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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** secondo capitolo ***
Capitolo 3: *** terzo capitolo ***
Capitolo 4: *** quarto capitolo ***
Capitolo 5: *** quinto capitolo ***
Capitolo 6: *** sesto capitolo ***
Capitolo 7: *** settimo capitolo ***
Capitolo 8: *** ottavo capitolo ***
Capitolo 9: *** nono capitolo ***
Capitolo 10: *** decimo capitolo ***
Capitolo 11: *** undicesimo capitolo ***
Capitolo 12: *** dodicesimo capitolo ***
Capitolo 13: *** tredicesimo capitolo ***
Capitolo 14: *** quattordicesimo capitolo ***
Capitolo 15: *** quindicesimo capitolo ***
Capitolo 16: *** sedicesimo capitolo ***
Capitolo 17: *** diciassettimo capitolo ***
Capitolo 18: *** diciottesimo capitolo ***
Capitolo 19: *** 19o capitolo ***
Capitolo 20: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
Leucemia 1
Disclaimer:
Numb3rs non appartiene a me. Peccato. E non mi
appartengono neanche le piccole sezioni delle canzoni che iniziano
ciascun
capitolo.
Timeline:
Seconda o forse anche terza stagione. Non tanto
importante.
E mille grazie di nuovo a
Alchimista che ha fatto e sta facendo un buonissimo lavoro correggendo
questa
storia! …E no, non cambierò l’aggettivo
“geniale” in un altro per descriverla :)
Capitolo
1
We stood side
by side,
each
one fightin' for the other.
And
we
said until we died
we'd
always be blood brothers.
(Bruce
Springsteen, Blood Brothers)
Il
telefono
suonò. «Eppes».
«Hey,
Charlie,
come stai?»
Era
suo
fratello Don.
«Benissimo,
se
non ci fosse tutto questo stress per le tante cose da fare. Allora sii
breve.
Perché mi hai chiamato?»
«Avremmo
bisogno del tuo aiuto, Charlie».
Charlie
sogghigno. Chissà per quale ragione aveva immaginato una
cosa simile.
«Questo
già lo
so. Altro?».
Da
quando Don
si era accorto di come le capacità matematiche di suo
– in questo aspetto così
talentuoso – fratello potevano aiutare lui e il suo team,
erano passati pochi
casi nei quali non le avevano impiegate. E Charlie amava aiutarli, per
varie
ragioni. Certo, era felice di contribuire con la sua matematica alla
soluzione
di vari crimini, ma trovava anche molto avvincente essere sempre
lì da vicino.
E infine – anche se poco tempo prima avrebbe riso se qualcuno
gliel'avesse
detto – gli piaceva lavorare insieme a suo fratello e
soprattutto poter
ottenere l'attenzione di quello, qualche volta.
Anche
dalla
voce di Don si poteva sentire che stava sogghignando per la sua
risposta. «Stai
forse dicendo che noi saremmo completamente imbranati senza di
te?».
In
effetti
questo succedeva spaventosamente spesso, soprattutto quando avevano
bisogno di
risultati velocemente – e in ogni caso, quando avevano a
disposizione
abbastanza tempo?
Don
diventò
serio di nuovo. «Si tratta di due casi di morte abbastanza
strani in una
struttura che un tempo ospitava missionari cristiani a Santa Barbara.
Adesso lì
si trova un ospedale privato e nella settimana scorsa due pazienti sono
morti
d’influenza anche se erano ricoverati lì per altre
ragioni; e anche altri
pazienti sono stati infettati dal virus. Abbiamo avuto una segnalazione
anonima
e volevamo verificare quanto fosse corretta. Può darsi che
sia l'opera di
qualsiasi serial killer pazzo. Però non escludiamo per ora
che possa essere
bioterrorismo».
«E
cosa devo
fare io in questa faccenda?»
«Abbiamo
pensato che forse potresti capire come queste persone hanno potuto
infettarsi».
«Certo,
non
dovrebbe essere un problema. Però, per questo avrei bisogno
di più di
informazioni. Devo parlare con le persone ammalate».
«Okay»
rispose
Don, sorridendo tra sé. Appena qualche istante prima Charlie
si era lamentato
dello stress e adesso ne aveva accettato ancora di più. No,
questi professori –
soprattutto suo fratello – probabilmente non li avrebbe mai
capiti.
«Megan
ed io
vogliamo andarci comunque. Verremo a prenderti, dato che la CalSci
è di
strada». E
inoltre, in quel modo è più
sicuro per tutti gli utenti del traffico,
pensò Don e ridacchiò.
Pochi
minuti
più tardi Charlie salì nella macchina dei due
agenti dell’FBI. Durante il
percorso per l’ospedale privato i due gli diedero
informazioni circa i
differenti quadri clinici dei pazienti. Una delle vittime, una donna
sulla
tarda cinquantina, era stata ricoverata a causa di una spalla
fratturata.
L'altra vittima, un uomo anziano, aveva sofferto del morbo di Alzheimer
ed era
stato in ospedale solamente per un controllo pratico. Gli altri malati
avevano
malattie di ogni sorte: fratture, danni ad organi, malattie della
pelle.
C’erano a mala pene due persone che soffrissero dello stesso
male.
Arrivati
nel
piccolo ospedale, fecero visita per prima a Jessica Hayles, una donna
di circa
35 anni, che era stata ricoverata per delle bruciature non molto gravi
e che,
adesso, soffriva d'influenza già da più di una
settimana. I tre si presentarono
con i loro nomi e Don e Megan mostrarono alla donna i loro distintivi.
Poi,
chiesero le domande.
Charlie
notò
velocemente ogni dettaglio: da quando Mrs Hayles soffriva
d’influenza, che
farmaci aveva preso, perché era stata portata proprio in
quell'ospedale e tanto
altro. Per i suoi calcoli, ogni dettaglio poteva essere importante.
Infine,
quando Don e Megan sembravano aver finito e stavano per alzarsi
continuò lui a
fare domande.
«E
come,
esattamente, si è fatta queste bruciature?»
Mrs
Hayles, che
ovviamente aveva dimenticato la sua presenza, si voltò verso
lui in una
confusione blanda. «E' importante?»
Dicendo
questo
guardò di nuovo Don e allora quello dette la risposta.
«Tutto può essere
importante».
«Va
bene. E'
successo quando stavo cucinando. Volevo fare degli spaghetti, quando la
pentola
mi è scivolata dalle mani. Potete immaginare dove
è finita l'acqua bollente,
alla fine».
Charlie
annuì
scrivendo. «Lei ha una famiglia?»
La
donna lo
stava fissando. «Mi dica un po', chi è
lei?»
Charlie,
che
era stato a grattarsi il naso, guardò in alto staccando gli
occhi dalle sue
informazioni. Non l'aveva detto all'inizio? Arrossì
leggermente. Questa donna
aveva dovuto considerarlo un imbecille, forse un novellino dell'FBI.
«Io
sono un
matematico e occasionalmente aiuto l'FBI in qualche caso»
rispose nel modo più
dignitoso e allo stesso tempo più modesto possibile, una
prestazione che non
era di certo facile.
Jessica
Hayles
annuì come se avesse capito, ma la sua bocca rimaneva aperta
e Charlie credette
di poter di intuire dietro la sua espressione che la donna si stava
chiedendo
come, per tutto il mondo, un matematico potesse scoprire da dove veniva
il
virus.
Gli
interrogatori dei pazienti e del personale dell'ospedale
occupò quasi tutto il
pomeriggio e non solamente loro, ma anche i due agenti dovevano spesso
esser
pazienti quando Charlie voleva sapere di nuovo tutti i dettagli.
Più tardi
diventava, più irritati diventavano loro finché
Don non riuscì più a tenere per
sé i suoi pensieri.
«Charlie,
stai
esagerando!» l'ammonì quando lasciarono la
penultima stanza «Devi davvero dare
talmente fastidio alla gente con le tue domande?»
«Vuoi
avere una
formula alla fine, sì o no? E già i Greci antichi
lo sapevano: per aspera ad
aspra, se si vuole aver successo, si devono superare gli
ostacoli».
Con
questo, Don
dovette ammettere la sua sconfitta. Ma in fondo sapeva anche lui che
Charlie
aveva ragione.
Finalmente
e
senza poterci ancora veramente credere avevano finito e tutti e tre si
avvitarono alla loro macchina. Appena usciti dall’edificio
sotto il sole di
primavera, Charlie inciampò e sarebbe caduto se Don non
l'avesse preso.
«Ehi,
piano» lo
canzonò sorridendo – il sole aveva cacciato il suo
malumore in un attimo – e
aggiunse: «Credo che ti abbiano insegnato a camminare,
no?»
Però,
il sorriso
di Charlie gli sembrava un po’ troppo insicuro.
«Eh,
stai
bene?» si assicurò con un alito di preoccupazione,
ma il ghigno di suo fratello
stava già aumentando di sicurezza.
«Certo,
perché
no? O ti aspetti sul serio che io rida alle tue battute
banali?»
Con
questo
lasciarono perdere il discorso e i tre ripartirono.
Megan e Don lasciarono scendere Charlie a casa sua; poi andarono nel
loro
ufficio, mentre Charlie si appartò nel garage per inserire
tutte le
informazioni nel suo computer. A turno sedeva davanti al computer
oppure si
spostava davanti alle lavagne senza fare attenzione ai dolori nelle
membra e
nella testa che si erano appropriati di lui. E poi successe.
Partendo
dai
bordi del suo campo visivo, una foschia nera e impenetrabile si diffuse
davanti
agli occhi di Charlie. Sentiva come se tremasse un po' e si tenne alla
lavagna.
Il tremolio finalmente finì e lui lasciò la presa
dal suo appoggio. Aveva
appena fatto così che la foschia nera calò su di
lui con tutta la sua forza e
senza che se ne rendesse conto cadde sul terreno di pietra freddo.
Charlie
aprì
gli occhi. Si accorse immediatamente che qualcosa non andava. Era
confuso.
Nonostante tutto stesse girando, Charlie poteva distinguere che la
prospettiva
che se gli presentava davanti era molto inconsueta. Chiuse di nuovo gli
occhi,
un po’ per le vertigini, un po’ perché
non dovesse più sopportare
quell'angolatura.
Cosa
era
successo? Si era messo in qualche modo in una contrazione
spazio-temporale,
forse? Se solo Larry fosse stato lì; lui sarebbe stato
sicuramente in grado di
spiegargli tutto, era sempre stato in grado di spiegargli tutto
talmente bene.
Va be', a volte si esprimeva in modo alquanto criptico, ma nonostante
questo
era sempre stato di grande aiuto per lui.
Però
non
adesso. Adesso Charlie doveva trovare da sé una soluzione.
Doveva trovare da
solo l'errore. Perché qualsiasi cosa fosse non era giusta. E
inoltre aveva
dolori ovunque. Ma perché?
Forse
è
a causa della superficie dura su cui mi trovo,
pensò Charlie
tra sé.
Superficie
dura? Ma il suo letto era morbido! Era sempre stato morbido finora!
Forse
qualcuno aveva rubato il materasso? (Se era così, era stato
sicuramente Don!)
Cautamente
Charlie guardò attorno a sé. Ovvio che fosse
talmente duro. Lì, sotto di lui,
non c'era un letto. C'era la terra.
Charlie
si
raddrizzò e represse le vertigini. Era vero. Era sdraiato
sul terreno, nel suo
garage, non sul suo letto. Come era possibile che gli fosse successo
una cosa
così?
A
scanso di
equivoci rimase seduto ancora per qualche minuto. Quando finalmente le
vertigini se ne furono completamente andate si mise in piedi,
raccogliendo da
terra i fogli che, a quanto pareva, aveva preso con sé
quando era crollato.
Tutto
ciò di
cui aveva bisogna adesso era dormire. Ma nonostante si sentisse
completamente
stanco, Charlie non credeva di essere in grado di addormentarsi in quel
momento. Nella sua mente c’era troppo chiasso, la domanda
“cosa diavolo mi
stava succedendo?” continuava a ronzare opprimente. Si
sentiva malato e
barcollava sui suoi piedi già da un po’ di tempo.
Aveva creduto che il suo
corpo potesse andare in tilt per una qualsiasi ragione, ma non si
aspettava di
certo qualcosa di simile.
E
anche
un'altra attesa non era diventata realtà: quando Charlie ce
l'aveva finalmente
fatta ad arrancare al piano superiore, nel suo letto – per
fortuna suo padre
stava già dormendo da tempo! – l'effetto
dell'adrenalina era scomparso del
tutto perché il suo corpo sconfisse la sua mente e Charlie
si addormentò
profondamente.
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Capitolo 2 *** secondo capitolo ***
leucemia 2
Ciao!
E mille grazie a tutti che
hanno letto e anzi recensito questa storia! Spero che non vi
deluderò…
CAPITOLO
DUE
I
wonder how,
I
wonder why.
(Fools'
Garden, Lemon Tree)
Quando
si
svegliò la mattina seguente, Charlie si sentiva uno
straccio. Aveva ancora
dolori dappertutto e si sentiva come se avesse della febbre. Si
toccò la
fronte. No, sembrava tutto normale; grazie a Dio! Aveva talmente tanto
da fare,
in ogni caso: non aveva alcun bisogno di una malattia.
Siccome
aveva
ancora un po’ di tempo fino alla sua prima lezione,
tentò un po’ di risolvere i
problemi sulla lavagna in garage. Il computer non aveva ancora finito
la sua
parte di lavora durante la notte, ma malgrado questo Charlie non ebbe
tempo di
annoiarsi. Fece qualche calcolo alla lavagna finché non si
fece ora di
raggiungere la CalSci.
Nel
pomeriggio
presto aveva già concluso per quel giorno e tornò
a casa. Finalmente anche il
computer aveva adempiuto al suo dovere e Charlie riuscì a
seguire le tracce dei
virus. Questo doveva bastare al team come inizio, pensò tra
di sé, e andò alla
centrale dell’FBI.
I
quattro
agenti all’inizio non si accorsero di lui intenti a cercare i
possibili motivi
dell’assassino – se ce n’era davvero uno.
«Forse
una
degli infermieri…?» stava proponendo Megan.
«Non sarebbe la prima volta:
qualcuno che danneggia qualcun altro per smania di mettersi in luce,
perché vuole poi mostrarsi come un eroe. E per un
infermiere sarebbe
stato facilissimo far circolare i virus fra i pazienti, no? Avrebbe
potuto dire
che erano antidolorifici o qualcosa di simile».
«E’
possibile…»
si intromise Charlie e gli altri si voltarono a lui. Ignorò
l’improvvisa onda
di nausea che tentò di opprimerlo.
«…però non è perfettamente
adatto a quello
che ho trovato io».
«Ehi
Charlie.
Allora che cosa hai trovato?»
Charlie
si
avvicinò alla lavagna di magnete dove erano elencate le
informazioni più
importanti del caso.
«Sembra»
cominciò, «che i virus venissero somministrati ai
pazienti con delle medicine,
perché la maggior parte delle persone ammalate è
isolata dagli altri pazienti
che hanno l’influenza. Però non sono riuscito a
trovare un medicinale specifico
che potrebbe essere stato somministrato a tutti i pazienti.
Naturalmente è
possibile che il medicinale sia stato dato in segreto, ma per
distinguerlo si
dovrebbe analizzare il sangue di ciascuno degli ammalati.
Così ho cercato altre
possibilità. Se guardo la faccenda con l’aiuto del
mio sistema, sembra che
siano stati modificati col virus medicinali completamente diversi,
sempre
in modo di campioni, siccome tanti pazienti non hanno nessuna
sorta di
problema. Ecco i possibili medicinali che hanno causato le
malattie».
Si
voltò verso
la lavagna per elencare i diversi medicinali che a suo giudizio
dovevano essere
tenuti in considerazione come mezzo di trasporto per i virus. Le stelle
stavano
danzando davanti ai suoi occhi, ma le ignorò.
Si
voltò di nuovo
verso il team. Aveva già aperto la bocca per dare ulteriori
spiegazioni, quando
una nuova ondata di nausea lo travolse. Per un attimo stette
semplicemente in
piedi tra la lavagna e il team, tentando di reprimere il conato
finché non ce
la fece più.
«Scusatemi
un
attimo» biascicò e scappò dalla sala
verso bagno degli uomini.
David,
Colby,
Megan e Don si guardarono l’uno l’altro in
confusione.
«Ma
che
cos’ha?» chiese David, ma nessuno sapeva una
risposta. Tutti volsero uno
sguardo interrogativo a Don.
«Penso
che sia
meglio che lo segua» mormorò Don che si era
già levato a mezzo.
Nessuno
gli
contraddisse.
Quando
Don
entrò nel bagno dei maschi non ci volle molto per trovare
Charlie. Senza
esitare andò verso la cabina da cui si potevano sentire i
suoni di vomito e bussò
alla porta.
«Ehi
Charlie? Stai
bene?»
Tosse
e affanno
da dentro. E poi finalmente la risposta. «Certo. Non sono mai
stato meglio».
Don
non sapeva
che cosa pensare. «Dimmi un po’, sei incinto
o cosa?»
Invece
di una
risposta Don sentì la sciacquatura della toilette e poi il
suono metallico
della chiusura. La porta si aprì e Charlie uscì.
«Anche
tu
avresti dovuto accorgerti finora che dagli homo sapiens sono le femmine
che
diventano incinte».
Se
non fosse
stato così pallido, Charlie ce l’avrebbe quasi
fatta a far credere a suo
fratello che tutto fosse a posto. Ma siccome le cose erano
così, Don toccò la
fronte umida di sudore di Charlie malgrado la resistenza di quello.
«Hai
la febbre»
constatò poi in modo serio.
«E
anche se
fosse?» Charlie lo sbrigò.
«Finché non svengo non me ne importa».
Don
credette di
aver capito male.
«Sei
matto o
cosa?! Quando sverrai sarà forse già troppo
tardi!»
«Posso
vivere
con questo rischio».
«No,
Charlie,
con questo rischio puoi morire! Non ti ricordi come la
mamma…»
«Ma
dai, non
esagerare!» ribatté Charlie in modo impaziente e
irritato. Qualche volta lo
snervava davvero il fatto che il suo fratello maggiore si arieggiasse
tanto a
suo protettore.
«Dobbiamo
tornare dagli altri» tagliò corto Charlie.
Così
dicendo si
mosse con decisione attraverso il corridoio, seguito da vicino da Don.
Dopo
quell’increscioso incidente i fratelli tornarono
nell’ufficio in silenzio. A
Don tornò alla mente quell’incidente davanti
all’ospedale, e i due casi che
erano così innocui di per sé, ottenevano, messi
insieme, una causticità
spiacevole. Certo, conosceva quel proverbio delle lucciole e delle
lanterne, ma
qualcosa gli diceva che c’era qualcosa che non andava.
Osservava suo fratello
accuratamente, ma quello non dava a vedere neanche la più
minima debolezza.
Arrivato
alla
sala di conferenza continuò la spiegazione della sua teoria
come se non fosse
successo niente. Ma Don non fece più attenzione alle sue
parole, ma piuttosto
ai suoi gesti e al suo aspetto. Charlie era sempre pallido, ma questo
non era
tutto. I suoi movimenti erano più stanchi, le spalle erano
spostate un po’ in
avanti come se fossero sotto un carico invisibile. E più
volte Don colse suo
fratello quando quello, apparentemente per coincidenza, si appoggiava
leggermente contro la lavagna o si aggrappava al tavolo, probabilmente
per
procurarsi così di un po’ di appoggio.
All’improvviso
fu strappato dalle sue osservazioni. Tutti lo guardavano.
«E
che cosa ne
pensi tu, Don?» lo stava incitando Megan.
Don
tentò di
non arrossire. Apparentemente Charlie aveva appena spiegato il punto
più
importante della sua teoria e gli altri avevano detto che cosa ne
pensavano.
«Eh…
che cosa
dico di che cosa?»
«Dimmi
un po’,
hai ascoltato ciò che ho detto?» Charlie sembrava
un po’ irritato.
«Certo.
È
solamente la fine che non ho ben capito».
Megan,
David e
Colby si guardarono. Secondo loro Charlie si era espresso molto
chiaramente. I
due fratelli si comportavano stranamente quella mattina.
«La
fine non
l’hai ben capita» Charlie ripeté pieno
di scetticismo. «Allora dimmi un po’ che
cosa è talmente incomprensibile quando dico “Penso
che sia l’opera del
fornitore di medicinali”?»
Il
cervello di
Don lavorava a massimo, cercando una risposta adeguata. Non trovava
niente.
«Eh
beh» cercò
di cavarsela, «perché dovrebbe farlo?»
«E’
lavoro
vostro di trovare i motivi».
«Sì…
sì, certo.
Hai veramente fatto un lavoro eccellente».
Il
desiderio di
essere gentile con suo fratello era venuto completamente
all’improvviso. Quando
si era accorto di quanto male stava Charlie già in
apparenza. Si alzò e gli
dette un colpetto sulla schiena.
«Sono
contento
di poter sempre contare sul tuo aiuto».
Charlie,
confuso, fece un passo indietro, fissandolo per qualche secondo, senza
parole.
«Dimmi
un po’,
sei diventato un po’ matto?» chiese poi.
Non
sarebbe
stato giusto dire che Don non l’aveva mai ringraziato, no. E
Charlie era
contento quando Don gli mostrava la sua gratitudine. Ma ora stava
esagerando un
po’.
«Perché
me lo
chiedi? Non posso essere gentile con il mio fratellino per una
volta?» Diventò
di nuovo serio di colpo. «Vieni qua per un attimo?»
E
senza
aspettare risposta tirò un Charlie confuso con sé
nella cucina, lontano dai
suoi colleghi, finché non furono soli.
«Cosa
intendi
fare ancora oggi?»
Charlie
aggrotto la fronte. Dove - per tutto il mondo - voleva andare a parare
Don?
«Devo
ancora
andare al CalSci» rispose esitando.
«Ah
sì». Una
pausa minima. «E non sarebbe meglio se ti riposassi un
po’? Penso che lo stress
non ti faccia bene».
Ecco
come
stavano le cose! Don si preoccupava ancora a causa di quello stupido
attacco di
nausea di prima!
«Lascia
perdere» rispose Charlie con un sorriso cauto.
Voleva
andarsene il più velocemente possibile. Tutta quella storia
davanti ai colleghi
di Don era stata abbastanza imbarazzante per lui. E inoltre voleva
evitare che
Don facesse ancora altre domande.
«Adesso
devo
andare. In bocca al lupo!» aggiunse quando passò
oltre il team e scivolò tra le
porte dell’ascensore.
Don
uscì dalla
sala e lo guardò senza avere la minima idea di cosa pensare
finché si accorse
che c’era silenzio attorno a lui. Accidenti, i suoi
colleghi lo stavano
osservando! Meglio se fingeva di stare a riflettere sul caso.
«Avete
un’idea
voi?» chiese, deliberatamente senza contesto.
«Di
che cosa
stai parlando?» chiese Megan. «Il caso o
Charlie?»
«Naturalmente
il caso» rispose Don troppo candido se fosse stato lui a
giudicare. «Perché,
cosa c’entra Charlie?»
Avrebbe
dovuto
essere chiaro a Don che non credevano alla sua spensieratezza. Ma
adesso non se
ne importava. Sarebbe stato in grado di deviarli di questa faccenda. I
suoi
affari privati non erano affar loro. Inoltre probabilmente non
c’era niente di
che preoccuparsi. Probabilmente Don stava semplicemente di nuovo
esagerando e
si preoccupava più del necessario come se sospettasse sempre
che ci fossero
guai ovunque. Era un’abitudine di lavoro diffusa un
po’ in tutta l’FBI. Sì - si
persuase Don - probabilmente non c’era niente. Charlie aveva
semplicemente un
giorno brutto. Ne avevano uno tutti ogni tanto.
«In
ogni caso
proporrei di scoprire chi fornisce l’ospedale di medicinali
e…»
«Ma
Charlie
l’ha già detto!» intervenne David.
«Quel farmacista di George Street. Come si
chiamava?»
«Glennfield»
rispose Colby subito.
«Sì,
esatto»
prese di nuovo parola Don, chiedendosi nello stesso istante quanto
avesse
ancora perso del discorso del fratello. «Propongo di andare
da lui per
interrogarlo».
La
proposta -
che Don effettivamente aveva fatto solo perché non aveva
potuto pensare ad una
cosa migliore in quel momento - fu accettata e così lui e
Megan se ne andarono,
mentre Colby e David cominciarono a cercare ulteriori informazioni
sulla
fornitura di medicinali e sulla farmacia.
|
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Capitolo 3 *** terzo capitolo ***
Leucemia 3
Grazie a tutti quelli che hanno letto
e mille grazie anche a quelli che hanno anzi recensito la storia! Mi date
veramente del coraggio per continuare a scrivere!
Perciò spero di non evocare
false speranze…
CAPITOLO TRE
And what
once seemed black and white
turns to so
many shades of grey.
We lose
ourselves in work to do,
in work to
do and bills to pay.
(Bruce
Springsteen, Blood Brothers)
«Sei preoccupato per Charlie,
vero?» chiese Megan dopo appena un minuto nella macchina.
Don, che nonostante tutto aveva
deciso di guidare, resistette alla tentazione di levare, snervato, gli occhi al
cielo. Sì, si chiedeva cosa stava succedendo con il suo fratello minore. Ma non
ne avrebbe parlato con nessuno.
«Dovrei?» chiese perciò con una
seconda domanda, cambiando immediatamente l’argomento «Dove ha detto che si trova
questa farmacia Charlie?»
«In George Street… Credi che i
medicinali fossero già manipolati lì, prima di giungere in Ospedale?»
Il diversivo aveva funzionato!
Va bene, forse Megan aveva solamente compassione per lui.
«Non lo so. Ma spero di
scoprirlo adesso».
Non parlarono per la restante
corsa e Megan non sembrava più pensare all’incidente nell’ufficio. Anche Don
fece tornare i sui pensieri al caso. Però si ripromesse di avere un occhio di
riguardo verso Charlie durante i prossimi giorni.
Parcheggiò la vettura
direttamente davanti all’entrata della farmacia ed entrò con Megan.
«Buongiorno» salutò Megan e
mostrò, come Don, il distintivo. «FBI. Vorremmo parlare con il signor
Glennfield».
La giovane farmacista bionda
aveva guardato i distintivi con occhi spalancati e mormorò confusa «Un attimo,
per favore» prima di recarsi in magazzino.
Pochi attimi dopo al suo posto
ritornò al banco un uomo sulla tarda quarantina con capelli già un po’
incanutiti.
«Buongiorno. Siete, come mi è
stato detto, dell’FBI?»
«Sì, sono l’agente speciale Don
Eppes e questa è la mia collega Megan Reeves. Abbiamo sentito che lei fornisce
l’ospedale di medicinali».
«E’ giusto. Perché me lo
chiede?»
«Recentemente ci sono stati
spiacevoli incidenti in quell’ospedale» rispose Megan. «Alcuni dei medicinali
sembrano esser stati manipolati con dei virus dell’influenza».
«Manipolato? Ma chi farebbe una
cosa simile?»
«Siamo qui per scoprirlo. Lei
può dirci chi avrebbe la possibilità di compiere una manipolazione di questo
tipo?»
«Nessuno della mia farmacia.
Metto la mano sul fuoco per i miei impiegati. Qui vendiamo gli stessi
medicinali che mandiamo anche a questo ospedale, in fondo quella struttura non
ne ha bisogno di così tanti. E finora i miei clienti non si sono mai lamentati
di aver contratto l’influenza».
«Dunque lei presume che i virus
fossero inseriti nei medicinali nell’ospedale e non prima?» ritornò alla carica
Don.
«Eh beh, non sarebbe il primo
scandalo per quest’ospedale».
Megan e Don si rivolsero
uno sguardo sorpreso. Questo era nuovo per loro.
«Cosa vuol dire?» volle sapere
Megan.
«Eh beh, ho sentito che lì hanno
lavorato sporco già più volte. Ma io non voglio incolpare nessuno di nulla,
eh».
Ci avrebbero scommesso. Ma
naturalmente Don voleva raccogliere ulteriori informazioni anche qui.
«Come si svolge esattamente la
fornitura dei medicinali?»
«Dunque, ogni settimana
riceviamo dall’ospedale una lista dei farmaci che desiderano. Naturalmente
capita che all’ultimo momento aggiungono ordinazioni urgenti. Mandano un
fornitore che viene a prendere i medicinali preparati».
«E chi vi ha accesso finché non
vengono presi?»
«Eh beh, in teoria chiunque. Ma
ovviamente si nota se gli impacchi sono aperti».
«Allora sarebbe possibile che la
manipolazione fosse già stata eseguita durante la produzione?» rifletté Megan.
«Come ho detto, i miei clienti
non si erano mai lamentati. E anche da altre parti non ho sentito niente di un’epidemia
di influenza, capito? E sarebbe una coincidenza piuttosto improbabile se tutti
i medicinali manipolati giungessero in proprio quell’ospedale. Avete già
verificato se un paziente influenzato é stato portato in quell’ospedale? Probabilmente hanno semplicemente
usato strumenti non propriamente disinfettati».
«Controlleremo anche questo» gli
assicurò Megan e i due agenti si congedarono.
«Avete trovato qualcosa?» chiese
Don a David e Colby appena arrivarono in ufficio.
«La ditta che fabbrica i medicinali
è a posto» rispose Colby. «Non ci sono altri casi strani oltre che in
quell’ospedale».
«Intanto parecchi pazienti hanno
sporto querela; tra di loro c’è anche la famiglia della donna morta» li informò
David.
«Allora cominciano a venire nei
guai» osservò Don. «E siccome è una clinica privata non sarebbero contenti se
la loro reputazione venisse rovinata e perdessero pazienti. Non è una sorpresa
che non abbiano voluto rendere pubblico questo scandalo».
«Ma se veramente l’ospedale è
responsabile per queste contaminazioni» osservò Megan «si danno l’accetta sui
piedi. Però potrebbe anche essere un infermiere che persegue motivi propri…».
Don si ricordò le parole di
Glennfield: «O il farmacista aveva ragione e i virus non erano liberati
intenzionalmente ma inavvertitamente. Dovremmo verificarlo. E dovremmo
controllare in modo particolare i fornitori».
Colby sbadigliò. «Per me va
bene. Ma lo faremo domani, okay? Per oggi potremmo semplicemente terminare?»
Nessuno ebbe qualcosa in
contrario.
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Capitolo 4 *** quarto capitolo ***
Leucemia 4
Ma come siete forti! Gioisco ogni volta come un bambino
quando leggo le vostre recensioni! Mille grazie!
Per dare una risposta in ritardo: no, io non vado in
vacanze, almeno non per più di qualche giorno. Ma molto divertimento a quelli
che vanno in vacanze!
E spero che abbiate anche molto divertimento leggendo il
prossimo capitolo…
CAPITOLO QUATTRO
Can you find my
pain?
Can you heal
it
and lay your
hands upon me know
and cast
this darkness from my soul?
You alone
can light my way.
You alone
can make me whole
once again.
(Don McLean,
Crossroads)
Charlie cadde nel suo letto,
sentendosi stremato come non si sentiva da tempo. Eppure era solo sera presto e
la giornata non era stata più faticosa del solito. Quando era ritornato
dall’FBI aveva solo preparato le sue lezioni per il giorno dopo e letto qualche
saggio. Nonostante ciò, si sentiva completamente strapazzato. Doveva davvero
fare di più per la sua salute. Forse fare di nuovo dello sport… camminare …
La porta si aprì e appoggiata
allo stipite, Charlie vide sua madre. Levò gli occhi verso di lei, assonnato e
confuso, ma sentendosi così bene come non si era sentito da giorni.
«Buon giorno, tesoro» disse con
una voce chiara come un campanello eppure dolce, così bella come solo una madre
poteva avere una. «Hai ben dormito?»
Come se tutto fosse normale lei
tirò le tende e lasciò entrare il sole.
«Mamma…» Charlie era
estremamente confuso. «Cosa fai qui?»
«Volevi esaudire un mio
desiderio, l’hai già dimenticato?»
Charlie riflesse assiduamente.
«Sì…» ammesse infine, «l’ho dimenticato». Non aveva idea di che cosa stesse
parlando sua madre.
Lei gemette, sedendosi sulla
sponda del suo letto.
«Non puoi provare ad indovinare,
Charlie?» chiese con un sorriso triste. «In altre occasioni sei sempre stato
quello che precedeva gli altri di un palmo». Sorrideva, presa dai suoi ricordi.
«Sono sempre stata così fiera di te, e naturalmente anche di Don. Veramente non
lo sai che cosa desidero che tu faccia?»
Charlie scosse il capo. Non
riusciva a pensare chiaramente.
Margaret gemette di nuovo. «Sai
quanto mi mancate? Tu, Don e vostro padre?»
«Manchi anche a noi, mamma».
Lo disse sul serio, ogni parola.
Eppure riuscì a dirlo senza che la memoria gli stringesse la gola o gli fosse
venuto da piangere.
Sua madre sorrise tristemente,
guardando il lenzuolo bianco. «Allora puoi immaginare quanto mi dispiaccia di
non esser andata da un dottore allora. Mi sono rimproverata talmente tanto di
avervi lasciati soli… Ho volevo semplicemente essere forte, capisci? Sì… sì, lo
capisci. Purtroppo. Non ho voluto mostrare agli altri la mia debolezza,
soprattutto a voi. Non dovevate preoccuparvi. E’ per questo che non sono andata
dal dottore per così tanto tempo. Volevo essere forte. Forte e coraggiosa. E
che cosa sono stata, invece? Una stupida».
Charlie avrebbe voluto
contraddirla, ma Margaret non lo lasciò parlare.
«No, ascoltami, Charlie, per
favore: non abbiamo molto tempo. E’ stato stupido da parte mia non farmi
esaminare subito. E non ha niente a che fare con il coraggio di credersi forte.
Al contrario. Il coraggio è ammettere la verità, a sé stesso e agli altri. Il
coraggio è scoprire che piani il destino ha per ciascuno di noi e farsi
incontro a questo. Lottare. Capisci che cosa voglio dirti?»
«Sì, penso» rispose Charlie
esitando, «ma non so ancora cosa vuoi che faccia».
Margaret gemette una terza volta
prima di continuare in modo insistente. «Aspetto con ansia il giorno in cui
saremo tutti di nuovo insieme, Charlie, ma quel giorno non è ancora arrivato!
Devi farti controllare il più presto possibile, mi hai capito? Devi vivere,
Charlie! Non puoi fare questo a tuo padre e tuo fratello, non possono perdere
anche te! Sai cosa gli faresti? Non devi lasciarlo succedere, Charlie: devi
andare da un dottore! Me lo prometti? Promettimelo, Charlie! Charlie! Charlie…»
Charlie aprì gli occhi. Guardò
attorno a sé, turbato. Sentiva ancora qualcuno accanto a se, ma non stava più
sognando…
«Allora, sei sveglio
finalmente?»
Suo padre stava in piedi accanto
al suo letto.
«Papà… cosa c’è?»
«Niente. Mi sono semplicemente
chiesto se non avevi lezione oggi».
«Accidenti…» Senza forza Charlie
batté sul suo guanciale. L’energia riacquistata nel suo sogno era stata
irreale, come tutto il resto. Istintivamente guardò verso la finestra. Le tende
erano chiuse. Di fuori infuriava il vento.
Camminò un po’ barcollando fino
alla porta. Suo padre lo guardò.
«Dimmi un po’, va bene tutto? Ho
dovuto scuoterti per un’eternità, prima di riuscire a svegliarti».
«Sì, sì: tutto okay… Avrei
semplicemente preferito continuare a dormire».
Alan rise. «Beh, succede a
tutti, Charlie. Ma bisogna stringere i denti e andare avanti!»
Saltando la colazione, Charlie
riuscì di arrivare alla sua prima lezione di quel girono senza un ritardo
considerabile. Subito dopo chiamò dal suo ufficio il suo medico di famiglia, il
dottore Steiner. L’assistente medico ascoltò con interesse fresco e
professionale il resoconto di Charlie e poté dargli un appuntamento già per
quel pomeriggio. Per fortuna Charlie a quell’ora non aveva lezioni, perché
altrimenti avrebbe dovuto dire dove stava andando.
La visita dal Dott. Steiner
cominciò quasi puntuale. Tuttavia per Charlie il tempo d’attesa sembrò
incredibilmente lungo, e automaticamente gli venne in mente come Albert
Einstein aveva tentato di spiegare la sua teoria della relatività alle persone
comuni. Non aveva alcun dubbio: in quel momento era seduto sulla stufa.
Per fortuna il dottore venne
velocemente al sodo dopo che Charlie ebbe di nuovo descritto le caratteristiche
della sua malattia e dopo un check-up veloce.
«Dunque… purtroppo i suoi
sintomi non lasciano tanto dubbio, Dottore Eppes».
Charlie trasalì un po’ quando il
medico gli chiamò con il suo titolo di dottore. Non veniva chiamato così molto
spesso.
«Purtroppo?» domandò.
«Sì. Apparentemente si sono già
create cellule maligne nel suo sistema nervoso centrale. Siccome soffre, come
mi ha detto, anche di stati di incoscienza e di vertigini sembra, inoltre, che
sia già arrivato al midollo osseo e da ciò risulta esserci l’anemia.
Naturalmente i sintomi potrebbero anche essere quelli di un’influenza, ma
deduco dalla sua cartella clinica che l’ultima volta ha ricevuto il vaccino sei
mesi fa. Dunque per quanto possibile, l’influenza è molto improbabile. Quindi i
sintomi devono condurci a qualcos’altro, tanto più perché ha evitato il
contatto fisico con le persone ammalate di influenza. Temo che qui abbiamo a
che fare con qualcosa di molto serio. Naturalmente non possiamo evitare
un’analisi del sangue, e dovrei anche eseguire la puntura del midollo osseo. Ho
il sospetto, Dott. Eppes, che soffri di LMA».
Charlie non aveva capito alcuna
parola. Però le fattezze deploranti del medico gli rivelarono abbastanza per
farsi un’idea.
Si schiarì la gola. «Dottore
Steiner – è vero che ho un dottorato, ma non in medicina. E non ho capito niente
di quello che ha spiegato».
Il medico sembrava un po’
imbarazzato, non solo perché aveva usato tanto inutilmente i suoi termini
professionali. Si era sentito ovviamente sollevato di aver finalmente
confessato quella diagnosi negativa e adesso gli ripugnava dire quella
spiacevole verità una seconda volta.
«Va bene» gemette. «Allora
voglio dirglielo in breve. Signor Eppes – con molta probabilità lei ha la
leucemia».
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Capitolo 5 *** quinto capitolo ***
Leucemia 5
Mille
grazie per il vostro interesse e per le vostre parole così
gentili! Però devo dirvi che Charlie ci metterà ancora un
sacco di tempo per dire la verità... allora vi prego di rimanere
pazienti...
CAPITOLO
CINQUE
Don't hang
on.
Nothing
lasts forever
but the
earth and sky.
It slips
away.
And all your
money
won't
another minute buy.
Dust in the
wind.
Everything
is dust in the wind.
(Kansas,
Dust in the Wind)
L’aria uscì in fretta dai
polmoni di Charlie. I suoni attorno a lui cessarono improvvisamente, mentre
riusciva solo a sentire un ronzare indefinibile che poteva anche semplicemente
venire dalla sua testa che girava.
«Leucemia» ripeté con una voce
atona.
«Sì. Più esattamente, parliamo
della leucemia mieloide acuta, in breve LMA. A differenza della leucemia
cronica, ci si può ammalare di quella acuta anche durante il corso della vita.
Senza un trattamento medicinale, la malattia di solito ha un decorso mortale.
Però, se cominciamo il più presto possibile con la terapia e se troveremo un
donatore adeguato, lei ha – credo – di certo ancora una chance di superare
questa malattia».
Di certo ancora
una chance...
Mille pensieri corsero tutti in
una volta nel cervello completamente sopraccaricato di Charlie. Mille domande
si formarono e mandarono le loro parole alla lingua fino a che la prima riuscì
a trovare la libertà attraversando le labbra inerti di Charlie.
«Vuol dire che l’LMA non è
trasmissibile dai genitori ai figli?» si assicurò con una voce che non
somigliava alla propria, pensando a sua madre.
«No, è stata contratta».
«Ma come?» bisbigliò Charlie.
«Dove, per tutto del mondo, ho potuto contrarre questa malattia?»
«Nessuno sarà capace di darle
una risposta a questa domanda. Attualmente stiamo ancora cercando le cause
della leucemia. Inoltre non posso essere sicuro della cosa al cento per cento.
Per questo adesso vorrei prelevarle del midollo osseo per farlo analizzare.
Solo così avremmo delle certezze».
Come se fosse in trance Charlie
si lasciò fare ogni cosa. Gli sembrava come se una nebbia lo imprigionasse. Non
si accorse affatto di tutto ciò che stava succedendo attorno a lui, finché il
dottore Steiner non gli parlò direttamente con voce insistente.
«Dovrà avere pazienza per due o
tre gironi finché i risultati dell’analisi del midollo osseo non saranno qui.
Le farò sapere immediatamente. Fino a quel momento la prego di non perdere le
speranze, ma allo stesso tempo di essere realistico. È malato, Dott. Eppes. E
se, contrariamente a tutte le attese, non fosse leucemia, allora sarebbe
un’altra malattia molto seria. Le raccomando di riposarsi un po’ e di stare
calmo. Se è davvero leucemia, non potrà evitare ulteriori stati di incoscienza.
In questo caso dovrà anche cercare un donatore di midollo osseo adeguato. Ha
fratelli o sorelle?»
Charlie annuì. «Don. È mio
fratello».
«Bene. Lo informi il più presto
possibile perché potremo fare i test necessari. E poi dovrà riposarsi e trovare
un momento di pace. Se vuole potrei anche mandarla in ospedale….»
«No. Non l’ospedale».
«Va bene. Ma lei deve prendersi
cura di sé, dottore Eppes! Vuole chiamare un membro della sua famiglia perché
la venga a prendere?»
Charlie scosse il capo in
silenzio.
«Sarebbe irresponsabile nella
sua condizione psichica e fisica, guidare una macchina» lo ammonì il medico.
«Non sono qui con la macchina»
mormorò Charlie. «Sono venuto in bicicletta. Tornerò a casa a piedi. Vuol dire
che prenderò con me la bici. Voglio dire, non andrò in bici. Prenderò la bici
con me. Ma non andrò in bici…».
Il peggio era che Charlie non si
accorse nemmeno di quanto stesse sragionando.
Pochi minuti dopo era su una
strada di Los Angeles. Dovette orientarsi per un attimo. Poi gli attimi
divennero di più. Nessuna delle strade gli sembrava familiare. Infine abbandonò
le speranze e semplicemente prese la direzione che gli sembrava il più
accogliente.
Tentava di comprendere quella
grossa verità. Non ci riusciva. Non capiva. LMA! Leucemia! Perché? Perché lui,
tra tutta quella gente? Perché non qualcun’altro?
E nello stesso istante Charlie
sentì quanto stupida e ingiusta fosse quell’autocommiserazione. Quella malattia
esisteva, punto. E c’erano persone che se ne ammalavano. Allora perché non
poteva capitare anche lui? C’era qualcosa che lo distingueva dalle altre
persone? Non era né migliore né peggiore di ogn’altra persona di questo mondo,
nonostante non volesse escludere che ci fossero un sacco di persone migliori di
lui.
Però una cosa Charlie la sapeva
con certezza: non voleva morire. Voleva vivere. E avrebbe fatto tutto per
seguire questo scopo. Non si sarebbe dato per vinto. Non sarebbe affondato nell’autocommiserazione.
Si sarebbe fatto incontro a questa sfida. E se non ce l’avesse fatta – eh beh’,
almeno aveva lottato.
Con sorpresa Charlie si accorse
che era già buio. I suoi pensieri avevano fatto camminare i suoi piedi per ore
senza che lui se ne fosse accorto. Il suo sguardo raggiunse un cartello
stradale e finalmente seppe di nuovo dove si trovava. Non riusciva a credere
quanto si fosse allontanato da casa sua.
Avrebbe
semplicemente potuto sedersi sulla sua bicicletta e sarebbe stato a casa in
mezz’ora. Però, il desiderio di camminare a piedi non era ancora svanito. E in
questo modo la passeggiata sarebbe durata un po’ di più.
A casa sua entrò il più
silenzioso possibile, dal garage. Non aveva alcuna voglia di rispondere a delle
domande su dov’era stato, anche perché il suo cammino di varie ore attraverso
la città esigeva il suo tributo in forma di sonno.
Non fu molto sorpreso di trovare
Don nel soggiorno.
«Ehi, Charlie, eccoti. Sei stato
nel garage tutto il tempo?»
Charlie emise un suono gutturale
che si poteva presumere significasse ”sì”.
«Volevo solo dirti che abbiamo
trovato il colpevole. Gli indizi bastano per arrestare quel farmacista, almeno
provvisoriamente. Anzi, ci ha anche dato un antidoto per quest’influenza.
Dovremo solo riprendere la sua deposizione. E tutto grazie al tuo aiuto».
L’agente sorrise e gli batté una
mano sulla spalla. A Charlie ci volle un po’ per ricordarsi di cosa stesse
parlando suo fratello.
«Ah… sì. Grandioso» rispose,
ancora assorto nei suoi pensieri.
E ad un tratto cominciò di
nuovo. Accidenti, non poteva lasciar starlo, per una volta? La stanza sembrava
girare, diventava sempre più veloce, la faccia di Don davanti ai suoi occhi
sfumò.
Cercando un appiglio, mezzo
cieco, Charlie allungò le braccia. Eccolo qua, c’era qualcosa di solido. La sua
mano si aggrappò a del legno. Doveva essere il tavolo da pranzo, rifletté la
grande parte del suo cervello responsabile delle deduzioni logiche. Un secondo
– o mezz’ora? – dopo sentì una presa ferrea attorno al suo omero. Pian piano il
mondo cessò di girare e Charlie riuscì ad ascoltare le parole che qualcuno gli
stava dicendo.
«…sentirmi? Charlie!»
Con uno sguardo barcollante,
Charlie ripercorse la mano dal suo omero e si accorse che apparteneva a Don
così come quegli occhi puntati su di lui che lo guardavano in modo preoccupato
da sotto una fronte corrugata.
Charlie sentiva che attendeva
una risposta di lui. «Tutto bene» lo rassicurò, e avrebbe dato chissà cosa per
evitare di biascicare quelle parole.
Lo sguardo di Don rimase
invariato. «Che cos’hai recentemente?» Fece una pausa. «Ti sei forse contagiato
con quei virus d’influenza?»
«Chi si è contagiato
coll’influenza?»
Come se fosse apparso da nulla
Alan entrò. I suoi figli risposero contemporaneamente.
«Charlie» disse Don.
«Nessuno» disse Charlie.
Alan li osservò entrambi con uno
sguardo indagatore.
«Siete entrambi vaccinati contro
l’influenza» dichiarò poi in modo semplice. «Ma come mai parlate di questa
cosa? C’è qualcosa che non va, Charlie? Non stai bene? Sei un po’ pallido…».
Charlie non poteva più
ascoltarlo. Ogni volta gli chiedevano cosa gli stesse succedendo, eppure non
aveva niente. Almeno lo sperava finché il dottore Steiner non aveva alcun
risultato sicuro. Perché non lo capivano?
«Io. Sto. Bene» disse molto
chiaramente e accentuò ogni parola prima di continuare in modo snervato: «E’
solo l’istinto del “grande fratello protettivo” di Don che di nuovo chiede la
parola: aveva da fare così poco ultimamente…».
Don dovette ridere, non riuscì a
controllarsi. «Io ho poco da fare?!»
«No, il tuo istinto, idiota!»
Alan, così come Don, era più
confuso che adirato. «Charlie, come sarebbe?»
Charlie si voltò verso suo padre
e si apprestò a rispondere, ma poi lasciò star; si voltò verso Don e di nuovo
verso suo padre, finché abbandonò il tentativo di rispondere, apparentemente
perché non gli vennero in mente risposte o scuse adeguate.
«Oh, lasciatemi in pace, va
bene?» mormorò e sparì di sopra.
Don e suo padre si guardarono.
Nessuno dei due capiva cosa fosse appena successo.
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Capitolo 6 *** sesto capitolo ***
Leucemia 6
Ciao a
tutti!
E grazie per
le recensioni! Temo che i prossimi capitoli fino alla confessione di
Charlie saranno un po’ duri, ma la confessione ci sarà, abbiate pazienza, vi
prego.
E adesso buon divertimento col
sesto capitolo!
CAPITOLO SEI
Another
turning point, a fork stuck in the road.
Time grabs
you by the wrist, directs you where to go.
So make the
best of this test and don't ask why.
It's not a
question, but a lesson learned in time.
(Green Day, Good Riddance)
Erano quasi le sei e mezza
quando il cellulare di Charlie squillò, facendolo balzare in piedi come se
fosse stato morso da una tarantola. Aveva passato l’ultima mezz’ora a
correggere gli scritti dei suoi studenti sul divano nel soggiorno.
Sul display c’era un numero non
registrato. Charlie sapeva chi era. Per fortuna, tre giorni prima, aveva dato
al dottore Steiner il numero del suo cellulare e non quello di casa. Altrimenti
anche suo padre o Don avrebbero potuto rispondere alla chiamata.
Charlie deglutì. Sapeva cosa
stava per succedere.
«Eppes» rispose con una voce
aspra e cominciò a camminare qua e là nella stanza.
«Buongiorno, Dott. Eppes. É lo
studio medico di Dott. Steiner. Volevamo informarla che abbiamo appena ricevuto
i risultati degli esami del suo midollo osseo».
L’assistente interruppe la suo
fiume di parole e esitò. «Ehm… sta seduto?»
No, ma fra poco
sarò sdraiato, pensò Charlie, ma disse: «Sì» e per precauzione si
sedette di nuovo sul divano.
«Va bene… Dunque, mi dispiace ma
devo comunicarle che il sospetto del dottore è stato confermato. Lei soffre di
leucemia mieloide acuta».
Charlie non sapeva cosa
aspettarsi. Non era una sorpresa. E neanche più un grande shock. Eppure, aver
perso l’ultimo pezzetto di speranza che forse era ancora dentro di sé, da
qualche parte, lo riempì di un vuoto.
«Il dottore desidera che lei
prenda un appuntamento il più presto possibile per parlare del modo che
adotterete per procedere. Gli va bene domani mattina alle undici e mezza?»
«Sì». Aveva la sua prima lezione
alle nove e la successiva non prima delle due di pomeriggio.
«Bene. Le auguro una buona
serata, dottor Eppes».
Charlie non aveva nessuna idea
di come quella donna immaginava una buona serata. Però aveva il leggero
sospetto che non intendesse quello che Charlie fece nel resto della propria.
Incapace di concentrarsi ancora sugli scritti, salì in camera sua. Intanto, fuori
cominciava già a diventare buio, tuttavia rinunciò a accendere la luce. Si
ritirò in un angolo nel fondo della camera, si sedette sul pavimento, attirò le
gambe al corpo e vi strinse le braccia attorno.
Adesso il risultato era sicuro.
Aveva la leucemia.
Leucemia. Il nome suonava
strano. Leucemia. Charlie aveva dato uno sguardo alle statistiche che
mostravano la probabilità di morire di leucemia. Una probabilità troppo alta
per i suoi gusti. Ma queste cose proprio non si potevano scegliere.
Se solo potesse fare qualcosa!
Però la matematica non poteva aiutarlo questa volta. Non che non ci avesse
provato, ma non aveva trovato nemmeno un inizio press’a poco adeguato.
Come, per tutto il mondo, lo
avrebbe detto a suo padre? E a Don? E Amita? E Larry? Dio, sarebbe stato
complicato con Larry… E Amita? Avrebbe pianto? Come avrebbero reagito tutti?
Avrebbero avuto ancora qualche speranza? O l’avrebbero abbandonato? E alla fine
anche lui avrebbe abbandonato sé stesso…
«Ehi, Charlie, non ti senti
bene?»
Don era sulla soglia della
porta. Come ci era arrivato in quel posto? E quando? …E cosa aveva appena
chiesto?
«Stai bene?»
Grazie per
averlo ripetuto, Don. «Sì, perché no?» rispose Charlie con
quanta più nonchalance possibile.
«Eh beh…» Don lanciò uno sguardo
nella stanza buia, illuminata solo da quello spiraglio di luce che penetrava
attraverso della fessura della porta aperta sul corridoio. Charlie fu
brevemente sorpreso di quanto tardi fosse. Doveva essere rimasto lì a terra per
ore. E adesso Don si stava domandando il perché.
«Ah sì, quello…»
Charlie riflette intensamente,
ma non gli venne in mente nessuna risposta per spiegare il motivo per cui si
era nascosto nel buio di un angolo della sua camera. Tranne la verità,
naturalmente.
«Sono solo un po’ stanco»
rispose poi con poca immaginazione. Sperava che la sua misera scusa avrebbe
retto.
«Dunque… perché non vai a
letto?»
Accidenti! Ma perché Don doveva
lavorare proprio nell’FBI?
«Sono affari miei, o no? Io…
Volevo riflettere con calma».
Questo sembra
già più plausibile, si rassicurò silenziosamente Charlie. Certo,
rispose un’altra parte di sé, snervata, è anche la verità.
«Sul caso?»
Don gli aveva creduto! E, anzi,
gli aveva offerto una scusa su un pianto d’argento!
«Appunto» mentì Charlie a sangue
freddo.
Adesso Don l’avrebbe lasciato in
pace. Non lo voleva certamente disturbare quando rifletteva. Di qualunque caso
si trattasse.
«Sì, cose del genere sono
davvero orribili» disse Don compassionevolmente.
Charlie quasi non riuscì a
celare il suo spavento. Don non lo lasciò in pace; al contrario: si era seduto
accanto a lui sul pavimento!
Charlie non aveva idea di come
dovesse agire. In quel momento non sapeva nemmeno di quale caso stesse parlando
suo fratello. Perciò lo liquidò con un “mmh” un po’ incerto.
«Quel Glennfield può veramente
far compassione» continuò Don. Ovviamente voleva aiutare Charlie a venire a
capo di quella situazione al meglio. E Charlie non osava dirgli certamente che
non aveva alcuna voglia di parlare in quel momento, di qualsiasi caso si
trattasse.
«Però ha meritato la sua
punizione» iniziò di nuovo Don, perché Charlie ovviamente preferì chiudersi nel
silenzio. «Comunque ha più o meno intenzionalmente ucciso due persone. E anche
gli altri sarebbero potuti morire per il virus».
Finalmente Charlie aveva capito.
Allora si trattava di quei virus d’influenza. Avevano arrestato il colpevole.
«Ha confessato?» la domanda
scappò a Charlie prima che lui la pensasse.
Don era eccessivamente confuso.
«Certo… da tempo. E’ ciò di cui stiamo parlando, no?»
No, Don, è ciò
di cui stavi parlando tu.
«E perché l’ha fatto?»
È vero che la speranza era
minima, ma forse avrebbe funzionato, malgrado tutto. Forse ce la farebbe a
sfuggire ai suoi pensieri tristi, se avesse parlato del destino di un altro
essere umano.
«Non te l’ho ancora detto? Era
l’atto disperato di un padre in lutto… almeno Megan l’ha definito così. Ha
voluto che l’ospedale fosse accusato e condannato per mal funzionamento perché
il processo per sua figlia era stato sospeso».
«Sua figlia?»
«Sì. La piccola era malata e
morì in quell’ospedale. Secondo il farmacista, i medici avevano lavorato male.
E’ convinto che la bambina sarebbe potuta sopravvivere. Probabilmente si era
semplicemente fatto troppe illusioni».
Automaticamente Charlie si
dispiacque per la madre, prima che la sua compassione si trasmettesse anche
alla figlia che era morta per la sua malattia e infine al padre disperato.
«Ma che cos’aveva lei?»
«La bambina? La povera aveva la
leucemia».
Charlie credette di aver sentito
male. Qualcuno lì sopra doveva detestarlo. Forse sarebbe dovuto andare alla
sinagoga più spesso. O avrebbe dovuto bestemmiare di meno. O forse era peggio:
forse non aveva niente a che fare con questo. Forse Don aveva scoperto
qualcosa…
«Leucemia?» chiese Charlie,
insicuro. Esitò. «Vuoi prendermi in giro?»
La parte della faccia di Don che
Charlie poteva vedere malgrado la luce limitata, aveva un aspetto abbastanza
confuso.
«Perché dovrei farlo? E inoltre
i miei scherzi di solito sono migliori. Perché me lo chiedi? Qualcosa non va?»
Bene. Allora Don non sapeva di
niente. Non ancora. Ma forse lì su non c’era nessuno che lo detestasse…? Forse
tutto era solo un segno del destino…
«Va bene» gemette Don d’un
tratto, mentre Charlie stava ancora riflettendo, e si alzò. Sembrava un po’
rassegnato. «Ti lascio in pace, adesso. In ogni caso, sembra che tu voglia
sbarazzarti di me dall’inizio. Ma se prima o poi ti senti pronto a parlare di
nuovo, non sarei contrario a sapere che cosa c’è che non va in te ultimamente».
Don chiuse la porta e lasciò
Charlie da solo nel buio.
Avrebbe dovuto richiamarlo? Se
lo avesse fatto adesso, Don avrebbe ancora potuto sentirlo. Però… in questo
caso avrebbe dovuto dirgli che…
Il momento passò senza che lui
facesse nulla. Charlie si sentì solamente peggio. Aveva mentito a Don. Prima o
poi avrebbe dovuto dirlo a lui e a tutti gli altri. Avrebbe avuto bisogno del
loro aiuto. E doveva ancora chiedere a Don se gli avrebbe donato il midollo
osseo. E gliel’avrebbe
chiesto, certo, fra poco...
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Capitolo 7 *** settimo capitolo ***
Leucemia7
Mille
grazie per l'interesse e le vostre parole gentili! E vi prego,
scusatemi per la cortezza dei capitoli...
CAPITOLO
SETTE
There
was a time when you let me know
what's
real and going on below.
But
now you never show it to me, do
you?
(Leonard
Cohen,
Hallelujah)
«Okay,
ragazzi:
è tutto per oggi» decise Don e salutò
la sua squadra. Tentò di mettere ancora
un po’ d’ordine, con poco entusiasmo, nel caos di
fascicoli e altre
annotazioni, riflettendo su dove dovesse andare ora. Nel suo
appartamento? In
realtà non ne aveva tanta voglia. In realtà
recentemente faceva fatica a farsi
coraggio per qualsiasi cosa, e il suo stato d’animo era
pericolosamente vicino
al livello minimo di quell’anno.
Aveva
veramente
bisogno di compagnia adesso. Forse potrebbe andare a casa, da suo padre
e
Charlie…
No,
probabilmente sarebbe andato nel suo appartamento. Avrebbe anche potuto
riflettere sul caso lì, in tutta calma. Sì,
questo di sicuro sarebbe stato
molto più produttivo, nonostante Don si chiedesse come
avrebbe potuto ancora
riflettere al meglio a quell’ora. Il giorno era stato
abbastanza faticoso.
Erano sulle tracce di un gruppo di contrabbandieri. Va beh’,
più o meno sulle
tracce. Perché erano proprio quelle che avevano perso. Un
camion con un grosso
carico di armi rubate era in fuga da ieri sera e adesso era
probabilmente fuori
da L.A. da un pezzo. Avevano avuto un sacco di chiamate con indicazioni
della
popolazione: pareva che tutti avessero visto quel camion. Assurdo. Un
sacco di
dati… probabilmente farebbero tanto piacere a Char-
Va
beh’, in
ogni caso le indicazioni non erano servite a nulla. Non avevano trovato
quei
tipi. E Don non credeva che i contrabbandieri si trovassero ancora a
Los
Angeles. Anche se quella possibilità gli sembrava abbastanza
improbabile…
Eppure… Quanto alte potevano essere le
probabilità che i contrabbandieri si
trovassero ancora a Los Angeles? Charlie l’avrebbe sicuramen-
Ma
no, Don non
ci credeva. Almeno non proprio. Anche le loro indicazioni ci
contraddicevano.
Purtroppo. Perché avrebbero reso le cose tanto semplici...
In ogni caso
avrebbero potuto accerchiare la città con posti di blocco e
infine arrestare i
colpevoli… ma adesso, semplicemente, non sapeva come
avrebbero dovuto agire al
meglio. Forse Charlie avrebbe avuto un’idea…
Don
si diede
vinto. Semplicemente non ce la faceva. I suoi pensieri giravano in
cerchio. Non
importava quanto tentasse di tenerli lontano da suo fratello, tornarono
sempre
su di lui. Allora
probabilmente non sarebbe riuscito
a differire a riflettervi su ancora.
Non
l’aveva più
visto da quella serata, quattro giorni fa - che era passata, tra
l’altro in
modo davvero sgradevolmente – in cui avevano fatto luce nel
caso di Glennfield.
Ovviamente Charlie l’aveva evitato, particolarmente da quando
Don aveva tentato
di parlare con lui. Ma d’accordo, se non voleva…
Don non sarebbe stato
invadente. Almeno non per il momento.
Veramente
strano, quanta importanza avesse Charlie per lui, pensò Don.
Quando erano
piccoli, Charlie era sempre stato un rompiscatole. Il piccolo bambino a
cui Don
aveva sempre dovuto badare; lui, il baby-sitter eterno. Charlie, il
ragazzino
snervante che ogni volta aveva bisogna del suo aiuto.
Però,
col
passare degli anni, gradualmente non gli era più dispiaciuto
così tanto. Si era
accorto che doveva prendersi cura del suo fratellino, che doveva
proteggerlo,
sì; e anzi si era reso conto che lui voleva
proteggerlo. Un sentimento stranamente dolce era aumentato
sempre di più in
lui. E ogni volta quando Charlie aveva avuto bisogno di lui e era
andato da
lui, aveva sentito qualcosa come una pace interiore, un sentimento
calore e
familiarità.
Tuttavia
quei
tempi erano passati ora. Adesso sembrava che le cose si fossero
capovolte, come
se loro due avessero ad un tratto cambiato i propri ruoli. Quante volte
Don era
già andato da lui, il suo fratellino, per chiedere il suo
aiuto? E Charlie
c’era sempre stato, per lui. Non importava quanto stressato
fosse; aveva sempre
fatto tutto per essere utile al suo fratello maggiore.
Don
rifletté su
come fosse la situazione al contrario. Era lo stesso, no? Don era
sempre lì per
Charlie. Charlie poteva andare da lui in qualsiasi momento, se aveva un
problema e Don l’avrebbe sempre aiutato, sempre. E questa era
una cosa che
sapeva anche Charlie… o no?
Eppure…
Don non
riuscì a reprimere completamente il sentimento che
lì da qualche parte ci fosse
uno squilibrio. Charlie poteva andare da lui, certo – ma
quand’era che
realmente andava da lui? Invece Don, qualche volta si chiedeva se fosse
veramente in grado di fare il suo lavoro senza suo fratello. Qualche
volta
sembrava che fossero talmente dipendenti da Charlie che Don aveva dei
dubbi sul
fatto che poteva riuscire a fare una qualsiasi cosa da solo.
Da
un lato
detestava il fatto che Charlie gli offrisse il suo aiuto mostrandogli
che la
squadra era spacciata senza di lui… almeno qualche volta.
Però, dall’altro lato
era contento quando non era costretto a chiedere lui stesso
l’aiuto di Charlie.
Perché in quei momenti aveva sempre la sensazione di
sfruttare il suo fratellino…
Però,
questa
volta non avrebbe chiesto l’aiuto di Charlie. E questa volta,
se conosceva bene
suo fratello, probabilmente non sarebbe neanche venuto lui
spontaneamente da
Don.
E
inoltre ce
l’avrebbero fatta anche senza di Charlie. Dio, altri
dipartimenti non lavorano
neanche con un matematico tutto il tempo! E la sua squadra non era
affatto la
peggiore. Avrebbero potuto fare anche a meno di lui una volta. Charlie
era
talmente stressato ultimamente che Don non voleva chiedergli nulla.
E
inoltre…
Avrebbe
semplicemente chiesto l’aiuto di Larry e Amita.
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Capitolo 8 *** ottavo capitolo ***
Leucemia 8
E di nuovo mille grazie per le
vostre recensioni gentilissime! E sì, BlackCobra, Don si dà vinto
probabilmente troppo presto, ma chissà, forse tenterà un’altra volta di parlare
con Charlie… (ma scusatemi, non in questo capitolo)
CAPITOLO
OTTO
I walk this empty street
on the boulevard of broken dreams
where the city sleeps,
and I'm the only one
and I walk alone.
(Green
Day, Boulevard of Broken Dreams)
Charlie uscì
dall’ufficio della preside dello California Institute of Science. Aveva
finalmente chiarito questa cosa… almeno per quanto riguardava il suo lavoro.
Si era
licenziato. Solo fino a nuovo ordine, certamente. Il suo capo aveva ascoltato
la sua storia, gli aveva offerto qualche sguardo compassionevole e gli aveva
assicurato che avrebbe potuto riprendere la sua cattedra nella CalSci non
appena sarebbe guarito della sua malattia. Lei avrebbe cercato di trovare una
sostituzione temporanea.
Il suo
ottimismo gli faceva bene.
Finora lei era la
sola persona che sapeva della sua malattia. In un certo senso, si sentiva
meschino ad averlo detto prima a lei e non alle persone che gli erano più
vicine. Però era stato più facile così anche se sapeva di dover mettere a parte
della cosa anche la sua famiglia e i suoi amici.
Fino ad ora non
ne aveva avuto l’opportunità. Tuttavia qualche volta si chiedeva se ci fosse
davvero un’opportunità per una confessione del genere.
Non aveva
ancora idea su come l’avrebbe detto a tutti, e non aveva neanche tanto tempo.
Almeno sapeva che la preside avrebbe trattato la sua storia con discrezione e
non avrebbe detto niente a nessuno. Avrebbe preferito non dirlo neanche a lei,
ma era stato inevitabile per i suoi progetti. E adesso aveva almeno qualcosa
per orientarsi: avrebbe lavorato ancora quel giorno e la settimana successiva e
sarebbe stato in malattia da quel punto in poi. Si era già prefissato di tenere
duro per quel periodo – perché questo gli avrebbe anche dato del tempo per dire
la verità. La chemioterapia sarebbe cominciata il suo primo giorno di malattia
e dopo questo, se Don avesse messo a disposizione il midollo, ci sarebbe stato
il trapianto. E a seconda del risultato dei test e del decorso della terapia,
il trapianto sarebbe continuato…
Almeno il lato
lavorativo della vita di Charlie era chiaro.
Charlie bussò
alla porta davanti alla quale era arrivato e entrò subito, senza di aspettare
una risposta. Davanti all’ufficio di Larry non aveva mai dovuto aspettare.
Dentro, però,
non vide solo Larry, ma anche Amita. I due sembravano lavorare ad un progetto
completamente sconosciuto a Charlie.
«Ciao» li
salutò non senza esser sorpreso. «Cosa fate?»
«Non puoi
indovinarlo?» chiese Amita che era ovviamente stressata, ma prima che Charlie
potesse cercare di esprimere in parole la sua inconsapevolezza, lei stessa
rispose: «E’ quell’algoritmo per l’FBI».
Charlie
credette che qualcuno gli stesse tirando il terreno da sotto i piedi. Un
algoritmo per l’FBI? Perché non ne sapeva nulla?
«Che
algoritmo?» chiese con la fronte corrugata.
«Eh beh, quello
che tu non hai voluto prendere» Amita sembrava sempre più snervata «Don ha
chiesto il nostro aiuto dopo che tu hai rifiutato».
«Dopo che io…?»
Charlie cercava
nel caos della sua testa. Don aveva veramente chiesto il suo aiuto senza che
lui potesse ricordarlo? No, questo era piuttosto improbabile. Ed era possibile
che Charlie si fosse rifiutato di aiutarlo? No, certamente no… o sì?
«Qualcosa non
va, Charles?»
Charlie levò lo
sguardo in confusione, fissando brevemente il viso di Larry prima di dare di
nuovo la preferenza al vuoto.
«No. No, va
tutto bene. In bocca al lupo per la formula».
Si sentiva come
in un sogno mentre barcollava fuori dall’ufficio di Larry. Però non era
possibile che sognasse. Perché in questo caso la voce di Amita l’avrebbe
svegliato sicuramente.
«Charlie!»
Charlie si
voltò lentamente. Amita aveva un’espressione confusa. Che strano.
«Non vuoi… non
vuoi aiutarci?»
«No… No».
Adesso sembrava completamente deciso. «Don l’ha chiesto a voi, non a me».
Non fece
attenzione agli sguardi sorpresi che i suoi amici si lanciarono l’uno all’altro
prima che lasciasse l’ufficio.
Charlie vagava
nel campus senza meta, senza sapere dove lo portassero le gambe.
“Don ha
chiesto il nostro aiuto dopo che tu hai rifiutato…”
Don aveva
chiesto aiuto a loro? Perché? Perché non era venuto da lui? Forse Charlie aveva
fatto un errore con il suo ultimo calcolo e non lo sapeva? E perché, in quel
caso, Don non gliel’aveva detto? Oppure, forse, Don gliel’aveva detto e Charlie
non lo sapeva perché di nuovo non aveva fatto attenzione?
Don ce l’aveva
con lui. Charlie lo sapeva. Per quale altra ragione avrebbe dovuto rivolgersi
ai suoi amici, alle sue spalle?
Furioso, diede
un calcio alla panchina più vicina. Non gli mancava che questa! Aveva attirato
su sé la rabbia o almeno il malcontento di suo fratello. Ancora una volta.
Possibile che non riuscisse mai ad accontentare Don?
Sii
contento Donny-Boy pensò amaro fra poco ti sarai liberato di me in
ogni caso. E allora ti sarai levato di dosso il piccolo rompiscatole, come hai
sempre voluto.
Però… se aveva
sbagliato delle cose, Don avrebbe almeno potuto dirglielo. Se al momento non
era in forma, che colpa ne aveva lui? Avrebbe perfino dato uno sguardo su
tutto, se solo Don gliel’avesse chiesto.
Però Don non
aveva chiesto a lui, ma a Larry e Amita, le due persone che - oltre alla sua
famiglia - gli erano più vicine. Ma perché? Don aveva voluto solo tormentare il
suo fratellino? Voleva solo mostrargli che Larry e Amita erano più vicini a lui
che a Charlie? Voleva mostrargli che aveva fiducia in loro e non in suo
fratello?
In ogni
caso, però, tutto quello non è tanto sbagliato, pensò Charlie,
amaro.
Una nuova
ondata di furia traboccò in lui. Non poteva esserne certo, ma un sospetto cocente
gli diceva che una grande parte di quella furia ere diretta a sé stesso.
Naturalmente Don non aveva fiducia in lui. E aveva ragione. Charlie taceva già
da giorni che aveva la leucemia. Ma perché, per l’amor del cielo, non
gliel’aveva ancora detto? Però… Don aveva potuto accorgersene? Aveva potuto
scoprirlo?
Comunque, che
Don lo sapesse o meno era una cosa marginale. Don non aveva più fiducia in lui.
E Charlie non poteva rimproverarlo per questo.
Lascia
perdere, pensò tra di sé. Recentemente hai troppi problemi.
Forse non è male se non devi anche occuparti della faccenda dell’FBI. Sarebbe
meglio se ti concentrassi sul problema di passare la settimana illeso. O sul
problema di come vuoi dirlo agli altri.
Ma le
tormentose domande non avevano risposta.
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Capitolo 9 *** nono capitolo ***
Leucemia 9
Grazie per le vostre recensioni! Le leggo sempre con grandissimo piacere! E scusatemi di nuovo per la cortezza...
CAPITOLO
NOVE
If
it’s alright,
then
you’re all wrong.
(Friendly
Indians, Psych-Theme)
«Hei, Don».
«Amita! Larry! Avete
scoperto qualcosa?»
Don li osservò
avvicinarsi un po’ insicuri. Certo,
per quei due le visite alla centrale dell’FBI erano sempre una sorta di
avventura. Charlie, invece, ormai era abituato…
«Sì, si
potrebbe dire così» rispose Larry «In base alle probabilità, abbiamo stilato un
elenco di strade che i contrabbandieri hanno potuto usare e con l’aiuto dei
vostri dati abbiamo anche potuto accertarci di alcune potenziali destinazioni».
«Vuoi dire che
sapete dove si trovano i contrabbandieri adesso?»
«Solo con una
certezza matematica».
«Okay, dunque…
andate nella sala della conferenza. Io
chiamo gli altri».
Poco dopo,
Amita e Larry avevano proiettato una cartina dei dintorni più vicini di Los
Angeles al muro, davanti alla squadra di Don.
«Abbiamo
sottoposto tutte le strade che vanno fuori città a un’analisi esatta. Così
abbiamo trovato questo» spiegò Larry, indicando una linea all’est della città. «Questo è il percorso più probabile. Supponiamo che siano andati con il camion
prima sul “Pamona Freeway” e da qui su una qualsiasi strada federale».
«Quanto ne
siete sicuri?»
«23 per cento».
La squadra lo
guardò stupita: anche senza
studi matematici sapevano che non era una percentuale tanto alta.
«Pensavo che
foste abbastanza sicuri…» disse Don, infine, un po’ deluso.
«Lo siamo. Se tenete conto del
numero di strade che escono da Los Angeles, 23 per cento è una probabilità
molto alta».
«Va beh’… ma
non avevi parlato anche di probabili destinazioni?»
«Sì, abbiamo
trovato Yuma, in Arizona. Ma le probabilità che siano lì sono davvero poche. Più alte che per altre località, certo, ma…
va beh’, in ogni caso non vuol dire tanto».
«Verificheremo
lo stesso» assicurò loro Don. «Grazie,
ci avete aiutato veramente tanto».
«Non c’è di
che» rispose Larry, e la riunione si sciolse.
«Ah… Don?»
Don si voltò
mentre gli altri erano già usciti fuori; la sua squadra si era messa a lavoro e
Larry andava, accompagnato da Megan, nella direzione degli ascensori. Amita era ancora lì.
«Posso farti una domanda?»
Se lo
aspettava. Naturalmente Don si era accorso che Amita era stata abbastanza
taciturna tutto il tempo. Aveva dunque una preoccupazione. E l’agente non
riuscì a trattenere un’idea spiacevole e molto specifica.
«Certo, dimmi»
la pregò, simulando nonchalance.
«Ah… Che
cos’avevi detto che Charlie ha risposto quando gli hai domandato il suo aiuto?»
Addio,
nonchalance. Nonostante Don a scuola fosse quasi riuscito a raggiungere la
perfezione in materia di scuse, sentì perfettamente la sua faccia diventare
calda. Aveva raccontato a Larry e Amita che Charlie aveva rifiutato di aiutarlo
perché al momento aveva troppe di cose per la testa. Va beh’, precisamente
aveva detto loro che Charlie non lo aiutava
perché aveva così tanto da fare. Aveva evitato di dire bugie ovvie
a loro. Come anche adesso.
«E’ così
stressato ultimamente» eluse.
Amita annuì,
distratta, guardando per terra.
«Tu sai che
cosa ha che non va?» chiese infine dopo qualche momento di pausa.
Don la guardò
un po’ sorpreso. Dunque non era il solo ad essersi accorto dello strano
compartimento di Charlie. Va beh’, non era una sorpresa così grande. I
sentimenti e i pensieri di Charlie – almeno quando non riguardavano la
matematica, cosa che però accadeva spesso – erano di solito come un libro
aperto, almeno per Don.
Di
solito.
Scosse il capo.
«No, non so che cos’ha. Ma forse è
davvero lo stress. Non è che faccia una vita tranquilla».
Da qualche
parte dentro di sé aveva sperato di poter fare sorridere Amita, ma non ci era
riuscito.
«Ti ha mai
detto qualcosa del genere?» chiese ancora.
Di nuovo Don
dovette scuotere il capo. «Mi ha detto
ben poco ultimamente».
«È lo stesso
con me» confessò Amita.
Per un attimo
Don la guardò compassionevolmente prima di decidere di far svanire quei
pensieri tetri. «Forse gli serve solamente un po’ di tempo per sé, tutto qui. Fra qualche girono sarà tornato quello di
sempre. Credimi, fra poco tornerà
tutto normale».
«Se lo dici
tu…» rispose Amita che non sembrava ancora sempre convinta, ma alla fine levò
gli occhi e riuscì a far apparire anche l’ombra del suo solito sorriso «Mi
dispiace di averti scocciato. Ma… semplicemente mi sta evitando. E io non so…»
«Non ha niente
a che fare con te» la interruppe Don con forza. «Charlie sa molto bene come
vanno le cose con te». Don esitò, ma poi sorrise, aggiungendo: «E se mai lo
dimenticasse, gli farò io una bella lavata di capo, puoi starne certa!».
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Capitolo 10 *** decimo capitolo ***
Leucemia 10
Ciao, e di nuovo
mille grazie per il vostro interesse e le vostre opinioni! E penso che sia di nuovo
il punto giusto per ringraziare la mia fantastica beta Alchimista! :)
CAPITOLO DIECI
I'm
all tied up on the inside.
No
one knows quite what I've got.
And
I know that, on the outside,
what
I used to be I'm not
anymore.
(Don McLean,
Crossroads)
«I colleghi di
Yuma hanno trovato qualcosa nel frattempo?» volle sapere Don da David quando
vide il suo collega già seduto al tavolo mentre lui entrava nell’ufficio la
mattina seguente.
«No, ancora
niente. A dire la verità comincio a dubitare che il camion sia veramente lì».
Don annuì.
Anche lui cominciava a non crederci.
«Dì un po’,
perché questa volta Charlie non ci ha aiutato?» chiese Colby da dietro allo
schermo del suo computer.
La risposta di
Don fu eccezionalmente violenta.
«Non penso
proprio che sia colpa di Larry e Amita se noi non troviamo il camion! Non
importa se sono stati loro due ad aiutarci o un altro – chiunque avesse fatto
questi calcoli sarebbe probabilmente giunto alla stessa soluzione. Charlie non
è quel ragazzo prodigio che credete!» Con questo Don sparì nella cucina.
Colby guardò
David con la bocca leggermente aperta.
«Ho detto
qualcosa di sbagliato?»
David scrollò
le spalle. Sapeva solo che c’era qualcosa che non andava.
Era nervosa,
come raramente era stata davanti alla porta del suo ufficio.
Sì o
no? Devo o no? Finalmente levò, esitando, una mano e bussò
leggermente con la nocca del suo indice destro.
Dentro, il
silenzio. Bussò un’altra volta, più risoluta della prima volta. Di nuovo passò
qualche secondo, ma poi sentì una voce stanca chiamare «Avanti!» e entrò.
«Amita» la
salutò Charlie e sembrava essere contento. Ma forse era solo un buon attore.
Chi poteva saperlo?
«Ciao, Charlie.
Ti disturbo?»
«Ah… No. No, naturalmente no. Vieni».
Si sbagliava o
Charlie si comportava realmente in modo più nervoso del solito?
«Volevo
chiederti un favore» venne al punto lei.
«Certo,
volentieri, dimmi. Di che cosa si tratta?»
«Va beh’, è
solo che…» Amita esitò. Poi però prese coraggio e le parole caddero dalla sua
bocca con una velocità che mozzava il fiato. «Don ha chiamato perché non hanno
ancora trovato il camion e credono che ci sia un errore nella formula… perciò
volevo chiederti aiuto».
Charlie tacque.
Aiutava Amita volentieri. E aiutava volentieri anche Don. Almeno quando suo
fratello voleva davvero il suo aiuto.
«Che cosa ne
dice Don?» chiese ed era con spavento che Amita sentisse il timbro fresco e
brusco.
«Beh’, niente…
non ne ho ancora parlato con lui. Ma penso che sia tua la decisione di aiutarci
o meno».
Charlie scosse
il capo. «Non è così semplice».
«Per favore, Charlie! Noi non facciamo
progressi! Le cose che abbiamo calcolato… qualcosa non è corretto! I risultati
sono così… così improbabili!»
Esitò,
riflettendo, prima di continuare con una voce più dolce. «Vuoi veramente che
questi contrabbandieri di armi riescano a fuggire e che poi con queste armi una
moltitudine di persone innocenti vengano uccise?»
Il silenzio
seguente durò ancora più del primo. Tesa e con guardo implorante, Amita guardò
Charlie. Se qualcuno poteva risolvere questo problema ingarbugliato, quello era
lui! Doveva aiutarli!
Prima che accadesse qualcosa di grave! E poi… non poteva nascondersi da loro
nel suo ufficio per tutto il tempo.
«Va bene, lo
farò».
Amita era
raggiante. «Grazie, Charlie!»
«Non c’è di
che. In fin dei conti non sono sempre
io al centro dell’attenzione. E’ il mio dovere di aiutare, malgrado tutto».
Il sorriso di
Amita svanì. In quell’attimo si accorse chiaramente che Charlie era cambiato.
Il suo timbro di voce non era neanche troppo amaro, ma aveva qualcosa di
chiuso, come se stesse chiudendo sé stesso. Amita non poteva dargli un
nome, ma qualcosa non andava.
«Allora, di che
cosa si tratta esattamente?» la voce di Charlie fece ritornare Amita dai suoi
pensieri.
E mentre
andavano nell’ufficio di Larry, Amita continuò ad informare Charlie sui
dettagli.
Senza di
bussare entrarono l’ufficio di Larry.
«Ciao Larry.
Cosa avete già scoperto?»
«Charles! Vuol dire che ci aiuti?»
Charlie annuì
brevemente.
«Allora?»
riprovò.
«Va beh… Come
Amita ti ha forse già detto, abbiamo già calcolato le probabilità per le varie
strade che escono da Los Angeles. Siccome l’FBI finora non ha trovato niente,
siamo tornati sui nostri risultati, aggiungendo qualche probabilità per strade
laterali fuori alla città».
Concentrato al
massimo, Charlie annuì, guardando una delle cartine della città con le probabilità
contrassegnate. Aggrottò la fronte.
«Avete…»
tacque, espirò rumorosamente e ricominciò a parlare dopo alcuni secondi. «Perché…»
Di nuovo tacque. Di nuovo ricominciò: «Perché avete guardato solo le strade che
escono da Los Angeles?»
Amita aggrottò
la fronte. Non capiva la domanda di Charlie.
«Perché il
camion è scomparso qui».
«Sì, ecco!» si
ingegnò Charlie.
In quell’attimo
diventò chiaro a tutti e tre che parlavano sicuramente di cose diverse.
«Voglio dire»
ricominciò a parlare Charlie, tentando di far capire i suoi pensieri ai suoi
amici, «Chi ci ha detto che il veicolo è veramente uscito dalla città?»
«L’FBI» rispose
Amita laconicamente.
Un po’ contro
la sua volontà, Charlie sbuffò. «Credetemi, amici: se volete essere sicuri, non
fate mai affidamento sulle informazioni dell’FBI».
Charlie si
accorse che la sua voce stava diventando un po’ amara e di nuovo l’irritazione
per Don voleva sorgere dentro in lui come veleno.
Però, questo
non aveva niente a che fare con la loro faccenda e Charlie deglutì il
sentimento per nasconderlo di nuovo al suo interno.
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Capitolo 11 *** undicesimo capitolo ***
Leucemia 11
Ciao a tutti! Scusate il ritardo!
E avreste dovuto aspettare ancora di più se Alchimista non fosse stata talmente
velocissima! Sei incredibile!
Ma penso che non ci metterò
talmente tanto per il prossimo capitolo. E mille, mille grazie per le vostre
recensioni!
CAPITOLO UNDICI
You say
yes,
I say
no.
You say
stop
and
I say go, go, go!
(The Beatles,
Hello Goodbye)
«Ciao, amici»
salutò Charlie, un po’ troppo asciutto, mentre i tre si avvicinarono alla
squadra.
Gli agenti si
voltarono verso loro.
«Charlie!» lo
chiamò Don, rimasto di stucco «Cosa ci fai qui?»
«Vuoi che me ne
vada?»
Don era
confuso. In quel momento sembrava che sua anima stesse per spacciarsi. Com’era
stato amaro il tono di Charlie! Anzi, brusco!
«No…» balbettò
senza sapere cosa fare. «No, puoi rimanere qui, se vuoi».
Charlie ebbe
voglia di urlare. Puoi rimanere qui. Significava che non avevano niente in
contrario se fosse rimasto. Significava che era tollerato.
«Me ne andrò
fra poco, non preoccupatevi» assicurò Charlie tentando di non mostrare il suo
malumore. Non era stato tanto fortunato, però, con quel tentativo. «Volevamo
solo presentarvi una nuova idea».
«Riguardo i
camion?»
«Esatto. Abbiamo sviluppato un nuovo algoritmo di
ricerca».
Mentre andavano
nella sala di conferenza, Charlie sentì – non per la prima volta in quei giorni
– un dolore lancinante alla testa che attenuò la sua irritazione o qualsiasi
cosa fosse. Sentiva la stanchezza strisciare giù, dentro di lui, senza
fermarsi. Per fortuna non sarebbe durato a lungo. Avrebbe semplicemente
presentato i loro risultati alla squadra e poi sarebbe finalmente tornato a
casa. Poi avrebbe solamente riflettuto in tranquillità sul caso e – se
necessario – avrebbe ottimizzato i loro risultati.
Almeno se Don
gliel’avesse lasciato fare.
Però non
sembrava che andasse tanto male, per ora. Don sembrava pronto ad ascoltarlo. Beh,
allora, coraggio!
«Secondo la
nostra supposizione, il motivo per cui non avete ancora trovato il camion è che
avevate un punto di partenza sbagliato» rivelò alla squadra Charlie. Si era già
completamente calmato quando vide, con la coda dell’occhio con quanta
attenzione Don seguisse le sue parole.
«Punto di
partenza sbagliato? Che volete dire
con questo?» lo interruppe Colby.
«Dunque, noi
sospettavamo» cominciò in risposta Larry, «che il camion non si trovasse più in
Los Angeles. Però non l’abbiamo trovato fuori città. Vuol dire…»
«…che fuori
città è un’area abbastanza ampia» completò Colby con un po’ di sarcasmo.
Larry tentò di
spiegare il loro punto di vista senza di contraddire l’agente: «Ma è anche
possibile che il veicolo si trovi ancora nella
città, o no?»
«In teoria è
possibile, certo» ammise Megan, «ma è molto più probabile che abbiano lasciato
la città già da tempo. Vogliono vendere la loro merce il più presto possibile e
a Los Angeles sono diventati già troppo vistosi».
«Il che vuol
dire che non possono lasciare la città senza avere problemi seri» intervenne
allora Amita.
«A ogni modo»
riprese la parola Charlie «abbiamo sviluppato un metodo che dovrebbe aiutarvi a
trovare il camion, che sia ancora in città o meno».
Fu David a fare
la domanda finale, quella che Charlie si aspettava.
«E che metodo
è?»
«In fondo è
davvero semplice. Questo principio viene anche applicato dai cacciatori, per
esempio. Penso che Ian Edgerton abbia anche fatto qualcosa del genere quando ha
lavorato con noi una volta. Comunque, dovete prendere l’ultima posizione del
camion che conoscete. Partendo da questo punto vi muovete verso l’esterno in
spirali continuando finché non troverete il camion. Abbiamo considerato
nell’algoritmo di cerca anche la composizione del terreno e molti altri dati,
come le deposizioni dei testimoni, anche se naturalmente non si devono
dimenticare i buchi temporali. Ecco qualche percorso provvisorio. Naturalmente
l’algoritmo di ricerca è ancora abbastanza approssimativo. Abbiamo pensato che
avreste voluto i risultati quanto prima. Se volete posso ancora migliorarlo,
tentare di eliminare le dichiarazioni false e così via».
La squadra prese
le piantine della città con gli itinerari segnati.
«Fantastico, sembra
quasi un gita» disse Colby.
«Informerò già
le automobili del LAPD. Forse ci possono aiutare con la ricerca» propose David
e Don annuì con approvazione.
«Va beh… avete
ancora bisogno di noi?» volle sapere Charlie, voltandosi nonostante
l’agitazione verso suo fratello.
«No» rispose
Don in breve e Charlie prese subito il suo laptop. «Voglio dire… Puoi venire un
attimo, per favore?»
Senza aspettare
una risposta tirò verso sé un Charlie confuso prendendolo per il gomito, via
dagli altri in una sala di conferenza vuota, perché fossero soli.
«Okay» cominciò
Don, «puoi andartene in un attimo se vuoi, ma voglio una risposta da te».
Charlie non
aveva la più pallida idea di che cosa suo fratello stasse parlando. In tensione
aspettò la domanda che avrebbe fatto svanire la sua confusione.
«Allora, cosa
c’è? Che cosa ti ho fatto?»
Charlie si era
sbagliato. La domanda di Don non fece svanire la sua perplessità, ma anzi, la
fece aumentare. Tutto questo non aveva senso! Don sapeva esattamente che
cos’aveva fatto! E l’aveva fatto apposta… o no? Allora perché diceva di non
averne idea? O stava parlando di una cosa completamente diversa? E se sì, di
cosa?
«Che vuoi
dire?»
«Ma dai,
Charlie! Non puoi ingannarmi. Mi accorgo benissimo di come mi eviti. Non
importa che ti ho fatto, mi dispiace molto. Vorrei solo sapere cos’è…».
Charlie era
confuso, ancora di più che prima.
«Di che cosa
stai parlando? Sei tu che ha
evitato me! E quando hai avuto
un problema sei andato da Larry e Amita!»
«Ma solo
perché…» Don esitò. Questa era una delle cose che non amava pronunciare. «Solo
perché tu non hai più voluto avere nulla a che fare con me! Ti sei isolato da
me già da giorni, non mi parli più! Anche ora che hai spiegato il nuovo
algoritmo, non mi hai guardato nemmeno una volta. Certo che non sono venuto da
te con questo stupido caso se non volevi nemmeno guardarmi! Solo… non riesco a
capire perché! Accidenti, Charlie, cosa ti ho fatto?»
Charlie era
sconvolto. Talmente sconvolto che l’aver saputo che Don – a quanto pareva – non
lo odiasse era passato in secondo piano. Erano realmente vere le cose che Don
gli aveva appena detto? Era stato davvero talmente poco affabile verso suo
fratello, non solo per questo caso, ma anche prima? Come era stato possibile
tutto questo? Come aveva potuto farsi influenzare in tal modo da quella
maledetta notizia?
Ad un tratto
Charlie sentì la sua coscienza sporca. Avrebbe dovuto essere onesto nei
confronti di Don. Avrebbe dovuto confessargli tutto subito, confessarlo a
tutti. Non si era nemmeno accorto di quanto si fosse isolato dal resto del
mondo. Cos’altro era successo a causa delle sue continue bugie a suo padre, a
Don e a tutti gli altri? E adesso Don credeva addirittura che fosse colpa sua…
«Non hai fatto
male niente, Don, davvero! Non ce l’ho con te. Almeno non più».
Adesso era
arrivato il momento. Quel malinteso aveva aperto gli occhi a Charlie. Doveva
dirlo a Don.
«Sono solo
stato talmente brusco a voi ultimamente perché... dunque…»
«Don?»
Colby entrò,
improvviso.
«Questa mattina
un camion ha attirato l’attenzione di una pattuglia! Era nei pressi di una
fabbrica in Downtown».
«Okay… ah…
avete già controllato la targa?»
«Proprio di
questo si tratta; non ne ha una!»
«Bene, okay…
grazie, Colby. Io… ah… vengo subito».
Colby uscì e
Don si voltò di nuovo verso Charlie.
«Allora, cosa
stavi per dire?»
Ma Charlie non
poteva. Quello non era il posto giusto, non era l’ora giusta. Sapeva che Don
adesso voleva andare e che era rimasto solo a causa sua.
«No… lascia
perdere. Devi andare: ti aspettano. Non era importante comunque».
«Sì? Davvero?»
volle assicurarsi l’agente.
«Sì. Davvero. Sono
solo… un po’ stressato ultimamente».
Don mise le sue
mani sulle spalle di Charlie.
«Okay… ma non
importa di cosa si tratti, puoi sempre venire da me, capito?»
Charlie annuì.
Si sentiva davvero male.
«Dai, va!»
disse poi tentando di sorridere. Gli angoli della sua bocca facevano tanta
fatica a lottare contro la forza di gravità. Se Don non se ne fosse andato in
breve, avrebbe probabilmente perso del tutto il controllo e gli avrebbe detto
tutto. Ma fortunatamente Don gli diede solo un dolce colpo sul dorso,
sorridendo, prima di uscire dall'ufficio.
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Capitolo 12 *** dodicesimo capitolo ***
Leucemia 12
Ma siete
bravissime/-i! Che stupenda reazione su quest’ultimo capitolo! Mille grazie!
E vi prometto:
non ci metterò ancora tanto fino alla confessione… ma un po’ :)
E sì, mi sto
davvero divertendo^^
CAPITOLO DODICI
All around me are familiar faces,
worn out places, worn out faces.
Bright and early for their
daily races,
going nowhere, going nowhere.
(Tears for Fears, Mad World)
Completamente esausto, Charlie si lasciò cadere sul
vecchio divano nel suo garage. Voleva riposarsi… dormire…
Chiuse gli occhi. Più forte del solito, il profumo
familiare di gesso venne al suo naso mentre sprofondava nei cuscini morbidi.
Ad un tratto i suoi occhi si aprirono malgrado non
riuscisse a tenerli aperti. Eppure non era riuscito a resistere all’impulso:
voleva vedere qualcosa.
Charlie si guardò attorno. Nel vecchio garage non era
cambiato niente. Era ancora tutto caotico e impolverato e sembrava accogliente
come la settimana prima, quando il mondo era ancora in ordine.
Charlie aggrottò la fronte, un po’ sorpreso dal proprio
ragionamento.
Quando il mondo era ancora in ordine… Ma lo
era anche adesso, o no? Niente era cambiato, niente di sconvolgente. La terra
girava sempre attorno al sole, gli Stati Uniti avevano sempre lo stesso
presidente, suo padre amava sempre sedere sulla sua poltrona preferita la sera
per leggere un libro, Don non aveva cessato di inseguire criminali di giorno e
di notte, i koi fuori nella piscina del giardino continuavano allegramente a
nuotare, il garage aveva l’aspetto di sempre, e anche lui si sentiva quasi come
sempre. Quasi.
Niente era cambiato. Eppure tutto era diverso. Perché?
Charlie rifletté. Se – constatando obbiettivamente
(grazie a Dio, Larry non poteva leggere i suoi pensieri in quel momento:
constatazione obbiettiva… che assurdità!) – niente era cambiato, allora a
cambiare doveva essere stato chi constatava. Lui. Charlie. Dottor Charles Edward Eppes. Professore di
matematica applicata.
Charlie si fece scappare un suono tra il pianto e il
riso. Professore di matematica. Titolo di dottore. Che cosa significava tutto
questo? Niente, niente cazzo! Non era importante, anzi era completamente
irrilevante! Chi se ne fregava se aveva due titoli di dottore o tre? Chi se
sarebbe fregato, quando lui sarebbe morto? Don, Amita, Larry, suo padre? No,
affatto.
Avrebbe dovuto passare più tempo con loro. E più tempo
con sua madre… Dio, perché pensava proprio a lei? Lei li aveva già lasciati! E
anche lui se ne sarebbe andato fra poco! Non avrebbe dovuto pensare a lei!
Avrebbe dovuto pensare a quelli che stava per lasciare! Oddio, gli sarebbero
mancati talmente tanto…
«Smettila».
Charlie si spaventò. Adesso
aveva anche un disturbo dissociativo di personalità? Però le parole erano
uscite senza dubbio dalla sua bocca, ed erano la verità. Non doveva accettare
tutto questo. Non doveva darsi per vinto. Ma che cazzo stava pensando? Gli sarebbero mancati talmente tanto? Era
forse impazzito tutto a un tratto? Nessuno gli sarebbe mancato! Non avrebbe
lasciato nessuno! Non se ne sarebbe andato!
Speriamo.
Le viscere di Charlie sembravano essersi scolte
nell’aria. Ma forse erano semplicemente salite fino alla sua gola, perché ora
lì c’era un enorme nodo. Non voleva morire. Voleva rimanere lì. Non voleva
lasciare gli altri. Ma cosa avrebbe fatto se, invece, avesse dovuto?
Automaticamente Charlie scosse il capo. Non sarebbe
successo. Non lo avrebbe permesso, per loro e per se stesso. Sarebbe rimasto
con loro. Avrebbe lottato. Fino alla fine.
A bassa voce, ma abbastanza alta per riconoscere un po’
di isteria, Charlie rise brevemente. Sì, avrebbe lottato fino alla fine – e non
importava che fine sarebbe stata, se felice o meno: avrebbe fatto di tutto per
rimanere con quelli che amava.
Sorrise. Che lo
vogliono oppure no.
Eppure… Charlie non poteva far svanire il presentimento
che, se ce l’avesse fatta a combattere la malattia, sarebbe cambiato. Dio, era
cambiato già adesso, lo sentiva! Ma, poi, perché no? Chissà, forse – sì,
certamente! – sarebbe stato più forte quando tutto questo sarebbe finito. Già
per questo valeva la pena lottare.
Charlie ebbe quasi un infarto quando il suo cellulare
squillò, facendolo saltare fuori dai suoi pensieri.
«Pronto?» accettò la chiamata.
«Ciao, Charlie, sono io, Don. Ah… ti sto disturbando?»
Charlie rifletté brevemente. La risposta per quella
domanda era difficile per due versi. Uno, non era abituato a sentirla da Don e
due, non sapeva nemmeno lui stesso se era stato disturbato o meno.
«No» rispose alla fine. Sto solo accarezzando tristi pensieri, aggiunse nel silenzio
della sua mente.
«Bene. Perché il camion che la pattuglia ha visto non è
il nostro. E perciò… Hai detto che forse avresti potuto migliorare
quell’al…quel metodo di ricerca per noi, no?»
«Certo. Posso farlo».
Dall’altro capo del telefono era come se un gran peso
fosse stato sollevato dal cuore di Don.
«Ottimo. Grazie, Charlie. Sarebbe di grande aiuto per
noi». Cambiò argomento. «Sei a casa?»
«Sì».
«Okay. Allora forse riusciamo a vederci stasera». Poi
aggiunse con un sogghigno: «Spero che mi abbiate lasciato qualcosa della cena».
Dopo che ebbero attaccato Charlie si chiese se davvero
c’era ancora qualcosa della cena. Non ricordava. Non ricordava nemmeno che cosa
avevano mangiato quella sera.
Mise il pensiero del cibo in secondo piano nel suo
cervello, facendo spazio per il caso di Don. Però, avrebbe dovuto alzarsi,
andare a prendere i documenti, sperimentare qualche cosa alla lavagna. Spesso
la gente sorrideva di lui che scriveva sempre tutto sulle lavagne, ma era
semplicemente molto più strutturato, anche più chiaro in un certo senso.
Eppure non voleva alzarsi. Era talmente comodo il divano.
Semplicemente non riusciva a darsi forza. Perché, maledizione, aveva messo un
divano comodo nel suo garage e non un letto di chiodi per rilassarsi? A che
cosa aveva pensato? Certamente non a come arredare un locale in modo
efficiente. Doveva assolutamente rivedere quella scelta. Anche se… adesso non
era più così importante.
«No, adesso basta!» disse Charlie, determinato e si alzò.
Era stufo di pensarci.
Determinato, andò verso la scrivania e prese il
documento. Usò tutte le sue riserve mentre continuava a scrivere le date
rilevanti alla lavagna, poi l’algoritmo di ricerca su un’altra. E poi
calcolava.
Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto nel garage,
quanto ci avesse messo per il calcolo. Il tempo non era così importante adesso.
Erano altri i numeri in primo piano ora. Charlie era vicinissimo alla
soluzione, lo sapeva.
E poi, ad un tratto, fu colto da quella spiacevole
sensazione di debolezza.
Non di nuovo, pensò, disperato, non adesso, dammi solo qualche minuto in più.
Si aggrappò alla parte bassa della lavagna. Le nocche
delle dita spiccavano con un bianco così simile al suo viso. Sarebbe passato
tutto fra un attimo…
Si concentrò sui numeri e le formule che erano bianche
come il suo viso e le sue nocche e che coprivano il verde delle lavagne attorno
a lui. Così bianco come la luce… come le pile di fogli attorno a lui… come i
fulmini davanti ai suoi occhi… finché il bianco scomparve… e diventò buio.
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Capitolo 13 *** tredicesimo capitolo ***
Leucemia 13
Grande! Le vostre recensioni mi
rendono sempre contentissima! Vi prego, continuate così!
CAPITOLO TREDICI
“Fools,” said I,
“you do not know
silence like a cancer grows.
Hear my
words that I might teach you.”
(Simon and Garfunkel, Sound of Silence)
«Hai sentito?»
Alan si sollevò dalla sua poltrona, guardando il figlio
con aria interrogativa.
Don, sonnecchiando sul divano, si svegliò di soprassalto
quando gli fu fatta una domanda così all’improvviso. Non aveva ascoltato che i
primi dieci minuti della partita dei 49er che c’era alla televisione.
«Sentito cosa?» chiese allora, un po’ assonnato,
sollevandosi anche lui.
«Penso che venisse dal garage» rispose Alan. «Qualsiasi
cosa fosse, ha fatto un bel fracasso. E in più a quest’ora».
«Cosa?» tornò alla carica Don, divertito, sbadigliando
forte. «Vorrai dire chi. Scommetto che è Charlie che si sta snervando
perché di nuovo niente va come vuole lui. Aspetta un attimo, gli do ancora
dieci secondi» aggiunse, schernendolo bonariamente. «Poi entrerà con lo stesso
chiasso e tenterà di rovinarci la serata con il suo malumore».
«Charlie?» chiamò suo padre verso il garage senza far
attenzione sulle parole di Don. «Cosa fai?»
Però, non ricevette risposta. I dieci secondi di Don
passarono senza un avvenimento degno di nota. C’era il silenzio più assoluto in
casa, si poteva sentire solo il commentatore della tv.
«Non si può più far affidamento neanche su Charlie»
mormorò Don. E poi gli venne di nuovo in mente quanto stranamente Charlie si
fosse comportato ultimamente, ed ebbe un sentimento fiacco nello stomaco.
Alan sembrava
avere gli stessi suoi pensieri.
«Si comporta in modo un po’ strano ultimamente, non
pensi?»
Don annuì per mostrare consenso, guardando suo padre
interrogativo. Lo sguardo di Alan era una preghiera silenziosa.
«Andrò a vedere che succede» mormorò Don anche se non era
necessario, e si alzò dal divano. Probabilmente si stavano preoccupando troppo
per quella cosa. Con molta probabilità era semplicemente una lavagna caduta in
terra e Charlie non aveva sentito i richiami di suo padre. Eppure il sentimento
inquieto rimaneva.
Mentre apriva la porta, chiese: «Charlie? Tutto…»
Però il resto della frase gli rimase in gola. Adesso
capiva la causa di quel rumore. Infatti, c’era una lavagna un po’ danneggiata
in terra. Ma non era tutto. Perché accanto della lavagna c’era –
«Charlie!»
In un attimo era accanto a suo fratello, inginocchiatosi
per terra. Dette dei colpetti sulla sue guance.
«Charlie!»
Però Charlie non si muoveva. Era pallido come la morte e
teneva i suoi occhi chiusi. Sembrava che fosse svenuto.
«Charlie, svegliati! Papà!» chiamò sopra la sua spalla.
«Vieni, dai!»
Alan, però, non avrebbe avuto bisogno di quell’invito.
Nei suoi pensieri aveva seguito suo figlio ascoltando i suoi passi e apparve
immediatamente alla porta.
«Che è successo?»
Il suo sguardo
cadde sulla figura di suo figlio sdraiato a terra e a quanto pareva senza vita.
«Charlie!»
Anche lui adesso si inginocchiò accanto a lui, dall’altro
lato. «Che cos’ha?»
«Non lo so»
rispose Don e fece fatica a conservare il sangue freddo.
Febbrilmente pensò a cosa dovessero fare mentre
alternatamente scuoteva la spalla di Charlie e dava colpetti contro la sua
guancia.
«Forse dovremmo chiamare un dottore?» propose dopo
qualche attimo.
Alan annuì.
«Chiamo il dott. Steiner».
Tutti e due
sapevano che in questo momento stavano pensando alla stessa cosa.
Alan non era molto ottimista sul fatto di provare a
raggiungere il dottore nel suo studio. Così compose subito il suo numero
privato. L’aveva ancora dal periodo in cui sua moglie si era ammalata di
cancro. Ad un tratto tutti quei ricordi furono di nuovo vividi come se tutto
ciò non fosse successo che ieri. Anche Margaret aveva cominciato con attacchi
di debolezza e di svenimento. Quando era in fine andata dal dott. Steiner, era
stato troppo tardi. Il cancro l’aveva uccisa. E se anche Charlie adesso…
Con tutta la sua forza di volontà Alan tentò di far
sparire quel pensiero tanto inquietante. Non ci riuscì.
«Steiner».
«Buona sera, Dott. Steiner. Sono Alan Eppes. La prego di
scusare questa chiamata ad un’ora tanto tarda, ma mio figlio è appena svenuto e
non riusciamo a farlo rinvenire».
Alan deglutì. Per due secondi insopportabilmente lunghi
ci fu il silenzio all’altra parte. «Capisco…. Beh, in ogni caso credo che non
ci sia ragione di preoccuparsi così tanto».
Alan mandò un sospiro di sollievo. Già si pentiva di aver
chiamato il dottore per una stupidata. Però il medico continuò: «Un incidente
del genere non è una novità in quello stadio della malattia. Soprattutto quando
uno è – la prego di scusare il termine – talmente irragionevole e avventato
come il nostro paziente».
Dopo aver ritrovato le parole Alan chiese: «Mi scusi… ma
di che malattia stiamo parlando?»
Pensava di poter vedere veramente come il dottore
all’altra parte aggrottava la fronte mentre rispondeva con un’altra domanda:
«Non gliene ha parlato?»
«Parlato di che
cosa?»
Alan stava per
perdere il controllo di se stesso.
«Parli, la prego! Cos’ha mio figlio?»
Il dottore fu fortunato. Alan lo lasciò in pace per un
attimo quando sentì la voce di Don dal garage dirgli: «Papà! Penso che si stia
svegliando!»
«Perfetto!» disse Alan agitato «Aspetti» fece, poi, nel
ricevitore abbastanza bruscamente; ma già un attimo dopo si accorse di quanto
scortese fosse stato e aggiunse un «per favore» breve ma umile mentre correva
nel garage, il cordless in mano.
«Stai bene?» stava chiedendo Don a suo fratello in modo
inquieto quando suo padre entrò nel garage.
«Certo» mormorò
Charlie e si sostenne con uno sforzo enorme sui suoi gomiti, tentando di
ignorare il garage che ancora girava attorno a lui. Detestava esser sdraiato lì
a terra mentre due uomini adulti l’accerchiavano in piedi, o meglio,
rispettivamente, uno in ginocchio ed uno in piedi. E lo detestava almeno tanto
quanto fare la domanda che aveva sulla punta della lingua. Eppure non riuscì a
trattenerla.
«Che cosa… è successo esattamente?»
«Eh beh’, lo vorremmo sapere anche noi!» disse Alan,
facendo un passo avanti e incrociando le braccia al petto.
Però Don, che non poteva completamente capire la furia di
suo padre, sapeva che per Charlie era importantissimo sapere cosa fosse
successo. Aveva sempre il bisogno di analizzare tutto.
«Abbiamo sentito un rumore fortissimo. Allora sono venuto
in garage e ti ho visto sdraiato in terra. Non eri conoscente e perciò abbiamo
telefonato al dott. Steiner».
«Che mi stava per dire cos’hai» finì il rapporto Alan,
sembrando abbastanza eccitato.
Di botto, tutto
l’intontimento di Charlie svanì.
«Stava per cosa?!»
«Non stavo per fare niente» la voce fresca del medico
penetrò ben percettibile, anche se bassa, dal ricevitore che Alan teneva ancora
ben stretto in mano. A quanto pareva aveva ascoltato la conversazione.
«Penso che accenderò il vivavoce» borbottò Alan a nessuno
in particolare e premette il tasto adatto.
«Naturalmente sono del parere che sarebbe meglio se lei
avesse raccontato tutto alla sua famiglia, dott. Eppes» continuò il medico e i
tre fissarono il ricevitore. «Io però non dirò niente».
«Bene» replicò Charlie risolutamente. «Farò anch’io
così».
«Non stai parlando sul serio, Charlie! Dovrai dirci la
verità!» s’indignò Alan, ma Charlie rimase calmo e al contempo brusco.
«Non puoi costringermi».
Alan perse la
bussola. «Mi dirai subito che cos’hai!» gridò, chinandosi e
scuotendo fortemente le spalle di suo figlio. Ma Charlie lo fissò con fermezza
truce.
«Non ti dirò niente» rispose prontamente.
Un silenzio teso cadde nella stanza.
«Se permette» disse il dottore ad un tratto e si poteva
sentire che si schiarì la gola «se permette vorrei darle un consiglio,
professore Eppes. Sospetto che non abbia detto niente della sua malattia alla
sua famiglia per non inquietarla. Però, a volte può tormentare molto più non
saper niente che poter affrontare la verità…».
Lottando contro la
presa leggera di Don, Charlie si sedette. Però non osava ancora stare in piedi.
«La prego di comprendermi!» gridò verso il ricevitore e
si sentiva abbastanza idiota a farlo. «Mia madre…» Si interruppe.
«Dott. Eppes», il medico aveva un timbro rigido, un po’
come il padre di Charlie, «pensa veramente che suo padre e suo fratello non
abbiano fatto le stesse associazioni che ha fatto lei? Ma è una decisione sua.
Dovrete chiarire questa faccenda tra di voi, signori. Non voglio essere
scortese, ma penso che sia meglio se concludiamo questa telefonata».
«Sì, certo»
borbottò Alan e chiuse la chiamata.
Fissò dall’alto in
basso suo figlio con uno sguardo impenetrabile, il ricevitore ancora in mano.
«Allora?» chiese infine, le braccia incrociate al petto.
All’improvviso Don
sentì dentro di sé un’onda di compassione per suo fratello. Naturalmente voleva
sapere che cosa c’era che non andava, e questo certamente non da poco; eppure
Alan utilizzava tutta la sua potenza per forzare Charlie a dire loro la verità
in quel preciso momento.
E se Charlie avesse bisogno di un po’ più di tempo…?
«Papà…» tentò Don cautamente, «se proprio non vuole
adesso…»
«Allora deve!» lo apostrofò Alan con rigore. «E solo
perché tu ti interessi a tuo fratello esclusivamente quando ti aiuta, non vuol
dire che sia la stessa cosa per tutti in questa stanza!»
Quello fu un colpo
basso. Per alcuni battiti del suo cuore Don rimase senza fiato.
«Che… che… che
vuoi dire?» balbettò finalmente. «Come puoi anche solo pensare una cosa
simile?» Si voltò verso suo fratello, che aveva i gomiti sulle ginocchia e la
testa tra le mani. «Charlie, non devi crederlo, capito? E’ assurdo! Non avrei…»
«Smettetela» mormorò Charlie e Don stette zitto. Come,
per tutto il mondo, avrebbe mai potuto parlar loro se non lo lasciavano nemmeno
prendere parola?
Tolse le mani dalla faccia e li guardò. Il momento della
verità era giunto. Non ci sarebbe stato più ritorno.
«Dunque… volete sapere che cosa ho?»
«Certo» i due risposero come se fossero una voce sola.
«Va beh. Bene». Deglutì di nuovo. Maledizione, perché la
sua gola era talmente secca? E la sua voce talmente velata?
«Sono malato. Ma si può guarire la malattia. Ho buone
probabilità di tornare completamente sano». Charlie credeva fosse meglio
calmarli un po’ fin dal principio. Non c’era bisogno di dire loro quanto stesse
ingigantendo quelle “buone probabilità”.
«Ho la
leucemia».
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Capitolo 14 *** quattordicesimo capitolo ***
Leucemia 14
Oh-oh… Ma state tutti bene? Devo ammettere che dopo le
vostre recensioni avevo la coscienza un po’ sporca… Ma nessuno deve continuare
la lettura dal reparto della neurologia, vero? :)
Allora, per calmarvi un po’, ecco il prossimo capitolo:
CAPITOLO QUATTORDICI
And now I understand
what you tried to say to me.
(Don McLean, Vincent)
Botta. Era questa la parola giusta. L’aveva detto. Ciò
significava dire che non c’era bisogno di dirlo ancora una volta. Fino a quel
momento Charlie non si era mai reso conto di quanto quel segreto avesse pesato
su di lui. Fuori dal suo controllo, il suo umore si risollevò un po’.
«Cos’hai detto?» bisbigliò Alan mentre Don lo fissava,
sconcertato, con la bocca aperta.
L’umore di Charlie scivolò di nuovo in basso. No, non l’avrebbe ripetuto, assolutamente no.
«Tu hai la leucemia?» continuò a gracchiare Alan.
Una parte di Charlie gli era grato, Un’altra aveva ad un
tratto compassione con lui. Sì, sentire una notizia del genere era difficile.
Lo sapeva.
«Eh, Papà»
Charlie voleva alzarsi e posare almeno una mano sulla
spalla di suo padre, ma temeva che se lo avesse fatto sarebbe svenuto di nuovo.
E soprattutto ora non era ciò che voleva.
«Non è così grave come si crede all’inizio… La leucemia è
guaribile: ho una reale possibilità di farcela. Il pericolo di morire in un
incidente stradale è 200 volte più alto di quello della leucemia».
Saggiamente, per la statistica appena detta, Charlie era
partito dal presupposto che si trattasse di un campione non ammalato.
«No, fermati!» disse Alan ad un tratto con voce chiara e
stridula. «Aspetta – che cosa state facendo? Stai tentando di consolarmi?»
«Beh’…»
«Smettila! Smettila immediatamente!»
Confuso, Charlie guardò versi di lui.
«E’ la stessa cosa che ha fatto all’inizio Margaret»
riuscì ancora a dire Alan con voce soffocata, prima di volgersi altrove,
lontano dai suoi figli e fuori dal garage.
Turbato, Charlie tenne lo sguardo sue spalle del padre
finché fu possibile. Aveva fatto un errore? Cercando aiuto volle voltarsi verso
Don, ma quello sembrava turbato tanto quanto lui.
«Leucemia?» bisbigliò. «Non e uno scherzo?»
Charlie capì subito che cosa stesse pensando suo
fratello.
«Hai detto anche tu che l’ospedale non lavora bene»
ricordò a Don.
«E’ ciò che dice Glennfield».
Perché Don doveva essere talmente pessimista? Charlie
quasi si perse nella disperazione. Era veramente necessario che tutti lo
dessero già per vinto?
«Don, per favore»
pregò. «Non puoi almeno fingere di
aver ancora speranza per me?»
Don lo fissò con spavento.
«Sì!… certo, voglio dire… Non credo che morirai, Charlie,
voglio dire… se lo dici tu che hai una chance reale, allora…»
Don esitò. E poi, finalmente, tornò il vecchio Don, quel
Don che parlava con il fratello minore in modo insistente, ma incoraggiandolo.
«Eh, fratellino, un Eppes non si da per vinto così
facilmente! Io so che puoi farcela, capito? E inoltre non puoi lasciarmi solo
con papà. Dove andremmo a finire?»
Sollievo caldo
si diffuse nello stomaco di Charlie.
«Sei il migliore, Don» disse, esausto.
Ma non era ancora la fine. C’era ancora qualcosa…
Di nuovo, Charlie fu a disagio. Poteva tentare di
parlarne con Don adesso? Però
prima era, meglio era. E pian piano il tempo gli sfuggiva via dalle mani…
«Don?» Di nuovo la sua voce si velò e dovette rischiarsi
la gola. «C’è un’altra cosa.»
«Come? Peggio di così?»
«Ah… sì». Charlie non sapeva da dove cominciare. «Allora…
si tratta di questo… Vi ho detto che si può guarire dalla leucemia. E… e per
questo bisogna fare la chemioterapia e poi… dunque…»
«E’ per i soldi?» lo interruppe Don. «Non è un problema,
posso…»
«No, no, i soldi non sono affatto un problema» fece
Charlie scuotendo la testa, mentre la sua disperazione aumentava. Come avrebbe
dovuto dirglielo?
«Dunque, sai, leucemia vuol dire che il mio corpo non è
più capace di creare sangue propriamente…».
Don non aveva la minima idea di cosa Charlie intendeva
dirgli. Pian piano diventava sempre più impaziente. Però non voleva fargli
pressione: in fondo poteva vedere quali giri di parole Charlie stesse facendo.
«Allora… la causa è che qualcosa non va col midollo
osseo. E perciò… dunque, perciò qualcun altro dovrebbe donarmi il suo… e
normalmente con fratelli succede così… Dunque, il dott. Steiner mi ha detto,
siccome hai il mio stesso gruppo sanguigno, che avrebbe dovuto funzionare… in
caso che tu sia d’accordo» aggiunse velocemente, guardando teso la faccia di
suo fratello. Adesso gliel’aveva detto. Adesso la decisione stava a Don.
Quello, però, non era proprio sicuro di aver capito bene
ciò che Charlie aveva balbettato.
«Allora vuoi dire che devo donarti il mio midollo osseo?»
ripeté incerto.
«No, voglio dire… insomma… se non vuoi lo capisco,
davvero, va bene. Il dott. Steiner ha solo detto che avrei dovuto chiedertelo»
balbettò Charlie affrettatamente, ma Don lo interruppe.
«Charlie!»
Charlie smise di balbettare e Don continuò in modo
tranquillo, la mano sulla spalla di Charlie. «Credi seriamente che ci sia una
qualsiasi cosa che non farei per salvarti la vita? Certo che ti donerò il mio
midollo osseo, è fuori discussione!»
Charlie represse il sollievo; non doveva che suo fratello
fosse costretto a quella scelta senza possibilità di tirarsi indietro. «Vuoi…
non vuoi rifletterci ancora una volta?» chiese di nuovo in modo insistente. «Un
intervento del genere non è senza di rischi e se… insomma, se ti succedesse
qualcosa…»
Con una dolcezza sconosciuta Don lo interruppe. «Charlie,
so esattamente che cosa sto per fare. E il rischio è molto più grande per te
che per me. Non tentare di fermarmi. Lo farò. Farei tutto per te».
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Capitolo 15 *** quindicesimo capitolo ***
Leucemia16
Siete troppo formidabili! Mille
grazie per le vostre opinioni!
Ah sì, e nessuno ha bisogno di
scusarsi quando scrive una recensione talmente gentile, va bene, Sherry? :)
CAPITOLO QUINDICI
You would live a hundred years
if I could show you
how.
I won't desert you now.
(Les Misérables, The Rain)
Per qualche istante i due rimasero seduti sul terreno in
armonia e silenzio. Finalmente Don si alzò, tendendo la sua mano verso Charlie.
«Dai, vieni. Oppure vuoi rimanere qui per tutta la
notte?»
Charlie scosse il capo, sorrise un po’ insicuro e poi si
lasciò tirare su da suo fratello. Era così immensamente sollevato dal fatto che
adesso lo sapessero almeno suo padre e Don.
Don.
Charlie avrebbe voluto cantare per la gioia. Aveva
veramente il migliore fratello che si potesse desiderare. Don lo sosteneva. Don
sarebbe rimasto a fianco suo. Don gli avrebbe dato la forza.
L’agente dell’FBI accompagnò Charlie in casa, fino al
divano in soggiorno.
«Va beh… adesso risposati un po’, d’accordo? Io… torno
subito. Devo… devo solamente… fare una cosa».
Repentinamente uscì dalla stanza. Charlie fissò la sua
schiena, inquieto.
Don si sentì costretto a andare fuori. Aveva
assolutamente bisogno di aria fresca. Le sue gambe lo portarono come da sole al
vecchio laghetto di koi, in giardino. Memorie d’infanzia affioravano nella sua
testa. Come lui e Charlie correvano attorno al laghetto, giocando. Come
Charlie, in seguito, aveva potuto sedere sul bordo per osservare i pesci. Come
sua madre riuscisse a richiamarlo in casa solo all’ora di cena o quando
diventava buio…
Un nodo si formò nella gola di Don e umidità si accumulò
nei suoi occhi. Lentamente si lasciò scivolare a terra, verso il bordo del
laghetto. Ad un tratto si sentiva così infinitamente debole.
Charlie.
Leucemia.
Da quando poteva ricordare, Don era stato forte. Sempre.
Anche quando suo madre era morta. Aveva tentato di sostenere la famiglia. E ce
l’aveva fatta. Fino ad ora.
Lentamente, con strani intervalli, la disperazione sorse
dentro di lui.
Charlie ha la leucemia!
Don avrebbe voluto che fosse un incubo: avrebbe voluto svegliarsi
e che tutto fosse stato come sempre. Charlie sarebbe stato sano, sprizzante di
gioia di vivere ed energia, lo avrebbe snervato con le sue infinite analisi di
statistiche di baseball…
Però non era un incubo. Gli incubi tendevano a diventare
realtà. Don l’aveva già vissuto una volta.
Semplicemente non poteva essere così! Charlie non poteva
essere malato! L’avrebbe detto loro
molto prima!
Però l’aveva detto loro. Adesso.
Ad un tratto, così tante cose divennero logiche!
Finalmente gli fu chiaro perché Charlie si era allontanato da tutti, che cosa
aveva sempre nascosto loro, che cosa occupava la sua mente. Era talmente
semplice, talmente logico. E talmente
inconcepibile.
Lacrime scivolavano sul volto di Don. Voleva farle
sparire con impazienza, ma ne venivano altre. Grazie a Dio non lo vedeva
nessuno, soprattutto non Charlie. Charlie non doveva vederlo piangere,
soprattutto non piangere a causa sua.
Dio, Charlie non aveva idea! Non aveva la più pallida
idea di quanto fosse importante per lui che il suo fratellino stesse bene!
Quanto importante lui stesso fosse per Don… anche se Don non l’aveva mai
ammesso.
Charlie non doveva morire! Non adesso che erano da poco
riusciti a superare la morte di Margaret! Non poteva lasciarli anche lui, non
poteva! Non doveva! Don sapeva
che non ce l’avrebbe fatta a superare anche la morte di Charlie. Non sarebbe
riuscito a sopportare di vedere suo fratello spegnersi lentamente, il suo
fratellino a cui aveva sempre badato, il suo fratellino su cui aveva sempre
vegliato. Il solo pensiero sembrava strappare il cuore dal petto di Don.
Charlie doveva farcela. Costava quel che costava. Don
avrebbe lottato per lui.
…Ma come?
La disperazione e l’impotenza crearono un nodo nella gola
di Don. Che cosa poteva fare lui? Sì, poteva donare il suo midollo osseo a
Charlie. E poi? Non poteva portar via i dolori e le sofferenze, non importava
quanto lo volesse. Non poteva fare
niente. Era condannato a non far niente. Non poteva sostenere quel peso al posto
di Charlie. Se Charlie fosse crollato sotto la sua malattia, Don non sarebbe
stato in grado di fare niente. Sarebbe stato obbligato a vederlo morire. Come
era stato con Margaret.
Don singhiozzò, nascondendo il viso tra le braccia. Era
proprio ciò di cui aveva sempre avuto paura, che qualcosa sarebbe successa a
Charlie e lui non avrebbe potuto fare niente…
Era talmente ingiusto! Perché tra tutta la gente proprio
Charlie? Perché il suo fratellino? Non era giusto! Charlie non poteva
sopportarlo! Era troppo debole per
combattere contro una cosa del genere!
Fermati, Don si ordinò. Non pensarlo. Non è vero. Charlie non è debole.
Ma la forza di Charlie sarebbe bastata? O avrebbe dovuto
darsi vinto alla sua malattia?
E finalmente Don seppe la risposta.
Lui non poteva fare niente, no; Don non poteva
combattere. Non poteva dichiarare guerra a quella malattia al posto di Charlie,
per quanto lo volesse. Però poteva dargli la forza di cui aveva bisogno per
vincere quella guerra. Avrebbe sostenuto Charlie. L’avrebbe sollevato quando
sarebbe stato a terra. Avrebbe vegliato su di lui quando sarebbe stato esausto.
L’avrebbe sostenuto quando avrebbe tentato di rialzarsi. Avrebbe camminato al
suo fianco quando avrebbe tentato di aprire un varco attraverso l’oscurità.
Sarebbe stato lì, per lui.
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Capitolo 16 *** sedicesimo capitolo ***
Leucemia 16
E
di nuovo mille grazie per le vostre recensioni! Sono talmente onorata
che penso che esagireste un po' con la vostra gentilezza e la lode...
ma fa niente, amo molto le esagerazioni :)
Spero che vi piacerà.
CAPITOLO
SEDICI
All
my bags are packed.
I’m
ready to go.
(John
Denver, Leaving on a Jet Plane)
Charlie si
sentiva un po’ insicuro sulle gambe. Però doveva andare tutto per il meglio:
quella era la sua ultima lezione e l’avrebbe portata a termine in un modo o un
altro. Solo quella lezione, poi avrebbe concluso tutto. Era quasi all’arrivo
della prima tappa. Niente più confessioni, niente più calcoli per questo o quel
collega e anche il gruppo di contrabbandieri era stato arrestato. Niente più confessioni
salvo due, quella al suo corso e forse la più difficile.
«Buongiorno»
salutò gli studenti, tentando di sembrare energico come al solito. Non era
affatto semplice. La memoria delle ore passate era ancora nella sua mente.
Ancora prima di
aver informato il suo primo corso quella mattina, aveva parlato ad Amita della
sua malattia fuori, nel campus. L’aveva detto chiaramente che sarebbe
sopravvissuto, che sarebbe solamente dovuto andare in ospedale per un po’. Le
aveva raccontato tutto. Lei aveva pianto e lui aveva tentato di consolarla. Però
il pensiero che forse avrebbe dovuto lasciarla per sempre in un futuro
abbastanza vicino era stato tremendo per lui. In ogni caso lei lo appoggiava.
Era sconvolta, ma avrebbe lottato con lui. Cosa mai sarebbe potuto accadergli
se Amita era al suo fianco?
Volse i suoi
pensieri di nuovo nella matematica. Doveva tenere duro, almeno per quell’ultimo
giorno.
«Ci
riallacceremo all’ultima lezione e parleremo un po’ più delle dispersioni, però
questa volta non più con gli errori quadratici lineari, ma con quelli
quadratici medi. Alcuni di voi potrebbero già conoscere la formula» disse,
voltandosi verso la lavagna per scrivere la formula che in fondo non era troppo
complicata.
Successe di
nuovo. Stelle danzavano ancora una volta davanti ai suoi occhi. Charlie li
chiuse. Credeva di barcollare un po’ e si appoggiò leggermente contro la
lavagna.
Non
crollare… tieni duro… solamente un altro paio di minuti…
Pochi secondi
dopo era finito. Charlie riuscì a riaprire gli occhi e continuò a scrivere la
formula. Questo non sarebbe dovuto succedergli un’altra volta: i suoi studenti
avrebbero potuto notare qualcosa…
Si voltò. «Come
potete vedere…»
«Ah… professore
Eppes?»
Uno dei suoi
studenti, un giovanotto brillante ma nervoso di nome Stevens, aveva alzato la
mano.
«Sì?»
«Ehm… non
dovrebbe essere il reciproco di N dopo il segno d’uguaglianza?»
Charlie si
voltò di nuovo verso la lavagna. In effetti... Lì c’era N, non 1/N. Come poteva
essergli accaduto?
Per un attimo
rimase davanti alla lavagna come pietrificato prima di riuscire a prendere il
gesso, sbrigativo, eliminando il suo errore.
«Certo. Lei ha
ragione. Grazie, Mr. Stevens».
Charlie faceva
fatica a far nascere un sorriso sulle sue labbra e Stevens sembrava felice di
aver potuto correggere il suo professore.
Charlie tentò
di non farsi confondere troppo da quell’errore e continuò la lezione. «Quel
parametro dello stocastico ha una grande importanza nella matematica applicata
e viene spesso utilizzato…»
Quando ebbe
concluso quella lezione Charlie fu certo che doveva esser stata una noia per i
suoi studenti. In seguito, pensandoci, non avrebbe saputo più spiegare come era
riuscito a sostenere i minuti successivi, per lui lunghi come un’eternità, ma
alla fine, in fondo, era fiero di sé. Non era crollato e dopo quell’incidente
imbarazzante non aveva fatto altri errori. Adesso, però, era sfinito. Eppure
doveva superare un altro ostacolo.
«Prima che ve
ne andiate» fermò i suoi studenti che dopo la conclusione della sua lezione
cominciavano a riporre le loro cose, ma che, sentendo la sua voce, si fermarono
«prima che ve ne andiate vorrei informarvi che dovrete consegnare i vostri
compiti non a me, ma al professore Kipler».
Le facce degli
studenti si dipinsero di stupore e Charlie sapeva che doveva loro una
spiegazione.
Si schiarì la
gola. «Il professore Kipler non solo correggerà i vostri compiti, ma, a tempo
indeterminato, assumerà anche la direzione di questo corso».
Charlie si
fermò. Non sapeva ancora come dirlo ai suoi studenti. Con il tempo avrebbe
dovuto essere in grado di farlo, si era detto.
«Perché?»
domandò una studentessa dalla seconda fila.
«Sarò impedito
fino a nuovo ordine».
I suoi
studenti, che avevano solo pochi anni in meno a lui, si guardarono. Probabilmente
pensarono all’occupazione secondaria di Charlie per l’FBI. No, probabilmente
pochissimi di loro in quel momento stavano pensando a una cosa talmente banale
come una malattia. Però, avevano il diritto di saperlo. Charlie l’aveva già
fatto capire a sé stesso, anche se non era stato facile. Ed era ancor più
difficile far diventare quell’intenzione una realtà…
«Ha qualcosa da
fare con l’FBI?» la domanda, quasi repressa, bisbigliata interruppe il silenzio
teso e fece saltare Charlie dai suoi pensieri, convincendolo a dire la verità.
«No. No, devo
deluderla. La ragione della mia
assenza è molto meno spettacolare». Respirò
a pieni polmoni. «Sono malato. Perciò
sospenderò fino a nuovo ordine il mio insegnamento alla CalSci».
Charlie guardò
facce prive di comprensione e piene di spavento. Qua e là, occhi restavano sul
professore con compassione. Non poteva sopportarlo, doveva assolutamente
alleggerire un po’ l’atmosfera.
«Dunque… oggi è
la vostra ultima occasione per rinfacciarmi tutte le cose che fino ad ora, per
gentilezza, non avete detto» disse a tutti tentando di sorridere. Avrebbe
voluto piangere. Non sarebbe riuscito a sostenerlo ancora per molto. Doveva
finire quella cosa in fretta. Comunque non sapeva più cos’altro dire.
«Dunque… vi… vi
saluto, augurandovi una vita fortunata… fate in modo che la CalSci sia fiera di
voi!»
Aveva finito.
Era alla fine, sia della sua lezione che della sua forza. Voleva solamente
restare solo, risposarsi. Però non gli fu ancora dato. I suoi studenti erano
ancora lì, attorno a lui, e lo fissavano.
«Lei morrà?»
Era stato un
bisbiglio fioco, dal fondo della sala. La domanda, che in fondo non era una
sorpresa per Charlie, lo colpì come una sferzata. Ma tentò di passarci sopra.
«Allora non
sono riuscito ad insegnarvi nulla? Le coincidenze sono una realtà matematica! Non
è possibile calcolare il momento della morte, solo le probabilità…»
Si interruppe.
I visi solenni dei giovani davanti a lui facevano chiaramente intendere i loro
pensieri. Charlie respirò
profondamente.
«Forse. Le mie prospettive non sono cattive. Però
vi prego di perdonarmi se rinuncio a diventare uno dei vostri oggetti di
esperimenti matematici dandovi le mie probabilità di sopravvivenza».
«Lei è il
miglior professore che abbiamo mai avuto!»
Charlie voltò
la testa. Lì, c’era una studentessa con occhi umidi che aveva appena chiuso la
bocca. I suoi compagni annuirono fortemente. Charlie aveva aperto la propria
bocca, però non sapeva cosa rispondere.
«Ma dai, non
esagerare!» mormorò alla fine.
Trovò la
reazione dei suoi studenti davvero commovente ed era veramente grato per la
loro compassione, ma in quel momento non c’era altro che desiderava che essere
solo.
«Vi… vi
ringrazio molto per la vostra partecipazione. Però sarei molto grato se mi
lasciaste solo adesso».
I suoi studenti
capirono. Finalmente lasciarono l’aula, l’uno dopo l’altro. Charlie si accorse
appena delle loro parole d’addio mentre tentava di raccogliere i suoi
documenti. Nella sua testa girava tutto, ronzava e rombava, aveva le vertigini
e la nausea. Non appena furono usciti dall’uditorio gli ultimi studenti, ciò
che rimaneva della sua forza sembrò scappare con loro. Completamente esausto si
appoggiò contro il muro accanto all’enorme lavagna, lasciandosi scivolare a
terra. Nascose il viso tra le mani fresche, provando sollievo e appoggiò i
gomiti sulle ginocchia. Sarebbe finito fra poco. Fra poco si sarebbe alzato e –
andato nel suo ufficio e raccolto qualche cosetta – si sarebbe ritirato
definitivamente e sarebbe tornato a casa. Voleva solo riposare un attimino. Fra
poco l'avrebbe fatto… ma non adesso.
Come da lontano
– o era un sogno? – Charlie si accorse che l’uditorio stava di nuovo diventando
pieno di gente. Probabilmente era una vista strana per gli studenti: uno dei
loro professori – o poteva considerarsi un compagno? Non sembrava più anziano
di loro e solo pochi erano già stati ad una sua lezione – era seduto accanto al
muro del loro uditorio, quasi indifferente alla gente attorno a lui. Bizzarro.
Ad un tratto,
delle voci gli chiesero se fosse tutto a posto. Di nuovo questa domanda
snervante. Charlie tentò di rassicurarli nel modo il più disinvolto possibile
che stava bene, che era tutto in ordine. Si rilassò solo un po’. Non c’era
nulla di male, in fondo. “Possiamo aiutarla?” “No, grazie, non è necessario”. Scrollando
le spalle, gli studenti lo lasciarono stare.
«Charles?»
Charlie sapeva
che cosa stava per accadere.
«Sarò via in un
attimo».
Doveva essere
uno dei suoi colleghi. Chi altro lo avrebbe chiamato col suo nome?
«Charles… stai
bene?»
Gradualmente,
la nebbia cominciò a svanire. C’era solo un uomo che poteva essere davanti a
lui in quel momento.
«Sì, certo. Sarò
via in un attimo, Larry».
Larry non
credette a nessuna di quelle parole. Si abbassò sulle ginocchia, tastando la
fronte del suo miglior amico.
«Hai la febbre»
constatò un po’ inquietato. «Dovresti
andartene a casa». Riflette per un attimo. «Vieni,
ti accompagno nel tuo ufficio e tu ti riposerai. E quando avrò finito qui ti
porto a casa».
Charlie capì
che sarebbe stato inutile protestare, già solo perché Larry aveva ragione.
Larry diede un
esercizio ai suoi studenti prima di aiutarlo ad alzarsi, sostenendolo fino al
suo ufficio.
«Grazie, Larry»
disse Charlie sinceramente quando si sedette sulla sua sedia.
Larry non disse
niente. Guardò in silenzio il suo amico. Qualche
secondo dopo Charlie si accorse che Larry era ancora lì.
«Cosa c’è? Dai,
devi andare dai tuoi studenti».
«Sei sicuro che
io possa lasciarti solo?»
«Certo. Se ci dovrebbero essere problemi posso
sempre chiamare aiuto. E comunque, cosa dovrebbe succedermi qui?»
«Va bene»
rispose Larry in modo esitante. «Dunque…
stai qui. Tornerò dopo e ti porterò a casa».
«Non sei
obbligato a farlo, Larry…»
«Ma lo farò».
Con questo,
Larry sparì.
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Capitolo 17 *** diciassettimo capitolo ***
Leucemia 17
E di nuovo vi ringrazio per le
vostre recensioni che ogni volta mi rendono talmente felicissima :)
CAPITOLO
DICIASSETTE
And
now my life has changed in, oh, so many ways.
My
independence seems to vanish in the haze.
But
ev'ry now and then I feel so insecure,
I
know that I just need you like I've never done before.
(The Beatles,
Help)
Affrettato e
ancora più caotico del solito, Larry raccolse i suoi documenti a lezione
conclusa ed uscì dall’aula, dirigendosi con passi rapidi verso l’ufficio di
Charlie.
«Eccomi di
nuo…vo».
Larry guardò
nella stanza. Nella stanza vuota. Charlie
non c’era.
«Charles?»
Immediatamente
Larry fu di nuovo in corridoio, cominciando una ricerca frenetica del suo
vecchio alunno.
«Charles?!»
Gli studenti
che incontrava guardavano quel tipo strano con meraviglia e qualche volta anche
divertimento, ma Larry non si accorse di quegli sguardi curiosi. Continuò a
muoversi nervoso, colto da un sentimento di paura indefinita, chiamando ancora
il nome di Charlie…
«Stai cercando
me?»
Da un corridoio
laterale rispetto a quello di Larry, Charlie si mosse verso di lui.
«Charles!»
disse Larry per un’ultima volta, e oltre al rilievo c’era anche un po’ di
rimprovero nella sua voce. «Che stai
facendo? Ti ho cercato dappertutto! Ti avevo detto di rimanere in ufficio. Dai,
adesso vieni, ti porto a casa».
In silenzio i
due paia di passi percorsero il corridoio, arrivando fuori, nel caldo sole
californio e infine alla macchina di Larry.
Quando furono
saliti Larry tornò alla carica. «Perché l’hai fatto? Perché non sei rimasto nel
tuo ufficio?»
«Mi sono
ritirato».
«Ritirato?
Perché ritirato? Avresti potuto farlo
anche per telefono, dal tuo ufficio. Oppure meglio: da casa tua. Ma perché sei
venuto a lavorare oggi?»
Non era affatto
facile dirglielo, ancora meno se Larry non gli lasciava nemmeno il tempo di
parlare. «Non mi sono ritirato solo
per oggi…»
«E’ una buona
idea! Dovresti veramente riposarti per qualche…»
«Larry, ti
prego».
E infine,
tacque.
«Non mi sono
ritirato non solo per oggi, ma per un periodo indeterminato».
«Che… che vuoi
dire? È possibile?»
Charlie respirò
profondamente.
«Sì, è
possibile. Per essere più esatti, mi sono appena licenziato. Però se voglio
ricominciare, la CalSci mi accoglierà di nuovo a braccia aperte, a detta della
preside».
Per alcuni
secondi Larry fissò il suo amico a bocca aperta. «Ho capito bene? Ti sei licenziato? Ma
perché, per l’amor del cielo? Per lavorare con Don? Ma Charles…»
«Larry, ti
prego, lasciami finire».
Respirò ancora
una volta.
«Devo dirti
qualcosa di molto importante».
«Sì?»
In fondo era
una frase facilissima. Verbo ed oggetto. Fin a quel punto capiva anche lui la
grammatica. E la frase aveva già resistito ad una prova.
«Ho la
leucemia».
L’aveva detto.
Sì, ne era abbastanza sicuro. Però
Larry rimase in silenzio.
«Larry, hai capito?
Ho la leucemia!»
Ancora nessuna
reazione.
«Larry, mi
ascolti?»
E finalmente ci
fu una risposta.
«Sì. Sì,
certo».
In qualche modo
non era la risposta che Charlie si aspettava. «Larry – hai capito che cosa ti
ho detto?»
Nessuna
reazione.
«Larry, per
favore ascoltami». Charlie accentuò ogni singola parola. «Io sono malato, lo
capisci? Ho l’LMA, è una malattia del sangue.
Io soffro di leucemia».
Charlie tentava
di allacciare un contatto visivo con Larry, ma il suo amico si comportava in
modo poco collaborativo. Almeno la sua successiva risposta fu un po’ più
consapevole della prima.
«Ah… sì?».
Un’esitazione breve prima di levare la sua testa con un movimento brusco. «Sai,
Charles? Non è un bene».
Se lo si avesse
ascoltato bene, si sarebbe potuta sentire una traccia sottile di preoccupazione
nella voce di Larry. Però, in quel momento le preoccupazioni di Charlie per
Larry sembravano predominare nell’atmosfera, poco dopo la confusione di
Charlie.
«Ah… sì… Sì,
questo lo so, Larry».
«Forse dovresti
andare dal dottore».
«Larry – sono
già stato dal dottore. O pensi
che la malattia me l’abbia diagnosticata la commessa del supermercato?»
Larry scosse il
capo, ma Charlie dubitava che fosse una risposta alla sua domanda.
«Charles…
allora credi davvero di avere questa malattia?»
Charlie non era
sicuro di aver ben capito il suo vecchio professore, anzi in quel momento non
capiva più niente.
«Sì. Sì, lo
credo davvero».
«Charles, dai,
vedi… Sai quanto sia improbabile ammalarsi di leucemia?»
«Tre nuovi ammalati
su 100.000 abitanti ogni anno».
«Esatto. Adesso
capisci cosa cerco di dirti?»
«Ad essere
sincero… no».
Larry sospirò
profondamente come se dovesse spiegare a Charlie che la terra girava attorno al
sole. Gli mise una mano sulla spalla.
«Vedi, Charles…
viviamo su un pianeta incredibilmente bello, in un numero inimmaginabilmente
grande di galassie. E su questo pianeta ci vivono, amano e ridono più di sei
miliardi di persone. E solo una percentuale piccolissima di questi sei miliardi
persone ha la leucemia. Perché, per tutto il mondo, dovresti averla tu
tra tutte queste persone?»
Charlie non era
ancora sicuro di aver ben capito.
«Larry,
correggimi se mi sbaglio, ma se ho capito bene tu non credi che io sia ammalato
di leucemia?»
«Ecco, esatto!»
gridò Larry e sembrava contento che il suo ex-studente l’avesse finalmente
capito.
Ad un tratto,
Charlie si sentì terribilmente perduto. Non aveva idea di cosa fare. Aveva
finalmente trovato il coraggio di dire a Larry della leucemia e adesso lui non
voleva credergli? L’idea che Larry, appena saputo della sua malattia, sarebbe
stato un vero appoggio per lui l’aveva così tanto confortato. Era il suo miglior amico! L’aveva capirlo!
Sempre!
Perché non
questa volta?
«Larry, ti
prego» supplicò Charlie con crescente disperazione «devi comprenderlo! Sono
stato dal dottore! Ho un certificato! Posso mostrati i risultati dell’analisi
del sangue!»
«Ci credi
davvero, allora?» Adesso Larry suonava preoccupato, anzi compassionevole.
Pensò. «Dimmi, conosci il film “A beautiful Mind”?»
Certo che
Charlie lo conosceva. E non ci mise tanto per realizzare cosa Larry intendeva
dirgli.
«Larry, non
sono né matto né schizofrenico». aggiunse in modo secco, tentando di nascondere
la sua disperazione. «Ma grazie per avermi paragonato ad un genio».
Larry non
sembrava più essere molto tranquillo in quella situazione.
«Ma Charles…
nessuno ha detto che sei matto».
«Certo, tu».
Quasi con divertimento Charlie vide quanto a disagio fosse Larry.
Però non
dimenticava l’esplosività del problema.
«Va beh, va
beh, va beh…».
Ah ecco: Larry
voleva lasciar stare. Si sentiva a disagio. Aveva paura. Aveva paura che
Charlie fosse matto. Oppure che forse malgrado tutto…
«Sai che cosa
faremo? Ti porto a casa tua. E poi
potrai mostrarmi tutti i tuoi certificati di questa cosa».
«Va bene».
Charlie si era
quasi rassegnato alla situazione. Se Larry non voleva credergli, allora avrebbe
dovuto provarglielo.
La corsa si
svolse in silenzio. Nessuno dei due sapeva come trattare l’altro. E ognuno
aveva un problema con cui poteva stimolare la propria testa.
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Capitolo 18 *** diciottesimo capitolo ***
Leucemia18
CAPITOLO
DICIOTTO
Whenever
things go wrong, I'll be with you.
Whenever
clouds are there, we'll fight that through.
You
never walk alone. I'll be with you.
(Mathou,
You Never Walk Alone)
Charlie tentava
di nascondere il tremolio di fronte al suo miglior amico quando aprì la porta. Quella
maledetta febbre!
«Charlie?»
giunse dal soggiorno la voce di Alan. «Sei
tu?»
«Sì!» rispose
Charlie – e avrebbe preferito che sua voce fosse sembrata più forte.
«Cosa c’è?» Si
era precipitato da loro Alan «Che è successo?
Credevo che saresti tornato più tardi. Non stai bene?»
Charlie non
sapeva se essere grato o snervato mentre suo padre l’osservava con
preoccupazione e tensione. «Non agitarti, papà. Sto bene».
«Non è vero» lo
interruppe Larry ad un tratto. «Charles è svenuto durante la lezione».
«No che non
sono svenuto!» intervenne Charlie, ma Alan non lo ascoltava e Larry non si
faceva confondere.
«Ha la febbre».
«Solo un po’!»
«Dovrebbe
andare dal dottore».
«Ci sono già stato!»
«E forse…»
«Non sono
matto!»
Quello era
troppo. Ancora una volta le stelle danzarono davanti agli occhi di Charlie che
si appoggiò contro il muro.
«Charlie! Stai
bene? Charlie!»
Da qualche
parte venne un braccio e una mano che lo sostennero attorno alle spalle.
«Sto bene»
balbettò Charlie. «Solo… solo devo sdraiarmi… sarà finito fra poco…»
Probabilmente
nel suo subconscio Charlie si accorse che veniva guidato nel soggiorno mentre
le stelle continuavano a danzargli davanti agli occhi.
«Dai, siediti
figliolo, sdraiati. Prenda la coperta. Ti farò un tè».
Alan sparì
nella cucina. Rimase solo un Larry scioccato.
Gradualmente i
dintorni del campo visivo di Charlie divennero di nuovo più chiari; i contorni
tornavano; la stanza smise di girare. Stava di nuovo bene, almeno per il
momento.
«Charles?»
La voce di
Larry suonò sottile. Charlie voltò la testa e tentò di alzarsi un po’. Aveva
dimenticato che Larry non era abituato a tutto quello.
«Mi spiace,
Larry. Non volevo che lo vedessi…».
Larry scosse il
capo. «Non lo capisco… non lo capisco…»
«Larry…»
«No, no, no,
no, no, non dire niente, non voglio sentire niente».
«Larry, per
favore…»
«Sta zitto!»
Non aveva un
buon aspetto. Niente affatto. Per essere esatti, Larry aveva un aspetto
miserevole. Charlie non sapeva cosa fare. Larry era il suo miglior amico e la
cosa era reciproca. Come Charlie avrebbe potuto aiutarlo a venire a capo della
possibilità che forse sarebbe morto di lì a poco?
«Ecco, il tè è
pronto!»
Con un vassoio
tra mani Alan entrò nel soggiorno, interrompendo l’atmosfera tesa. Mise il
vassoio sul tavolo e guardò suo figlio in modo preoccupato.
«Charlie…?»
chiese cautamente.
«Sto bene»
rispose meccanicamente. L’aveva detto talmente spesso negli ultimi giorni che
le parole vennero da sé dalla sua bocca.
«Non tentare di
illudermi!» insorse Alan prima di diventare di nuovo basso e dolce. Mise le
mani sulle spalle di suo figlio sdraiato sul divano. «Puoi metterti a sederti?»
chiese invano perché tentava già a sollevarlo. Però non si era aspettato la
resistenza di Charlie.
«Sì… no… non trattarmi
come un uomo morente!» li lamentò Charlie, irritato, e anche la tensione di
Alan diventò evidente.
«Ma lo sei!»
Per qualche
attimo nessuno disse niente; nessuno anzi respirava.
«Grazie» disse
Charlie alla fine e nessuno dei tre sapeva di che cosa esattamente parlasse.
Di nuovo c’era
un silenzio teso, prima che Alan si schiarisse la gola e provasse a cominciare
una chiacchierata, sembrando grottescamente disinvolto considerata la
situazione.
«Va bene, voi
due – com’è stata la vostra giornata?»
«Buona» rispose
Charlie, conformemente alla verità. «Ho portato a termine le due lezioni in
modo normale. Ho raccontato agli studenti della mia malattia e poi mi sono
licenziato. E’ solo che non sono ancora riuscito a svuotare il mio ufficio. Larry
mi ha portato qui».
«E’ stato
gentile da parte tua, Larry».
«Si… si fa ciò
che si può».
Se Lawrence
Fleinhardt di solito non apparteneva al mondo normale e reagiva in modo
confuso, adesso era estremamente difficile trovare un’espressione adatta per il
suo stato d’animo. Il fatto che il suo miglior amico e il padre di questo
stessero parlando della malattia di uno dei due con tanta scioltezza… – no, non
poteva credere a ciò che stava succedendo, tanto meno analizzarlo. Spostava lo
sguardo, sempre in confusione e perplessità, dall’uno all’altro Eppes e non
percepiva più le loro parole.
«Allora è
vero?» si assicurò, sempre incredulo, interrompendo così la loro conversazione.
Lo guardarono, e adesso Alan sembrava confuso quanto Larry.
«Cos’è vero?»
«Che…» Era sempre
tanto difficile manifestare quest’ipotesi. «Che Charles ha la leucemia».
Con stupore e
rimprovero Alan guardò suo figlio. «Non
gliel’hai detto?»
«Ma sì,
naturalmente! Però non mi ha creduto».
«Era
semplicemente così improbabile» balbettò Larry, ricordandosi della
conversazione nella sua macchina.
«Le coincidenze
sono una realtà matematica, Larry. Eventi statisticamente improbabili accadono
continuamente. Lo sai bene anche tu che se non fosse così la terra non si sarebbe
mai formata».
«Come… come
puoi farlo? Come puoi parlarne in
questo modo?»
«Ho avuto il
tempo di rassegnarmi alla faccenda, Larry. Credimi, fra poco guarderai queste
cose in modo meno serio».
Larry non
credette a nessuna di quelle parole.
«Ma… ma non…
non puoi semplicemente lasciarmi solo!»
L’ex-mentore di
Charlie si sentiva completamente perso, come se nuotasse in un lago immenso e
scuro che solo sporadicamente veniva illuminato da lucciole e come se avesse
appena perso il suo salvagente. O come se la persona che era stata accanto a
lui per tutto questo tempo, ora fosse affondata…
«Larry,
ascoltami!»
Larry levò lo
sguardo e lo puntò direttamente negli occhi intensi di Charlie.
«Non devi
abbandonare la speranza! Ti prego! Non so ancora con sicurezza come si
svilupperà la malattia! Le prospettive che diventi di nuovo completamente sano
sono molte! Dovrò solamente concedermi qualche settimana di riposo, ecco
tutto!»
Ognuno dei tre
uomini presenti sapeva che Charlie stava sminuendo il tutto. Eppure le sue
parole attizzarono la speranza di tutti.
«Va bene» disse
Larry infine e addirittura ce la fece a sorridere. «Va bene. Credo in te. Ehi, voglio dire – fino a questo punto hai
fatto così tante cose che chiunque avrebbe creduto impossibili! Solo per dirne
una: laureato a Princeton a 16 anni!»
«Questo è
vero!» intervenne Alan prima che Larry cominciasse sul serio l’elenco «Charles,
non importa che cosa succederà, io voglio che tu sappia una cosa: in qualsiasi
momento avrai bisogno di me, io sarò qui per te».
Charlie annuì
solamente. Non sapeva che dire. Lo
sostenevano tutti. Era talmente grato del fatto che potesse confidare in loro,
che non trovava parole per esprimerlo.
Che cosa
avrebbe potuto desiderare di meglio?
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Ah sì.... sembra
che stiamo per finire la storia. Ci mancano ancora due capitoli. Spero
che la fine vi piacerà. In ogni caso mille grazie per le vostre
recensioni fino a questo punto!
Buon Natale a tutti!!!
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Capitolo 19 *** 19o capitolo ***
Leucemia 19
Mille grazie per le vostre
recensioni! Ogni volta è un grandissimo piacere per me leggerle!
CAPITOLO DICIANNOVE
Wherever you go, I'll be there beside you
'cause you are my brother, my brother under the sun.
We are like birds of a feather,
we are two hearts joined together,
we will be forever as one,
my brother under the sun.
(Bryan Adams, Brothers under the Sun)
Don entrò nella sua vecchia casa nella luce dorata del sole del tardo
pomeriggio, lasciando scivolare il suo sguardo intorno. I mobili di legno scuro
scintillavano nella luce che penetrava dalla grande finestra. I raggi del sole
basso rendevano visibile la polvere nell’aria, aumentando l’atmosfera
malinconica. Tutto aveva un aspetto così falso: era troppo in ordine, troppo
vuoto. Abbandonato.
La prima volta, ci era voluta più forza per ammetterlo, ma la sensazione e allo
stesso tempo la quotidianità erano diventate compagne fin troppo abituali per
lui: sentiva la mancanza di suo fratello.
«Papà?» chiamò.
Nessuna risposta. Forse Alan era
andato a fare la spesa.
Un po’ maldestro, Don bighellonò tra le stanze abbandonate. Il suo sguardo si
fermò sul grande orologio a pendolo. Le sei del pomeriggio. Giusto in tempo.
Prese il cordless dalla base e continuò la sua escursione mentre componeva il
numero a memoria.
«Charlie Eppes» rispose una voce caldamente famigliare.
«Ciao, fratellino».
«Don! Ciao!»
Dalla risposta di Charlie si
poteva sentire che stava sorridendo. Era almeno un buon inizio, no?
Nel frattempo, Don era arrivato alla sua destinazione e si sedette, il
ricevitore in mano, sul bordo del laghetto dei Koi. Al momento non poteva
essere più vicino a suo fratellino che lì.
«Allora, come stai oggi?» chiese Don, proponendo la domanda standard per
cominciare la conversazione.
«Bene» rispose Charlie, conformemente alla verità.
Don sentì con felicità che non sembrava nemmeno stanco come nei giorni più
brutti. In quei giorni, la loro conversazione, che era diventata una routine
quotidiana, spesso non durava nemmeno cinque minuti. La conversazione che Don
aspettava con ansia durante tutta la giornata. La conversazione per cui anche
Charlie gioiva di più. Anche suo padre e Amita telefonavano ogni giorno e Larry
si faceva vivo quasi quanto loro. Eppure fino ad allora Charlie ce l’aveva
fatta a impedire che almeno Larry e Amita venissero a visitarlo.
«Oggi è un buon giorno» aggiunse Charlie inutilmente. Voleva dire, tradotto: oggi possiamo parlare più a lungo. Tutto
normalmente. Puoi star tranquillo.
Don sorrise.
«Un buon giorno, sì? Allora oggi
non hai dovuto fare lezioni?»
«Dai, smettila» disse Charlie e Don poteva vederlo davanti ai suoi occhi, con
un sorriso stanco e tanto meno vivace paragonato a qualche tempo prima.
Significato delle sue parole: continua.
«Perché?» continuò a punzecchiare il suo fratello minore. «Dimmi, oggi hai di
nuovo potuto spiegare a quello – come si chiama, Peter? – quella legge dei
grandi numeri di… di quel francese? Oppure ha trovato un’altra opportunità per
annoiarti?» Uguale a: se quel tipo ti
annoia, dimmelo. Mi prenderò io cura di lui.
Dopo che Charlie gli ebbe raccontato del momentaneo vicino di letto, Don ci
aveva messo un po’ per smaltire la sua irritazione sul fatto che uno
sconosciuto importunasse talmente tanto Charlie e l’esaurisse solo per gioco.
«Per prima cosa Bernoulli era svizzero; seconda cosa: sì, il mio compagno di
stanza si chiama davvero Peter; terza cosa: lascialo stare. E’ gentile». E
grazie a Dio non è in camera in questo momento, aggiunse Charlie
silenziosamente.
«Ma è anche molto scocciante». Voleva dire qualcosa come: Stai davvero bene? Sembri esausto.
Ma che cosa non ti fa sentire tale?
pensò Charlie un po’ triste, facendo sprofondare di più la testa nel cuscino e
voltando lo sguardo un po’ di più verso la finestra. Avrebbe preferito essere
lì, ma avrebbe dovuto alzarsi e in quel momento un simile gesto era al di sopra
delle sue possibilità. In fin dei conti non voleva che succedesse ancora una volta.
Solo il giorno prima si era svegliato sul pavimento della sua stanza. Una mano
l’aveva scosso e quando la nebbia si era dilatata aveva potuto distinguere
Peter sopra di lui con uno sguardo preoccupato. Poi, la memoria era ritornata
pian piano. Doveva aver provato ad andare in bagno prima di essere avvolto in
un velo nero. I dottori gli avevano assicurato che una cosa del genere non era
fuori dell’ordinario, eppure Charlie aveva preferito non raccontare questa
storia alla sua famiglia. Tanto, in un modo o un altro, sarebbero forse
riusciti comunque a tirargliela fuori quando sarebbero venuti a fargli visita
la prossima volta.
Era esausto. La chemioterapia non era una passeggiata. Poteva a mala pena
tenere in mano il ricevitore: era senza forze. Aveva la febbre e tremolava
malgrado il caldo. I dottori avevano detto che questo accadeva a causa degli
antibiotici, ma in fondo a Charlie non importava perché si sentiva davvero
male; avrebbe solo voluto che fosse finito subito. Stava lì già da tre
settimane e mezza e aveva già superato la metà della fase di induzione. Sperava
che tutto diventasse più sopportabile dopo il trapianto del midollo osseo fra
due settimane.
Charlie rabbrividì e la febbre non fu la sola causa. Se qualcosa fosse andato
male col trapianto… se fosse successo qualcosa a Don…
«Charlie? Stai bene?»
«Sì, ah… sì, certo… mi – mi spiace, hai detto qualcosa?» Ti prego, non
smettere di parlare con me in modo normale.
«Si. Ho detto che intendo venire di nuovo il prossimo fine settimana. Non
ho servizio, né altro impegni. Potrei prendermi il fine settimana libero per
te»
Charlie arrossì un po’. «Lo sai che non ce n’è bisogno. Questa clinica è
talmente lontana da voi e tutto questo per… ebbene…».
«Che vuoi dire?» Don insistette vedendo che il fratello non continuava. La sua
fronte era aggrottata.
«E beh’, venite sempre, facendo un viaggio enorme e poi non potete rimanere per
più di un’ora o due perché dopo sono… ebbene, allo stremo. Inoltre è sempre
così complicato; dovrete di nuovo mettere quella maschera chirurgica per
evitare che mi ammali e tutto il resto... Voglio dire: avrete davvero migliore
cose da fare che sprecare una giornata intera solo per visitare uno scheletro
con cui non si sa che fare». E inoltre non voglio che mi vediate così. E se
non venite, forse la nostalgia diventerà più grande e mi sforzerò di più e poi
forse ce la farò… non voglio essere un peso.
Don era rimasto in silenzio, profondamente scioccato. Gli mancavano le
parole. Certo, di tanto in tanto Charlie aveva accennato a cose del genere, ma
non l’aveva ancora mai pronunciate tanto chiaramente come adesso.
«Sono stanco adesso. A domani».
Fu il timbro malinconico di Charlie a far saltare Don dai suoi pensieri.
«NO! Aspetta, Charlie!» Non puoi lasciare l’argomento così! Non devi
pensarla in quel modo!
Per un attimo Don fu certo che suo fratello avesse già riattaccato, quando
nonostante tutto rispose in modo un po’ farfugliante.
«Che c’è?»
Ad un tratto, Don non seppe più che cosa voleva dirgli. «Non… non avrai parlato
sul serio ora, vero? Charlie?»
Charlie tacque.
«Ascolta, Charlie, papà e io veniamo a farti visita con piacere, non importa
per quanto tempo possiamo rimanere o quanti chilometri ci sono fino a quella
stupida clinica». Voglio finalmente vederti di nuovo. Voglio darti forza.
Siamo qui per te, lo sai, vero?
«Ma… ma sicuramente avete delle cose più importanti da fare».
«No» disse Don semplicemente. «No, non c’è una cosa più importante».
I sentimenti minacciavano di sopraffare Charlie e di nuovo sentì la pressione
di dover proteggere suo fratello da un errore terribile.
«Ci… ci hai pensato ancora una
volta? Il trapianto, intendo…» Non voglio che tu corra un rischio che non
puoi stimare e che qualcosa ti succeda per colpa mia…
«Charlie, dai, non cominciare di nuovo! Non c’è una ragione per me di non darti
il mio midollo». Sorrise, e la sua voce diventò più dolce. «Ma ci sono un sacco
di ragioni per farlo».
Con un po’ di riluttanza, anche Charlie sorrise.
«Allora verrai per il fine
settimana?» Sono davvero così importante per te da sacrificare il tuo fine
settimana libero?
Inizialmente non aveva voluto chiederlo nemmeno. Si sentiva come un bambino
piagnucolante che stava mendicando un dolcetto al supermercato.
«Certo. Devo, perché l’ultima volta non ho terminato con… come si chiamava?
Kelly, vero?»
Charlie sogghignò.
«Allora così stanno le cose, eh?
Non vieni per me ogni volta, ma per le belle infermiere del posto!».
«Ma no!» si indignò Don falsamente e lo corresse: «Vengo a causa di una
bella infermiera». E lo sai bene che non è vero. Vengo solamente per te. Mi
manchi.
Charlie rise e a Don faceva tenerezza. La conversazione era di nuovo così… normale, come se non ci fossero affatto
quei nuvoli scuri che pressavano sugli animi.
Forse, pensò, forse tutto
sarebbe tornato a posto malgrado la situazione attuale. Forse ce l’avrebbero
fatta insieme a far passare l’oscurità, finché non sarebbe rimasto che il suo
ricordo, un’ombra, un nulla.
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Capitolo 20 *** Epilogo ***
Leucemia 20
Dunque… ecco l’ultimo capitolo. Scusate la cortezza.
Spero che vi piaccia e che sia una fine appropriata per la storia.
Vi ringrazio moltissimo per aver
seguito questa storia e ringrazio soprattutto quelli che l’hanno recensita.
Siete bravissimi!
E poi… non ci sono parole per
esprimere la gratitudine che ha meritata Alchimista per aver coretto la storia!
Mille grazie!
EPILOGO
I see skies of blue
and clouds of white,
the bright blessed day,
the dark sacred night.
And I think to myself:
What a wonderful world!
(Louis Armstrong, What a Wonderful World)
C’era il sole. Era un giorno caldo. Dentro, però - nello studio del dottore
Steiner - c’era una fresca aria gradevole.
«Dunque, dott. Eppes. Abbiamo analizzato i suoi prelievi del sangue».
A Charlie sembrava di stare sui carboni ardenti mentre il dottore Steiner
guardava i suoi documenti. L’adrenalina inondava il suo corpo tanto che la
spossatezza che l’aveva accompagnato durante i mesi scorsi era sparita, come
andata in secondo piano. Quella era l’ora della verità. Ce l’aveva fatta? Aveva
davvero superato la malattia? Oppure i mesi passati nel tormento erano stati
solo un periodo di rodaggio che avrebbe abbreviato l’attesa dell’inferno?
Gli avevano dato moltissime medicine durante la chemioterapia. E Charlie non
aveva potuto cacciare del tutto il pensiero che, temporaneamente, sarebbe stato
meglio se non avesse ricevuto affatto le compresse e le fleboclisi. Ma,
ovviamente, erano stati necessarie.
E ovviamente, anche il trapianto del midollo era stato necessario. Charlie era
stato così felice e sollevato dal fatto che Don - che al momento stava nella
sala d’aspetto, non meno nervoso di lui, insieme a suo padre – avesse superato
l’intervento senza alcun danno, che quasi aveva dimenticato la propria
stanchezza e i propri dolori, almeno per un po’.
Proprio come in quel momento. Quasi non si accorgeva dei dolori, ma la tensione
che minacciava di farlo a pezzi non era meno tormentante. E non sapeva per
quanto tempo ancora l’avrebbe sopportata. Più di una volta, durante le
settimane scorse, si era sentito allo stremo. Sfinito. Non aveva voluto fare
più nulla. Era stato stanco della vita, delle sofferenze, dei dolori. C’erano
stati giorni in cui ogni speranza di miglioramento sembrava pura utopia.
Ma poi, c’erano stati anche giorni migliori. Giorni in cui si era sentito
meglio e aveva potuto passare un po’ di tempo con i suoi amici e la sua
famiglia. Se non ci fossero stati quei giorni, probabilmente Charlie si sarebbe
dato per vinto. Erano stati quei giorni che l’avevano aiutato a tener duro. Quei
giorni e l’appoggio di quelli che l’amavano. Amita… Larry… suo padre… Don…
Don.
Automaticamente, Charlie sorrise al suo pensiero. Non c’era un dubbio: senza
Don non ce l’avrebbe fatta. E non solo per la questione del midollo osseo.
Don aveva mantenuto la sua promessa. Era stato lì per Charlie, sempre.
Qualche volta era rimasto accanto al suo letto per tutta la notte, paziente,
sostenendolo. Di tanto in tanto Charlie aveva avuto la sensazione che suo
fratello fosse disperato, quando era al suo fianco, come se il desiderio di
correre via dalla sua camera fosse sempre più forte per quanto avesse provato a
nasconderlo.
Qualche volta, quando Don aveva
creduto che Charlie dormisse, Charlie l’aveva sentito pregare a voce bassa, ma
in modo fervido. E la volontà di Charlie di sopravvivere dopo quelle situazioni
era aumentata straordinariamente.
«Lei sembra aver superato la chemioterapia e il trapianto abbastanza bene».
Charlie annuì convinto. Il dott. Steiner stava forse venendo al dunque
finalmente?
«Eseguiremo un nuovo test fra qualche settimana» riprese il medico, «solo per
esserne certi. Comunque la diagnosi è alquanto chiara. Dott. Eppes – lei è
guarito».
Fine.
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