maternalia

di controcorrente
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dovere [Madame de JARJAYES] ***
Capitolo 2: *** Sacrificio [Maria Teresa] ***
Capitolo 3: *** Famiglia [signora De Soisson] ***
Capitolo 4: *** Minuetto [Martin Gabriel] ***
Capitolo 5: *** Pietra parte 1 [Marons Glaces Grandier] ***
Capitolo 6: *** Pietra seconda parte [Maron Glacé] ***
Capitolo 7: *** Pietra terza parte [Maron Glacé Grandier] ***
Capitolo 8: *** Trappola [Maria Antonietta] ***
Capitolo 9: *** Bambole [contessa di Polignac] ***
Capitolo 10: *** Sogno [Maria Antonietta] ***
Capitolo 11: *** MATER [Diane de Soisson] ***
Capitolo 12: *** RESPONSABILITA' [Nicole Lamorliere] ***
Capitolo 13: *** Maschera [Martin Gabriel/contessa di Polignac] ***
Capitolo 14: *** Buio [Maria Antonietta] ***
Capitolo 15: *** Chimera [?] ***



Capitolo 1
*** Dovere [Madame de JARJAYES] ***


motherhood Buonasera a tutti sono cicina e questa è la mia seconda fic. Questa è una drabble che ha come tema principale l'essere madre. Spero che sia di vostro gradimento. Buona lettura!
ps. chiedo scusa per la visualizzazione del testo ma non sono molto brava con l'html. Spero di migliorare.

  DOVERE: MADAME    DE JARJAYES                                                    

Fin da quando era nata, le era stato insegnato che una moglie deve portare pazienza e rispetto verso il proprio consorte e da figlia obbediente e devota aveva obbedito.  Quasi subito Marguerite imparò ad essere moglie, piuttosto che madre.
Aveva accettato senza protestare il marito che la famiglia le aveva scelto, un pezzo grosso dell'esercito, che avrebbe portato lustro e fama al proprio casato.  
Non si era mai soffermata a riflettere su come dovesse essere secondo lei il marito ideale, perché non ne vedeva lo scopo: a che le serviva sognare il principe azzurro se quello vero non esisteva?
Aveva conosciuto il generale 
 François Augustin Reynier de Jarjayes pochi mesi prima del matrimonio ed era rimasta colpita dal suo aspetto autorevole, quando lo vide far visita alla  villa dove viveva insieme alla sua famiglia.
Suo padre glielo presentò, spiegandole di comportarsi in modo da non portare vergogna al casato del generale ed al suo. Il giovane, dopo averle rivolto una veloce occhiata aveva guardato il padrone di casa, poi tornò nuovamente ad osservarla.
- Siete certo, signor conte, che vostra figlia sia in grado di generare un maschio in grado di portare avanti il mio casato?- chiese all'aristocratico.
-Non ho dubbi in proposito. Le donne della famiglia di mia moglie e della mia sono da sempre note per la loro prolificità e credo che  la mia piccola Marguerite sia perfettamente in grado di portare avanti questa tradizione, vero figlia mia?- fece l'uomo con un tono che non prevedeva, né  tanto meno richiedeva,  un'opinione da parte della ragazza.
Si era limitata ad annuire, perfettamente abituata ad accondiscendere alle richieste del padre e, per riflesso, di sua madre. Il conte aveva poi lasciato i due da soli. Per tutto il tempo che avevano trascorso insieme  non si erano rivolti la parola e lo stesso accadde negli incontri successivi.
Poi si era sposata con quel militare che conosceva a malapena. Giunta nella casa del marito, aveva iniziato ad assolvere al compito che le era stato assegnato: generare figli per il casato de 
Jarjayes. Rimase incinta quasi subito, dimostrando al suo autoritario consorte che non era sterile.  Mise al mondo una bambina, che rese il marito moderatamente felice: non era un erede con la E maiuscola, ma la sua nascita era una prova inconfutabile che suo padre non aveva mentito.
Naturalmente il generale non si accontentò che la prima gravidanza fosse giunta brillantemente a termine. Infatti Madame affrontò una serie infinita di gravidanze, tra cui numerosi aborti che misero più di una volta in serio pericolo la sua vita. Di quel periodo, non ricordava molto, tranne che aveva trascorso buona parte del suo tempo a letto a causa delle febbri puerperali e che suo marito le faceva  visita più spesso del solito.                                                                                                                                   Dopo la nascita della quinta bambina, il generale, insoddisfatto dei risultati si era rivolto al dottor Lasonne.
Marguerite fu sottoposta a numerose visite e costretta a bere una serie di strani intrugli che, secondo il medico dovevano favorire la nascita di figli maschi.
Aveva obbedito, fedele a ciò che il consorte e la famiglia si aspettavano da lei.
Non aveva aperto bocca sulle decisioni del marito  in merito all'organizzazione della vita delle sue figlie, acconsentendo a tutto, come una brava moglie.
Per diverso tempo non condivise più la stanza del consorte.
Il medico era stato categorico: il suo fisico era ancora troppo debole per affrontare una nuova gravidanza.  Durante quel periodo aveva cercato di rafforzare, nei limiti del consentito, il rapporto con le sue bambine.  
Sentiva però che il suo compito non era stato portato completamente a termine, perché non aveva esaudito ciò che tutti si aspettavano da lei. Vedere inoltre suo marito entrare ed uscire dalle stanze della servitù la indignava non poco. Pur essendo remissiva ed obbediente per natura, non avrebbe mai tollerato di vedere che il patrimonio del casato e la posizione delle sue figlie passassero in secondo piano, davanti al figlio di una serva.
Decise quindi di fare un ultimo tentativo e, come era accaduto in precedenza rimase incinta, malgrado non fosse più giovane.
Il generale era euforico ed era convinto che finalmente sarebbe nato un maschio.  Per una beffa del destino nacque una bambina ed in quel momento sia lei che il consorte si sentirono sconfitti.
Marguerite sorrise guardando dalla finestra la piccola Oscar correre in giardino, sotto la rigida sorveglianza del marito.
Non le dispiaceva avere sua figlia in casa, ma riteneva l'idea del marito una stramberia: che senso aveva crescerla come un maschio quando tutti, tranne la diretta interessata, sapevano che era una femmina?
Per un momento fu tentata di chiamare la sua ultimogenita nelle proprie stanze ma la vista del consorte e la sua espressione soddisfatta la bloccarono.  Non aveva mai visto
François Augustin Reynier de Jarjayes così fiero: mai si era mostrato così orgoglioso della sua prole.Un calore sconosciuto si diffuse nel suo cuore, senza che fosse in grado di capire cosa fosse. 
Marguerite sentì di non aver fallito completamente e per un breve istante guardò quella strana bambina con gli occhi del consorte, vedendo l'erede che non era riuscita a dargli. Accontonando così ogni perplessità e dubbio. si sentì felice e realizzata. Fiera di aver assolto al suo compito.


Spero che vi sia piaciuta. La madre di oscar non è un personaggio molto approfondito ed io mi sono basata sull'anime. Non credo che sia troppo ooc, comunque fatemi sapere cosa ne pensate.

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Capitolo 2
*** Sacrificio [Maria Teresa] ***


Prima di tutto vi ringrazio per le recensioni: non mi sarei aspettata così tanti lettori per questa raccolta che costituisce per me una sorta di esperimento. Vorrei precisare, riguardo a coloro che hanno osservato nel personaggio della madre di oscar uno scarso spirito materno, che il rapporto tra genitori e figli, così come noi lo intendiamo adesso, era molto diverso rispetto a oggi. L'interesse per l'infanzia e la cura della prole non era ancora molto diffuso. Per chi fosse interessato all'argomento consiglio di leggere il manuale di Stone "Famiglia, Sesso e Matrimonio in Inghilterra tra Cinquecento e Novecento". Libro, o mattone se preferite, che mi ha ispirato tantissimo, soprattutto perché descrive bene la famiglia dell'epoca (Sono un migliaio di pagine suddivisi in capitoli che parlano ciascuno di un argomento a sé. Ve lo consiglio.)

E ora... Buona Lettura!

SACRIFICIO: Maria Teresa d'Austria
Fin da quando aveva iniziato a seguire suo padre, l'imperatore Carlo VI, la piccola Maria Teresa aveva imparato a conoscere, benché non le fosse richiesto, i sottili giochi di potere che ruotavano all'interno della corte e che regolavano lo Stato. Alla morte del genitore ed in mancanza di un erede legittimo, aveva dimostrato a tutta l'Europa la sua innata indole d'acciaio, riuscendo a strappare agli altri sovrani del continente quel diritto al trono che sentiva  suo per volere divino.
 Aveva sposato l'uomo che amava, una persona che non le avrebbe mai negato l'accesso alla "sala dei bottoni" dove circolava il potere ed avevano luogo le decisioni politiche. Suo marito infatti, benché fosse un uomo attraente e dal carattere amabile, non era portato per tutto ciò che riguardava la gestione dello Stato e consapevole dei suoi difetti aveva lasciato il compito alla consorte, sostenendola dove necessario. Un fatto inconsueto agli occhi di molti.
Malgrado le numerose perplessità, su questo accordo si fondava parte del matrimonio che, tutto sommato, si era dimostrato un'unione felice.
Con questa sicurezza, Maria Teresa affrontava i vari problemi in modo pragmatico e razionale, nella piena convinzione che occorreva sacrificare il cuore per permettere alla testa di funzionare correttamente. In nome di questo lucido amore per lo Stato aveva sopportato le continue infedeltà del consorte senza mai smettere di provare affetto nei suoi confronti.
Il suo buon senso, che le aveva consentito di superare senza eccessivi problemi  le difficoltà, le imponeva di mettere a tacere ogni gelosia, ben sapendo che Francesco Stefano, suo marito, non l'avrebbe mai abbandonata e che il matrimonio non era sempre sinonimo di fedeltà, soprattutto da parte maschile.
Come la corte insegnava.
Aveva avuto in tutto sedici figli. Tre nati morti, tre deceduti durante l'infanzia: in entrambi i casi aveva mostrato all'aristocrazia un aspetto composto e pieno di dignità perché lasciar trapelare le proprie emozioni in pubblico poteva nuocere alla sua posizione ed al benessere del proprio casato. Solo in privato aveva dato sfogo al suo dolore perché per reggere il Paese e difendersi  dal mondo che la circondava, non si poteva permettere passi falsi.
Questa forma di controllo regolava da sempre ogni aspetto della sua vita, sia privata che pubblica. Gli insegnamenti paterni e le esperienze vissute erano incise a fuoco nel suo cuore, conferendole la fama così duramente conquistata. Queste regole non scritte valevano anche nei confronti dei figli sopravvissuti. Maria Teresa organizzava la loro vita quotidiana, scegliendo per loro le attività più congeniali al loro carattere e soprattutto utili per il futuro. Anche durante le riunioni con i consiglieri, pretendeva di essere informata su ogni singolo movimento dei  figli, verso i quali aveva un atteggiamento affettuoso e insieme severo. Sapeva per esperienza diretta che la corte, dietro la sua facciata ricca e sfarzosa, nascondeva pericoli di ogni sorta ed era bene che la sua prole fosse fin da subito educata a vedere l'aristocrazia per quello che era e a non farsi ingannare dalle sue lusinghe.                                                                                                 Come regina e madre doveva fornire alla sua prole tutte le difese possibili.  
Essere al di sopra delle parti era una delle raccomandazioni più frequenti che rivolgeva ai  figli, e spesso rimproverava suo marito quando cercava di distrarre i bambini dai compiti che con tanta diligenza aveva preparato per loro quotidianamente. Non poteva d'altra parte biasimare Francesco Stefano: aveva una famiglia affettuosa e allegra, che spesso le faceva dimenticare di essere una delle più potenti d'Europa.
I suoi bambini poi erano vivaci e amavano scherzare: l'emblema dell'innocenza. Spesso li vedeva correre spensierati nei giardini di Schonbrunn facendo disperare la governante che si occupava della loro sicurezza.
La scelta della residenza era stata dettata dalla presenza di verde e dal clima sicuramente più salubre, rispetto a Hofburg, il vero e proprio centro del potere. Per quanto le era possibile, voleva preservare i figli dall'ambiente caotico e dispersivo della corte. Proteggere i figli era uno dei suoi pensieri principali.
A questa preoccupazione si univa però la Ragion di Stato per la quale la regina avrebbe sacrificato tutto. Anche uno solo dei suoi figli, se ciò significava la sicurezza della dinastia e del Paese. Per questo motivo, usava le proprie figlie come pedine nella politica matrimoniale: per ottenere tale risultato Maria Teresa usava il pugno di ferro.
Niente la distoglieva dal raggiungere l'obbiettivo che si era prefissata: né le lacrime, né le crisi isteriche che spesso e volentieri coglievano le bambine. Se la regina aveva deciso, non c'era modo di farle cambiare idea.
Solo una volta aveva avuto qualche dubbio. Solo una volta l'amore per la famiglia ed il dovere nei confronti dell'impero si erano trovati in disaccordo.
Ricordava bene quel giorno.
In quel periodo era molto impegnata con i suoi consiglieri, tanto da trascurare l'educazione delle sue figlie, rimaste ancora a palazzo. L'argomento era quanto mai spinoso: era necessario ottenere un'alleanza con la Francia per poter contrastare l'ascesa di Prussia ed Inghilterra.  Aveva quindi deciso, secondo il suggerimento dei consiglieri, di stipulare un accordo matrimoniale tra il Delfino di Francia e la sua figlia più giovane.
A quel pensiero, Maria Teresa ebbe un tentennamento. Prima di prendere qualsiasi decisione si era informata sulla situazione a Versailles, in particolare sul tipo di ambiente che avrebbe dovuto accogliere sua figlia e ciò che aveva saputo non la rassicurava affatto.
Troppo lusso, troppi pettegolezzi, troppi aristocratici a caccia di favori. Sua figlia non era adatta. Malgrado la sua bellezza folgorante, era troppo ingenua per vedere l'ipocrisia che si celava dietro le maniere falsamente gentili dei nobili. Il terrore che quei francesi potessero distruggere sua figlia e privarla della serenità necessaria era una delle preoccupazioni maggiori. 
In cuor suo non avrebbe voluto accettare.
Il pensiero di dover mandare sua figlia in un luogo corrotto e soffocato dall'etichetta di corte, per certi aspetti assai più rigido di Schonbrunn, le aveva fatto perdere non poche notti di sonno: non avrebbe tollerato in una situazione normale un simile matrimonio.
Era inoltre consapevole che l'alleanza tra i due paesi era troppo recente.
No, non l'avrebbero amata.
La sua piccola Maria Antonietta, una delle persone più affettuose di sua conoscenza, sarebbe stata condannata ad una vita di solitudine, preda dei timori e dei propri innati capricci. Sola in una terra straniera e troppo diversa per essere amata come meritava. Dio solo sapeva quanti errori poteva commettere in quel luogo, senza la sua guida. Tutti, sussurrando al suo arrivo, l'avrebbero chiamata con disprezzo "l'Austriaca" senza esitare a sfruttarla.
Ma la sicurezza dell'Impero esigeva un tributo e Maria Teresa come imperatrice doveva essere la prima a seguire questa prassi.
Con un gesto aveva chiamato Gunther, il suo segretario, ordinandogli di chiamare sua figlia e arrendendosi ai doveri del suo ruolo.
Al pensiero di quel momento all'imperatrice si strinse il cuore. Con la sua partenza, il palazzo, un tempo popolato dalle risate e dalle voci infantili, si era fatto deserto e freddo. Mentre camminava per i grigi corridoi, guardando davanti a sé, la sovrana vide il ritratto del consorte, ormai morto da anni.
Come se il marito la chiamasse, si fermò di fronte alla tela, senza dar segno ai presenti di alcun cedimento. Il suo corpo si mosse da solo, portandola ad allungare la mano verso il quadro fin quasi a toccare la superfice dipinta ad olio . Per un istante desiderò avere ancora accanto quell'uomo così caro e al tempo stesso insostituibile. Se Francesco Stefano non fosse morto forse non avrebbe avuto quell'incertezza e preoccupazione così laceranti. Forse, sarebbe stato tutto diverso...
- Maestà- disse improvvisamente un consigliere facendola ripiombare improvvisamente nella realtà.
-Informate i vostri colleghi e mio figlio Giuseppe che li raggiungo subito- disse atona, senza lasciare lo sguardo dalla tela.
L'uomo osservò incerto la sovrana.
- Maestà- si azzardò a dire.
-Sì?- rispose l'imperatrice senza voltarsi.
-Volete rimandare la riunione di oggi?- chiese preoccupato.
-No- ribatté la sovrana, non prima di aver rivolto un ultimo sguardo alla tela -Lo Stato mi chiama e come imperatrice devo dare l'esempio. Conducetemi dove è necessaria la mia presenza.-
-Sì Maestà- rispose il suddito ed insieme lasciarono quel corridoio vuoto e popolato da ricordi e rimorsi.

Questo è il secondo capitolo. Ho deciso di dedicarlo all'imperatrice d'Austria e non so se ve lo aspettavate. Ho letto la sua autobiografia e confrontandola con il personaggio creato da Ryoko Ikeda non ho potuto fare a meno di rimanerne affascinata. Forse ho lasciato correre troppo la fantasia, non lo so. Per certi aspetti è l'antitesi della moglie del Generale.Vi ringrazio intanto per i suggerimenti che ho cercato di seguire.
Quanto ai prossimi capitoli devo ancora decidere.Ho alcuni impegni (l'università e le vacanze) che mi aspettano. Vi avviso però che alcuni personaggi ( che non ho alcuna intenzione di anticipare!) compariranno più di una volta nel corso della raccolta. Vi auguro intanto buona lettura.

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Capitolo 3
*** Famiglia [signora De Soisson] ***


Questo è il terzo capitolo della serie. Come avete potuto notare, parlo sia dei personaggi principali sia di quelli secondari, compresi quelli che compaiono per pochi momenti. In questo caso, ho dato libero sfogo alla mia fantasia. Non mi stancherò mai di ripetere quanto vi sia grata per l'attenzione che avete dato alla mia raccolta di shot e ai consigli che mi avete dato, soprattutto sull'html di cui non sono molto pratica.
E ora buona lettura!
Ps. Ho scelto di raccontare tutto in terza persona.

Signora de Soissons: Famiglia
Il piccolo carro percorreva con fatica la strada malamente lastricata che l'acquazzone della sera precedente aveva trasformato in un mare di fango. Erano trascorsi ormai un paio di giorni, da quando Philippe de Soisson aveva lasciato il suo piccolo pezzo di terra posto in riva al mare per partire alla volta della capitale.
"Vedrai Marie" diceva allegro, alla guida del mezzo "Parigi è una città magnifica! Jeacque mi ha detto nelle sue lettere che c'è una grande richiesta di persone con le mie capacità. Avremo sicuramente una vita migliore. Ha detto che per lui non è un problema ospitarci per un po'".
La moglie, una donna dal viso gentile e dai grandi occhi espressivi si muoveva nervosamente sul seggino posto a fianco del suo compagno, che nel frattempo aveva iniziato a decantarle tutte le bellezze della loro nuova casa. Era  al settimo mese di gravidanza ed il ventre ormai visibilmente ingrossato le rendeva difficile trovare una posizione comoda. Ben presto le sarebbe stato ancora più difficoltoso compiere qualunque movimento.
"Non voglio mettere in dubbio le tue scelte, caro, ma perché proprio ora? Potevamo attendere almeno la nascita del bambino." gli fece notare infastidita la pragmatica donna puntando il suo sguardo sulla gigantesca sagoma del marito, che per tutta risposta si grattò pensieroso il mento, senza sapere cosa dire. Calò un pesante silenzio, nel quale il pover uomo tentava di trovare un spiegazione convincente, che lo avrebbe salvato dall'inevitabile predica.
La sua innata fantasia però si era improvvisamente prosciugata, di fronte all'espressione furibonda della consorte.                     Non poteva salvarsi.
A quel punto,infatti, Marie esplose.
"Mia madre sarebbe stata più che felice di occuparsi dei nostri figli. Come ti è venuto in mente di trasferirci proprio in questo momento? Ti rendi conto che in questo modo non potrò esserti di alcun aiuto?Ma tu no no hai voluto decidere tutto da solo!" fece, palesemente arrabbiata ed indicando con un gesto eloquente la sua maternità. Era vero che uno dei motivi per cui aveva sposato Philippe era il suo carattere impulsivo e passionale ed il suo innato buon cuore, tuttavia da donna pratica quale era, non riusciva a sopportare quel suo gettarsi a capofitto in ogni situazione, senza valutare le conseguenze. Ora era un uomo sposato, padre di un maschietto discolo e di un altro, di genere non ancora identificato, in arrivo. Doveva evitare certi colpi di testa, dannazione!
Volse per un momento lo sguardo alle sue spalle, rimanendo in ascolto. L'assenza di rumore la convinse che quella piccola peste stava ancora dormendo. Per sua fortuna, non avrebbe sentito nulla del discussione che stava avendo con il marito, altrimenti sarebbe stata la fine per lei e per i suoi nervi, resi più instabili del solito dal suo stato interessante..
Alain Soisson, nove anni suonati,  il suo amatissimo e vivacissimo figlio era la copia sputata di suo padre e, cosa ancora più importante, o inquietante a seconda dei punti di vista, dotato di una curiosità senza pari. Sicuramente, pensò la donna, se avesse sentito anche una sola parte della loro discussione, avrebbe iniziato a fare domande a raffica, occupando tutta la loro attenzione per l'intera durata del viaggio che solitamente durava quattro giorni. Come avrebbe potuto soddisfare quella serie infinita di curiosità, senza darne inizio ad altre? No, non avrebbe retto in quelle condizioni, pensava scuotendo la testa.
"E poi sentiamo. Da quando tu e Jacques andate così d'amore e d'accordo? Sono sei anni che non vi vedete, da quando avete avuto quella furiosa lite al funerale di vostro padre per l'eredità. Pensi forse che ci accoglieranno a braccia aperte?" continuò con energia.
No, non avrebbe dimenticato quel giorno. Aveva partecipato alle esequie, cercando di confortare per quanto possibile la vedova. Poco dopo si era presentato in casa del suocero il notaio che, alla presenza di mezzo paese aveva letto il testamento. In quel foglio il vecchio Soisson dichiarava che tutto il terreno e le proprietà passavano a Philippe, dal momento che Jacques, il primogenito, nato da precedenti nozze, era da tempo entrato in possesso dei beni della madre. I patti erano quelli, stabiliti ben prima della morte del genitore, per evitare simili problemi e non riuscendo, malgrado questo, a non crearne altri. Non c'era nessuno che non fosse al corrente dei cattivi rapporti che legavano i due fratellastri.
Tutti avevano guardato sbigottiti l'uomo di legge, come se avesse avuto tre teste.
Poi era scoppiata una lite furibonda, nella quale i due fratellastri erano stati ad un passo dall'accoltellarsi a vicenda e solo l'intervento di alcuni robusti marinai, quel giorno a terra a causa di una bonaccia e di passaggio davanti alla loro casa, aveva evitato il peggio. Al solo pensiero, Marie tremava ancora per lo spavento preso.
"Sicuramente ci cacceranno fuori di casa." commentò ancora arrabbiata. Una seconda preoccupazione riguardava i suoi pessimi rapporti con la cognata e la madre. Jacques, dopo aver lasciato la casa paterna per andare in cerca di fortuna a Parigi, aveva sposato una donna del posto e da allora viveva insieme alla moglie ed alla suocera.                                                       Questa notizia la preoccupava non poco.
Tra gli abitanti parigini e chi non era della capitale non correva buon sangue. Il senso di superiorità della popolazione urbana nei confronti di quella rurale era evidente per esempio dalla convinzione che la città fosse il centro del Paese e che i problemi degli abitanti dovevano essere condivisi con quelli delle campagne, mentre i benefici dovevano essere riservati esclusivamente ai primi. La donna aveva visto la cognata e sua madre solo una volta, ossia il famoso giorno del testamento e l'unica cosa che ricordava era il loro sguardo sprezzante. In quell'occasione, non aveva potuto fare a meno di notare la loro perlustrazione in cerca di oggetti di valore da reclamare, nella casa del suocero, con il letto del vecchio ancora caldo.
Una delle ruote prese in quel momento una buca facendola sobbalzare. Proprio in quell'istante, il bambino dentro di lei calciò, suscitandole un nuovo sussulto. Quel fatto le gettò addosso una nuova preoccupazione. Fra due mesi avrebbe dovuto partorire: chi poteva assisterla? La moglie del suo cognato e la suocera lavoravano e certamente non avrebbero potuto aiutarla neanche volendo. Che avrebbe fatto quando sarebbero iniziate le doglie?
Inoltre non credeva che Jeacque avesse perdonato il fratello e temeva in cuor suo che alla minima occasione come minimo li avrebbero cacciati tutti e tre, forse quattro, fuori di casa. Se erano fortunati Philippe avrebbe trovato un lavoro in poco tempo ma i soldi sicuramente non sarebbero bastati e lei non poteva mettersi a cercare subito un'occupazione con i figli dietro. Si mise le mani nei capelli, non sapendo come reagire di fronte a quei rischi ai suoi occhi inevitabili. Era da sempre abituata a risolvere i suoi problemi con una certa autonomia ma quella gravidanza la metteva in una situazione in cui doveva dipendere da altri almeno fino a quando non si fosse ripresa dal travaglio.
Come risolvere quella situazione?
Qualora fossero rimasti a casa del cognato, restava il problema dei figli. A quel pensiero Marie si rabbuiò ulteriormente. Se il piccolo avesse iniziato a piangere in piena notte, o peggio, si fosse ammalato, a chi si sarebbe potuta rivolgere per poterlo curare?
Certo, aveva esperienza con i suoi fratelli e con Alain, ma ogni bambino è diverso dagli altri: non tutti reagiscono allo stesso modo. E poi, cosa non trascurabile, i rapporti con i cognati ed i nipoti, tutt'altro che idilliaci. Se non ricordava male, l'ultima volta che il piccolo Alain aveva giocato con i suoi cugini, era tornato a casa con un occhio nero, pieno di graffi. Come sarebbe stata la sua vita chiuso in quella grigia casa, costretto a condividere lo spazio con quei piccoli viziati, protetti e appoggiati da quelle arpie della madre e della nonna?
Scosse la testa: no, non era così che voleva trascorrere la sua vita. Non desiderava passare i suoi giorni, vivendo in un ambiente gretto e avido insieme a persone a lei tuttosommato estranee. Le sarebbe piaciuto vedere i suoi bambini correre all'aria aperta, divertendosi nei campi, senza il rischio di essere investiti dalla carrozza di qualche aristocratico pieno di soldi e arroganza. Questi erano i pensieri di Marie, moglie di Philippe de Soisson, figlio di una famiglia nobile ma decaduta.
Mentre lo osservava guardare impassibile la strada di fronte a sé, la donna si chiedeva come avesse potuto scegliere di cambiare la sua vita in modo così drastico. Per quanto Philippe si lamentasse, non avevano mai avuto grossi problemi economici: che senso aveva lasciare il loro paese per andare in cerca di fortuna?
"Philippe" disse sconsolata "sei davvero sicuro che Parigi sia la scelta migliore per i nostri figli?".
Il gigante le accarezzò la testa castana, senza lasciare la presa dalle redini.
"Ne abbiamo già parlato Marie."fece rassicurante "voglio per i miei figli il meglio. Parigi è una città che offre molto a chi cerca  una vita migliore. Desidero che abbiano le opportunità che io non ho potuto avere. Anche se non sembra, sono un nobile e vorrei approfittare di quei pochi privilegi che il mio nome può portare."
Di fronte allo sguardo perplesso della donna Philippe si vide costretto a vuotare il sacco e a dire tutto quello che non era riuscito a raccontare alla moglie. "Marie, vorrei che Alain entrasse all'accademia militare, grazie al nostro titolo e diventi un ufficiale della guardia reale."
Marie aprì la bocca per gridare ma il pensiero che suo figlio dormiva tra i sacchi dei bagagli, del tutto ignaro dei progetti del padre la gelò sul posto.
"Con la paga che ricevono, potrà garantire alla famiglia un'esistenza più decorosa, lontana dalle insicurezze che possono portare un cattivo raccolto e l'aumento delle tasse." continuò. Quelle parole in qualche modo irritarono la donna che aveva trascorso buona parte della sua vita tra i campi. Prima di sposarlo non si era mai interrogata sui pensieri che potevano avere i nobili decaduti. I De Soisson, poi, erano caduti in disgrazia da più di un secolo quindi la nostalgia del precedente status era più evanescente di un ricordo lontano nella mente dei membri della famiglia.
Decise quindi di chiedere spiegazioni.
"Parla chiaro Philippe de Soisson. Ti vergogni forse della vita umile che hai fatto fino a questo momento? Sappi che non ti ho sposato per il cognome. Per quale stramaledetto motivo hai deciso che era meglio lasciare il nostro paese natale, le nostre famiglie in favore di questo salto nel vuoto? Spiegamelo perché non ti capisco." sbottò rabbiosa.
Il marito frenò bruscamente il carro. Intorno a loro c'era l'immensa campagna francese e mancava ancora molto prima di raggiungere un centro abitato. Marie lo osservò con attenzione. Era molto serio, più di quanto non lo fosse mai stato in vita sua.
"Marie, Parigi non sarà la nostra casa per sempre. Io desidero, guadagnare il più possibile per poter poi tornare al villaggio e vivere in modo più dignitoso di quanto non facciamo ora. Credimi, non voglio che Alain diventi un militare: non amo la violenza e lo sai. Però gli ufficiali della Guardia Reale sono pagati bene e potremo mettere da parte abbastanza soldi per lasciare la capitale." spiegò, tentando di convincerla. Quelle rassicurazioni però non bastavano alla donna perché qualora fosse entrato all'Accademia, sarebbe stato lontano dalla sua famiglia per molto tempo e lei non voleva separarsi da quel bambino pestifero ed impertinente. Desiderava avere il marito ed i figli intorno a sé, così come era accaduto per la sua famiglia. Privarsi di Philippe o di Alain o del bambino non ancora nato in nome di vantaggi futuri era qualcosa ai suoi occhi inconcepibile. Voleva occuparsi di loro e stare la sera in compagnia di tutte quelle persone che ormai erano il suo mondo e la sua ragione di vita. I progetti del marito però mandavano a monte il suo sogno e, cosa ancora più importante, non la convincevano.
 Non era ambiziosa come il marito, che tutto sommato agiva in buona fede.
Voleva vivere nello stesso modo in cui avevano trascorso la loro esistenza tutte le donne della suia famiglia, sostenendo il consorte e curando il benessere dei figli. La decisione di Philippe però mandava in fumo tutti i suoi buoni propositi, lasciandola in preda ad un strana agitazione.
Non era certa che i sogni del marito si sarebbero realizzati e non contava molto sul valore di quelle aspirazioni. Il futuro le appariva tutt'altro che rassicurante. Guardò alle sue spalle con preoccupazione la nera chioma del bambino, poi accarezzò con angoscia il proprio ventre, come per rimarcare il suo legame con quelle creature. Per loro desiderava ogni felicità  ed avrebbe impiegato ogni sua energia per raggiungere quell'obbiettivo.
"Philippe, non condivido le tue aspirazioni ma ti aiuterò, nel limite delle mie forze. Voglio solo che i miei bambini siano felici. Siamo una famiglia e intendo collaborare a costruire un futuro migliore per loro. Ho giurato di fronte a Dio che saremo stati uniti nella buona e nella cattiva sorte e non verrò meno a questa promessa. Cerca di capire però la mia situazione. Fra due mesi nascerà il bambino ed io sono sola, senza nessuno che mi assista. Riesci a immaginare come mi possa sentire in questo momento?"replicò con tono stanco.
Il gigante osservò i grandi e profondi occhi nocciola di sua moglie e senza fare rumore, le accarezzò gentile i capelli raccolti in una rudimentale coda di cavallo. "Sono stato un insensibile ed uno sciocco per non essere stato del tutto sincero con te e sarebbe ingiusto nei tuoi confronti darti altri inutili scuse o dirti che mi dispiace. Ti prometto però che starò accanto a te e ai bambini più di chiunque altro e vi difenderò in ogni momento." disse serio.
"Tieni bene a mente questa promessa, Philippe perché non ti perdonerò se verrai meno ad essa." ribadì la moglie con il suo medesimo tono. In cuor suo però si sentiva meno insicura di poco tempo prima: sapeva infatti che il marito non veniva mai meno ai suoi giuramenti. Un sorriso fiducioso le spuntò in viso. Non era la sola ad affrontare quella situazione e anche se i problemi non sarebbero mancati poteva sperare di superarli in qualche modo. Erano una famiglia dopotutto ed insieme potevano superare ogni ostacolo.
Sì, valeva la pena sperare.
Il carro in quel momento riprese il lungo cammino verso un futuro carico d'incertezze e speranze.



Descrivere la madre di Alain de Soisson è stato molto difficile. Per una che non ha letto il manga, penso comunque che questa shot non sia venuta molto male. Chiedo scusa per eventuali ritardi di pubblicazione. Quanto alla raccolta vorrei fare alcune precisazioni:
  1. L'argomento della serie è la maternità in generale. E'possibile che i personaggi raccontati non siano sempre donne!
  2. Molti personaggi ( che non sono di mia proprietà ma della grande Ryoko Ikeda!!!) possono essere ooc perché compaiono poco nell'anime e quindi devo compensare il tutto con la mia fantasia.
  3. Nei limiti del possibile cercherò di rendere meglio la psicologia dei personaggi malgrado la mia scelta di usare la terza persona..
Fatte queste precisazioni vi voglio ringraziare per aver letto il mio lavoro, malgrado scriva da poco tempo e non abbia molta esperienza. Un saluto a tutti e alla prossima!
Cicina

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Capitolo 4
*** Minuetto [Martin Gabriel] ***


 Salve a tutti! Questo è il quarto capitolo della serie "Maternalia", incentrata sul tema della maternità secondo il punto di vista di alcuni dei personaggi del mitico manga di Lady Oscar. E' probabile che ci sarà qualche personaggio maschile all'interno della raccoltà, non ho ancora deciso. Nel frattempo vi invito a leggere la prossima storia.

Minuetto [Martin Gabriel]

La porta della camera da letto si aprì all'improvviso, producendo un rumore secco e stridulo allo stesso tempo. Le tende iniziarono ad oscillare da una parte all'altra a causa del vento proveniente dalla finestra rimasta spalancata nel corso della notte. Una giovane donna, o forse è più lecito dire una ragazzina, fece il suo ingresso all'interno della stanza. Con un movimento brusco chiuse la porta, assicurandosi di aver dato due giri di chiave.
Rimase in piedi di fronte ad essa, immobile come una statua di pietra.
Poi come un automa fissò la sua immagine riflessa nello specchio appeso alla parete sul lato opposto rispetto al letto, senza dire una parola.
Aveva gli occhi arrossati ed i capelli, raccolti poche ore prima in una sofisticata pettinatura che metteva in risalto i riflessi aurei, cadevano scomposti sulla schiena. Nella sua mente ronzava un'unica parola: sposato.
Sposato.
Quell'uomo era sposato.
Il corpo della ragazzina iniziò a tremare, scosso dai singhiozzi che tentavano senza successo di uscirle dalla gola. Senza rendersene conto, la sua mente volò a quella maledetta sera, quando aveva partecipato ad uno dei balli di Parigi.
Apparteneva ad una famiglia della piccola nobiltà che malgrado una discreta rete di conoscenze, non vantava nei fatti un considerevole patrimonio né un potere degno di nota.
I suoi genitori, però, erano persone ambiziose, che speravano di poter un giorno frequentare il mondo dorato di Versailles.
Per raggiungere quello scopo, avevano puntato tutto sui due figli.
Suo fratello frequentava da sei anni l'Accademia Militare, con la speranza di poter diventare qualcuno nei ranghi dell'esercito: una delle poche possibilità di far carriera, insieme a quella di diventare un religioso.
Nel suo caso le alternative erano leggermente diverse: il velo o il matrimonio.
Eppure da circa un anno, sua madre aveva iniziato a portarla a fare visita a delle conoscenti altolocate che vivevano nei lussuosi palazzi cittadini, permettendole di conoscere persone sempre nuove. Le dame, vestite con i migliori abiti alla moda che potevano permettersi, si complimentavano con sua madre per la sua bellezza.                                                                  
Una bellezza angelica, candida, che non dà segno di essere corrotta da alcun vizio.
Madame de Pollastrion, con finta modestia, sosteneva che il merito era solo del vestito che la figlia portava.
Una tattica per accrescere l'attenzione intorno alla ragazzina.
La piccola Martin Gabriel si nutriva di questi complimenti, come una pianta cresce con l'acqua ed il sole. Aveva finito con il credere a tutto ciò che dicevano, guardando con orgoglio e vanità la ricchezza dei suoi abiti e il suo aspetto leggiadro. Pur non conoscendo le ragioni del comportamento della madre che si era decisa, senza dare spiegazioni, di portarla in giro per i salotti di tutte le persone di sua conoscenza, non poteva negare di esserle in qualche modo riconoscente.
Fino a quel momento infatti, non aveva fatto altro che rimanere in casa per seguire le lezioni del precettore, o in chiesa, ad ascoltare la messa domenicale, conducendo una vita monotona e deprimente.
Era comprensibile quindi la gioia e la meraviglia provate in quei momenti.
La sua felicità aumentò ulteriormente quando una lontana parente del padre, che vantava una posizione più influente della propria si era offerta di accompagnarla ad un ballo in maschera a Parigi, sostenendo che sarebbe stato utile per il futuro della bambina. I suoi genitori avevano accettato senza esitare e senza darle spiegazioni.
Bastarono le lusinghe per convincerla a porsi sotto la tutela di quella donna ricca e sicura di sé.
A quel pensiero non potè fare a meno di infuriarsi per la sua ingenuità.
Nessun sospetto l'aveva assalita in quel momento, conquistata com'era dalla bellezza degli abiti portati in dono dalla donna e dai vezzi e dai complimenti che riceveva. Aveva iniziato a frequentare la sua ricca casa, conoscendo la figlia poco più grande di lei e da poco sposata che le aveva spiegato vari trucchi per poter mettere in maggiore risalto la sua bellezza.                         Ogni volta che eseguiva bene i suggerimenti impartiti, aveva in cambio nuovi regali e attenzioni.
Un giorno, durante un tè nella residenza di quella donna, venne a sapere che presto sarebbe andata ad un ballo in maschera a Parigi, al quale partecipava tutta l'aristocrazia.
"Vedrete, mia piccola Martin Gabriel, sarà un giorno indimenticabile" disse entusiasta sua madre.
A quel pensiero la ragazzina si mise le mani nei capelli.
 Non aveva tutti i torti: quella notte dolce al ricordo ed orribile per le conseguenze era impressa a fuoco nella sua mente e sul suo corpo. Le avevano fatto indossare gli abiti più ricchi e sontuosi, rendendola più bella di quanto in realtà non fosse e portandola poi a palazzo.
Le era sembrato di entrare in un mondo incantato, pieno di luci, musica e persone mascherate che danzavano nella sala. Eppure, quando fece il suo ingresso in quel luogo non potè fare a meno di provare orgoglio per gli sguardi ammirati e rapiti sulla sua figura, avvolta da un abito che riproduceva nel tessuto le ali di un angelo. Aveva ricevuto molti inviti e con il consenso della lontana parente del padre aveva ballato con molte persone. Mentre danzava, tra passi, volteggi e saltelli, al ritmo di una musica sempre più febbrile, osservata dai misteriosi partner mascherati, Martin Gabrielle si sentiva al centro del mondo e questo non faceva altro che renderla più sicura di sé, più adulta di quanto in realtà non fosse.
Chi siete?
Posso conoscere il vostro nome?
Danzate divinamente.
Queste erano le domande più frequenti, alle quali la ragazza rispondeva con un sorriso che voleva dire tutto e niente.
Mentre era così intrattenuta lo vide.
Appoggiato ad una delle colonne c'era un uomo.
Indossava una maschera dai tratti ferini e vestiva abiti meno sfarzosi rispetto agli uomini che si trovavano nella sala. Eppure la sua postura e i suoi modi davano segno che fosse di un livello decisamente più alto rispetto agli altri. Ancora adesso non seppe bene dire come, ma si era avvicinata a quell'uomo che la osservava con sguardo rapace.
"E'una splendida serata monsieur, non trovate anche voi?" esordì con una spavalderia che stupì lei stessa.
Mai si era comportata in quel modo con degli estranei.
Lo sconosciuto le sorrise senza smettere di guardarla.
Sotto il suo sguardo di brace la piccola Martin Gabriel si sentiva nuda e quella sensazione mai provata le faceva crescere dentro un fuoco nuovo che in quel momento non seppe spiegarsi.
"Sono sempre così i balli in città: frivoli e noiosi. Eppure voi sembrate divertirvi. Posso ardire di chiedervi il motivo di questa gioia?" disse mostrando una voce baritonale calda e seducente.
"E' il mio primo ballo" rispose la ragazzina, stregata dall'alone di mistero e dai modi di quello sconosciuto.
"Capisco" disse inclinando la testa "e immagino che vi divertiate."
Martin Gabriel annuì soddisfatta, felice di avere tutta quell'attenzione.
Il misterioso individuo si avvicinò a lei percorrendo la breve distanza che le separava.
L'eccitazione della ragazzina aumentò.
Era molto alto e dal fisico decisamente muscoloso, più di quanto potesse pensare.
"Chissà come poteva essere vivere al suo fianco" pensava la piccola contessa.
Incurante dei moti che agitavano l'esile corpo della ragazzina, l'uomo prese con delicatezza una mano della giovane che a quel contatto non poté fare a meno di sentire un fiamma incandescente che divampava sotto la sua pelle, come un fiume impetuoso. "E'proprio vero, mademoiselle, siete bella come un angelo. Posso avere l'onore di chiedervi di concedermi un ballo?" disse con fare tanto galante da non sembrare vero, mentre fissava la maschera che la giovane portava al volto.
 Martin Gabriel accettò concedendogli più di un ballo.
Attorno a loro la folla di invitati danzava in un tripudio di musica e risate.
Era un eccellente ballerino e mentre si muovevano nella sala, la ragazzina non poteva fare a meno di sentirsi importante e desiderata.
Quell'uomo non aveva occhi che per lei.
"Posso sapere il vostro nome, monsieur?" domandò la giovane ma subito lo sconosciuto le mise due diti sulle labbra, facendole cenno di tacere.
"Non posso farlo mio piccolo angelo, perché altrimenti non sarebbe un ballo in maschera." fece suadente, scatenando nuove sensazioni nella ragazzina.
"E come posso chiamarvi allora?" chiese.
"Chiamatemi Paride." rispose con un ghigno che l'altra non vide.
Paride, o come si faceva chiamare, danzò con lei per tutta la sera, poi poco prima della fine la trascinò in un angolo appartato del palazzo, portandola in una stanza da letto. Lì senza darle il tempo di riflettere aveva iniziato a baciarla con una passione quasi famelica.
La ragazzina aveva quasi il timore di essere divorata da quella foga così urgente, poi però il pensiero sciocco ed infantile di primeggiare sugli altri ebbe il sopravvento.
Paride le stava mostrando un mondo a lei sconosciuto, fatto di passione e desiderio e lei voleva conoscerlo. Così senza indugi si abbandonò alle mascherate pretese di quell'uomo, donandogli ciò doveva essere di proprietà esclusiva del suo futuro
consorte: la sua innocenza ed il suo onore.
Nei giorni successivi, non faceva altro che fantasticare su un nuovo possibile incontro con quell'uomo, arrivando addirittura a credere che l'avrebbe sposata. Tutti notarono la sua improvvisa ed immotivata felicità ma attribuirono la causa al ballo.        
A Martin Gabriel sembrava di vivere in un sogno e non si curava delle occhiate perplesse della servitù e dei genitori.
Pensava solo a sé stessa.
Dopo alcune settimane però iniziò ad avere problemi di salute. Nausee frequenti ed un umore più lunatico ed intrattabile del solito si alternavano senza tregua. Sua madre preoccupata le aveva chiesto se era opportuno chiamare un dottore.
La figlia però rifiutava con decisione: era convinta che da un momento all'altro il suo Paride sarebbe venuto a chiederle la mano e a prendersi per sempre cura di lei e non voleva preoccuparlo.
Tuttavia il malessere non accennava a diminuire e con il passare dei giorni, la ragazzina diventava sempre più pallida e spossata.
Fu così che una mattina, si presentò a casa sua un medico, fatto venire urgentemente dalla contessa.
La giovane protestò a lungo ma la madre con l'aiuto di alcune cameriere riuscirono a bloccarla, facendola sdraiare su un tavolo.Martin Gabriel, sconfitta, guardava il soffitto impassibile, senza curarsi del tocco dello sconosciuto sul suo corpo. Un contatto freddo e professionale, diverso dall'abbraccio caldo e intrigante di Paride.
Dopo circa mezz'ora sentì il medico formulare la sua diagnosi.
"La contessina è incinta." disse formale.
Sentì le donne attorno a lei trattenere il respiro ed il gelo calare nella sala decorata in tinta pastello.
"Ne siete sicuro dottore?" fece sua madre, senza trattenere lo sgomento.
Il dottore la osservò impassibile.
"La visita ha confermato i sospetti che mi erano nati quando avete descritto i sintomi del malessere della contessina. Le nausee, l'umore instabile e la mancanza di macchie mestruali sulla biancheria di questo mese ne sono comunque una degna prova." spiegò ma la dama non voleva rassegnarsi.
"Mi state prendendo in giro?Voi non sapete chi sono io." protestò la donna, aggrappandosi al suo titolo come un naufrago allo scoglio.
"Non è mia abitudine mentire ai pazienti e alle loro famiglie. Ho giurato su Ippocrate di evitare questo comportamento, contrario alla mia etica professionale." ribatté serio mentre la dama lo fissava stralunata, pallida in volto.
"Comprendo però le vostre ragioni e vi garantisco che rispetterò il segreto professionale." aggiunse.
La contessa era rimasta in silenzio per diversi minuti, rimuginando tra sé e sé.
"Avete qualche suggerimento su come risolvere questo problema?" chiese infine gelida, con un tono che Martin Gabriel non aveva mai sentito e che la fece istintivamente rabbrividire, pur non conoscendone la ragione. Nessuno infatti le aveva mai parlato dei doveri coniugali e di come nascevano i bambini poiché non erano considerati argomenti adatti ad una ragazza di buona famiglia come lei.
"Ci sono solo due modi. O aspettiamo che la contessina dia alla luce il bambino, oppure lo asportiamo tramite un operazione chirurgica. Però contessa..." fece incerto.
"C'è qualche problema?" chiese impassibile.
Il medico sfregò le mani su un pezzo di stoffa, nervoso. "Tirare giù il feto è un'operazione rischiosa. La contessina rischia di morire per un'emoragia interna o per un infezione oppure rischia la sterilità. Non le consiglio questa scelta. Immagino che progettavate per lei un matrimonio vantaggioso." disse infine.
La donna annuì con la morte in volto. Poi senza dire altro congedò il medico. 
Martin Gabriel si alzò, mentre la madre si voltò verso di lei.
La ragazzina non ebbe il tempo di aprire bocca che fu colpita da uno schiaffo violento che le fece voltare il viso di lato. "Tu,piccola stupida! Dimmi chi è stato?" urlò mentre la colpiva con altri schiaffi.
In quel momento la giovane era terrorizzata. In nessun momento della sua vita sua madre si era arrabbiata con lei, né tantomeno l'aveva picchiata. La scoperta di questo lato del carattere della contessa la turbò non poco, più delle botte che l'altra non si risparmiava di darle e che la facevano accasciare a terra impedendole di alzarsi.
"N-non lo so, madre. Mi ha detto di chiamarsi Paride e portava la maschera di un animale selvatico." singhiozzò  iniziando a raccontarle del ballo. La contessa la ascoltava in silenzio rigida a causa della collera e mentre parlava la vide aggrottare la fronte.
"Quanto sei stupida. Non ti ha detto il suo vero nome?" disse infine trattenendo la rabbia, mentre una strana e inquietante consapevolezza si faceva strada dentro di lei.
Martin Gabriel scosse la testa, non riuscendo a capire che cosa volesse dire.
Vedendo la faccia perplessa della figlia la contessa decise di rispondere, ritenendo dannoso farla vivere ancora prigioniera delle sue fantasie infantili. Una decisione che non poté comunque fare a meno di considerare tardiva.
"Era un nobile di Versailles. Per quello che ho saputo, ha fama di essere un grande libertino e quella sera era venuto a Parigi mentre sua moglie stava dando alla luce il suo terzo figlio. Non posso certo biasimarlo: per queste cose spesso si va per le lunghe." fece non senza una punta di sarcasmo.
Qualcosa si ruppe dentro Martin Gabriel.
Un rumore secco, di vetri rotti.
"No, non è vero." mormorò come in trance.
"Ti sei fatta ingannare come una stupida provinciale e adesso ne pagherai le conseguenze. Hai infangato la reputazione della nostra famiglia e compromesso la carriera di tuo fratello: nessuno sosterrà la sua ascesa militare con un simile scandalo.
Per non parlare di te: ti rendi conto della sciagura che ci è caduta adosso? E'una fortuna che vostro padre sia in viaggio in Inghilterra e che il suo ritorno a Parigi sia previsto solo tra dodici mesi." continuò, mentre la figlia rimaneva in silenzio, sotto shock.
Paride non poteva abbandonarla. Lui era stato il primo a mostrarle il mondo misterioso degli adulti e a farla sentire così viva e desiderata.
Lui l'amava. Perché condividere una simile esperienza è una prova d'amore. Lo dicevano tutti i romanzi.
"Davvero sciocco da parte tua comprometterti con un uomo sposato e di dubbia moralità." sentenziò infine sbattendole in faccia ciò che si era sempre rifiutata di accettare.
 A quel punto la ragazzina non ebbe più la forza di continuare ad ascoltarla.
"Basta! Smettila! Lui mi ama!"urlò rabbiosa.
Sua madre le diede subito un secondo violento schiaffo mettendola nuovamente a tacere.
"Non usare questo tono con me."sibilò gelida "Credi forse che l'amore esista?"
A quella domanda Martin Gabriel non seppe rispondere.
Fino a qualche mese fa ci credeva ma ora non ne era più sicura. Paride non l'aveva più cercata né aveva chiesto informazioni su di lei, per quello che ne sapeva. Da quella sera non si era più fatto vivo e questo contraddiceva le storie strappalacrime che amava tanto leggere.
Possibile che quei racconti fossero tutte menzogne?
Possibile che sua madre avesse ragione?
Di fronte a quel mutismo la contessa proseguì nella sua opera di demolizione di quelle fantasie infantili e rivelatesi nei fatti pericolose.
"Ti risponderò io: no. Esiste l'attrazione fisica, la passione, il bisogno di avere qualcuno che soffochi la terribile solitudine di ogni giorno, ma nulla di tutto ciò dura in eterno. Quell'uomo ti ha sedotta e goduto del piacere provocato dal tuo corpo acerbo ma non ti ha mai amata né potrai sposarlo perché appartiene ad un livello superiore alla nostra famiglia ed in più è sposato." fece dandole il colpo di grazia.
La figlia avrebbe voluto piangere ma le lacrime non sgorgavano dagli occhi, come se fossero state prosciugate dalla verità che si era fatta avanti in tutta la sua inclemenza.
Era ancora sotto shock e rinchiusa in un limbo di dolore.
"Siamo diventati lo zimbello di Parigi per colpa tua. I nostri progetti di procurarti uno sposo rischiano di fallire perché ti sei fatta ingravidare da un noto casanova con la propensione per le ragazzine stupide. A causa del tuo errore, e dello scandalo che  rischia di venirne fuori, tuo fratello potrebbe essere radiato dall'esercito. Ti rendi conto di che cosa hai combinato con il tuo comportamento inconcepibile?" urlò mentre nuovi singhiozzi scuotevano Martin Gabriel che malgrado questo non riusciva a piangere.
Aveva combinato un grosso guaio e cosa ancora più grave ai suoi occhi era stata ingannata. Il suo carattere orgoglioso non ammetteva sensi di colpa nè era in grado di provarli. Neppure in quel momento si sentiva colpevole per aver gettato vergogna sulla sua famiglia. Era un sentimento a lei estraneo.
Le parole della madre l'avevano però fatta riflettere su quell'incontro e per la prima volta si rese conto che quell'uomo non l'aveva mai amata e, cosa ancora più importante, neppure lei provava un simile sentimento nei confronti del seduttore.
Si sentì una stupida e cosa, ancora più grave era stata umiliata nel modo peggiore.
No questo era troppo per il suo carattere che reclamava vendetta.
Si voltò verso sua madre che la fissava impassibile e si inginocchiò soffocando per una volta il suo incorreggibile ed inutile orgoglio.
"Cosa devo fare per rimediare alla mio errore, madre?" chiese atona e con fare pentito.
La contessa la guardò per un momento senza preoccuparsi della sua sincerità. "Per tua fortuna, figlia mia, non hai sorelle che possano sostituirti nei progetti di matrimonio e quindi non possiamo fare a meno della tua presenza. Sappi che nessuno vedendoti potrà capire se sei vergine o meno.  Da questo punto di vista, quindi, non dovrebbero esserci problemi." fece guadagnandosi l'occhiata perplessa della figlia.
"Non tutte dopo la prima notte di nozze macchiano il letto, anche se sono davvero illibate ed il matrimonio è stato consumato. Basta dare al marito un erede e da quanto ho visto credo che tu ne sia perfettamente in grado. Ma..." disse lasciando in sospeso la frase.
Martin Gabriel la fissò. "Ma?" chiese invitandola a proseguire.
La donna la osservò sorridendo magnanima.
"Occorre cancellare la prova del tuo errore." fece dolcemente, lapidaria.
La figlia pensò in quel momento alle parole del medico che l'aveva visitata pochi minuti prima. Non era riuscita a capire del tutto il senso del discorso ma malgrado questa relativa ignoranza ebbe comunque un cattivo presentimento. Un brivido la trapassò, senza che riuscisse a spiegarsene la ragione. Si toccò istintivamente la pancia, persa nei suoi pensieri.
Dentro di lei c'era un bambino. Continuava a non crederci ma se il dottore aveva detto così non era di certo una bugia.
Un bambino.
Per un momento la sorpresa la travolse come un fiume in piena, donandole una sensazione simile alla felicità e facendola sentire in qualche modo completa.
Poi però la realtà la colpì, implacabile.
Un bambino.
Un figlio nato al di fuori del sacro vincolo coniugale.
Una creatura concepita in un momento di totale abbandono all'istinto.
Un errore che poteva compromettere la sorte della sua famiglia.
Un errore che le avrebbe precluso le attenzioni e le lusinghe a cui era abituata e a cui lei non voleva rinunciare.
Doveva scegliere e lei prese la via più semplice.
"Cosa proponete madre?" disse risoluta.
E la contessa rispose.


Il titolo della shot è il nome di un ballo dell'epoca.
Il personaggio descritto è quello di Martin Gabriel, alias la contessa di Polignac, alle prese con la sua prima gravidanza, da cui avrà Rosalie.
Non sempre tutte le gravidanze sono gradite e ho provato perciò a descrivere la situazione della protagonista soffermandomi sulla scoperta del suo stato. La contessa di Polignac è un personaggio abbastanza complesso che ha avuto più di un'esperienza di maternità, ognuna vissuta in modo diverso. Onestamente non penso che sia una buona madre, almeno vedendo l'anime, perché in lei prevale una massiccia dose di egoismo. In questo capitolo, molto impegnativo per la sua realizzazione, ho voluto mettere in rilievo la sua ingenuità e soprattutto il suo carattere immaturo che non le permettono di essere consapevole della sua nuova situazione.
Per il finale, ho ripreso la parte finale della Monaca di Monza dei Promessi Sposi, che ne pensate?
Quanto alle recensioni vi ringrazio per i suggerimenti sono contenta che qualcuno abbia letto i miei racconti. Sì, metterò sicuramente la famiglia di André, ma non sarà lui a parlare dei suoi genitori. Non vi dico altro. (Concedetemi un po' di sadismo).
Un ultima cosa. Ho chiamato il seduttore di Martin Gabriel, Paride per la sua ambiguità.
Paride è il nome di:
  1. Il promesso sposo di Giulietta in Romeo e Giulietta di Shakespeare
  2. Il personaggio di Omero che seduce Elena, moglie di Menelao e la porta con sé come sua sposa a Troia.
Fatti questi chiarimenti vi aspetto al prossimo capitolo. Ciao a tutti!
Cicina.
 


  

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Capitolo 5
*** Pietra parte 1 [Marons Glaces Grandier] ***


 

Eccoci qui all'ennesimo capitolo di Maternalia. Sono cicina, una folle aspirante scrittrice che non sa tenere a freno la sua vena creativa. Vorrei ringraziarvi per l'attenzione avuta nei confronti della mia serie, per aver letto i capitoli e commentato il mio modo di scrivere. Mi rendo conto che man mano che vo avanti le storie diventano sempre più lunghe e non so se è un bene.Su questo ultimo punto vi prego di non risparmiarvi: ogni commento è sempre ben gradito. Come potete notare sto aggiornando molto velocemente e non so se sia un fatto positivo. Il fatto è che non mi sono ancora rimessa a studiare per gli esami dell'università, che occupano gran parte del mio tempo. Quando ciò accadrà non so dirvi quando potrò scrivere altri capitoli.
Per il momento, non posso fare altro che augurarvi Buona Lettura!


Pietra [Maron Glacé Grandier]
Parte 1
La piccola carrozza percorreva la stradina di campagna, posta nelle vicinanze dell'oceano ed illuminata dai raggi del sole al tramonto. Sfumature grigio rossastre illuminavano la vettura che recava sullo sportello l'insegna di una nobile casata.
I passeggeri all'interno erano solo due.
Un ragazzino vestito umilmente di nero e dall'aria trasandata ed assente stava di fronte ad una donna non più giovane in abiti scuri che non la smetteva di torturare il fazzoletto che era solita portare in tasca. Entrambi erano assorti a guardare il paesaggio che lentamente mutava forma a causa del movimento del mezzo e del calar della notte. Ogni tanto la signora posava lo sguardo sulla piccola figura con cui divideva il viaggio, senza sapere cosa fare.
Era partita circa un mese fa, non appena era giunta al palazzo del generale presso cui lavorava da anni una lettera, indirizzata a lei, la governante.
Sul foglio c'era scritto che suo figlio e sua nuora, che vivevano in un paesino affacciato sull'Atlantico, erano morti a seguito di un'epidemia di tifo che aveva flagellato la cittadina.

La notizia l'aveva gelata sul posto.
Il suo unico bambino se ne era andato insieme alla moglie, mentre lei era lontana, al servizio dei 
DE JARJAYES e di questo Maron Glacé non riusciva a darsi pace. Mentre lei dirigeva le mansioni che si tenevano quotidianamente in quella casa signorile, suo figlio stava morendo nella sua povera casa. Con lui se ne andava una parte importante della sua vita.
Ora non le restava altro che quel bambino silenzioso, il suo nipote.
Quando aveva raggiunto il paese, i funerali non si erano ancora tenuti, benché la morte fosse avvenuta diverso tempo prima. Il tifo infatti aveva creato non poco scompiglio nella vita di quel piccolo paese, minando la regolarità delle funzioni religiose, unico mezzo per misurare il trascorrere del tempo. Malgrado questo, i corpi erano stati seppelliti  immediatamente, per evitare ulteriori contagi.  
L'unico inconveniente però era stata la mancanza di tempo per celebrare la  funzione funebre che si sarebbe tenuta in un secondo momento.  
Questo fatto aveva consentito alla  donna di essere presente  alle esequie.  
Dopo un lungo  tragitto, giunse infine a destinazione, e non poté fare  a  meno di sentirsi persa.  Le case,  il piccolo porto  per  le minuscole imbarcazioni,  la chiesetta in pietra grigia situata in lontananza erano  le stesse di quando aveva fatto visita per l'ultima volta ai suoi cari.
Si era guardata attorno senza sapere cosa fare: a causa della fretta di partire, non aveva scritto alcuna lettera per chiedere informazioni su dove fosse stato portato il bambino.
Si guardò attorno spaesata, ma ovunque guardasse, vedeva la gente indaffarata nelle loro mansioni giornaliere. Nessuno le prestava attenzione, concentrato come era nell'assolvere al proprio compito. Maron scosse la testa, dandosi nuovamente dell'ingenua: era stata avventata a venire senza informarsi.
Quel bambino non aveva più nessuno.
Era possibile che qualcuno lo avesse portato altrove senza dirle niente.
Senza rendersi conto, morse nervosamente il fazzoletto.
Era preoccupata per la sorte del piccolo. Se qualcuno le avesse portato via anche ciò che rimaneva della sua famiglia, allora sì che non si sarebbe davvero data pace.
E se fosse stato portato in un orfanotrofio? E se fosse stato rapito approfittando della confusione? A chi rivolgersi? A chi chiedere aiuto?
Queste erano, a grandi linee, i pensieri della vecchia governante, mentre si aggirava dubbiosa per i vicoli del piccolo borgo. Passò così la mattinata, senza riuscire a venire a capo della situazione.
Verso  la metà del giorno, quando il sole giunse nel punto più alto e  i suoi raggi colpivano  la terra annullando  quasi del tutto ogni forma d'ombra, si decise ad andare  dal parroco, nella speranza che fosse nella sua parrocchia.
Padre Moritz, il prete del paese, era infatti una persona molto dinamica e dal carattere generoso e caritatevole che non esitava un momento a correre in aiuto di chi ne aveva bisogno. A causa di questa sua propensione, non era quindi sicura di trovarlo in parrocchia.
Il pensiero di suo nipote però la spronava a tentare.
Il piccolo André, il suo unico nipote, era ormai tutto ciò che rimaneva della sua famiglia. Maron voleva portarlo con sé, nella grande casa del generale.
Molti erano i motivi che aveva spinto l'anziana donna a prendere questa decisione.
Prima di tutto era l'unico parente che il bambino aveva ancora in vita e quindi era suo dovere prendersene cura. Non avrebbe permesso a nessun altro di assolvere a quel compito, finché lei fosse rimasta in vita ed in salute. Nossignore.
Il lavoro a palazzo poi era ben pagato e questo poteva permetterle di allevarlo bene: dopotutto, non si può  far crescere qualcuno di solo amore. Lo sapevano tutti.
Per questo, raccogliendo tutto il suo coraggio aveva chiesto al padrone il permesso di portarlo nella sua residenza.
Il generale non aveva fatto obiezioni, anzi. 
Si era dimostrato stranamente disponibile e le aveva fatto molte domande su quello che ormai era il suo bambino: quanti anni aveva, se sapeva leggere e scrivere, quale fosse il suo carattere...
La povera donna, malgrado fosse stupita da tutto quell'interesse, aveva soddisfatto le sue curiosità per puro senso del dovere. Eppure il suo comportamento l'aveva lasciata perplessa. Sapeva che il generale, pur essendo una persona degna di rispetto nel suo campo, era in grado di compiere azioni quanto mai stravaganti.
L'ultima, e ai suoi occhi la più famosa tra le stramberie da lui commesse, riguardava il destino della sua ultima figlia.
Secondo il generale, un colpo di genio.
Secondo Maron, la prova che quel nobile era fuori come le finestre. Ovviamente non si era mai azzardata a dire nulla in proposito, anche se la tentazione era forte. Si era limitata a scrollare le spalle e a borbottare tra sé.
Quel giorno, però, di fronte a quella serie infinita di domande non aveva potuto fare a meno di domandargli la ragione di tutto quell'interesse. Era in fondo nei suoi diritti, e cosa le aveva risposto il nobilissimo generale?
"Così il mio Oscar avrà un compagno di giochi ed un modello di comportamento."aveva detto tutto tranquillo.
A quel pensiero l'anziana donna iniziò a prendere a calci i sassolini che ostacolavano il suo cammino lungo il piccolo sentiero che la conduceva verso la piccola chiesa. Quel vecchio pazzo!
Non solo aveva dato alla sua ultima bambina un nome maschile,  ma si era messo in testa di fare della sua ultimogenita un maschio a tutti gli effetti, degno erede di una dinastia militare. Come se fosse possibile cambiare il giorno in notte con uno schiocco di dita!
Ogni volta che pensava al modo in cui quell'uomo allevava quella bambina, non poteva fare a meno di irritarsi. Oscar era così piccola e vivace. Così bisognosa di affetto....E quello che faceva?
La teneva lontana dalla madre e dalle sorelle quando erano nei paraggi!  
Come se ce ne fosse bisogno: quelle erano sempre a Versailles!
Mentre era assorta in questi pensieri, che erano passati non si sa bene come dall'amatissimo nipotino all'amatissima padroncina, con una somiglianza quasi inquietante, vide in lontananza la piccola chiesetta posta nelle vicinanze del mare. Era in pietra grigia e leggermente più grande delle reali necessità del paese. Attorno c'era un piccolo orticello che Padre Moritz coltivava e che gli forniva in parte il necessario per vivere.
Maron guardò attorno, nella speranza di scorgere qualcuno, ma non vide nessuno all'orizzonte. Sempre più sconsolata andò alla porta e bussò.
Dopo alcuni minuti la porta si aprì e sbucò una donna sulla cinquantina dal fisico tozzo ed il viso devastato dal vaiolo. Indossava un vestito scuro e semplice, mentre sul petto faceva bella mostra di sé un piccolo crocifisso di legno. Non appena la vide, la donna si accigliò, il volto chiazzato di rosso e sporco di farina.
Solo allora la vecchia governante notò che il suo aspetto era strano.
"Chi siete?" chiese guardinga.
Maron si asciugò con calma la fronte e si accinse a rispondere, ma la sconosciuta la precedette. "Se siete venuta per le offerte, tornate più tardi!Ora non è proprio il momento. Buona giornata." disse velocemente e senza darle il tempo di dirle niente chiuse di nuovo la porta.
Maron rimase immobile come un baccalà, con gli occhi fuori dalle orbite.
Non ci mise molto però a razionalizzare l'accaduto: quella sconosciuta coperta di farina le aveva chiuso in faccia la porta dandole della mendicante e senza lasciarle il tempo di dire "A".
La governante stette zitta per qualche minuto, come una statua di sale.
Poi inevitabilmente esplose in una serie di improperi degni di uno scaricatore di porto, alternati a morsi rabbiosi al preziosissimo  (e concediamocelo sfortunatissimo) fazzoletto di pizzo, al ritmo dei colpi rabbiosi dei piedi battuti davanti alla porta. Come diamine si permetteva quella di trattare in un simile modo lei, la governante della casa di un aristocratico?
Proprio mentre stava dando sfogo a tutta la sua irritazione alle sue spalle spuntò un religioso. "Grandier?"mormorò incerto.
Sentendosi chiamare la donna si girò, imbarazzata per la figuraccia appena fatta.                           "P-Padre Moritz?" balbettò, ancora rossa in viso.
Il prete la osservava divertito. Era tornato dal suo orticello, per andare a dare una mano alla perpetua, che da qualche tempo era molto indaffarata ed irritabile. Vedere Maron davanti alla porta era per lui una sorpresa. Lo stupore era ancora più grande se la coglievi in un momento in cui non seguiva l'etichetta, come aveva avuto modo di vedere. In quelle occasioni era particolarmente divertente, ma come al solito il buon uomo decise di far finta di nulla.
Si tolse il cappello di paglia che portava sulla testa e appoggiò la zappa al muro.
"Qual buon vento signora Grandier! Avete avuto nostalgia della vostra casa?" iniziò bonario "Quel nobile vi sta facendo dannare? Sappiate che la mia parrocchia è sempre al servizio di chi ne ha bisogno."
L'anziana governante sorrise.Finalmente aveva trovato qualcuno che conosceva.
"Non sapete quanto mi senta sollevata per avervi trovato. Quando sono arrivata in paese non ho trovato nessuno disposto ad indicarmi la strada per venire da voi. Stavo iniziando a perdere le speranze."disse con sincerità ed un misto di speranza. Quel parroco le avrebbe dato sicuramente delle informazioni sul suo nipotino.
Il buon parroco sorrise a sua volta. "Mi fa piacere che la pensiate così, ma immagino che siate venuta per altri motivi"disse diventando improvvisamente serio.
La donna annuì. "Avete ragione, sono venuta per i funerali e... mio nipote." disse abbassando la testa.
"Capisco. Sentite, perché non facciamo quattro passi?" fece, cambiando improvvisamente argomento. Maron acconsentì, malgrado non ne capisse la ragione, dal momento che erano poco lontani dall'abitazione.
I due si misero su un sentiero che passava intorno alla chiesa.
Intorno a loro si udivano il canto delle cicale che con il ritorno delle giornate sempre più calde, iniziavano a farsi sentire con i loro suono martellante e fastidioso. Maron si guardava attorno, distratta da quel paesaggio a lei così familiare.
In quel luogo suo figlio trascorreva il tempo a giocare con gli altri bambini. Ogni volta che questo accadeva tornava a casa coperto di graffi e di terra e questo la faceva andare su tutte le furie. Il ricordo delle strigliate che gli dava si ripercuotevano nella sua mente come un qualcosa di sordo e lontano, che non sarebbe più tornato.Gli occhi iniziarono a pungerle sordi ma quel giorno Maron si impose di non piangere.
No, non poteva farlo.
Suo nipote era da qualche parte e lei non poteva permettersi il lusso di piangere. Era una donna adulta e questi privilegi non le erano più concessi, da molto, troppo tempo. Eppure dopo la lettera aveva bagnato per diverse notti il cuscino. Nessuno però si era accorto della sua profonda tristezza, nascosta dietro al suo profondo senso del dovere.
Eppure, ogni tanto si era accorta delle occhiate pensose di Oscar, quando la vedeva imparare a tirare di scherma dal generale. Forse aveva intuito qualcosa....
Scosse la testa.
No, era impossibile. Era solo una bambina!
Le venne quasi da ridere, pensando a quella piccola peste che impertinente era comparsa nella sua testa. Doveva proprio ammetterlo: si era davvero affezionata a quell'esserino biondo che scorrazzava qua e là per la residenza.
Fu padre Moritz a farla tornare nuovamente in sé.
"Maron, mi dispiace per tuo figlio e tua nuora. Erano delle brave persone, gentili e generose con tutti" fece visibilmente rattristato. Quelle parole risvegliarono il dolore dell'anziana donna.
"Il mio bambino ha sempre avuto un buon carattere. Fin da piccolo riusciva a farsi volere bene da tutti. Anche sua moglie era una cara donna, che si prodigava sempre ad aiutare il prossimo." rispose calma, con lo sguardo perso nei ricordi. Quando suo figlio si era presentato insieme alla fidanzata per dirle che si sposavano e che la giovane aspettava un bambino da lui, era stata presa da due diversi stati d'animo.
Il primo era di abbarracciare il ragazzo ed augurargli ogni fortuna con quelle nozze.
Il secondo era di prenderlo a mestolate sulla testa:quel disgraziato aveva messo incinta quella ragazza senza prima averla sposata e questo era ai suoi occhi molto sconveniente.
Ricordare in quel momento però le era molto difficile, anche se inevitabile.
"Il piccolo André assomiglia molto a loro. Però Maron, ti devo avvisare." disse serio.
"Sai dove si trova? Come sta? Posso vederlo?Vi prego Padre Moritz, non negatemi d'incontrarlo!" disse in preda all'agitazione. Quel bambino non aveva lasciato il paese e quel prete sapeva dove si trovava.
Il parroco la osservò muto poi, non appena la donna tacque a sua volta decise di esporle la situazione.
"André si trova nella mia casa" disse. La donna fece per tornare indietro sui suoi passi ma la mano callosa dell'uomo la bloccò.
"Fermati subito. Quel bambino non è più lo stesso di tre mesi fa."spiegò gelandola sul posto.
"Che significa, parroco?" domandò la governante. Ormai era arrivata in quel posto, tanto valeva sapere ogni cosa!
Padre Moritz fece un lungo sospiro, poi si appoggiò al muro in pietra che circondava il terreno dove sorgeva la sua parrocchia. "Quando il tifo ha colpito la cittadina, i genitori di André sono stati i primi a venire in aiuto degli ammalati e sono stati molto a contatto con questi ultimi.Inutile dirti che hanno contratto la malattia pure loro." iniziò riattizzando la fiamma del dolore che aveva da tempo iniziato a controllare, seppure a fatica. Sapere come erano morti era per lei qualcosa di straziante che le gridava continuamente la sua impotenza di fronte alle calamità della sorte.
Per l'ennesima volta si sforzò di non piangere.
"Maron, tuo nipote si è occupato di entrambi durante la loro malattia, per quanto possa farlo un bambino così piccolo. Non li ha mai lasciati neppure quando sono morti. Sappi che per portare via i corpi abbiamo dovuto tenerlo fermo  perché non ci permetteva di prenderli."continuò.
La governante lo osservò, spingendolo a proseguire.
"L'ho preso con me, in attesa che tu venissi qua, ma credimi è completamente ingestibile. Ha tentato più volte di scappare e non passa giorno che reagisca in modo violento verso la perpetua. Persino io ho difficoltà a tenerlo. In più parla pochissimo."concluse.
Maron non reagì di fronte alle parole del religioso.
Quel bambino era rimasto da solo durante tutto quel tempo e lei non lo aveva aiutato: poco importavano le giustificazioni che poteva dare perché il risultato era lo stesso. Ora però era più che convinta di voler rimediare.
"Portatemi da lui." disse decisa.
"Maron..."tentò di dissuaderla il prete ma la vecchia lo interruppe bruscamente.
"Credetemi, so quello che faccio. Voglio vedere mio nipote, sangue del mio sangue. Non impeditemi questo, padre Moritz." rispose.
Il religioso osservò quell'anziana signora dall'aria triste ma al tempo stesso decisa. Qualcosa negli occhi di Maron lo convinse ad accettare.
Così, senza aggiungere altro si incamminarono verso l'abitazione del parroco. La governante lo seguiva, con un unico pensiero nella testa: suo nipote. Quel piccolo bambino che aveva potuto vedere solo pochi giorni dopo la nascita. Ricordava bene la corsa in carrozza fino al paese, sotto una pioggia scrosciante e fredda. Per ottenere il permesso di partire aveva quasi litigato con il suo padrone, che l'aveva lasciata andare solo dopo aver saputo il motivo della sua partenza.
Ancora adesso poteva descrivere con esattezza l'espressione preoccupata di suo figlio che stava per diventare padre per la prima volta. Durante tutto il travaglio non aveva fatto altro che tentare di entrare nella camera dove la compagna stava soffrendo le pene dell'inferno per mettere al mondo il loro primo figlio. Quella notte la governante perse il conto di quante volte lo aveva preso a mestolate sulla testa.
Per quanto la riguardava, in quel momento si era preoccupata non poco per la salute della donna, e naturalmente anche del bambino che doveva nascere: lo sapevano anche i sassi che la gravidanza poteva essere pericolosa per la salute di entrambi.
Quando però vide il neonato per la prima volta ebbe un tuffo al cuore: era bellissimo. Aveva i capelli neri e mossi della madre e gli occhi ancora di un colore indecifrabile.
Quest'ultimo particolare fisico lo scoprì solo alcuni mesi dopo, durante una seconda visita e non poté fare a meno di rimanere stupita.
Era verdi.
Verdi come gli smeraldi.
Verdi come l'erba appena tagliata.
Verdi come gli occhi d suo figlio.
Lo battezzarono con il nome di André in onore del nonno ormai defunto da anni.
Ora lo avrebbe rivisto e dentro di sé provò una gioia che la fece quasi sentire in colpa: suo nipote era rimasto orfano e lei era felice?
"No" pensò scuotendo la testa "sono felice perché André è vivo."
E senza alcun indugio segui il prete che nel frattempo spalancò la porta.

Questa è la prima parte del capitolo, nella quale ho cercato di delineare bene la situazione. Anche qui la fantasia sta facendo i salti mortali per creare una trama che non sia troppo lontana dall'anime e dal manga che purtroppo non ho letto. La protagonista di questo capitolo è Maron Glacé, la mitica governante di Lady Oscar. Ho scelto questo personaggio perchè mi sembrava il più adatto allo scopo. E'la nonna di André che ha avuto modo di conoscere sia il padre che il nipote. Prendendo suo nipote si ritrova a dover ricoprire in qualche modo una funzione materna e quindi sulla base di questo motivo l'ho inclusa nella raccolta.
Si tratta in qualche modo di una maternità inaspettata. Nel mio blog (http://lanaufragaditerra.blogspot.com) farò nei prossimi giorni una breve presentazione su questa serie, discutendo magari sulla natura dei personaggi presentati.
Dateci un'occhiata vi assicuro che non ve ne pentirete.

La cicina

ps. Ringrazio intanto Lady in Blue e Beatrix per l'attenzione data verso la mia raccolta. Sono grata in generale a tutti coloro che hanno commentato (e che per distrazione) non ho nominato e recensiranno in futuro (spero parecchi!!) questa serie. Ringrazio inoltre anche i lettori (Mamma mia! 94 lettori! E chi se lo aspettava!).
Per piacere, continuate a recensire la mia storia e i capitoli, anche per dirmi che fa schifo o c'è qualcosa che non va. E'un modo anche per vedere se posso migliorare le storie in qualche modo.







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Capitolo 6
*** Pietra seconda parte [Maron Glacé] ***


 

Parte 2

Non appena la porta si aprì, padre Moritz condusse Maron Glacé verso una stanza. Dentro c'era la stessa donna grassoccia che le aveva sbattuto la porta in faccia pochi minuti prima e a quel pensiero la governante dovette fare un bello sforzo per non scagliare su quella persona tutta l'irritazione accumulata in precedenza.
Due soli validi motivi l'avevano trattenuta da una certa esplosione, sicuramente poco signorile.
Il primo si trovava nella discreta e sorniona figura del prete che se ne stava fermo dietro di lei.
Con la coda dell'occhio, notò che stava sorridendo. La buona donna sperò che non stesse pensando alla sua performance avuta di fronte alla porta della sua abitazione, ma non si poteva mai dire.
Da quando lo conosceva, Maron lo aveva visto il più delle volte con quell'espressione, tanto che iniziava a pensare che avesse una sorta di paresi facciale. Il suo padrone lo avrebbe chiamato, per distinguersi come al solito, "un sorriso arcaico". Due modi per definire  la stessa cosa.
La seconda ragione risiedeva nella persona che si trovava in quella casa, il suo amato nipotino.
Senza dire una parola, il prete si avvicinò al tavolo che si trovava al centro della stanza ed invitò la donna ad accomodarsi sulla panca posta sotto di esso. La governante obbedì, trovandosi, ironia della sorte, di fronte alla sconosciuta che la fissava insistentemente.
"Signora Grandier" disse Padre Moritz cordiale "la donna che avete di fronte a voi è la mia attuale perpetua Annette. Annette, questa signora è la nonna del piccolo Andre, Maron Glacé Grandier."
Entrambe non aprirono bocca, cosa che irritò il parroco: se c'era una cosa che detestava era sicuramente la maleducazione in sua presenza. Così afferrò con decisione la mano ad entrambe le donne e le costrinse a congiungerle.
"Suvvia" fece energico "lasciate perdere lo screzio di pochi minuti prima e salutatevi per bene!"
Entrambe abbassarono la testa come delle bambine in castigo e obbedirono all'esortazione del prete.
Così si presentarono, seppure in modo tutt'altro che spontaneo.Annette fissò arcigna la governante, mentre quest'ultima non si risparmiò di lanciarle un'occhiataccia.
Malgrado questo, l'uomo fu soddisfatto del risultato e si decise così a proseguire. Guardò la perpetua e la esortò a servire il pranzo, ma la donna si limitò a guardarlo truce.
"Anne, suvvia, non c'è il pranzo? Perché la cucina è così pulita? E, soprattutto perché non ci sono i piatti che hai cucinato da stamattina?" chiese in modo quasi petulante.
La perpetua gli lanciò un'occhiataccia quasi terrificante poi sospirò.
"André" disse sputando la parola quasi con fastidio.
"Oh" fu tutto quello che il parroco disse e quella misera risposta scatenò la violenta reazione della perpetua.
"Come sarebbe a dire "Oh"? Vi ricordo, Padre Moritz che è ....non so più quante sono, ho smesso di contarle...che quel moccioso combina l'ennesimo scherzo." fece, soffiando come un gatto infuriato.
Il parroco istintivamente mise le mani avanti, come per proteggersi da chi sa quale attacco. "Annette, cerca di calmarti e prova a comprendere la sua situazione..."iniziò ma fu nuovamente bloccato dalla donna.
"Ha distrutto in meno di una settimana tutto il servizio di ceramica presente in casa e lo chiamate niente? Volete forse mangiare la zuppa sul tavolo? Se vi piace così, potevate avvisarmi avrei apparecchiato solo per me.E non crediate che non capisca la situzione del piccolo: anche io ho perso i genitori in giovane età ma non possiamo per questo deprimerci. Così non lo aiutiamo di certo." fece pragmatica.
A quel punto la pancia di Maron Glacés brontolò.
Sotto lo sguardo perplesso dei due presenti, l'ospite si alzò e mani sui fianchi disse: "Sentite un po', che ci siano o no piatti, ho fame. In qualche modo faremo. Signorina Annette,  datemi un grembiule e mettiamoci a lavoro! Quanto a voi padre, rendetevi utile apparecchiando la tavola e portando il vino. Avanti, marsch!"
Senza dire nulla la perpetua schizzò rapida ad obbedire ai comandi, mentre il parroco scuoteva la testa sconsolato: la casa del datore di lavoro aveva finito per contagiare anche la sua mite compaesana.
Vedendolo inattivo, la governate fischiò come un'addestratore di cani.
"Insomma, padre Moritz, alzatevi da quella sedia e dateci una mano! Svelto!"ordinò perentoria tanto che non si capiva più alla fine chi fosse il padrone di casa e chi l'ospite. 

***
Con un po' di fortuna riuscirono a preparare qualcosa da mangiare. Maron dovette ammettere che quella perpetua ci sapeva fare nel suo lavoro. Così senza dire nulla iniziarono a pranzare.
Avevano cotto nuovamente la polenta di Annette sulla brace in modo da poterla mangiare senza l'ausilio dei piatti, poi avevano rimediato del formaggio e del prosciutto. Come pranzo era più che sufficiente.
Tutti e tre si misero a tavola, pronti ad avventarsi sulle pietanze.
Proprio quando il parroco e la perpetua stavano per dare l'assalto alla polenta abbrustolita, Maron alzò la mano per avere la loro attenzione e gridò: "Fermi tutti!".
I due si bloccarono all'istante.
"Che c'è?" chiese Anna.
"Il mio Andre...dove si trova?"chiese esitante la donna.
Padre Moritz ingurgitò rapidamente un bicchiere di vino poi si asciugò la bocca con studiata calma, ma Maron non aveva voglia di perdere altro tempo.
"Allora?" disse battendo impaziente il piede in terra e facendo sussultare il parroco e per proprietà transitiva anche la perpetua che era di fronte a lei. "Ve lo dico per l'ennesima volta, DOVE SI TROVA MIO NIPOTE?"gridò, indispettiva e frustrata da quella perdita di tempo.
Anne abbassò la testa, con aria colpevole.
"Mi dispiace Maron, ma stamattina mentre cucinavo, André ha provato per l'ennesima volta a scappare. Per fortuna ho chiuso ogni possibile via di uscita in tempo, così non è uscito fuori dalla casa. Ho iniziato a inseguirlo ma quel bambino mentre tentavo di acciuffarlo ha gettato a terra tutti i piatti, facendo un bel disastro." iniziò a dire quando lo sguardo di Maron fu catturato da dei ciuffi color cioccolato che spuntavano nelle vicinanze della finestra.
"E dove si trova ora?" domandò la governante senza perdere di vista quello strano cespuglio mobile.
"In camera di Padre Moritz" rispose la perpetua.
La governante si alzò di scatto ed uscì dalla porta di casa sotto lo sguardo allucinato del parroco e della donna.

***
Maron camminò quatta quatta nella direzione in cui aveva visto muoversi quella strana sagoma. Non aveva preso niente con sé, spinta dall'impulso di seguire quella flebile traccia. Non sapeva cosa l'aspettasse però qualcosa che credeva essersi prosciugato nel corso degli anni e che inaspettatamente era esploso nuovamente dentro di lei la spingeva a non mollare quella scia.
L'erba smossa, segno del passagio di qualcosa di particolarmente grosso, troppo per essere un animale da cortile, la conduceva verso un grosso albero. La donna lo osservò con calma. Era una quercia piuttosto grande, che si trovava poco distante dalla casa del prete. Senza pensarci si avvicinò e accarezzò con nostalgia la ruvida corteccia.
Quella pianta le risvegliava dentro i ricordi sopiti del passato, di quando ancora viveva al paese e non prestava ancora servizio presso la casa del generale. Sotto quei rami frondosi aveva comunicato al parroco la sua decisione di entrare a far parte della servitù di quel nobile. Era da poco rimasta vedova e per quanto suo figlio fosse già abbastanza grande per iniziare l'apprendistato presso un bottega, non voleva essere di peso a quel bambino che stava diventando uomo per potersi prendere cura di lei. Per questo aveva lasciato la sua casa per andare a lavorare.
Sotto quelle fronde suo figlio passava le sue giornate a giocare insieme ai suoi coetanei durante le ore di lezione che Padre Moritz faceva ai figli del villaggio.
A quei ricordi che si affacciavano prepotenti la donna sorrise tristemente, consapevole che quei momenti non potevano essere rivissuti nella realtà ma solo nella propria memoria.
Improvvisamente qualcosa di piccolo e duro le cadde sulla testa.
"Ahia! Chi è stato?" esclamò alzando la testa verso l'altro.
A quella vista non poté trattenere un sussulto.
Su uno dei rami stava seduto un bambino. Aveva i capelli riccioluti e castano scuri quasi neri ma il particolare che lasciò sgomenta la donna furono gli occhi, verdissimi e familiari.
Maron si mise una mano sulla bocca.
"André, sei tu?" chiese con un misto di speranza e timore.

Per piacere riponete da una parte gli ortaggi. Questa storia si sta rivelando più complessa del previsto e immagino che pensiate che la seconda parte del capitolo sia piuttosto breve. In questa parte Nanny incontra finalmente il suo nipotino che a causa del lavoro non ha potuto incontrare molto spesso. Vi avviso da ora che André ha pochi ricordi della nonna e lo vedrete nella terza, e forse ultima parte. Sono rimasta molto stupita di vedere che così tante persone hanno letto la mia serie "Maternalia". Davvero non me lo aspettavo. Vorrei ringraziarvi davvero. Nella parte finale del capitolo che pubblicherò prossimamente, André si confronterà con la nonna. Come va a finire la storia lo avete visto nella prima parte.
Intanto vi esorto a commentare senza problemi le mie storie e vi ringrazio per le recensioni ricevute. Alla prossima!
ps. Sull'altra fanfic tengo la bocca cucita per cui crogiolatevi nella curiosità ancora un po'. Vi dico solo che il titolo provvisorio del prossimo capitolo di quest'ultima è "La catena di montaggio" ed è un P.O.V. André.



 
 

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Capitolo 7
*** Pietra terza parte [Maron Glacé Grandier] ***


Salve a tutti, sono Cicina. Mi dispiace non aver aggiornato la storia fino a questo momento ma sono stata alcuni giorni da mia nonna e malgrado avessi il pc portatile non ho potuto usare internet (Là non ho l'abbonamento Alice e perciò non volevo far arrivare a casa di mia nonna una bolletta telefonica spaventosa). 
 

Inoltre scrivere il capitolo di nanny si è rivelato abbastanza difficile per via della situazione che avevo creato. Penso che anche i prossimi capitoli saranno complicati ma non temete aggiornerò lo stesso. Questa è comunque la conclusione del capitolo dedicato alla governante. Prima di lasciarvi alla lettura vi ringrazio per aver prestato attenzione alle mie storie. 

 

Marons Glacés [Pietra]

PARTE 3

“André sei tu?” chiese esitante la donna ma il bambino si limitò a fissarla senza dire nulla, in un silenzio pesante ed opprimente.

Poi successe una cosa che Maron non si sarebbe mai aspettata. André afferrò qualcosa nascosto fra le fronde della quercia senza smettere di guardarla inespressivo. Poi alzò il piccolo braccio e lo scagliò contro di lei.

L’impatto, duro ed inaspettato, dell’oggetto contro la sua fronte la lasciò basita. Raccolse ciò che le aveva lanciato e lo osservò silenziosa. Era una ghianda.

Troppo felice di vedere il nipote, Maron aveva deliberatamente ignorato gli avvertimenti del parroco e adesso ne pagava le conseguenze. Alzò la testa per fissare nuovamente il bambino ma ciò che vide la freddò sul posto. Solo in quel momento vedeva realmente André.

L’affetto e la dolcezza dei ricordi avevano offuscato la vista ed il raziocinio, impedendole di guardare suo nipote per quello che era. Ora però era abbastanza lucida.

Alzò nuovamente la testa verso il piccolo.

Aveva un aspetto molto trasandato. I capelli erano scarmigliati e dall’aria poco curata. Aveva il viso sporco di terra e coperto di graffi, così come le braccia e le gambe. Era come se non avesse mai fatto un bagno. A completare il tutto i vestiti pieni di strappi e polverosi, ma ciò che attrasse l’attenzione della governante furono gli occhi.

Erano ovviamente verdi come li ricordava, eppure c’era qualcosa di diverso. Erano spenti e gelidi come delle lastre di ghiaccio. Non erano gli occhi di un bambino. André continuava a fissarla impassibile, mentre raccoglieva dai rami altre ghiande che Maron non dubitava avrebbe usato nuovamente contro di lei.

Si accarezzò lievemente la fronte nel punto in cui era stata colpita. Il dolore era sparito, sostituito dallo sgomento provocato dalla vista del piccolo.

“André…”mormorò.

D’un tratto il ragazzino spalancò un momento gli occhi e per un istante una strana luce attraverso il suo sguardo.

“VAI VIA! NON ME NE VADO DA QUI!NON TI VOGLIO!” urlò  con tutto il fiato che aveva in gola e senza darle il tempo di rispondere iniziò nuovamente a scagliarle contro una vera e propria pioggia di ghiande. La donna era rimasta allibita dalla reazione di quel bambino così gentile e pacato nei suoi ricordi, tanto da non riuscire a muoversi.

“Maron! Vieni dentro, presto!” gridò il parroco che nel frattempo era corso da lei, sentendo il trambusto. Ma Maron non lo sentiva, completamente sotto shock.

Vedendo che non rispondeva, Padre Moritz la trascinò in casa. La governante si lasciò portare senza reagire.

 

***

La perpetua le porse una tazza di tisana calda, che Maron bevve tutto d’un fiato, senza far caso al fatto che la bevanda fosse bollente. Si toccò la fronte che ormai non sanguinava più.

Suo nipote, che ormai considerava a tutti gli effetti il suo bambino era in condizioni peggiori di quanto si aspettasse, e quello che era peggio era che non sapeva cosa fare: e dire che dopo aver tirato su suo figlio e le figlie del generale, doveva avere un po’ di esperienza!

“Maròn, ti avevo avvisato.” Disse Padre Moritz con aria severa.

“Lo so, avete ragione, parroco, ma volevo vederlo.” Rispose sospirando.

“Quel bambino è completamente ingestibile. Credetemi abbiamo fatto il possibile per trattarlo nel migliore dei modi, ma da quando è arrivato si comporta in modo strano. Lo shock causato dalla morte dei genitori deve essere stato troppo per lui.” Disse preoccupata la perpetua che a modo suo aveva a cuore la sorte del piccolo, mentre la donna fissava impassibile la tazza. Era vero, non aveva pensato  alle conseguenze che la morte dei genitori avevano portato su suo nipote. O,per lo meno,non vi aveva fatto la dovuta attenzione e per l’ennesima volta si sentì in colpa.

L’immagine dell’Andrè di pochi mesi prima, custodita nei suoi ricordi cozzava fortemente con quella attuale tanto che a stento riusciva a convincersi che il bambino dei ricordi e quello sull’albero fossero la stessa persona.

Mentre era persa nei suoi pensieri alla ricerca di una soluzione, il prete e la perpetua si fissarono per un momento poi si alzarono entrambi per andare in giardino.

Maron li osservò senza riuscire a capire.

“Che cosa avete intenzione di fare?” domandò incerta.

Anne le lanciò un’occhiata comprensiva e le sorrise.

“Andiamo a prendere suo nipote.” Fu la risposta.

 Entrambi uscirono, lasciandola sola nella stanza. Mentre aspettava che facessero ritorno ripensò a quanto accaduto prima e alle parole del prete e della perpetua, rendendosi conto di aver sbagliato a correre dal suo nipote così, senza tener conto dei sentimenti del piccolo. Era stata una sciocca.

In quel momento la porta si aprì ed entrarono la perpetua ed padre Moritz che teneva in braccio il bambino svenuto.

“Cosa è successo?” chiese preoccupata la governante.

“Come le avevo detto, André mangia pochissimo e da alcuni giorni non mette in bocca nulla. A causa della fame, ha perso i sensi, rischiando di cadere dal ramo ma fortunatamente lo abbiamo preso al volo.” Spiegò paziente il parroco.

“Non è la prima volta che si comporta in questo modo, Maron: per questo motivo sapevamo come agire.” Concluse la perpetua.

Il parroco poi suggerì di portare il bambino in camera, in attesa che riprendesse conoscenza.

Salirono le scale e raggiunsero la stanza e lì depositarono il bambino sul letto.

“Padre Moritz” disse la governante mentre li osservava portare il piccolo “fatemi restare con lui e portatemi qualcosa da mangiare, vi prego”.

“Come volete, Maron” fece il religioso, allontanandosi.

Pochi minuti dopo entrò Anne che depositò un vassoio con gli avanzi del pranzo che erano rimasti.

Per diverso tempo, la governante rimase a fissare André, senza fare rumore, temendo di svegliarlo.

Poi alla fine il piccolo aprì gli occhi.

 

***

André si guardò attorno leggermente spaesato. Non era più in cima alla quercia ma sul letto di Padre Moritz. Scosse la testa: probabilmente era svenuto, come al solito.

Poi l’occhio gli cadde su una persona che non aveva mai visto. Era una donna, non più giovane, dall’aria paffuta che lo fissava preoccupatissima. Era la stessa che aveva visto poco tempo prima.

“André, finalmente ti sei svegliato!” esclamò felice la signora mutando immediatamente espressione. Spaventato il bambino si ritirò nel letto.

Maron si dette della stupida per il suo comportamento impulsivo ma non si perse d’animo. “Scusami, spesso agisco senza pensare. Non volevo spaventarti, mi dispiace.” Disse.

“Chi sei?”chiese il bambino guardingo.

“Sono la tua nonna, André. Tuo padre era mio figlio.” Rispose, ignorando la fitta che aveva provato sentendo la domanda del bambino. Aveva deciso di non nascondere nulla al piccolo, perché era risaputo che i bambini difficilmente perdonano i bugiardi e lei voleva guadagnarsi la sua fiducia.

“Come mai non ti ho mai visto?” domandò sospettoso. Molte volte infatti si erano presentate alla sua porta persone che sostenevano di essere suoi parenti e che volevano portarlo via dal villaggio e questo fenomeno non aveva fatto altro che alimentare la sua diffidenza.

“Perché lavoro molto lontano da qui. Ho lasciato il villaggio per servire nella casa di un nobile perché non volevo essere di peso per il tuo papà. Sai è per me molto difficile ottenere dal mio padrone il permesso di allontanarmi dalla sua villa.”rispose.

Gli occhi verdi del piccolo la osservavano in cerca di qualche segno che smascherasse la sua recita ma non ne trovò. Sì quella donna non mentiva.

“Lavori molto lontano?”chiese.

“Vicino a Versailles. E’una casa molto grande e bella, sai?”fece sorridendo. Un lampo d’interesse attraversò il viso del bambino, per poi morire subito dopo.

“Vuoi portarmi là?”fece serio. Tutti quelli che aveva visto venivano da lui solo per trascinarlo lontano dal villaggio, eppure quella sconosciuta che diceva di essere sua nonna non glielo aveva chiesto ancora, cosa che lo aveva sorpreso.

In realtà, la governante non aveva ancora pronunciato quelle parole perché le mancava il coraggio e non voleva ferirlo. Di fronte alla domanda diretta del bambino, tutt’altro che ingenuo o sciocco, decise di essere sincera.

“Per me sarebbe più semplice prendermi cura di te. Il villaggio è molto lontano dalla villa del signore per cui lavoro e quindi non posso venire spesso da te se rimani qua.”rispose, guardandolo dritto negli occhi.

“Non voglio andarmene da qui.” Replicò il piccolo con la testa bassa e la voce tremante.

Maron fece un profondo sospiro, e con uno sforzo non indifferente, si impose di non comportarsi in modo impulsivo per non spaventarlo.

“Padre Moritz, mi ha detto che non mangi da alcuni giorni. Ho preparato qualcosa vuoi assaggiarlo?” disse gentile.

Il piccolo fissò il vassoio senza dire nulla.

“Se ti chiedi dove sono i piatti, sappi che questa settimana hai rotto l’intero servizio della casa. E ora mangia, su.” Lo esortò.

A quelle parole, il piccolo obbedì, divorando tutto.

Maron lo osservò con soddisfazione. Il piccolo sembrava apprezzare la sua cucina, ma ora che si era rimesso, la governante pensò a come avrebbe dovuto affrontare l’argomento. Decise perciò di prenderla alla larga, per non allarmarlo troppo.

“André ascolta. Ho chiesto a Padre Moritz di posticipare i funerali e lui ha accettato. Vuoi venire domani con me alla messa?” chiese incerta.

Per l’ennesima volta, André si stupì: quella donna non gli aveva mai ordinato né imposto di venire con lei nella sua casa. Senza pensarci accettò.

I due passarono insieme l’intero pomeriggio, durante il quale la donna gli raccontava paziente della casa dove lavorava, del suo padrone e delle sue figlie. André però la ascoltava scettico, non credendo a tutte le parole della governante: come era possibile che la figlia più giovane del generale crescesse come un maschio e si comportasse come tale?

Maron tentò in vari modi di convincerlo che diceva il vero poi alla fine perse la pazienza.

“Basta ci rinuncio. Se vorrai vederla, saprai che non ti dico bugie.” Disse stizzita.

Il bambino sembrava non avere difficoltà ad accettare la sua compagnia ma i problemi non mancarono, a cominciare dal bagno. Maron aveva infatti deciso di dare una sistemata all’aspetto del piccolo che sembrava in tutto e per tutto uno straccione. Per tutta risposta il bambino aveva tentato la fuga attraverso la finestra, ma Maron, prevedendo le sue mosse, lo agguantò dandogli a malapena il tempo di voltarle le spalle.

La governante lo teneva saldamente, malgrado il bambino si divincolasse come un’anguilla per sottrarsi alla sua presa. Tentativo inutile, dal momento che la donna aveva una lunga esperienza con i bambini discoli.

Così senza indugi lo tuffò nella vasca piena di sapone.

La reazione di André non si fece mancare: infatti, come un gatto, tentò di schizzare fuori dall’acqua ma anche allora la presa di Maron su di lui non si allentò.

“Stà buono! Non ti sto mica ammazzando. Vuoi allevare una colonia di pidocchi?” lo ammonì, dandogli un leggero scappellotto, non abbastanza forte da fargli male ma sufficiente per fargli capire che non doveva fare storie. Da quel momento il piccolo smise di protestare.

Padre Moritz e Anne non si fecero vedere in giro per lasciarle il tempo di trascorrere il tempo con quel bambino.

Dopo il bagno, la donna iniziò a sistemargli anche i capelli, cercando di dargli un aspetto più ordinato. Alla fine fu soddisfatta del risultato finale: il piccolo aveva infatti un aspetto migliore ed i vestiti, che appartenevano al padre quando era più giovane e che lei senza pensarci aveva portato con sé, gli calzavano a pennello.

André si fissò stupito allo specchio che si trovava nella stanza del parroco. Non aveva mai indossato abiti così belli e a stento riusciva a riconoscersi.

Fu così sorpreso che non ebbe il coraggio di dirle nulla per ringraziarla ma a Maron non importava perché l’espressione stupita sul viso del piccolo era una risposta più che sufficiente per lei.

La mattina dopo, i due fecero il giro del paesino. Era stata un’idea della donna che voleva in questo modo far uscire un po’il bambino. André non lasciò mai il suo fianco, come se avesse il timore che si allontanasse, abbandonandolo.

Dopo pranzo ebbero luogo le esequie.

Maron aveva fatto indossare al nipote gli abiti scuri che un tempo erano del padre ed insieme entrarono in chiesa posizionandosi in prima fila, in modo da poter vedere malgrado l’ambiente fosse affollato: alla messa partecipava infatti tutta la popolazione del paesino.

Padre Moritz iniziò la funzione ed il silenzio calò nella sala. André non aprì bocca per tutta la durata della messa. Maron aveva lo sguardo fisso su quelle bare vuote poste sotto l’altare.

Quella messa non le avrebbe riportato indietro suo figlio e la sua nuora ma era in qualche modo consolante, perché le permetteva di dire loro addio come desiderava, anche se non si aspettava di dover assistere al funerale della propria prole.

Dopo la funzione, le due bare furono trasportate a spalla fino al cimitero posto in riva al mare, dove furono seppellite. Della folla che aveva seguito la messa erano rimasti solo il parroco, la perpetua, dei giovani che trasportavano le bare, la governante ed il nipote.

Dopo la sepoltura i due rimasero a vedere i cumuli di terra smossa e per un po’ di tempo rimasero in silenzio. Il sole non era ancora tramontato, anche se non si trovava più nel punto più alto del cielo.

“André” disse la donna, richiamando l’attenzione del bambino che si voltò verso di lei.

“Ieri mi hai detto che non vuoi andare via da questo villaggio. Dimmi: sono queste lapidi a trattenerti qui?” chiese.

“Sono la mia mamma ed il mio papà. Non voglio lasciarli.”rispose calmo.

La governante scosse la testa, senza lasciare lo sguardo da ciò che indicava la presenza della tomba e portava il nome del figlio e della nuora.

“No, André, ti sbagli. Quelli sono sassi.” Rispose meccanica lanciando un’occhiata al bambino che la osservava scettico.

“Questa pietra” fece, accarezzandone la superfice “serve a rammentare ai viventi il ricordo delle persone care che non ci sono più. I tuoi genitori non sono qui, in queste bare vuote, e nemmeno nella fossa comune.”

“E dove sono?” chiese il nipote poco convinto.

Maron allora si mise di fronte a lui.

“Qui….” fece toccandogli la testa.

“….e qui”disse indicandogli il torace nel punto in cui si trova il cuore.

“Non importa se il luogo dove andrai a vivere sarà vicino o lontano da questo villaggio perché il ricordo delle persone care non ha una sede precisa in questa terra. E’ dentro di te indipendentemente dal posto dove abiterai.” Fece calma.

André si toccò meccanicamente la fronte ed il petto, senza aprire bocca. Poi senza dire nulla abbracciò deciso la nonna che non lo allontanò da sé.

“André” disse accarezzandogli delicatamente la testa “vuoi venire a stare con me? Se vorrai fare visita qualche volta alle tombe dei tuoi genitori, potremo farlo. Il mio padrone me lo permetterà. E’un po’strano, ma agisce in buona fede te lo garantisco.”

 

Maron ripensava a quello che era successo in quei giorni mentre la carrozza del generale la riportava insieme al nipote al palazzo. André non gli aveva risposto, limitandosi a seguirla, silenzioso come un’ombra. La governante sospirò: era riuscita nell’intento  di portare con sé quel bambino ma non era sicura che il padrone le avrebbe permesso di andare in quel villaggio qualche volta per visitare le tombe. Forse contava troppo sulla benevolenza del generale e rischiava di creare troppe aspettative in quel bambino.

Fu però il nipote a sorprenderla.

“Nonna” disse, chiamandola in quel modo per la prima volta.

“Dimmi” chiese stupita la donna.

“Non mi importa di fare ritorno al villaggio per rivedere le tombe di mamma e papà. Loro sono sempre con me. Voglio restare con te. Posso?” chiese incerto.

La donna non rispose subito. Era stupita dalle parole del bambino, che si era mostrato così sensibile. Avrebbe voluto dirgli tante cose ma si rendeva conto che nessuna di esse era adatta.

Così si limitò ad annuire ed insieme ripresero a guardare il paesaggio.

 

Molto bene, questa è la terza ed ultima parte di “Pietra”. E’stato molto difficile scrivere questo capitolo, soprattutto descrivere una situazione particolare come quella di André e Maron. Mi dispiace non aver potuto aggiornare prima.

Avete visto come si è comportata la nostra Maròns Glacés?

La reazione di André può apparire affrettata ma posso spiegare. Se ci fate caso, i bambini, più degli adulti, non sopportano i bugiardi e se sono ingannati una volta, è poi molto difficile riconquistare la loro fiducia. La nostra governante riesce a guadagnarsi il rispetto di André perché non gli mente e questo le permette di essere accettata da lui. Questa è l’interpretazione che ho voluto dare.

Il titolo Pietra si riferisce alle tombe dei genitori di André che rappresentano un modo per ricordare i cari.

Sono contenta che la serie “Maternalia” e “Agriturismo…” vi piaccia. Non ho intenzione di abbandonare nessuna delle due per il momento.

Vi ringrazio per le recensioni e per aver semplicemente letto i capitoli delle mie storie. Davvero, vi sono grata.

Per ora non posso fare altro che salutarvi. Quanto alla fantasia, come vedete la lascio a briglia sciolta dove non so la storia del manga (ho visto solo l’anime, siate clementi!).

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Capitolo 8
*** Trappola [Maria Antonietta] ***


 

Salve a tutti! Come ve la passate?  Io sto naufragando nel grande mare di lingua e letteratura greca. Come si dice? Si passa da una lingua ignota ad una sconosciuta. se riesco a passare questo scoglio potrò laurearmi. Evvai!
Bene ora che ho finito di sparare stupidaggini a destra e sinistra passiamo alla prossima parte. Vi dico intanto che la contessa Polignac tornerà altre 2 volte ( e non aggiungo altro!). Questo invece è il primo capitolo della seconda trilogia dell'altro personaggio che comparirà nella serie.

Trappola [ Maria Antonietta]

 

Era risaputo che il compito di una sovrana era assicurare una discendenza alla dinastia in cui entrava a far parte. Anche sua madre, l’imperatrice d’Austria, non faceva che raccomandarle di assolvere a quel dovere che tutti si aspettavano da lei.

Quando aveva fatto il suo ingresso alla reggia di Versailles, Maria Antonietta non si sarebbe mai aspettata che una simile mansione fosse così importante. Nessuno, infatti, neppure sua madre, si era soffermato su questo ruolo.

Certo, le avevano detto che era importante ai fini della sopravvivenza della dinastia, ma non sapeva che la gravidanza rappresentava per lei l’unica garanzia per poter rimanere a corte senza tanti problemi.

Era entrata a far parte della famiglia reale francese, diventando fin da subito un esempio di bellezza e fascino per tutte le dame che frequentavano la reggia. Aveva tutto: carrozze, gioielli ed abiti sfarzosi e dato che si trattava di oggetti che riceveva da sempre, riteneva che fossero cose che le spettavano per diritto di nascita.

Eppure, malgrado fosse circondata da ogni lusso e da persone che non facevano che ammirarla in ogni momento della giornata, non poteva fare a meno di provare un profondo vuoto, una sensazione a lei sconosciuta e spiacevole. Conosceva ogni singolo aristocratico, ogni dama che frequentava la reggia e con ognuno di loro aveva avuto l’occasione di parlare almeno una volta, ma non era in grado di distinguere se la cortesia che riceveva era sincera oppure solo una maschera per nascondere il loro vero carattere.

Maria Antonietta era, se così possiamo dire, soddisfatta anche di vivere un’ esistenza simile, all’interno di una casa sfarzosa, circondata da persone che l’ammiravano e in grado di avere tutto ciò che potesse desiderare, ma pochi anni dopo la celebrazione del suo matrimonio, aveva iniziato ad avere la sensazione che la sua vita fosse in qualche modo simile ad un limbo.

La sua innata vanità ed il ragionevole orgoglio per la sua sfolgorante bellezza non le bastavano più.

Aveva nostalgia della sua amata e lontana Austria, malgrado non avesse mai messo piede fuori dalla reggia di Schonbrunn. In realtà le mancava la sua famiglia ed in particolar modo sua madre, una donna che aveva sempre ammirato e rispettato. Non che non ricevesse lettere da loro, ma i messaggi che le venivano recapitati erano più simili a delle missive di tipo politico, piuttosto che una comunicazione affettuosa tra fratello e sorella, fra madre e figlia. Ogni volta che leggeva le loro parole non poteva fare a meno di sentire un freddo distacco che non faceva altro che lacerarla nel profondo, più di quanto già non fosse.

Attorno a lei non c’era comprensione né affetto, anche se era noto a molti che la giovane Asburgo fosse una persona estremamente generosa con chi entrava nelle sue simpatie. Questo lato del suo carattere era un’occasione per i nobili di poter dare inizio a delle carriere a corte fino a quel momento insospettabili.

La principessa non esitava a donare, a chi gliene faceva richiesta ed era da lei benvoluto, tutti i regali che voleva. Compiere quel gesto le dava l’illusione di poter conquistare oltre alla riconoscenza, anche l’amicizia di coloro che ricevevano i doni.

Era consapevole poi che suo marito non le avrebbe mai negato nulla.

Verso consorte, Maria Antonietta non provava quell’affetto che solitamente una donna avrebe dovuto provare nei confronti del suo sposo. Non lo odiava ma in qualche modo sentiva nei suoi confronti una sorta d’indifferenza.

Il loro era stato un matrimonio combinato, al quale la giovane aveva obbedito, assecondando i desideri della madre e del suo Paese.

La prima volta che aveva incontrato Luigi, non aveva potuto fare a meno di provare una forte delusione. Comunque lo si guardasse, il principe era lontano anni luce dall’immagine di uomo ideale che aveva accompagnato i suoi sogni adolescenziali. Era timido e goffo, caratteristiche che, unite ad un aspetto tutt’altro che atletico, lo rendevano un uomo poco attraente.

In realtà, non erano solo questi aspetti a renderle difficile parlare con suo marito. Ad allontanarli erano anche i rispettivi caratteri, troppo diversi per stare insieme, uniti all’incapacità di Luigi di far fronte al bisogno pressante di affetto che affliggeva la giovane. L’etichetta di corte poi, aveva, a causa della sua rigidità, il potere di falsare i legami e questo rendeva di fatto impossibile instaurare un vero rapporto.

A questi problemi, poi si univa anche l’adempimento dei suoi doveri di sovrana. Alla reggia, non si faceva altro che sussurrare il fatto che non fosse ancora rimasta incinta, quando la maggior parte delle spose rimanevano in stato interessante entro il primo anno di matrimonio. Naturalmente la colpa di un mancato erede era stata attribuita a lei e le chiacchiere in proposito si sprecavano.

Così la regina si trovò nuovamente al centro dell’attenzione, anche se non a causa di un abito nuovo o di un cappello uscito fresco fresco da un atelier. Quando attraversava i corridoi luminosi e ridenti della reggia, infatti,non poteva fare a meno di sentire sussurrare al suo passaggio pettegolezzi sulla sua presunta sterilità, alternati a risatine trattenute.

In quei momenti era presa dalla voglia di scappare e di urlare tutta la sua rabbia per i problemi che l’affliggevano e che non sapeva come risolvere. A volte chiedeva consiglio alle dame più fidate ma tutte glissavano l’argomento con falso pudore, lasciandola insoddisfatta.

Certo, neppure suo marito sapeva come trarsi d’impiccio dalla situazione, anche se è vero che il suo ruolo era meno traballante. La verità era che fin dalla prima notte di nozze, entrambi non avevano fatto altro che limitarsi a condividere lo stesso letto senza fare altro e la giovane, superata la perplessità iniziale, era giunta alla conclusione che mancasse qualcosa.

Il pensiero di Luigi però non fece altro che alimentare l’insoddisfazione della donna. Tutte le sue sorelle (quelle sposate) avevano avuto senza tanti problemi una prole. Sua madre era poi da quel punto di vista esemplare. Le vicende della sua famiglia non facevano altro che alimentare in lei la convinzione di non essere la causa della sterilità del suo matrimonio.

Tuttavia, andava riflettendo, se non era sua la colpa ( e lo stesso dottore di corte lo dimostrava) ,come poteva avere figli se il problema di sterilità era di Luigi?

Più di una volta era stata presa dalla tentazione di chiedere consiglio a madamigella Oscar ma all’ultimo momento aveva desistito. Per quanto fosse la persona a lei più cara, era anche vero che a causa della sua particolare vicenda personale, Oscar non avrebbe mai potuto soddisfare le sue curiosità sull’argomento. Quella strana donna vestita da soldato, che conduceva un’esistenza in bilico tra due mondi senza partecipare completamente a nessuno di essi, non era in grado di darle dei consigli che potessero soddisfare la sua curiosità in un tema così delicato.

Per questo motivo cercava conforto nelle dame di compagnia ma anche in quel caso la sua superiorità all’interno del palazzo la rendeva in qualche modo isolata.

Lei era al di sopra di tutti e ciò comportava una solitudine difficilmente sopportabile. In un primo momento il pensiero di essere la donna più potente di Francia l’aveva resa euforica, esaltandola più del lecito, ma ora quella posizione privilegiata appariva ai suoi occhi vuota e soffocante perché pur confidandosi con il suo seguito non era certa che le sue dame sarebbero state altrettanto sincere con lei.

Quel pensiero la bloccò: perché proprio in quel momento metteva in dubbio le buone intenzioni delle persone intorno a lei? Non si fidava di loro? E se era così, perché questo pensiero la assaliva solo in quel momento?

Forse conosceva già la risposta ma aveva finto di non vederla per non rattristarsi.

Forse non si era mai fidata fino in fondo di chi le stava intorno e per quanto il suo animo fosse trasparente ed incapace di celare le proprie intenzioni, era impossibile per lei avere qualcuno con cui confidarsi seriamente e ricevere conforto. La verità era che aveva solo persone interessate che proclamavano lealtà nei suoi confronti ma non le erano amiche.

Solo in quel momento di grave difficoltà, poteva comprendere davvero quanto fosse miserabile la sua solitudine e poteva scorgere in tutta la sua spietatezza quel mondo all’apparenza così splendente.

La sua famiglia di origine era lontana e faceva sentire la sua presenza attraverso la pesante aspettativa che potesse concepire infine un erede per la corona, senza poter mostrare comprensione per la sua condizione a causa dei rigidi obblighi nei confronti del proprio Paese.

La famiglia reale francese non nascondeva più il disprezzo nei confronti di lei, l’Austriaca, e non mancava di farle pesare in ogni occasione la sua incompetenza, nascondendosi dietro una ben studiata ipocrisia. La corte, piena di uomini e donne preoccupati solo di conservare ed, eventualmente, accrescere i propri privilegi, si adeguava agli umori della famiglia reale comportandosi come e peggio dei Borboni stessi.

Immersa in questo clima pesante, Maria Antonietta sentiva dentro di sé il peso delle aspettative che la madre ed il fratello continuavano a nutrire per lei. Una pressione che con il tempo non faceva altro che crescere, unita al timore di essere un fallimento per i progetti dell’imperatrice austriaca e soprattutto di essere una donna incapace.

Quando aveva fatto il suo ingresso in Francia aveva sperato nel profondo del suo cuore di poter essere almeno in parte all’altezza della stima di cui godeva Maria Teresa in Europa. Era consapevole di non poter mai raggiungere il suo livello ma desiderava almeno poterla rendere fiera di lei assolvendo al compito di generare un erede per i Borboni.

Quel desiderio, più a portata di mano rispetto ad altri, stava invece diventando sempre più irraggiungibile e lontano. Al limite della disperazione aveva seguito i consigli della Contessa di Polignac che era in quel momento la dama di compagnia più vicina a lei.

Si era fidata di quella donna che sembrava così sincera, al punto che la sua schiettezza poteva passare per maleducazione. Era stata infatti l’unica a darle l’impressione di essere in grado di aiutarla a sopportare meglio il dolore che quel carico di aspettative le procurava senza nascondersi dietro alla soffocante etichetta.

Eppure alcuni dei suoi suggerimenti l’avevano lasciata perplessa perché andavano contro i suoi principi. Quella dama dalla voce angelica le aveva detto di fingere una gravidanza e facendo leva sulle sue paure era riuscita a convincerla.

Così per la prima volta in vita sua aveva mentito con la speranza di poter alleviare quel peso che la stava opprimendo, ma si sbagliava. Le menzogne non hanno mai una lunga vita e per poter uscire dalla situazione in cui si era andata a cacciare aveva nuovamente assecondato i piani della Polignac che ancora una volta sfruttò le sue paure.

A farne le spese però fu la persona che meno avrebbe voluto coinvolgere nei suoi problemi: Madamigella Oscar.

Cogliendo l’occasione di una sua visita nelle stanze della regina, la contessa di Polignac aveva diffuso la notizia che, a causa di uno spavento procurato dalla donna vestita da soldato, Maria Antonietta aveva perso il bambino che diceva di aspettare. La giovane Asburgo a quel pensiero non poté fare a meno di trattenere i singhiozzi: per colpa sua, era stata condannata all’infamia l’unica persona che non aveva mai mancato di dimostrarle rispetto e comprensione e che malgrado tutto aveva accettato il discredito in cui era stata gettata senza protestare.

Si sentiva un mostro, mentre tutti manifestavano nei suoi confronti vuote parole di dispiacere per la perdita.

E il vuoto, che rappresentava una costante della sua esistenza di luce, la avvolse ulteriormente rendendola ancora una volta l’astro più luminoso all’interno della cupa gabbia di Versailles.

 

Allora questo capitolo è dedicato a Maria Antonietta e si ispira all’episodio “La menzogna” e anche al film “Marie Antoniette” della Coppola. Ho inserito questo episodio perché mi sembrava appropriato al tema della maternità della serie. Ho voluto delineare la condizione della sovrana prima di dare alla luce la prima figlia. Come vedete la sua situazione non è delle più rosee. Il titolo si riferisce alla serie di obblighi, responsabilità e aspettative che tutti hanno per lei come sovrana.

Ho voluto mettere in evidenza la sua solitudine di fondo. E’una donna inaccessibile agli altri a causa della sua sfolgorante bellezza,  dell’innato fascino che possiede e del ruolo che ricopre. Rispetto alla madre sembra più debole anche se occorre dire che Maria Teresa aveva a suo favore il fatto che era rimasta nella sua terra natale e non aveva affrontato le insidie di un Paese come la Francia, che era diventato alleato solo recentemente e quindi conservava un odio naturale per l’Austria.

Maria Antonietta è sola in una terra straniera, isolata all’interno della stessa corte e della famiglia reale. Una situazione molto difficile. Questo capitolo come vedete è privo di dialoghi proprio perché vuole esprimere questo isolamento.

Mi è venuto quasi di getto, anche se un’idea di partenza l’avevo già.

Qui la maternità è strettamente legata al ruolo del personaggio del suo ambiente ed anche se è falsa mostra come il fattore sterilità fosse una delle preoccupazioni delle donne dell’epoca.

Spero che vi sia piaciuto questo capitolo e vi ringrazio per l’attenzione avuta per la mia serie.

A presto!

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Capitolo 9
*** Bambole [contessa di Polignac] ***


 

Salve a tutti, come va? Spero che abbiate passato delle buone vacanze. Per quanto mi riguarda mi sto preparando per dare l’ultimo esame e se il dio  del greco mi aiuterà potrò avere la mia sudatissima laurea.

Speriamo bene perché mi sto facendo davvero in quattro per riuscire a spuntarla. I vostri commenti mi hanno fatto molto piacere, perché avere qualcuno che ti dica cosa ne pensa dei tuoi scritti rende molto più divertente narrare una storia.

Alcuni degli argomenti narrati nella mia raccolta sono stati molto più complessi di altri ma non posso fare a meno di non essere orgogliosa di ogni singola storia. E’bello che ci siano dei siti come questo per potersi mettere alla prova nella scrittura. Non voglio essere ruffiana ma la penso così.

Nel frattempo vi lascio alla prossima storia. Vi auguro Buona Lettura!

 

 

BAMBOLE [CONTESSA DI POLIGNAC]

 

La luce del mattino ormai  inoltrato illuminava in tutta la sua chiarezza i giardini della residenza dei Polignac. La proprietaria passeggiava tra le aiuole,non molto lontano dalla sua bambina, la piccola Charlotte, che all’epoca aveva dieci anni.

Martin Gabriel o, come si faceva chiamare, Jolande, osservava la figlia correre spensierata in giardino, inseguita dalla governante che con fatica tentava in tutti i modi di fermarla per costringerla ad indossare un nuovo vestito.

Era molto graziosa ed aveva preso da lei il colore dei capelli e degli occhi.

“Contessina! La prego si fermi, per favore!” supplicava la donna che tentava in ogni modo di raggiungerla, ma proprio quando stava per afferrarla, la bambina, ridendo, sgusciava via, leggera come una farfalla.

La nobildonna la osservava in silenzio e fissava con leggera malinconia l’innocenza che la piccola mostrava: un giorno, non troppo lontano, non avrebbe più sorriso a quel modo, forse.

Per il momento però,lasciò da parte quei pensieri, giudicandoli fastidiosi. Se c’era una cosa che aveva imparato dalla vita era

 l’arte della dissimulazione e il saper accantonare i pensieri tristi.

Tutte le persone che la circondavano, dietro la loro facciata accomodante, erano diverse da come volevano apparire e lei, come un fantoccio di cera, si era adeguata a quel costume.

Aveva avuto un marito, di condizione simile alla sua, ovvero della piccola nobiltà: un uomo che accondiscendeva con malcelato disinteresse ai capricci della moglie. Fin dal giorno del matrimonio, la donna nutriva una profonda indifferenza nei suoi confronti, anche se non poteva negare che la solidità di avere un consorte le infondeva una certa sicurezza.

Aveva sposato quell’uomo per nascondere le voci sulla sua prolungata assenza dai balli di Parigi e anche per rimediare allo scandalo che aveva rischiato di venire allo scoperto dopo quella maledetta sera.

Da quel momento, la giovane aveva giurato a sé stessa che mai più nessuno l’avrebbe umiliata e la ragazzina ingenua e sognatrice di un anno prima aveva cessato di esistere: la candida Martin Gabriel era stata sostituita dall’ambiziosa Jolande.

Aveva curato il suo aspetto e le sue naturali attitudini al canto e alla musica con un’attenzione tale da stupire tutta la famiglia,e in breve tempo,grazie a queste doti,si era messa in luce in molti salotti, mantenendo allo stesso tempo quella parvenza innocente che tanto affascinava i presenti.

Suo marito l’aveva sposata per via di questa bellezza angelica,

ma come lei non l’amava.

Jules Armand de Polignac era un uomo amante del lusso e dei piaceri, nonché un fine intellettuale. Come Jolande, proveniva da una famiglia della  piccola nobiltà ma a differenza della consorte non nutriva quella febbrile ambizione che sembrava divorarla e, se era lecito dirlo, non era nemmeno tanto interessato ai progressi della prole. Sosteneva infatti che avendo adempiuto ai suoi doveri coniugali, aveva assolto degnamente quegli impegni che non potevano essere eseguiti da altri se non da lui medesimo.

Jolande invece seguiva i progressi dei figli con un’attenzione vigile,quasi maniacale, cercando in ogni momento di essere presente nella loro vita.

Qualcuno potrebbe pensare che fosse solo una madre particolarmente premurosa ma la verità era un’altra. Come aveva avuto modo di imparare dalla contessa Pollastrion, spesso era possibile mettere in luce le doti di un casato solo esaltando

i pregi della prole. I figli erano come dei diamanti grezzi che, con il dovuto trattamento, potevano diventare pietre preziose utili a favorire una promozione sociale.

Inutile girarci troppo intorno: la contessa era un’arrampicatrice sociale e non provava alcun rimorso nel servirsi dei figli. Soprattutto perché in parte agiva nel loro interesse e, proprio per accrescere il loro desiderio di avere sempre più cose, assecondava tutti i loro capricci. Era convinta in questo modo di poter plasmare con più facilità la mente dei piccoli.

Proprio come stava facendo con Charlotte.

La bambina correva qua e là spensierata, finché non vide la sua figura.

“Madre!” disse venendole incontro felice ed ancora eccitata per la corsa.

Non appena le si trovò di fronte, fece come di consueto l’inchino che tutti i figli dovevano al proprio genitore.

“Charlotte” disse la donna, osservando critica il suo aspetto disordinato mentre la bambina rimaneva in attesa.

“Una signorina come te non dovrebbe andare in giro per il palazzo così trasandata. Siete ormai grande e dovreste iniziare a curare maggiormanete il vostro aspetto.” Fece con voce seria senza smettere di sorridere.

“Ma madre…” iniziò a dire la bambina corrucciando la fronte.

“Niente ma. Ricordatevi che siete una contessina e che un giorno tutti vi adoreranno come una principessa, ma se volete che ciò accada, dovete avere sempre un aspetto impeccabile.” aggiunse senza dare nessun tono particolare alla sua voce, per non rompere la sottile maschera che indossava ormai da anni e che aderiva su di lei come una seconda pelle.

Charlotte abbassò la testa malvolentieri, senza nascondere il broncio.

Quella vista infastidì la contessa che non amava molto i capricci insensati: perché protestare per motivi insignificanti e senza scopo?

Per questo motivo addolcì il suo tono.

“Tesoro, perché non mi fate vedere come vi dona quel nuovo vestito?” propose con un tono dolcissimo.

La bambina, come incantata dalla sua voce carezzevole, sorrise nuovamente e senza darle il tempo di aggiungere altro la condusse nella sua camera.

Giunta a destinazione, si liberò del vestito che portava e con l’aiuto di due cameriere iniziò a prepararsi per indossare il nuovo abito color verde pastello. Yolande aiutava le cameriere a svolgere le operazioni più semplici, non senza nascondere una punta di divertimento. Aiutare sua figlia a vestirsi era un po’ come tornare all’infanzia, quando trascorreva il suo tempo a giocare con le bambole. Effettivamente ai suoi occhi la piccola era una bambola:

graziosa, senza imperfezioni e con uno sguardo luminoso e vitale.

Inoltre, si ritrovava a pensare, era uno dei pochi momenti in cui poteva trascorrere del tempo con lei.

Grazie al suo naturale fascino, era riuscita ad entrare nelle grazie della regina, ricevendo doni, denaro e potere. Il palazzo dove risiedeva in quel momento era uno di questi.

Essere la prima dama di compagnia di Maria Antonietta riservava indubbi vantaggi,come per esempio la possibilità di allacciare nuove amicizie con i nobili che contavano davvero, e ovviamente di poter promuovere socialmente la propria famiglia attraverso alleanze di tipo matrimoniale. Iniziò così a stringere molti legami con tutti quegli aristocratici, nella speranza di poter accrescere ulteriormente l’influenza dei propri famigliari, in un luogo che da ragazzina aveva potuto ammirare solo attraverso i cancelli dorati.

Un giorno anche la sua bambina avrebbe fatto parte di quel mondo…

“Madre” disse Charlotte, distogliendola dai suoi pensieri.

“Dimmi tesoro” rispose stucchevole, mentre le sistemava alcuni ciuffi sfuggiti alla pettinatura.

“Nené la governante ha detto che un giorno mi porterete con voi ai ricevimenti. E’vero?” chiese curiosa, mentre si rimirava allo specchio, compiacendosi del risultato finale.

Yolande stese la bocca in un sorriso senza che la luce gioiosa arrivasse agli occhi.
“Nené ha detto il vero, ma prima che ciò accada, dovete migliorare la vostra abilità nel suonare il piano affinché tutti possano complimentarsi con voi.” Disse seducendo la bambina con la sua voce vellutata. Avrebbe preferito aspettare un po’di tempo prima d’informare la figlia dei ricevimenti a cui avrebbe iniziato a partecipare. Non la riteneva pronta.

Era troppo infantile ed incapace di mascherare la sua arroganza viziata, cosa che poteva renderla sgradevole a non poche persone. Aveva dalla sua la protezione della sovrana ma, come aveva avuto modo di vedere, l’ingenuità della regina non era un fattore di protezione sicuro, visto che era soggetto agli umori dell’austriaca.

Per questo motivo aveva impiegato il suo tempo ad accumulare più ricchezze che poteva e ad approfittare di tutti i vantaggi dovuti alla sua posizione attuale.

Desiderava lasciare alla figlia un piano solido su cui poggiare, non appena la situazione fosse peggiorata e per fare questo occorreva un matrimonio vantaggioso. Presto sua figlia avrebbe preso parte ai ricevimenti, mettendosi in mostra ed attirando così molti possibili pretendenti.

Erano occasioni a cui non poteva rinunciare.

 

***

 

La musica del minuetto si propagava nell’aria, accompagnando i movimenti dei ballerini.

Yolande osservava sua figlia muoversi con grazia nella sala e per l’ennesima volta non poté fare a meno di complimentarsi per la sua abilità.

Charlotte era molto graziosa, al punto da riuscire ad attirare su di sé l’attenzione dei presenti, ma se avesse dovuto cercare i pregi della bambina, essi si fermavano lì.

Per poter controllare meglio la volontà della piccola, non aveva lesinato di farle regali e coprirla di moine. La conseguenza di questo atteggiamento fu che Charlotte era diventata viziata e lei stessa riusciva a sopportare a stento l’irruenza che spesso trapelava da quei tratti delicati e fanciulleschi. Si sentiva in parte responsabile della condotta della figlia che rischiava in ogni momento di mettere in ridicolo la famiglia.

Le sue preoccupazioni però terminavano lì, distratte dall’osservazione degli sguardi ammirati dei presenti: anche se era viziata e capricciosa, la piccola riusciva ad attirare su di sé l’attenzione dei presenti grazie alla sua candida bellezza. Sì, se tutto andava bene, avrebbe potuto rimediare un matrimonio vantaggioso per lei, benché sua figlia non fosse portata né per il canto, né per alcuna arte. L’unica cosa che le riusciva bene era ballare e questo fatto era dovuto alle severe lezioni che Jolande le aveva imposto.

Era necessario mettere in risalto tutte le doti della ragazzina in modo da poter celare ogni possibile difetto. Per questo aveva preteso che indossasse gli abiti più eleganti e costosi: grazie alla protezione della regina, non aveva problemi di denaro e quindi poteva permettersi spese ingenti.

Molti sguardi erano puntati sulla piccola e ciò non faceva altro che riempirle il cuore di soddisfazione: se andava bene, forse tra quella gente poteva nascondersi il futuro marito di sua figlia.

“Madre!” esclamò Charlotte, venendole incontro dopo aver ballato per buona parte della serata.

Aveva uno sguardo luminoso e la scintilla della felicità balenava all’interno dei suoi occhi blu.

“Dimmi cara” fece Yolande amorevolmente.

“La contessa di Turlian si è complimentata con le mie abilità di ballerina e mi ha invitata ad una festa che farà tra due mesi. Possiamo andare?” chiese supplicandola eccitata.

La donna alzò un momento lo sguardo e soppesò il valore di quella notizia: a quel ricevimento avrebbero partecipato nobili provenienti dalla Borgogna e dalle regioni circostanti. Spesso e volentieri erano personaggi facoltosi che possedevano patrimoni ingenti.

Sì, poteva andare.

*****

 

“Ditemi, contessa” fece quel nobile dagli occhi porcini “ chi era quella dolce creatura che si trovava con voi al ricevimento?”

“ Parlate di mia figlia Charlotte, signor duca?” rispose Jolande abbassando pudicamente la testa e osservando di sottecchi il suo interlocutore. Le cose erano andate decisamente oltre le sue aspettative. La sua bambina aveva attirato l’attenzione di un uomo molto potente.

Roland de Guise era un duca molto ricco e influente, in possesso

 di vasti appezzamenti di terreno nella Borgogna. Aveva un discreta influenza a corte e poteva contare su un cospicuo patrimonio, senza dipendere troppo dai doni dei sovrani.

A differenza dei Polignac era un membro dell’aristocrazia più ricca e questo fattore giocava a suo favore.

“Sì, esatto, contessa. Devo dire che vostra figlia Charlotte è una fanciulla davvero graziosa e sono rimasto molto colpito dal suo aspetto leggiadro. L’ho trovato adorabile.” Commentò mellifluo.

Yolande iniziò a ridere, nascondendo il viso dietro al ventaglio: non è mai bene che una dama mostri in modo così esplicito le sue emozioni.

“Duca voi vi burlate di me, mia figlia ha solo undici anni. E’una bambina” fece elusiva, senza negare di apprezzare l’interesse di quell’uomo. Da quando era diventata in pianta stabile la prima dama di compagnia aveva iniziato a portare con sé la figlia in ogni occasione mondana, con il preciso scopo di attirare qualche buon partito.

Non si aspettava però una simile fortuna, ma come ogni buon commerciante, decise di tergiversare un po’, con lo scopo di aumentare in lui il desiderio di avere la ragazza.

Roland de Guise si unì alla sua risata.

“Avete ragione, contessa, ma credete che vostra figlia accetterà la mia ammirazione se le invierò dei doni?”fece con aria vagamente indifferente.

Yolande si limitò a sorridere, dandogli tacitamente il consenso.

Nei mesi successivi, mentre la dama distraeva la figlia in una serie di ricevimenti e balli, cosa non difficile per una che conosceva profondamente i difetti dell’interessata, iniziarono a giungere doni di ogni genere, molto costosi e di splendida fattura. Charlotte osservava stupita quella ricchezza, ed ogni volta chiedeva alla madre chi le avesse fatto quei regali.

La nobildonna, però diceva sorridendo di non conoscere l’identità dell’ammiratore e la invitava a godere di tutta quell’attenzione.

Dentro di sé però non poteva fare a meno di gioire per la fortuna capitata alla figlia. Rolande de Guise era ricchissimo e molto interessato alla piccola Charlotte, come dimostravano tutti quegli omaggi.

Sì, probabilmente era un ottimo partito, anche se alcuni non lesinavano di aggiungere qualche notizia poco gradevole sui gusti dell’aristocratico.

A corte si vociferava che il duca nutrisse un interesse particolare per le fanciulle che erano da poco entrate nell’adolescenza e che ancora conservavano i residui dell’infanzia, ma a Yolande non interessava.

Aveva imparato che la condotta morale irreprensibile e l’onestà non erano valori necessariamente indispensabili per valutare una persona. Quello che davvero contava era il denaro e l’influenza che l’individuo poteva suscitare sul prossimo, doti che il duca de Guise possedeva in abbondanza: quale peso poteva avere la natura dell’interesse di quest’ultimo per sua figlia?

Inoltre occorreva dire che aveva 53 anni e se la sua piccola Charlotte avesse avuto pazienza, avrebbe potuto godere dei beni di quell’uomo che, data l’età non più giovane, avrebbe molto probabilmente lasciato la figlia vedova e ricchissima.

Yolande fece mille considerazioni sulla questione ma non vedeva che vantaggi, di cui doveva approfittare il prima possibile.

La sua posizione a corte, per quanto prestigiosa, era piuttosto precaria ed influenzata pesantemente dai capricci della regina.

Benché fosse la dama più vicina alla sovrana, restava pur sempre un membro della piccola nobiltà, che viveva costantemente nel pericolo di dover lasciare quei privilegi che aveva conquistato con così tanta fatica.

Yolande non era disposta a una simile rinuncia, soprattutto vedendo che il futuro così prestigioso  che aveva sempre sognato era così vicino. Questo valeva in particolare per i figli che non avevano alcun ricordo della vita modesta del ceto da cui provenivano i genitori.

Si poteva dire, volendo essere indulgenti, che Yolande de Polignac fosse preoccupata per la sorte dei figli, ma non si poteva mai dire, visto che il suo animo, abituato a fingere costantemente, era impossibile da decifrare.

Una cosa però era certa: la contessa non dubitava che la sua Charlotte avrebbe accettato le sue decisioni. Dopotutto era una verità indiscutibile che il primo dovere dei figli fosse l’obbedienza. Per questo, ancora una volta, Jolande ignorò qualsiasi cosa potesse crearle qualche dubbio.

Nel frattempo i regali continuarono a susseguirsi con frequenza regolare e, cosa non trascurabile, erano sempre più ricchi e costosi. La contessa per parte sua sorrideva della curiosità che sembrava divorare il giovane animo della bambina ed era convinta che una volta visto il suo corteggiatore sua figlia avrebbe accettato, vinta dalla generosità dei regali.

Nessun altro pensiero per lei contava: né la spaventosa differenza d’età, né la fama di uomo vizioso del duca, né l’orrore che poteva suscitare il pensiero della prima notte di nozze di sua figlia con l’anziano aristocratico.

Charlotte doveva obbedire.

 

 

***

 

“Madre vi prego, non voglio! Non voglio sposarlo!” supplicava isterica la bambina, costretta in qualche modo a diventare adulta con quelle nozze, agli occhi di molti, vergognose.

Aveva allontanato da sé tutte le cameriere che si erano avvicinate a lei e rifiutava qualsiasi contatto: non voleva essere toccata da nessuno. Yolande la osservava andare alla finestra con aria vagamente infastidita.

Charlotte aveva incontrato quel giorno per la prima volta il duca, che manifestava con sempre maggiore impazienza il desiderio d’incontrare quella che a tutti gli effetti considerava come la sua futura moglie, un pensiero che provocava in lui un’eccitazione che a stento riusciva a contenere. Non appena aveva visto quell’uomo sua figlia era svenuta e ci era voluto un po’di tempo prima che potesse riprendere i sensi.

Al risveglio, Charlotte,venuta a conoscenza della decisione materna, aveva iniziato a comportarsi in modo insensato, chiedendole di cambiare idea e di non farle sposare quell’uomo. Ma ovviamente Jolande non era intenzionata ad accettare: a che erano serviti altrimenti tutti suoi sforzi in quei mesi? Sua figlia era un’ingrata, oltre che una sciocca.

“Charlotte, cara” disse dolcemente “quando un uomo sposa e ama una donna è la felicità per quest’ultima. Ormai dovreste saperlo, dal momento che siete grande.”

In quel momento la bambina si bloccò fissando incredula la madre, che manteneva inalterata l’espressione angelica che aveva sempre mostrato, poi riprese a gridare isterica. Infastidita dai capricci ingiustificati della figlia, la contessa lasciò la stanza: che fosse consenziente o meno, Charlotte avrebbe obbedito perché era sua figlia.

Nei giorni successivi, la portò a numerosi balli e ricevimenti, come se nulla fosse accaduto. I capricci della bambina divennero insignificanti, di fronte alla grandezza del futuro che prospettava per lei. Quando sarebbe diventata adulta, l’avrebbe ringraziata sicuramente.

Per questo motivo coglieva ogni occasione per lasciare sua figlia in compagnia del duca: visto che presto sarebbero diventati marito e moglie, era giusto che iniziassero fin da subito ad abituarsi alla vicinanza reciproca.

Così non tenne conto del nervosismo della figlia, né delle sue reazioni isteriche: era normale per una donna in procinto di sposarsi. Dopo le nozze, per un po’di tempo non avrebbe più avuto modo di vederla, visto che il duca era intenzionato ad andare in Borgogna per un po’di tempo. Lei ed il duca avevano decito, con il tacito consenso, o indifferenza, del padre della bambina.

Era tutto pronto.

 

****

Mancava ormai poco tempo al matrimonio e per l’occasione Yolande aveva dato sfogo a tutto il suo desiderio infantile di agghindare la figlia nel migliore nei modi.

Era felice.

Finalmente attraverso sua figlia avrebbe realizzato tutte le sue ambizioni e i Polignac con questa unione avrebbero ottenuto la fama che meritavano. Quel giorno aveva deciso di vestirla personalmente, senza l’ausilio di nessuna cameriera: voleva trascorrere con lei il poco tempo che rimaneva loro prima del matrimonio. Charlotte assecondava i desideri della donna, fissando assente la propria immagine riflessa allo specchio: in quel momento, con quello sguardo spento, era simile ad una bambola di porcellana finissima.

Quella improvvisa docilità disturbò in qualche modo la donna che senza volerlo tirò con più forza i capelli della figlia.

Lei però non reagì, come se fosse un oggetto privo della capacità di provare le emozioni.

Yolande strinse le labbra, mentre un fiume di parole rischiava di uscirle dalla bocca da un momento all’altro. Avrebbe voluto dire qualcosa ma la situazione che si era creata non rendeva nessuno dei discorsi adatto,per cui non disse nulla e riprese ad agghindarla per la festa, poi un particolare attirò la sua attenzione.

“Charlotte chi vi ha dato quella rosa bianca?” chiese.

La bambina abbassò lo sguardo verso il fiore che da giorni teneva sempre con sé e una strana luce attraverso i suoi occhi, bagliore che la donna non seppe decifrare.

“Nessuno madre. Ho avuto questo fiore da una mia…amica come portafortuna.” Disse senza alcuna esitazione.

Yolande non rispose limitandosi a sorridere: era solo un fiore, una pianta senza alcun significato.
“Tenetelo allora se vi fa piacere” concesse, ottenendo poco dopo un luminoso sorriso che sembrava in quel periodo sembrava essere scomparso .

Mai come in quel momento vide sua figlia splendere in quel modo, quasi di luce propria. Mai,e questa luminosità le suscitò in qualche modo un brutto presentimento.

I ritmi della corte però, come un perenne spettacolo, teatrale non le permisero di soffermarsi troppo sul comportamento della figlia, tanto da impedirle di dare troppo peso alla cosa.

In uno strano moto di generosità, concesse al duca il permesso di parlare privatamente con la contessina: se anche quell’uomo avesse sedotto Charlotte, le nozze non sarebbero state annullate, dal momento che i patti che precedevano il matrimonio erano già stati fissati.

Il duca si assentò per pochi minuti, ritornando subito dopo nella sala da ballo.

Solo.

La festa continuò e Yolande, impegnata ad intrattenere la regina,non si preoccupò dell’assenza della figlia. I divertimenti che la circondavano erano più che sufficienti a distrarla. Poi tutto accadde velocemente.  

Il servitore irrompere in preda al panico nella sala.

La corsa delle dame e degli aristocratici verso il giardino.

Il freddo vento di quella sera.

L’umidità proveniente dalla fontana con le statue a forma di rana.

Sua figlia in cima al tetto del palazzo, scarmigliata e muta.

Sua figlia alzare il braccio verso l’alto tenendo in mano quella rosa bianca.

Sua figlia saltare nel vuoto, librandosi nell’aria come una farfalla.

Lo schianto finale al terreno.

Yolande si avvicinò sotto schock al cadavere senza aprire bocca.

Accarezzò la pettinatura sfatta e il vestito sgualcito.

Toccò delicatamente il corpo esile ed ancora acerbo, fragilissimo dopo l’impatto.

Poi la girò per guardarla in faccia. Mentre osservava il volto inespressivo di quella che fino a pochi minuti prima era sua figlia fu colta da una spiacevole sensazione.

Come una bambina,  lei l’aveva vestita.

Ne aveva curato i capelli.

L’aveva strattonata qua e là seguendo unicamente i suoi desideri.

Charlotte era diventata la sua bambola da adulta, e come tale era stata trattata, finché a causa dell’eccessiva prepotenza della

proprietaria, aveva finito con il rompersi.

Bella e fragile come un giocattolo costosissimo e che, come tutti i giochi, può rompersi senza rimedio.

A quel punto Yolande gridò.

 

Dunque, questo è il capitolo dedicato alla contessa di Polignac ed alla figlia. Il titolo del capitolo è dedicato alla mia interpretazione su come la protagonista veda Charlotte. Onestamente non so bene se il risultato è all’altezza del capitolo Minuetto ma ho fatto del mio meglio. La storia segue l’anime e copre un arco di tempo abbatanza ampio e per questo è diviso in parti.

Vorrei ringraziarvi per l’attenzione che la mia racolta sta avendo e per le considerazioni che ne avete fatto. Non posso fare i soliti commenti del caso perché vedo di fretta.

Alla prossima.

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Capitolo 10
*** Sogno [Maria Antonietta] ***


Buona sera a tutti! Come vi avevo promesso avrei aggiornato la storia. Maternalia avrà ancora altri 5 o 6 capitoli più o meno. Mi fa piacere che abbiate apprezzato l’introspezione che ho messo in questa raccolta. Non è molto facile ma mi piace provare nuovi stili. E poi come si dice: più si scrive, più si migliora (forse). Allora, se avete letto le mie storie, avrete notato che cambio tono ogni volta e spero che vi piaccia.

La contessa di Polignac è il personaggio che forse mi è riuscito meglio, non so voi. Non è il mio preferito ma mi ispira scrivere su questo personaggio.

Bene, ora che vi ho infastidito a sufficienza, godetevi pure questo capitolo.

 

SOGNO [Maria Antonietta]

 

Era ormai giunta la primavera e i giardini di Versailles erano in piena fioritura. Qua e là sbocciavano rose e piante magnifiche che disperdevano nell’aria il loro dolce profumo.

“Maestà, guardate: questi lilium sono bellissimi!” esclamò entusiasta una delle dame al seguito della regina. Maria Antonietta era china a terra, impegnata a piantare alcuni bulbi. Quando udì la voce dell’aristocratica alzò la testa è sorrise.

“Sono contenta che li apprezziate. C’è voluto un po’di tempo per crescerli, ma come vedete , i risultati sono stati notevoli.” Disse cortese.

La dama iniziò a ridere e ad annuire mentre la regina la fissava sorridente e serena.

Come accadeva di solito, tutte le nobili che la circondavano, non le negavano nulla, ricevendo in cambio doni senza fine. Per certi versi, la sua condizione non era troppo diversa da quella ricevuta al suo arrivo alla reggia. Ricopriva ancora il ruolo di donna più influente a corte.Eppure erano ormai diverso tempo che non si recava più a Versailles.

Dopo aver messo al mondo i suoi figli, adempiendo ai suoi doveri e realizzando allo stesso tempo il desiderio che da sempre la tormentava, aveva voluto in qualche modo seguire le orme materne, tentando di destreggiarsi tra il ruolo di consorte reale e quello di madre dell’erede al trono. Fin da subito però si era resa conto di quanto quel compito fosse insostenibile per lei.

Malgrado fosse un Asburgo, non era dotata della stessa tempra di acciaio della madre e sicuramente era priva dell’esperienza dettata dall’acume politico di Maria Teresa.

Oltre a questo fatto, occorreva aggiungere un’ulteriore considerazione: l’imperatrice amava il suo popolo, Maria Antonietta invece provava quasi una sorta d’indifferenza. Giunta a Versailles, era rimasta incantata dalle sue ricchezze sfolgoranti, che non avevano fatto altro che accrescere la sua vanità, isolandola dal mondo. La bellezza della reggia aveva oscurato ogni altra curiosità, come la conoscenza del Paese su cui avrebbe un giorno regnato. Le rarissime volte che si era recata in visita ufficiale a Parigi, poi, erano state limitate ai quartieri più ricchi, dove la miseria era pressoché inesistente.

Tali esperienze avevano suscitato in lei un’immagine ideale del suo Paese, simile per certi versi a quella di un mondo fiabesco, lontana anni luce dalla realtà.

La Francia per lei era quasi un’entità astratta.

Aveva sopportato con grande fastidio gli obblighi che il suo ruolo di corte richiedeva e soprattutto le pressioni che le erano state fatte direttamente ed in modo velato sulla sua presunta sterilità, anche quando il dottore sosteneva che godeva di buona salute.

Finalmente però era riuscita ad adempiere a quel compito: aveva dato al suo regno tre figli.

“Madre!” gridò una voce cristallina proveniente da una massa di capelli biondi e un paio di occhi ridenti. Maria Antonietta sorrise vedendo la sua piccola Marie Therese correre verso di lei. Era così dolce e tenera.

“Marie.” Fece dolcemente la regina, chinandosi a prenderla in braccio. La bambina rideva, felice di trovarsi così in alto.

La donna avvicinò il suo viso a quello, così simile ed amato.

“Piccola mia” fece strofinando il naso con quello minuscolo della piccola che rise divertita. Aveva il vestito sporco di erba e terra.

Maria Antonietta la guardò bonariamente. “Figlia mia, come vi siete conciata? Perché siete tutta sporca?” domandò mentre una luce divertita illuminava il bellissimo volto.

“E’ stato Louis” disse Marie Therese corrucciando il visino in un’espressione che la madre non poté fare a meno di trovare adorabile “Mi ha preso la coroncina che avevo fatto e mi ha sfidato dicendo che non sarei mai riuscita a catturarlo!”

“Non è vero!” gridò allora un’altra vocina indispettita. “Me l’hai data tu quella corona, Marie!” fece un bambino con i capelli marroni spettinati.

“Invece sì!”ribatté la bambina.

“Invece no!”rispose l’altro, dando inizio ad un battibecco che sembrava non avere fine.

La madre li guardò serenamente e per la prima volta in vita sua provò una profonda riconoscenza per il consorte. Luigi si era sempre rivelato nei suoi confronti un marito composto e a tratti freddo ma malgrado questo non poteva assolutamente odiarlo. Come lei, si era ritrovato in un ruolo che non amava, assecondando le aspettative di tutti, senza essere sicuro che le persone che lo circondavano fossero davvero sue amiche. Naturalmente queste consideranzioni non erano state colte consapevolmente dalla regina, ma erano comparse a sprazzi in vari momenti della loro vita insieme, come quando i nobili erano piombati nelle loro stanze per annunciare che Luigi XV era morto, per poi scomparire nuovamente nella luce monotona di Versailles. Luigi XVI era un uomo con un carattere opposto al suo e non era in grado di comprendere la situazione della moglie. Eppure la donna era pronta a giurare che non appena il sovrano aveva udito il primo vagito di sua figlia, era quasi scoppiato a piangere per la felicità.

In quel momento, era rimasta sorpresa di vedere quel viso, di solito impacciato e serio, illuminarsi di gioia. Anche Luigi era in grado di provare simili espressioni e questo la rese stranamente felice.

Guardò la residenza del Trianon, dove si era trasferita poco dopo la nascita dei suoi figli e anche in quel momento non poté fare a meno di ringraziare il re.

Quando si era recata a chiedergli di poter lasciare per qualche tempo la reggia aveva temuto fino all’ultimo che il consorte non avrebbe acconsentito alle sue richieste e aveva paura di non poter trascorrere il suo tempo ad occuparsi dei figli.

Invece Luigi aveva acconsentito, permettendole di andare a stare in quella residenza, lontana dai fasti del palazzo ma allo stesso tempo confortevole. Maria Antonietta sorrise luminosa: quel giorno suo marito l’aveva resa felice.

Le aveva dato un luogo tranquillo, lontano dagli umori della corte, dove poter crescere i propri bambini.

Nei giardini intorno al Trianon non erano costretti a seguire la rigida etichetta di palazzo, né a comportarsi come delle marionette vestite splendidamente e prive di espressione. Senza contare che a palazzo non poteva comportarsi con loro con quella naturalezza che mostrava in quella residenza. Sapeva che prima o poi Versailles li avrebbe reclamati ma voleva fare il possibile per tenerli lontani da quel luogo più che poteva.

Sua madre si era comportata quasi allo stesso modo, con la differenza che non aveva trascurato mai i suoi doveri di corte,  pur facendo sentire la sua presenza.

Maria Teresa voleva che i figli la vedessero come imperatrice e come madre.

Maria Antonietta invece voleva che i suoi piccoli la vedessero come madre e poi come sovrana. Desiderava essere amata, prima di tutto. Questa era stata la sua decisione, nata dal bisogno bruciante di affetto che la tormentava da quando era giunta in Francia.

Finalmente non si sentiva più così sola come quando era giunta in Francia.

Finalmente aveva qualcuno che le voleva bene in modo disinteressato e vero.

Finalmente poteva dire di essere felice.

“Adesso basta, bambini!” disse, facendo cessare immediatamente il bisticcio. I figli si fermarono.

Maria Antonietta li guardò severa, facendo un grande sforzo nel non ridere e perdere così l’autorità che aveva mostrato in quel momento.

“Smettete subito di litigare e fate pace tutti e due.Altrimenti darò ordine di non servirvi la merenda!” Disse decisa, facendo leva sulla golosità dei piccoli.

“Ma mamma!”esclamarono Louis e Marie Therese.

“Ora.” Fece decisa, ottenendo così l’effetto desiderato.

I due bambini infatti si strinsero la mano, pur mantenendo un’espressione imbronciata che fece sorridere la madre.

Come erano buffi e teneri.

Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai.

Stare in quella casa lontana immersa nel verde e nella semplicità dei rapporti, con i suoi figli spensierati.

Senza la presenza asfissiante dell’etichetta e di nobili a caccia di favori, né l’obbligo di essere sempre disponibile con tutti.

Libera di avere un posto dove essere serena.

Alzò la testa ed in lontananza vide i tetti di Versailles fare capolino tra la vegetazione e mostrando la loro muta presenza.

Scosse la testa, rendendosi conto di quanto quei pensieri fossero irrealizzabili.

Un giorno avrebbe dovuto fare ritorno ai suoi doveri ufficiali, senza poter trovare il tempo necessario per veder crescere i propri bambini e assistere da lontano allo svolgersi delle loro esistenze.

Era la regina di Francia, pensò tristemente.

“Mamma!” esclamò Louis.

“Mamma!” fece eco Marie Therese.

Maria Antonietta rivolse loro un sorriso colmo di affetto.

“Che cosa c’è bambini?” chiese loro con una voce che scoprì tremante.

“Perché piangi?” fece la figlia.

La regina si toccò allora le guance bagnate di lacrime.

Che cosa le era successo?

Perché era triste?

Era in una splendida dimora, circondata da poche persone fidate, insieme ai suoi  amati bambini.

Doveva essere felice.

Almeno per loro.

“Nulla, tesoro” disse sorridendo nuovamente “ solo un po’ di polvere negli occhi.”

I bambini allora risero, riprendendo a giocare, mentre la madre li seguiva con aria malinconica.

Voleva concedersi di vivere quel sogno così caldo ed amato ancora per un po’, prima che la realtà tornasse nuovamente a riscuotere il suo tributo.

 

Bene questo è il secondo capitolo della parte dedicata a Maria Antonietta. Ho letto un po’ le biografie sul web per trarre la giusta ispirazione e spero che abbiate apprezzato il risultato. Come avete visto manca Joseph. Ho pensato di non inserirlo per ora perché mi sembrava che avrebbe reso troppo triste la storia.

Per ora vi saluto e vi ringrazio per aver letto e commentato la mia storia.

Grazie a tutti e alla prossima!

 

Cicina

 

 

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Capitolo 11
*** MATER [Diane de Soisson] ***


Salve a tutti! Sono cicina e vi do il benvenuto a questo nuovo capitolo della serie maternalia. Vi dirò non mi sarei mai aspettata di avere così tanta ispirazione da mettere in cantiere ben 3 fanfic. E’un bell’impegno anche se non privo di soddisfazioni.

Allora prima di lasciarvi alla prossima storia, volevo dirvi che mentre scrivevo i capitoli della raccolta, mi sono resa conto che ciascuno di questi racconti presenta delle difficoltà non indifferenti e spesso il risultato finale non è sempre così eccellente. Per fare un esempio i capitoli dedicati a Maria Antonietta che malgrado sia un personaggio interessante non mi ispira molto e a volte è difficile mettersi nei suoi panni. Diverso discorso è quello della contessa di Polignac che, malgrado non mi piaccia, è stata un’ottima musa ispiratrice.

Mah, i misteri della vita…

Ritornando alla serie, vi ho già detto che i capitoli saranno, forse 6 o 7.

Ricapitolando abbiamo visto:

  1. 1.   La madre di Oscar
  2. 2.   Maria Teresa
  3. 3.   La madre di Alain
  4. 4.   Martin Gabriel
  5. 5.   Maria Antonietta
  6. 6.   La contessa di Polignac
  7. 7.   Maria Antonietta
  8. 8.   La nonna di André

 

Ci sono altri personaggi che devono fare la loro comparsa e altri che devono ritornare. Vi dico fin da subito che guarderò più all’anime che alla storia ( se seguo troppo la biografia dovrei mettere il tutto nella sezione Originali no?) quindi siete avvisati.Se avete visto la mia pagina, avrete notato che ho scritto anche delle storie originali, oltre ad aver rimesso il mio blog: una di queste è dedicata all’ultima favorita di Luigi XV ed è un mio regalo, per quanto misero che ho preparato per quanti hanno seguito le mie storie su Lady Oscar.

 

Allora per quanto riguarda i ringraziamenti sarò generica perché come autrice spero sempre in qualche recensore ritardatario e quindi sarei ingiusta se mi rivolgessi solo ad alcuni piuttosto che ad altri.

 

Nel frattempo godetevi pure questo capitolo.

Buona lettura!

 

MATER [Diane de Soisson]

 

“Grazie, arrivederci!” disse la ragazza alla commessa del negozio.

La donna grassoccia dietro al banco le sorrise cortese, mentre prendeva i soldi che la cliente aveva depositato sul piano.

“Grazie a te. Ah Diane” disse con interesse “Come sta la tua famiglia?”

La giovane la fissò per un momento inespressiva, studiando la morbosa curiosità che trapelava da quei tratti tozzi e modellati dal duro lavoro.

“Bene” mentì con un sorriso “E ora scusate, ma ho delle commissioni da fare.”

Non appena uscì da quel negozio, fece un profondo respiro, cercando di raccogliere in sé più aria possibile. Eseguì questa operazione più volte, finché non si sentì più tranquilla. Aveva ormai perso il conto delle bugie che aveva raccontato a quanti le domandavano della sua situazione familiare. Tutti volevano sapere come stava, senza esserne interessati sinceramente. Se poi la notizia era ritenuta fosca o intrigante, faceva però il giro della città e allora iniziavano i guai per chi era coinvolto. L’interessato era additato da chi pochi minuti prima lo aveva trattato amichevolmente, e allontanato dal resto della popolazione come un appestato.

Diane, quasi per quieto vivere, aveva fatto della menzogna la sua professione, benché non fosse felice della cosa, ma non sapeva come fare. Che doveva dire a chi le chiedeva come andavano le cose a casa?

La verità?

Che sua madre era sempre con i nervi a pezzi e che doveva fare tutto da sola?

Che suo fratello era sempre fuori casa per intascare il suo magro stipendio da soldato?

Che i soldi per vivere non bastavano mai?

Che le medicine, che secondo il medico dovevano curare la mamma, erano costosissime e bruciavano quasi tutti gli sforzi dei due fratelli per arrivare a fine mese?

Che era stata costretta a vendere i suoi vestiti preferiti per pagare in parte i debiti con i negozi?

Che era stanca di controllare costantemente le azioni della madre, la quale rischiava in ogni momento di compiere qualche sciocchezza?

Che era stufa di affrontare tutto da sola, mentre suo fratello passava il tempo con i suoi commilitoni nelle taverne?

No, non poteva fare questo. Alain faceva molto per lei e sua madre e contribuiva al loro sostentamento. Eppure non poteva negare di provare una sorta di risentimento nei suoi confronti e soprattutto non riusciva a perdonargli la sua assenza nei momenti del bisogno, quando per esempio la madre aveva delle crisi e lei doveva fare i salti mortali per impedire che la situazione degenerasse e che i vicini iniziassero a lamentarsi. Era inutile negare l’evidenza: suo fratello era più libero di lei.

Poteva andare dove più desiderava e fare un lavoro, certamente più redditizio del suo. Sul piano professionale, la piccola De Soisson si sentiva incatenata alle quattro mura domestiche. Dovendo badare alla madre, le era impossibile svolgere qualsiasi professione che le richiedesse di allontanarsi troppo dalla propria abitazione. Era stata una fortuna per lei aver attirato l’interesse della perpetua della chiesetta del quartiere. L’anziana donna, vedendo la sua abilità nel cucire le aveva chiesto di aiutarla a sistemare i vestiti che ogni tanto venivano donati alla parrocchia. Diane si recava a farle visita e riceveva il materiale necessario, che avrebbe riparato una volta a casa. Non riceveva molto ma era quanto di meglio era riuscita a trovare.

Eppure non era soddisfatta della sua vita.

Sentiva che le mancava qualcosa.

Mentre camminava, portando faticosamente la spesa del giorno, vedeva la gente attorno a sé camminare svelta e frettolosa, incurante di ciò che la circondava. Ed era proprio in quei momenti, quando si trovava in mezzo a così tante persone che si sentiva sola. Sembrava un paradosso eppure era vero.

Una sensazione orribile e snervante.

Diane era completamente insoddisfatta della sua vita. Le ragazze sue coetanee erano quasi tutte fidanzate, mogli o madri mentre lei doveva badare alla madre malata e vivere nella menzogna.

Ormai diceva bugie con una facilità tale da spaventarla.

Alla sua famiglia, quando assicurava loro che andava tutto meravigliosamente.

Alle persone del condominio e ai conoscenti, quando raccontava che stavano tutti bene.

Qualcuno però, sussurando al suo passaggio, non poteva fare a meno di esprimere la sua perplessità per il fatto che fosse ancora nubile. A volte le facevano domande in proposito e Diane non sapeva cosa rispondere.

Suo fratello, quando era con lei, andava dicendo che prima di sposarsi, Diane ed il suo fidanzato dovevano chiedere il permesso a lui. La ragazza non poteva negare che quel gigante fosse del tutto sincero in proposito.

Conosceva Alain come le sue tasche e ne accettettava tutti i pregi ed i difetti. Gli voleva bene.

Era per lei l’unica figura maschile di cui avesse memoria, dal momento che il padre era morto poco dopo la sua nascita.

L’aveva difesa in molte occasioni, rischiando anche in prima persona. L’ultima prova della devozione nei suoi confronti aveva provocato la sua espulsione dal corpo della Guardia Reale. Se ripensava a quanto era accaduto, non poteva fare a meno di esserne spaventata.

Aveva rischiato molto a causa della sua ingenuità, ma non era solo questo ad averla intimorita. Vedere suo fratello difenderla a spada tratta in una situazione equivoca e pericolosa, senza preoccuparsi per sé stesso ma solo per la sua vita, l’aveva terrorizzata.

Dopo l’incidente, Diane era rimasta colpita dalla grandezza dell’amore fraterno che Alain provava per lei, un profondità tale da spaventarla. Si sentiva profondamente in colpa nei suoi confronti e a volte arrivava a credere di essere un peso per lui. Pensava di non essere in grado di poter restituire quanto il fratello aveva fatto per lei in passato e questa idea la deprimeva senza rimedio.

All’improvviso, mentre era immersa nei suoi pensieri, si trovò davanti alla facciata di una chiesa.

Era un tipico edificio costruito secondo lo stile gotico, tutto proteso verso il cielo come se volesse toccarlo. Le guglie sembravano gli aculei di un’istrice, tanto erano rivolte alle nubi. Le statue dei santi osservavano severi i passanti lungo la via, mentre i gargoyle incombevano alle estremità come dei feroci guardiani.

Senza sapere cosa la spinse, Diane entrò dentro la costruzione.

Al suo interno si respirava un’aria densa e penetrante, carica d’incenso. I raggi passavano soffusi attraverso le vetrate, come un fascio multicolore di luce.

Diane si avvicinò alle ombre luminose che riproducevano la forma dei rosoni. Erano bellissime: sembrava che l’arcobaleno fosse disceso sulla terra. I rumori provenienti dalla strada giungevano attutiti, fiochi e lontani. Le sembrava di essere in un altro mondo. Camminò nelle immense navate, mentre la grandezza dei fasci di colonne che sorreggevano l’edificio la sovrastavano come i fusti di alberi centenari. Ed in effetti era così: agli occhi di quella ragazza, nata e cresciuta nella caotica Parigi, quella chiesa era simile ad un bosco immaginario.

Una foresta di roccia.

Alla fine, si fermò di fronte ad una scultura che raffigurava la Vergine con Bambino.

Era una statua a grandezza naturale, sotto alla quale erano piantate delle candele. Era vestita in modo regale, con un velo scolpito che le avvolgeva le spalle e copriva la veste. La madonna teneva Gesù Bambino che le accarezzava con un braccio il volto, creando un contatto che andava al di là dello stesso gesto: in esso vi era amore, riconoscimento e familiarità.

Diane vedendolo si mise una mano sul petto mentre un profondo desiderio di piangere stava facendo capolino dalle profondità del suo cuore. Il viso della donna di pietra era un misto di meraviglia e dolcezza. Il movimento del braccio, immortalato nella scultura sembrava voler avvicinare il corpo del bambino a quello della madre, in un muto abbraccio.

La ragazza si mise una mano nella bocca per soffocare un singhiozzo che, silenzioso scosse con violenza il suo corpo. Quella coppia di statue rappresentava ai suoi occhi il suo sogno. Diane desiderava una famiglia, con un marito da amare e dei bambini di cui prendersi cura. Lo voleva con ogni fibra del suo corpo ma sapeva che non le era consentito.

Non più almeno.

La sua reputazione era ormai compromessa.

Si era fatta ingannare dalle attenzioni del superiore di suo fratello e aveva creduto che volesse parlarle di qualcosa che riguardava Alain. Non era riuscita a leggere le vere intenzioni di quell’ufficiale e solo l’intervento del gigante aveva evitato il peggio. Eppure Diane sapeva che non importava molto se l’aggressione fosse giunta a compimento oppure no, perché la morale comune non l’avrebbe perdonata se la notizia si fosse diffusa.

Forse l’avrebbero insultata, dandole della dissoluta.

Forse avrebbero avuto compassione di lei e, se c’era una cosa che Diane detestava, era essere compatita. Era stufa di essere sempre la principessa bisognosa di protezione ed era stanca di essere così debole.

La cosa peggiore era che da quel giorno, si sentiva sporca, come se avesse in qualche modo invogliato il suo aggressore a molestarla. Quando si guardava allo specchio e vedeva la sua immagine, non poteva fare a meno di provare disgusto per sé stessa: come poteva avere un aspetto così angelico, ora che la sua reputazione era rovinata?

Suo fratello poteva illudersi quanto desiderava, ma la verità era che non si sentiva più quel fiore immacolato. Non era più la Diane di prima.

Il suo aspetto era rimasto lo stesso, delicato e leggiadro. Era la sua anima ad essere cambiata completamente, senza che nessuno potesse accorgersene. Quell’evento l’aveva segnata nel profondo. La gente si chiedeva per quale motivo fosse ancora nubile ma cosa ne sapeva del suo stato d’animo? Si chiedeva forse quali fossero i suoi sentimenti quando vedeva le coppie felici lungo la strada? Quando vedeva le madri prendere in braccio i figli ancora piccoli ed incapaci di camminare?

Era ormai molto tempo che non sorrideva davvero. Quando Alain le correva incontro  per portarle i panni da lavare, si limitava a stirare le labbra in un sorrisetto di circostanza e suo fratello era così contento di vederla da non scorgere la distruzione che albergava nel suo animo.

Ora chi avrebbe voluto sposarla?

Chi avrebbe accettato di costruire una famiglia con una donna umiliata che aveva perso la gioia di vivere? I De Soisson non erano così ricchi da far annegare le possibili voci con il denaro e lei aveva macchiato quella che poteva essere per lei l’unica possibilità di contrarre delle nozze decorose. Loro erano nobili decaduti, senza un soldo e con un titolo privo di qualunque valore.

La giovane strinse gli occhi, nel tentativo di non piangere. Voleva essere felice, non chiedeva altro. Perché la sua vita doveva essere così schifosa e umiliante?

Mentre era immersa in questi pensieri, qualcosa la urtò, facendola sobbalzare.

Si voltò immediatamente, incontrando lo sguardo dispiaciuto di un’anziana signora.

“Perdonatemi, signorina. Non volevo.” Disse la donna in tono di scuse.

“Non preoccupatevi, non mi sono fatta niente.”rispose la piccola De Soisson, notando solo allora lo sguardo luminoso della sconosciuta ed il suo aspetto modesto ma dignitoso. La sua attenzione si spostò sul velo scuro che copriva i capelli della signora che, notando la sua curiosità, si trovò costretta a rispondere.

“Vi piace questo abito?” disse sventolandolo sul viso con fare giocoso “Sapete,  sto andando da mia figlia e mio genero. Oggi, in questa chiesa sarà battezzata la mia prima nipotina.”

“Mi fa piacere. Come avete intenzione di chiamarla?” rispose con falso entusiasmo la ragazza.

“Agnes” fece la donna “ come la madre del mio genero.”

“E’un bel nome, signora e vi faccio le mie più sentite congratulazioni per questo lieto evento.”disse, trattenendo a stento il desiderio di gridare tutta la sua frustrazione. La felicità di quella sconosciuta era quasi fastidiosa e non faceva altro che tastare con insistenza la ferita che le lacerava in ogni istante l’animo. Il suo orgoglio però le impediva di esprimere il suo dolore che si agitava dentro di lei come un cane che si mordeva la coda. Non si era mai confidata con nessuno: né con il fratello, né con la madre, incapace di reagire  anche di fronte ai propri problemi.

“Volete venire con me? Più siamo e meglio è!” propose la donna e Diane, più per cortesia che per qualunque altra ragione, si trovò costretta ad accettare. Insieme alla sconosciuta si avviò in un angolo della chiesa.

Ad attenderli c’erano otto persone.

Una donna della medesima età della sconosciuta le venne incontro.

“Era ora Madeleine! Il prete stava per perdere la pazienza” sbuffò scocciata.

“Scusa Agnes, non volevo.” Disse dispiaciuta, mentre l’altra fissava insistente Diane.

“Lei chi è?”chiese con curiosità.

Agnes fissò per un momento la ragazza, poi rispose. “E’una ragazza che vedo ogni domenica alla messa. Prega per la salute della madre malata e l’ho incontrata per caso: può assistere al battesimo della mia nipotina?” chiese decisa.

“Ma veramente…non importa…davvero”balbettò impacciata la piccola di casa De Soisson ma fu subito interrotta dall’altra anziana.

“Per me non c’è problema. Venga pure!”disse e le due condussero la stralunata ragazza verso la fonte battesimale, che si ergeva su una navata laterale della chiesa.

Davanti a quella costruzione se ne stavano tre figure: il parroco ed una giovane coppia.

Diane si mise in disparte, nel tentativo di non infastidire con la sua presenza un momento così importante. Era in fondo un’estranea in quel contesto.

Vide i membri delle famiglie degli sposi uniti in un unico gruppo. Tutti assistevano silenziosamente alla cerimonia.

Il prete iniziò a recitare le formule di rito in latino ed il silenzio avvolse tutta la navata. Il compagno della sposa era vicino a lei, facendole coraggio e sostegno con la sua muta presenza. La donna lo guardò con uno sguardo luminoso ed un sorriso carico di speranza. La giovane notò con sgomento che aveva, a giudicare dall’aspetto, la sua età.

Poteva benissimo esserci lei al suo posto.

Poi, alla fine, il religioso versò un po’d’acqua santa, con una conchiglia, sulla fronte della neonata. Diane non la vide, perché tutti i parenti la coprivano con le loro spalle ma poteva sentire chiaramente il suo pianto acuto. Quel suono, vivo e penetrante, rimbombava doloroso dentro di lei come l’eco in una stanza vuota.

Non avrebbe mai avuto tutto questo.

Lei non avrebbe più avuto qualcosa che la rendesse in qualche modo, una possibile moglie e madre. Era sola.

Sola in una famiglia distrutta dal sogno impossibile di riscatto, che le aveva precluso la possibilità di un’esistenza normale. Desiderava una vita semplice come una ragazza qualsiasi della sua età ed ora non le era più concesso. Chi avrebbe potuto amare una persona come lei, con alle spalle dolori simili e impossibili da sciogliere? Quel battesimo rappresentava ai suoi occhi quanto fosse lontana dalla realizzazione del suo sogno. Era una chimera ormai irraggiungibile per lei. Persino il pensiero di poter prendere in braccio un caldo fagotto, palpitante di vita, da curare e proteggere, era ormai un illusione, la cui dolcezza non faceva altro che gettarla nella disperazione più profonda, dilaniandole l’anima.

Alla fine la ragazza si rese conto di non poter sopportare oltre quella straziante dolcezza.

Fece appello a tutta la forza che le rimaneva e si avvicinò a Madeleine.

“Vi ringrazio signora, per avermi permesso di assistere, ma devo congedarmi. I miei più sinceri auguri per il lieto evento.”sussurrò all’orecchio della donna che la salutò con un sorriso, prima di tornare a vezzeggiare la neonata.

Diane si allontanò velocemente, ritornando alla statua della Vergine con il Bambino.

Fissò la statua e senza rendersene conto congiunse le mani.

“Vi supplico, Madre di Dio” disse singhiozzando e accasciandosi in ginocchio “Concedetemi di essere felice. Vi prego, permettetemi di avere una famiglia e di essere felice. Non ce la faccio più.”

L’espressione della statua rimase immutabile nella sua immortale e fredda serenità, unica spettatrice dell’inevitabile crollo della sua fragile spettatrice. Fuori il mondo continuava a muoversi frenetico con le sue grida, schiamazzi e risate, come se niente fosse, insensibile come quella scultura.

 

 

Bene, questa è la storia dedicata a Diane de Soisson. Inizialmente avevo pensato di narrare di questo personaggio, l’incontro con il nobile che poi la lascerà sull’altare. Poi però ho cambiato idea e ho immaginato un momento precedente a questo incontro, La protagonista è liberamente ispirata alla versione data dal manga, dato che compare pochissime volte nell’anime. Il ritratto che ne ho dato è abbastanza inedito ma ho voluto mettere in evidenza la condizione in cui si trova Diane.

Il titolo del capitolo non si riferisce alla protagonista ma all’immagine della Madonna nella chiesa e per estensione alla scena a cui la ragazza si trova costretta ad assistere. Vi dico subito che è stato molto difficile fare questo capitolo perché nel caso della piccola di casa DE SOISSON il concetto di maternità è visto quasi come un sogno irrealizzabile che si manifesta nella visione del gruppo di statue e nella scena del battesimo. Avere una famiglia per la ragazza rappresentava la realizzazione di un obbiettivo che non si limita solo alla sua felicità personale ma anche a ricostruire in qualche modo una famiglia distrutta. Non so se sono riuscita a rendere bene l’idea ma spero di essere stata chiara. Volevo delineare un aspetto del carattere di Diane che può aver in qualche modo spinto la giovane al suicidio dopo l’abbandono del fidanzato. Non so voi, ma avendo visto solo l’anime, ho trovato abbastanza forzata la conclusione della vicenda ed ho così pensato di integrare la cosa.

Vi ringrazio per aver seguito la mia storia e per la vostra pazienza malgrado i miei errori.

 

Cicina

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Capitolo 12
*** RESPONSABILITA' [Nicole Lamorliere] ***


E’un piacere per me dare il benvenuto a voi, cari lettori in questo nuovo capitolo della raccolta. Sono molto felice che abbiate apprezzato la mia idea del blog per fornire chiarimenti e notizie in più sulle vari fic che ho pubblicato sul sito di efp. Il capitolo precedente è stato molto impegnativo e non ero certa di rendere bene la situazione di Diane de Soisson. Sicuramente non compariranno più in questo capitolo personaggi con tendenze suicide, perché mi sembra di averli fatti tutti. Il prossimo personaggio che presenterò sarà un po’rivisitato, quindi non aspettatevi un’assoluta fedeltà a Versailles No Bara.

Ovviamente, nessuno dei personaggi principali presenti mi appartiene.

Fatte queste premesse, non posso fare altro che augurarvi buona lettura.

 

Cicina

 

RESPONSABILITA’ [Simone Lammorliere]

 

La piccola casetta dove avrebbero abitato aveva un aspetto molto modesto. Minuscola, poco illuminata e posta sotto una delle innumerevoli strade della capitale. Simone si portò una mano sulla bocca, non sapendo come reagire. L’altra infatti era impegnata a tenere in braccio un fagotto. Con cautela scese le scale, temendo in ogni istante che le assi malconce potessero aprirsi sotto di lei. In ogni momento guardava con apprensione le due bambine, per accertarsi delle loro condizioni di salute.

Era un ambiente molto modesto e povero, con le pareti fatiscenti e coperte di muffa, lontano anni luce dalle sue aspettative. Mai avrebbe creduto di finire in una simile situazione.

Era riuscita a farsi sposare da un discendente dei Valois, benché povero e spiantato. Simone si era innamorata all’istante del suo carattere impulsivo e ancora legato alle sue antiche usanza nobiliari ma non era certa che il consorte fosse altrettanto fiero di lei. Malgrado fossero agli occhi della chiesa e di Dio marito e moglie, l’uomo non si faceva mai vedere in sua compagnia e non disdegnava di allacciare nuovi rapporti con altre donne. Simone lo sapeva, come conosceva bene le menzogne che lui andava raccontando per sedurre le sue conquiste, tutte più ricche ed altolocate di lei.

Era perfettamente consapevole che quel bugiardo la tradiva in ogni modo e a volte si chiedeva per quale motivo avesse sposato lei, al posto di una donna di nobili origini e soprattutto dotata di una dote considerevole. Una volta si permise di fargli quella domanda, pentendosene qualche istante dopo. Il marito, udendo la sua richiesta si mise a ridere sguaiatamente, come se fosse ubriaco.

“Mi sembra ovvio, moglie: perché voi non avreste i mezzi per lasciarmi, a differenza delle mie amanti”disse con voce derisoria.

Simone ascoltò muta quelle parole sputate fuori con disprezzo. Dentro di sé  si sentiva umiliata e ferita: che razza d’individuo aveva sposato? Da quel momento, quel nobile spiantato smise di condividere con lei il letto nuziale e la donna si chiese se avesse commesso qualche fallo, facendogli quella domanda. Eppure non le sembrava di essersi comportata in modo inopportuno.

Come se non bastasse, cominciava a sentirsi poco bene: nausee continue e malesseri vari iniziarono a farle compagnia ogni giorno, sostituendo il marito assente. Eppure, continuò a lavorare ugualmente presso la famiglia dove prestava servizio come domestica, il casato dei Pollastrion. Tutta la servitù conosceva la sua condizione di donna sposata ma nessuno sapeva l’identità del coniuge. Simone non ne parlava mai, dal momento che quel nobile le aveva imposto di non dire nulla a nessuno, minacciando di abbandonarla. Lei aveva accettato per il timore di ciò che avrebbe pensato la gente di lei. La loro era in qualche modo una relazione clandestina, sia pure ufficializzata dal matrimonio. Benché fosse ancora innamorata di lui, iniziava a chiedersi se quella persona fosse l’uomo adatto per costruire una famiglia. Quel Valois era così diverso da lei. Aveva gusti raffinati e non mancava occasione che si lamentasse per la loro attuale povertà. Spesso quando tentava di confortarlo, otteneva in cambio solo uno sguardo superiore, tipico di chi è ancora convinto che un titolo possa valere più del denaro. Invano Simone lo aveva esortato a rassegnarsi e a cercare qualcosa che potesse integrare la sua magra paga di domestica.

Così, lavorava senza sosta, cercando di mettere da parte qualche soldo per poter sopravvivere in modo decoroso, mentre il consorte non esitava ad andare, come parassita o infiltrato, in una serie di banchetti, tenuti dalle famiglie facoltose della città.

Dopo alcuni mesi però, la gravidanza si fece evidente e non le era più possibile sostenere la mole di fatica di alcuni mesi prima. Per questo si era fatta coraggio ed aveva chiesto ai padroni di casa di non cacciarla, per via del suo stato interessante. La contessa, una donna fredda ed efficiente, si rivelò inaspettatamente ben disposta nei suoi confronti. Le diede il compito di occuparsi della biancheria personale della contessina, una ragazzina dall’aspetto angelico e dalla testa leggera e piena di sogni. Era poco più piccola di lei e sicuramente più immatura.

Simone si muoveva nelle sue stanze come una presenza silenziosa e discreta, senza fare alcun rumore. Nel periodo precedente al parto vedeva quella giovane passare il suo tempo all’interno delle mura domestiche e non poteva fare a meno di notare come fosse ritirata la vita che quella conduceva. Simone non parlò mai con la piccola aristocratica, poiché la sua condizione non glielo consentiva. La contessa Pollastrion inoltre le aveva vietato di rivolgere la parola alla figlia ed era costretta ad obbedire a causa del patto che aveva stabilito con la padrona. Era stato deciso che per la sua abilità nello svolgere il lavoro, Simone non sarebbe stata licenziata a causa della gravidanza ma avrebbe ottenuto un periodo di riposo per riprendersi dal parto; inoltre aveva ottenuto di poter seguire la figlia anche dal posto di lavoro. Si trattava di un’offerta vantaggiosa, che non costava alcuna fatica a Simone, anche se non aveva mai avuto modo di conoscere la contessina. A giudicare dai suoi modi, sembrava una creatura profondamente viziata ed egocentrica.

Le sue considerazioni però finivano lì, dal momento che non riteneva opportuno lamentarsi, o peggio ancora criticare, i propri datori di lavoro.

Poco prima di tornare a casa per passare il periodo che precedeva immediatamente il parto, passò davanti alla cameretta della padroncina con una cesta di abiti da portare in lavanderia e sentì la contessina singhiozzare all’interno. Si guardò attorno ma non vide nessuno nei paraggi, a parte lei.

Così prese la sua decisione ed entrò dentro.

La piccola Martin Gabriel era accovacciata sul letto in preda ai singhiozzi. Simon vide che teneva tra le mani una lettera.

La nobile non sembrò accorgersi di lei, così la domestica, facendosi coraggio, si avvicinò. Non era molto più piccola di lei, anche se l’aspetto diceva tutt’altro. Era comunque vero che il lavoro pesante aveva il difetto d’invecchiare precocemente gli individui e lei non faceva eccezione, benché non fosse sgradevole d’aspetto. Senza dire una parola rimase davanti a lei, immobile.

La contessina singhiozzava senza sosta, stringendo tra le mani quel foglio, come se fosse la sua ancora di salvezza.

La domestica la guardava muta, in attesa che si accorgesse di lei e fermamente decisa a non fare la prima mossa.

Improvvisamente il bambino dentro di lei scalciò con forza, facendola sussultare ed attirando l’attenzione della padroncina.

“Chi siete? Una nuova serva della casa? Non vi ho mai visto.”disse con voce atona.

Simone la guardò senza dire una parola ma l’altra non sembrò degnarla di uno sguardo.

“Sono stata una stupida. Ho commesso una grave imprudenza.”disse, ormai prossima ad uno sfogo senza fine.

La domestica fece per allontanarsi, non essendo disposta ad assecondare i desideri della giovane, ma proprio quando era nei pressi della porta, venne fermata dalla quest’ultima.

“Vi prego, non andate via. Mia madre mi sta punendo con il silenzio e la solitudine. Per favore, se non volete parlare, ascoltatemi vi supplico.”disse tra i singhiozzi.

Spinta da chissà quale forza, Simone si accomodò accanto a lei, stando ben attenta a non sporcare le lenzuola con i suoi abiti dimessi. Martin Gabriel iniziò allora a raccontarle dell’incidente, accaduto quattro settimane prima, e delle sue conseguenze. Aveva un aspetto terribilmente fragile, come se non dormisse da molti giorni e la sua aria smunta aveva reso malsano quel candore che prima la rendeva così gradevole.

Poi, senza pensarci, le fece vedere la lettera che le era stata recapitata a nome di un certo Paride, nella quale si dichiarava che quell’uomo era troppo ricco per la contessina e soprattutto un padre rispettabile. Simone lesse il contenuto ma ciò che la fece impallidire fu la calligrafia, terribilmente simile a quella del suo consorte.

Improvvisamente ripensò a ciò che era accaduto circa un mese prima, quando suo marito uscì improvvisamente di casa senza dirle nulla e soprattutto con vestiti che non aveva mai visto, belli e troppo eleganti per le sue tasche. In seguito a ciò, non si fece vedere per giorni, finché non tornò a casa ubriaco con un sacco pieno di monete d’oro, gridando di aver vinto la scommessa. Quando gli chiese spiegazioni per  tutto quel denaro, l’uomo le diede un violento schiaffo che la fece cadere a terra. Quella fu la prima volta che il suo sposo alzò le mani su di lei.

Quel ricordo le bruciava ancora e adesso leggere quelle parole cariche di menzogne scritte sulla carta la lasciarono senza parole.

“La colpa che ho commesso nei confronti della mia famiglia è troppo grave ma mia madre ha detto che posso cancellarla, ma devo aspettare di liberarmi di questo peso. Aspetto un figlio e non sono sposata! Se si venisse a sapere tutto fuori da questa casa, per me sarà la fine!”diceva fra i singhiozzi, in preda ad una vera e propria crisi isterica.

Simone le mise una mano sulla spalla e solo allora la contessina posò lo sguardo verso di lei. Martin Gabriel fissò la serva per poi fermarsi sul ventre gonfio.”Anche voi aspettate un figlio?”chiese con voce debole.

La donna del popolo annuì.

“Siete sposata?”domandò mentre la giovane rispose esitante con un cenno.

“Siete davvero fortunata, sapete? Avete un marito che si prende cura di voi e che proteggerà la vostra persona ed il figlio che nascerà. Io invece sono una donna disonorata e nessuno vorrà prendermi in sposa. Questo bambino mi porterà alla rovina!” fece ma prima che potesse dare inizio ad un nuovo pianto, la domestica le diede uno schiaffo abbastanza forte da essere sentito, ma non sufficiente da lasciare segni  sulla sua guancia. Non poteva continuare a sentire tutte quelle sciocchezze.

“Come vi siete permessa?” disse inviperita “Non fatelo più!”

Simone le rivolse uno sguardo severo, poi si alzò per andarsene. Raccolse con fatica la cesta di abiti sporchi e si avviò verso l’uscita.

“Aspettate!”fece debolmente la contessa, facendola girare.

Simone la vide un po’più calma e pacata.

“Scusatemi se vi ho recato disturbo, non accadrà più.”disse pentita “Vi ringrazio per aver ascoltato i miei capricci, anche se non vi era stato ordinato di farlo. Grazie di cuore:”

La domestica le sorrise dolcemente, prima di girarsi ed andarsene.

Il suo animo però era in preda alla collera.

Piombò in casa come una furia e con una pistola in mano.

Suo marito era adagiato, pericolosamente sulla sedia preda del sonno dovuto ai fumi dell’alcol e lei non poté fare a meno di provare disgusto per quella persona. Con il piede scostò una gamba della sedia e l’interessato si ritrovò improvvisamente a terra.

Si guardò attorno con aria spaesata, finché non fissò i suoi occhi scuri sulla sagoma della moglie.

“Che diavolo fai, donna!” gridò con voce strascicata.

“Marito, siete ubriaco. Dove avete preso i soldi per il vino?”chiese incolore.

L’interessato iniziò a ridere sfacciatamente.

“Quale scommessa vi ha fatto fruttare così tanti soldi da fornirvi quei vestiti elaborati? Parlate marito.”fece con un tono incredibilmente duro.

“Non sono affari tuoi. Non sei altro che una misera serva.”replicò sprezzante ma Simone non lo lasciò continuare e premette il grilletto. La pallottola lo sfiorò per un pelo, conficcandosi nella parete.

“Dannato bastardo, sarò pure una serva, ma se siamo riusciti a sopravvivere fino a questo momento, non è certo merito del tuo inutile titolo. Io non ti ho sposato perché sei un aristocratico, sappilo. Io ti ho amato, brutto idiota e tu che fai? Ti umili per quelli che tu chiami amici, facendo quelle stupide scommesse!”urlò furiosa.

Nel frattempo il marito si alzò in piedi, livido in volto.

“Sai una cosa, Simone? Sono stufo di vivere una vita di stenti e piena di miseria! Voglio tornare di nuovo nel mio mondo, a Versailles! Non è questa l’esistenza che avevo scelto per me, non la desidero!” disse astioso, riversando su di lei la frustrazione che da tempo stava accumulando. Sul volto della donna si dipinse una profonda delusione.

Stava quasi per cedere ai sentimenti che nutriva per quella persona, quando un calcetto proveniente dal suo ventre la costrinse a non perdere il controllo. Doveva essere forte, se voleva proteggere quella vita che portava in grembo. Non poteva quindi permettere che suo marito sperperasse i soldi guadagnati in passatempi inutili, lasciando tutti negli stenti.

“Ero solo un incidente di percorso, vero? Se vuoi andartene, la porta è di fronte a te, ma ricorda bene questo: stai per diventare padre e se non sei disposto ad assumerti queste responsabilità, non sei obbligato. Vattene pure se vuoi: non voglio che mio figlio abbia un padre così debole e attaccato a questi sogni impossibili. Ricorda però una cosa, marito: tutta questa ambizione non ti porterà a nulla di buono ma io non ti obbligherò. Se vuoi rovinarti non ti fermerò, ma non permetterò né a te, né a nessun altro, di portare nella disgrazia anche me ed i tuoi figli. Vai via subito.”disse con estrema durezza.

Lo osservò mentre la fissava con fare assorto nel più profondo silenzio.

Simone gli restituì lo sguardo senza dire niente e nello stesso tempo accarezzava con insistenza il ventre, come se volesse rassicurarlo.

Poi vide suo marito prendere quei vestiti sfarzosi ed andarsene senza voltarsi. La porta sbatté con violenza, rimbombando.

Da allora non si fece più vivo. Non poté assistere alla nascita di sua figlia Jeanne, né vide mai la bambina.

Alcuni giorni dopo infatti, il corpo di suo marito fu trovato nei pressi della città. Simone venne a sapere che era stato ucciso in un duello: uno dei parenti delle fanciulle da lui sedotte, aveva deciso di vendicare l’onore ferito della ragazza e aveva sfidato quel nobile. Il Valois quella volta non fu molto fortunato. Si presentò alticcio e con gli abiti sfarzosi ormai logori. Non ebbe scampo: la pallottola si piantò in mezzo al petto, uccidendolo sul colpo.

Alcuni testimoni sostennero che avesse cercato volontariamente la morte: nessuno infatti si presenterebbe ubriaco ad un duello. Non si seppe mai la verità, dal momento che l’unica persona che poteva parlare non c’era più.

Simone, dopo l’abbandono del consorte, si trovava intanto in un convento, dove aveva messo al mondo sua figlia, contando sull’assistenza delle suore. Aveva passato il primo mese sotto le loro cure e si era ripresa dalle fatiche del parto. Era nel cortile interno ad allattare la neonata quando vide passare davanti a sé la figura pallida della contessina.

Senza pensarci, le corse incontro.

“Contessina, che cosa ci fate qua?”chiese preoccupata.

Martin Gabriel si voltò e la vide con aria assente.

“Dunque sapete parlare.”fece apatica.

“Vostra madre non mi aveva permesso di conversare con voi, altrimenti mi avrebbe cacciato e sarebbe stato difficile per me prendermi cura di mia figlia”rispose con tono di scuse.

“Capisco” fece  “Ditemi: è stato doloroso il parto?”

“Un po’”sorrise con affetto “ma è sopportabile”.

La contessina stirò la bocca in una smorfia poi tornò nuovamente seria.

“Io non prenderò mai in braccio questo bambino” disse mesta.

“Perché dite questo?”chiese Simone.

Martin Gabriel iniziò a ridere in modo isterico.

“Mia madre ha dato ordine che il figlio che nascerà dal mio grembo verrà dato a questo convento. Non lo vedrò mai crescere.”rispose cupa.

“La cosa vi rattrista?”fece l’altra.

“Che importanza ha? Le mie emozioni hanno già portato abbastanza guai, è giusto che paghi. Questo bambino non ha bisogno di una madre come me.”rispose.

“Ma siete la sua mamma.”replicò Simone.

“Sì, quello che dite è vero”disse la giovane “ma una donna che mette al mondo un figlio, non è obbligata automaticamente ad amarlo ed io sono troppo occupata ad amare me stessa per donare affetto a qualcun altro.”

“E’triste ciò che dite” fece “benché non sia sbagliato”.

Martin Gabriel fissò la donna che aveva di fronte a sé senza poter fare a meno di notare la forza che il suo orgoglio ferito scuoteva quel corpo fragile. Non sapeva se quella giovane conoscesse l’identità del suo seduttore e lei non ebbe il coraggio di rivelarle la verità perché non desiderava porre fine all’unica cosa che ancora la sosteneva.

“Sapete a chi verrà dato il neonato?”domandò.

“No” fece scuotendo la testa.

“Vostra madre non vi ha voluto dire nulla a riguardo?”chiese ma ottenne solo il silenzio come risposta.

“Lei non mi rivolge più la parola da mesi ormai e non sono più sicura di desiderare davvero le sue attenzioni, sapete? Da quando sono qui non si è più fatta sentire, come se si fosse dimenticata di me. Un bel cambiamento, se si considera che un tempo ero al centro delle sue preoccupazioni, se si possono chiamare tali. Prima ero convinta che, essendo mia madre, fosse tenuta automaticamente a volermi bene,ma ora non ne sono più così sicura. Ascoltatemi, Simone.”disse fissando le iridi azzurre contro il cielo plumbeo.

La donna accarezzò dolcemente la testolina bruna della sua neonata.

“Vi ascolto.”fece sorridendole rassicurante.

“Ho deciso di parlare con mia madre e di chiederle se fosse disposta a dare il bambino che porto in grembo a voi.”annunciò con fare risoluto.

Simone spalancò gli occhi.

“Me? Ne siete certa, contessina?”domandò incredula.

“Sì, perché voi siete una madre affidabile ed è meglio che questo figlio cresca sotto le vostre cure, piuttosto che in questo convento. Può sembrarle strano ma preferisco che questa creatura cresca come la figlia legittima di una donna come voi, invece di lasciarla qui come la bastarda di una sciocca come me. Non desidero che la mia presenza influisca sul suo futuro.”spiegò con aria assorta.

“Non è strano, contessina” fece “è istinto materno. E’giusto che vi preoccupiate per questo bambino. Dite di non amarlo, ma ciò che mi avete riferito prova che in qualche modo vi preoccupate per lui perché volete agire per il suo bene” disse gentile la serva ma la contessina la fissava scettica.

“Non sono certa che quanto raccontate sia vero ma fingerò di crederci. Ditemi un’altra cosa.” Fece con un filo di apprensione.

Sembrava impacciata e la serva sorrise per incoraggiarla a proseguire.

“Credete che il mio corpo tornerà come prima, dopo il parto?”domandò, non senza esitazione.

Simone soffocò a stento una risata: di tutte le preoccupazioni che poteva avere, proprio quella doveva tormentarla? Non c’era dubbio, era ancora una bambina immatura.

“Sicuramente, contessina. Non perderete affatto al vostra bellezza.”rispose “Ora scusatemi, ma devo andare dalla madre superiora. Buona fortuna padroncina”

“Buona fortuna anche a voi.”la salutò.

 

Alcuni giorni dopo, fece ritorno dalla Contessa Pollastrion, riprendendo le sue mansioni. Jeanne era una bambina tranquilla e non la intralciava in nessun momento quando svolgeva il suo lavoro. Per comodità, aveva assicurato la neonata sulle spalle, dopo averne avvolto il corpo in fasce così strette da farla sembrare un salame. In questo modo erano sempre insieme.

I suoi colleghi, nei momenti di pausa non mancavano di vezzeggiarla e di farle mille moine.

Era comprensibile: Jeanne era una bambina dolcissima.

Passò i mesi successivi in quel modo, lavorando con la figlia attaccata alla schiena come un’appendice del corpo.

Un giorno, mentre era intenta a disporre delle pietanze su un vassoio, venne a farle visita una cameriera vestita con una divisa molto curata. L’eleganza che la ragazzina sfoggiava non lasciavano su dubbi su chi fosse: era un membro della servitù del piano nobile.

“La padrona desidera che la signora Lamorliere si presenti nel suo studio personale il prima possibile. Ha detto anche di sbrigarsi.” Riferì, arricciando il nasino con fare schifato. Era evidente che non amasse molto scendere ai piani bassi, così come tutta la servitù che lavorava a stretto contatto con i padroni. Senza protestare, Simone  si recò in quella stanza.

Era un ambiente molto signorile, arredato all’ultima moda e curato in ogni dettaglio. La contessa si stava rimirando allo specchio, controllando con attenzione tutti i difetti fisici e i segni del tempo. Accarezzava quasi  con malinconica venerazione la sua pelle che, malgrado fosse liscia, non possedeva più quella freschezza giovanile. Indossava un abito color pastello con una stoffa decorata con una piccola trama floreale. Aveva un fisico flessuoso anche se le continue e passate gravidanze avevano compromesso il suo aspetto longilineo.

La domestica rimase in silenzio, aspettando pazientemente che iniziasse a parlare. Il pensiero però che la piccola si trovava in cucina lontana da lei intralciava tuttavia la tranquillità di cui faceva sfoggio.

“Benvenuta Simone, accomodatevi pure su quello sgabello. Dobbiamo parlare.”disse con una voce priva di qualunque inflessione.

Simone fece come le era stato ordinato.

“Vorrei innanzitutto congratularmi per la vostra gravidanza e farvi le mie più sentite condoglianze per la morte di vostro marito.”iniziò con fare quasi amichevole. L’altra si limitò ad annuire con un cenno della testa in modo meccanico.

“Immagino che la vostra attuale condizione di vedova e contemporaneamente di madre sia molto difficile per voi e malgrado questo vi svolgete il vostro lavoro in modo impeccabile e vi occupate pure di vostra figlia. Come padrona, non posso che essere soddisfatta del vostro operato.”fece con aria distratta, tirando fuori da un cassetto una lettera.

La domestica la vide aprire la busta e tirare fuori una lettera. “Avrei comunque delle domande da farvi.”fece indurendo lo sguardo.

“Ho commesso qualche fallo nei vostri confronti?”domandò.

La dama, che nel frattempo stava fissando il foglio, sentendo quelle parole scoppiò in una profonda risata priva di allegria.

“Dubito che siate così sciocca anche solo da pensare ad una cosa simile. Voi almeno non avete commesso errori” disse guardandola fisso “per quanto ne sappia, o forse dovete dirmi qualcosa?”

In quel momento, Simone comprese che non avrebbe avuto scampo.

“So tutto, Simone. Di voi e di vostro marito.” Continuò con occhi rapaci “Cosa intendete dire a vostra discolpa?”

La domestica si limitò a fissarla impassibile, ben decisa a non abbassare lo sguardo. Se pensava di incolpare lei per i guai che il marito fedigrafo e la figlia sciocca avevano causato, si sbagliava di grosso. Era ben consapevole di trovarsi coinvolta in uno scontro impari: la contessa era infatti ben decisa a far cadere la colpa su qualcuno. Sua figlia era intoccabile: benché disonorata, era ancora utile alle strategie familiari.  Il consorte invece era ormai morto e quindi non poteva rifarsi con lui.

L’unica su cui poteva scaricare la sua frustrazione era solo lei, la moglie tradita.

Simone lo sapeva bene, così come era convinta che il suo impiego era ormai prossimo al termine: grazie alla cecità di colui che aveva scelto come compagno, presto lei e la piccola Jeanne sarebbero finite sulla strada.

“E’colpa vostra, che non siete riuscita a tenervi stretto vostro marito, se mia figlia Martin Gabriel  è compromessa. E’colpa vostra se la mia famiglia rischia lo scandalo. E’colpa vostra se sono la nonna di una schifosa bastarda. E’tutta colpa vostra se le nostre ambizioni sono andate perdute, Voi, lurida pezzente, siete la responsabile di questa sciagura!”disse quasi isterica con occhi folli.

La domestica comprese di non poter più stare in quella casa, tuttavia non avrebbe accettato che quella serpe le affibbiasse tutte le responsabiltà che le stava propinando.

Perciò non abbassò lo sguardo, decisa a difendere la sua dignità: sua figlia Jeanne non avrebbe mai dovuto vergognarsi di lei.

“Di tutto ciò che mi avete detto, contessa, solo di una cosa sono davvero responsabile: ho sposato un uomo immeritevole, che ho amato troppo e che disgraziatamente amo ancora. Non sono però responsabile delle altre accuse che mi avete rivolto.” Fece risoluta.

“Come vi permettete di mancarmi di rispetto? Potrei buttare subito te e tua figlia in mezzo alla strada.” Disse rabbiosa l’altra che non si scompose.

“Lo fareste comunque perché non siete mai stata una donna compassionevole. Per questo motivo non sono disposta a farmi carico delle vostre mancanze: vostra figlia si è comportata in modo sicuramente irresponsabile ma anche voi avete sbagliato nell’educarla come una marionetta viziata. Se temete che possa diffondere pettegolezzi sul suo conto non dovete temere: non lo farò. Non voglio che la mia Jeanne un giorno mi disprezzi accusandomi di essere una vigliacca.” Sputò gelida.

La contessa la fissò furente, poi improvvisamente tornò ad essere pacata.

“E’proprio vero. Siete una persona corretta e discreta, come dicono. Devo congratularmi con lei.” Disse sorridendo.

La sua espressione però non aveva perso la rabbia che covava ormai da un paio di mesi.

“Questo non toglie però che vi debba cacciare”disse severa.

“Lo so” rispose seria la serva.

“Lascerete questa casa tra due giorni, in modo da poter preparare i vostri bagagli. Consideratelo un mio regalo per la serietà con cui avete svolto il vostro lavoro in questa casa.” Ordinò.

L’altra fece per alzarsi, ma la dama la bloccò.

“Un momento, non ho finito con te.” Disse abbandonando la cortesia.

“Che altro volete da me?” chiese scocciata  Simone. Era stata umiliata, oltraggiata e accusata di cose che non aveva commesso, eppure sembrava non soddisfatta. Che persona irritante aveva servito.

“Voglio che vi occupiate della bastarda. Anche mia figlia è d’accordo. Prendetela e fateci ciò che volete. Lei non è più una nostra responsabilità” disse freddamente.

Simone ingoiò a forza gli insulti che stavano facendo capolino dalla sua gola. Non le conveniva risponderle perché Jeanne e la bambina che le sarebbe stata affidata avrebbero risentito della sua imprudenza.

Fece un sorriso di circostanza, si inchinò ed uscì.

Sei mesi dopo si presentò alla sua misera casa una serva dei De Pollastrion che le consegnò un piccolo fagotto.

Simone, ripensando a quanto le era capitato in quei mesi, non seppe  cosa dire.

Quante cose le erano capitate.

Si era innamorata.

Aveva sposato l’uomo che amava.

Aveva avuto una figlia.

Era diventata vedova.

Era stata licenziata.

Aveva dovuto accettare la figliastra, nata da una scommessa del defunto consorte.

Si grattò nervosamente la testa, mentre la neonata tentava di muoversi, stretta nelle fasce e la figlia Jeanne tentava di fuggire dalla sua mano. Simone rinforzò la presa per tenerla vicina. Sarebbe stata dura per lei. Sicuramente.

Ma non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa. Sarebbero sopravissute comunque.

“Ce la faremo, bambine” sussurrò calma “Ce la caveremo, nonostante tutto.”

 

Bene, questa è la one-shot riservata alla madre adottiva di Rosalie. Consideratelo una sorta di prequel. Onestamente non mi dispiace come risultato: poteva andare meglio certo, come poteva andare peggio. Vorrei ringraziarvi  per aver seguito la mia storia. Alla fine della raccolta mancano circa 2-3 capitoli. Non aggiungo altro perché vado di fretta.

Grazie per avermi seguito fino ad ora.

Cicina

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Capitolo 13
*** Maschera [Martin Gabriel/contessa di Polignac] ***


 Salve a tutti, cari lettori, sono cicina. Mi dispiace molto non aver aggiornato questa raccolta, ma la mancanza di tempo e d’ispirazione non mi ha permesso di aggiornare questo mio lavoro, che sono più che intenzionata a portare a termine.
Allora vorrei ringraziare tutti coloro che hanno apprezzato la mia storia. Se avete letto le recensioni, noterete che sto approfittando del nuovo servizio di efp per rispondere ai commenti. Mi sembra doveroso da parte mia, ringraziare tutti coloro che lasciano qualche recensione e hanno speso parte del loro tempo nel leggere i miei lavori. Sono una dilettante e sapere che i miei sforzi sono apprezzati non può che rendermi felice.
Ora che ho detto tutte le parole di rito, passiamo al prossimo capitolo.
Buona lettura!
 
MASCHERA [Contessa di Polignac/Martin Gabriel]
 
Il salottino privato della residenza dei Polignac era addobbato all’ultima moda, con le migliori creazioni artigianali di lusso del momento. Yolande teneva tra le mani il cerchio di betulla che usava solitamente per stendere il tessuto da ricamare. Il ricamo era infatti uno dei suoi passatempi preferiti, ai quali si dedicava quando aveva del tempo libero. Con una serie di movimenti dettati dall’esperienza faceva passare l’ago attraverso la stoffa candida, tesa come la corda di un violino. Il disegno si faceva lentamente largo sulla superfice, con una grande ricchezza di dettagli e colori.
Da quando si era resa conto che la permanenza a Versailles non era più fonte di guadagno per la sua situazione, aveva chiesto alla regina, con un’accorta recita, il permesso di lasciare la reggia per ritirarsi in campagna. Lontana dalla corte, aveva iniziato a radunare le sue forze, con il chiaro intento di  organizzare la futura ricchezza del proprio casato. Lo scopo era di tornare nuovamente a corte, dopo aver consolidato la sua posizione.
Immersa nel verde, aveva avuto modo di riflettere sulla sua vita e sui vantaggi che le sue scelte spesso e volentieri le avevano portato. Ovviamente non si pentiva delle sue decisioni, qualunque esse fossero: l’indipendenza che il conte le aveva concesso non le permetteva di lasciarsi andare ai rimpianti, se mai ne fosse stata capace.
Aveva rapidamente abbandonato il lutto e suo marito, una volta terminati i riti previsti, era partito di nuovo per i suoi viaggi. Yolande non aveva preso poi tanto male la freddezza del consorte: conoscendo il suo carattere, era già tanto che avesse interrotto i suoi svaghi per partecipare alle esequie della figlia.
Per quanto la riguardava, la morte della piccola Charlotte era stato un dolore più manifesto che realmente provato. Non detestava quella bambina ma non riusciva a perdonarle la mancanza di gratitudine di cui aveva dato prova quella sera, quando si era lanciata nel vuoto: perché compiere quel gesto così irragionevole, quando aveva davanti a sé un futuro così sfavillante, lontano dalla miseria e dall’indifferenza di chi la circondava, con la possibilità di avere, senza nessuna incertezza, il proprio posto al sole?
Con il suo capriccio, aveva rischiato di mandare a monte tutti i suoi progetti. Come aveva potuto darle una simile delusione?
Yolande chiuse gli occhi e sospirò profondamente. Era proprio vero quello che aveva letto da qualche parte: per quanti sforzi si possano fare, non è possibile conoscere del tutto chi ti sta accanto. E’uno sforzo inutile e controproducente, perché porta a creare troppi vincoli e aspettative che mai potranno essere soddisfatte appieno. A stento infatti è possibile conoscere a sufficienza sé stessi.
Era stato un duro colpo per lei perdere quella ragazzina petulante. Il secondo brutto momento della sua vita, dopo il ballo che aveva messo a repentaglio il suo futuro sociale. In entrambi i casi aveva visto demolite tutte le sue certezze.
Nel primo aveva perso completamente ogni traccia delle illusioni coltivate con grande impegno durante l’infanzia. Era stato il suo primo vero passo nel corrotto mondo degli adulti. Aveva compreso che i soli sentimenti non potevano essere l’unica garanzia per vivere serenamente. Aveva imparato che, dove non c’erano possibilità di scegliere, occorrevano vincoli più concreti di una banale percezione astratta. Fu una lezione molto difficile da imparare e se adesso conduceva quello stile di vita decoroso, il merito era di sua madre, che aveva rimediato ai suoi errori giovanili.
La contessa De Pollastrion era stata un importante esempio per la sua formazione, fornendole una prova materiale di quanto fossero inconsistenti i vincoli affettivi senza una solida sicurezza economica e i riconoscimenti sociali. Seguendo le sue orme aveva educato i suoi figli.
Nel secondo aveva visto fallire il suo progetto più ambizioso: dare alla figlia più bella un vero titolo nobiliare, che non fosse sostenuto solo dall’appoggio dei regnanti e dal nome che portava. Aveva impiegato ogni sua risorsa e modellato il suo orgoglio con lo scopo di dare alla piccola contessina un partito rispettabile e, soprattutto, facoltoso. Il suo progetto non era andato in porto a causa della debolezza psicologica della figlia. Yolande sentì di aver fallito nel suo progetto, perché non era riuscita ad allontanare da quella bambina capricciosa le nebbie nefaste delle illusioni infantili. Aveva esitato, non riuscendo ad andare fino in fondo nel suo desiderio di seguire le orme materne. Si era fatta intenerire dai capricci di quella bambola viziata e aveva preferito mantenere la maschera di madre amorevole nei suoi confronti per non perdere quanto aveva costruito per lei; così facendo però, non era riuscita a correggere l’ingenuità di Charlotte, che non aveva compreso e accettato, come ogni brava figlia, i suoi sacrifici.
Charlotte era stata un fallimento per tutti i suoi disegni di grandezza, su questo non vi era alcun dubbio ma,come sempre, la fortuna non l’aveva ancora abbandonata.
Un sorriso si increspò sulla sua mente e senza rendersene conto fissò la figura che da alcuni giorni abitava nel suo palazzo.
Era la ragazzina che fino a qualche tempo prima abitava nella residenza di madamigella Oscar.
Lei, la figlia di uno sbaglio, che era stata data ad una serva per nascondere la sua colpa. Era stata una fortuna che avesse deciso di venire a Versailles per cercare la sua vera madre, ed ora l’aveva trovata.
Indossava in quel momento un abito di pregiata fattura celeste, con una finissima fantasia floreale. Era stata lei stessa ad imporle questo tipo di abbigliamento.
I capelli, dorati come i suoi, erano acconciati in modo elegante, come le aveva espressamente ordinato.
Quella Rosalie si era piegata ai suoi voleri e non poteva essere diversamente. Non era forse vero che la contessa di Polignac otteneva sempre ciò che desiderava? Nel caso della figliastra poi, gli argomenti persuasivi non mancavano. La scoperta dell’affetto, ai suoi occhi incomprensibile, per madamigella Oscar era stata un’arma più che sufficiente per convincerla. Era bastato dirle che avrebbe rivelato alla sovrana che la sua cara donna soldato ospitava una stracciona del popolo, che aveva attentato alla sua vita per giunta, per farla capitolare. Doveva ammettere che era stato un colpo basso il suo, una mancanza di stile, ma la necessità di non perdere quanto aveva conquistato l’aveva costretta a ricorrere ai ricatti meno raffinati.
La cosa ormai non aveva importanza, perché quella mocciosa aveva ceduto.
Ora aveva una nuova pedina da giocare.
Alzò la testa, per permettersi di valutare la figlia ritrovata. Le somigliava indubbiamente e la permanenza nella casa del Generale aveva raffinato sicuramente quel lato grezzo, tipico dell’ambiente in cui era stata allevata. Da quando era stata portata a palazzo, aveva osservato i suoi movimenti, notando l’innata grazia che traspariva in ogni suo gesto.
Yolande sorrise.
Per una volta poteva permettersi di ringraziare madamigella Oscar che, educando quella trovatella, le aveva certamente alleggerito il lavoro. Con un po’di perseveranza avrebbe stroncato in quella ragazza ogni scintilla di ribellione, preparandola a ricoprire il ruolo di moglie di un nobile facoltoso.
Roland de Guise, venuto a conoscenza che lei aveva un’altra figlia si era dichiarato ben disposto a sposarla, anche se riteneva la piccola Rosalie troppo grande per i suoi gusti. Yolande aveva però allontanato da quell’uomo corrotto ogni perplessità, dichiarando che Rosalie proprio in virtù della sua maggiore età, non avrebbe avuto problemi ad accogliere nel proprio grembo il futuro erede del casato e che, una volta assolto tale compito, egli avrebbe potuto tranquillamente pensare ai suoi piaceri, senza timori per la successione alla sua dinastia.
Con questa abile mossa, era riuscita a mantenere legato a sé quel partito così influente.
Presto, molto presto, quella Rosalie avrebbe lasciato la sua casa.
Tale pensiero la tranquillizzava più del lecito.
Aveva ritrovato la figlia che aveva ripudiato e non vedeva l’ora di liberarsene, traendo da lei il massimo vantaggio. Sembrava un paradosso, eppure era la verità.
Per una volta doveva essere sincera: quella ragazza non le piaceva e non perché era stata cresciuta dalla moglie dell’uomo che aveva rischiato di rovinarla o perché aveva tentato di ucciderla in più di un’occasione.
No, era qualcosa di più istintivo e primordiale, che non riusciva a capire.
Di solito era in grado di mantenere una fredda cordialità ed un comportamento quanto mai socialmente accettabile. Le bastava poco per pugnalare alle spalle chi non le andava a genio, senza timore di alcun sospetto su di lei. Era sempre stato così, eppure, mentre osservava il prodotto del suo errore, non poteva fare a meno di provare fastidio e disorientamento.
Rosalie era molto diversa dai suoi figli.
Aveva gusti troppo semplici.
Aveva troppi ideali.
Era troppo intelligente.
Era troppo onesta.
Era troppo determinata.
In poche parole era troppo diversa da lei, come era possibile?
Non era in fondo la creatura che aveva messo al mondo in quel convento parigino, al riparo dai pettegolezzi? Non scorreva forse nelle sue vene il suo stesso sangue?
Yolande, dopo averla condotta nella propria dimora, aveva creduto che la parentela di sangue fosse una prova più che sufficiente della sua vittoria sullo spirito di quella Rosalie. Aveva naturalmente rafforzato tale convinzione con le armi del ricatto, con la stessa perseveranza di un gesuita. Mai le aveva detto esplicitamente di obbedire ai suoi voleri perché considerava un simile atteggiamento una mancanza di stile. L’eleganza era tutto, sia per le cose visibili, sia soprattutto per quelle sotterranee che regolavano il mondo in cui viveva. Non si aspettava da lei alcuna opposizione: era naturale che ella dovesse obbedire alla madre.
La reazione della figlia però l’aveva in qualche modo disturbata.
Rosalie si era piegata passivamente ai suoi desideri, con la stessa rassegnazione di un’ oca davanti al coltello del macellaio. Non aveva mai opposto resistenza, forse perché era meno libera dei figli che aveva generato nel sacro vincolo del matrimonio.
Mai aveva protestato di fronte alle sue decisioni. Persino quando le aveva detto che avrebbe sposato il pretendente di Charlotte, non aveva dato segno di alcuna reazione.
Non sapeva dirsi perché, eppure la contessa non amava tutta quella obbedienza da parte di chi era suo malgrado parente. Le toglieva in qualche modo il piacere di poter imporre la propria autorità e, naturalmente, il gusto della sconfitta della giovane che, dopo tanta lotta, era costretta a capitolare.
La contessa corrugò la fronte: era ormai ad un passo dalla realizzazione delle sue ambizioni, perché provava quella insoddisfazione? Perché non era felice dell’esito dei suoi progetti? Aveva una famiglia ricca e potente, un marito rispettabile e dei figli abilmente collocati nell’aristocrazia che contava. Con la figliastra avrebbe completato poi i suoi piani.
Incurante dei moti che agitavano il suo animo, Rosalie ricamava il tessuto che le era stato dato.
Sembrava il ritratto della tranquillità, eppure vi era qualcosa di strano. Il volto di quella ragazzina era inespressivo, come quello della piccola Charlotte poco prima di morire. Un brivido le attraversò la schiena ma con uno sforzo di volontà, Yolande lo scacciò da sé.
Non c’era pericolo. Dopo l’incidente di Charlotte (perché era un incidente e si rifiutava di pensare il contrario!) aveva ordinato espressamente di sigillare ogni finestra ed accesso ai luoghi sopraelevati della sua dimora. Non avrebbe permesso a quella bastarda di morire, mandando a monte i suoi piani: se voleva porre fine alla sua vita, lo avrebbe fatto con la fede al dito del casato dei De Guise, una volta concluse le nozze.
Non avrebbe mai versato una lacrima per quella. No, lei aveva messo al mondo quella creatura ma non provava niente nei suoi confronti. Se l’aveva accolta nella sua casa era solo per soddisfare le sue ambizioni.
Eppure, quando posava lo sguardo su quei tratti angelici, era preda di una spiacevole sensazione. Rosalie aveva i suoi stessi occhi, i suoi stessi capelli. Sembrava quasi la sua copia. Era uguale ma allo stesso tempo diversa e Yolande non poteva accettare quella verità così scomoda: non poteva credere che la sua figlia naturale potesse crearle qualche difficoltà. Anzi, doveva essere il contrario: in fondo, proprio perché illegittima, doveva essere più obbediente.
E Rosalie lo era, eccome se lo era.
Cosa la disturbava allora?
La somiglianza esteriore con Charlotte? No, non era quello il punto. C’era sicuramente qualcos’altro che non la soddisfaceva. Forse era l’odiosa onestà che Rosalie non mancava di manifestare senza venire meno all’etichetta. Una non mancanza di scrupoli che lei, la contessa di Polignac non aveva mai avuto.
Si morse il labbro, irritata.
Quella maledetta serva aveva fatto proprio un buon lavoro. Le doveva molto eppure non era riuscita a perdonargli il fatto che fosse la moglie di Paride. Era venuta a conoscenza del passato della signora Lammorliere da sua madre e difficilmente era riuscita a rassegnarsi al fatto che quell’uomo apparteneva ad un’altra.
Si era convinta di aver provato solo un po’di debolezza verso quel nobile privo di mezzi.
Di aver ceduto per via della sua ingenuità, ma era troppo orgogliosa per ammettere, pure adesso, di aver provato qualcosa per quel miserabile.
Di aver sentito, durante quel maledetto ballo, qualcosa che non avrebbe mai più sperimentato durante la sua vita di donna sposata.  A questo tumulto, si aggiungeva poi il rimorso e la vergogna per quella stessa emozione, che voleva scacciare con ogni mezzo.
No, quella Rosalie doveva andarsene in tutti i modi. Nella maniera consona ai propri desideri, ovviamente.
“Rosalie” fece, attirando la sua attenzione “per oggi può bastare. Fra qualche ora, inizierà la funzione nella chiesa vicina ed è mio desiderio che tu venga con me.”
La ragazza depose la stoffa che stava ricamando e la fissò senza dire nulla.
“Sì, contessa.”disse poi laconica.
Yolande aggrottò la fronte, irritata, ma il suo orgoglio le impose di non reagire in modo inconsulto.
Stava obbedendo, in fondo ed era ciò che contava.
“Siete rimasta sufficientemente in questa casa e ritengo opportuno che la gente vi veda al mio fianco. Diremo che siete una mia ….figlia appena uscita dal convento e che non siete stata presentata a corte a causa della vostra salute cagionevole...”continuò ma l’altra alzò la testa con un’energia che non aveva mai mostrato da quando era venuta in quella casa.
“No”disse improvvisamente, interrompendo i progetti della dama.
Stupita di essere contraddetta così apertamente, Yolande la osservò.
Una luce gelida attraversava lo sguardo della primogenita, la stessa che aveva mostrato quando aveva attentato per la prima volta alla sua vita. Istintivamente guardò se intorno alla ragazzina vi erano oggetti che poteva usare come arma contro di lei. Pur essendo consapevole di averla in pugno, la contessa non riusciva comunque ad essere del tutto tranquilla ed il sospetto non sembrava volerla abbandonare in nessun momento.
“Cosa avete detto, Rosalie?”disse aggrottando la fronte, fingendo di non aver sentito bene.
Di solito quel suo gesto, unito ad una voce che da soave, diventava di colpo glaciale, aveva l’effetto di annichilire ogni scintilla di ribellione nei suoi figli.
Quella bastarda però non sembrava affatto intimorita dal suo tono.
“Ho detto di no.”ripeté lapidaria.
Non c’era traccia di timore nel suo sguardo, privo di qualunque emozione.
Quell’atteggiamento la disturbò non poco, al punto da costringerla, senza rendersene conto, a lasciare la sua messa in scena. Il rumore di uno schiaffo violento attraverso l’aria, come un colpo di frusta.
Rosalie cadde a terra, come un corpo morto.
“Non osare mai più contraddirmi, piccola bastarda!”disse fremendo di rabbia.
“Dovreste essermi solo grata per avervi accolto nella mia dimora e per essermi dimostrata disponibile a riconoscervi, dandovi per giunta un partito rispettabile! E’così che mi ringraziate?”fece rabbiosamente.
Rosalie si limitò a fissarla, mentre con la mano si toglieva dalla bocca il sangue che le colava dal labbro: a causa della colpo e della caduta a terra, si era infatti tagliato leggermente. Quella vista suscitò un profondo disgusto nella donna che fissò con raccapriccio la mano che per il colpo si era macchiata del sangue di quella ragazzina: come aveva potuto quella pezzente macchiare la candida mano di un’aristocratica?
L’altra intanto si alzò lentamente.
“Potete picchiarmi e ricattarmi quanto volete ma c’è una sola persona che considero mia madre: colei che mi ha cresciuto e amato. Non vi devo niente, contessa e posso dirvi che non siete costretta a fingere con me.”rispose decisa.
“Cosa state insinuando?”fece l’altra.
Rosalie sorrise sarcastica.
“Non vedo niente di positivo in ciò che mi offrite. Mi state offrendo la menzogna e la corruzione e per salvare i vostri piani mi avete venduto ad uno sporco pedofilo, ricco a sufficienza da saziare la vostra sete di denaro. Non sono altro che una merce di scambio per le vostre ambizioni. La donna che mi ha allevato e che ho amato sopra ogni cosa è la sola che abbia il diritto di essere chiamata madre da me. Dato che non vi interessano i sentimenti altrui, non vedo per quale motivo debba fingere di volervi bene. Se vi obbedisco è solo per proteggere madamigella Oscar, non certo per voi: io non vi temo.” Disse freddamente.
Yolande tremò, vedendo quel gelo, ma mascherò un simile turbamento dietro un sorriso stentato.
“Come vuoi, Rosalie. Puoi pure evitare di chiamarmi madre ma voglio la tua totale sottomissione ed obbedienza ai miei voleri, perché sai che cosa accadrà in caso contrario, vero?” concesse con un’espressione di trionfo dipinta in viso.
La ragazzina chiuse gli occhi e chinò la testa, accrescendo l’ego nella contessa.
“Benissimo, allora” fece tornando all’espressione pacata di pochi minuti prima “puoi andare a prepararti”.
La giovane si allontanò, senza degnarla di uno sguardo.
Yolande la osservò allontanarsi, non potendo fare a meno di provare fastidio.
Presto si sarebbe liberata di lei.
Presto ogni singola macchia del suo passato sarebbe stata cancellata da uno spesso strato d’ipocrisia.
Presto avrebbe potuto indossare nuovamente la maschera che da anni portava come una seconda pelle e che con il tempo si era fusa con il suo vero volto. Quella piccola pezzente aveva rischiato pochi istanti prima di mandarla in frantumi ma la dama sapeva che non bastavano le chiacchiere per metterla in crisi. Con uno sbuffo, si osservò allo specchio. La sua maschera era ancora lì, la sentiva bene.
Forse vi era qualche leggera incrinatura ma bastava un po’di trucco e finzione per nasconderla.
Se non si vede, in fondo non esiste.
Yolande aveva sacrificato tutto per la sua ambizione, costruendo una maschera di avidità che aveva finito con il divorare il suo vero volto. Le sue soddisfazioni erano superficiali, ma lei non andava mai oltre quel guscio splendente che portava sempre con sé.
Sapeva che una volta infranta tale barriera, non sarebbe rimasto niente di lei. Perché tutto attorno era apparenza, come la sua anima e la sua vita. Quando la maschera avrebbe ceduto, ma sarebbe stata lei a deciderlo, non avrebbe avuto nient’altro che il nulla.
 
Cari lettori, chiedo scusa se vi ho fatto attendere ma vi confesso che questo non è stato un capitolo facile da realizzare. Non è semplice descrivere la contessa alle prese con la piccola Rosalie. Nelle mie intenzioni, questa è la parte conclusiva dedicata al personaggio della contessa di Polignac e come vedete non mancano i riferimenti ai capitoli precedenti. Quanto a Rosalie, può sembrare un po’ooc ma non ho mai pensato che il suo fosse un personaggio debole e spero lo abbiate apprezzato. Ho lavorato molto di fantasia, immaginando che la contessa stesse tentando di inserirla nella società aristocratica come sua figlia.
Non ho raccontato niente di ciò che precede la partenza di Rosalie dalla villa dei Polignac, preferendo lasciare la cosa in sospeso. Tutto è visto attraverso lo sguardo della contessa e spero che vi sia piaciuto.
Nel prossimo capitolo, saluterò il secondo personaggio della trilogia della serie, poi ci sarà la sorpresa!
Grazie ancora a tutti.
 
cicina

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Capitolo 14
*** Buio [Maria Antonietta] ***


 Carissimi lettori, benvenuti al nuovo capitolo della raccolta “Maternalia”. Se siete giunti a leggere anche questo capitolo allora significa che non sono poi una scrittrica così penosa. Nel precedente capitolo ho salutato la contessa di Polignac, uno dei personaggi meglio riusciti di tutta la raccolta. Adesso invece saluterò un’altra grande protagonista di Maternalia, che rispetto alla contessa non è stato altrettanto facile da realizzare.
Prima di iniziare a leggere vorrei anticipare i lettori che mi ispirerò liberamente alla vicenda biografica e quindi potrebbero esserci dei particolari non fedeli al personaggio storico. Mi dispiace se la cosa non sarà proprio di vostro gradimento ma spero che apprezzerete lo stesso il mio impegno.
Fatte queste importantissime premesse, vi lascio a questa shot, con la speranza di non annoiarvi troppo.
 
Buio [Maria Antonietta]
 
Non sapeva in quale luogo fosse finita. Aveva freddo e sentiva l’umidità circostante penetrarle nelle ossa, come la ruggine attraverso il ferro. Si guardò attorno, in cerca di punti di riferimento, ma senza risultato. Una nebbia densa e caliginosa la circondava, impedendole di distinguere  alcunché.
Maria Antonietta si guardò attorno spaesata ed inquieta.
Non sapeva dirsi per quale motivo, ma si sentiva a disagio.
“Louis Charles! Marie Therese!” gridò nella nebbia ma da quelle nuvole dense e cupe non riusciva a distinguere niente. Fece qualche passo davanti a sé, non sapendo cosa fare.
“Luigi! Dove siete, bambini?”chiamò ancora, senza ottenere risposta.
Improvvisamente iniziò a sentire nell’aria l’eco fievole di alcune voci infantili, che man mano che il tempo passava diventavano sempre più forti. La donna spalancò gli occhi alla disperata ricerca di indizi che le rivelassero in quale luogo si trovava ma quel velo opaco le si stagliava davanti senza darle scampo. Suo marito non c’era e non sapeva spiegarsi perché.
Chiamò altre volte ma quei suoni che sentiva nell’aria erano sordi alle sue richieste. Improvvisamente vide delle sagome in lontananza. Due piccole ombre sembravano fissarla, senza che lei potesse distinguerle.
“Louis Charles! Marie Therese! Siete voi?” chiese.
Lo ombre però iniziarono ad allontanarsi.
Maria Antonietta li osservò per qualche istante, basita. Poi però, vedendo quelle figure sempre farsi sempre più piccole, scattò qualcosa in lei che non seppe definire:una sensazione di perdita, come se le stessero strappando il cuore per gettarlo via. Incurante della gonna che le arrivava fino ai piedi, iniziò a correre, cercando di raggiungerle. Correva, correva ma le ombre si facevano sempre più minuscole.
Sentiva le scarpette battere ritmicamente al suolo, un rumore che sembrava quasi coprire le voci dei bambini che non smettevano di ridere e chiamarla.
“Louis Charles! Marie Therese!” gridava disperata, senza guardare l’ambiente intorno a sé.
I suoi sforzi in un primo momento parvero ricompersarla.
Per un istante le sembrò di riuscire a raggiungerli, arrivando quasi sul punto di toccarli; il terreno però scomparve sotto di lei, facendola precipitare nel vuoto.
 
 
Maria Antonietta si alzò di scatto dal letto, con gli occhi spalancati. Aveva la camicia da notte completamente bagnata ed il suo corpo era attraversato da brividi di gelo. Il respiro le sconquassava affannoso il petto, come se avesse corso per diverso tempo lungo una strada. Si passò una mano sulla fronte, un gesto che voleva scacciare dalla mente l’incubo che aveva appena avuto. La luce della luna e dei lampioni che stavano vicini alla camera, gettavano lunghe ombre nell’interno di quella che da qualche tempo era la camera da letto.
Per un attimo guardò la sagoma accanto a sé.
Il respiro pacato e lento si ripeteva regolare.
La donna fece un lungo sospiro.
Luigi stava dormendo sereno accanto a lei, senza essersi accorto del suo scatto improvviso. Maria Antonietta lo osservò distrattamente, non preoccupandosi delle ciocche bionde che sfuggivano dalla sua cuffia da notte. Suo marito nel frattempo riposava tranquillamente, come se niente fosse.
Non si sarebbe svegliato, questo era evidente.
Senza far rumore, la donna si alzò dal materasso ed indossò una vestaglia per coprire la sua camicia da notte. Guardò per un momento la finestra, fissando il paesaggio che si stagliava fuori. I muri delle case di Parigi erano ciò che le veniva offerto da quell’apertura, mentre nell’aria risuonavano schiamazzi e canzonacce a lei rivolte. Sentendo quegli insulti, l’Asburgo corrugò la fronte: sua madre non avrebbe mai tollerato che sua figlia venisse trattata in quel modo. Nemmeno lei, in fondo, avrebbe lasciato impuniti simili affronti, un tempo.
Ora però la situazione era molto diversa.
Si trovava in un palazzo, costruito ai tempi del padre del re Sole e, ai suoi occhi, inadatto ad accogliere la famiglia reale. Aveva arredi troppo antiquati e privi di eleganza con uno stile ricco e pesante. Molte delle sale poi erano in rovina ed in pessime condizioni. Quando scesero dalla carrozza, dopo aver lasciato Versailles, alla vista dell’edificio non poté fare a meno di cadere preda dello sconforto. Le piante rampicanti circondavano buona parte dei muri. Alcune stanze avevano il tetto scoperto. Mancavano le porte ad alcune camere. Il pavimento era pieno di sporcizia. L’umidità sembrava divorare intere superfici di muro. Di fronte ad un simile degrado, strinse nervosamente i suoi figli, che guardavano la nuova dimora con il suo stesso timore e smarrimento.
Fu suo marito a rompere il silenzio che la vista della loro attuale dimora avevano suscitato.
“Bhé, se il Re Sole è riuscito a viverci per così tanti anni, possiamo farcela pure noi” fece, toccando distrattamente un asse della porta che si trovava di fronte a loro. Il legno, contrariamente alle sue parole, si sgretolò letteralmente nelle sue mani.       La regina chiuse gli occhi, tentando di calmarsi.
Non le erano mai piaciute le rassicurazioni del suo consorte. Non sapeva dirsi perché, ma non si fidava: quando partecipava alle partite di carte che avevano luogo a Versailles e la sua situazione di gioco era ottima, Luigi tentava di incoraggiarla e poco dopo lei perdeva clamorosamente. In altre parole, i tentativi di tirarle su il morale portavano sfortuna. Non sapeva dirsi quale congiunzione astronomica potesse rendere possibile tale fenomento ma era così.
Il pavimento sotto ai suoi piedi era gelido e umido ma non poteva permettersi di indossare delle pantofole. Avrebbe fatto rumore, svegliando tutti.
Lentamente aprì la porta della camera, ritrovandosi nel corridoio.
I suoi passi risuonavano incerti e timorosi.
Non conosceva ancora bene il percorso, ma sapeva che qua e là  si trovavano pezzi di mobilio, abbandonati e lasciati nell’incuria. I quadri appesi alla parete appartenevano ancora all’epoca di Luigi XIII ed erano vecchi e malandati. Aveva provato a chiedere di rendere un po’più confortevoli gli ambienti che avrebbero  occupato ma i domestici che le erano stati lasciati l’avevano guardata freddamente.
“Cominciate a farci l’abitudine, maestà, questo è il modo in cui la Francia accoglie i suoi sovrani. Se la cosa non vi aggrada, riflettete sul modo in cui avete trattato il popolo. E’bene che il re stia vicino alla sua nazione e se si comporterà degnamente, non avrà altro che benefici da esso” disse uno di loro, sputando il suo titolo con un tono carico di disprezzo.
Maria Antonietta accusò il colpo, mantenendo un’espressione dignitosa.
Non si aspettava affetto dai francesi e non ne aveva avuto molto durante la sua permanenza a Versailles.
La paura per la situazione che stavano attraversando aveva comunque lasciato in secondo piano tutto questo, eppure quella risposta le lasciò addosso un brutto presentimento. Non era certa che quello stato di cose si sarebbe risolto a loro favore. Improvvisamente vide la finestra farsi più vicina.
La sovrana, a quella vista, si bloccò: passare, o non passare? Da qualche tempo, aveva timore a mostrarsi alle finestre. La popolazione dei dintorni non perdeva occasione d’insultarla se la vedeva vicina ai vetri; una volta, mentre era in compagnia di sua figlia, una pioggia di verdure avariate ed uova marce si era abbattuta su quelle aperture. Maria Antonietta, in preda allo spavento si era buttata a terra, trascinando con sé Marie Therese.
Da allora, non si era più avvicinata ad una finestra.
L’inquietudine che quell’incubo le aveva lasciato quella notte, però, la costrinsero a mettere da parte ogni timore. Era la figlia della grande Maria Teresa d’Austria, dopotutto, e non poteva lasciarsi intimorire da quel trattamento barbaro. Non poteva, non doveva, non voleva piegarsi.
Con uno sforzo di volontà, raddrizzò la schiena e dopo un lungo sospiro mosse alcuni passi.
Fuori dal palazzo regnava un silenzio assoluto. Maria Antonietta lanciò uno sguardo furtivo alla finestra, ma la mancanza di rumori e di sagome che si aggiravano nei pressi del palazzo non lasciavano spazio ad altri dubbi: non c’era nessuno sulla strada.
Probabilmente, pensò non senza sollievo, era il momento della giornata che precede di poco l’alba, nel quale coloro che devono alzarsi presto si godono gli ultimi momenti di riposo e quelli che tornano dalle taverne silasciano andare ad un sospirato e immeritato sonno. Nessuno avrebbe avuto tempo e voglia di infastidirla.
La regina con questa constatazione superò lentamente le finestre.
I corridoi del palazzo le incutevano sempre un certo timore, soprattutto in quel momento. La mancanza di sole e di ogni altra forma di luce, dava alle decorazioni barocche degli interni un aspetto grottesco ed inquietante. Maria Antonietta provava una vera e propria repulsione per quel tipo di addobbi. Li riteneva troppo pesanti e antiquati per i suoi gusti tuttavia, data la situazione in cui versava, non poteva permettersi troppe lamentele. Si era ormai accorta che i suoi nemici non perdevano occasione d’infangare il buon nome della sua famiglia, criticando il suo comportamento. In passato avrebbe ignorato simili voci, certa della sua posizione ma ora che il suo ruolo non era più così saldo, aveva capito di non potersi permettere passi falsi.
Doveva fare attenzione, almeno per i suoi figli.
Per questo aveva forzato in ogni modo il suo orgoglio, cercando di non influire nelle scelte di Luigi e lasciando che si occupasse della situazione come meglio riteneva opportuno. Era in fondo la regina, non il sovrano. Questa scelta però si era rivelata controproducente: la popolazione aveva interpretato questo suo ritrarsi e rimanere al proprio posto come un segno di superbia. Un effetto paradossale, se considerava quali ragioni avessero guidato il suo agire da quando la loro posizione era precipitata.
Giunse infine davanti ad una stanza, quella che era stata lasciata ai suoi figli. Maria Antonietta non aveva visto di buon occhio il fatto che avessero messo nella stessa camera Louis Charles e Marie Therese. Non erano più così piccoli da poter condividere un luogo intimo come una camera da letto ma non c’erano altri ambienti agibili nel palazzo che i rivoluzionari avevano loro riservato.
Ancora una volta però si era ritrovata costretta a chinare la testa.
Lentamente entrò nella stanza.
Era un gesto che faceva molto spesso, soprattutto da quando aveva avuto notizia dei tumulti e dei fermenti che ancora scuotevano la capitale. Quasi tutte le notti si recava a far visita ai suoi figli, per scacciare un timore che da qualche tempo non faceva altro che tormentarla, togliendole diverse ore di sonno. Era una paura diversa da quelle che l’avevano colta alla morte del suo amato Louis Joseph e della piccola Sofia Elena, la cui scomparsa era stata così improvvisa da non lasciarle quasi il tempo di affezionarsi. Era un timore a cui lei non riusciva a darle forma e che paradossalmente aveva il potere di terrorizzarla senza possibilità di conforto.
Si stava impegnando in ogni modo, più di quanto non avesse mai fatto.
Aveva dato fondo in quel periodo a tutta la sua discrezione, cercando di essere una buona moglie e madre, più di quanto non lo fosse stata in passato. Lei stessa si rendeva conto degli sforzi e dei progressi che stava compiendo per moderare il suo carattere. Era per natura una persona estremamente orgogliosa, ma non avrebbe mai sacrificato la felicità dei suoi figli sull’altare dell’orgoglio. Eppure sembrava che il suo comportamento, a tratti insolito per chi la conosceva e per chi aveva sentito parlare di lei, non fosse stato considerato sufficientemente naturale e spontaneo, ma frutto di una mente intrigante e doppiogiochista. Nessuno aveva considerato i suoi sforzi.
I suoi figli stentavano a riconoscerla e lo stesso Luigi, dietro alla sua disponibilità, era perplesso da questo suo cambiamento improvviso. Forse non si sarebbe mai potuta liberare di quella fama che i nemici le avevano cucito addosso con un’abilità quasi sinistra. Forse era questo il suo problema: si comportava come una madre e non come una regina.
La camera era avvolta nella penombra e poteva sentire benissimo il respiro rilassato dei suoi figli.
Louis Charles era raggomitolato su un lato del letto addossato alla parete, con il volto rivolto al muro. I suoi capelli marroni gli coprivano parzialmente il viso sotto al quale erano appoggiate le mani curate, segno della sua origine nobile. La coperta era avvolta compostamente attorno al suo corpo, che presentava i tratti massicci di suo padre. Maria Antonietta, con un movimento leggero, dette una piccola sistemata a quei lenzuoli là dove notava che erano fuori posto.
Era una notte molto umida e fredda: non avrebbe permesso che il suo bambino si ammalasse in quel luogo sporco e disagiato. Suo fratello, che era sempre stato cagionevole e malaticcio, aveva ricevuto in vita tutte le cure possibili. Al pensiero del suo piccolo Louis Joseph, la regina dovette appellarsi a tutta la sua forza per non scoppiare nuovamente in un pianto sconsolato.
Detestava ammetterlo, ma il suo bambino aveva avuto una sorte più fortunata dei suoi fratelli poiché gli erano stati risparmiati i disagi e le incertezze del presente. Louis Charles, a differenza del maggiore, non avrebbe avuto forse altrettanta una buona sorte. Non avrebbe avuto i migliori medici e mezzi a disposizione, come ogni principe che si rispettasse, nel caso in cui si fosse ammalato.
Scosse la testa, cercando di scacciare simili pensieri.
Uno solo però rimaneva saldamente ancorato alla sua mente: suo figlio era troppo piccolo per meritarsi simili pene. Era il Delfino di Francia e non poteva essere trattato come un pezzente. No, Louis Charles era un bambino, ai suoi occhi troppo piccolo per meritarsi umiliazioni di tal genere. Maria Antonietta si portò una mano sulla fronte, nel tentativo di calmarsi: lo avrebbe protetto, sì, lo avrebbe difeso dalle ostilità che lo circondavano. La regina si era ormai resa conto che l’oggetto delle frecciate e delle critiche non era tanto la famiglia reale ma lei, l’austriaca.
In parte questa scoperta la consolava. Sapere che la causa di tutto fosse, secondo i rivoluzionari, lei e lei soltanto, le aveva dato la certezza che suo marito e soprattutto i bambini non centravano nulla. Eppure la constatazione di una simile scoperta le gettava addosso un’angoscia difficilmente controllabile; se i suoi figli erano innocenti, allora perché dovevano scontare i crimini di cui lei era ritenuta responsabile?
In fondo però doveva aspettarselo. Qualunque fosse stata la sua condotta, lei era un Asburgo, un’austriaca e quindi a priori una straniera: non poteva in alcun modo cancellare le sue origini e il risultato di una simile verità era il clima ostile in cui aveva sempre vissuto e del quale la critica per la sua condotta non era altro che una reazione alla sua estraneità al Paese di cui era regina.
Aveva fatto non pochi sforzi per vincere le perplessità di suo marito, riuscendo ad averne la stima e l’affetto. Eppure non bastava. Lo aveva visto a corte e le si era mostrato con maggiore forza in quel momento, quando tutta l’aristocrazia se ne era andata, lasciandoli soli.
Non avevano nessuno e forse era anche colpa sua.
Aveva tentato di rimediare, pur non sapendo in fondo quale fosse il suo errore. Gli sguardi carichi di sospetto e odio che di tanto in tanto riceveva dai membri dell’assemblea nazionale e dalla servitù che era stata loro lasciata, non lasciavano spazio a dubbi: poteva provare quanto voleva, era ormai troppo tardi. In un primo momento aveva avuto la tentazione di lasciarsi andare nella disperazione. Era così facile cadere preda dell’angoscia e lasciarsi crogiolare in un tormento senza vie d’uscita. La tentazione era dannatamente forte: lasciarsi corrodere dal dolore le avrebbe davvero permesso di esprimere i suoi pensieri e di svuotare il suo spirito dal peso degli affanni che la dilaniavano?
Una volta fu sul punto di cedere, ma proprio nell’istante in cui era pronta a lasciarsi condurre in quella fredda corrente, qualcosa la trattenne: il suo orgoglio. Non poteva, non voleva, non doveva cedere: se lo avesse fatto, non avrebbe più potuto fare niente per i suoi familiari.
Qualcosa si mosse alle sue spalle, facendola voltare di scatto.
Era Marie Therese, la sua primogenita e forse la più amata tra i suoi figli. Era ormai un’adolescente, eppure, a causa della situazione si era trovata costretta a dormire nella stessa camera del fratello, contrariamente al buon costume. Maria Antonietta osservò tristemente la ragazzina. La coperta era avvolta attorno al suo corpo come le spire di un serpente, mentre i suoi capelli biondi erano sparsi sul materasso come una pioggia d’oro. Dormiva profondamente, al riparo dalla luce che penetrava nella stanza.
Era molto graziosa sua figlia. Aveva una pelle pallida ma non smorta e i suoi stessi occhi cerulei. Era tra i suoi figli colei che le assomigliava maggiormente dal punto di vista del fisico. Non era sicuramente colei che la Francia attendeva, quando si diffuse la notizia che era incinta, eppure la regina non aveva mai dimostrato disprezzo per la principessa. Sentiva che quella creatura le apparteneva completamente, cosa che non sarebbe potuta accadere nel caso in cui fosse stato un maschio e quindi futuro erede al trono: in quel caso avrebbe dovuto condividerlo con le esigenze della corona. L’affetto smisurato che provava nei suoi confronti non aveva comunque generato nella bambina la stessa rispondenza di sentimenti. Marie Therese aveva un carattere ostinato e capriccioso, malgrado la severità che sua madre aveva dimostrato fin dalla più tenera infanzia.
Maria Antonietta aveva trascurato i suoi impegni ufficiali per educare personalmente la figlia tanto attesa e desiderata. Le aveva imposto un’educazione che la portasse a non eccedere nei suoi difetti caratteriali e nelle sue reazioni eccessive, voleva il massimo per lei e non era un caso che le avesse dato lo stesso nome dell’imperatrice d’Austria. Con quel nome aveva espresso il desiderio che sua figlia fosse in futuro una regina saggia e all’altezza della sua antenata. Eppure, malgrado il nome augurale, la piccola Marie Therese non possedeva alcunché della fredda intelligenza della nonna. Era graziosa, certo, ma anche profondamente egoista, al punto che a volte era difficile parlare con lei. Spesso la regina aveva come l’impressione che sua figlia la odiasse ma subito allontanava da sé simili pensieri. Non era possibile, si diceva, che una figlia odi sua madre, soprattutto quando quest’ultima la rende tutto sommato partecipe della sua vita, a differenza di molte donne di stirpe reale, che non avevano questa inclinazione.
Aveva cercato, in ogni modo, di smussare quell’animo così spigoloso, incapace di riconoscere i propri difetti e allo stesso tempo dotato di pregi di cui ignorava l’esistenza. Spesso i suoi metodi erano poco ortodossi. Una volta, ricordava, per impedire che la piccola fosse troppo superba della sua condizione, le aveva messo al suo fianco una bambina di condizione inferiore alla sua, che veniva trattata come se fosse sua pari. Marie Therese aveva mal sopportato la decisione materna e non erano mancate le proteste.
Suo marito, forse turbato dall’isteria della sua bambina, aveva provato a farla desistere da quel proposito. Maria Antonietta però non aveva smesso di provare ad educare Marie Therese. Vedeva in lei molti difetti, che spesso non erano altro che uno specchio dei suoi, eppure non demordeva. Un giorno la principessa avrebbe lasciato la Francia per sposare qualcuno che avrebbero ritenuto alla sua altezza e non era ammissibile che facesse una pessima figura. Nessuno doveva dire che non era stata educata adeguatamente. Poteva essere una regina frivola, ma non una pessima madre.
Maria Antonietta era sempre stata consapevole di non essere all’altezza della fama della sua genitrice come regina, per quanto credesse di aver fatto il possibile per svolgere il proprio compito. Non aveva il suo genio politico e nemmeno era capace di svolgere un’influenza così significativa come l’imperatrice. Non le interessavano né la politica, né tantomeno l’economia, argomenti dei quali non aveva molta conoscenza.
Malgrado tutti questi limiti, si era impegnata con ogni sforzo per essere una madre presente. I suoi figli non avrebbero dovuto dire che li avesse lasciati ad un’infanzia solitaria, come molti loro coetanei delle monarchie europee. E avrebbe raggiunto questo risultato, a costo di sembrare troppo invadente ai loro occhi. Un giorno, l’avrebbero ringraziata, ne era certa.
Aveva rischiato la vita per metterli al mondo.
Era andata contro l’etichetta per averli al suo fianco.
Ora aveva solo loro, insieme al goffo marito che la sorte le aveva destinato e che, pur non amandolo, non odiava.
La Franciaora era loro nemica.
Li aveva confinati in quel palazzo da tempo disabitato e sottoposti ad una rigida sorveglianza. Li aveva privati dei loro effettivi privilegi, pur continuando a riconoscerli come famiglia reale.
Maria Antonietta si passò per l’ennesima volta la mano sulla fronte. Aveva fatto grandi progetti per sua figlia. Sognava per lei un matrimonio con un suo pari che la rispettasse. Spesso si era immaginata di ricevere le lettere dalla sua nuova dimora, dove le narrava la sua vita di donna sposata e della famiglia che aveva creato. Ma erano chimere, come la stessa illusione di avere un rapporto confidenziale con quella ragazzina testarda. Spesso riceveva da lei sguardi freddi e astiosi, insieme a momenti di mutismo ostinato.
Marie Therese era sempre molto aggressiva e ostile nei suoi confronti, mentre diventava gentile e rispettosa, quando si rivolgeva al goffo padre.
Louis Charles invece guardava a Luigi come ogni figlio guarda al proprio padre. Non aveva molta confidenza con lei ma era un maschio e tale atteggiamento era perdonabile. Ciò che davvero la preoccupava era la piccola Marie Therese che fin da piccola le aveva dato non poche preoccupazioni.
Ora che erano a Parigi, la situazione si era fatta ancora più difficile. La propaganda a lei ostile penetrava con maggiore facilità all’interno del palazzo in cui erano stati relegati e tutti in famiglia conoscevano profondamente ogni particolare sulle vere o presunte colpe della regina. Suo marito aveva ignorato tutte le voci che circolavano, come sempre, anche se più di una volta Maria Antonietta lo aveva sorpreso a stracciare con rabbia i fogli delle invettive che giungevano nella loro dimora. Aveva capito che Luigi sapeva più di quanto aveva voluto dare a vedere e che non aveva mai preso provvedimenti contro di lei perché l’amava. Il senso di colpa l’aveva travolta e solo allora comprese quanto suo marito fosse davvero buono nei suoi confronti e che tenesse alla sua felicità a costo di sembrare debole e inetto.
I suoi figli però non erano così resistenti alla pioggia delle calunnie e dei pettegolezzi da cui erano sommersi. La loro reazione alle voci che giungevano nella nuova casa erano quindi un vero e proprio trauma. Louis Charles forse non capiva fino in fondo i messaggi contenuti nelle notizie ma non Marie Therese che, ormai ragazzina, era più consapevole, o presumeva di esserlo, sugli argomenti dei vari libelli. Era la maggiore e quasi un’adulta a tutti gli effetti.
La notizia del comportamento della madre le fecero perdere quel poco rispetto che nutriva nei suoi confronti: perché doveva sopportare privazioni e castighi, quando non faceva altro che compiere le stesse azioni della sua genitrice? Questa presa di coscienza gettò una sinistra luce sulla regina che, ai suoi occhi non era altro che un’ipocrita e una bugiarda.
Maria Antonietta si portò nuovamente una mano sulla fronte.
Poteva odiarla, se voleva, ma non poteva pretendere che la disprezzasse. I suoi figli e suo marito erano tutto ciò che le era rimasto e avrebbe fatto il possibile per limitare il male che li circondava. La situazione era troppo pericolosa e difficile perché potesse anteporre il bisogno di recuperare il suo affetto, alla volontà di salvarli dal triste destino che sembrava farsi sempre più vicino e inarrestabile.
Non avevano più poteri che potessero proteggerli ed erano alla mercé dei loro aguzzini senza muro alcuno. Lei non aveva nulla. Era una regina, ma solo perché ancora non le avevano tolto la corona dalla testa. Non aveva affatto rinnegato la convinzione che la sua elezione a sovrana fosse avvenuta per volontà divina, ma le circostanze in cui versavano non erano assolutamente degna del loro rango.
Non aveva più spade ed eserciti a difenderli e, per quanto ne sapeva, i suoi fratelli non si erano mossi a salvarli con la risolutezza che si aspettava.
Erano completamente soli ed isolati, costretti a fronteggiare l’ostilità di un’intera nazione che avevano giurato di proteggere al momento dell’incoronazione. La regina scosse la testa. Non era abituata a rimpiangere il passato e non avrebbe iniziato in quel momento. Dalle sue azioni dipendeva la sorte della sua famiglia, o almeno così credeva.
Doveva pensare alla loro sorte e fare del proprio meglio.
Forse non era molto ma doveva tentare.
La sua famiglia veniva prima di tutto e lei era una madre ora.
Non poteva permettersi né sconforto, né capricci. Suo marito, Louis Charles e Marie Therese avevano bisogno che rimanesse loro vicino e lei avrebbe svolto tale compito. Li avrebbe protetti per quanto possibile e non sarebbero stati né i membri dell’Assemblea Nazionale, né uno sciocco incubo a metterla in ginocchio.
 
 
Questo è il terzo capitolo della trilogia su Maria Antonietta. Non so voi, ma scrivere su questo personaggio è stato davvero molto difficile. Aveva una personalità molto complessa e difficile da seguire nella sua interezza. L’episodio precede lo sfortunato tentativo di fuga di Varennes. Ho voluto descrivere la situazione precedente, cercando di rimanere fedele alla biografia e all’immagine della Ikeda. Onestamente, il risultato finale è ai miei occhi poco soddisfacente, forse perché è molto difficile mettersi nei panni della sovrana, il cui carattere è molto complesso.
Sono molto pignola per tutti i lavori che faccio, anche se forse non sembra. Ma, dato che tendo a leggere sempre ciò che scrivo prima di pubblicarlo, è bene essere critici.
Spero che abbiate apprezzato questa mia fatica, malgrado il livello di questo capitolo non eguagli quello degli altri.
Vorrei ringraziarvi per aver letto la mia raccolta fino a questo momento. Il prossimo e conclusivo capitolo è un mio regalo. Vi dico fin da subito che sarà molto particolare ed è dedicato ad un personaggio molto amato dell’anime.
Il famoso personaggio è……(rullo di tamburi, prego!)…………
SEGRETO!
L’unico indizio è il titolo “Strano”
Ah, quanto alla fic “Agriturismo” ed al “Sonno della ragione”ci sto lavorando. Per questi lavori non aspettatevi comunque aggiornamenti regolari, ve lo dico fin da subito! Non è piacevole saperlo ma è così. Vorrei intanto ringraziare Pry e Lady in blue per aver sempre seguito questa raccolta, commentando i capitoli. Ringrazio inoltre tutti coloro che hanno recensito e che non ho nominato, coloro che hanno messo la mia storia tra le preferire, tra le seguite o che l’hanno semplicemente letta. Grazie a tutti!
 
cicina
 
 

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Capitolo 15
*** Chimera [?] ***


 Buona sera a tutti, cari lettori! Questo è l’ultimo capitolo della raccolta…aspetta un momento: ultimo? Sissignori. Questo è il capitolo conclusivo della raccolta “Maternalia”. Vorrei intanto ringraziare tutti coloro che hanno letto, le anime pie che hanno commentato, e quelle gentilissime persone che hanno ritenuto la mia prova degna di essere messa tra le storie da ricordare e tra le preferite. Cribbio non pensavo di avere tanto seguito!
Dunque passando alle altre storie che sto scrivendo, vorrei fare pubblicità a uno dei racconti storici che ho scritto. S’intitola “Le ceneri del focolare di Vesta”. Non mi sembra una vera e propria schifezza e se vi piace la storia, fateci pure un salto. Per le long-fic che sto scrivendo vi prego di avere pazienza se non aggiornerò con regolarità.
Adesso però vi lascio al prossimo e ultimo racconto.
Buona lettura!
 
                                                                                                        CHIMERA [?]
 
Quella mattina la villa del generale De Jarjayes era in pieno fermento. In ogni angolo della residenza risuonavano i rumori di mobili spostati, stoviglie pulite e messe a lucido, tappeti sbattuti vigorosamente alle finestre che creavano vere e proprie nuvole di polvere.
I servitori andavano avanti e indietro, portando vasi, casse, stoviglie e tappeti. I loro movimenti erano sempre più frenetici, al punto che non di rado capitava che si urtassero durante queste operazioni tra loro, rischiando di cadere a terra e  di portare al suolo gli oggetti che portavano in mano. I loro spostamenti erano rapidi, frettolosi e inarrestabili. La furia con cui si muovevano era tale da far passare in secondo piano qualsiasi cosa. Se qualcuno si fosse frapposto tra loro ed il tragitto che stavano percorrendo, sarebbe stato inevitabilmente travolto, come un viandante da una valanga.
Su questi movimenti, sulle voci e le imprecazioni dei servitori e delle cameriere, stava lei, la governante.
Marons Glacés si muoveva nella calca della servitù come un nocchiero in un mare in tempesta, dando nel frattempo ordini a destra e manca. La sua voce risuonava acuta e decisa nell’insieme privo di forma dei suoni della casa.
“Gilbert, Olivier, quei tavoli vanno spostati alla parete. Così…no, non in quel modo! Numi del cielo: quei mobili appartengono alla famiglia del padrone da generazioni, non sono pezzi di legna da ardere! E voi, Agnes e Marie! Sbrigatevi a portare quelle tende: gli ospiti arriveranno tra qualche ora!”diceva passando dall’esasperato, all’irritazione, al panico. Volteggiava in ogni angolo, spuntando come un fungo da ogni parte.
André osservava sua nonna allibito.
Era presente in ogni punto del palazzo, dalle scuderie, alle cucine, alle camere, ai corridoi. Sembrava avesse il dono dell’ubiquità. Istintivamente tremò: faceva paura e questo malgrado ormai avesse quasi venti anni e la nonna….bhé sua nonna era sempre la stessa, con la sua severa divisa da governante, la cuffietta bianca sulla testa e l’immancabile fazzoletto in bocca. La casa del generale sembrava sul piede di guerra, un vero e proprio campo di battaglia, ma non c’era da stupirsene.
Fra qualche ora sarebbe venuta a far visita la quinta figlia del generale, Ortense, insieme al suo consorte, il conte de Millet. André lo aveva visto poche volte ma da quel poco che aveva saputo era una persona dal buon carattere che trattava sua moglie con un certo rispetto. Una rarità, della quale la figlia del generale poteva considerarsi fortunata.
Il padrone di casa era un vero e proprio fascio di nervi. Camminava nervosamente da una parte all’altra, dando ordini e cambiandoli all’ultimo momento. Insieme a sua nonna erano capaci di far venire una crisi di nervi persino ad un santo.
In quel momento stava dando le ultime disposizioni ad Oscar, che era rimasta chiusa nel suo studio subito dopo aver fatto colazione.
André non poté fare a meno di sospirare.
Quando si impegnava, il padrone era davvero impossibile: che diavolo doveva dire ad Oscar da tenerla confinata in quella stanza per ore intere? Certo che era sempre stato…come dire, bizzarro…però…
“ANDRE’!”urlò sua nonna, vedendolo immobile sulle scale “invece di stare lì, come un vaso di fiori, porta questi nelle stanze degli ospiti e, mi raccomando, assicurati che non abbiano una grinza!”Così dicendo, gli consegnò una pila di lenzuoli.
André prese i panni che sua nonna gli aveva dato, non senza perplessità. Quella colonna di stoffa era più alta di lui, come avrebbe potuto portarla? Marons tuttavia non sembrò fare caso alla sua espressione e, con un gesto spiccio lo spedì al piano superiore. Il nipote fu costretto ad obbedire, incoraggiato forse dal cipiglio minaccioso della nonna. Incerto salì le scale, portando una torre di stoffe davanti a sé. Non vedeva nulla di ciò che era di fronte e il corridoio, dal quale si accedeva alle stanze, era un percorso ad ostacoli non indifferente. Le statue,  le sedie intarsiate, le armature e i vasi orientali presenti lungo il tragitto erano presenze insidiose sulle quali non doveva in alcun modo incappare, pena l’ira congiunta del padrone e della nonna. A quel pensiero l’attendente rabbrividì: non era pronto ad affrontare una simile eventualità, pur sapendo che ogni singolo oggetto presente valeva sicuramente più di lui.
Improvvisamente una porta si aprì con un movimento brusco. André, che non vedeva niente, fu colpito in pieno da questa e solo per miracolo riuscì a non cadere a terra con le lenzuola fresche di bucato. Con non poca fatica, riprese il suo  equilibrio e lanciò un’occhiata alla persona che era uscita da quella stanza.
Indossava degli abiti informali e i suoi capelli, biondi come il grano, scendevano ribelli sulle spalle. Avrebbe riconosciuto quei tratti ovunque.
“André” disse, senza dare un tono particolare alla voce.
“Ah, Oscar” salutò quello, mentre tentava di non far cadere a terra la stoffa.
L’ultima figlia del generale lo osservò mentre con le gambe tentava di non perdere l’equilibrio. Sembrava una colonna pericolante, che rischiava di cadere al primo soffio di vento. Quando lo aveva visto, le era sembrato per un momento che fosse la pila di lenzuoli a parlare. Si dette della stupida per aver pensato una cosa simile. Non poteva permettersi più tali bambinate. Suo padre aveva riversato su di lei ogni aspettativa possibile ed inimmaginabile ed era anche per ripagare la presenza che aveva dimostrato durante la sua infanzia, che voleva svolgere al meglio l’incarico che si era conquistata a corte, a prezzo di notevoli sacrifici. Doveva essere una persona seria, adulta e responsabile.
Malgrado ciò,  non poteva negare che il suo amico era abbastanza ridicolo nelle mansioni di cameriere.
“Che stai facendo, André?” chiese inespressiva.
“Ordini della nonna” rispose l’altro, come se fosse ovvio.
“Ah” disse “quando hai fatto, vuoi venire con me in biblioteca? Ce ne staremo un po’tranquilli, almeno fino alla fine di questo delirio”
André non ci pensò molto. L’immagine della nonna, congiunta a quella del padrone si palesarono in un istante nella sua mente, in un insieme abbastanza inquietante. Inevitabilmente disse di sì.
Tutto pur di evitare quel girone dantesco.
 
La biblioteca della casa era grande e ben fornita. Le pareti erano interamente tappezzate di libri e busti dei sovrani francesi, a conferma della fedeltà atavica della famiglia alla Corona.
André amava quel posto.
Così silenzioso.
Ricco di pace.
Pieno di tomi interessanti.
Si guardò attorno perso nell’immensità dello studio, poi spostò la sua attenzione sulla sua amica. Oscar camminava avanti ed indietro con passo nervoso, borbottando parole incomprensibili. Era evidentemente turbata da qualcosa ma ancora non si era confidata con lui. André se ne rimase zitto vicino ad una delle poltrone. Prima o poi avrebbe sputato il rospo. Doveva solo attendere.
Improvvisamente Oscar si slanciò come una furia ad una delle pareti della libreria ed iniziò a cercare con impazienza febbrile qualcosa.
“Se avevi voglia di leggere, potevi farlo anche da sola” le fece notare.
“Ah stà zitto!” lo freddò furibonda la figlia del generale, mentre frugava tra i testi.
Doveva essere qualcosa che le stava particolarmente a cuore. Oscar non aveva un carattere facile, assolutamente, ma si comportava così solo con André, l’unico con il quale avesse una vera e propria confidenza. Il servitore, da parte sua, si sentiva privilegiato per avere un simile rapporto con quella ragazza così stravagante e avrebbe difeso questa amicizia in ogni modo, malgrado non riuscisse a prevedere i moti che agitavano il suo animo.
Era stata in fondo l’unica persona a farlo uscire dal guscio di odio e diffidenza a seguito della morte dei suoi cari.
Lei e la nonna lo avevano aiutato molto in questo.
“Trovato!”fece infine, estraendo un libro dalla libreria.
L’attendente fissò il tomo che aveva tra le mani e l’espressione di trionfo della sua amica. Stranamente quel sorriso ebbe il potere d’inquietarlo.
“Che cos’è?”chiese, tentando di mostrare sicurezza.
L’immagine di Asclepio però non lasciava adito a dubbi.
“Non si vede?” fece la ragazza guardandolo come se fosse tonto “E’un libro di medicina!”
Senza dargli il tempo di rispondere, iniziò a parlare a raffica.
“Vedi, poco prima delle nozze, mentre stavo tornando in camera mia ho sentito mia sorella confabulare con la mamma nel suo salottino privato.” Vedendo però lo sguardo ammonitore del suo amico, cercò di mettersi sulla difensiva “no, non stavo origliando ed è inutile che mi guardi così, perché non è vero!”
L’attendente sfoggiò allora una vera e propria faccia da poker ma dentro di sé non le credeva per nulla. Sapeva che la padrona, per volontà del consorte, doveva tenersi ai margini della vita dell’ultima nata e così dovevano comportarsi le sue sorelle. Oscar non si confidava mai con nessuno e se André ne era a conoscenza, ciò era dovuto alla grande capacità di osservazione del nipote della governante.
Solo lui coglieva l’espressione di pietra della giovane tutte le volte che vedeva la moglie del padrone.
Solo lui notava la tristezza che compariva come una lieve ombra, tutte le volte che vedeva sua madre giocare con le sue sorelle non ancora sposate.
Solo lui sapeva che spesso, quando la madre era nella casa del generale, Oscar si ritrovava a sbirciare, attraverso la serratura della porta del salottino privato di Margherite, la dama mentre conversava con le figlie più grandi. Sicuramente la sua amica non avrebbe mai rivelato in quale circostanza aveva avuto la brillante idea di tirare fuori quel libro. Come sempre però, il ragazzo stette zitto.
Era curioso di sapere cosa avesse reso la sua amica così intrattabile e nervosa.
“E che cosa è successo?” chiese, non potendo  trattenersi.
La figlia del generale iniziò a grattarsi la testa, un gesto che tradiva la sua frustrazione.
“Non lo so. Non ho capito” fece seccata, sotto lo sguardo basito del servitore.
“Che significa?” domandò l’altro, ormai incuriosito pure lui.
Oscar sospirò scocciata.
“Mia sorella piangeva e si lamentava del suo futuro marito. Diceva che non voleva sposare un dongiovanni come il conte Millet e temeva di dover dividere il letto nuziale con la continua consapevolezza di essere tradita. Per un po’ ha frignato sulla cosa, poi ha chiesto alla mamma come si sarebbe dovuta comportare con lui in ….in camera la prima notte” fece, con un filo di esitazione sul finire della frase.
Poi fissò il suo amico.
“Allora che cosa ne pensi?” disse, senza vedere lo sgomento che per un breve istante era comparso sul volto di André.
“T-tutto qui? Eri nervosa perché tua sorella era in crisi per via del matrimonio?”fece tentennando. Che fosse gelosa di Ortense? Impossibile, non si erano mai rivolte la parola. Osservò la sua espressione e notò tutte le emozioni che passavano sul suo volto: irritazione, stupore, frustrazione e perplessità. André non  sapeva cosa pensare. Ortense non era la prima delle figlie del generale a sposarsi e forse nemmeno l’ultima. Inavvertitamente il suo sguardo calò su Oscar: sarebbe mai stato possibile che un giorno la sua amica convolasse a nozze, come le altre figlie del padrone?
A quel pensiero l’attendente scosse la testa.
No, era impossibile, non riusciva a vederla in alcun modo in abito da sposa e con lo sguardo timoroso e sognante nei confronti del marito. In quel momento la sua immaginazione aveva seri problemi, a cominciare dal fatto che il carattere dell’ultima del casato non era stato educato all’obbedienza come le sue sorelle. Probabilmente, pensò non senza trattenere un ghigno, sarebbe stata capacissima di passare a fil di spada chiunque le avesse mancato di rispetto. Era quindi impensabile che potesse diventare una brava mogliettina, almeno secondo la mentalità comune e questo malgrado sua nonna non smettesse di cucire di nascosto per lei abiti da donna.
A cosa servissero poi, non riusciva a capirlo.
Nel frattempo fissava l’oggetto dei suoi pensieri in attesa di una risposta.
Oscar si mordicchiò leggermente il labbro, incerta se rispondere alla sua domanda. Da un lato avrebbe voluto picchiarlo per la sua mancanza di rispetto, dall’altro desiderava liberarsi di quel peso che la infastidiva senza capire perché. Che cosa poteva dirgli? E, soprattutto, il suo dubbio era qualcosa che potesse essere confidato senza essere presa in giro?
“Allora?”incalzò il servitore, spronandola a proseguire.
La figlia del generale, irritata per il fatto di essere messa alle strette dal nipote della governante, aprì il libro e per la seconda volta in tutta la giornata, il giovane Grandier sgranò gli occhi.
“Visto che le parole di mia madre e di Ortense erano abbastanza strane, ho pensato bene di informarmi. Sul piano teorico mi è chiaro che cosa dovrebbe essere successo la prima notte di nozze, anche se mi lascia perplessa la parte pratica. Vabbé, non mi interessa molto, anche se mi sembra un po’strana…”iniziò, elencando tutte le perplessità che la stavano assillando.
André era decisamente imbarazzato e non sapeva di cosa stupirsi maggiormente, se del fatto che Oscar avesse simili curiosità incoffessabili o che stesse parlando di simili argomenti proprio con lui. In quel momento sembrava aver perso la bussola. Il suo atteggiamento era abbastanza contraddittorio: cercava di comportarsi come un uomo ma le sue perplessità erano tipicamente femminili.
I miei complimenti, caro generale: avete creato un vero e proprio ibrido.
Questi erano a grandi linee i suoi pensieri.
Certo, avrebbe potuto risponderle tranquillamente, spiegandogli che cosa succedeva. Alcuni mesi prima, era stato trascinato dallo stalliere Gilbert in uno dei bordelli più vicini alla villa del padrone ed era stato, a detta dell’accompagnatore, svezzato e pronto a vivere come un adulto. Era perfettamente in grado di dirgli che cosa avevano fatto il conte Millet e sua sorella in camera da letto, senza scendere in inutili tecnicismi e giri di parole. Trovava tuttavia molto imbarazzante cadere in simili particolari e temeva che una volta saputa la verità, Oscar potesse inavvertitamente lasciarsi sfuggire qualcosa, con la conseguente ira della governante.
Quello era sicuramente uno dei momenti in cui la trovata del padrone faceva cilecca.
André si chiedeva spesso come potesse sua nonna pretendere che la sua bambina potesse rimanere candida e innocente, dovendo avere a che fare tutti i giorni con i soldati della guardia personale della regina, uomini di sangue blu e assidui frequentatori di cortigiane.
Era come se casanova fosse illibato. Un paradosso.
Il problema in quel momento comunque era come liberare Oscar dalle paranoie che la assillavano.
Provò quindi a eludere il tema scottante della prima notte di nozze. Non dubitava che Oscar conoscesse teoricamente come dovesse avvenire un incontro tra amanti. Doveva esserci perciò qualcos’altro sotto.
Fissò allora le immagini e l’argomento della pagina mostrata dalla donna soldato. Non ci aveva prestato molta attenzione prima e quasi si pentì di non averlo fatto a tempo debito. Era un capitolo sulla maternità.
Si grattò nervosamente la testa e maledì la superficialità che prima lo aveva preso nei suoi confronti. Ben presto, infatti si ritrovò nuovamente impacciato, dal momento che nessun uomo si occupava di un momento tipicamente femminile come la nascita. Non sapeva come esserle d’aiuto. Per un momento si era sentito più adulto della sua amica, avendo avuto quell’esperienza, ma la scoperta del vero motivo per cui Oscar era così in difficoltà, gli fece capire che non avrebbe potuto risolvere i suoi problemi come invece aveva creduto fino a pochi istanti prima.
“Continuo a non capire” borbottava nel frattempo la sua amica, mentre leggeva le pagine di medicina. Quei fogli macchiati d’inchiostro spiegavano il fenomeno della gravidanza da un punto di vista puramente tecnico, senza tuttavia parlare dei sentimenti delle interessate. Che cosa si provava ad essere madri? Quali potevano essere i pensieri che una donna poteva avere in proposito?
Alzò un momento la testa. André aveva un’aria indecifrabile. Ogni tanto spostava lo sguardo da una parte all’altra della stanza, cercando di evitarla.
Oscar aggrottò la fronte e l’attendente ebbe quasi un sussulto, non sapendo che cosa sarebbe avvenuto di lì a poco.
A passo di marcia gli si avvicinò, fino a pararsi a pochi centimetri dal suo viso. O, meglio, queste erano le intenzioni di Oscar. Il problema era che André, nel corso degli anni, l’aveva superata in altezza e ciò le impediva di fissarlo dritto negli occhi come avrebbe voluto.
Malgrado questa limitazione, non esitò ad affrontarlo.
“Sai che ti dico, André? Questi luminari non mi sono di grande aiuto, quindi dovrò cercare altre fonti!”esclamò con una luce battagliera nello sguardo, la stessa che la caratterizzava durante i duelli. Poi senza dire altro si lanciò fuori dalla stanza, alla ricerca dell’unica persona che potesse davvero darle una mano.
L’attendente rimase immobile nella biblioteca, fermo come un baccalà. Aveva visto la sua amica lanciarsi fuori dalla stanza come se avesse il diavolo alle calcagna. Mille pensieri si affastellavano intanto nella sua testa. La mente analitica di André cercava di mettere insieme i pezzi che era riuscito a cogliere da quella stranissima conversazione. Era diventato piuttosto bravo a decifrare la complicatissima mente dell’ultimogenita del casato e dopo pochi istanti riuscì a trovare la risposta che cercava.
Sul suo viso si dipinse allora il panico.
No.
Non era possibile.
Doveva assolutamente fermarla.
Con la presenza del generale in casa poi, era una vera e propria pazzia.
Con un gesto fulmineo il nipote della governante si fiondò fuori dalla libreria, alla disperata ricerca della ragazza: come accidenti era venuto in mente ad Oscar di andare proprio in quel momento a cercare sua madre per fare una chiacchierata?
 
Nel frattempo, la contessa Marguerite era nei suoi appartamenti. Stava bevendo la sua tisana giornaliera, un’abitudine che aveva preso da qualche tempo, dalla nascita della sua ultima figlia.
Le stravaganze del consorte erano in parte alla base di questa usanza. Per anni aveva dovuto sopportare le sue fisime e le continue delusioni che ogni figlia gli arrecava con la sua nascita. Certo, la donna comprendeva lo stato d’animo del consorte, abituato ad essere obbedito senza ricevere offesa, ma non poteva pretendere che partorisse un maschio a comando. Lei aveva fatto la sua parte, sopportando le gravidanze e rischiando la vita per assolvere a tale compito, ma non si era mai lamentata in proposito. Anche perché il grande generale non avrebbe mai sperimentato i dolori del parto e quindi non poteva capire come si era sentita.
Quella mattina avrebbe fatto loro visita la sua piccola Orthense, insieme al marito. In una lettera le aveva comunicato di essere in attesa del loro primo figlio, una notizia che la dama aveva accolto con immensa gioia. Non vedeva l’ora quindi di vedere la sua amata bambina, per poter parlare con lei, con la dovuta complicità di un tempo.
Mai si sarebbe aspettata di ricevere la visita anche dell’ultima nata.
Oscar piombò nella sua stanza, senza bussare e senza salutarla.
Marguerite aggrottò la fronte, non molto contenta dei modi della sua ultimogenita, ma lo sguardo di quest’ultima la convinse a sorvolare sulla questione.
“Vieni pure. Tuo padre si trova in questo momento a discutere con la servitù e non ci farà caso. Lo conosci anche tu come è fatto.” Disse alzando, non vista, gli occhi al cielo.
L’interessata allora chiuse la porta, leggermente più rilassata di pochi istanti prima, ma le sue pose rimanevano comunque molto rigide, come se il suo corpo fosse fatto di gesso. La madre si prese un momento di tempo per fissarla.
Aveva sicuramente generato una bellissima figlia, forse assai più graziosa delle sue sorelle, ma il suo giudizio si fermava lì. Il resto era per lei un mistero. Le voleva bene, ovviamente, ma i suoi comportamenti erano quanto mai stravaganti per i suoi gusti, a cominciare dal nome. Si era pentita di non aver sollevato obiezioni di fronte alla trovata del marito, convinta forse che era meglio assecondarlo. Non era stata in grado di dargli il maschio che desiderava e non voleva in alcun modo alimentare i possibili sensi di colpa per qualcosa che non si poteva controllare.
Aveva naturalmente obbedito ai desideri del consorte e aveva finto d’ignorare gli sguardi di quella bambina cresciuta come un uomo, non senza provare un continuo senso di colpa per il non poter avere uno stretto rapporto con quest’ultima.
“Vuoi una tazza di tisana?” chiese, vedendola tesa.
Oscar annuì meccanicamente e si mise a sedere. Marguerite le diede gentilmente uno dei pezzi del servizio di porcellana di Chantilly, che aveva ricevuto dal consorte in occasione di un loro anniversario. Era molto bello e la dama tendeva e preferirlo agli altri doni che aveva avuto nel corso degli anni. Per questo motivo osservava con un filo di preoccupazione la sua ultimogenita mentre lo prendeva in mano titubante e sempre più a disagio.
Timore fondato, perché Oscar con un gesto nervoso, fece cadere un po’della tisana rovente sulle gambe. Scottata, fece cadere a terra la tazzina che si frantumò in mille pezzi.
Marguerite fece appello a tutta la sua pazienza, imponendosi di non esplodere in una di quelle crisi isteriche, tipiche di molte donne del suo rango e che l’interessata considerava poco edificanti.
Eppure, fissando i frammenti di ceramica, sparsi a terra come tanti fiocchi di neve, non poté fare a meno di pensare che era un vero peccato che quel servizio fosse rovinato.
Era come una torta senza la sua guarnizione,
Come una casa senza il tetto.
Come il suo matrimonio in fondo.
“C’è qualche problema, cara?”chiese, scacciando da sé quei paragoni ingombranti e fastidiosi.
Oscar fece vagare per alcuni istanti lo sguardo sulla stanza in cui si trovava, poi tornò ad osservare sua madre che non aveva smesso di fissarla, con quegli occhi gentili e sottomessi.
“Ecco…”iniziò non sapendo cosa dire. Il problema che la stava assillando era tipicamente femminile ed era convinta che la donna che l’aveva messa al mondo, fosse l’unica persona capace di risolvere le sue paturnie.
Il problema era: da dove iniziare?
Come se le avesse letto nel pensiero, sua madre le venne in aiuto. “Sarà meglio che ti affretti a dirmi che cosa ti affligge, bambina mia, perché tuo padre terminerà a breve di dare ordini alla servitù.” Le ricordò.
“Giusto. Sono venuta per chiedervi di Ortense.”rispose a scatti l’altra, sempre più a disagio, non abituata a sentire così da vicino la voce carezzevole della genitrice. Aveva agito come al solito d’impulso, cercando sua madre, a differenza di quanto suo padre aveva deciso. Eppure non poteva fare diversamente.
“Capisco, cara.” Disse l’altra, sorseggiando la bevanda, con un autocontrollo non indifferente “Che cosa ti preoccupa di tua sorella? Suo marito è una brava persona e, come sai, è innamorato di lei. Un fenomeno inconsueto e quanto mai fortunato.” Chiese, perplessa e curiosa di sapere che cosa avesse spinto la sua piccola Oscar a venire fin lì.
Il suo sesto senso le diceva che il problema della sua bambina aveva a che fare con quella corazza maschile che il padre le aveva cucito addosso. Non doveva fare altro che verificarlo, con una domanda a tradimento.
“Ah, sai che è incinta?” aggiunse, sperando di scuoterla.
Lentamente la ragazza posò lo sguardo a terra e sul viso di Marguerite, per un brevissimo istante, comparve il sorriso di chi aveva svelato il mistero. Subito però riprese la solita espressione composta, come una brava damina.
Calò quindi un profondo silenzio, nel quale la moglie del generale osservava la figlia, mentre quest’ultima fissava nervosamente dappertutto, tranne la madre.
I minuti passavano, diventando mezz’ora. Alla fine, Marguerite perse la pazienza.
“Cara, ti ricordo che fra poco verrà tua sorella e, se posso esserti di aiuto, non esitare a chiederlo. Non ho potuto starti vicino come era mio dovere, eppure vorrei poterti dare il mio appoggio. Sei molto tesa e non penso che sia per via del lavoro. Parla pure liberamente.” La esortò.
“Ecco, non capisco che cosa possano provare le mie sorelle ad avere una famiglia. Non ho mai avuto la possibilità di parlare con voi e con loro, senza essere biasimata da mio padre. Che cosa significa avere un figlio da una persona che nessuna di loro, voi compresa, ha scelto? Non posso smettere di ricordare le espressioni afflitte di tutte loro il giorno del matrimonio e quelle, tutt’altro che liete, delle altre dame di Versailles, quando si univano in chiesa, giovanissime, con i loro anziani consorti. Per questo vi chiedo, madre, come si può provare qualcosa per un bambino che sai non essere nato da altro se non dall’esecuzione di un ordine? Questo pensiero non fa che tormentarmi da diverso tempo ed io non so a chi chiedere consiglio.” Disse infine, non senza lanciarle di tanto in tanto degli sguardi nervosi. Temeva di ricevere critiche e biasimi per la sua mancanza di ritegno nel farle una simile domanda, ma Marguerite non fece niente di tutto ciò.
L’ascoltò con attenzione, poi rifletté su cosa dirle.
“La domanda che mi hai posto non è molto semplice perché vedi, cara, neppure il mio matrimonio è nato perché io amavo tuo padre, anzi, se devo essere onesta, ci eravamo rivolti a stento la parola. Ho dato dei figli perché era mio dovere come moglie farlo, ma non posso dire di aver odiato nessuna di voi. Tuo padre è una bravissima persona anche se, come avrai notato, non è esente da difetti. Con il tempo mi sono affezionata a lui e la cosa non mi dispiace. Parlo per esperienza personale, ma non ho avuto un cattivo marito e non ho vissuto con molta sofferenza il fatto di dover portare in grembo la sua stirpe. In qualche modo, ho avuto le cose facili. Non tutte hanno questa fortuna. Mio marito, con i suoi difetti, non mi ha mai mancato di rispetto, anche se le sue decisioni non sono sempre esemplari.” Rispose, sorridendole gentile. “A volte la maternità è una chimera per una donna e se non avviene, è motivo di grande dolore. Io e le tue sorelle abbiamo avuto la fortuna di essere esentate da questa sciagura ma questo non significa che non vi possano essere dei problemi.”
Oscar abbassò la testa, fissando il pavimento.
La luce penetrava dalla finestra, bianca e cristallina, creando un lieve chiaroscuro sui loro volti.
“Su una cosa però sono sempre stata in disaccordo con tuo padre.” Disse allora la dama, posando la tazza, ormai vuota, sul tavolino intarsiato.
“Quale, madre?” chiese Oscar.
Marguerite la osservò. La sua ultima bambina era decisamente più tranquilla, rispetto a pochi minuti prima ma non era ancora stanca di parlare con lei. La dama non poté che apprezzare quella strana situazione che si era creata. Mai avrebbe creduto di poter conversare con la sua figlia più giovane senza la presenza ingombrante del marito. Si chiese allora che cosa avrebbe potuto dirle e se era giusto rivelarle la preoccupazione per il suo futuro, dato che il generale non era più molto giovane. Avrebbe preferito riferirle che pensava fosse opportuno per lei sposarsi con una persona rispettabile.
I problemi però sorgevano spontanei.
Il primo era l’inevitabile fine del progetto balzano di suo marito, ammesso che fosse possibile per una donna conciliare matrimonio e carriera militare.
Il secondo era quale sarebbe stato il partito più opportuno per la sua bambina. Oscar era una persona particolare e Marguerite era convinta che la scelta del consorte dovesse essere adeguata ad una buona dose di compatibilità di caratteri, allo scopo di evitare scandali coniugali nel miglior modo possibile. Su questo, lei è il generale erano pienamente d’accordo: non bastava la ricchezza per rendere solida un’unione. L’amore era una rarità, ma la coppia voleva la serenità matrimoniale per le loro figlie, unita ovviamente alla convenienza.
La donna era immersa nei suoi pensieri e nei progetti di combinare un’unione opportuna. Una chimera, dal momento che il marito si opponeva ad un simile progetto. Marguerite scosse la testa: il generale stava andando contro il normale corso degli eventi e lei non poteva fare altro che guardare inerme il loro svolgersi.
Oscar era ormai prossima a superare l’età che era solitamente adatta ad un’unione. Anche Orthense si era sposata tardi, ma la dama temeva che la sua ultimogenita avrebbe superato ogni sua più nera aspettativa.
D’altro canto, però, non poteva lamentarsi. La sua vita coniugale era sempre stata abbastanza piatta, come avveniva per ogni matrimonio combinato, e vedere Oscar in casa, nei momenti in cui non era impegnata a fare la dama da compagnia di Maria Antonietta, insieme al marito, le procurava una profonda gioia. Le sembrava di aver davanti l’immagine di una famiglia unita, come invece non era avvenuto con le sue figlie, quasi tutte lasciate alle cure prima delle fantesche e poi dei precettori. Era in qualche modo felice di avere la sua ultima bambina in casa, anche se sapeva che ciò che stava avvenendo era sbagliato.
Un giorno il generale si sarebbe pentito di quella decisione.
Un giorno avrebbe versato lacrime amare al pensiero di quello che aveva fatto a quella bambina.
Un giorno avrebbe sicuramente provato a recuperare il danno scatenato.
Marguerite avrebbe voluto dire a sua figlia tante cose su come poteva essere la maternità e, per estensione, la vita di una donna sposata, che il generale le aveva tolto, per inseguire la sua chimera ma alla fine non lo fece.
“Nulla cara” disse tornando composta come pochi istanti prima“Raggiungi pure tuo padre. Non vorrei che si arrabbiasse per averti trattenuto.”
Oscar la fissò, perplessa da quell’improvviso cambio d’umore, tuttavia obbedì.
Marguerite sfoggiò un sorriso rassicurante che spinse la figlia ad allontanarsi.
Quando la porta si chiuse, la dama smise di sorridere.
Chissà perché aveva deciso di tacere.
Per rispetto alla volontà del marito?
Per timore della sua ira o di arrecargli dispiacere?
No, la verità era un’altra.
La donna sapeva che era meglio per quella ragazza essere all’oscuro di questa verità. Suo marito era responsabile del danno e sarebbe stato lui a risolvere il guaio combinato.
Oscar era come una palla lasciata andare lungo una discesa, diretta a velocità sempre maggiore, contro un muro lontano inizialmente, ma sempre più vicino con lo scorrere del tempo. Suo marito e lei, con il suo silenzio, l’avevano spinta verso quel percorso distruttivo e adesso non potevano fare altro che fissarla impotenti.
Marguerite era certa che il generale avrebbe reagito, non appena avesse recuperato il senno ovviamente, in modo impulsivo come al suo solito, distruggendo quella ragazza.
Lei avrebbe dovuto rimanere nelle quinte come al solito, in attesa.
Aspettando che sua figlia le chiedesse aiuto.
Solo allora avrebbe potuto fare qualcosa.
Perché una madre è anche questo.
 
Ragazzi, voi non avete idea di quanto sia stato impegnativo questo capitolo. Ho lasciato il punto interrogativo perché come avrete visto i personaggi di questa shot sono più di uno. Spero che vi sia piaciuto. Mi dispiace non aver postato prima, ma spero che l’attesa sia valsa la pena. Il titolo “chimera” indica un miraggio che si tenta invano di raggiungere. La storia non riguarda la maternità di Oscar e se devo dire la verità, pensavo che fosse troppo scontato.
Il nome della sorella è inventato (licenza letteraria…) ma spero che la lettura vi sia piaciuta. Il tono è meno pesante dei capitoli riservati a Maria Antonietta, giusto per smorzare il pathos dei capitoli precedenti.
Allora vorrei ringraziarvi per avermi seguito fino a questo momento.
Un grazie a coloro che hanno messo la storia tra le preferite :
 
1 - bra92 [Contatta]
2 - EllyBelly [Contatta]

 
Grazie a chi ha messo la storia tra le seguite:
1 - kikkisan [Contatta]
 
Grazie a chi ha messo la storia tra le ricordate:
1 - Beatrix_ [Contatta]
2 - Lisanechan [Contatta]

 
Grazie a coloro che hanno recensito:
JuilletEnRose
 pry
lady in blue
Ninfea Blu
Beatrix_
Zapotec
 fighterdory
kikkisan
 
A tutti, faccio i miei più sentiti ringraziamenti per aver letto la mia storia, la prima di una certa lunghezza che ho pubblicato e alla quale tengo particolarmente. Grazie ancora
cicina

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