solo quest’ultime.


“Stamattina, ho ricevuto la descrizione della vicenda da parte di Asuna e Konoka. Ho riflettuto su quale potesse essere questo tipo di droga. Ho fatto una selezione, basandomi sui sintomi, sui costi, che Takamichi poteva permettersi perché era un divo, e sulla disponibilità, che doveva essere estesa alle farmacie pubbliche, poiché la vittima era un civile.

Alla fine è uscito un nome: trialissico liquido. Una variante creata in laboratorio degli anestetici che si usano in ospedale abitualmente. Il trialissico, infatti, è una droga che si utilizza, raramente, per piccoli interventi chirurgici d’emergenza, quando l’operazione è importante ma non troppo estesa e l’anestesia solita, per un motivo o per un altro, non è disponibile. Tale farmaco provoca una sorta di torpore molto simile alla catalessi. Si è vivi, ma la mente è come isolata dal corpo, non riceve gli stimoli esterni né reagisce a essi. Ovvio quindi che quando l’effetto cessa, la vittima non ricorda nulla, se non vaghi sprazzi d’immagini e sensazioni, come in sogno. La persona in pratica, è ridotta a una sorta di statua vivente.

E una volta passato l’effetto, il trialissico lascia scarsissime tracce.

La farmacia dove siamo stati lo vende. Takamichi era un cliente. E direi che l’impiegato ha l’abitudine di vendere farmaci sottobanco a clienti danarosi, senza preoccuparsi se hanno o no una ricetta. Infatti quando mi sono presentato ostentando un’aria ‘da sbirro’, lui si è subito agitato. Aveva temuto che fossi venuto per lui, avendo scoperto qualcosa d’irregolare nella sua gestione.

E Hitoshi Demegawa, assistente personale di Takada, è anche lui un cliente di quella farmacia. E può avere contanti a disposizione”.


“Ma come si legano Takada e Takamichi?” domandò Negi sempre più ansioso di sapere.


“Takada sicuramente conosceva il ‘vizio’ di Takamichi. D’altronde, diverse ragazze hanno presentato denuncia contro di lui in passato. Non c’è mai stato luogo a procedere, perché non si sono mai trovate prove. Come ti ho detto, le vittime del trialissico sono ridotte a statue viventi. Non possono difendersi, quindi niente lividi, niente abiti strappati e niente segni di penetrazione forzata. Al massimo quelle poverette potevano scoprire che era successo qualcosa perché da un giorno all’altro si accorgevano di non essere più vergini. Cosa che non basta per accusare qualcuno di stupro.

Takada ha fatto in modo che Takamichi mettesse gli occhi su Asuna, e prima che lui le portasse il bicchiere drogato, deve aver fatto prendere ad Asuna, tramite Konoka, un bicchiere contenente un reagente chimico per contrastare l’effetto del trialissico.

Asuna, infatti, ha detto che quando Takamichi stava per violentarla, lei si è ripresa ed è riuscita a fermarlo.

Quando però ha cercato di uscire dall’appartamento, è caduta nell’oblio.

E’ stata Takada: era in agguato nell’appartamento, ha ucciso Takamichi e neutralizzato Asuna cogliendola di sorpresa e somministrandole un’altra dose di trialissico. L’effetto della nuova dose, unito ai residui della precedente, ha steso la tua amica.

A quel punto Takada ha compiuto quanto ti ho già narrato in precedenza.

L’unico elemento in più è che, prima di ritirarsi, ha trascinato Asuna in un ascensore per poi chiuderla in quello sgabuzzino al quinto piano.

Infine torna nel bagno del salone”.


“Incredibile” esclamò Negi.

Si rese conto di aver ormai abusato di quel termine, ma le capacità deduttive di L, il modo in cui sapeva incastrare i vari dettagli, erano incredibili.

“Un momento” rammentò Negi “ma se le cose stanno cosi, allora qual è la posizione di Konoka in tutto questo? E’ stata lei a portare Asuna a quella festa, però non posso credere che la volesse stuprata o accusata di omicidio!”

“Hai ragione” ammise L “anch’io nutro dei dubbi a proposito. Ci devo riflettere. E per farlo, ho bisogno di zuccheri”.

Mentre aveva parlato, il detective aveva finito la torta.

E ora si serviva dei pasticcini alla crema.

Negi poi guardò l’orologio: anche per lui era ora di andare.

Il processo ad Asuna era domani, però ora era preoccupato e non agitato.

Con l’aiuto di L, infatti, la liberazione di Asuna sembrava sempre più certa.

Il suo cellulare squillò.

“Oh, è la mamma” esclamò felice e rispose: “Ciao mamma, si, tra poco rientro a casa. Sono con quel mio nuovo amico. Va tutto bene”.

Ora che si era riconciliato con la madre, non se la sentiva più di mentirle.

E non poteva più fare affidamento su Kotaro, perché aveva raccolto altri quattro cani abbandonati, quindi la sua tribù al parco era diventata bella grossa e lo assorbiva totalmente.

Però doveva anche proteggere l’anonimato di L.

Quindi le aveva detto che passava i pomeriggi con un nuovo amico, un po’ strano ma molto affidabile.

Il sorriso però gli si spense quando udì cosa doveva comunicargli la madre.

L notò che il suo giovane amico era diventato pallido quasi quanto lui.

Negi fissò L con occhi increduli.

“Konoka… è morta. Dicono che si è… suicidata”.

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Capitolo 8
*** 8° Capitolo ***


8° CAPITOLO

Il corpo di Konoka, dopo che la polizia ebbe fatti tutti i rilievi, venne portato via chiuso in un sacco.

Un agente di nome Matsuda stava interrogando la persona che aveva trovato il corpo.

“Come ha detto che si chiama?”

“Sono Setsuna Sakurazaki” rispose una ragazza sui diciotto anni.

“Mi ripeta cosa è successo e chi è lei” ordinò il poliziotto tirando fuori un taccuino.

“Io sono l’accompagnatrice della signorina Konoe. Suo padre, il signor Eishun, mi aveva dato da poco questo incarico e la signorina ancora non si era abituata a me. Oggi pomeriggio dovevo andare a prenderla per portarla a Kyoto, nella villa di famiglia. Il signor Eishun riteneva che la figlia stesse troppo male, e ha pensato di farle cambiare aria.

Sono arrivata verso le cinque e cinquantaquattro, ho bussato e non ha risposto nessuno. Ho provato col cellulare e l’ho sentito squillare dentro la casa, ancora senza ricevere risposte. Ho chiesto al portinaio e per quanto ne sapeva lui la signorina era ancora dentro casa. Allora mi sono preoccupata, sono passata dal retro, ho sfondato un vetro del bagno per entrare e l’ho trovata sul suo letto, morta. Aveva la pistola in mano e un foglietto sul comodino”.

“E in casa non c’era nessuno?”

“Non ho visto nessuno, cosi come i vicini. La porta era chiusa dall’interno”.

“E la pistola?”

“Era della signorina Konoe. Il padre gliela aveva data per difesa personale, con tanto di cartucce di riserva”.

“Lei ha affermato che la signorina Konoe stava troppo male. Perché? Ha idea di cosa possa averla spinta al suicidio?”

“Forse la vicenda di una sua amica, Asuna Kagurazaka. Non conosco i dettagli e non so molto della signorina. Come le ho detto, il mio incarico è cominciato da poco, quindi io e la signorina Konoe non abbiamo avuto il tempo di diventare amiche”.

“Va bene. Si tenga sempre disponibile per ulteriori domande”.

L’agente andò da uno degli ufficiali, Soichiro Yagami, e gli consegnò il taccuino.

“Signore, ecco la deposizione dell’unica testimone”.

“Bene” disse Soichiro, uomo di mezz’età robusto, con baffi, occhiali e abbigliamento impeccabile. Aveva appena letto anche i rapporti di altri agenti. “Dunque, la pistola era della vittima, nella casa non ci sono segni di effrazione o di lotta. Nessuno ha sentito lo sparo, ma questo appartamento è insonorizzato, per tutelarsi dai frastuoni di città. C’è una finestra aperta che però risulta schiusa dall’interno, ad opera della testimone, e il portinaio afferma che la vittima era da sola. Anche se lui si sposta in continuazione dalla portineria per svolgere varie commissioni degli inquilini. Quindi non può assicurare che nessuno sia salito fin qui. C’è un foglietto con una frase da suicida, ‘Asuna, mi dispiace davvero, per tutto’ che sicuramente l’analisi dei nostri esperti confermerà essere stata scritta con la grafia della vittima. E sono sicuro che sul foglio troveranno solo le impronte digitali della Konoe. Insomma, sembra un tragico suicidio. Eppure non mi convince”.

Matsuda l’osservò attentamente. “E perché?”

“Sembra che questa morte sia collegata al caso di Takahata Takamichi e Asuna Kagurazaka. Ma in che modo? Risulta che la signorina Konoe ha accompagnato la Kagurazaka alla famosa festa”.

“Poteva sentirsi in colpa per questo” ipotizzò l’agente.

“Ma non mi sembra un fatto capace di generare un rimorso tale da vedere come unica soluzione il suicidio. E’ più probabile che la signorina sapesse qualcosa su questo caso. E se lo sapeva…”

Soichiro guardò Matsuda, poi troncò il discorso: “Queste sono solo illazioni. Sbrigatevi ad effettuare subito tutti i rilievi necessari. Il corpo verrà portato all’obitorio e ordinerò che effettuino l’autopsia domani mattina. Fino ad allora, deve restare isolato. Tra l’altro, la signorina Konoka apparteneva ad una famiglia molto importante, ovvio quindi che vorranno evitare qualunque pettegolezzo”.

“Bene, signore” rispose il giovane poliziotto facendo un lieve saluto miliare prima di andarsene.

Prima di uscire dall’appartamento, l’ufficiale Yagami mandò un sms.


La sala dell’obitorio era grande e silenziosa.

Decine di corpi erano conservati in piccole celle frigorifere, ciascuna con un lettino scorrevole su cui era adagiato il cadavere, e allineate sui due muri contrapposti di una grande stanza.

C’era tuttavia una cella speciale, con un solo posto, situata in una piccola e spoglia stanza affianco di quella grande.

Vi erano custoditi i cadaveri che per un motivo o per un altro erano ‘particolari’.

Non era usata molto ma aveva comunque i suoi clienti.

Come Konoka Konoe.

Qualcuno entrò nella stanza e tirò fuori il corpo, chiuso in un sacco nero.

Aprì il sacco ed esaminò il cadavere.

Konoka aveva la bocca socchiusa e gli occhi aperti.

Il qualcuno esaminò prima la ferita da arma da fuoco alla tempia destra.

Poi esaminò le dita.

Infine chiuse gli occhi di Konoka.

Nonostante il congelamento, il rigor mortis era ancora agli inizi, quindi fu facile.

La persona chiuse il sacco ed uscì dalla stanza.

A quell’ora non c’era molta gente nell’edificio con l’obitorio, e perciò nessuno si accorse di quella figura non vestita da poliziotto, che uscì da una porta secondaria.

E una volta fuori, si mise in bocca un leccalecca.


“Non è possibile” esclamò Asuna con gli occhi lucidi.

Era giunto il giorno del processo e Negi, con sua madre, era tornato a visitare Asuna, dovendo purtroppo darle la terribile notizia.

“Mi dispiace… mi dispiace tanto” le disse Negi mettendo una sua mano su quella di Asuna.

“La mia amica… la mia amica… ma come è potuto succedere?”

“Alcuni dicono che è stato suicidio” affermò la madre di Negi.

“Stronzate! Oh, mi scusi, signora Springfield. Comunque non ci credo, Konoka non era il tipo da suicidarsi”.

“Lo crediamo, comunque dovremo lasciare le indagini a chi è competente”.

“Chissà se è collegato al tuo caso” osservò Negi.

“Al mio caso?”

“Be, il processo deve cominciare oggi, no? Konoka era l’unica testimone a tuo favore”.

Asuna rimase sbigottita: in effetti le era venuto in mente che qualcuno l’avesse incastrata.

Perché se non era stata lei, allora chi aveva ucciso quel porco di Takamichi?

Ma era un’idea che rigettava subito, visto che lei era solo un’orfana.

Però ora era davvero sospetto che l’unica persona capace di testimoniare a suo favore, venisse uccisa proprio il giorno prima del processo.

“Questa situazione è assurda. Non so proprio cosa pensare. Certo adesso le possibilità di essere assolta in tribunale si riducono ancora di più”.

“Asuna, no!” esclamò Negi.

La ragazza gli sorrise. “Sta tranquillo. Io sono ancora sicura che andrò tutto bene. Ma vada come vada, tu devi essere forte. Ricordati sempre che non sarai mai solo”.

Asuna mandò uno sguardo alla madre del suo piccolo amico, che annuì. “Assolutamente” confermò baciando il figlio sulla testa.

In quel momento entrò un poliziotto. “Scusate. E’ arrivato l’avvocato della signorina”.

“Devo prepararmi per andare in scena” dichiarò Asuna abbracciando i suoi due visitatori.

Madre e figlio, uscendo e incamminandosi per il corridoio, svoltarono l’angolo pochi attimi prima che potessero vedere, ed essere visti, dall’avvocato Obata che giungeva dalla direzione opposta.


“Konoka si è davvero suicidata?”

Negi osservò insistentemente L, accucciato su una sedia e intento a mangiare dei cioccolatini a forma di cuore.

Sua madre aveva detto di doversi occupare di un affare, del tutto diverso dai soliti.

Il figlio l’aveva assicurata dicendo che sarebbe andato dal suo nuovo amico.

“Cosa ti hanno detto gli altri a proposito?” domandò L.

“Be, Asuna e mia madre non lo credono possibile. E neanche io”.

“Allora perché lo chiedi se è stato o no un suicidio?”

“Non lo è stato dunque?”

“Tu che credi?”

“Che non lo è stato”.

“Allora non lo è stato”.

Negi sbuffò. “L, ti prego”.

“Scusa, è che sono rimasto sorpreso. Il caso si è dimostrato ancora più complesso di quello che credevo. Stamattina ho riunito alcuni fili, diverse cose coincidono, ma altre sono inattese”.

L osservò delle foto sul tavolo davanti a se: erano foto di un biglietto largo e stretto, con solo una riga scritta sopra.

E sul suo computer il detective aveva delle foto del medesimo foglio, però ingrandite.

“E allora parla! Asuna in questo momento è sotto processo. Spero che quell’avvocato, Teru Obata, cosi ha detto Asuna, faccia un buon lavoro”.

“Non preoccuparti. Sono sicuro che finirà bene. La giustizia prevarrà” lo rassicurò L sfoggiando un sorriso fiducioso che quasi faceva tenerezza, visto che sembrava quello di un bambino.

Il detective prese una fetta di torta al caffè.

“Ho capito alcune cose. Konoka amava e odiava Asuna. Da quello che mi hai raccontato, l’ha sempre protetta sin da quando era piccola, l'è sempre stata affianco. Ma anche l’altruismo, se eccessivo, alla lunga risulta fastidioso. Konoka si sentiva oppressa dalla presenza di Asuna, perché ha finito per tenerla sempre nell’ombra, facendola apparire come una rammollita, incapace di fare alcunché da sola. E quindi ha deciso di vendicarsi. Come ho già detto, non certo facendola violentare o accusare di omicidio. Doveva trattarsi di uno scherzo, di cattivo gusto, anzi orribile, ma per una volta sarebbe stata Asuna quella bisognosa, e Konoka la salvatrice.

Una sorta di rivalsa, organizzata con la complicità di un’amica fidata, ovvero Takada Kiyomi, come dimostrano le tante foto che raffigurano le due insieme. Non so chi delle due ha avuto l’idea della scherzo, probabilmente Takada e Konoka c’è cascata. Ha consegnato l’amica ad un mostro credendo che sarebbe stata solo una finta.

Ovvio quindi il suo dolore quando le cose sono precipitate.

Stando alle analisi col guanto di paraffina e alla balistica, è stata Konoka a sparare.

Questo fa pensare al suicidio, tuttavia una persona si suicida quando ritiene la situazione irrimediabile e non quando è possibile rimediare”.

“E come avrebbe potuto rimediare?”

“Intanto confessando che si trattava di un piano ordito da Takada, coinvolgendola maggiormente. Immagino che quella donna abbia cercato di consolare Konoka affermando che non conosceva il lato oscuro di Takamichi. Perché io penso che Konoka abbia scritto, appunto, una confessione. Il biglietto d’addio è molto piccolo, termina poco sotto quell’unica frase. Ma si tratta di un foglio da stampante, che è stato volutamente accorciato con un taglierino. Secondo te una persona suicida si preoccupa che il foglio col messaggio d’addio non sia troppo lungo? Inoltre le dita di Konoka erano sporche di inchiostro. Troppo inchiostro per qualcuno che ha scritto solo una frase”.

“Dunque è stata uccisa. Ma da chi? Da Takada?”

“No. Perché stamattina si è svolta l’autopsia, la morte si colloca tra le cinque e quaranta e le cinque e cinquanta del pomeriggio. A quell’ora, Takada era in diretta nazionale, su un TG. E sono sicuro che anche il suo fedele assistente era con lei. Quindi…”

Negi schioccò le dita. “Un terzo complice!”

“Esatto. E questa è una cosa inattesa. Comunque c’è pure un’altra cosa che non mi convince”.

“Cosa?”

“Il movente”.

“Ma l’hai detto che Konoka aveva scritto una confessione”.

“Infatti. Ma questa confessione, era davvero pericolosa? E se invece…”

L buttò senza preavviso il cucchiaio con cui mangiava la torta contro Negi, che d’istinto lo afferrò al volo.

L sorrise a quella vista.


Arrivata infine la sera, Takada rientrò a casa stanca morta.

“Uff, che fatica questa giornata. Ci mancava anche la visita di cortesia ai Konoe, che seccatura” sbottò la donna buttando la borsetta su un divano.

La sua irritazione arrivò al massimo quando proprio allora il suo cellulare suonò.

Visto il modo in cui le telefonate l’assillavano per tutta la giornata, a volte aveva il sospetto che quel tipo di telefono fosse stato inventato da qualche divinità capricciosa per tormentarla.

La donna rispose con una certa acidità: “Chi è?!”

Udita la risposta, si rasserenò: “Oh, sei tu. Che sorpresa. Si, tutto bene. Sai, all’inizio disapprovavo la tua iniziativa, ma vedendo come si sono sviluppate le cose, mi sono tranquillizzata. Non vedo l’ora che tutta questa storia sia finita. D’accordo, ci sentiremo quando sarà più adatto. A proposito, auguri per il tuo attuale incarico”.

Con queste parole, Takada si lasciò scappare una risatina.

“Hai ragione, so essere anche piuttosto spiritosa. Ciao” e concluse la telefonata mandando un bacio.

Dopo tutto quello stress le serviva una bella doccia e una lunga dormita.

Quindi poggiò il cellulare sul tavolo del soggiorno.

Si ricordò che doveva cancellare quel numero, insieme al registro delle chiamate, come faceva sempre.

Però non sarebbe cambiato niente se prima si faceva la doccia e poi cenava.

Tanto, nessuno le correva dietro.


Una moto di grossa cilindrata si fermò ad un incrocio.

Silenzioso e vuoto come tutte le strade di provincia quando ormai è notte fonda.

La moto era guidata da una splendida donna bionda, con indosso un attillata tuta rossa.

La pilota si tolse il caso e tirò fuori un cellulare.

“Sono io. Sapessi quanto mi mancava la tua voce contraffatta. Allora, ho il numero di cellulare che volevi. Spero davvero che ne valga la pena, dato che mi hai disturbata nel bel mezzo di un incontro galante e mi hai costretta a precipitarmi da quella lì”.

La donna tirò fuori un foglietto e lesse il contenuto.

“Ok. Senti, se siamo ad una svolta, quando li devo andare a smontare i microfoni in casa di quella Kiyomi? Ah, devo aspettare ancora? Va bene. D’altronde dopo tutta la fatica che ho fatto per montarli di nascosto, farli durare solo tre giorni sarebbe uno spreco. Si, il numero lo distruggo subito. Non preoccuparti, sono una professionista. Quando vuoi, sai come contattarmi, L. Bye”.

La motociclista si rimise il casco e sfrecciò via nella notte.

Adesso era la secondogenita della famiglia Kenwood ad aver voglia di una bella doccia e di una buona cena.


L rimase per un po’ a fissare il cellulare.

Anche in quello si distingueva: lo reggeva per un’estremità usando solo la punta di due dita.

Era molto comodo avere dei collaboratori. Del resto neppure lui poteva fare tutto.

Tuttavia doveva sempre ricordarsi che avere dei collaboratori non significava dover rinunciare all’azione in prima persona, pena la poltroneria.

Accucciato sulla sedia, L digitò sul suo computer quel numero.

Poi entrò nel sito del ministero delle comunicazioni.

Tirò fuori un vasetto pieno di nocciole, immerse nel miele, e un dischetto, infilò quest’ultimo nel computer e ne scaricò il programma.

Digitò alcuni tasti e in pochi minuti l’hacking del sito fu completato.

“Anche questo sarebbe stato un ottimo esempio per te, Negi, di come le cose necessarie, possano essere anche sbagliate, quindi non da imitare. E con me l’elenco sarebbe lungo. Ma credo di essere riuscito a proteggerti da un eccessiva ammirazione per me. E credo anche di averti divertito almeno un pò”.

D’altronde, proprio per quel motivo aveva voluto che lo seguisse nelle indagini.

Dopo un po’ apparve la foto della persona cui apparteneva il numero.

L, che aveva iniziato a mangiare le nocciole nel miele usando un cucchiaino, non la conosceva.

Quando apparve il nome, le cose cambiarono.

“Bingo, Negi”.

 

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Capitolo 9
*** 9° Capitolo ***


9° CAPITOLO

“E’ pertanto, questa corte condanna l’imputata a una pena di venticinque anni da scontare…”

Il resto delle parole non contava per Asuna.

Le bastarono le prime parole per sentirsi un peso sul cuore.

Però, stranamente, molto leggero.

Inoltre, niente lacrime.

Asuna mantenne la sua dignità.

Gli agenti la ammanettarono e la accompagnarono verso l’uscita, mentre Obata si accostò.

“Non si preoccupi” le sussurrò “Faremo ricorrere in appello. Non ci resterà a lungo in carcere, glielo prometto”.

Asuna non disse nulla e si limitò a rispondere accennando un inchino.

Siccome i giornalisti, tenuti lontano dal processo, assediavano ora l’ingresso del tribunale, e dal momento che era compito di Obata affrontarli, Asuna fu fatta passare per una porta secondaria, che sbucava in un corridoio di servizio.

L’unica sorpresa Asuna la ebbe quando vide la madre di Negi, accompagnata da un uomo che Asuna non conosceva, che l’aspettava.

Soichiro Yagami fece un cenno ai due poliziotti, che si fermarono.

“Il signor Yagami mi ha informata. Non è finita qui” disse la donna ad Asuna.

“Assolutamente” rispose con decisione la ragazza. “E Negi?”

“Ho preferito che restasse a casa. Temevo si agitasse troppo. E lui ha accettato, anche se a malincuore”.

“Ha fatto bene. Meglio evitargli lo stress a questa età”.

Fu il turno dei due agenti di fare un cenno a Yagami, che annuì.

Asuna fu portata via.

La madre di Negi tirò fuori un fazzoletto per asciugarsi una lacrima.

Yagami le mise una mano sulla spalla. “Non si preoccupi, signora. Sono sicuro che tutto si risolverà”.

“Lo spero. Per Asuna. E per mio figlio. Soffrirebbe troppo, altrimenti”.

“La capisco. Sa, anch’io ho un figlio, di cui vado molto fiero”.


Obata, dopo aver comunicato il verdetto alla stampa, liquidò rapidamente quest’ultima e tornò nel suo ufficio.

E grande fu la sua sorpresa quando vi trovò una ragazza, giovane, con folti capelli rossi e una borsetta voluminosa, ricoperta di cristalli scintillanti, in mano.

“Chi è lei?” domandò Obata.

“Salve” esordì la ragazza andando a stringergli la mano “Mi scusi se sono entrata. Mi chiamo Ayana Sasagawa, e sono un’aspirante giornalista”.

“Giornalista? E cosa vuole da me?”

“Sto realizzando una tesi sul funzionamento della magistratura nel nostro paese. E avevo pensato di chiedere a un vero avvocato cosa ne pensasse, e cosa sapesse dei meccanismi interni della burocrazia”.

“Sono lusingato. E lei ha scelto me?”

“Certo, il famoso avvocato Teru Obata, figlio del grande giudice Masamuni Obata. Lei è diventato avvocato molto rapidamente, svettando tra tutti per l’impegno, la preparazione e la grande dedizione alla causa della giustizia. Chi meglio di lei potrebbe aiutarmi?”

Obata rimase in imbarazzo. “Be, a me piacerebbe aiutarla, ma sono molto indaffarato. Proprio adesso sono uscito da un processo.”

Sasagawa cominciò a guardare in giro, notando le varie foto di Obata con l’illustre genitore: iniziavano da quando l’avvocato era un bambino di cinque anni arrivando fino alla laurea con lode.

Una carriera grande all’insegna di un’illustre tradizione familiare.

“Mi scusi” riprese la giovane “non voglio essere seccante, ma più vedo la sua storia, più mi rendo conto che lei è la persona adatta per la mia ricerca. Le assicuro che non c’è fretta. E non intendo neppure assillarla con domande dirette”.

Sasagawa mise la mano sulla cornice di un grande quadro raffigurante Masamuni Obata.

“E allora” disse Obata prendendo la mano di Sasagawa e abbassandola gentilmente “Come intende farsi aiutare?”

“Lasciandole un questionario. Può riempirlo tra una settimana, lunedì prossimo verrò a ritirarlo. E le assicuro che sarà anonimo, quindi non dovrà temere che lo utilizzi per scopi malevoli”.

Obata sembrò rifletterci sopra, mentre Sasagawa ricominciò a guardarsi intorno e sembrò molto interessata al quadro di Obata senior.

Pose la mano sulla tela, come a saggiarne il tipo di pittura.

“Ci sto!” esclamò all’improvviso Obata facendo sobbalzare Sasagawa. “Adesso per favore, può lasciarmi solo? Ho altre questioni da svolgere”.

“Certamente” rispose raggiante Sasagawa tirando fuori dalla borsa alcuni fogli.

“Ecco il questionario. Posso trovarlo completato lunedì?”.

“Sicuro” la tranquillizzò Obata.

Si strinsero la mano e Obata fece uscire educatamente la ragazza.

Una volta fuori, la ragazza entrò in un ascensore vuoto.

Prese il cellulare quando le porte si chiusero. “Sono io. Allora, hai scoperto niente dal piccolo tour virtuale che ti ho fatto fare? Ah si? Bene, felice di esserti stata d’aiuto, L. Se hai bisogno di altro, Kazumi Asakura, giornalista paladina della giustizia, è sempre disponibile!”

La ragazza chiuse la minuscola telecamera digitale il cui obbiettivo era mimetizzato tra le pietre della borsetta.


Il pomeriggio Negi si recò da L.

Aveva immaginato di trovarlo seduto, a suo modo, sulla sedia e intento a mangiare dolci.

E ci azzeccò.

L scrutava i monitor con in bocca ben due leccalecca.

“Asuna è stata condannata. Me l’ha detto la mamma” esordì Negi.

“Lo so, il telegiornale l’ha annunciato. Fortuna che non hanno fatto nomi” rispose L togliendosi i leccalecca.

“Già, fortuna” ripeté Negi.

Che solo allora si accorse di una cosa: possibile che in tutti quei giorni non fosse trapelato niente di niente alla stampa?

La cosa l’aveva trovata normale all’inizio, ma dopo tutto quel tempo, e anche dopo la fine del rapido processo, possibile che il nome e il volto di Asuna non fossero mai trapelati?

A meno che…

“L, non è che tu…”

L lo guardò sfoderando di nuovo un dolce, innocente e rassicurante sorriso.

Negi sgranò gli occhi: “Ma come hai fatto? Cioè, sin dall’inizio…”

“Diciamo che qualcuno, sapendo a cosa m’interesso, mi tiene la stampa fuori da piedi”.

“E non posso sapere chi è, giusto?”

“Esatto. Non sentirti offeso, non è questione di fiducia ma di prudenza. Meno sai di me, più sarai al sicuro”.

“Capisco. Comunque per il caso… io non mi sono fatto prendere dalla disperazione perché ho fiducia nelle tue indagini. Però, mi spieghi perché hai voluto sapere se quell’Obata mi conosceva?”

“Saprai tutto a suo tempo. Adesso non possiamo agire, dovremo attendere stasera. Sarà il momento decisivo. E il giorno dopo, potremo scagionare Asuna”.

“Non vedo l’ora!”


Il giorno dopo, finita la scuola, Negi si recò rapidamente da L.

Aveva un’espressione quasi ansiosa.

Era il giorno in cui Asuna sarebbe stata condotta al penitenziario.

Però non ci sarebbe rimasta a lungo, perché L l’avrebbe scagionata.

Quel grande, incredibile e anche ben organizzato detective, doveva farcela sicuramente.

Quale verità avrebbe svelato dietro la morte di Takamichi e della povera Konoka?

Poteva solo immaginarlo.

Raggiunto l’appartamento di L, salì rapidamente le scale.

“L, allora?” domandò entrando con slancio.

“Oh cavolo, mi sa che ho sbagliato tutto!” esclamò L dando le spalle a Negi.

Che rimase di sasso.

“Co-come?!”


Quella sera, Obata rientrò a casa abbastanza presto per i suoi orari.

In fondo aveva avuto meno da fare rispetto al solito.

Gli venne in mente che avrebbe potuto anche compilare quel questionario che gli aveva lasciato Sasagawa.

Parcheggiò la macchina nel sotterraneo del suo condominio.

Sceso dal veicolo, guardò l’orologio.

“Fermo là, bastardo!”

Udendo quella voce, Obata trasalì.

Si girò e vide, quasi nell’ombra, sul ciglio di una porta che dava su un corridoio buio, una piccola figura.

Ne intravedeva vagamente la capigliatura ma non il volto.

Dall’altezza sembrava un ragazzino.

“Tu… tu chi sei?”

“Non ha importanza!” rispose l’altro.

Chiaramente un ragazzino, anzi, una ragazzina, a giudicare dalla voce.

Anche i capelli sembravano troppo folti per essere di un maschio.

“E allora chi sei! E che diavolo ci fai qui?!” gridò Obata iniziando ad andarle incontro.

L’estranea tirò fuori quella che sembrava una piccola pistola.

E sparò un colpo che s’infranse contro una colonna di cemento vicina all’avvocato.

Quest’ultimo rimase senza fiato. “Sei… sei armata?!”

“Si. E ne ho una proprio per te. Maledetto bastardo! Tu e quella dannata Takada!”

Obata sorrise. “Senti, ragazzina, sono sicuro che di qualunque cosa si tratti, non c’è bisogno di ricorrere alla violenza. E poi, vorresti davvero macchiarti di un omicidio alla tua età? Suvvia”.

“Non prendermi in giro. Guarda che so tutto! Tutto! Avevo riposto la mia speranza nelle persone sbagliate! Ma ora so tutto. Konoka, la povera Konoka, che tu hai ucciso, maledetto bastardo, aveva lasciato una confessione. Credevi di averla fatta sparire, vero? E invece prima ne aveva scritta un’altra, ancora più precisa. Dove accusa Takada, la tua amante, di averla raggirata, organizzando il finto scherzo che in realtà consisteva in uno stupro dell’amica di Konoka. Aveva anche scoperto il tuo coinvolgimento. Ma ora è finita”.

La ragazzina tirò fuori una busta. “Qui c’è tutto. Però non mi basta. Voglio che confessi di aver ucciso Konoka!”

“Che cosa?! Perché mai…”

Nella pistola, un altro colpo fu messo in canna. “Vuoi vedere che te lo ficco in quella testaccia?! Tanto la legge non potrà essere troppo severa con una della mia età. Dovresti saperlo! Sempre ammesso che mi becchino”

Obata, chiaramente innervosito, aveva cominciato a sudare.

“E va bene! Maledetta mocciosa! Si, l’ho confesso, ho ucciso io Konoka Konoe!”

“Bene, allora penso che adesso dovrai fare un bel discorsetto alla polizia”.

La ragazzina fece cadere la busta, tirò fuori un cellulare e cominciò a digitare il numero.

Obata non era molto lontano e approfittò di quella distrazione per saltarle addosso.

Essendo un adulto, non ebbe problemi a disarmarla.

“Dannata mocciosa! Muori!” esclamò l’avvocato sparandole.

La nuova vittima dell’avvocato si accasciò al suolo, restando in parte nell’ombra, mentre una pozza di sangue cominciò a scorrere sotto di lei.

Obata prese la busta.

“Stupida idiota! Mi hai fatto uccidere ancora. Adesso dovrò pure far sparire il tuo corpo. Ma prima vediamo cosa aveva scoperto quella dannata Konoka”.

L’uomo aprì la busta e prese il foglio al suo interno.

Fatto questo, restò senza parole.

Perché su quel foglio non c’era un messaggio, ma la parola, scritta con ideogrammi di grandi dimensioni, ‘FREGATO!’.

“No!” esclamò Obata.

“E invece si” disse qualcuno apparendo come dal nulla dietro di lui.

Era vestito da poliziotto, ma ad attirare l’attenzione erano la folta capigliatura nera e gli spessi occhiali, anch'essi neri.

“Agente, non è come pensa lei…” azzardò l’avvocato.

Un tentativo di difesa che cessò subito quando si accorse che quel poliziotto aveva in mano una piccola telecamera.

“Mi dispiace, signor Obata. Per lei è finita. Ha ucciso a sangue freddo una ragazzina, dopo averla disarmata. Quindi non può nemmeno invocare la legittima difesa. E poi, le sue ultime frasi. Ha detto che deve far sparire il corpo. E che ha dovuto uccidere ancora. Immagino che la prima volta si trattasse di Konoka Konoe, dico bene? Quindi non può neppure dire che quella di prima era una falsa confessione per salvarsi la vita”.

Digrignando i denti, Obata sparò contro il poliziotto.

E non successe niente.

“C-cosa?!”

“E’ caricata a salve. Il primo proiettile era in realtà una micro carica attaccata alla colonna. Mentre il secondo era una pallottola caricata con liquido rosso” spiegò impassibile l’agente.

“Liquido rosso?! Allora…”

Detto fatto, il cadavere della seconda vittima si rimise in piedi e si rifugiò completamente nel buio.

E Obata sentì chiaramente una risatina di scherno provenire dall’ombra.

L’avvocato guardò prima dov’era la finta morta, poi il poliziotto.

“MALEDETTI!!” gridò lanciandosi contro quest’ultimo.

Che lo stese con un ampio calcio circolare in pieno viso.

Obata stramazzò al suolo.

L’agente lo ammanettò e si sincerò che fosse svenuto.

“Tutto a posto” annunciò.

Negi uscì dal corridoio buio.

Si tolse una parrucca e un congegno applicato alla gola, per camuffare la sua voce.

“Per fortuna. Niente male quest’apparecchio. Come il tuo calcio”.

“E’ un colpo di copoeira. Me l’ha insegnata un’amica” spiegò L.

“Riservi sempre delle sorprese. Adesso capisco perché mi hai chiesto se Obata mi conosceva. Cosi non potrà fare alcun collegamento tra me e la misteriosa ragazzina che l’ha incastrato stasera. Comunque lascia che ti dia un consiglio. La prossima volta che hai un cliente, e quest’ultimo viene da te per conoscere gli ultimi sviluppi, tu non gridare che hai sbagliato tutto. Cioè, solo perché hai comprato una confezione di leccalecca alla fragola anziché al cioccolato, mi gridi cosi? Alle persone fai venire un colpo!”

“Fa fi fufto affa fafofa efa fueffo fhe fofefo”.

L aveva di nuovo i leccalecca in bocca.

Negi fece per dire qualcosa, poi rinunciò.

“Adesso è il momento di andare. Prima che a casa si accorgano che te la sei svignata” riprese L parlando normalmente.

“Hai ragione. Ci vediamo domani” disse Negi correndo via sotto lo sguardo del detective.

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Capitolo 10
*** 10° Capitolo ***


10° CAPITOLO

Negi entrò nel commissariato accompagnato dalla madre.

Sperò ardentemente che quella giornata segnasse davvero la fine di tutta la vicenda.

Furono accompagnati in un ufficio.

“Piacere di vedervi” disse loro Soichiro Yagami alzandosi da dietro una scrivania. L’uomo strinse la mano a Negi. “Sono il sovrintendente Soichiro Yagami. Sono io che gestisco le indagini sull’omicidio di Konoka Konoe” gli spiegò.

“Capisco” rispose Negi mentre si accomodava insieme a sua madre.

“Signor Yagami, perché ci avete convocato?” domandò quest’ultima.

“Per annunciarvi innanzitutto che entro domani Asuna Kagurazaka sarà scarcerata. I veri colpevoli sono stati scoperti. E la ragazza ha indicato lei, signora, e suo figlio, come le persone più prossime che ha”.

Sentendo questo, i volti dei due visitatori s’illuminarono di una gioia indescrivibile.

“Ma non solo per questo” riprese Yagami. “Il fatto è che i casi di Kagurazaka e Konoe sono collegati, essendo stati compiuti dalle stesse persone. E dato il rapporto tra voi e una delle vittime, è giusto che sappiate tutto. Il colpevole è l’avvocato Teru Obata, insieme alla sua amante, la giornalista Takada Kiyomi. E l’assistente di quest’ultima, Demegawa, completava il tutto. Li abbiamo arrestati. L’assistente è stato il primo a cedere, confessando tutto per avere uno sconto di pena”.

“Non ci posso credere! L’avvocato di Asuna era anche la persona che l‘aveva incastrata?!” sbottò la madre di Negi.

“Infatti. Una nostra equipe ha lavorato in gran segreto per risolvere il caso. Vi devo informare anche perché alla fine di tutto c’è una sorpresa veramente grossa riguardante Asuna Kagurazaka”.

Il sovrintendente iniziò a spiegare tutto il caso, dalla prima trappola, tesa a Konoka perché ne tendesse a sua volta una inconsapevole ad Asuna, fino all’omicidio di Takamichi, compiuto da Takada, e al falso suicidio di Konoka, attuato da Obata stesso.

Mentre sua madre non perdeva una parola, Negi invece doveva fingere interesse.

Infatti, erano tutte cose che già sapeva grazie ad L.

E siccome Yagami diceva le stesse cose, al ragazzo vennero forti sospetti sull’identità dell’equipe segreta che aveva lavorato al caso.

L’unica cosa che Yagami tacque, fu che il numero di Obata era stato scoperto violando i computer del ministero delle comunicazioni, compiendo cosi una clamorosa violazione della privacy.

Una delle tante cose a volte necessarie ma comunque sbagliate che L era costretto a fare per svolgere bene il suo lavoro, e che aveva taciuto anche a Negi, data la sua età.

L’interesse di Negi divenne invece autentico quando si passò alle modalità dell’omicidio di Konoka.

Tali modalità non gli erano state spiegate dal grande detective, diceva che il ragazzo le avrebbe apprese poi.

E anche la sorpresa cui aveva accennato Yagami, L già la conosceva ma non aveva voluto svelarla a Negi per mantenere, a suo dire, la suspense.

“La signorina Konoe” spiegò Yagami “aveva deciso di confessare, scrivendo una lettera di scuse all’amica dove raccontava anche che era stata Takada a organizzare il falso scherzo, convincendola a portare Asuna Kagurazaka a quella festa. Ma commise un errore: fidandosi ancora di Takada, le telefonò per dirle il suo intento. Quest’ultima chiamò il suo amante, Teru Obata, che decise di chiudere la bocca alla Konoe. Un’azione di per sé non necessaria. Nessuno, infatti, poteva risalire a lui o immaginare l’esistenza di un terzo complice. Persino quando si telefonavano, i due amanti usavano un linguaggio molto allusivo, privo di nomi, che mimetizzava perfettamente le loro chiamate tra le miriadi di altre telefonate che Takada riceveva durante la giornata. E la giornalista poteva scagionarsi dicendo di non conoscere la depravazione di Takamichi. Purtroppo Obata, nonostante il suo apparente autocontrollo, è un tipo molto impulsivo, che tende a perdere il controllo in situazioni da lui ritenute pericolose, come ha dimostrato la falsa messinscena organizzata ieri sera, da noi, per incastrarlo. Quindi si è congedato dalla sua cliente fingendo un impegno in banca. E ci è andato davvero. Ma prima si è fermato a uccidere la signorina Konoka. E’ passato da un ingresso d’emergenza per non farsi vedere dal portinaio ed è salito dalla sua vittima, la quale era stata avvertita poco prima da Takada stessa, per questo gli ha aperto.

Sempre Takada gli aveva detto dove la Konoe teneva la pistola, perciò con una scusa Teru l’ha attirata in camera da letto, l’ha stordita colpendola alla nuca, le ha messo la pistola in mano e l’ha uccisa sparandole alla tempia. Siccome al momento dello sparo era la vittima a impugnare l’arma, anche con la prova del guanto di paraffina e i test della balistica sarebbe risultato un suicidio. L’assassino ha anche posizionato il corpo per dare l’impressione che dopo lo sparo fosse caduto di peso sul letto, e con la nuca sulla testiera. Per spiegare l’eventuale presenza di un bernoccolo. Ha lasciato infine il foglietto, opportunamente privato della confessione, ed è uscito da dove era entrato”.

“Che mostruosità” esclamò la signora Springfield. “Ma perché tutto questo?”

Yagami si fermò a riflettere. “Mi raccomando, cercate di mantenere il massimo riserbo su ciò che vi dirò” disse infine.

“Il motivo scatenante è legato all’eredità della famiglia Mikami”.

Sentendo quel nome, Negi e sua madre riandarono ad una vicenda che aveva riempito gli articoli di mezzo mondo un anno prima: la morte del magnate Isao Mikami, uno degli uomini più ricchi del mondo.

Mikami era morto molto anziano e senza eredi, e quando trapelò la notizia che aveva sguinzagliato dei detective privati alla ricerca di parenti diretti e inconsapevoli di esserlo, una cosa considerata possibile causa la condotta dissoluta dei suoi quattro figli da tempo deceduti, sui giornali si era scatenata una febbre su questa caccia all’erede.

Col passare del tempo, l’interesse dei media era calato ma ogni tanto se ne ricordavano per qualche servizio di colore.

“Orbene” continuò Yagami “Teru Obata è un erede di Mikami. E’ il figlio illegittimo di uno dei figli del miliardario. Nel suo studio, in una cassaforte nascosta dietro un quadro di Masamuni Obata, suo padre adottivo, abbiamo trovato le copie di documenti attestanti l’appartenenza di Teru alla famiglia Mikami. E abbiamo trovato gli originali delle copie attestanti l’appartenenza della stessa Asuna Kagurazaka ai Mikami”.

Negi e sua madre rimasero senza parole: Asuna era l’erede di una famiglia miliardaria?!

“Capisco il vostro stupore” riprese il sovrintendente “Asuna Kagurazaka è orfana. E’ anche lei figlia illegittima di uno dei Mikami. E con l’arresto di Teru Obata, è adesso l’erede di una fortuna di ben venti miliardi di yen”.

“Quindi l’avvocato voleva la fortuna tutta per sé” disse la signora Springfield quando si fu ripresa dalla sorpresa.

“Sì. Per sé, una volta divenuto Teru Mikami, e per la sua amante, Takada. A Demegawa invece sarebbe andata una bella ricompensa sottoforma di grossi assegni mensili. Ma non escludo che un giorno Obata e Takada avrebbero deciso di sbarazzarsi anche di lui.

Obata ha voluto essere l’avvocato di Asuna per assicurarsi che fosse condannata. Sarebbe andata in una prigione scelta su indicazione di Obata, grazie ai suoi agganci al ministero della giustizia. Dopo un po’ di tempo, Asuna sarebbe stata uccisa da una detenuta che avrebbe fatto credere a un suicidio”.

“Pure questo?!” esclamò indignato Negi, che non conosceva quest’ultimo piano di Obata.

“Sì. Tatsumiya Mana, killer professionista, per lungo tempo sfuggita alla legge perché molto brava a cancellare le prove. Ma, gli strani capricci del fato, quasi un anno fa è stata incarcerata e condannata a quarantacinque anni per un duplice delitto che a quanto pare non ha commesso. Teru Obata ha, infatti, trovato una prova che la scagiona completamente, custodendola nella sua cassaforte. Mana gli avrebbe fatto questo favore e lui in cambio l’avrebbe fatta tornare libera. Noi consegneremo tale prova ai magistrati, ma essendosi resa complice del piano per assassinare la Kagurazaka, dubito che Mana tornerà libera”.

“Mostruoso” commentò Negi “Per fortuna adesso è tutto finito”.

“Appunto. Vi consiglio di tornare a casa e di prepararvi. Un mondo del tutto nuovo attenderà Asuna Kagurazaka domani, avrà bisogno di una famiglia, e penso che voi possiate ben svolgere questo incarico” li congedò Yagami accompagnandoli fino alla porta.

Prima di uscire, Negi lanciò uno sguardo all’ufficiale di polizia.

E senza farsi vedere dalla madre, col dito tracciò il segno di una lettera su un braccio.

Rimasto solo, Yagami girò il risvolto della giacca: nel risvolto c’era una spilla a forma di L.

“Avevi ragione, è un ragazzo sveglio”.


Tornati a casa, Negi avvertì la madre che intendeva un attimo andare dal suo nuovo amico.

Il giovane quindi corse, con un’espressione di massima felicità, verso l’appartamento di L.

Una volta arrivato, si bloccò di colpo: come mai l’appartamento di L aveva le finestre aperte?

Fermandosi a riflettere, si accorse allora del pacchetto che stava nascosto sotto la scalinata.

Era un pacchetto chiuso in una carta regalo ben messa.

Cautamente Negi lo aprì.

Dentro c’erano dei dolci, e un biglietto.


“Caro N, come avrai immaginato, sono andato via.

Essendo una leggenda urbana, i cui casi sono tutti ufficialmente risolti dalla polizia, ti sembra che io possa avere un recapito fisso?

Conoscendo i tuoi orari, so che hai già parlato con Y e quindi sai come stanno le cose, tutte cose che io avevo scoperto due notti fa ma che non potevo dirti interamente ieri pomeriggio perché meno tempo A restava in carcere, meglio era. Quindi bisognava organizzare subito la recita per incastrare il colpevole.

Mi sono preoccupato della tua sicurezza durante la nostra messinscena, nessuno può risalire a te.

Ti ho lasciato dei dolci, mangiali in modo da diventare sempre più intelligente, mi raccomando. Sei già su una buona strada.

E ti ringrazio per l’aiuto e la compagnia”.


Dunque non c’era più.

Lo avrebbe rivisto?

Non poteva dirlo.

Non aveva neanche potuto chiedergli della faccenda della schiena.

Però ormai non aveva più senso.

“Grazie a te, L” concluse ad alta voce Negi.


Quando le aprirono la porta, dicendole che era libera, Asuna non seppe cosa dire.

Si limitò a camminare, attraversando la strada davanti al carcere.

Una volta arrivata all’altro lato, si girò.

Era fuori dalla prigione.

Cominciò a respirare a pieni polmoni l’aria della libertà.

“Asuna!”

Alla sua destra stava arrivando, correndo, Negi con sua madre.

“Negi!” gridò Asuna andandogli incontro.

I due si abbracciarono con forza.

“Asuna! Sei libera! Che sollievo!”

“Io sono sollevata di vedere te, il mio fratellino ideale” rispose Asuna.

Entrambi con due bei lacrimoni grossi come noci.

La madre del suo carissimo, piccolo amico, li raggiunse e strinse la mano all’ex-detenuta.

“E’ un vero piacere vederti libera, Asuna”.

“La ringrazio, signora”.

“Come ti senti?”

“Felice! Anche se…”

Una lieve ombra calò sul volto della ragazza.

“Un ufficiale, Yagami, mi ha spiegato tutto. E mi ha detto di Konoka. Dio mio, lei ha partecipato a tutto questo per colpa mia! Come ho fatto a non rendermene conto? Presa dalla mia smania di aiutare, non mi sono accorta che a volte le persone vogliono essere lasciate libere di cavarsela da sole. Ed io glielo ho impedito per tanti anni. Che gran bastarda che sono stata”.

“Hai commesso degli errori” ammise la signora Springfield “però adesso la cosa giusta da fare non è piangere sul latte già versato, ma rendersi conto degli errori e impegnarsi affinché non si ripetano più. Non dimenticare che Konoka si era pentita, voleva aiutarti. Ti voleva comunque bene. E penso che, se ora fosse qui, ti perdonerebbe e chiederebbe perdono”.

“Penserò che sia cosi” disse Asuna.

“Allora, adesso che facciamo?” domandò Negi.

Asuna si grattò in testa. “Eggià. Adesso sono una multimiliardaria. E non ho la più pallida idea di cosa farne di tutti quei soldi. Ho persino paura di toccarli. Temo che possano trasformarmi in una persona avida”.

“O farti diventare una persona che pensa solo a questioni finanziarie” convenne la madre di Negi.

Che poi schioccò le dita. “Ci sono: perché non vieni con noi?”

“Con noi?” domandarono insieme Negi e Asuna.

“Oh si. Vedi, Negi, l’altro giorno sono andata a rintracciare quello scriteriato di tuo padre, il nostro Indiana Jones made in Japan. Che ne dici di andare a prenderlo per convincerlo a occuparsi un po’ di più della sua famiglia? E Asuna può venire con noi. Cosi avrà modo di schiarirsi le idee”.

“E dove si trova mio padre adesso?”

“In Egitto”.

Asuna e Negi si guardarono. “Perché no?”

Si diressero allora verso la casa degli Springfield, per preparare i bagagli.

****

La porta della cella si aprì.

Teru Obata, Mikami se il suo piano fosse andato in porto, non sembrava molto a suo agio con la divisa da carcerato.

Seduto sulla branda, guardò con lieve disprezzo l’uomo che era venuto a trovarlo.

“Sovrintendente Yagami, giusto?” esordì Obata.

“Esatto” rispose il poliziotto.

“Cosa vuole? Farmi altri interrogatori? Se è cosi, deve esserci pure il mio avvocato”.

“Quello che ci diremo va oltre questo caso. Soprattutto la seconda cosa. La prima è più una domanda personale. Perché ha fatto tutto questo? Come mai il rampollo di un’illustre famiglia di magistrati e avvocati, ha ucciso una persona e fatto condannare un innocente, tra l’altro suo parente, per dei soldi?”

“Perché?” Teru ridacchiò, come se gli avessero posto una domanda troppo banale. “Perché sono tutte sciocchezze. In passato anch’io credevo ciecamente negli ideali di giustizia cui si erano consacrati gli Obata. Per questo mi sono dato cosi tanto da fare per diventare avvocato. Volevo rendere il mondo un posto migliore. Ma lo sa cosa è successo una volta che sono sceso in campo? E’ successo che sono rimasto disgustato. Per il marciume non dei criminali, ma dei cosiddetti garanti della giustizia. Mi sono ritrovato immerso in un lordo oceano di connivenze, corruzioni, abusi e ingiustizie varie. Tutto commesso da poliziotti, avvocati, magistrati, politici. Certo, ci sono anche gli incorruttibili, ma sono l’eccezione che conferma la regola. Gli ideali della legge e della giustizia sono belle parole, troppo belle perché si possano veramente mettere in pratica e quindi finiscono per diventare uno schermo dei criminali. Ergo, sono solo sciocchezze”.

“Potrei dirle” rispose Yagami “che, nonostante gli indubbi difetti istituzionali, ha sbagliato anche lei, signor Obata. Ha peccato d’idealismo, è sceso in campo pensando di poter cambiare radicalmente le cose, non c’è riuscito e restando scottato, ha trasformato la sua fede in disillusione, alimentando il male che avrebbe dovuto e potuto combattere. Se tutti fossero come lei, l’umanità si estinguerebbe”.

“Forse sarebbe un bene” rispose Obata “ma lei non è qui per una discussione filosofica, vero?”

“No, infatti. Passando al secondo motivo della mia visita, anche se il caso è risolto, c’è qualcosa che non quadra per i membri dell’equipe segreta che ha condotto le indagini. Lei ha fatto tutto questo per i soldi. Ma perché l’ha fatto in questo modo, montando questa messinscena? Perché ha dovuto coinvolgere Asuna Kagurazaka in un’accusa di omicidio? E progettare di eliminarla una volta in carcere? Avrebbe potuto benissimo farla uccidere da qualcuno, ad esempio, per strada. Magari simulando una rapina finita male. Chi avrebbe sospettato la morte di una semplice diciottenne? I giovani che muoiono sono tanti, troppi, purtroppo.

E poi, come si è procurato la prova in grado di scagionare Tatsumiya Mana? E sempre a proposito di quest’ultima, la sua stessa presenza è sospetta. Una killer professionista in carcere e ingaggiabile con la promessa della libertà. Sembra che qualcuno gliel’abbia servita su un piatto d’argento”.

Teru distolse lo sguardo. “Non avrei motivo di parlare. Tanto la cosa non può scagionarmi, trattandosi di un fantasma”.

“Se però in lei è rimasta almeno una briciola dell’uomo che credeva nella legge, allora dovrebbe parlare”.

L’ex-avvocato sospirò e guardò negli occhi Yagami: “Non so chi sia. E’ come un fantasma. L’ho sentito solo tre volte.

Un anno fa fui contattato da un investigatore privato, che diceva di aver scoperto la mia appartenenza alla famiglia Mikami. Diceva anche che c’era un altro erede. Ma la sera in cui avrei dovuto incontrarlo, per verificare i risultati delle sue indagini, quell’uomo morì in uno strano incidente d’auto. O meglio, inizialmente sembrò un incidente ‘normale’.

Però pochi giorni dopo, mi chiamò qualcuno, usando un numero privato.

Parlava con voce contraffatta, quindi non so se era una persona giovane o vecchia, oppure se era un uomo o una donna.

Disse che aveva lui i documenti del detective, e me li avrebbe consegnati se in cambio io mi fossi prestato a un esperimento. Ha usato proprio questo termine, esperimento.

Come prova della sua buona fede, mi mandò i documenti originali su Asuna e le copie di quelli riguardanti me.

A quel punto, quando arrivò la sua seconda telefonata, decisi di accettare la sua proposta e lui mi mandò anche la prova dell’innocenza di Mana.

Questo mi fa ipotizzare che sia stato proprio il misterioso sperimentatore a farla finire in prigione.

Inizialmente ero molto titubante, ma quando m’inviò via mail il suo piano, rimasi sbalordito per la precisione di quel progetto. Chi l’aveva realizzato, aveva scelto attentamente luoghi e persone, calcolando anche l’atteggiamento in determinate situazioni di quest’ultime.

Mi sembrava di stare leggendo un copione, dove è già fissato cosa succederà.

Divenni molto fiducioso, com’era richiesto nel progetto coinvolsi Takada e Demegawa, spiegai loro cosa fare e tutto sembrò funzionare per il meglio.

Poi commisi l’errore di uccidere Konoka Konoe.

Il misterioso progettista mi chiamò quello stesso giorno. Aveva intuito che ero stato io e mi rimproverò per la mia azione imprudente.

Mi colpì che ritenesse anche se stesso colpevole, per non aver ben previsto una mia azione di quel genere.

Affermò che non era ancora pronto. Che comunque, a quel punto bisognava continuare col piano. E che io non avrei dovuto mai più prendere iniziative. Non c’è altro”.

Yagami aveva ascoltato con grande attenzione.

Si portò una mano sul mento. “Questo personaggio, non si è dato un nome?”

“Oh sì, la prima volta. Uno pseudonimo” ammise Teru, che cercò di richiamare alla mente quel nome sentito una sola volta.

“Mi disse che potevo chiamarlo Kira”.

FINE (?)

Nota dell’autore: uff, finalmente è finita questa pubblicazione. Spero di essere riuscito a farvi passare qualche momento di spensieratezza e ringrazio di cuore chi mi ha recensito, ovvero Nuit e LarcheeX, e tutti quelli che mi hanno letto;)

Se poi vi chiedete a che pro il punto interrogativo nel finale, il fatto è che in teoria questa storia dovrebbe avere un seguito, ma solo se mi verrà fuori una trama all’altezza (almeno in teoria dovrà essere una bella trama) e se poi riuscirò a metterla per iscritto (tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare^^).

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