Every step you take di KatNbdwife (/viewuser.php?uid=102937)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Every step you
take
Berlino, d’inverno, era stupenda. Non che d’estate
o nel resto dell’anno non lo fosse, solo che
d’inverno assumeva quelle tinte cupe che gli ricordavano
tanto lei. Lei che, una volta, gli aveva detto: “Amo
l’inverno. Le tinte scure, il freddo, le coperte pesanti, i
pullover. L’estate mi mette l’ansia”.
Dalla finestra della stanza, il ragazzo poteva scorgere i passanti
imbacuccati in lunghi ed ingombranti cappotti, avvolti da sciarpe dei
più svariati colori, sommersi da pacchetti che, presto,
avrebbero trovato riparo sotto l’albero di Natale. Chi
correva, chi si fermava a fare l’elemosina a qualche povero
disgraziato, chi imprecava contro il tempo che, sotto le feste,
sembrava non bastare mai, chi sorrideva.
Si allontanò dalla sua postazione e, perso nei suoi
pensieri, raggiunse il fratello in sala. Lo trovò steso sul
divano, con il telecomando in mano ma mezzo addormentato.
“Che guardi?”
“Boh” mugugnò il rasta “Un
film, non so cosa sia”
Bill si lasciò cadere sulla morbida poltrona scura,
posizionata accanto al divano della medesima tinta e, giocando con una
ciocca di capelli, cercò di concentrarsi sulla trama del
film. Un ragazzo cercava, disperatamente, di rintracciare una ragazza
che aveva conosciuto su un treno, in viaggio per Madrid.
Pensare a lei fu inevitabile. A dire il vero, ogni cosa gli ricordava
lei, ogni gesto, ogni parola, ogni canzone, ogni profumo. Se vedeva un
bambino, pensava a lei e al suo smisurato amore per il nipote, se
sfogliava un giornale, la vedeva fra i sorrisi delle modelle che lo
osservavano dalle pagine patinate, se accendeva la radio, temeva di
sentire quella canzone che aveva fatto da colonna sonora al loro addio.
Aveva smesso di soffrire, non pensava più a lei con rabbia,
ma questo non significava che avesse smesso di pensarci. Era come
cercare di nascondere l’evidenza, come convincere
l’intera razza umana che il mondo fosse piatto. Lei era
semplicemente un pensiero costante, nulla di più, nulla di
meno. Un pensiero costante.
Il Natale imminente, poi, non faceva altro che peggiorare la
situazione. Le decorazioni, la città addobbata a festa, il
rito dello scambio dei regali, il bacio sotto al vischio. Quel bacio
che per loro non ci sarebbe stato. Nemmeno la settimana che aveva
trascorso con il fratello alle Maldive lo aveva rigenerato,
perché senza di lei si sentiva perennemente vuoto. Forse
all’aeroporto, tre mesi prima, aveva mentito, forse non era
vero che aveva capito la sua decisione, ma non voleva farla andare via
in malo modo, non voleva separarsi da lei con astio, fare la parte del
duro senza cuore.
“Non potevo farti andare via senza dirti che ho
capito. Ho capito quello che volevi dirmi, Lea. E mi spiace di non
avertelo detto prima, di averti lasciata andare via stamattina. Avremmo
potuto trascorrere la nostra ultima notte diversamente, invece di
urlarci addosso. Io ho capito. E adesso so quanto ti costi andare
via”
Non aveva capito, per niente. Cosa poteva essere la distanza, se ad
unirli c’era l’amore? Che paura poteva fare qualche
chilometro? Se c’era la fiducia, cosa c’era da
temere?
Forse non si fidava abbastanza di lui oppure non si fidava abbastanza
di sé stessa.
“E’ facile per te! Ma a me non pensi? A
Roma ad aspettarti, senza sapere cosa cazzo fai, dove sei e soprattutto
con CHI sei!” gli aveva detto, la sera prima della
sua partenza.
Forse il punto era quello. Lei non si fidava di sé stessa,
temeva di non essere all’altezza, di non essere abbastanza.
“Ma tu sei abbastanza. Io non chiedevo altro che
te” pensò il ragazzo, sempre tenendo lo sguardo
fisso sullo schermo del televisore.
“Hai fame?”
Sul subito, Bill non udì la voce del gemello. Solo quando si
ritrovò un cuscino in faccia, si destò e lo
guardò con espressione corrucciata “Sei
pazzo?”
“Ti ho chiesto se hai fame”
“No, non ho fame”
“Io sì. Ti va di uscire? Andiamo da
McDonald’s, andiamo in qualche trattoria, andiamo dove ti
pare, ma usciamo. Sto impazzendo, chiuso in casa”
“Io sto bene, in casa”
“Ho bisogno di uscire, Bill. Non ho intenzione di trascorrere
il resto delle vacanze tappato qui, come fai tu! Da quando siamo
tornati dalle Maldive, non hai messo piedi fuori da questo
appartamento. Come cavolo fai?”
“Mi godo il meritato riposo, ecco come faccio”
rispose Bill, torturandosi un labbro con i denti.
“Sei esaurito” commentò il rasta,
mettendosi a sedere e stropicciandosi gli occhi.
“Non sono esaurito, sono solo stanco! Non ci siamo fermati un
attimo, quest’anno. E questo è l’unico
periodo che abbiamo per rilassarci, per stare in pigiama tutto il
giorno se ci va, per dormire, per…”
“Magari per divertirsi, no?”
“Il tuo senso del divertimento non sempre collima con il
mio” sibilò Bill.
“Non puoi chiuderti in convento per lei, lo sai?”
insinuò Tom, squadrandolo.
“E cosa c’entra lei, adesso?”
Da tre mesi non pronunciava il suo nome. Mai. Era solo "lei".
“C’entra eccome! Non posso pensare che tutto
d’un tratto, tu sia diventato un vegetale così,
per puro caso!”
“Non sono un vegetale, Tom!”
“Certo, tu cammini. Ecco l’unica differenza fra te
e quell’albero lì” disse Tom, indicando
la pianta che troneggiava al centro del loro giardino e che, dalla
portafinestra del salotto, vedevano benissimo.
“Lei non c’entra nulla, ti sbagli. E’ una
storia finita, da un pezzo”
“Puoi darla a bere a chi vuoi, ma non a me, Bill. Sei un
libro stampato, per me. Ma, se solo mi dai retta una volta, guardati
attorno. Ci sono migliaia di ragazze disposte a tutto pur di passare
una serata con te. Non ti sto dicendo di uscire e farti tutto quello
che respira, ma almeno provaci. Stasera vieni con me e Georg, andiamo
in quel pub che hanno aperto da poco. Una serata in compagnia non ti
farà di certo male”
“Tom, non mi sto chiudendo in convento e non mi sono votato
alla castità! Sto bene così, in questo
momento” sbuffò Bill.
“Fai come ti pare, ma non pensare che io ti creda. E
dimenticatela, più presto che puoi” concluse Tom,
per poi alzarsi dal divano e dirigersi verso il bagno, grattandosi la
testa con una mano e sbadigliando.
Dimenticarla era impossibile. Certo, avrebbe sicuramente trovato
un’altra ragazza alla quale avrebbe dato tutto
l’affetto e le attenzioni che poteva, ma lei avrebbe fatto
capolino dagli angoli più remoti della sua mente, per
sempre. Non era semplice dimenticarsi di qualcosa di così
travolgente e puro. E non era semplice dimenticarsi il suono della sua
risata o il brivido che aveva provato sentendo la sua pelle chiara sul
petto.
Ricordava ancora, dopo anni, film bellissimi che aveva visto con la
madre, o libri fantastici che aveva letto durante gli innumerevoli
spostamenti con la band. Alla luce di questo, come avrebbe fatto quindi
a scordarsi di qualcosa che aveva accarezzato solo qualche mese prima?
Ci sono sapori che restano incollati al palato per ore, odori che non
se ne vanno dalle narici per settimane e persone che ti entrano nel
cuore e non se ne vanno più.
**
Il sole d’inverno, per Lea, era un controsenso.
D’inverno era tutto più scuro, tutto
più buio, proprio come piaceva a lei e quel sole, ostinato
come un ribelle d’altri tempi, cercava continuamente di
sconfiggere l’oscurità facendosi spazio fra le
nuvole nere. Coraggioso sole, più di quanto non lo fosse
stata lei, tre mesi prima. Vagò con lo sguardo per tutta la
stanza, fino a quando i suoi occhi non scorsero quel foglietto bianco,
diligentemente posato sulla scrivania accanto ad una rosa. Quella rosa.
Ripensò a quella mattina, quando si era risvegliata accanto
a lui per la prima volta e tutto sembrava così facile. Il
cameriere aveva portato loro la colazione e una rosa rossa, che lui le
aveva regalato.
“Ci hanno portato anche il regalo”
le aveva detto, lui, porgendogliela.
Lea si avvicinò alla scrivania e prese in mano il foglio.
L’aveva consumato a furia di leggerlo, nonostante vi fossero
scritte solo quattro parole. Lo aveva stretto a sé, ci aveva
pianto sopra, lo aveva anche baciato, annusato, accarezzato, centinaia
di volte in quelle settimane e ogni volta che lo faceva, prometteva a
sé stessa di non guardarlo più, di chiuderlo in
un cassetto e scordarlo. Ma la tentazione era troppo forte per potervi
resistere. Così aveva deciso di lasciarlo lì,
dove stava in quel momento, accanto a quella rosa ormai secca, ma che
portava con sé un ricordo indelebile.
Si domandava spesso cosa stesse facendo lui. Con chi stesse parlando,
cosa stesse mangiando, guardando, ascoltando. Chissà se
dormiva ancora nella stessa posizione, se al mattino gli piaceva ancora
rotolarsi fra le coperte prima di alzarsi, se si stropicciava gli occhi
nella stessa maniera, se il suo sorriso era lo stesso. Eppure, aveva
fatto tutto lei. Lei se ne era andata, lei lo aveva lasciato e lei
adesso pensava a lui con le lacrime agli occhi.
Marie bussò alla porta, interrompendo quel carnevale di
ricordi.
“Posso?” chiese, aprendo l’uscio.
“Sì, vieni” rispose Lea, asciugandosi
frettolosamente una lacrima “Entra”
Marie fece qualche passo verso la sorella.
“Tutto bene?”
“Sì, sì. Perché?”
“Sei… strana” balbettò Marie.
“Sto bene. Ma dubito che tu sia venuta in camera mia solo per
chiedermi come sto”
“No, infatti. Ero venuta a dirti che stasera non ci sono,
esco a cena con Laura. Porto Phil da mamma, dormirà da
lei”
“Ok, io inizio alle 20.00, stasera. Se vuoi, prima di andare
al lavoro accompagno io Phil dalla mamma, sono di strada”
“Ti ringrazio, mi faresti un enorme favore” rispose
Marie, sorridendo “Comunque Lea, perché
menti?”
“Mento?” ripeté Lea, sbigottita
“Mento?”
“Già” disse Marie, annuendo con la testa
“Non stai bene, per niente. Pensavo che dopo la storia di
Parigi, non ci saremmo più dette frottole, o meglio, tu non
me ne avresti più dette, dato che io non ti ho mai
mentito” concluse, lasciando trasparire un leggero sconforto
nel tono di voce.
“Marie” sospirò Lea “Non sto
mentendo. Io sto bene davvero, sono solo soprapensiero ma sto
bene”
“E’ lui che occupa quella tua testolina
dura?” chiese Marie, con tenerezza.
Lea fece cenno di sì con la testa, senza parlare.
“Sei stata coraggiosa, Lea. Non so quante altre persone, al
tuo posto, avrebbero pensato al futuro come hai fatto tu. Molti si
sarebbero persi dietro alla magia del presente, tralasciando quello che
sarebbe stato. Tu invece hai guardato oltre, hai pensato alle
difficoltà di un rapporto a distanza, alla gelosia, ai dubbi
che, prima o poi, vi avrebbero divorato. Ti ammiro, piccola. Io non so
se sarei stata così decisa”
Lea sorrise: “Pensa a come si sarebbe sentito, a come CI
saremmo sentiti ogni volta che ci saremmo dovuti salutare
all’aeroporto, a quante volte avremmo dovuti scambiarci un
bacio attraverso la cornetta di un telefono, festeggiare i rispettivi
compleanni a distanza, abbracciarci solo con le parole. Non sarebbe
stato corretto, per nessuno dei due”
“Ti manca?” chiese Marie, in un soffio.
“Da morire. Ma non ho intenzione di fargli sapere che
è la prima cosa a cui penso quando mi sveglio, sarebbe
meschino da parte mia. Che senso avrebbe ricordargli quanto lo amo?
Passerà, Marie. Passerà…”
E di nuovo, la mente volò a quel giorno
all’aeroporto e alle parole che Bill le aveva detto prima che
lei partisse: “Ma se sentirai la mia mancanza,
cercarmi. Salgo sul primo volo e ti raggiungo, dovunque sei”.
“Mi aveva detto di chiamarlo, se sentivo la sua
mancanza” continuò Lea, guardando la sorella
“Aveva detto che sarebbe salito sul primo volo e mi avrebbe
raggiunta, ovunque fossi stata. Ma non posso chiamarlo, Marie.
Preferisco che pensi che mi sia scordata di lui. Soffrirà,
ma almeno si dimenticherà di me più
facilmente”
“Credi?” rispose Marie, sventolando sotto agli
occhi della sorella il biglietto che le aveva mandato il ragazzo,
qualche settimana prima “Dopo tre mesi, ti arriva questo
biglietto, con queste parole. Non so se lui ti ha dimenticata”
“Tre mesi sono pochi. Abbiamo ancora addosso i rispettivi
odori, Marie. Ci sono dei giorni in cui sento il suo profumo sui miei
vestiti e per quanto possa sembrare banale, ti giuro che è
così. Non avevo idea di come potesse essere
l’amore. Così travolgente, spiazzante, faticoso.
E’ qualcosa di gigantesco, ecco. Gigantesco è la
parola esatta. Vieni catapultato in un mondo parallelo, fatto di pure
sensazioni”
Marie annuiva, con aria sognante.
“In ventitre anni di vita, non ho mai provato nulla di
simile. Mai”
“Sicura che non vuoi ripensarci? Benché ammiri la
tua coerenza, sento il dovere di dirti che forse staresti meglio se lo
sentissi”
“No, sarebbe peggio. Sto bene, Marie, il suo pensiero mi
accompagna ogni giorno. Ci sarà sempre posto per
lui”
“Come vuoi, Lea. Spetta a te decidere”
“Ti ringrazio per la comprensione. Adesso però,
mangiamo qualcosa. Phil avrà fame”
ridacchiò Lea, uscendo dalla stanza seguita dalla sorella e
dall’ombra di… lui.
**
Bene, come avrete capito
"Every step you take" è il seguito di "Dopo di te".
L'ho scritta perchè c'erano ancora un paio di cose che
andavano dette e perchè mi ero smisuratamente affezionata ai
personaggi della Fan Fiction precedente.
Spero tanto vi piaccia. Perdonatemi se posto molto velocemente ma
quando ho i capitoli pronti non mi piace aspettare troppo ^^
Grazie di nuovo a tutte
coloro che leggono le mie storie! *_*
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
“Ti sei deciso?” chiese Tom al gemello, uscendo dal
bagno “Io ho fame, Bill. Quindi uscirò con o senza
te” continuò scocciato. Non voleva essere duro con
lui, ma lo stava davvero mandando fuori dai gangheri. Odiava vederlo
ciondolare per casa senza meta, incrociare i suoi occhi spenti,
sentirlo parlare piano, come se usare la voce gli costasse fatica.
Cercava in tutti i modi di spronarlo, anche a costo di sembrare
scortese e scostante.
“Tom, abbiamo una cucina, lo sai?” rispose Bill,
risentito.
“Non ho voglia di mettermi a cucinare, Bill! Ho voglia di
uscire, di prendere un po’ d’aria, di mangiare
qualcosa di estremamente unto e ipercalorico. Dai, alzati da quella
poltrona e vestiti”
“Non ho voglia, Tom. Fuori si gela”
“Vaffanculo, allora. Ci vado da solo” rispose,
secco, dirigendosi verso la porta.
“Sei scemo?” la voce di Bill gli giunse forte e
chiara. Il rasta tornò indietro e si piazzò di
fronte al fratello “No, tu sei scemo! Te ne stai
lì, come un morto vivente! Sembri
un’ameba”
“Oh, che paroloni che usa il fratello”
commentò Bill facendogli il verso “Ma che cavolo
vuoi? Vai a mangiare quello che ti pare, esci con Georg, fai quel che
ti pare ma non rompermi le palle, Tom!”
“Sei patetico” dalla labbra di Tom quelle parole
uscirono in un sussurro, ma Bill le capì ugualmente.
“Scusa?”
“Sei patetico, Bill. E tutto per una ragazza!”
“Forse non mi sono spiegato bene” tuonò
Bill, alzandosi e piantandosi le mani sui fianchi “Io non ho
nulla che non vada e non ho intenzione di ripeterti per
l’ennesima volta che lei non c’entra
nulla!”
“Lei” sbuffò Tom “Non pronunci
il suo nome da mesi. E poi vuoi farmi credere che non ha nulla a che
vedere con questa storia? Se ti manca così tanto,
va’ da lei, fai qualcosa! Basta che non te ne stai
lì, immobile come una statua! A volte ho
l’impressione di avere in casa un pezzo del Madame
Tussaud”
“Spiritoso. Resta il fatto che lei non c’entra.
Sono solo stanco e desideroso di passare il mio mese di vacanza in
pace, in casa mia. Non ti basta la vita che facciamo undici mesi
all’anno?”
“No. Ho 19 anni e voglio godermeli fino a che posso. Sperando
di non incontrare una che mi riduca come te” rispose,
sprezzante.
Era necessario, si diceva Tom, metterlo di fronte a questa situazione.
Forse avrebbero litigato, ma quantomeno ne avrebbero discusso,
anziché celare la storia dietro un pesante silenzio.
“Non riesco a capire cosa ti dia così tanto
fastidio. Perché parli così, Tom?”
“Perché non puoi impazzire dietro ad una storia
finita. Avevi detto che era tutto risolto, che avevi accettato il fatto
che se ne fosse andata, che avevi capito la sua decisione. Ne abbiamo
parlato per un giorno intero, ti ricordi? Mi hai detto che era tutto a
posto. Mentivi, quindi”
“No, non ti ho mentito. E’ tutto a posto. Sento la
sua mancanza, ma non mi sto distruggendo per lei. La vita va avanti lo
stesso”
“Non mi pare proprio” commentò il rasta,
di rimando.
“Allora non so che altro dire!”
“Che vieni con me e Georg, questa sera. Mi basta. Voglio
vederti fuori di qui”
“Va bene” si arrese Bill
“Verrò con te e Hagen, basta che non continui a
menarla con questa storia!”
“Promesso. E adesso, vieni con me a pranzo, dai”
Bill sorrise al fratello, che nonostante i suoi modi bruschi, era
comunque la cosa più cara che avesse al mondo. Oltre a lei.
**
Alle 22.00, Georg parcheggiò l’auto sotto casa dei
gemelli, diede un colpo di clacson come da accordi e aspettò
che i ragazzi scendessero. Il locale distava solo pochi minuti da
lì, era carino, di recente apertura, discreto e alcuni amici
che ci erano già stati gli avevano detto che i cocktail
erano ottimi.
Tom fece capolino dal cancello per primo, seguito da un cupo Bill.
Salirono in macchina e Georg partì sgommando.
“Andreas non viene?” chiese il bassista.
“No, non aveva voglia di uscire, esattamente come mio
fratello” scherzò Tom, voltandosi per guardare
Bill che sedeva dietro e che alzò il dito medio.
“Dai Bill, mi hanno detto che è un posto molto
carino”
“Non preoccuparti Georg, è un Kaulizt! Qualcosa da
me, avrà pur preso! Si divertirà”
“Io sono qui, nel caso non ve ne foste accorti”
disse Bill, facendo ridere i due ragazzi.
Arrivarono al locale ed entrarono pieni di energia, tranne Bill, che
stava cercando qualcosa in borsa, la sua fedele borsa nera.
All’ingresso li riconobbero subito e li fecero passare senza
fare la fila, come il resto dei comuni mortali. Vennero scortati fino
ad un tavolo e fu loro servito da bere da una prosperosa cameriera dai
corti capelli rossi.
“Cosa stai cercando in quella borsa?” chiese Tom al
gemello, mentre Georg si guardava in giro.
“Il telefono, cazzo. L’ho lasciato a casa, devo
andare a prenderlo” disse Bill, alzandosi ed uscendo.
“Ma dove vai?” gli urlò dietro il
gemello. Bill aveva quasi raggiunto la porta.
“Aspettami Ge, arrivo subito” Tom si
alzò e seguì il gemello, che ormai era in strada
e si stava avviando verso casa, a piedi.
“Bill!” Tom gli corse dietro e lo raggiunse
“Ma che cavolo fai? Ho io il cellulare, ammesso che ci
serva”
“No, devo prendere il mio” rispose Bill,
continuando a camminare.
“Cosa ti interessa del telefono?”
“Potrebbe chiamare” disse Bill, tutto
d’un fiato.
Il locale era ormai parecchi metri dietro alle loro spalle, Bill
camminava velocemente, a grandi passi.
“Fermati” Tom lo prese per un braccio
“Torniamo indietro”
“No, devo prendere il telefono. Tu vai, io arrivo
subito”
“No! Lei non ti chiamerà, Bill. E’
andata via”
Bill fece ancora qualche passo, poi si fermò. Tom era dietro
di lui, in silenzio.
“Bill basta, lei non ti chiamerà”
ripeté il rasta.
“Non puoi saperlo, devo prendere il mio cellulare”
“Vai allora! Fai quel cazzo che vuoi, mi pare di avere
già sprecato troppo fiato per questa faccenda!”
tuonò Tom. Bill non riuscì a contenersi ed
esplose: “Lei potrebbe chiamare! Tu non capisci,
Tom!”
“Cosa non capisco, eh? Non capisco il fatto che stai
impazzendo per una persona? No, non lo capisco! Non puoi, capisci? Non
puoi!” disse Tom, gesticolando vistosamente, per poi
continuare “Lei si è già scordata di
te, ne sono certo! E tu dovresti fare altrettanto!” poi
scrollò le spalle e tornò indietro, verso il
locale, lasciando il gemello solo, in mezzo al marciapiede.
Bill riprese a camminare e raggiunse casa, vi entrò
sbattendo prima la porta del cancello e poi quella di casa, corse in
stanza e afferrò il cellulare, appoggiato sul comodino.
Guardò il display: nulla. Non una chiamata, non un
messaggio. Niente di niente. Con rabbia, lo scaraventò
contro il muro, imprecando.
Lei non lo avrebbe richiamato, non sentiva la sua mancanza, si era
già dimenticata di Parigi, di quello che si erano detti in
aeroporto, si era dimenticata di lui.
Sentì le lacrime pungergli gli occhi, ma le
ricacciò indietro: un uomo non piange mai, pensò.
Sedette sul letto e ricordò cosa aveva provato quando
avevano dormito insieme la prima volta, a quanto fosse stato
dannatamente emozionante essere il suo primo amore, il primo ad
accarezzare la sua pelle, ad assaggiare le sue labbra, a sentire il
profumo del suo corpo. L’aveva sentita così
vicino, per un attimo aveva pensato di aver trovato davvero la ragazza
giusta, quella con la quale poter condividere tutto, dal dentifricio al
letto.
Di nuovo, gli occhi presero a bruciargli. Dopo mesi e mesi di
repressione, decise di lasciar scorrere quelle benedette lacrime.
Affanculo gli uomini che non piangono.
Con la testa fra le mani, diede sfogo a tutta la desolazione e la
tristezza che gli soffocavano il cuore da quando lei era partita.
Piangeva raramente: si era commosso con un paio di film, aveva pianto
dopo il primo concerto per l’emozione, si era emozionato
quando aveva cantato, per la prima volta in pubblico, “In die
Nacht” ma a parte queste brevi parentesi, non ricordava di
aver mai avuto così tanto bisogno di sciogliersi in un bagno
di lacrime amare.
Come poteva pensare di scordarsela? Aveva sottovalutato la potenza del
suo sentimento, credendo erroneamente di riuscire a vivere senza di
lei, sperando di colmare quel vuoto con gli impegni della sua
professione ma soldi e fama non gli avrebbero mai dato quello che gli
aveva regalato lei con un solo sorriso.
**
“Phil, sei pronto?”
Lea aspettava il nipote, in piedi di fronte alla porta di casa.
L’avrebbe accompagnato dalla nonna e poi sarebbe andata a
lavorare, come sempre. Il bambino arrivò poco dopo,
trotterellando, con il suo zainetto sulle spalle e in mano la sua
valigetta dei colori.
“Hai preso tutto?” chiese Lea, dolcemente.
“Sì zia” cinguettò il piccolo.
Lea lo abbracciò affettuosamente, poi uscirono di casa e
salirono in macchina. In venti minuti Lea era già al locale.
La casa della madre era di strada e aveva anche fatto in tempo a
fermarsi da lei per un veloce saluto. Dopo Parigi, erano cambiati i
rapporti: Lea aveva trovato il coraggio di essere sincera con lei e,
forse, anche un po’ più tenera. Varcò
la soglia del posto di lavoro sorridendo: quante cose erano cambiate
dopo di lui, grazie a lui, senza di lui.
Così come la morfologia di un deserto cambia dopo una
tempesta di sabbia, allo stesso modo era cambiata la sua vita. Dove
prima c’erano dune invalicabili, adesso il terreno era piatto
ed era più semplice attraversare la via senza interruzioni.
Anche se, doveva ammetterlo, un cammino solitario era, seppur facile,
sempre solitario.
“Lea, buonasera!” la salutò Tino, il suo
datore di lavoro, nonché proprietari, nonché
simile ad un padre per lei.
“Ciao Tino!” rispose Lea.
“Tesoro, ho una sorpresa per te” iniziò
Tino, avvicinandosi a lei “Miriam si è
licenziata”
“E sarebbe una sorpresa?” chiese Lea, perplessa.
“Beh dai, non puoi nasconderlo. Non era propriamente la tua
migliore amica, se non sbaglio”
“No, non lo era” rispose Lea “Ma ormai
avevo imparato a conoscerla”
Dopo Bill, anche la rabbia e il disappunto si erano affievoliti, in
lei, facendo prevalere la tenerezza e la comprensione. Di conseguenza,
anche Miriam non era più un problema. Anzi, dopo Parigi si
era ripromessa di provare a parlarci, in maniera schietta, in modo da
riuscir a trovare un punto d’incontro. Ma in quei tre mesi
non aveva ancora trovato il giorno giusto e ora lei se ne era andata.
“Ma c’è anche un’altra
novità” continuò Tino
“Vieni”
Lea lo seguì fino al bancone, dietro al quale stava un
ragazzo magro e molto alto, con i capelli neri, lisci, che gli
sfioravano appena le spalle. Tino lo chiamò e quando lui si
voltò, Lea per poco non svenne. I suoi occhi. Era
impossibile, non poteva essere lui.
“Lea, questo è Luca”
“Ciao” balbettò Lea.
“E’ il tuo nuovo collega, sono sicuro che andrete
d’accordo”
Lea lo osservò meglio. I lineamenti del viso erano
più marcati di quelli di Bill, ma gli occhi… gli
occhi erano identici. Nemmeno Tom aveva degli occhi così
simili ai suoi.
La tonalità, il taglio, la luce: identici. Stessi identici
occhi.
Presa a squadrarlo, non si accorse della mano che il ragazzo le stava
porgendo.
“Scusa” balbettò nuovamente, dandogli la
mano “Piacere, Lea”
“Luca” sorrise il ragazzo “Spero di non
fare danni. Sai, è la prima volta che lavoro in un
locale”
“Lea ti spiegherà tutti i dettagli che io ho
trascurato, non preoccuparti” si intromise Tino
“Non è difficile e lei è
un’ottima maestra”
Luca sorrise, di rimando e Lea sussultò: aveva di fronte a
sé gli occhi di Bill.
**
Eccoci al secondo capitolo!
Rinnovo i ringraziamenti a tutte le lettrici e a coloro che commentano,
grazie! *_*
Vi ricordo, anche se l'ho già detto, che la storia
è stata scritta nel 2008 quindi età e look dei
gemelli sono "vecchi" xD
(Ok, ammetto che stare dietro ai cambi di look di Bill non è
comunque semplice xD)
Alla prossima! :)
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
In un paio di ore, Luca aveva appreso perfettamente tutto quello che
Lea gli aveva insegnato e pareva che facesse quel mestiere da tutta la
vita. Si muoveva agilmente dietro al bancone, destreggiandosi alla
perfezione fra birre e cocktail vari. Lea lo osservava, ammirata. Ogni
tanto, il ragazzo le rivolgeva un timido sorriso, ma non era di
circostanza. Alla ragazza pareva di avere accanto Bill e questo la
spiazzava. Toglierselo dalla testa le era sembrato quasi impossibile e
di sicuro non ce l’avrebbe fatta con accanto un clone della
persona che tanto aveva amato. Che tanto amava.
A guardarlo bene, come Lea aveva notato fin dall’inizio, i
tratti del suo viso erano diversi da quelli di Bill, ma quei due occhi
scuri non la lasciavano mai, se li sentiva addosso, perennemente.
Al termine di quella lunga ed estenuante serata, Lea si concesse una
sigaretta, seduta su di una sedia nel retro del locale, come faceva
sempre. Anche Luca si accomodò di fianco a lei ed estrasse
dalla tasca dei jeans sbiaditi un pacchetto di sigarette.
“Allora” esordì il ragazzo
“come sono andato?”
“Bene” mormorò Lea.
“Solo bene?” rise il ragazzo.
“Sì, cioè, sei in gamba” era
tremendamente imbarazzata, non riusciva a dire nulla di sensato,
continuava solo a pensare ai suoi occhi e cercava di elencare
mentalmente tutte le differenze esistenti fra lui e Bill.
“Grazie” sorrise Luca “Avevo il terrore
di combinare qualche guaio, è la prima volta che lavoro in
un locale”
“Tino me ne ha parlato, eppure da come ti sei mosso stasera,
sembri perfettamente a tuo agio”
“Mi adatto facilmente alle situazioni” rispose
Luca, passandosi una mano fra i capelli. I capelli neri “E
tu, invece, lavori qui da tanto?”
“Parecchio, quasi sei anni. Questo posto è la mia
seconda casa”
“Tino mi ha parlato benissimo di te, all’inizio ho
pensato che fossi sua figlia”
Lea sorrise: “In effetti, è la cosa che
più si avvicina alla mia idea di padre”
“Vivi da sola?” chiese Luca.
“No, con mia sorella e mio nipote. E tu?”
“Io vivo con mio fratello, da quasi un anno ormai”
Aveva anche un fratello. Le coincidenze cominciavano ad assumere tinte
grottesche.
“Bene, adesso possiamo anche andare a casa”
concluse Lea “Il bancone è pulito, il locale
è chiuso e il letto mi aspetta”
“Vuoi un passaggio?” chiese il ragazzo.
“Ho la macchina, grazie”
“Come primo giorno, direi che è andato alla
grande. Insomma, sei un’ottima collega”
“Lo stesso vale per me”
Si salutarono con una veloce stretta di mano, dopodiché Lea
uscì velocemente dal locale, salutando Tino senza, come al
solito, abbracciarlo. Salì in macchina e mise in moto,
partendo con una sonora sgommata, mentre il cuore le rimbalzava in
petto. Che diamine le stava capitando?
**
Tom rincasò all’alba, chiuse la porta con un
sonoro tonfo ed entrò in camera del fratello senza troppe
cerimonie.
“Guardami” gli intimò, brusco. La stanza
era buia ma Tom sapeva che il gemello non dormiva, poteva sentire il
suo respiro. Bill accese la luce dell’abat-jour e lo
guardò senza dire nulla.
“Non sei tornato” continuò Tom, duro,
restando in piedi con le braccia conserte, di fronte al letto del
gemello “Io e Georg ti abbiamo aspettato tutta sera”
“Cosa sarei tornato a fare?”
“Quello che mi avevi promesso. Una serata normale. Invece no,
sei dovuto tornare a casa per prendere uno stupido cellulare del
cazzo”
“Lasciami in pace, Tom. E’ tardi e ho
sonno”
“Bugiardo. Non stavi nemmeno dormendo, non prendermi in giro.
Almeno, hai trovato quello che cercavi?” lo sfidò
il rasta.
“No” mugugnò Bill.
“Lo sapevo. Ma mai una volta che mi dai retta!
Così, ti sei rovinato la serata e l’hai rovinata
anche a me, solo per una persona che nemmeno si ricorderà
più di te”
“Piantala”
“Piantala tu! E smettila di comportarti come uno
schizzato” concluse, secco, per poi uscire dalla stanza del
gemello senza chiudere la porta.
“Sei nato in barca?” gli urlò Bill. Tom
tornò sui suoi passi e, osservandolo con uno sguardo carico
di rabbia, chiuse la porta sbattendola violentemente.
“Fanculo” sussurrò Bill, tirandosi le
coperte sopra la testa e chiudendo gli occhi.
**
Dopo due settimane, Lea e Luca formavano una squadra perfetta, sotto
ogni punto di vista: efficiente, in sintonia, veloce. Tino non poteva
essere più soddisfatto della sua nuova assunzione, non
vedeva Lea così sorridente da mesi. Una sera, dopo il
lavoro, i due ragazzi uscirono dal locale insieme e si diressero verso
il parcheggio, dove avevano lasciato le rispettive auto.
“Hai voglia di fare un giro?” chiese Luca, mentre
Lea inseriva la chiave nella portiera della sua macchina.
“Sono quasi le due, Luca”
“Quindi? Domani non lavoriamo, possiamo dormire. Io non ho
sonno, fammi compagnia” rispose, con tono volutamente
civettuolo.
“Solo un’ora, non di più”
acconsentì Lea, riponendo nuovamente le chiavi nella borsa.
Si avviarono, a piedi, verso il centro della città che, a
quell’ora, sembrava deserta. Raggiunsero una piazzetta poco
distante dal pub e si sedettero sul bordo di una fontana.
“Vengo sempre qui, quando ho voglia di disegnare in
pace” esordì Luca.
“Disegni?”
“Sì, da anni. E’ la mia passione
segreta. Mi piacerebbe diventasse una professione vera e propria e non
solo un hobby”
“Cosa disegni?”
“Di tutto. Qualsiasi cosa catturi la mia attenzione. Da
bambino, mi dilettavo a disegnare gli eroi dei miei cartoni animati
preferiti, ho iniziato così”
“Io non sono in grado di disegnare nemmeno una
banana” rise Lea, facendo ridere anche il ragazzo.
“Se vuoi, posso darti qualche lezione!”
“Meglio di no! Perderesti tempo”
ridacchiò Lea. Poi, inaspettatamente, Luca la
spiazzò con una domanda diretta: “Domani sera hai
impegni?”
Lea non rispose subito, perse tempo fingendo di non riuscire a trovare
l’accendino. Ma, quando il ragazzo le porse il suo, fu
costretta a proferir parola: “No, non ho nulla da fare, di
preciso. Di solito mi vedo con le amiche, quando non lavoro”
“Ah” rispose, deluso “Pensavo di proporti
una pizza o un cinema, od entrambi”
“Io…” balbettò Lea
“Cioè…”
“Ehi, non sentirti in imbarazzo, era solo
un’idea”
Tanti mesi prima, anche Bill le aveva chiesto di trascorrere del tempo
con lui e Lea aveva frainteso, pensando che il ragazzo volesse solo
approfittarsi di lei. Rinunciando a quell’invito, aveva perso
la possibilità di trascorrere più tempo con lui e
adesso, guardando Luca, si chiese se quello non fosse un segno del
destino.
Posto che con Bill la storia fosse ormai finita, perché non
dare spazio a quello che la vita poteva ancora riservarle? Inoltre, il
suo era un semplice invito, nulla di più. E Luca era
così simile a Bill che passare del tempo con lui la faceva
sentire meglio. Chissà che qualcuno non le avesse inviato
quel ragazzo per alleviarle la sofferenza causata dalla lontananza
dell’unica persona che avrebbe voluto accanto.
“Ci sono” rispose, tutto d’un fiato
“va benissimo la pizza e il film”
“Perfetto!” trillò Luca “Passo
a prenderti alle sette, allora!”
Tornarono quindi al parcheggio e si salutarono con un rapido bacio
sulla guancia.
Lea, durante il tragitto, pensò a Bill e a cosa stesse
facendo in quel momento: forse anche lui aveva conosciuto una ragazza,
magari l’aveva già rimpiazzata o forse stava,
proprio in quel momento, baciando le labbra di qualcuna che non era
lei. Una rabbia sorda si impossessò di lei:
l’invito di Luca era capitato proprio nel momento esatto.
**
La sera successiva, Luca passò a prenderla, puntuale come un
orologio svizzero. Marie, sotto sotto, fremeva dalla voglia di vedere,
finalmente, sua sorella con un ragazzo. Non aveva vissuto da vicino la
breve ma intensa storia di Lea e Bill, così sperava con
tutta sé stessa che questo nuovo arrivo le portasse quella
felicità che sembrava aver lasciato a Parigi, nonostante
fingesse di stare bene.
“Presentamelo, dai!” la spronò Marie,
quando vide il ragazzo parcheggiare l’auto davanti a casa.
“Ma sei impazzita? Non farti strane idee, Marie. E’
solo un collega e un amico, usciamo a mangiare una pizza e a vedere un
film, nulla di più”
“Sì certo” ribatté Marie,
scettica “E allora perché non vengono anche Sue e
Mandy?”
“Non volevo metterlo in imbarazzo o fargli pensare che avessi
paura di lui”
“Raccontalo a qualcun altro, Lea, non a me”
ridacchiò Marie.
“Pensala come vuoi, io vado” rispose Lea,
velocemente, salutando la sorella e uscendo.
Lea non lo sapeva, ma anche a Berlino due fratelli facevano,
quotidianamente, gli stessi identici discorsi e la cosa più
assurda era che Tom e Marie nemmeno si conoscevano, ma pareva si
fossero messi d’accordo per recitare la stessa identica parte.
Dopo la pizza, Luca propose alla ragazza un film. Uscendo dal
ristorante, disquisirono sui cinema in programmazione.
“Che genere preferisci?”
“Qualsiasi genere, a patto che non sia una commedia
romantica. Non le digerisco” rispose Lea, ridendo
“Sai quei film assurdi in cui due si amano e, nonostante
mille difficoltà, alla fine si ritrovano? Ecco, li
detesto”
“Perché?” chiese Luca “Non ti
piace sognare? Insomma, vedere uno di quei film e sperare che sia
vero”
“No, è patetico perdersi dietro ad una fantasia,
perché non è vero che l’amore trionfa
sempre, delle volte perde” mormorò.
“Brutte esperienze?” chiese il ragazzo, serio.
“Sì, ma non mi va di parlarne, scusami”
“Optiamo per qualcosa di sanguinolento, allora”
rise Luca, per cercare di stemperare la tensione “Un film
vietato ai minori, magari!”
“Ci sto! E spera che non ci siano storie d’amore di
contorno!”
Raggiunsero il cinema, comprarono due biglietti per assistere al
secondo spettacolo e passarono le successive due ore a sorbirsi un
polpettone micidiale che parlava di zombie e spiriti vari, per nulla
pauroso. Quando le luci si riaccesero, i due ragazzi si accorsero di
essere rimasti soli, eccezion fatta per una coppietta che si guardava
negli occhi e parlava fitto fitto, in fondo alla sala.
“Devo dire che questo film è piaciuto a
tutti” scherzò Luca.
“Siamo rimasti gli unici qua dentro, il resto degli
spettatori è fuggito prima del termine. Detto onestamente,
l’avrei fatto anche io”
“Idem, solo che credevo ti piacesse”
“Potevi dirmelo!” disse Lea.
“Anche tu” ridacchiò Luca “Ci
saremmo risparmiati due ore di rottura”
Alzandosi e dirigendosi verso l’uscita, risero ricordando i
pezzi più assurdi del cinema appena visto e tornarono alla
macchina. Chiunque li avesse visti, in quel momento, li avrebbe
scambiati facilmente per una coppia.
Il viaggio di ritorno verso casa di Lea fu silenzioso. Luca,
accorgendosi dell’improvviso mutismo di Lea, accese la radio
e lasciò che la musica invadesse l’abitacolo
dell’auto. Quando giunsero a destinazione, il ragazzo
parcheggiò l’auto e spense il motore.
“Grazie per la serata” disse Lea, afferrando la
maniglia della portiera “Ci vediamo domani”
“Aspetta” la fermò Luca
“Fumiamo una sigaretta insieme, è ancora
presto”
Lea acconsentì e si sistemò meglio sul sedile,
dando le spalle alla portiera e osservando i movimenti di Luca.
“Non volevo sembrarti indiscreto quando ti ho chiesto delle
tue esperienze passate” esordì Luca, aspirando una
boccata di fumo.
“Non preoccuparti, non sei stato indiscreto”
“Se hai voglia di parlarne, sono un buon
ascoltatore”
Lea rifletté un istante: era il caso di parlargli di Bill?
Raccontare quella storia, senza omettere nessuna sensazione, le sarebbe
servito?
“Non c’è granché da dire. Una
storia durata troppo poco tempo”
“Però ha lasciato il segno”
insinuò il ragazzo “O sbaglio?”
Lea sospirò: “No, non sbagli. Ha lasciato il
segno. In tutti i sensi”
“Lo amavi?”
“Più di quanto sia in grado di spiegare, non ho
mai provato qualcosa di simile fino a che non l’ho
conosciuto”
“Perché è finita?” poi,
velocemente, aggiunse “Se ti faccio troppe domande,
dimmelo”
“Era ora che ne parlassi, sinceramente, con qualcuno. Sai,
dico sempre che sto bene, che è finita e basta, ma in
realtà mi manca così tanto. Mi chiedi
perché è finita… beh, io
l’ho fatta finire. Abitiamo in due Stati diversi, non sarebbe
durata”
“Se vi amate, la distanza non dovrebbe
spaventarti”. Le stesse parole di Bill. Lea
rabbrividì.
“Non è così semplice. Lui è
sempre in giro, per lavoro, e saremmo stati costretti a vederci una
volta al mese, magari solo per poche ore. Io lo volevo accanto a me
sempre, non così”
“Ne è valsa la pena? Lasciarlo,
intendo…”
Lea non rispose, così Luca continuò:
“Non mi sembri felice, parli di lui a monosillabi, non
l’hai mai nemmeno chiamato per nome. Se fossi convinta della
tua decisione, non soffriresti così tanto. Io non ti conosco
da molto, eppure posso percepire come ti senti” concluse,
afferrandole una mano.
Lo aveva fatto anche Bill, quando Lea gli aveva raccontato del padre e
di come si sentisse trascurata da lui. Anche lui gli aveva stretto la
mano, con dolcezza, cercando di infonderle coraggio.
“Che cosa potevo fare? Avrei sentito la sua mancanza ogni
singolo giorno della mia vita”
“Perché, adesso non ti manca?”
“Sì ma…”
“E’ lo stesso, Lea. Non capisci? Lui ti manca
comunque”
“E’ finita, ormai. Sono passati quasi cinque mesi,
sono certa che lui si sia già rifatto una vita. Pazienza, si
vede che non era destino”
“Sicura?”
“Sicura. Devo voltare pagina, c’è ancora
vita. E’ una delle cose che mi ha insegnato lui”
poi, lasciando la mano del ragazzo, si voltò per scendere
dall’auto. Ma Luca, afferrandola per la spalla, la costrinse
a voltarsi e, avvicinandosi a lei, le diede un bacio leggero sulle
labbra. Lea, imbambolata, chiuse gli occhi e pensò a Bill.
**
Come al solito, grazie a tutte di cuore! *_* I vostri
commenti mi fanno un piacere immenso, ragazze! E sentitevi libere di
dirmi esattamente quello che pensate :)
Immagino odierete tutte quante Lea xD Ma ci tengo a dirvi una cosa:
nulla è come sembra...
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Trascorsero pochi secondi, anche se ai due ragazzi parvero secoli, fino
a che, con naturalezza, si allontanarono mantenendo il contatto visivo.
Fintanto che Lea si concentrò solo sui suoi occhi, le
palpitazioni del suo cuore rimasero pressoché invariate. Ma
a quegli occhi si accompagnarono, man mano che Lea, allontanandosi,
estendeva la visuale, anche una bocca, dei capelli e un viso che non
erano quelli di Bill.
Luca sorrideva, carezzandole la spalla con una mano. Lea prese coraggio
e disse: “Devo proprio andare, grazie per la
serata” senza aggiungere nulla circa il bacio di poco prima.
Aspettò che il ragazzo scomparisse, con l’auto,
dalla sua vista, poi alzò gli occhi al cielo e scosse la
testa, sconsolata. Una serata perfetta rovinata da
quell’incontro di labbra.
Entrò velocemente in casa e si chiuse in camera, sperando
che Marie non la sentisse. Non le andava di raccontarle i particolari,
forse l’avrebbe fatto l’indomani.
**
Il giorno successivo, Lea si svegliò sorridente. La sua
notte era stata popolata da sogni soffici come nuvole, non ricordava
molto ma provava una sensazione di pace e tranquillità.
Marie e Phil erano già usciti, così la ragazza si
preparò con calma, fece colazione e raggiunse
l’università, dove ad attenderla c’era
una noiosa lezione che purtroppo non avrebbe potuto saltare.
Al termine, accese il cellulare e trovò un messaggio di
Luca, che le chiedeva di pranzare insieme. Lea accettò
subito, senza pensarci troppo e attese il ragazzo nel luogo prefissato.
Dopo aver mangiato un paio di hamburger, passeggiarono per le vie di
Roma, osservando i negozi e le vetrine addobbate, in vista del Natale,
fino a quando non si trovarono di fronte ad una rivendita di cd, la cui
vetrina era quasi interamente occupata da un grande poster lucido che
pubblicizzava il nuovo dvd dei Tokio Hotel. Già da lontano,
Lea riconobbe la figura di Bill.
Passandogli accanto, Luca esordì con una frase che avrebbe
cambiato, irrimediabilmente, il corso degli eventi: “Oh
guarda! Sai che ho sempre pensato che quella fosse una
ragazza?” indicando Bill e ridendo “E anche bella,
per giunta! Quando l’ho sentito parlare, però, ho
capito che era un maschio! Che tipo!” concluse, ironico. Lea
non disse una parola, così Luca continuò:
“Certo che, a parer mio, è gay fino
all’osso”
“Che cazzo dici?” Lea esplose, dura. Aveva taciuto
fino a quel momento, ma dopo l’ultima affermazione del
ragazzo che le stava accanto, non riuscì a contenersi.
“Scusa?” disse Luca, spiazzato.
“No… cioè, non è gay, cosa
dici?” riparò Lea, addolcendo il tono di voce.
“Non… non pensavo che”
balbettò Luca, non sapendo che dire.
“Che cosa? Ho… ho risposto così solo
perché mi ribolle il sangue quando sento queste cose. Se un
ragazzo uso lo smalto per le unghie è automaticamente
gay?” chiese, scaldandosi nuovamente.
“No, io non volevo dire questo, mi dispiace”
“Lui è un ragazzo come te” disse Lea
“Solo con uno stile differente dal tuo”
“Ok, ma non credo sia il caso di scaldarsi tanto”
rispose Luca, infastidito “In fondo, che cavolo ti interessa?
E’ solo un cantante, mica un tuo amico”
“Non importa, certe cose non si dovrebbero dire lo stesso.
Ora, se vuoi scusarmi, preferirei tornare a casa. Devo studiare prima
di iniziare il lavoro, ci vediamo al locale” e, senza
aspettare risposta, girò sui tacchi e si
incamminò verso casa, lasciandolo solo di fronte alla
vetrina del negozio. Solo e perplesso.
Raggiunse casa in pochi minuti, arrabbiata e indispettita. Odiava i
pregiudizi in generale, ma se quei pregiudizi toccavano qualcuno a lei
caro, perdeva completamente le staffe.
Come aveva potuto pensare di sostituire Bill con Luca?
Marie la bloccò all’ingresso: “Allora!
Sbaglio ti stai nascondendo da me?” ridacchiò
“Non credere di poter scappare al mio
interrogatorio!”
“Serata divertente, cena, un cinema schifoso, quattro
chiacchiere, un bacio e buonanotte” rispose Lea, tutto
d’un fiato.
“Vi siete baciati? Lo sapevo!” trillò
Marie.
“Non rallegrarti, per me la storia è
già finita qui. Non siamo fatti l’uno per
l’altra”
Marie sbuffò, ma prima che potesse aggiungere qualcosa, Lea
la bloccò: “E’ così, fine del
discorso” poi si avviò verso la cucina.
Marie la raggiunse ed estrasse un pacchetto dalla borsa:
“Beh, oggi sono entrata in libreria prima di andare a
prendere Phil e ti ho comprato un regalo”
“Cosa?” chiese Lea, spiazzata.
“Guarda” rispose Marie, porgendole il pacchetto.
Lea lo scartò e vi trovò un libro,
l’ultimo del suo autore preferito. Sorrise alla sorella, le
diede un bacio e si immerse nella lettura. Ci voleva un po’
di letteratura per alleviare il suo nervosismo.
Quello che, per Lea, doveva essere un momento di relax, si
trasformò invece in un supplizio. Il libro era magnifico, ma
conteneva così tanti riferimenti alla sua storia personale
che era impossibile leggerlo senza riflettere su quanto affermato
dall’autore.
La storia narrava dell’iniziazione di una giovane ragazza
alle pratiche magiche ed esoteriche, attraverso un percorso che
l’avrebbe portata a scoprire l’Altra Parte di lei.
Alla morte, l’anima di un individuo si scindeva in tanti
piccoli pezzi e il compito di una persona era quello di riconoscere,
negli occhi dell’altro, il frammento di anima che le era
appartenuto nella vita precedente.
Riconoscerlo era relativamente facile: era un bagliore negli occhi.
Lea dovette chiudere il romanzo e respirare profondamente: un bagliore
negli occhi. Gli occhi di Bill.
Incuriosita e affascinata dalla storia, riprese la lettura, mentre le
lacrime scendevano silenziose dai suoi occhi chiari. Quel libro
sembrava scritto apposta per lei, per permetterle di trovare la sua
Altra Parte. Concedendo tutta sé stessa al romanzo, si
addentrò, assieme alla protagonisti, nella ricerca e negli
insegnamenti dei suo Maestri, fino a che lesse due righe che le
mostrarono la risposta a tutti i suoi interrogativi:
«Nella vita, quando ti trovi di fronte a una cosa
importante, non significa che devi rinunciare a tutte le
altre»
Chiuse il libro senza terminare il capitolo e si abbandonò
ad un pianto a dirotto. Si era trovata di fronte ad una cosa importante
e, per paura di dover sacrificare tutto il resto, l’aveva
lasciata scappare. C’erano la distanza, i dubbi, i viaggi,
gli incontri sporadici e tante altre complicazioni che avrebbero
inevitabilmente modificato le loro vite, ma come le aveva appena
insegnato un romanzo, chi diceva che avrebbe dovuto per forza
tralasciare tutto il resto? Era possibile far convivere le cose, ora lo
sapeva.
A Berlino, o chissà dove in quel momento, c’era la
sua Altra Parte e ci era voluto uno sconosciuto per farglielo capire.
**
Dopo attimi di totale silenzio, inframmezzati solo dai rumori prodotti
da Marie in cucina, Lea guardò l’orologio e
scoprì che mancavano solo venti minuto all’inizio
del suo turno. La tentazione di chiamare Tino e chiedergli un permesso
fece capolino da un angolo del suo cervello, ma la represse buttandosi
sotto la doccia. In meno di dieci minuti era pronta, nonostante i
capelli ancora fradici, che raccolse velocemente in una coda.
Afferrò la borsa, salutò la sorella e il nipote e
schizzò fuori.
Quando mancava un minuto alle nove, parcheggiò di fronte al
locale.
“Ciao Lea, credevo fosse successo qualcosa!” la
salutò Tino.
“Scusa, mi sono persa nella lettura”
“Nessun problema, sei comunque in orario”
ridacchiò l’uomo, per poi allontanarsi. Lea
raggiunse quindi il bancone, dove Luca la aspettava.
“Ciao” mormorò “Senti, per
oggi io…”
“Lascia stare, non è successo nulla”
“Mi dispiace, ecco, non sapevo che ti arrabbiassi tanto
se… cioè, io scherzavo”
“Ho detto che non è successo nulla, faccenda
chiarita” rispose, evasiva.
“Meno male, temevo di aver rovinato tutto” si
affrettò a rispondere Luca. Lea divenne paonazza e
cercò di evitare il contatto visivo, ma Luca
continuò: “Dopo il lavoro, hai voglia di andare a
fare un giro?”
Era giunto il momento. Basta menzogne a sé stessa e agli
altri.
“No. Mi dispiace, ma quello che è successo
l’altra sera è stato e deve rimanere un caso
isolato. Sono stata bene, è piacevole chiacchierare con te
ma non voglio che questa storia diventi
qualcos’altro”
“Ma io credevo che…”
“Anche io. Credevo che bastasse poco per scordarmi di
qualcuno e sai una cosa? La prima volta che ti ho visto, sono quasi
svenuta. Tu hai i suoi stessi occhi” continuò, e
Luca capì che la ragazza che le stava di fronte parlava
della persona che tanto aveva amato “ma non sei lui. E non lo
sarai mai, perché tu sei Luca e lui è…
lui. Mi dispiace, non avrei dovuto permetterti di baciarmi,
è stata una debolezza. E adesso che te ne ho parlato, mi
sento decisamente meglio”
Luca non diceva nulla, si limitava a fissarla senza aprir bocca.
“Per mesi ho fatto finta di niente e la cosa buffa
è che mi sono bastate le parole di una persona che nemmeno
conosco, per farmi capire che ho sbagliato tutto. Adesso basta
errori” poi si tolse il grembiule e si diresse a passo
spedito verso Tino.
“Tino stasera non lavoro” esordì.
“Perché? Che succede Lea?”
“Dammi una settimana di permesso, ti prego. Devo sistemare un
paio di cose”
“Lea, come faccio a darti una settimana? Luca da solo non ce
la fa”
Luca, dal bancone, era riuscito a captare perfettamente tutta la
discussione e si intromise: “Ce la faccio, Tino. Nessun
problema, Lea ha cose importanti da fare” concluse,
rivolgendo alla ragazza un sorriso sincero. Lea ricambiò il
sorriso e gli sillabò un “grazie” con le
labbra.
“Va bene, ma solo una settimana! Intesi?”
“Intesi!” trillò Lea, saltando al collo
di Tino “Ti voglio bene, Tino! Non te l’ho mai
detto ma sei come un padre, per me” poi, dandogli un bacio
veloce sulla guancia, scappò via.
Salì in macchina e guidò all’impazzata
fino a casa di Mandy. Parcheggiò l’auto in sosta
vietata e si attaccò al campanello dell’amica.
“Mandy scendi! Sono io!”
“Lea, ma che succede? Momenti a mio padre viene un
colpo!”
“Scendi, ti prego!”
In meno di due minuti, Mandy varcò la soglia del palazzo in
cui viveva e raggiunse l’amica, che stava appoggiata alla
portiera della sua auto.
“Cosa succede?”
“Mandy, ho capito tutto. Devo ritrovarlo”
“Scusa?”
“Sì, devo andare da lui”
“Non sai da quanto tempo aspettavo di sentirtelo
dire,Lea!” cinguettò Mandy, con le lacrime agli
occhi.
“Mandy che fai? Piangi?”
“Sì cazzo! Sai quanto mi emozionano queste
cose!” disse, asciugandosi gli occhi con la manica della
felpa “Ho sempre saputo che prima o poi l’avresti
capito!”
“Andiamo a Berlino”
“Adesso?” chiese Mandy, perplessa.
“Domani. Chiamo Sue, tu ci stai?”
“Io sì, ma chi ti dice che sia a
Berlino?”
“Nessuno, ma una volta mi aveva raccontato di aver preso casa
con il fratello a Berlino e dato che in questo periodo non hanno date,
penso sia il caso di iniziare da lì”
“Come fai a sapere che non hanno date?”
domandò Mandy, ridendo sotto i baffi.
“Ecco… ho dato un’occhiata al sito
ufficiale…”
“Un’occhiata? Secondo me lo spulci tutti i
giorni!”
“Dettagli Mandy, dettagli!”
“Aspetta, vado in casa, mi metto qualcosa di più
pesante e torno. Accendi la macchina che andiamo da Sue”
“Ci ammazzerà se la disturbiamo
quest’ora!” rise Lea “Sono quasi le
dieci”
“E’per una buona causa,
capirà” poi corse verso l’entrata del
palazzo e sparì dietro le porte a vetro.
**
Dieci minuti dopo, Lea guidava con sicurezza per le strade di Roma, con
l’amica al fianco, diretta verso casa di Sue.
Suonò il campanello, aspettò che
l’amica rispondesse e pregò che non sbucasse la
madre di Sue, che l’avrebbe sicuramente trattenuta a
chiacchierare per ore, come faceva sempre e nonostante la mamma di Sue
fosse adorabile, non aveva tempo da perdere. In una notte doveva
pianificare il suo futuro. Quando la ragazza mise la testa fuori dalla
porta di casa, Lea la investì come un tornado, parlando a
raffica. Al termine di un lungo e concitato monologo, Sue disse:
“Ci sto!”
“Giura!” commentò Mandy, allibita.
Solitamente, Sue detestava le improvvisazioni.
“Giuro! Ti voglio bene Lea e so quanto è stato
importante quel ragazzo, per te. Se c’è solo una
possibilità di vederti felice al suo fianco, voglio giocarla
con te. E poi” aggiunse “non sono mai stata a
Berlino!”
**
Prima di tutto, vorrei precisare che il libro di cui parlo nella prima
parte di questo capitolo è "Brida" di Paulo Coelho.
Nel caso in cui non l'aveste mai letto, ve lo consiglio vivamente!
Come al solito, grazie di cuore a tutte voi per i commenti e per la
lettura! *_*
Ovviamente, darete per scontato alcune cose leggendo questo capitolo
ma... mancano ancora parecchi capitoli alla fine xD
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Chiuse nella stanza di Sue, armate di caffè caldo e
pasticcini, le tre ragazze iniziarono a programmare il loro viaggio
alla ricerca di Bill.
“La cosa più importante”
iniziò Sue, sistemandosi di fronte al computer
“è cercare un volo, sperando di trovarne uno al
pomeriggio”
“Anche al mattino va bene” si intromise Lea
“Le valigie le possiamo preparare stanotte”
“Va bene, ma ho una domanda” continuò
Sue, mentre si dava da fare sul sito di Alitalia “Hai idea di
quanto è grande Berlino?”
“Parecchio, direi” rispose Lea, sorseggiando del
caffè.
“Aspetta” la fermò Sue, cliccando su una
pagina web “Berlino ha 3.415.742 abitanti, sparsi per una
superficie di 891,95 kmq! Mi dici come faremo a trovarlo se non
possediamo nemmeno un indirizzo o un punto dal quale partire?”
“Mi sembrava strano che non ti fossi ancora fatta avanti con
le tue teorie precise fino all’osso!”
ironizzò Mandy “Ma tranquilla, ho io la soluzione:
leggiamo i campanelli!”
Lea scoppiò a ridere, rischiando di strozzarsi con un
pasticcino e la faccia buffa di Mandy fece capitolare anche Sue, che si
portò le mani allo stomaco e si lasciò andare ad
una fragorosa risata.
Ripresasi dallo scoppio di ilarità, Sue proseguì:
“Seriamente, ragazze. Dobbiamo avere almeno un punto di
riferimento, altrimenti sarebbe come cercare un ago in un
pagliaio”
“Non voglio chiamarlo, deve essere una sorpresa”
spiegò Lea, testarda “Voglio capitare
lì all’improvviso”
“Sicura? Sei pronta a trovarti di fronte a qualsiasi
cosa?” chiese Sue, insinuando nella mente di Lea un dubbio
atroce.
“Di cosa parli?”
“Potrebbe non essere solo, Lea”
Un moto di stizza le attraversò lo stomaco, al pensiero di
Bill con un’altra. Più volte lo aveva immaginato
accanto ad un’altra ragazza, ma aveva sempre scacciato
l’idea, come si scaccia una mosca che ronza intorno al viso.
Solo che adesso, di fronte all’eventualità di
bussare alla sua porta e trovarselo in dolce compagnia, si sentiva
molto meno spavalda e sicura di sé. Come avrebbe reagito?
Sarebbe stato semplice fingere indifferenza e voltargli le spalle? Del
resto, era stata lei a lasciarlo e non poteva biasimarlo nel caso in
cui l’avesse già sostituita.
“Lea?” la voce di Sue la riportò alla
realtà.
“Sì, ci sono. Va bene lo stesso. Se ci
sarà qualcun altro con lui ne prenderò
atto”
“Perché non chiamiamo Georg?”
Due paia di occhi si spostarono su Mandy.
“Chiamare Georg?” ripeté Sue
“Aspetta, quel Georg? Il ragazzo con i capelli lisci e
lunghi? Quello che suona il basso?”
“Sì, ne conosci altri?” rise Mandy.
“Hai ancora il numero?”
“Certo. L’ho anche sentito un paio di volte, in
questi mesi. Qualche messaggio, nulla di più”
Di nuovo, gli occhi di Lea e quelli di Sue si focalizzarono su Mandy.
“Cosa?” chiese Lea “Non ce ne hai mai
parlato!”
“Lea, non volevo dirtelo, temevo ti desse fastidio.
Indirettamente, avresti pensato a Bill e non sapevo se fosse la cosa
giusta” rispose.
“Ti ha parlato di lui?” chiese Lea, con un filo di
voce.
“No. Solo una volta gli ho chiesto qualcosa, ma ha risposto
in maniera evasiva, dicendomi che stavano tutti bene, senza dirmi nulla
di preciso”
“Potresti chiedere a lui l’indirizzo”
propose Sue “Ovviamente, spiegandogli la faccenda”
“Sei d’accordo?” chiese Mandy,
rivolgendosi a Lea che ora guardava un punto non definito della stanza
di Sue.
“Credo sia l’unica soluzione, a questo
punto”
Mandy si alzò, afferrò la borsa e ne estrasse il
cellulare. Cercò il nome del bassista nella rubrica e
inoltrò la chiamata. Dopo innumerevoli squilli, il ragazzo
rispose: “Sì?”
“Georg? Ciao, sono Mandy” esordì la
ragazza, parlando in inglese.
“Mandy! Ciao, che piacere sentirti! Come stai?”
“Bene, e tu?”
“Tutto bene! Stavo giusto per uscire”
“Ah davvero? Serata di svago?” chiese Mandy.
“Un paio di birre con Tom, nulla di più”
ridacchiò Georg. Lea, nel frattempo, si era avvicinata
all’amica, tendendo l’orecchio “Ma
dimmi” proseguì il bassista “avevi
bisogno?”
“A dire il vero, sì” Mandy si
schiarì la voce e continuò “Sei
solo?”
“Sì” rispose Georg, insospettendosi.
“Ho bisogno di sapere dove posso trovare Bill”
“Vuoi il suo numero?”
“No, voglio l’indirizzo di casa sua”
proferì Mandy “E’ importante”
“Cosa succede?” chiese quindi Georg.
“Domani saremo a Berlino. C’è qualcuno
che ha un disperato bisogno di vedere Bill, capiscimi”
Georg intuì perfettamente il nodo della questione e, senza
far aspettare troppo la ragazza, le dettò
l’indirizzo. Si fidava di lei, nonostante non la conoscesse
molto. Sapeva che dietro a quella richiesta, inoltre, c’era
Lea, la ragazza che aveva spezzato il cuore di Bill e che occupava,
tutt’ora, buona parte dei pensieri dell’amico.
“Ti ringrazio! Mi hai salvata da una caccia
all’uomo per tutta Berlino” rise Mandy
“Ovviamente, questa cosa dovrebbe rimanere fra noi, almeno
fino a quando non saremo arrivate”
“Certo” annuì Georg
“Sarò muto come un pesce. Ah Mandy”
aggiunse, prima di salutarla “questo è il regalo
di Natale più bello che la tua amica possa fargli”
Mandy sorrise “Immagino. Grazie ancora e buona
serata”
Interrompendo la comunicazione, Mandy guardò Lea che aveva
iniziato a torturarsi un dito con i denti.
“Hai sentito?” Lea annuì,
così Mandy riprese a parlare “Sue, prenota il
volo, subito. Io vado a casa a preparare la valigia, per
l’albergo ci penseremo quando saremo a Berlino. Lea, tu fai
lo stesso. Ci sentiamo più tardi”
Sue si rimise al lavoro mentre Mandy e Lea uscivano dalla sua stanza,
dirigendosi verso l’ingresso e poi verso l’auto.
Berlino non era mai stata così vicina.
**
Poco prima di mezzanotte, un messaggio di Sue raggiunse i cellulari di
Lea e Mandy per comunicare loro i dettagli del volo. Sarebbero partite
alle dieci, direzione Berlino. Nessuno scalo, volo diretto. Check in
alle otto. Una comunicazione veloce, sbrigativa e sintetica, in puro
“stile Sue”.
Era ormai l’una e Lea non aveva ancora comunicato a Marie la
sua decisione. Era rientrata da un’ora, insolito per lei dato
che avrebbe dovuto finire il turno non prima dell’una, ma
Phil e Marie dormivano e non si erano accorti del suo arrivo.
In punta di piedi, per non svegliare il nipote, raggiunse la camera
della sorella ed entrò. Si avvicinò a lei e le
tocco una spalla, gentilmente. La ragazza emise un grugnito che fece
sogghignare Lea, ma al secondo tocco si svegliò e accese la
luce.
“Lea” borbottò “Ma che cosa
succede? Che ore sono?” poi, senza aspettare risposta,
guardò la radiosveglia e aggiunse “Ma è
solo mezzanotte, che ci fai a casa?”
“Sono uscita prima da lavoro, perché ho preso una
decisione importante”
Marie si passò una mano fra i capelli e si mise a sedere sul
letto, squadrando la sorella con un’espressione che oscillava
fra la preoccupazione e la curiosità.
“Cosa?” chiese, poi.
“Domani mattina vado a Berlino, non so quando torno”
“Scusa?”
“Hai capito, Marie. L’ho deciso stasera
e… grazie”
“Grazie? Lea, non capisco nulla”
“Sai il libro che mi hai regalato? Leggendolo, ho capito di
avere sbagliato tutto, con lui”
“Mi riesce difficile seguirti” rispose Marie.
“Lo so, ma fidati di me. Vado da Bill” disse,
pronunciando per la prima volta, dopo mesi, il suo nome. Poi la strinse
in un lungo abbraccio e le diede un bacio sulla guancia, prima di
sgattaiolare via.
“Lea” la chiamò Marie, quando la ragazza
era ormai fuori dalla stanza. Lea tornò indietro e si
affacciò all’uscio “Buona fortuna,
piccola”
**
Berlino in inverno è molto simile a qualsiasi altra
città che faccia parte del medesimo emisfero, ma secondo la
percezione di Lea, qualcosa la rendeva più speciale di tante
altre. Non sapeva dire cosa fosse con esattezza, né se
sarebbe mai stata in grado di scoprirlo, ma un piacevole senso di
eccitazione l’aveva pervasa, facendola sentire libera come
mai si era sentita prima.
Secondo Mandy, l’inguaribile romantica, il merito era di Bill
che, per Lea, era molto simile al Principe Azzurro che faceva
assomigliare quella metropoli ad un regno delle fiabe. Sue e Lea
avevano riso quando l’amica aveva esposto la sua teoria ma
forse non era poi così sbagliato il suo pensiero.
Con un taxi, si fecero portare all’indirizzo che Georg aveva
dato loro, dopodiché scesero dalla vettura, pagarono la
corsa e rimasero in piedi di fronte alla casa dei gemelli senza
muoversi.
Era una piccola villetta a due piani, di mattoni a vista, circondata da
un cancello di ferro oltre al quale si poteva scorgere un prato ben
curato e un albero d’alto fusto. A sinistra, si intravedeva
un garage chiuso e nessuna delle tre ragazze seppe dire se ci fosse
qualcuno in casa.
Lea si accese una sigaretta mentre pensava al da farsi, quando una
porta a pianterreno si aprì e ne uscì una donna
di età imprecisata, stretta in un cappotto marrone. La
videro armeggiare con i bidoni della spazzatura e gesticolare
vistosamente, mentre pronunciava parole che le ragazze non captarono.
Poi, così come era comparsa, sparì di nuovo
all’interno della villetta.
“E quella chi era?” chiese Mandy.
“La governante?” ipotizzò Sue.
“Magari la madre” continuò Mandy.
“La madre dovrebbe essere bionda” disse infine Lea
“Non credo sia lei”
“Ecco, esce di nuovo” Mandy indicò con
un dito la signora che, a differenza di poco prima, ora si avvicinava
al cancello “Oh cazzo, esce proprio!”
“Fingete indifferenza” ordinò Sue
“Io faccio finta di parlare al telefono”
La buffa scenetta messa in piedi da Sue funzionò,
poiché la donna passò loro accanto senza degnarle
di uno sguardo e si allontanò a piedi, borbottando.
“E’ andata” sospirò Mandy
“Queste cose mi mettono l’ansia!”
“Adesso devi entrare, Lea. Vai, tocca a te”
“Se non fosse in casa?”
“Aspetteremo che ritorni, ma almeno prova a suonare”
“E se…”
“Lea vai!” la spinse Mandy, noi andiamo a cercare
un bar o qualsiasi cosa che ci somigli e aspettiamo tue notizie,
ok?”
“Ok” mormorò la ragazza, tremando
“Vado”
**
“Tom!!!”
La voce squillante di Bill raggiunse il fratello, intento a sfogliare
un giornale sul divano. Quel tono significava solo una cosa: guai.
Ormai conosceva il suo gemello fin troppo bene, del resto erano la
stessa persona ma divisa in due. Ma da un paio di giorni a quella
parte, Tom cercava di non prendersela troppo per le sue sparate, dato
che stranamente sembrava aver ripreso vita.
“Cosa c’è?” urlò,
di rimando.
“La maglia nera!!!”
“Che maglia?” chiese il gemello.
“Quella nera con la scritta bianca!
Dov’è?”
“Come cazzo faccio a saperlo, Bill?” rispose Tom.
“Era qui e adesso non c’è
più! L’hai presa tu?”
continuò Bill, comparendo in salotto a petto nudo.
“Primo: non metto le tue maglie. Secondo: è molto
probabile che l’abbia presa Rosalie, non credi?”
“Cazzo! Volevo mettere quella!” protestò
Bill.
“Hai l’armadio pieno di maglie, scegline
un’altra! E sbrigati, ho detto ad Andreas che saremmo stati
da lui alle tre!”
Mentre Bill tornava, sbuffando, in camera, il campanello
squillò.
“E adesso chi c’è?”
protestò Tom.
“Che ne so! Vai ad aprire, io vado a vestirmi. Se
è Rosalie, chiedile della maglia!”
“Sì certo, come no” commentò
Tom ironico, alzandosi dal divano e raggiungendo il citofono
“Sì?” chiese quindi.
“Tom?”
Sul subito, il ragazzo non riconobbe quella voce. Del resto, aveva
parlato poche volte con Lea e c’erano dei giorni in cui
nemmeno ricordava con esattezza il suo viso. Per quanto fosse bella,
non aveva mai posato gli occhi su di lei con troppa attenzione, per
rispetto nei confronti del gemello.
“Sì” rispose, stando in guardia. A volte
era capitato che qualche ragazza, che chissà come aveva
scoperto il loro indirizzo, suonasse alla loro porta in cerca di un
autografo.
“Sono Lea”
Tom si immobilizzò. Lea. In un attimo,il suo cervello
collegò quel nome a quel viso, per poi unire il tutto in un
unico filo conduttore che portava a Bill.
“Chi è?” urlò Bill, dalla
stanza. Tom non rispose e sottovoce, disse: “Quella
Lea?”
“Ne conosci altre?” chiese la ragazza
“Sto cercando tuo fratello”. Il
“click” della porticina del cancello fu
l’unica risposta che Lea ottenne.
“Tom chi è?”chiese di nuovo Bill,
uscendo, questa volta dal bagno, con in bocca lo spazzolino da denti e
il dentifricio che gli colava sul mento.
“Pulisciti e mettiti una maglia, cazzo!” lo
rimproverò Tom, bonariamente.
“Sei scemo? Piuttosto, chi cavolo era?”
“Il postino” mentì Tom, uscendo dalla
porta d’ingresso.
“Il postino?! E dove vai?”
“Aspetta, torno subito”
Bill, perplesso, rimase in piedi in mezzo al corridoio, mentre il
dentifricio gli sporcava ulteriormente il mento. Qualche istante dopo,
la porta si aprì di nuovo ma Bill non vide il gemello.
**
Quante bestemmie mi state
tirando dietro? xD
Ok, ammetto che FORSE far terminare il capitolo in questo modo
è un po' da sadomasochisti xD
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Lo spazzolino da denti gli penzolava, comicamente, dalla bocca mentre
con una mano cercava rapidamente di pulirsi il mente imbrattato di
dentifricio.
“Io vado a farmi un giro” esordì Tom,
sparendo alle spalle di Lea. Nessuno rispose, perché in quel
momento non esisteva nessun altro che loro. Lea fece qualche passo in
direzione del ragazzo, mentre gli occhi le luccicavano.
D’improvviso, il ragazzo si mosse e allungò una
mano verso di lei. Lea gli sfiorò la punta delle dita, quasi
come se avesse timore di toccarlo e vederlo sparire come una bolla di
sapone.
Bill, incurante di avere ancora dei residui di dentifricio sul mento ed
una mano sporca della medesima sostanza, afferrò la mano di
Lea e la tirò violentemente a sé, stringendola
contro il petto nudo. Rimasero stretti in quell’abbraccio per
minuti, dondolando come la prima volta che si erano abbracciati, fuori
dal bistrot parigino, con gli occhi chiusi e come sottofondo il rumore
della città che proveniva dall’esterno.
Lea alzò il viso e puntò i suoi occhi in quelli
di Bill, occhi che adesso grondavano lacrime di gioia. Si sporse ancora
più in avanti e posò le labbra su quelle del
cantante, morbide come ricordava, con un leggero retrogusto di menta.
Bill lasciò cadere lo spazzolino che ancora teneva stretto
in mano e ricambiò quel bacio che aspettava di darle da mesi.
Quando si staccarono, Bill sorrise e con un dito levò a Lea
un baffo di dentifricio che le era rimasto attaccato al mento.
“Ti ho sporcata” furono le sue prime parole. La
ragazza ricambiò il sorriso e lo baciò di nuovo,
ma questa volta fu un bacio a fior di labbra, più una
carezza che altro. Senza bisogno di dire nulla, Bill la prese per mano
e la condusse in stanza, facendola sdraiare sul letto ancora sfatto. La
ragazza si levò il cappotto e la sciarpa e buttò
tutto sul pavimento, poi si voltò su un fianco e gli
sorrise, maliziosa, battendo con la mano dei colpetti sul materasso,
invitandolo a raggiungerla. Bill non se lo fece ripetere e si
sdraiò accanto a lei, uno di fronte all’altra, di
nuovo occhi negli occhi. Con la mano, le spostò una ciocca
di capelli dietro all’orecchio e le carezzò la
punta del naso.
“Vorrei dire qualcosa, ma mi pare tutto così
scontato” disse poi, cingendole la vita con un braccio. Erano
così vicini che i loro nasi si sfioravano. Lea non aveva
ancora proferito parola da che era entrata in casa sua, così
rispose: “Non c’è nulla da
dire”
Poi un altro bacio, seguito da carezze, innumerevoli carezze lievi come
pioggia fresca su un viso accaldato.
“Mi sei mancato” esordì Lea, dopo una
lunga sessione di incontri ravvicinati.
“Ho seriamente creduto di impazzire, per quanto possa
sembrare idiota da dire”
“Non sarei mai dovuta partire, ho mentito a me stessa e a te.
Potrai perdonarmi?”
“L’ho fatta dal momento in cui ti ho vista entrare
in casa” le sussurrò Bill, a fior di labbra.
Lea ripensò al suo ingresso di poco prima, a come fosse
stato emozionante trovarselo di fronte in carne, ossa e dentifricio, a
quanto gli avesse fatto tenerezza vedere quel gigante dalla pelle
chiara che la squadrava imbambolato, con l’espressione di un
bambino che si trova di fronte al giocattolo che desidera da sempre,
ripensò alle sue mani che tremolavano, nonostante cercasse
di non darlo a vedere e ai suoi capelli che gli ricadevano sulle spalle
e dei quali avvertiva l’inconfondibile profumo anche dalla
distanza. Un sogno non sarebbe stato così bello.
“Temevo che mi avessi già dimenticata”
disse poi Lea, imbarazzata. Certe frasi, così melense,
faticavano ad uscire dalla sua bocca, ma con lui fra le braccia sentiva
di poter dire qualsiasi cosa.
“Non mi ha nemmeno sfiorato l’idea”
rispose Bill, sfregando il naso contro il suo “Non credevo di
essere in grado di pensare ad altro se non alla musica. Ho sempre
pensato che venisse prima di qualsiasi altra cosa, ma lontano da te
anche i miei progetti vacillavano. Anche io ho temuto che tu mi avessi
dimenticato”
Lea si sentì colpevole. Non lo aveva dimenticato, ma aveva
permesso ad un altro ragazzo di baciarla e, benché non fosse
successo null’altro, rabbrividì a quel pensiero.
Prima o poi, glielo avrebbe detto perché con lui voleva
essere sincera in tutto, non gli avrebbe più mentito. Se si
fosse svegliata un mattino con la voglia di dirgli “ti
amo” lo avrebbe fatto, subito, ovunque si trovassero, se
avesse avuto voglia di fargli una carezza non avrebbe atteso un momento
di intimità, gliela avrebbe fatta immediatamente,
perché aveva già provato a trattenere le sue
emozioni e aveva guadagnato solo sofferenza e lacrime.
Guardandolo in volto, promise a sé stessa che non avrebbe
mai più permesso alla razionalità di interferire
fra loro.
C’è un momento nella vita in cui due mondi,
apparentemente inconciliabili, si trovano, si scontrano, si confrontano
e poi si abbandonano l’uno all’altro, finendo per
unirsi in una sola ed unica cosa, che ha la potenza di un uragano
indomabile.
Il mondo di Bill e quello di Lea. Due mondi che su quel letto divennero
un solo universo.
**
Sue e Mandy avevano trovato, nel frattempo, un delizioso bar a pochi
metri di distanza dalla casa dei gemelli. Entrando, le loro narici
erano state invase dal profumo del caffè e infreddolite,
avevano subito ordinato due tazze della calda sostanza.
Sedute una di fronte all’altra, ad un tavolino poco distante
dal bancone, parlottavano fitto fitto.
“Questa attesa mi ammazza” disse Mandy,
controllando il display del telefonino “Secondo te come sta
andando?”
“Non so” rispose Sue, stringendo la tazza fra le
mani “La mia paura è che lui rifiuti di parlarle.
Non sappiamo quale sarà la sua reazione, potrebbe
infuriarsi”
“Infuriarsi?” domandò Mandy.
“Sì… lei lo ha lasciato, lui ha
sofferto e non ha potuto far altro che incazzarsi in solitudine, ed ora
che la rivede, chi ci assicura che non le urlerà in faccia
tutto il suo dolore?”
“Tu stai psicanalizzando la situazione, Sue! Secondo me,
farà la cosa più scontata possibile: le
volerà fra le braccia” commentò Mandy,
con espressione sognante.
“Non ne sono certa” ribadì la ragazza
“Dipende dal suo carattere, dal suo background”
Mandy rise. Lo faceva sempre quando Sue utilizzava termini scientifici.
Con la parola “background”, Sue voleva addurre al
passato di Bill, alle sua vita prima di Lea e al fatto che avrebbe
potuto associare l’abbandono di Lea a qualche spiacevole
situazione che, magari, aveva vissuto anni prima.
“Non ridere” la ammonì Sue, ridendo a
sua volta “Non voglio fare la sapientona, però
bisogna considerare anche questo. I suoi genitori sono separati,
vero?”
“Sì, ma che c’entra?”
“Bill potrebbe associare Lea al padre, ad esempio. Se ne
è andato lui, se non sbaglio” di nuovo Mandy
scoppiò a ridere, facendo voltare la barista.
“Cosa ridi?” chiese Sue.
“Ma dai! Sue, possibile che tu non riesca a considerare nulla
senza psicoanalizzarlo?”
“Amo farlo!” ridacchiò Sue.
“Non me n’ero accorta!!! Beh, non ci resta che
aspettare. Io spero tanto che quei due si ritrovino”. Appena
terminò la frase, Mandy alzò la testa in
direzione della vetrata che dava sulla strada e vide passare un
ragazzo, imbacuccato in una felpa gigante, con il cappuccio calato
sulla testa e un paio di grossi occhiali neri.
“Sue, mi sa che è appena passata la risposta alle
nostre domande”
“Che?!” ma Mandy si era già alzata e
stava correndo verso l’uscita. Sue, sorpresa, si
alzò a sua volta, pagò la consumazione e
raggiunse la ragazza in strada.
La vide a pochi metri dal locale, ferma di fianco ad un ragazzo molto
alto che sorrideva.
**
“Cosa hai fatto in questi mesi?” Bill era seduto,
con la schiena poggiata alla testata del letto e la testa di Lea sul
grembo. Con una mano, le carezzava la schiena mentre con
l’altra giocherellava con il lenzuolo.
“Ho lavorato, studiato, sono uscita con le amiche, insomma
nulla di diverso dal solito. O meglio, qualcosa è
cambiato”
“Cosa?” chiese Bill.
“Dopo Parigi, sono cambiata. Ho iniziato a dedicare
più tempo a me stessa, ai miei affetti, alle cose che mi
piace fare. Tutto grazie a te” concluse, alzandosi e
poggiandogli un bacio sulla guancia.
“Non è merito mio” sorrise Bill.
“Oh sì, che lo è! Non fare il modesto,
su!” ridacchiò Lea, dandogli un buffetto. Cercava
di guadagnare tempo, ma sapeva che sarebbe arrivato il momento della
confessione “E tu? Che hai fatto?”
“Lavorato, tanto. Sempre in giro, mai una sosta. Tranne
questo mese, per fortuna. Io e Tom siamo stati alle Maldive, qualche
settimana fa”
“Ma davvero? Devo preoccuparmi?”
“Beh, nonostante avessi una fila di ragazze che seguiva ogni
mio passo” scherzò Bill “Ce
n’era solo una che occupava i miei pensieri, non so se la
conosci”. La guardò negli occhi e sorrise.
“Bill, c’è qualcosa che dovresti
sapere” esordì dunque Lea. Era giunto il momento
della verità “Ho conosciuto un ragazzo”
Bill si irrigidì, Lea avvertì i suoi muscoli
contrarsi “Siamo usciti insieme una sera e prima che tornassi
a casa ci siamo baciati”
“Ah…” fu tutto quello che
uscì dalla bocca del cantante.
“Lui aveva i tuoi stessi identici occhi e per un secondo ho
pensato che se mi fossi lasciata andare, ti avrei scordato. Ma non
è stato così e la cosa è finita ancor
prima di cominciare”
“Ci sei… insomma, sei andata
a…”
“No! Non siamo stati a letto!” lo
tranquillizzò Lea “Un bacio, basta. Ma sentivo il
bisogno di dirtelo”
“Ti piace?” chiese ancora, confuso.
“No Bill. Non mi importa nulla di lui anche se tutta questa
storia mi è servita. Ho capito che dopo di te, è
dannatamente difficile fare spazio a qualcun altro” lo disse
tutto d’un fiato, senza staccare gli occhi da quelli del
ragazzo “E sono tornata, perché la
verità è che non me ne sono mai andata”
“No, non te ne sei mai andata” rispose il ragazzo,
stringendola a sé.
“Sei arrabbiato?” chiese poi Lea.
“Non potrei esserlo, Lea. Non mi hai tradito, in quel momento
noi non eravamo insieme e tu hai reagito in maniera del tutto normale.
Se anche ti fossi innamorata di un altro, non avrei di certo potuto
incriminarti. Quel ragazzo, probabilmente, lo vedrai ogni giorno mentre
io…” Lea lo interruppe.
“Lavora con me”
“Ecco” sospirò Bill “Lo vedi
ogni giorno, posso capire il tuo stato d’animo”
“Ma non è più un problema, Bill. Anzi,
non lo è mai stato”
“Mi fido. Mi fiderei di te anche se mi dicessi che la Luna
è raggiungibile in auto” Lea rise, di gusto.
“Anche io mi fido di te”
Un bacio suggellò quello scambio di promesse,
perché nulla è più importante della
fiducia quando si ama. Soprattutto quando si ama qualcuno che, spesso,
sarebbe stato vicino col cuore ma dannatamente lontano nello spazio.
**
Sue raggiunse Mandy,trafelata e con l’espressione di chi non
ha capito nulla di quello che gli capita attorno. Avvicinandosi,
squadrò la figura incappucciata che parlava con la sua amica
e arrossì a causa dei pensieri che le balenarono in testa:
quello era uno dei ragazzi più belli che avesse mai visto.
“Sue, vieni!” la chiamò Mandy, allegra
“Ti presento una persona”
“Ciao!” esordì Tom, allungando una mano
verso Sue e sfoderando un sorriso a trentadue denti.
“Piacere, Sue” rispose la ragazza “E tu
sei?”
“Ah sì, scusa!” si intromise Mandy
“Lui è Tom, il fratello gemello di Bill”
“Ah ecco!” disse Sue, annuendo e ricambiando la
stretta.
“E’ una fortuna averti incontrato”
continuò Mandy “Ci stavamo chiedendo come stesse
andando fra Lea e tuo fratello”
Tom sorrise e si passò la lingua sul piercing: era il suo
modo di provocare qualsiasi ragazza gli stesse di fronte. Ormai non era
più solo un divertimento, era diventato un gesto spontaneo
“L’ultima volta che li ho visti, erano impalati
l’uno di fronte” rise Tom “Ma secondo me,
adesso sono in tutt’altra posizione”
Sue arrossì di nuovo mentre Mandy scoppiò a
ridere “Lo penso anche io!”
“Bene, dato che i miei impegni pomeridiani sono cambiati, che
ne dite se ci sediamo da qualche parte a bere qualcosa?”
“Noi eravamo in quel locale” disse Mandy, indicando
con la mano il locale pochi metri dietro di loro “Sembra
molto discreto, possiamo tornarci”
“Va bene” acconsentì il ragazzo. Si
diressero tutti e tre verso il bar, come fossero vecchi amici che si
ritrovano ed entrarono, occupando lo stesso tavolo al quale le ragazze
sedevano poco prima.
“Ho una domanda da farti” esordì Mandy,
appena il suo fondoschiena toccò la sedia “Puoi
anche non rispondere”
“Dimmi” rispose Tom, fissandola negli occhi.
“Come sono stati i mesi di Bill lontano da Lea?”
“Un incubo” Tom si rilassò e
iniziò a raccontare “Non l’avevo mai
visto così! Era spento, depresso, si animava solo sul palco!
In queste ultime settimane non usciva mai di casa, mi sembrava di
vivere con un adolescente alle prese con la prima cotta! Mi sono
arrabbiato con lui, forse sono stato anche troppo duro, ma era
necessario. Non sopportavo di vederlo così. Se la vostra
amica ha deciso di tornare, sarà il mio idolo a
vita!” concluse, sorridendo.
“Ha deciso, ha deciso” commentò Mandy
“Mai stata così decisa in vita sua!”
“E lei, invece?” chiese Tom “Lei come ha
vissuto?”
“Bene e male. Bene perché dopo Bill è
come risorta, ha iniziato a prendersi cura di sé stessa
senza lasciarsi assorbire completamente dal lavoro e male
perché fingeva di stare bene quando invece non faceva altro
che pensare a tuo fratello”
“Non avrei mai pensato che Bill si innamorasse”
mormorò Tom.
“Che c’è” lo
stuzzicò Mandy “sei geloso?”
“No” ridacchiò Tom “Solo che
è strano vederlo così”
“L’amore è qualcosa di talmente
incomprensibile che fatichiamo a capirlo se non lo viviamo”
Sue parlò per la prima volta da che si erano seduti al bar.
Tom e Mandy si voltarono a guardarla e la ragazza continuò
“Nemmeno noi abbiamo mai visto Lea così”
“Allora parli!” la scherzò Tom e Sue,
per la terza volta, arrossì violentemente.
“Sì, parlo. Ma solo se ho qualcosa di utile da
dire” rispose Sue, restando sulle sue. L’ultima
cosa che voleva era quella di mettersi a civettare con lui, ma
nonostante i suoi sforzi, il tono della sua voce tradiva una certa
emozione.
**
“Hai più sentito tuo padre?”
Bill e Lea si erano alzati dal letto e adesso sedevano in cucina, uno
di fronte all’altra, con una tazza di the fra le mani.
“Ho deciso di lasciar perdere, ne ho parlato anche con mia
madre e sono giunta alla conclusione che, per quanto mi sforzi, non
potrò mai obbligare una persona a volermi bene”
“Forse lui te ne vuole, ma non sa come
dimostrartelo” ipotizzò Bill.
“Ne dubito. Sono sua figlia, potrebbe dimostrarmelo anche
solo chiamandomi per salutarmi, cosa che non fa mai. Quindi, ci ho
messo una pietra sopra. E anche questo, grazie a te”
Bill la guardò, sorpreso, e Lea gli rammentò il
discorso che avevano fatto a Parigi, tanti mesi prima.
“Mi stai attribuendo meriti che non ho” rispose
Bill, imbarazzato.
“Sono cambiata, Bill. E tutto questo dopo che ti ho
conosciuto. Penso di non sbagliarmi quando dico che mi hai cambiato la
vita”
“In meglio, spero” disse lui, allungando una mano
ed afferrando quella di Lea.
“Già” rispose Lea, sporgendosi verso il
ragazzo e posandogli un bacio sul naso.
“Ma sei qui sola?” disse poi Bill, cambiando
discorso.
“No, Mandy e Sue sono con me. Mi piacerebbe tanto farti
conoscere anche Sue, non l’hai mai vista”
“Dove sono?” chiese Bill.
“Non lo so, mi hanno detto che avrebbero cercato un
bar”
“Chiamale” suggerì il ragazzo
“Dille di raggiungerci. Sarò lieto di fare la loro
conoscenza”
Lea scoppiò a ridere.
“Cosa ridi?” chiese il cantante, perplesso.
“Sarò lieto di fare la loro conoscenza”
lo imitò Lea “Ma come parli?!” poi rise
di nuovo.
“Cosa credi, sono un gentleman io!”
scherzò Bill, fingendosi indispettito.
“Mi scusi, monsieur!” poi Lea si alzò e
si accoccolò sulle ginocchia del cantante.
Ora che l’aveva ritrovato, non voleva staccarsi da lui
nemmeno per un secondo, anche se c’era qualcosa che le
procurava una crescente ansia. Qualcosa che la faceva, anche
involontariamente, sospirare.
**
Come al solito, un grazie immenso a tutte voi!
Io amo scrivere ma farlo per qualcuno che apprezza le mie parole
è una soddisfazione davvero immensa! *_*
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
La chiamata di Lea raggiunse Sue proprio mentre i suoi occhi
scrutavano, intensamente, il cerchietto di metallo che avvolgeva le
labbra di Tom, cercando di non farsi notare.
Quando interruppe la comunicazione, in un inglese balbettante,
annunciò: “Lea e Bill ci aspettano a casa,
cioè a casa vostra” si corresse, guardando Tom
“Dicono di raggiungerli”
Si alzarono, pagarono ed uscirono dal locale dirigendosi verso casa dei
gemelli. Una volta arrivati di fronte al cancello, Tom estrasse una
chiave ed aprì la porta, facendo galantemente passare prima
le ragazze per poi scortarle fino all’ingresso.
La villetta era graziosa, immersa in un prato verdissimo, disposta su
due piani. A pianterreno, ipotizzarono le ragazze, doveva esserci una
taverna o qualcosa di molto simile, forse utilizzata per provare o per
dare qualche festa, mentre una scala con il corrimano nero conduceva al
secondo piano, il vero centro della casa.
Tom entrò senza bussare, del resto era casa sua, e il
gruppetto fu subito investito da un piacevole odore di pavimenti puliti
e bucato appena stirato.
L’arredamento era essenziale e giovanile, colori scuri ma
ugualmente accoglienti, accessori saggiamente piazzati qua e
là, qualche tappeto e qualche quadro alle pareti.
“Bill, siamo qui!” urlò Tom, buttandosi
sul divano e facendo segno alle ragazze di accomodarsi. Bill e Lea
sbucarono da quella che, intuirono Mandy e Sue, sembrava essere la
cucina e si diresse subito verso di loro, salutandole.
“Finalmente ci conosciamo!” esordì Bill
“Tu devi essere Sue!”
“Esatto, il piacere è mio!” si strinsero
cordialmente la mano dopodiché Bill salutò anche
Mandy.
“Hai già fatto la conoscenza di mio
fratello” disse Bill, rivolto a Sue “Spero non ti
abbia fatto una brutta impressione! Lui è
così… come dire… così
Tom!”
Le ragazze risero alla battuta di Bill, osservando il suo gemello che
storceva la bocca in segno di dissenso. Accoccolati sul divano e sulle
due poltrone del salotto, i cinque ragazzi trascorsero quel che restava
del pomeriggio chiacchierando di scuola, lavoro, musica e cinema, senza
sosta. Ogni tanto, Lea doveva tradurre in tedesco qualche parola che le
ragazze non riuscivano a spiegare in inglese, ma l’atmosfera
era calda e piacevole, tanto che perfino la tesissima Sue
riuscì a mettersi a proprio agio, nonostante la presenza di
Tom la lasciasse senza fiato.
“Sono quasi le sette!” disse poi Tom, guardando
l’orologio appeso alla parete, sopra al televisore
“Ho fame!”
“Pizza?” chiese Bill.
“Non avete nulla in casa? Potrei cucinare io, se vi
va” propose Lea.
“Meglio di no!” si intromise Mandy “A
meno che non abbiate intenzione di cambiare cucina!”
“Smettila! Ai fornelli sono brava!”
“Sì certo, anche i muffin del mese scorso lo
pensano! Bruciati al punto giusto!” rise Mandy, seguita da
Sue.
“Capita!” sbuffò Lea “Ma la
pasta sono bravissima a cucinarla!”
“Io dico di ordinare una pizza” commentò
Tom “Non vorrei morire”
“Mah! Ma sentilo!” sbottò Lea,
fingendosi offesa “Eh vada per la pizza!
Malfidenti!”
Bill si alzò dal divano e afferrò il cellulare.
Compose un numero e dopo pochi secondi lo sentirono ordinare cinque
pizze, in tedesco.
“In mezz’ora sono qui”
comunicò poi il ragazzo “Scendo di sotto a
prendere le birre” e sparì dietro alla porta
d’ingresso.
“Ecco cosa c’è sotto! Una
distilleria!” sogghignò Mandy.
“Almeno! C’è solo una grande taverna
che, ultimamente, usiamo come magazzino. Utile, data la
quantità di roba che compra Bill quando fa spesa! Se hai
intenzione di sposartelo, compra una casa con magazzino annesso, ti
conviene” commentò poi, guardando Lea, che
arrossì violentemente. Era la prima volta che Tom parlava di
lei e Bill come di una coppia e la ragazza temeva molto il suo
giudizio, perché sapeva benissimo quanto fosse importante
per Bill.
Un cellulare suonò improvvisamente e Lea riconobbe la
suoneria: “Wish you were here” dei Pink Floyd. Si
alzò e, con familiarità, raggiunse la camera di
Bill dove poche ore prima aveva lasciato borsa, cappotto e non solo e
prese il cellulare. Era Marie.
“Marie?”
“Ciao Lea” esordì Marie, piatta
“Tutto bene? Siete arrivate?”
“Sì, da un pezzo. Mi spiace non averti avvisata,
ma ho avuto da fare e…”
“Devi tornare a casa, Lea”
“Scusa?”
“Devi tornare a casa” ripeté Marie.
“Cosa è successo, Marie? Stai male? E’
Phil? La mamma?”
“No, si tratta di Edward”
Lea spense il telefono e, con un moto di stizza, lo gettò
sul letto di Bill. Si guardò attorno, per imprimersi nella
memoria la visuale della sua stanza, il letto sfatto, la scrivania
ingombra, i cassetti mezzi aperti. Proprio quando lo aveva ritrovato,
era costretta a lasciarlo di nuovo.
Sentì la porta d’ingresso aprirsi e la voce calda
di Bill che diceva “ecco qui birra e coca” per poi
aggiungere “ma Lea dov’è?”
Sentì Tom rispondergli, ma non capì le parole,
così si affacciò alla porta della camera da letto
e disse: “Bill, sono in camera tua. Ti spiace venire qui un
attimo?”
Udì i suoi passi raggiungerla e lo vide entrare in stanza,
sorridente. Sorriso che si spense non appena notò il volto
tirato di Lea.
“Cosa succede?”
“Devo tornare a casa”
“Perché? Lea non dirmi che stai ancora pensando
alla storia della distanza, non potrei accettarlo”
“No, non si tratta di quello. Si tratta di Edward, mio
padre” mormorò Lea, le labbra strette in una
smorfia di rabbia.
“Gli è successo qualcosa?”
“No, lui…”
How I wish, how I wish you were
here
We’re just two
lost souls swimming in a fish ball
Year after year
La melodia del cellulare la interruppe e il pensiero di Lea
volò subito a quella canzone, che rispecchiava
così drammaticamente la realtà: anche lei e Bill
erano due anime perse, che nuotavano in una fottuta boccia per pesci,
anno dopo anno. E proprio quando il futuro pareva sorrider loro, si era
intromesso suo padre, quell’uomo che, con la scusa di aver
contribuito alla sua venuta sulla Terra, pensava di poterla
condizionare a vita.
Lea cercò con lo sguardo il cellulare e lo
individuò fra le pieghe delle lenzuola.
“Sì?”
“Lea, sono mamma”
“Mi ha già chiamato Marie, so tutto”
rispose Lea, dura.
“Non sei costretta a tornare a casa, anche se immagino che
tua sorella te l’abbia chiesto. Io sto bene”
“Ma Marie no! E so che ha bisogno di me, altrimenti non mi
avrebbe mai chiamata! Peccato che tu ed Edward abbiate le fette di
salame sugli occhi! Sono stata una stupida a fidarmi di te, a
raccontarti di me, del mio rapporto con Edward e di quanto mi sia
mancato. Avrei dovuto saperlo, sei uguale a lui” poi
scoppiò in singhiozzi “Adesso lasciami in pace.
Domani ne riparleremo di persona”
Bill, in piedi accanto a lei, non aveva capito nulla, a parte i nomi
“Marie” ed “Edward” che gli
avevano permesso di intuire che si trattasse di una questione
familiare. Lea gli dava le spalle, scosse dai singhiozzi. Il ragazzo si
avvicinò piano e le circondò la vita con le
braccia, facendo aderire il suo petto alla schiena di Lea. Poi prese a
cullarla.
“Lea, guardami” Lea si voltò piano, ma
non lo guardò. Affondò il viso nel suo petto e
continuò a piangere, disperata. Dopo minuti che parvero ore,
si decise a parlare.
“Pensavo che fosse una storia chiusa, credevo che mio padre
non ci avrebbe più creato problemi e
invece…”
“Cos’ha fatto?”
“E’ tornato. Lui è semplicemente
tornato. Mi ha chiamato mia sorella, prima, dicendomi che poche ore
dopo la mia partenza, si è presentato a Roma, piangendo
miseria e chiedendo a mia madre di riaccoglierlo in casa” Lea
faticava a parlare, la voce era un sussurro “Dice che sua
moglie, quella che ha sposato qualche mese fa, l’ha piantato
e gli ha fregato tutti i soldi. Così ha chiesto a mia madre
aiuto. Ah, dimenticavo” continuò, facendo una
risatina nervosa “dice che in tutto questo tempo, ha capito
di amare solo lei”
“Fammi capire” commentò Bill
“in pratica vuole tornare con tua madre?”
“Esatto. Tu non capisci… io… lui non
ama mia madre, non gliene frega nulla di lei, se ne sta solo
approfittando! Ma lei… lei non lo capisce, quella
stupida!” urlò, in preda ad una rabbia cieca.
“Lea, scusami se te lo chiedo, ma perché devi
tornare a casa? Non pensi che sarebbe meglio se la risolvessero
loro?”
“Non torno per loro, torno per mia sorella. Lei ha sofferto
il doppio di me dopo che quel bastardo se ne è andato e
adesso so come si sente. Se mi ha chiesto di tornare, è
perché ha seriamente bisogno di me. Sapeva quanto fosse
importante, per me, ritrovarti e non mi avrebbe mai chiesto di
rinunciare se non fosse seriamente in difficoltà”
Lea chiuse gli occhi e tornò indietro con la mente.
Marie aveva vissuto male l’abbandono del padre. E aveva
vissuto anche peggio gli anni che erano seguiti. Era solo una bambina
di dieci anni, quando Edward aveva deciso di andarsene ed era cresciuta
con la consapevolezza di non avere una figura maschile accanto.
Si era imbarcata in amori sbagliati, con uomini molto più
grandi, che non le avevano mai dato quello che cercava,
perché c’era solo una persona in grado di farlo:
Edward.
Ma lui non era più tornato e la ragazza aveva sviluppato un
forte odio nei suoi confronti, al punto tale da non volerlo nemmeno
sentir nominare.
A ventisette anni si era innamorata di un ragazzo della sua
età.
Lea ricordava ancora lo sguardo sognante della sorella, la sua voglia
di vederlo, l’emozione che trapelava dai suoi occhi quando ne
parlava. L’anno successivo era rimasta incinta e lui aveva
pensato bene di andarsene. Gambe in spalla e via.
Quello era stato l’ennesimo scherzo che il destino aveva
giocato alla sorella e ora Edward tornava, tornava a farle rivivere i
fantasmi del passato, tornava con la sua bella faccia tosta a
ricordarle che tutto era successo a causa del suo disinteresse, della
sua noncuranza.
“A cosa pensi?” le chiese Bill, non sentendola
parlare.
“Stavo pensando a Marie, a tutto quello che ha passato. Devo
tornare da lei, Bill. Anche solo per un giorno, ma devo
tornare”
“Anche io lo farei per Tom” mormorò lui.
“Sapevo che mi avresti capita, ne ero certa. Ma vorrei tanto
che non fosse mai tornato, vorrei tanto restare qui con te per tutta la
settimana. Mancano solo dieci giorni a Natale, dopodiché tu
tornerai a girare per il mondo e chissà quando ci
rivedremo”
“Vengo con te a Roma” disse lui, tutto
d’un fiato.
“No, Bill. Non se ne parla! Sei impazzito?”
“Perché?”
“Non puoi andartene in giro come una persona qualunque! Tu
non sei più un ragazzo normale!”
“So camuffarmi egregiamente” ridacchiò
lui.
“Le tue fan ti riconoscerebbero lontano un miglio, credimi. E
Roma è piena di tue fan! Starò via solo un
giorno, te lo prometto. Se vuoi, posso chiedere a Sue e Mandy se se la
sentono di essere prese in ostaggio”
“Non scherziamo, tu da sola a Roma non torni! O vengo io o
vengono loro”
“Ehi, guarda che non ho due anni! So cavarmela!” lo
rimbeccò Lea. Poi si avvicinò alle sue labbra e
lo baciò, piano “Aspettami, ti giuro che
torno”
**
Informare le amiche, che la
aspettavano in salotto con Tom dell’imminente partenza, fu
facile. Difficile fu vedere gli occhi di Bill, che la osservavano
mentre radunava le poche cose che aveva fatto in tempo a posare.
I gemelli decisero di evitare alle ragazze un viaggio in taxi e le
scortarono all’aeroporto, con l’Escalade di Tom.
Nessuno si accorse della loro presenza; quando giravano in auto senza
fermarsi troppo a lungo nei luoghi affollati, tornavano ad essere due
ragazzi normali.
Tom e Sue sedevano davanti, in silenzio. Dallo specchietto retrovisore,
Tom controllava i movimenti del fratello e vedeva benissimo la sua mano
stretta in quella di Lea, mentre i suoi occhi fissavano il paesaggio
fuori dal finestrino.
Giunti all’aeroporto, Sue e Mandy salutarono i ragazzi con
una stretta di mano e scesero, cominciando a scaricare le valige e
dando tempo a Lea di salutare meglio il cantante. Tom, per non
rischiare di essere riconosciuto, scese dall’auto ma tenne
aperta la portiera, in modo da esserne parzialmente nascosto.
“Così devo salutarti di nuovo in un
aeroporto” mormorò Bill, guardandola per la prima
volta da che erano partiti.
“Sarà per poco, te lo prometto. Dammi il tempo di
assicurarmi che mia sorella stia bene”
“Riuscirai a tornare prima di Natale?”
“Lo spero. Mancano ancora dieci giorni, dovrei
farcela”
“Dovresti?” quello che uscì dalla bocca
di Bill fu più un sospiro che un commento vero e proprio.
“Bill, non ho idea di quello che troverò a Roma.
Questa volta non è colpa mia” si scusò
la ragazza “Adesso devo andare. Ti chiamo appena sono a
casa” poi si sporse in avanti e posò le labbra su
quelle del cantante, che le cinse la vita con le braccia e la strinse a
sé.
Una volta scesa dall’auto, salutò Tom con un
abbraccio ma negli occhi del chitarrista lesse qualcosa di molto simile
al disprezzo. Abbassò la testa e sgattaiolò via,
seguita da Mandy e Sue.
L’attesa fu lunga e snervante, il volo era in ritardo e aveva
cominciato a nevicare. Temettero di rimanere bloccate a Berlino, ma la
provvidenza corse in loro soccorso.
Giunsero comunque a Roma quando mancavano poche ore all’alba.
**
Lea appoggiò la
valigia in corridoio e si buttò sul divano. Decise di non
svegliare subito Marie così si lasciò andare ad
un sonno agitato.
Alle sette fu Philip a svegliarla: “Zia Lea, sei
tornata!”
Poco dopo spuntò anche Marie, che corse dalla sorella e la
abbracciò, senza parlare, gli occhi colmi di lacrime e il
viso tirato.
“Adesso preparati per la colazione” Lea prese in
mano la situazione “poi ti accompagno all’asilo. La
mamma oggi deve riposare”
Il piccolo ubbidì alle parole della zia e in pochi minuti si
presentò in cucina, pronto per il primo pasto della
giornata. Lea gli preparò la sua colazione preferita,
cereali al cioccolato con latte caldo e fette biscottate con la
marmellata, poi lo aiutò a sistemarsi meglio i vestiti e lo
accompagnò all’asilo.
Quando rincasò, Marie era ancora seduta sul divano, nella
stessa posizione, con lo stesso sguardo spento.
“Oggi non vai al lavoro, vero?”
“No, anche ieri sono uscita prima, appena ho saputo
dell’arrivo di Edward” ma non riuscì a
proseguire, le parole le morirono in gola. Lea le strinse forte una
mano.
“Mi dispiace tanto averti fatta tornare” riprese
Marie “Sono un’egoista, lo so. Solo che ho bisogno
di te, adesso. Non posso pensare di riaverlo nella mia vita”
“Tu adesso ti metti a letto, prendi un calmante e dormi. Hai
passato la notte in piedi, vero?”
“Posso dirti tutto quello che trasmettono in televisione
dalle nove alle tre del mattino. Dopodiché mi sono messa a
letto, ma ho preso sonno solo verso le cinque. Tu a che ora sei
arrivata?”
“Le cinque e mezza. Ora vai a letto, io devo fare una
chiamata e poi vado dalla mamma”
Marie si trascinò fino in camera e Lea cercò il
telefonino in borsa. Dopo qualche squillo, Bill rispose:
“Ciao”
“Ciao” mormorò Lea “sono a
casa. Sono arrivata alle cinque e mezza di stamattina. Non ti ho
chiamato, non mi sembrava il caso”
“L’importante è che sei arrivata. Come
sta tua sorella?”
“Peggio di quanto pensassi. Adesso vado da mia madre, ti
chiamo dopo. Buona giornata”
“Lea…” disse Bill, prima che la ragazza
riattaccasse.
“Dimmi…”
“Ti amo” Lea sentì il cuore scoppiarle
in petto e, in un sussurro, rispose “Anche io”
**
“Era
lei?”
Tom sostava sulla porta della cucina, i rasta sparpagliati sulle
spalle, gli occhi ancora pieni di sonno.
“Sì, è arrivata. Ma
cos’è quella faccia?”
“Non mi piace questa storia, Bill”
“Che storia?” chiese il cantante, perplesso.
“Arriva, se ne va, torna, se ne va di nuovo. Che razza di
comportamento sarebbe questo?”
“Come ti ho spiegato, ha avuto dei problemi in
famiglia”
“Balle!” sbraitò Tom “Tutte
balle!”
“Cosa stai insinuando?”
“Non mi convince. Ecco cosa sto insinuando. Non
può entrare nella tua vita, sconvolgertela e poi sparire di
nuovo! Io ci penserei, fossi in te…” poi
voltò le spalle al fratello e si diresse verso il bagno.
Dopo poco, Bill udì solo lo scrosciare della doccia, mentre
un dubbio atroce si faceva strada nella sua testa.
**
Ancora grazie a tutte per i
commenti, in particolar modo ad AlienToLove e Splash_BK che commentano
sempre! *_*
Grazie, davvero!
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Lea arrivò a casa della madre in tempo per assistere ad una
patetica scenetta: suo padre che portava fuori la spazzatura, con un
largo sorriso sul viso e l’espressione di chi ha ottenuto
esattamente quello che voleva. Senza salutarlo, gli passò
accanto ed entrò in casa. Sua madre era in cucina, la
ragazza poteva sentirla canticchiare allegramente.
“Mamma” la chiamò, raggiungendola. La
donna si voltò e sorrise alla figlia. Indossava una
maglietta rossa, leggermente scollata, che le aderiva perfettamente al
petto e un paio di pantaloni neri, stretti in vita e molli sulle cosce.
Un filo di trucco la rendeva ancora più bella di come non lo
fosse appena sveglia. Lea intuì subito la faccenda: era
innamorata.
“Ciao tesoro” rispose la donna, andandole incontro
“Non era il caso che tornassi”
“Lo era, invece” Lea gettò la borsa sul
tavolo della cucina e si tolse il giubbotto, poggiandolo sulla sedia
“Spero vorrai spiegarmi”
In quel mentre, anche Edward rientrò e raggiunse le due
donne, esordendo con un trillante “Ciao Lea”, al
quale la ragazza non rispose.
“Tuo padre ti ha salutato” la rimproverò
Marta, sua madre.
“Spero vorrai spiegarmi cosa cazzo succede” Lea
parlò guardando sua madre in faccia, senza distogliere lo
sguardo nemmeno per un istante.
“Che razza di tono sarebbe questo?” si intromise
Edward, avvicinandosi a Marta “Se non vuoi parlare con me,
almeno porta rispetto a tua mamma”
“Rispetto?” sbraitò Lea, spostando gli
occhi verso il padre “Proprio tu parli di rispetto? Te ne sei
andato di nascosto, come un ladro, per poi tornare dieci anni dopo
nella nostra vita! E mi vieni a parlare di rispetto? Fossi in te,
starei zitto”
“Lea!” sua madre mutò espressione,
passando dal sorpreso all’iracondo “Lui
è tuo padre, che ti piaccia o meno! Inoltre, questa
è una cosa che non ti riguarda! Ne abbiamo discusso a lungo,
papà ha capito di avere sbagliato e io sono disposta a
perdonarlo”
“Ma fammi il piacere!” urlò Lea, di
rimando “Non è una cosa che mi riguarda? Si da il
caso che quell’uomo ha distrutto la nostra vita
già una volta! Come puoi essere così stupida da
permettergli di farlo di nuovo?”
Un sonoro ceffone si posò sulla guancia di Lea che,
inebetita, rimase per un istante in silenzio, una mano sulla guancia
dolorante.
“Non permetterti mai più di dire una cosa simile a
tua madre” tuonò Edward “Non mi importa
quanti anni hai, sono pronto a riempirti di ceffoni se ti azzardi
ancora a parlarle in quel tono”
“Sei patetico” sibilò Lea, lanciandogli
uno sguardo di sfida “Lo sei sempre stato. Pensi solo a te
stesso, non ti importa nulla di lei, di noi. Sei tornato solo
perché sei nella merda ma quando questa situazione si
sbloccherà, sparirai di nuovo, perché
è l’unica cosa che sai fare”
“Lea smettila! Se sei venuta qui per criticare, puoi anche
tornartene a casa” Marta parlò con
autorità.
“Non pensi a Marie?” chiese Lea, squadrando sua
madre “Lo sai quanto ha sofferto, tu c’eri a
differenza sua” e nel dirlo, indicò Edward
“Sai cosa ha passato a causa della sua assenza”
“Se tua sorella ha deciso di investire il suo futuro
basandosi su scelte sbagliate, non puoi dare la colpa a me”
sentenziò Edward.
“Non parlare di mia sorella” lo minacciò
Lea “Non permetterti nemmeno di nominarla, sono stata chiara?
Non mi farò mettere sotto da te, che non sai nemmeno
quand’è il giorno del mio compleanno!”
“Questa storia sta diventando grottesca”
commentò Marta “E i vicini penseranno che ci
stiamo ammazzando, quindi abbassate il tono”
“Me ne fotto dei vicini! E sinceramente, me ne fotto anche di
voi! Ma soprattutto, me ne fotto di te, Edward” e
pronunciò quel nome con disprezzo, come se si stesse
riferendo ad un criminale. Poi girò sui tacchi,
afferrò gli indumenti che aveva posato sulla sedia ed
uscì di casa, sbattendo la porta con violenza.
**
Lo avrebbe voluto accanto in quel momento. Avrebbe avuto voglia di
vedere i suoi occhi, così comprensivi, di sentire la sua
voce, così pacata, di avvertire la sua presenza,
così rassicurante. Ma lui non c’era.
Pensò di chiamarlo, di nuovo, solo per poter sentire la sua
voce, ma temendo di disturbarlo, evitò. Non era ancora
entrata nell’ottica della “coppia”,
faceva fatica a pensare che da quel momento, avrebbero potuto dividere
qualsiasi gioia e qualsiasi dolore.
Vagò per Roma, in auto, pensando a cosa sarebbe successo
adesso che Edward era tornato, adesso che nulla sarebbe più
stato come prima. E poi pensò a Marie, a quanto aveva patito
a causa di quell’uomo che si ostinava a farsi chiamare
“papà”, quando in realtà era
poco più di uno sconosciuto.
Rincasò dopo mezz’ora di giri incessanti per la
città e trovò Marie ai fornelli, intenta a
prepararsi un caffè.
“Sei già sveglia?” chiese Lea, posando
cappotto e sciarpa sul tavolo.
“Sì, non riuscivo a dormire. Ci hai
parlato?”
“Parlato non è il termine esatto. A dire il vero
ho urlato e Edward mi ha anche tirato uno schiaffo” concluse
Lea, con una risata di scherno.
Il rumore di un pezzo di ferro sbattuto a terra riecheggiò
fra le mura della cucina.
“Cosa?” chiese Marie. Lea si voltò e
notò la caffettiera a terra e il viso di Marie, rosso e
arrabbiato “Ti ha tirato uno schiaffo?”
“Sì, per difendere mamma. Patetico”
“Io lo ammazzo, Lea” si pulì le mani nel
canovaccio appeso al muro e fece per uscire dalla cucina.
“Dove vai?” Lea la fermò, prendendola
per un braccio “Stai qui”
“No! Come si permette? Cosa vuole dimostrare? Di essere un
buon padre? Doveva farlo prima, adesso è tardi!”
urlò “Vado da lui”
“No” sentenziò Lea “Tu non fai
nulla. Non permettergli di renderti ancora più debole.
Domani, con calma, parlerò di nuovo con mamma, anche se mi
sono congedata in maniera drastica. Capirà e lo
manderà via” e poi pensò “E
io tornerò a Berlino”
Ma Berlino, adesso, era lontana. Troppo lontana.
**
Bill sfogliava, pigramente,un giornale trovato per casa senza leggere
gli articoli, senza nemmeno vedere le figure, la mente troppo occupata
a pensare alle parole del fratello.
Era possibile che Lea, la sincera Lea, quella che gli aveva aperto il
suo cuore totalmente, lo stesse prendendo in giro?
Del resto, per quale motivo Tom avrebbe dovuto insinuargli un simile
dubbio nel cervello se non ci fosse stato almeno un fondo di
verità?
Alzò gli occhi dalla rivista e afferrò il
cellulare, selezionò il numero della ragazza dalla rubrica e
inoltrò la chiamata.
Al secondo squillo, Lea rispose.
“Ciao” balbettò Bill. Non erano ancora
arrivati alla fase in cui, quando la tua compagna risponde al telefono,
viene spontaneo ribattere con un “ciao tesoro” o
“ciao amore”. Era forse ancora troppo presto.
“Ciao Bill” mormorò Lea, mesta
“E’ successo qualcosa?” anche per lei non
era ancora giunta quella particolare fase per la quale è
normale che il tuo compagno ti telefoni solo per sapere come ti senti,
specie se dista da te centinaia di chilometri.
“No, nulla. Volevo solo sapere come stai, anche se ci siamo
sentiti questa mattina”
“Ho parlato con i miei genitori, anzi, ci ho litigato. Ma
domani vedrò di sistemare tutto, voglio tornare a Berlino il
prima possibile” lo rassicurò.
“Perché non mi hai permesso di
accompagnarti?” Bill buttò lì la
domanda, con apparente noncuranza, come se facesse parte del discorso.
“Perché non era il caso, Bill. Ti avrei fatto
perdere solo del tempo”
Il ragazzo non rispose, ma una spia nella sua testa prese a pulsare,
come l’allarme di una macchina. Perdere del tempo? Non
sarebbe stato tempo sprecato, se l’avessero trascorso
insieme. Era questo il punto della questione.
“Bill? Sei ancora in linea?”
“Sì, scusa. Non mi avresti fatto perdere del
tempo, comunque. L’avrei fatto volentieri”
“Lo so, ma è una questione che non ti riguarda,
non voglio ammorbarti con i miei problemi famigliari”
Di nuovo Bill tacque. Una questione che non lo riguardava? Aveva sempre
pensato che, nel momento in cui avesse avuto la fortuna di incontrare
la ragazza giusta, avrebbe condiviso con lei tutto, senza esclusione.
Ogni suo problema sarebbe diventato un unico problema da dividere in
due, in modo tale che il peso da reggere fosse stato meno pesante. Ma,
evidentemente, per Lea non era lo stesso.
“Mi sembri strano” disse quindi la ragazza.
“No, non ho niente. Sto bene. Ci sentiamo domani”
Lea non fece nemmeno in tempo a salutarlo, perché il ragazzo
interruppe la comunicazione velocemente. Indispettita, gettò
il cellulare sul letto e sbuffò: adesso cosa diamine gli
stava capitando?
**
Marie uscì di casa di nascosto. Aveva sentito Lea parlare al
telefono e ne approfittò per sgattaiolare fuori e
raggiungere la casa di sua madre.
Nel vialetto, riconobbe l’auto del padre e le venne un conato
di vomito. Inspirò profondamente, scese dalla sua macchina
ed entrò senza bussare.
Trovò i suoi genitori in salotto, seduti sul divano, vicini
e sorridenti.
“Marie! Che sorpresa” esordì la madre,
alzandosi.
“Non sono venuta per farti una sorpresa, mamma. Sono qui per
chiederti di mandarlo via, adesso”
Edward non si scompose, con il suo solito sorriso di plastica
guardò la figlia e parlò con calma:
“Ciao Marie. Vedo che anche tu, come tua sorella, non hai
perso tempo. Pazzesco pensare che le mie figlie non mi
vogliano”
“Non sono più tua figlia, Edward. Ho smesso di
esserlo da tanto tempo”
“Oh andiamo, è ora di finirla con questa storia,
Marie! Se hai compiuto scelte sbagliate nella vita, non puoi
colpevolizzarmi! Non ero io a spingerti nel letto di uno sconosciuto
diverso ogni sera”
Marie sentì una rabbia sorda impossessarsi di lei, strinse
in pugni fino a che le nocche divennero bianche e represse la voglia di
saltargli al collo.
“Tu non sai cosa ha significato, per me, la tua scomparsa. Ho
passato notti intere a chiedermi per quale motivo mi avessi
abbandonata. Ero solo una bambina, ti adoravo, ero così
orgogliosa di te”
“Non ti ho abbandonata”
“Lo hai fatto! Sei sparito come un vigliacco, non ti sei
fatto vivo per anni! Quando ci siamo trasferite in Italia ho sempre
sperato di vederti tornare, di sentire il rumore della tua auto che
parcheggiava davanti a casa nostra, di ricevere almeno una tua
telefonata, una lettera, qualsiasi cosa! Invece solo
silenzio… Se non fosse stato per la mamma e per Lea, sarei
impazzita. Poi è arrivato Philip e, come una stupida,
l’ho chiamato come tuo padre, perché volevo
mantenere vivo il ricordo, volevo che ci fosse ancora qualcosa che mi
legasse a te. Sono stata una sciocca. Tu non ci hai mai voluto
bene”
“Marie, non dire così” Marta
parlò piano, le parole della figlia l’avevano
svuotata, facendola per un attimo ripiombare nell’incubo di
quegli anni, del loro trasferimento in Italia, delle
difficoltà che avevano affrontato per ricostruirsi una
“nuova” vita che permettesse loro di ricominciare
da capo, senza Edward.
“Sai che sto dicendo la verità, mamma!”
tuonò Marie “Lo sai. E non capisco come tu possa
permettergli di starsene qui, seduto sul TUO divano, non il VOSTRO.
Quel divano è tuo, questa casa è tua! Ti ricordi
che culo ti sei fatta per ricominciare qui? O te lo sei
dimenticato?”
Marta non rispose. Era stato difficile, tremendamente difficile.
Sebbene fosse italiana, aveva seguito Edward in Inghilterra dopo averlo
conosciuto e ci era rimasta per più di dieci anni. Aveva
deciso di tornare in patria solo quando il marito se ne era andato,
pochi mesi dopo la nascita di Lea, lasciandole sola con una bambina di
dieci anni e una neonata.
Ma quando l’aveva visto tornare, aveva pensato che le sue
preghiere fossero state esaudite, senza fermarsi a riflettere su cosa
avrebbe significato, quel ritorno improvviso, per Marie e Lea. Ma
soprattutto per Marie.
E c’era ancora qualcosa che doveva dire alla figlia, qualcosa
di cui lei e il “marito” avevano parlato poche ore
prima.
“Marie, tutti sbagliano, anche tuo padre. E ora è
tornato, mi ha chiesto scusa,ha capito. E vorrebbe che tornassi in
Inghilterra con lui”
Marie squadrò la madre con gli occhi spalancati, come se si
trovasse di fronte una perfetta sconosciuta.
“Dice che anche Philip potrebbe venire con noi, almeno un
paio di mesi, così da imparare la lingua” aggiunse
Marta, con un filo di voce, temendo la reazione della figlia.
“Scusa?” sbraitò Marie “Phil
non si muove da qui! Non pensateci nemmeno!”
“Sarebbe una grande occasione per lui” si intromise
Edward “L’anno prossimo inizierà le
scuole elementari e potrebbe frequentarle a Londra”
“Vaffanculo!” Marie lo urlò con tutta la
forza possibile “Vaffanculo! Me ne fotto delle scuole
elementari londinesi e della lingua! Mio figlio non si muove da Roma! E
tu, mamma” continuò, puntandole un dito contro il
petto “faresti bene a pensarci. Se te ne vai in Inghilterra
con lui, non azzardarti a tornare piagnucolando!”
E, come aveva fatto Lea poche ore prima, girò sui tacchi ed
uscì da quella casa, con la sensazione che nulla sarebbe
finito, che l’incubo stava ricominciando.
**
Mandy subodorava guai e Mandy era infallibile su questo. Il suo sesto
senso era marcatissimo e finiva sempre per avere ragione
così, nonostante non sentisse Lea dalle cinque e mezza di
quel mattino, cioè da quando erano sbarcate, si diresse a
casa sua.
Suonò il campanello e la ragazza le aprì poco
dopo, sul viso i segni di una giornata cominciata male.
“Lea, ho un sospetto. E dalla tua faccia, credo di non
sbagliarmi”
“Mi chiedevo quando saresti arrivata, infatti”
rispose Lea, facendola entrare e dirigendosi verso la sala. La casa era
vuota, Marie non c’era e Philip era ancora
all’asilo.
“Sei sola?” chiese Mandy.
“A quanto pare… Marie è sparita e penso
di sapere dove sia”
“Cosa succede?”
“Ho parlato con mia madre e con Edward. Risultato: ho
rimediato uno schiaffo e un gran mal di stomaco. Ora credo che Marie
sia da loro”
“Hai sentito Bill?”
“Non parlarmene. Mi ha praticamente sbattuto il telefono in
faccia!”
“Per quale motivo?” chiese Mandy, dubbiosa. Per
come lo conosceva, non si sarebbe mai aspettata un simile comportamento
a meno che non ci fosse stato un motivo ben preciso.
“Mi ha chiesto perché non ho voluto che venisse a
Roma ed io gli ho semplicemente detto che non volevo che sprecasse
tempo per i miei problemi, che è una questione che non lo
riguarda. Dopodiché, mi ha salutata in malo modo e ha
interrotto la comunicazione. Ci mancava solo lui”
“Lo sapevo…” sbuffò Mandy
“Lo sapevo!”
“Cosa? Cosa sapevi?”
“Capisco che è la tua prima relazione importante,
ma…”
“La prima in tutti i sensi” la corresse Lea.
“Ecco, appunto. E dicevo, capisco che questa sia la tua prima
relazione importante, ma non è un’attenuante, Lea.
Anche se non hai esperienza in questo campo, dovresti essere
più malleabile, dovresti renderti conto che in amore si
divide tutto, anche i problemi” sentenziò Mandy,
con aria da vera esperta.
“Non credo di seguirti… o forse sì.
Stai forse dicendo che è colpa mia?”
“In parte sì. Lui voleva starti accanto e tu,
invece, l’hai rimesso al suo posto, come fosse un amico
impiccione. Lui non è un tuo amico, è il tuo
ragazzo, capisci la differenza?”
“A scapito di essere presa per superficiale, credo che la
differenza stia nel semplice fatto che con lui condivido anche
l’intimità, mentre con un amico no”
mormorò Lea, quasi imbarazzata.
“Ecco dove sta l’errore!” proruppe Mandy
“Tu credi che Bill sia un amico con il quale vai a letto, ma
in realtà è molto di più! Lui dovrebbe
essere la tua spalla, quello a cui raccontare i tuoi dispiaceri, le tue
paure, quello a cui fare riferimento quando il mondo ti volta le
spalle”
“Per questo ci siete tu e Sue, le mie migliori
amiche”
“Certo Lea, ma ora c’è anche lui. E la
differenza fra noi è Bill sta nel fatto che noi ti vogliamo
bene, come se fossi nostra sorella, ma lui ti ama”
“Non capisco, Mandy. Che differenza fa? Anche voi mi amate,
sebbene in modo diverso” disse Lea, cominciando a sentirsi
vagamente in colpa.
“L’hai detto tu stessa: in modo diverso. Io, per
quanto ti voglia bene, non avverto la necessità di averti
accanto costantemente e, con questo, non fraintendermi Lea”
“Ho sbagliato a non permettergli di venire a Roma?”
chiese Lea, in un sussurro “Lui è pur sempre Bill
Kaulitz, fatico a pensare che sia semplicemente Bill. O meglio, lo
penso quando siamo soli, ma in mezzo alla gente… non lo
so”
“Capisco Lea, ma ora, prima di essere Bill Kaulitz,
sarà sempre Bill per te. Quando pensi a lui, dovresti
immaginartelo come un normalissimo ragazzo di Berlino e non come la
rockstar che infiamma le arene”
“Facile dirlo, Mandy! Non potrei mai passeggiare per Roma con
lui, ci assalirebbero o meglio, LO assalirebbero in meno di un
minuto!”
“Lui non ti ha chiesto di passeggiare per Roma. Sono certa
che se ne sarebbe stato in hotel, calmo e tranquillo, ad aspettarti, ma
con la consapevolezza di essere nella tua stessa città.
Così, invece…” non fece in tempo a
finire la frase che la porta di casa si aprì violentemente
ed entrò Marie, rossa in volto e tremante.
Lea si alzò di scatto dal divano.
“Sei andata da loro, vero?”
“Vogliono trasferirsi in Inghilterra!”
urlò, gettando la borsa per terra e bestemmiando, cosa che
non faceva mai.
“Marie calmati” Lea cercò di
accarezzarle una guancia ma la sorella si divincolò.
“E sai cosa mi ha detto? Che vorrebbe portare anche Phil a
Londra, per fargli studiare l’inglese! Io lo odio, Lea, lo
odio!” e senza aspettare risposta, si precipitò
verso il bagno e vi si chiuse all’interno.
Lea chiuse gli occhi. Le sembrava di essere tornata bambina, quando la
sorella rincasava ubriaca fradicia e si chiudeva in camera, seguita a
ruota da sua madre che le urlava improperi di ogni tipo, salvo poi
scoppiare a piangere di fronte ad una figlia che aveva smarrito il
senso della sua vita.
Nonostante fosse davvero piccola, capiva perfettamente ogni parola,
ogni gesto, ogni sguardo. E quella vita era durata per anni, fino a
quando non era nato Philip, in pratica.
Solo allora, forse per senso del dovere, Marie aveva ritrovato la
“retta via”, aveva riposto in suo figlio ogni
speranza e aveva iniziato a sentirsi meno sola.
Aveva chiuso con le storie sbagliate, con le sbronze serali, con il
sesso occasionale ed era diventata una mamma a cinque stelle. Ma
dentro, qualcosa continuava a divorarla e quel qualcosa, adesso, era
tornato in carne ed ossa.
“Lea, io vado” mormorò Mandy, ancora
scossa dalla scena alla quale aveva appena assistito “Ti
chiamo domani”
“Sì, scusa Mandy. E grazie” Lea la
abbracciò forte.
**
Marie non era ancora uscita dal bagno, Lea la sentiva piangere
sommessamente. Era quasi ora di andare a recuperare Phil
all’asilo, così informò la sorella
dalla porta del bagno e poi si diresse all’asilo.
Quindici minuti dopo, faceva ritorno a casa.
“La mamma?” chiese Philip “Oggi abbiamo
fatto dei disegni e ne ho uno per lei e uno per te!”
trillò.
“Tesoro, la mamma sta facendo la doccia”
mentì Lea “Adesso vai a cambiarti e poi glielo
mostri, ok?”
Il bambino annuì e si recò, diligentemente, in
camera. Lea lo seguì con lo sguardo, mentre calde lacrime le
facevano brillare gli occhi.
D’improvviso, avvertì la necessità di
sentire la voce di Bill. E capì perfettamente il discorso di
Mandy: era quella la differenza fra lui e un amico. Di lui aveva BISOGNO.
Il primo tentativo di chiamata non andò a buon fine e Lea
pensò che il ragazzo fosse ancora arrabbiato. Sul subito,
decise di lasciar perdere, ma qualcosa in lei le suggerì di
ritentare. Al quarto squillo, uno scontroso Bill rispose.
“Ciao” biascicò.
“Bill… senti, mi dispiace per prima”
“Non importa”
“No, importa invece. Non è che non ti volessi qui,
è che devo ancora abituarmi all’idea.
Sono… sono una frana in questo senso, lo ammetto”
“Non volevo impicciarmi dei fatti tuoi, Lea. Credevo solo che
ti avrebbe fatto piacere avermi lì. So che ci sono le tue
amiche, ma è come se tu mi avessi tagliato fuori dalla tua
vita. E’ vero” continuò, parlando
velocemente “ci conosciamo, tutto sommato, da poco, ma a me
sembra di conoscerti da sempre. Chiamami idiota,
ma…”
“No, no, Bill! Non sei idiota! Oddio, sono io che…
che ti tratto come se fossi un mio amico” e pensando alle
parole di Mandy, continuò “ma non lo sei. Sei
molto di più”
Bill non disse nulla, Lea sentì solo un sospiro. Era un
sospiro di sollievo.
“Ti ricordi di Parigi, all’aeroporto? Mi avevi
detto che, se mai avessi sentito la tua mancanza, avrei dovuto
chiamarti, in modo da permetterti di raggiungermi ovunque fossi.
Ricordi?”
“Certo, come fosse successo ieri”
“Mi manchi” mormorò Lea “E ho
bisogno di te”
Lea sentì una risatina dall’altro lato della
cornetta, ma non una risata di scherno. Era qualcosa di molto simile ad
una risata di gioia.
“Arrivo” fu tutto quello che il ragazzo disse.
**
Oltre a ringraziarvi, come sempre, non so che dire xD
Mi sa che starete tutte quante detestando Lea a più non
posso! xD
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
L’aeroporto di Roma era gremito.
La gente andava e veniva, senza badare a chi stesse loro accanto, senza
ascoltare i rumori della folla, senza chiedersi se la ragazza che
sedeva su una sedia rigida e fredda stesse aspettando qualcuno, se i
suoi occhi che vagavano febbrilmente da un lato all’altro
della grande sala, cercassero quelli di un altro.
Quando il volo, in arrivo da Berlino, fu annunciato dalla voce
metallica e fintamente trillante dello speaker, Lea sussultò.
Di lì a pochi minuti, lui sarebbe stato di nuovo davanti a
lei, in tutto il suo splendore.
Un fiume di persone le passò davanti, indaffarati, di corsa,
pieni di valige contenenti chissà cosa, con lo sguardo
puntato verso l’uscita, verso la città.
E poi, come un miraggio per un disperso nel deserto infuocato, lo vide.
Camminava con sicurezza, un grosso paio di occhiali scuri sugli occhi,
una cuffia che gli copriva interamente la fronte e gli schiacciava i
capelli che, per l’occasione, aveva stirato, un giubbotto
pesante a coprirgli il resto del torace e in una mano, un trolley
gigante.
Lea ammise che si era davvero camuffato alla perfezione e, a completare
l’opera, una sciarpa scura copriva anche la sua bocca,
lasciando scoperto solo il naso.
La ragazza fece qualche passo verso di lui, che la notò
immediatamente e, dal movimento che fecero i suoi zigomi, Lea
intuì che avesse steso le labbra in un largo sorriso.
Si ritrovarono a pochi centimetri di distanza, Lea cercava di carpire
la luce dei suoi occhi attraverso le lenti scure, ma il ragazzo la
spiazzò abbassandoseli leggermente per poterla guardare
meglio.
“Sei pazzo” sussurrò Lea, avvicinandosi
ulteriormente a lui, le labbra a pochi centimetri di distanza dalle sue
“Ti farai scoprire”
Bill non rispose, le diede un bacio appena accennato e la prese per
mano, incurante della gente, del mondo che camminava accanto a loro,
del rischio di venire scoperti.
Salirono su un taxi che partì sgommando e
sfrecciò fra le vie romane, caotiche e rumorose, fermandosi
di fronte ad un hotel anonimo, poco distante da casa di Lea.
Svolte le consuete pratiche di accettazione, i ragazzi salirono al
secondo piano ed entrarono nella camera che Bill avrebbe occupato per
quella settimana.
Prima ancora di chiudere la porta, Lea gli saltò al collo,
cogliendolo di sorpresa e rischiando di farlo cadere sul pavimento.
Con tutta quella roba addosso, non riusciva a sentire il suo profumo,
così gli sbottonò il giubbotto e vi
infilò le braccia, stringendolo in vita e appoggiando la
testa al suo petto, reso ancor più caldo dagli strati di
indumenti, mentre con una gamba diede un piccolo calcio alla porta per
richiuderla.
Bill ricambiò l’abbraccio senza sforzo alcuno,
desideroso di poterla avere di nuovo accanto. Solo dopo qualche minuto,
Lea alzò il viso, sfilò gli occhiali dal viso di
Bill e la cuffia e lo baciò, ma questa volta con trasporto,
consci di essere soli in quella stanza, lontano da qualsiasi sguardo
indiscreto.
Baciandolo, pensava a quello che si era promessa pochi giorni prima, al
fatto che non avrebbe più aspettato di essere soli per
fargli una carezza o per dargli un bacio, ma in
quell’aeroporto affollato non era riuscita a lasciarsi andare
come stava facendo ora.
Staccandosi da lei, quel tanto che bastava per riuscire a parlare, Bill
disse: “Hai visto, è andato tutto bene. Nessuno ci
ha inseguiti ”
“La fortuna del principiante” ridacchiò
Lea “Sbaglio o, da quando sei diventato famoso, è
la prima volta che ti muovi da solo?”
“Non sbagli. E’ il primo lungo viaggio che faccio,
completamente da solo. Solitamente sono con i ragazzi, con Tom o con le
guardie del corpo. In aereo ho tenuto gli occhiali da sole e la sciarpa
per tutto il viaggio, una hostess mi ha perfino chiesto se avessi
freddo” ridacchiò “Stavo crepando di
caldo, altro che freddo! Ho finto di essere un po’
influenzato e spero l’abbia bevuta. E guarda”
sciogliendo l’abbraccio le mostrò le mani
“non ho nemmeno lo smalto nero, solo una passata di
indurente, per non dare troppo nell’occhio”
“Oh, com’è scrupoloso il mio cantante
preferito” trillò Lea, con tono volutamente
mellifluo.
“Non ho lasciato nulla al caso, mi sono preparato a
dovere”.
Bill si sedette sul letto e Lea gli si accoccolò sulle gambe.
“Sarai stanco, perché non ti fai una doccia e poi
dormi? Ti farà bene” con un dito gli
carezzò il naso.
“Un attimo…” rispose lui, accarezzandole
una guancia e baciandola di nuovo, per farla poi sdraiare sul letto e
posizionarsi sopra di lei, facendo aderire alla perfezione i loro
bacini.
La doccia, Bill la fece solo un’ora e mezza dopo, mentre Lea
si rotolava fra le lenzuola, i capelli scomposti, il viso ancora
arrossato e gli occhi che non si staccavano dalla sua figura esile.
“Sei la cosa più bella che abbia mai
visto” mormorò la ragazza, mentre Bill varcava la
soglia del bagno. Di rimando, il ragazzo le sorrise, vagamente
imbarazzato.
Prima di entrare nel box doccia, udì Lea ridere. Si sporse
dalla porta e le chiese: “Che c’è da
ridere?”
“Sto diventando più stucchevole di un romanzo
rosa!” ridacchiò Lea, passandosi una mano fra i
capelli “Colpa tua, disgraziato!”
“Un’altra cosa della tua vita che ho contribuito a
modificare?” chiese il cantante.
“Già… l’ennesima!”
Sorridendole, tornò alla doccia calda e vi si
posizionò sotto, felice di essere da lei, con
lei. Di essere lì per lei.
**
Bill uscì dal bagno in accappatoio, i capelli umidi sciolti
sulle spalle, gli occhi arrossati per essere stato troppo tempo sotto
al getto caldo e il profumo del deodorante che lo precedeva.
Lea era ancora sdraiata sul letto, ma si era parzialmente rivestita,
restando in jeans e canottiera.
“Fa un caldo pazzesco,qui dentro. Forse dovresti abbassare la
temperatura” suggerì la ragazza
“Altrimenti stanotte dovrai dormire nudo!”
“Non dormi con me?” chiese Bill, sedendosi accanto
a lei e strofinandosi i capelli con l’asciugamano.
“N-non so…” balbettò Lea.
Quanto romanticismo, quanta voglia di tenerezza, quante sensazioni
totalmente nuove la assalivano quando lui era nei paraggi.
Se non ce l’aveva di fronte, riusciva ad essere razionale e
fredda al punto giusto, ma quando lui le era accanto… tutto
si tingeva di rosa, gli uccellini cinguettavano e le pareva che i suoi
occhi assumessero la forma di due cuori pulsanti.
“Non sei costretta, se non te la senti di lasciare sola tua
sorella” sussurrò Bill, guardandola.
Non si trattava di Marie. Avrebbe potuto farle compagnia fino
all’ora di andare a letto e poi raggiungerlo in albergo. Si
trattava di lei, della sua ritrosia a mostrare il suo lato
più dolce. Ma quanto tempo avrebbe potuto passare
così? Per quante volte ancora avrebbe dovuto nascondere la
voglia che aveva di carezzarlo, di stringerlo, di essergli vicina?
“A proposito di Marie” Lea cambiò
discorso “Vorrei tanto fartela conoscere”
Bill strabuzzò gli occhi e sorrise. Non si aspettava di
incontrare la sorella di Lea così presto, quella visita
assumeva un tono formale per chi conosceva Lea quanto lui.
Lui che sapeva della sua esistenza da meno di un anno eppure conosceva
ogni singolo dettaglio della sua vita, anche quelli di cui lei non
parlava. Perché per lui, Lea era un libro stampato.
E Marie, per la ragazza, era forse più importante della
madre: Bill sapeva che il giudizio di Marie sarebbe stato fondamentale,
che le due sorelle vivevano in simbiosi e questo lo fece vacillare.
“Vorresti presentarmi tua sorella?” chiese, con un
filo di voce.
“Sì. E’ importante per me” poi
si morse la lingua. Anche per Bill era importante averla accanto, ma
lei sembrava sempre sfuggirgli. Ora, con che coraggio poteva pretendere
che lui esaudisse la sua richiesta?
“Va bene” annuì il ragazzo “Mi
vesto e possiamo andare”
**
Dopo un’ora, la coppia raggiunse la casa di Lea.
Bill aveva passato mezz’ora, assorto davanti allo specchio, a
domandarsi come avrebbe dovuto acconciare i capelli, se fosse stato il
caso di truccarsi o se fosse stato meglio lasciare il suo viso
immacolato ma Lea, piombandogli alle spalle, gli aveva sussurrato:
“Con o senza trucco, Marie guarderà i tuoi occhi.
E quelli parlano da soli” per poi posargli un bacio sulla
spalla nuda, alzandosi in punta di piedi “Non preoccuparti
dei dettagli, sono certa che la conquisterai!”
Bill aveva sorriso, rassicurato, e si era truccato come al solito,
kajal e rimmel neri, lasciando però i capelli lisci.
Ora, davanti alla casa di Lea, si sentiva in pace con sé
stesso: lui era così ed era esattamente dove doveva essere.
Lea aprì la porta piano, chiamando Marie.
Poco dopo, da una porta, Bill vide sbucare il viso di Lea, o almeno
quello che sarebbe stato il suo viso di lì a dieci anni.
Una ragazza non molto alta, stessi occhi chiari, stessi capelli scuri,
stesso sorriso magnetico.
“Ciao Marie, siamo arrivati! Lui è Bill”
balbettò Lea, visibilmente imbarazzata ma felice di trovarsi
al cospetto di sua sorella.
“Ciao!” trillò Marie, allungando una
mano verso il ragazzo “Piacere di conoscerti! Era ora che Lea
decidesse di farci incontrare!” proseguì, in un
tedesco perfetto “Venite, andiamo in salotto” e
scortò i ragazzi fino al divano.
“Il piacere è mio” mormorò
Bill, di rimando “Tu e Lea vi somigliate in maniera
incredibile”
Le due ragazze si guardarono e scoppiarono a ridere.
“Dici?” chiese Marie, sedendosi “A noi
non sembra!”
“Siete identiche! Sembrate quasi gemelle, è
pazzesca la somiglianza”
“Ogni tanto ce lo dicono, ma noi continuiamo a non vedere
somiglianza alcuna” aggiunse Lea.
“Io lo ritengo un complimento, comunque!”
precisò Marie “Lea è
magnifica”
Lea arrossì, mentre Bill annuiva e si voltava a guardarla.
“Hai sete? Ti va una birra?”
“No, no grazie. Sono a posto”
“Sicuro? Se vuoi ho anche della Coca. Mio figlio va matto per
la Coca, devo nasconderla altrimenti ne beve litri al
giorno!” sorrise Marie.
“Lea mi ha parlato tanto di lui” spiegò
Bill.
“Davvero?” chiese Marie “Lea, in
realtà, è molto più tenera di quel che
sembra!”
“Me ne sono accorto” ridacchiò Bill,
voltandosi di nuovo verso Lea e cercando i suoi occhi.
“Dobbiamo per forza parlare di me?” chiese Lea,
fingendosi indispettita “Che so, non possiamo disquisire sul
tempo?”
“Lo sai che adoro vederti arrossire!” rise Marie,
lanciandole un cuscino del divano e poi continuò,
rivolgendosi a Bill “Sei qui solo?”
“Sì, ho preferito lasciare a casa mio fratello.
Lui ha i suoi orari, le sue cose da fare, i suoi club da visitare la
sera” ridacchiò, mentre un sorriso gli affiorava
sul viso, pensando a Tom “E sicuramente, ha anche le sue
donne!”
“Diciamo che è uno che si gode la vita,
giusto?”
“Esattamente! Credo di non conoscere nessuno che se la goda
più di lui!”
“E tu, invece? A vederti, sembri molto più calmo
di come mi descrivi il tuo gemello”
“In effetti, nonostante siamo molto simili, abbiamo opinioni
divergenti circa alcune cose. Io sono molto più pigro e
sognatore, Tom invece è più pragmatico.
Però, ci completiamo alla perfezione e sulle cose
importanti, la pensiamo allo stesso modo”
“Tipo?” volle sapere Marie, mentre sfilava una
sigaretta dal pacchetto e l’accendeva.
“La famiglia e gli amici, ad esempio”
spiegò Bill “Da quando abbiamo raggiunto il
successo, abbiamo deciso di proteggerli in qualsiasi modo. Cerchiamo di
non parlare mai di loro, di tenerli fuori dalla frenesia del nostro
mondo e di ritagliarci spazi privati nei quali poter trascorrere del
tempo insieme”
“Credo sia molto saggio, da parte vostra”
commentò Marie “E’ importante proteggere
le persone alle quali si vuole bene”
“Sì, è la nostra priorità. E
poi ci siamo imposti di restare con i piedi per terra il più
possibile, per non perdere di vista la vita vera”
“E’ difficile?” Marie era seriamente
interessata a quel discorso, Lea lo capiva dal modo in cui scrutava
Bill e dall’arricciarsi delle sue labbra. E, anche lei, si
stava lasciando conquistare da quel ragazzo esile che le sedeva accanto.
“Certe volte, sì. Soldi, successo, la gente che ti
idolatra… delle volte, pensi che la vita sia tutto
lì, che nient’altro importi veramente”
“Ti è capitato?”
“Sì, lo ammetto. Una volta, ho speso
più di mille euro in due ore, in un negozio di New York. I
soldi sono così: più ne hai più ne
vorresti e spesso ti circondi di tanta roba inutile, solo per il gusto
di poterla comprare”
“Credo sia normale, del resto. Siete diventati famosi in
giovane età”
“Esatto, ma quel periodo è durato poco, adesso
sono sempre la stessa persona, forse solo un po’
più viziato” ridacchiò.
“Non sei viziato” disse Lea, parlando per la prima
volta dopo il lungo scambio di pareri fra Bill e Marie “Tu
sei una prima donna!” e poi scoppiò a ridere,
buttando la testa all’indietro e facendo scrollare i capelli.
Anche Marie si unì alla risata.
“Anche Georg lo dice sempre! Veramente, lo dicono anche
Gustav e Tom” Bill ci pensò su un attimo e poi
aggiunse “Sì, forse sono una prima
donna!”
“Lo sei, lo sei! Ma va bene lo stesso” il sorriso
di Lea si addolcì, mentre lo osservava.
Lui era una primadonna. La SUA primadonna.
**
Come vi pare?
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Il pomeriggio, passato a chiacchierare, scorse velocemente e si fecero
quasi le quattro e mezza, ora in cui Marie andava a recuperare Philip
all’asilo.
“Ragazzi” esordì alzandosi
“Vado a prendere Philip. Dieci minuti, traffico permettendo,
e sono di ritorno. Aspettate qui? Possiamo cenare insieme”
Lea scrutò la sorella, imbarazzata, poi spostò
gli occhi verso Bill che aspettava, a sua volta, una sua risposta:
“Ma no, cioè, Bill sarà
stanco…”
“Lea sto benissimo, possiamo fermarci se ti va”
“Sì, cioè, no. Voglio
dire…” guardò di nuovo la sorella che
le lanciò un’occhiataccia e si arrese
“Va bene”
“Perfetto! Ah Lea, vieni un secondo con me che ti devo
mostrare una cosa” guardò Bill e aggiunse
“Arriviamo subito”
Marie afferrò la sorella per un braccio, la
obbligò ad alzarsi e la trascinò in cucina.
Chiuse la porta e la squadrò in cagnesco: “Sei
impazzita, vero?”
“Scusa?” chiese Lea, stupita.
“L’ho capito, sai, che non volevi fermarti! Che
cavolo ti prende? L’hai messo in imbarazzo!”
“Non è che non volessi…”
Marie la interruppe bruscamente: “Perché non lasci
che le cose seguano il suo corso? Che cosa ti preoccupa? Lea, temi il
mio giudizio? Guarda che trovo che Bill sia adorabile! E’ un
ragazzo così carino, spontaneo, educato. Se era questo che
temevi, sappi che hai la mia totale approvazione”
“Non ho paura di quel che pensi” Lea
sospirò “E’ solo che stiamo correndo
troppo, me lo sento. Adesso conoscerà anche
Philip…”
“E quindi?”
“E’ come se avessi presentato Bill ai miei
genitori. Tu e Philip siete tutta la mia vita, mi sento così
strana”
“Io adoro Bill e sono certa che il tuo ragazzo
farà breccia anche nel cuore di Phil”
“Il mio cosa?” chiese Lea, diventando rossa come un
pomodoro.
“Il tuo ragazzo” ripeté Marie
“Cosa dovrei dire, il tuo amico?”
“Lascia perdere… vai a prendere Phil, io torno di
là” e si incamminò verso il salotto,
dove Bill la stava aspettando, pensieroso.
**
“C’è qualcosa che non va?”
Lea non aveva ancora fatto in tempo a sedersi quando il ragazzo le
porse quella domanda, guardandola dritta negli occhi, senza sorridere.
“N-nulla. Marie mi doveva mostrare una cosa
e…”
“Non sei capace di dire bugie” la ammonì
Bill “Ho detto qualcosa di sbagliato? Non piaccio a tua
sorella, vero?”
“Tutt’altro. Ti adora”
“Allora che c’è?”
“Niente, Bill. Va tutto bene” mentì, di
nuovo.
“Non volevi fermarti a cena, o sbaglio? Non volevi nemmeno
presentarmi tua sorella, l’hai detto solo per cambiare
discorso, quando eravamo in hotel” constatò,
spostando lo sguardo da Lea al pavimento.
“Non è come credi” mormorò
Lea.
“Non credo nulla, a dire il vero. Ma mi sono accorto che non
sei la stessa se c’è qualcun altro con
noi”
Lea prese a giocare con un anello, imbarazzata, guardando il pavimento
e torturandosi il labbro inferiore con i denti. Poteva parlare per ore,
cercare di intortarlo con mille parole, ma la verità era che
non c’era nulla di dire.
Anche lei si accorgeva di non essere la stessa se intorno a loro
c’erano altre persone, inutile negarlo.
“Devo prenderlo come un sì?” chiese
Bill, dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio.
“Non so cosa dirti. Sento che qualsiasi cosa direi, la
prenderesti male” ammise la ragazza.
“Quindi non devi dirmi nulla di piacevole, perché
se ti limitassi a rispondere , non la
prenderei male”
“Senti, tra poco mia sorella sarà di ritorno con
Philip e non voglio che ci trovi con la faccia scura. Possiamo
riparlarne più tardi?”
Il rumore di una macchina in procinto di frenare, li interruppe.
“Meglio” rispose Bill. Pochi minuti dopo, la porta
si aprì e un frugoletto con i capelli liscissimi fece il suo
ingresso in salotto. Si avvicinò a Lea, le diede un bacio
sulla guancia e prese a scrutare Bill.
“Ciao” trillò, sorridendo. Bill
ricambiò il saluto, ridendo a sua volta.
“Phil, questo è Bill” esordì
Marie, entrando in salotto “Non parla la nostra lingua,
quindi se vuoi dirgli qualcosa, chiedi prima a me o alla zia”
“Che lingua parla?” chiese Phil, incuriosito.
Bill li osservava senza capire, così Marie tradusse
l’intera conversazione in tedesco.
“Parla tedesco” disse poi, tornando
all’italiano “E’ un amico della
zia”
“E’ suo marito?” chiese Philip, guardando
prima Lea e poi Bill.
“No” rispose ridendo, Marie “Sono
amici”
“Io mi chiamo Philip” disse allora il bambino,
sedendosi accanto a Bill e tendendogli la mano, educatamente, come
fosse un piccolo damerino “Cos’hai
sull’occhio, posso toccare?”
“Philip!” lo riprese Marie, tornando poi a tradurre
il tutto a Bill che stava dando la mano al bambino.
“Trucco. Da grande, potrai metterlo anche tu” disse
il ragazzo, sghignazzando.
“Vedremo!” rise Marie, spiegando a Phil la risposta
di Bill.
“Ma no, non quello! Io parlavo di quella cosa lì,
di ferro” e indicò il piercing che il ragazzo
aveva sul sopracciglio.
“Quello è un sopracciglio, Phil, non un occhio!
Comunque è un piercing” e di nuovo tradusse a Bill
la richiesta del bambino.
“Ah questo?” Bill si toccò il
sopracciglio “Sì, un piercing. Guarda, ce
l’ho anche qui” e tirò fuori la lingua,
facendo ridere il piccolo.
“Come fai a parlare con quel chiodo in bocca?”
“Non lo sento nemmeno” rispose il ragazzo, dopo
aver ascoltato la traduzione.
“Ah ecco. Lo voglio anche io! Mamma, posso mettermi anche io
quel chiodo come lui?”
“Sei ancora troppo piccolo! Magari fra una decina di anni!
Adesso vai a cambiarti e a lavarti le mani. Stasera ti va la
pizza?”
“Sì!” esultò il piccolo,
correndo verso la sua camera. Dopo qualche secondo, però,
fece retromarcia e disse: “Mamma, chiedigli se resta a
cena!”
**
Mentre Marie si occupava delle pulizie domestiche, che in quei giorni
aveva decisamente trascurato, Lea condusse Bill nella sua stanza.
I muri erano dipinti di viola scuro e alla finestra svolazzavano delle
leggere tendine di un viola leggermente più chiaro.
Alle pareti qualche poster e tante foto posizionate a mo’ di
collage. Ma la parete che catturò l’attenzione di
Bill, era quella contro la quale poggiava il letto: tantissime frasi
tratte da romanzi, canzoni, film, poesie vergate con quello che a Bill
parve un pennino nero. Per leggerle era necessario avvicinarsi, tanto
fine era la calligrafia.
“Hai scritto sul muro?” chiese, avvicinandosi e
toccando le scritte.
“Sì” mormorò Lea
“Insolito forse, ma mi piace”
“E’ bellissimo. Mi piace la tua stanza”
“Ho scelto tutto io, dal colore delle pareti al
più piccolo accessorio. E’ l’unica parte
della casa che sento davvero mia, anche perché ho preteso di
contribuire alle spese di arredamento”
Bill si sedette sul letto di Lea, rivestito da un piumone della
medesima tinta della pareti.
“E’ tutto così…
viola!”
“I mobili sono neri” puntualizzò Lea,
lasciandosi andare ad un mezzo sorriso. Era inutile, non poteva
fingere, un discorso pesante come un macigno li separava.
Così aggiunse: “Non siamo qui per parlare della
mia stanza, giusto?”
“Giusto” Bill annuì “Ma sei tu
quella che mi deve una risposta”
“Farti conoscere Marie e Philip ha significato molto per me.
Ma non sono sicura di aver fatto la scelta giusta” Notando
l’espressione corrucciata di Bill, si affrettò a
precisare “Non parlo di quello che provo per te. Parlo del
tempo. E’ troppo presto”
“Mi hai chiesto di raggiungerti a Roma, pensavo avessi
finalmente messo da parte tutti questi pensieri”
“Facile dirlo. Non sono i sentimenti a vacillare, io so cosa
provo per te. Solo che tutta questa
formalità…”
“Lea, non c’è nessuna
formalità. Ho solo conosciuto tua sorella e tuo
nipote”
“La mia famiglia, per l’appunto”
“Anche tu hai conosciuto Tom” Bill
allungò una mano e afferrò quella di Lea che
stava in piedi di fronte a lui, tirandola verso di sé e
obbligandola a sedersi al suo fianco “La mia
famiglia”
Lea lo guardò negli occhi, ma solo per qualche secondo. Non
riusciva a reggere alla vista di quelle perle luccicanti.
“Non ci dobbiamo sposare, Lea” rise Bill
“Vorrei solo che ti godessi le gioie di un rapporto a due,
senza pensare troppo” Lea gli si avvicinò e gli
posò la testa sulla spalla.
“Hai una pazienza infinita, lo sai?” disse poi,
ridacchiando.
“Solo con te…”
“Ti sto facendo dannare, vero?” alzò il
viso e incontrò di nuovo i suoi occhi. Bill le
posò un bacio leggero sulle labbra e rispose “A
volte” lasciandosi poi andare in un sorriso.
“Tuo fratello mi detesta. All’aeroporto, quando
l’ho salutato, mi ha fulminata con lo sguardo”
aggiunse Lea.
Bill respirò a fondo e decise di raccontare a Lea della
discussione avuta con Tom il giorno prima.
“Lo sapevo. Del resto, anche io avrei pensato la stessa cosa,
fossi stata al posto suo”
“Non avercela con lui, vuole solo proteggermi”
“Tipico dei fratelli maggiori, giusto?”
“Maggiori!” si schernì Bill
“Per dieci minuti!”
**
Il telefono di casa squillò proprio mentre Marie stava
tentando di sollevare il divano, nella vana speranza di riuscire a
levare almeno un po’ di polvere. Lì sotto,
probabilmente, non ci sarebbe mai andato nessuno, a meno che un serial
killer non fosse piombato in casa e sarebbero stati costretti a
nascondersi tutti sotto al sofà, nella speranza di sfuggire
alla sua furia omicida.
Eppure, nonostante quella fosse una possibilità remota,
presa dalle pulizie aveva tirato a lucido l’intero salotto.
Spense l’aspirapolvere e si affrettò a rispondere.
“Marie, sono mamma” Marie non rispose “So
che sei arrabbiata, ma papà vorrebbe vedere Philip. Pensavo
che potessimo passare a prenderlo e portarlo in pizzeria”
“Non se ne parla” rispose Marie, il cuore che le
rimbalzava in petto.
“Solo un paio d’ore. Non sei costretta a vedere tuo
padre, vengo io a prendere il bambino. Ti prego, lascia fuori Philip da
tutta questa storia”
“Appunto, lo sto lasciando fuori”
“E’ suo nonno, ha diritto di vederlo”
“Ho detto di no. La madre sono io e decido io per
lui”
“Solo un paio d’ore, te lo prometto”
Philip piombò in salotto proprio in quel momento,
guardò la madre perplesso e domandò chi fosse al
telefono.
“La nonna, torna in camera a giocare Phil”
“Passamela!” trillò il bambino.
“Ho detto di tornare in camera!” urlò
Marie, più di quanto avrebbe voluto.
“Ma mamma…” piagnucolò il
bambino.
“Marie, passamelo. Non farlo piangere, ragiona” la
supplicò sua madre, al telefono.
Marie passò la cornetta a Philip, imprecando sottovoce. Lo
sapeva, quella storia non sarebbe mai finita.
“Ciao nonna!”
“Ciao piccolo! Senti, questa sera hai voglia di cenare con
me?”
“Certo!”
“Chiedi il permesso alla mamma, però”
Phil si voltò verso la madre e le formulò la
domanda. Marie lo sapeva, sapeva che sua madre si sarebbe servita del
bambino per raggiungere il suo scopo e, reprimendo la voglia di urlare,
acconsentì. Una cena, era solo una cena.
**
Lea e Bill tornarono in salotto quando mancavano pochi minuti alle
sette. Philip era vestito di tutto punto e sedeva sul divano, impettito
come un vero ometto.
“Come siamo eleganti” disse Lea, facendogli una
carezza.
“Esco con la nonna!” trillò il bambino
“Mi porta in pizzeria!”
Lea sgranò gli occhi e cercò quelli di Marie, che
stava in piedi con gli occhi fissi verso il corridoio che conduceva
alla porta di ingresso. Fece un cenno alla sorella e Lea
capì che appena Phil fosse uscito, le avrebbe spiegato tutto.
Un colpo di clacson segnalò l’arrivo di Marta.
Marie accompagnò Phil all’ingresso, gli fece
qualche raccomandazione e tornò in salotto, accasciandosi
sul divano.
Spiegò a Lea la situazione, in italiano, senza badare a Bill
e al termine del monologo, si scusò con il ragazzo
velocemente e sparì in cucina.
“Forse è meglio se torno in albergo”
mormorò il ragazzo.
“Benvenuto nel mio mondo” rispose Lea, sconsolata
“Era questo tutto quello dal quale volevo tenerti
lontano”
“Non sono dispiaciuto per me, sono dispiaciuto per te,
Lea”
“Resta qui, tanto dobbiamo comunque cenare. Poi prendo la mia
roba e vengo con te in hotel”
Bill sorrise leggermente, per non farle capire quanto fosse felice
della decisione che aveva appena preso. Esultare in quel momento, gli
parve fuori luogo, così annuì piano e le strinse
una mano.
**
La cena si svolse velocemente, Marie disse poche parole, controvoglia e
scusandosi più volte per il suo ostinato mutismo.
Sbocconcellò appena la pizza, avanzandola quasi tutta e si
alzò per preparare il caffè quando Bill e Lea
terminarono di cenare.
I due ragazzi si scambiarono qualche parola, parlarono più
che altro dei viaggi di Bill, cercando di dirottare gli argomenti verso
qualcosa di neutrale.
Dopo aver bevuto il caffè, Lea comunicò a Marie
la sua decisione: “Se non ti spiace, stasera dormo con
lui” mormorò, arrossendo e toccando la spalla di
Bill con una mano.
Marie sorrise appena e annuì con il capo “Nessun
problema, prendi la mia borsa da viaggio per infilare le tue cose,
è più comoda del tuo trolley”
Lea si alzò da tavola, fece cenno a Bill di seguirla e
insieme raggiunsero la camera. In silenzio, la ragazza aprì
l’anta dell’armadio e vi estrasse una borsa nera,
che apparteneva alla sorella, ci infilò distrattamente il
pigiama, degli abiti di ricambio e dopo un veloce raid in bagno,
aggiunse anche lo spazzolino, il dentifricio e un paio di asciugamani.
“Credo di non aver scordato nulla, possiamo andare”
si infilò il cappotto, arrotolò la sciarpa al
collo e prese la borsa.
Marie era ancora in cucina, fumava una sigaretta e sfogliava un
giornale. Lea la salutò con un bacio e la sorella si
alzò, abbracciò Bill e mormorò qualche
parola di scusa per la sua scarsa loquacità. Il ragazzo
rispose calorosamente all’abbracciò, le
ribadì di non preoccuparsi ed uscì di casa con
Lea.
“Andiamo a piedi, senza prendere taxi?” chiese
Bill, appena Lea chiuse la porta.
“Sicuro? Fa molto freddo”
“Avevo voglia di fare due passi, l’hotel non
è molto distante e credo che a quest’ora non ci
sia molta gente per strada”
Lea acconsentì e la coppia si avviò a piedi. Lea
teneva le mani in tasca e la testa abbassata, come se stesse contando i
propri passi. Bill le si avvicinò e intrufolò una
mano nella tasca del giubbotto di Lea, che alzò la testa e
gli sorrise, estraendo poi la mano dalla tasca e stringendo forte
quella del ragazzo.
“Stai bene?” chiese Bill, dopo pochi secondi.
“Fisicamente o moralmente?” rispose Lea, in un
sogghigno.
“In generale” ridacchiò Bill.
“In generale sto così così. Il punto
è che sono seriamente preoccupata per Marie, era riuscita a
gettarsi tutto alle spalle, ma ora…” Lea non
terminò la frase, un groppo in gola le incrinò le
parole. Bill le accarezzò il dorso della mano che stringeva
nella sua, con il pollice.
“Tua sorella mi sembra forte, sono sicuro che
riuscirà a superare anche questo”
“Adesso c’è di mezzo Philip. Se nostro
pad… cioè, se Edward” si corresse
“dovesse fare qualche sciocchezza o cercare di portare il
bambino in Inghilterra, ne morirebbe”
“Non potrà portarlo via, non è suo
padre. Credo non ci siano gli estremi legali per farlo”
A sentir parlare di estremi legali, a Lea si accapponò la
pelle. Per ora non c’erano rischi ma se Marie fosse di nuovo
sprofondata nell’incubo dell’alcol e delle
conquiste azzardate, i suoi genitori avrebbero anche potuto inoltrare
richiesta ad un giudice al fine di tenere Philip lontano da tutto
questo. Scrollò la testa per scacciare quel brutto pensiero
e si strinse ancora di più a Bill.
Raggiunsero l’hotel poco dopo, entrarono senza tenersi per
mano onde evitare rischi ma Lea si calmò subito quando
notò che la hall era deserta.
Chiesero la chiave della stanza al receptionist e salirono in camera,
attraversando un lungo corridoio illuminato solo da piccole luci
soffuse.
“Bill” il ragazzo stavo chiudendo la porta della
stanza a chiave ma si voltò subito quando sentì
Lea chiamarlo.
“Che c’è?” la ragazza era
impalata al centro della camera, la borsa ancora in mano.
“Cosa… no niente” si passò
una mano sulla fronte e rise.
“Che succede?” domandò, perplesso.
Lea poggiò la borsa a terra, si tolse cappotto e sciarpa
posandoli sul letto e lo squadrò: “Non so cosa
fare”
Bill aggrottò la fronte, il suo sopracciglio destro si
arcuò e si posò le mani sui fianchi:
“In che senso?”
“No, è che… la prima volta che abbiamo
dormito insieme è successo per logica conseguenza”
Bill ricordò quella notte. Avevano fatto l’amore e
si erano addormentati insieme, come capitava alla maggior parte delle
coppie di sua conoscenza.
“Quindi?” la incalzò.
“Eh, quindi… era una situazione diversa. Adesso
sono leggermente impacciata. Cosa si fa in questi casi?”
sentendosi stupida come mai si era sentita in vita sua,
intrecciò le mani e prese a torturarsi il labbro inferiore
con i denti.
Per tutta risposta, Bill scoppiò a ridere e le si
avvicinò, cingendole la vita con le braccia: “Sei
preoccupata per questo?” le sussurrò, a fior di
labbra.
“Preoccupata non è il termine esatto, sono
imbarazzata e conscia di aver appena fatto una figura
tremenda”
Bill rise di nuovo e le posò un bacio gentile sulle labbra:
“Non hai fatto nessuna figura, anche se devo ammettere che
è la prima volta che mi trovo in una situazione simile.
Nessuna ragazza mi aveva mai chiesto cosa fare, una volta entrata nella
mia stanza”
Lea socchiuse gli occhi, che divennero quasi due fessure e lo
squadrò torva: “Quante ragazze, per la
precisione?”
“Un paio, nulla in confronto alle gesta storiche di mio
fratello e di Georg” rispose, ridendo.
“Tuo fratello può portarsi a letto chi gli pare,
per quanto mi riguarda. Ma tu… azzardati a far entrare una
donna in camera quando io non sono con te e ti assicuro che potrai dire
addio ai tuoi testicoli” sibilò Lea, con
espressione volutamente truce.
“Sto scherzando, Lea! Lo preciso perché, sai,
tengo in modo particolare alle mie palle” rispose il ragazzo,
ridacchiando per poi baciarla con passione e sospingerla verso il letto.
Da quel momento in poi, per Lea non si pose più la questione
di cosa fare o di come muoversi, perché come la prima volta,
si addormentarono esausti solo dopo essersi abbandonati l’uno
all’altra.
**
Grazie, come sempre, a tutti coloro che leggono e in particolar modo ad
Alien che commenta sempre! *_*
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Stropicciandosi gli occhi, Lea girò lentamente la testa
verso il comodino e lanciò un’occhiata alla
sveglia che segnava le 10.00.
Voltò nuovamente la testa verso Bill o meglio, verso la sua
schiena e chiuse gli occhi. Nelle narici sentiva il suo profumo e
sorrise fra sé e sé pensando che quello fosse un
ottimo risveglio. Cercò di riprendere sonno, ma il suo
orologio interno aveva deciso che la giornata doveva iniziare,
così poggiandosi sui gomiti, si issò muovendo le
coperte e scoprendo le spalle di Bill.
Con delicatezza le risistemò e scese dal letto. Fece una
rapida doccia, si vestì e si asciugò i capelli ma
nonostante cercasse di non fare rumore, temette di averlo svegliato.
Quando uscì dal bagno, scoprì che il ragazzo
dormiva come un sasso, nella stessa posizione e questo la fece
sorridere di nuovo.
Si sedette di nuovo sul letto e allungò le gambe. Le piaceva
guardarlo dormire, le infondeva un piacevole senso di
tranquillità: il respiro ritmico, le spalle rilassate, i
capelli sciolti, la bocca distesa in un sorriso beato. Tutto questo la
calmava, proiettandola però in quel mondo del quale lei
conosceva ben poco, il mondo degli occhi a forma di cuore e delle
farfalle che svolazzano nello stomaco.
Perché Bill, nonostante ormai la situazione si fosse
sbloccata, la faceva ancora arrossire, la faceva sentire una liceale
alla prima cotta.
Il ragazzo si girò e quel movimento la fece sussultare. Ogni
volta che pensava a lui, perdeva la cognizione del tempo e dello spazio.
Bill emise un prolungato sbadiglio e aprì gli occhi. La
prima cosa che vide, furono le iridi azzurre di Lea.
“Buongiorno” sorrise.
“Buongiorno a te” rispose la ragazza, chinandosi e
posandogli prima un bacio sulla spalla nuda e poi sulle labbra
“Dormito bene?”
“Benissimo. Da quanto sei sveglia?”
“Meno di un’ora, nel frattempo mi sono fatta la
doccia, non hai sentito nulla?”
“Assolutamente nulla, mi sono svegliato solo adesso”
“Quanto resti?” chiese poi la ragazza, spostandogli
una ciocca di capelli che gli copriva un occhio.
“Vuoi già mandarmi via?”
“Che idiota!” rise Lea “No che non ti
voglio mandare via! Ho solo chiesto se ti fermi anche oggi”
“Sì, il piano prevedeva un paio di giorni, poi
dovrei rincasare per Natale, sai
com’è…”
“Certo, la tua famiglia ti starà aspettando
immagino”
“Mia madre e Gordon ci aspettano per il pranzo, è
tradizione ormai. La vediamo così poco che cerchiamo di
passare con lei almeno il Natale”
“Ti manca?” chiese Lea, sdraiandosi accanto a lui e
posando la testa sulla sua spalla.
“Parecchio. Fortunatamente esistono i cellulari, ci sentiamo
spesso. Ogni volta mi chiede se ho mangiato abbastanza e se Tom si
comporta bene!” ridacchiò il ragazzo, la voce
incrinata da un leggero velo di malinconia.
“Avete un bel rapporto con vostra madre, vero?”
“Sì, sì, abbiamo sempre avuto un buon
rapporto con lei. Non è mai stata la classica madre che
vuole fare l’amica o che pretende di sapere tutto di noi.
E’ sempre stata una mamma, una di quelle che ti porta il
latte caldo a letto prima di addormentarti o che resta con te se hai
paura del buio”
“Avevi paura del buio?” Lea si alzò e lo
guardò negli occhi.
“No, era un esempio. Il buio non mi ha mai spaventato
granché. Però mi portava il latte caldo quando
ero piccolo”
Lea sorrise, quell’immagine risvegliò in lei una
tenerezza sopita e si immaginò un piccolo Bill che, stretto
nel pigiamino, sorseggiava del latte fumante da una tazza, sporcandosi
le labbra e creandosi due baffetti bianchi.
“Perché ridi?”
“Nulla, mi sono immaginata la scena. Faccio fatica a
immaginarti bambino”
“Eppure, lo sono stato”
“Già, ma sei anche cresciuto in fretta”
“Come te” rispose il ragazzo, alzandosi a sua volta
e cingendole la vita con un braccio.
“Abbiamo in comune una breve infanzia”
mormorò Lea, lasciandosi stringere.
“Ehi, cos’è questa tristezza?”
“Sono solo pensieri, nulla di allarmante. Se mai dovessi
avere dei figli, spero di non commettere gli stessi errori dei miei
genitori”
“Tua madre non ha commesso errori quando eri piccola,
però. Mi hai detto che si è fatta in quattro per
voi”
“Sì, lei sì. Ma
Edward…” Lea scosse la testa “Basta, non
parliamo di queste cose, non voglio rovinarmi la giornata. Facciamo
colazione, dai”
**
Dopo una lauta colazione consumata in hotel, Bill propose a Lea una
passeggiata. Desiderava perdersi per le strade romane, visitare tutti i
negozi che le vie del centro gli offrivano e godersi una giornata di
puro relax, dimentico di tutto.
“Sei impazzito, per caso?” lo apostrofò
Lea, quando Bill espose la sua teoria. Il ragazzo la guardò,
attonito, chiedendosi in cosa avesse sbagliato.
“In giro per Roma, di giorno?!”
“Sì, perché?”
“Bill, forse non ti rendi conto. Non ci sono le tue guardie
del corpo a difenderti e io non voglio finire su qualche rivista di
gossip”
Il ragazzo corrucciò la fronte, sfilò una
sigaretta dal pacchetto e si appoggiò al davanzale
dell’ampia finestra aperta, che dava sui tetti della
città.
“Chissà se arriverà mai il giorno in cui ti
deciderai a mostrarti in pubblico, con me”
borbottò, aspirando del fumo avidamente.
“Se succederà, sarà in un altro modo.
Non così, non adesso”
“In un altro modo? E come? Devo rilasciare una conferenza
stampa per annunciare al mondo che mi sono innamorato?” nel
dirlo si voltò a guardarla, gli occhi a fessura, le labbra
contratte.
“Non ho mai pensato a questo”
“E quindi?”
“Una foto scattata per caso da un paparazzo che ci becca
mentre passeggiamo, ad esempio” poi, al termine della frase,
si morsicò la lingua. Era esattamente la stessa identica
cosa che suggeriva Bill. Cercando di rimediare al danno,
balbettò: “In Germania, però”
Bill si lasciò sfuggire una risata amara, quasi di scherno.
“In Germania? E cosa cambierebbe?”
“Senti, non lo so, va bene!?” sbottò
Lea, tesa e sul punto di urlare “Non so cosa cambierebbe, ma
so che non voglio che ci vedano insieme”
“Come dovrei interpretare le tue parole, secondo
te?” mormorò il ragazzo, espirando del fumo.
“In nessun modo. Guarda che lo faccio per te!”
Bill rise. Una risata che a Lea lacerò il cuore: era
ironica, fredda, NON DA LUI.
“Lo fai per me?” di nuovo quella risata
“Per proteggermi da cosa?”
“Non mi è piaciuto quel ghigno” Lea gli
si posizionò di fianco e lo obbligò a guardarla.
“Rispondi alla mia domanda”
“Dai giornali, dall’isteria, dai pettegolezzi, ecco
da cosa”
“Fanno parte della mia vita, ci sono abituato. E questo non
sarebbe un pettegolezzo, se la gente mi vedesse con te non esiterei a
dire la verità”
“Palle! Sono palle, Bill! I tuoi manager non ti
permetterebbero mai di rivelare certe cose, è importante che
tu sia single e abbordabile per l’opinione pubblica”
“Da quando ti intendi di strategie di marketing?”
Bill era di nuovo ironico, glaciale.
“Lo so e basta, è così che
funziona”
“Nessuno potrebbe impedirmi di avere una compagna o di
tenerlo nascosto, nemmeno tu”
Lea abbassò la testa. Nemmeno tu?
Che diamine significava quella frase? Forse pensava che lei stessa gli
stesse impedendo di amare alla luce del sole? Ed era vero? Era lei che
gli impediva di parlare della loro storia? Era lei che cercava in ogni
modo di nascondere quella relazione?
Bill non aveva paura.
Non gli interessava dei manager, del marketing e di tutte quelle
stronzate: l’amore era qualcosa di naturale e inaspettato. La
fortuna di venire sfiorati da un simile sentimento non capita a tutti e
il ragazzo voleva godersi appieno quella felicità. Voleva
passeggiare per il centro città con lei, sedersi in un bar a
sorseggiare del caffè, andare al cinema, visitare qualche
città sconosciuta, fare tutte le cose che, per una coppia
normale, sembrerebbero ovvie.
Ma erano una coppia normale? A quel pensiero ballerino, Bill
trasalì. Aveva forse ragione Lea? Sarebbe cambiato qualcosa
nel rapporto con le sue fan e con il gruppo?
Scosse la testa e trovò subito la risposta: no. Non sarebbe
cambiato nulla.
L’affetto che provava per le proprie ammiratrici non sarebbe
mai cambiato né, tantomeno, l’impegno con il
gruppo. Lea avrebbe semplicemente completato la sua vita.
Decise di dirglielo, senza mezzi termini.
“Non cambierebbe nulla se il mondo intero sapesse che ho una
ragazza. Non smetterei di amare le mie fan, non smetterei di cantare
con i ragazzi, né di scrivere canzoni. Tu saresti la
ciliegina sulla mia torta, completeresti la mia vita” fece un
respiro profondo, gettò nel portacenere il mozzicone ormai
spento e continuò “ Faccio il mestiere che
desidero fare da quando ero bambino, ho degli amici fantastici che mi
sostengono sempre, uno staff affiatato che considero come una famiglia,
una madre eccezionale, visito città che mai avrei immaginato
di vedere. Cosa manca?” la guardò dritto negli
occhi e aggiunse “Solo tu”
Lea non rispose, abbassò la testa e a Bill parve di vedere
una lacrima. Si sentiva più loquace del solito,
così proseguì il suo monologo: “Non
voglio gettarti in pasto ad una folla di giornalisti o farti salire sul
palco e presentarti al pubblico. Non voglio esporti a nessun tipo di
pericolo” e lo disse mimando il gesto delle virgolette
“Vorrei solo vivere una storia normale. Visto che, sotto
molti aspetti, la mia quotidianità è cambiata, mi
piacerebbe che almeno questo fosse semplice. Immagina che io sia un
ragazzo qualsiasi, e non un cantante famoso. Sono solo Bill”
“Tu per me sei sempre stato solo Bill”
sospirò Lea, alzando il viso e guardandolo “Quando
non ti conoscevo, per me eri solo Bill. Ma adesso inizio ad avere
paura. In tutti i mesi che abbiamo trascorso lontani non mi sono persa
nulla di quello che facevi, ho controllato giornalmente i siti
più aggiornati, ho visto tutte le foto, letto tutte le
interviste” nel dirlo, ripensò alla prima
intervista che aveva letto dopo Parigi e a quanto avesse sperato di
scorgere, fra le righe, un messaggio per lei.
Ma Bill era muto, come un pesce. Nemmeno alla domanda “Siete
single?” aveva parlato.
“Se sono stato…”
“Aspetta” Lea lo interruppe con un gesto della mano
“Ho guardato tutti i video, ho letto anche tutte le
recensioni che trovavo, insomma, non mi sono fatta sfuggire nulla. E
lì ho capito che tu non sei solo Bill. Non lo sei
più. Sei Bill Kaulitz dei Tokio Hotel, le ragazze ti amano,
fanno giorni e giorni di coda per poterti vedere da vicino, ho letto
vere e proprie dichiarazione d’amore nei tuoi confronti, le
ho viste piangere, urlare. Io non sono pronta per affrontare tutto
questo”
“Non devi affrontare nulla, Lea” Bill si
avvicinò a lei, la prese per un braccio e la fece sedere sul
letto. Si accomodò al suo fianco e, con una mano, le
sfiorò delicatamente una guancia “Ti ho solo
chiesto una passeggiata”
“Ci siamo quasi urlati in faccia per una cazzo di
passeggiata, ti rendi conto?” chiese Lea, ridendo.
“Mi dispiace per averti risposto male… e per quel
ghigno!”
“Non importa, ammetto di essere decisamente
indisponente”
“Sei solo troppo pessimista! Ma se non te la senti, possiamo
restare qui” le sorrise, un sorriso smagliante, bello in
maniera struggente. Uno di quei sorrisi che la avrebbe gratificata
anche dopo una giornata di merda, soprattutto sapendo che quel sorriso
era per lei.
**
Quel pomeriggio, non uscirono.
Passarono il resto della mattinata, fino all’ora di cena,
chiusi in camera. Si rotolarono fra le lenzuola più volte,
consci del fatto che per settimane non si sarebbero più
rivisti. Si abbandonarono a dichiarazioni d’amore forse
esagerate, si concessero tutte quelle tenerezze che, soprattutto per
Lea, erano sconosciute e terminarono la serata con Marie e Phil, ancora
entusiasta per l’uscita con i nonni.
Il bambino non finiva di elencare le meraviglie delle quali il nonno
gli aveva parlato, pregava la madre di permettergli di visitare
Disneyland che il nonno vantava di conoscere alla perfezione e Marie
rispondeva con un mezzo sorriso, per non dare a vedere al figlio quanto
in realtà soffrisse.
A mezzanotte, Lea tornò in albergo con Bill. In giornata,
tra una coccola e l’altra, il ragazzo aveva sentito il
gemello che lo aveva informato circa il desiderio della madre di averli
a casa con lei anche per la vigilia di Natale.
“Domani mattina devo ripartire” le aveva sussurrato
Bill, fra i capelli.
“La prossima volta, verrò io da te. Appena dopo
Natale, sarò in Germania, te lo prometto”
“A gennaio riprendiamo la registrazione del nuovo album e in
primavera comincerà il nuovo tour”
“Lo so. Ma troveremo il modo e il tempo per vederci, ne sono
certa”
“Vieni con me” un sussurro, più una
speranza che una vera e propria affermazione.
“Ne abbiamo già parlato, Bill. Non posso mollare
tutto e partire con te, non ho tutti questi soldi! Come faccio a
mantenermi?”
“Sarai in tour con noi, non avrai bisogno di nulla”
“Non ho intenzione di vivere sulle tue spalle, Bill. Non mi
importa quanto ricco tu possa essere” la risposta le
uscì secca, quasi indignata.
“Non intendevo darti quest’impressione”
“Ce la faremo, in qualche modo ce la faremo” un
bacio e poi silenzio, solo silenzio e buio, fino a che non si
addormentarono stretti l’uno all’altra.
E il mattino arrivò, inesorabilmente. Arrivò con
il suo sole pallido, coperto da qualche nuvola che minacciava neve,
arrivò con i suoi obblighi e i suoi doveri.
La sera prima, Marie aveva salutato il ragazzo con affetto,
raccomandandogli di tornare il prima possibile e scusandosi nuovamente
per la burrascosa cena.
Bill era entusiasta, l’accoglienza di Marie lo aveva
elettrizzato e leggeva la gioia anche negli occhi di Lea.
All’aeroporto, stretto nel suo giubbotto nero e mimetizzato
nella folla, aveva stretto Lea al petto, cullandola.
Lasciarla era sconvolgente, dannatamente difficile, eppure la loro
storia si sarebbe sempre nutrita di partenze e di arrivi. Della gioia
di vedersi per un’ora e del dolore nel doversi separare.
Prima di salutarla definitivamente, le aveva promesso di chiamarla
appena fosse giunto a Berlino.
“Ti chiamo appena arrivo”
“Ok” biascicò Lea.
“Ehi, guardami”
“Bill fammi andare, ti prego. Detesto gli addii”
“Non è un addio, tra poco più di una
settimana ci rivedremo”
“Vai, dai” Lea lo spinse via, delicatamente
“Ti prego vai”
“Vado” si sporse verso di lei e le diede un ultimo
bacio, prima di voltarle le spalle e incamminarsi verso il chek in.
Lea lo osservò allontanarsi, le mani strette a pugno, gli
occhi lucidi e la voglia di rincorrerlo. Quando lo vide sparire fra la
folla, uscì dall’aeroporto e si
incamminò verso il parcheggio dei taxi.
Già sentiva la sua mancanza, un macigno gigante sul petto e
un groppo in gola, difficile da mandare giù. Un senso di
disorientamento si impossessò di lei, senza lui mancava
l’aria. Senza lui mancava la percezione del tempo. Mancava
qualcosa.
Si asciugò le lacrime con la manica del giubbotto e
salì sul primo taxi libero.
**
Lea rincasò nel momento in cui Marie raggiunse la cucina per
preparare la colazione. Philip era già pronto e aspettava,
diligente, seduto al tavolo della cucina.
Entrando in cucina, la ragazza si avvicinò al nipote e gli
baciò la testa, con affetto.
“Dove sei stata, zia?”
“Ho accompagnato il mio amico in aeroporto”
mormorò Lea, sedendosi. Marie si voltò a
guardarla e le lanciò un sorriso di conforto.
“Dove è andato?” continuò
Phil.
“A casa sua, in Germania, per festeggiare il Natale con la
sua famiglia” nel sentire la parola
“Natale”, a Philip si illuminarono gli occhi.
“A Natale verranno da noi anche il nonno e la
nonna?” chiese quindi il bambino.
Marie non rispose e gli servì la colazione, mentre Lea finse
di non avere sentito la domanda e bevve un sorso di caffè
dalla tazza che Marie le aveva posato sul tavolo.
“Allora?” continuò Philip
“Non lo so” rispose Marie, dura, gettando malamente
la caffettiera nel lavandino e spaventando Lea e Phil “Si
può sapere cos’ha di tanto speciale questo nonno,
eh?!” sbraitò “L’avrai visto
due volte in cinque anni, cristo!”
Il bambino scoppiò a piangere, terrorizzato dalla reazione
della madre, Marie corse in camera sbattendo la porta della cucina e
Lea si alzò per avvicinarsi al nipote e cercare di
consolarlo: “Phil, la mamma ha tante cose a cui pensare in
questo periodo,cerca di capirla. Non è arrabbiata con
te”
“Allora è arrabbiata con il nonno?”
domandò il bambino, tirando su con il naso.
“Diciamo che hanno qualche problemino. Ma non preoccuparti
tesoro, si sistemerà tutto. Adesso finisci di mangiare che
poi ti porto all’asilo”
Senza risedersi, Lea trangugiò il restante caffè
e guardò il cielo dalla finestra della cucina:
chissà dov’era lui.
**
Poche ore dopo, quando Phil era ormai all’asilo e Marie al
lavoro, il telefonino di Lea squillò. La ragazza lo teneva
in mano, impaziente, e cominciava a chiedersi se non fosse stato il
caso di chiamare per prima. Rispose velocemente, senza nemmeno leggere
il nome sul display.
“Sì?”
“Ciao Lea!” riconobbe immediatamente quella voce,
ma non era la voce che voleva sentire in quel preciso istante.
“Ciao Tino” mormorò, sconsolata.
“Cos’è questo tono afflitto? Stai
bene?”
“Sì, sì, tutto bene.
Dimmi…”
“Niente, volevo sapere come stai e quando hai intenzione di
tornare. Domani finisce la tua settimana di ferie”
“Torno già stasera” rispose,
d’un fiato.
“Sicura? Guarda che puoi tornare domani, tranquillamente.
Volevo solo assicurarmi che andasse tutto bene, non ti ho
più sentita e quella sera te ne sei andata come un
fulmine”
“Tutto alla grande” Lea sorrise “Scusa,
non ti ho spiegato nulla”
“Non importa, sono faccende personali, quel che conta
è che vada tutto bene”
“Sì Tino, va tutto bene. Ci vediamo questa sera,
allora”
Non appena interruppe la comunicazione, il cellulare squillò
nuovamente. Questa volta era lui, doveva essere lui.
“Pronto?” la voce le uscì in un rantolo
strozzato.
“Lea, sono arrivato” trillò Bill, con il
fiatone.
“Finalmente! Ero in pensiero, ma non dovevi arrivare almeno
mezz’ora fa?”
“Eh sì, infatti sono arrivato mezz’ora
fa, ma ho avuto qualche problema in aeroporto”
Lea si allarmò subito, il cuore le balzò in
petto: “Cosa è successo? Stai bene?”
“Adesso sì” Lea lo sentì
ridere e, a seguire, udì il rumore di una portiera che si
chiudeva “Sono con Tom, è venuto a
prendermi”
“Bill, che cavolo è successo?”
ripeté, impaziente.
“Niente di grave, Lea, solo un contrattempo”
minimizzò.
“Non me la racconti giusta, Bill” Lea era nervosa,
mentre parlava al telefono passeggiava avanti e indietro per il
salotto, torturandosi una ciocca di capelli.
“Quando siamo atterrati, delle ragazze mi hanno riconosciuto,
non so come, e si è scatenato un momento di panico. Insomma,
mi sono volate addosso e io ero senza protezione, stavo per cadere
all’indietro ma è intervenuta la polizia
aeroportuale. Mi hanno portato nel loro ufficio, ho chiamato Saki e
insieme a Tom sono venuti a prendermi. Ma va tutto bene, non mi sono
fatto nulla”
Lea sbuffò: “Cazzo. Lo sapevo! Cristo santissimo,
lo sapevo! Te l’avevo detto che prima o poi sarebbe successo,
cazzo! Non puoi girare da solo come se nulla fosse, porca
puttana!” Lea era furente, sbraitava al telefono come se
stesse litigando furiosamente con qualcuno.
“Lea calmati! Non è successo nulla di
grave!”
“Non importa! Sarebbe potuto succedere,
però!”
“Non erano armate, Lea!” rise Bill
“Volevano solo una foto, un autografo”
“Hai detto che ti hanno assalito! Cristo Bill, lo sapevo.
Adesso sei al sicuro, comunque?”
Lea lo sentì ridere e, di sottofondo, udì anche
le risate di Tom: “Guarda che non sono in Vietnam. Sono a
Berlino, in auto con Tom e Saki. Sto bene, non ho ferite da arma da
fuoco né pallottole in corpo”
“Ridi, ridi! Beato te che ridi!”
ironizzò.
“Ci sentiamo stasera, adesso ho un disperato bisogno di
dormire. Ok?”
“Ok” mormorò Lea, nervosa.
“Sei arrabbiata?”
“Sì cazzo! Lo sono! Buonanotte!”
interruppe la comunicazione senza attendere risposta, spense
addirittura il telefonino e lo lanciò sul divano.
Storia normale? Vita normale? Come cazzo era possibile? Uscire a
passeggio, andare al cinema? Certo, ma in un’isola deserta
però! Non qui, non a Berlino, non in questo emisfero.
Forse in qualche posto sperduto in Tibet o magari in cima al K2. Non di
certo in Europa e probabilmente nemmeno in America, dati i recenti
successi.
Scoraggiata dopo quella telefonata, si concesse un lungo bagno e si
addormentò nella vasca, svegliandosi solo un’ora e
mezza dopo, quando l’acqua era ormai gelida e freddi brividi
le percorrevano il corpo.
**
Con mezz’ora di anticipo, si presentò al locale e
salutò Tino affettuosamente, stringendolo forte:
“Grazie per avermi concesso la settimana, è stata
utilissima”
“Sono felice di saperti felice” rise Tino
“Scusa il gioco di parole!”
Lea raggiunse poi il bancone e vide Luca. I suoi occhi la spiazzarono,
come al solito, ma questa volta per mille altri motivi. Pensare a Bill,
in quel momento, la faceva arrabbiare. Dopo la brusca conversazione
pomeridiana, stava solo cercando di calmarsi e di minimizzare il tutto,
con scarsi risultati però.
“Ciao Lea, bentornata!” la salutò Luca
“Tutto bene?”
“Sì, tutto bene grazie. E tu, come te la sei
cavata?”
“Benissimo!”
“Ti volevo ringraziare di nuovo per avermi sostenuta,
è stato importante”
“Immagino che centri quel ragazzo di cui mi hai
parlato…” Luca non terminò la frase ma
Lea arrossì al pensiero della sera in cui erano usciti
assieme.
“Beh, in effetti è così”
“Allora è tutto sistemato, fra voi?”
domandò, un velo di tristezza sugli occhi.
“Più o meno. È che
lui…” Lea si appoggiò al lavello e
cominciò a parlare, a raffica. Non lo aveva fatto con Marie,
quando era rincasata, perché non voleva sfinirla con i suoi
problemi e non aveva nemmeno chiamato Sue e Mandy, così si
lasciò andare ad un lungo monologo con Luca “Lui
è un testardo! Voglio dire, è perfetto, lui
è perfetto! Però è così
cocciuto, non mi ascolta!” gesticolava vistosamente e Luca
cercava di starle dietro, senza interromperla “Vorrebbe una
relazione stabile, ma per come stanno le cose adesso, è
impossibile! Io cerco di spiegarglielo, ma non capisce e ho sempre
paura che fraintenda le mie parole, che pensi che non lo ami
abbastanza. Proprio oggi, cazzo, mi ha chiamato appena atterrato
e…” si fermò all’improvviso.
Se avesse continuato con il racconto, avrebbe dovuto spiegare a Luca
CHI era il suo ragazzo e non era pronta per farlo.
Bill era un segreto, il suo segreto. Solo la sorella e le sue due
amiche erano a conoscenza di quella relazione “E niente,
lasciamo perdere. Mi viene solo il nervoso”
“Parlarne potrebbe aiutarti” la
incoraggiò Luca.
“Forse in un altro momento. Adesso sono ancora arrabbiata con
lui. Gli ho sbattuto il telefono in faccia e l’ho spento
e… cazzo!” si portò le mani alla testa
“ho lasciato a casa il telefono!”
A Berlino, un nervoso Bill tentava invano di chiamarla, ma appena
inoltrava la chiamata la risposta era sempre la stessa: “L’utente
da lei chiamato non è al momento raggiungibile”
**
Come vi sembra?
Alien, tu che ormai sei mia fedele lettrice, che te ne pare? xD
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
“Cristo santo”
Bill sbuffò e interruppe la comunicazione. Si
portò una mano alla fronte e si scostò una ciocca
di capelli dagli occhi. Era sveglio da mezz’ora circa e in
tutto quel lasso di tempo aveva cercato di chiamare Lea più
volte, ma il telefono era sempre spento. Non si era ancora lavato, i
capelli gli ricadevano molli sulle spalle e gli occhi erano pieni di
sonno.
Tom irruppe in salotto, addentando un toast farcito, di notevoli
dimensioni, apparentemente appena sfornato.
“Che fai lì? Non hai fame? Ho preparato dei toast
anche per te, se ti vanno” esordì, sedendosi sul
divano accanto al gemello.
“Grazie. Stavo cercando di chiamare Lea, ma ha il telefono
spento. Spero non sia arrabbiata per la discussione di prima”
Tom sbuffò, ingurgitando un pezzo di toast “Sei
stato idiota a muoverti da solo, questo è vero.
Però non capisco per quale ragione si sia incazzata
così tanto. Non è successo nulla di
grave”
“Abbiamo fatto un lungo discorso la sera prima della mia
partenza, lei pensa che una relazione stabile sia impossibile, a causa
della mia notorietà”
“E tu, cosa pensi?” domandò Tom, finendo
il toast che aveva mangiato in poche boccate e pulendosi le labbra con
un tovagliolo di carta.
“Per me è fattibile. Certo, sarà dura,
ma è comunque fattibile. Ovvio che preferirei che lei fosse
qui, adesso. O perlomeno, che abitasse in Germania” mentre
parlava, cercava continuamente di chiamarla, trovando sempre il
telefono spento “Ma credo in questa storia. Chiamami
patetico, Tom, pensala come vuoi, ma sono certo che lei mi ami per
quello che sono e non per quello che rappresento”
Tom non poté far altro che annuire. Effettivamente,
nonostante non nutrisse grande simpatia per Lea, non vedeva in lei
un’approfittatrice.
Lea non conosceva i Tokio Hotel, questo lo aveva appurato lui stesso e
i suoi occhi erano un libro aperto, era facile intuire il suo stato
d’animo anche senza conoscerla bene.
Ma, nonostante questo, non capiva le remore di quella ragazza, non
comprendeva i suoi silenzi e le sue sfuriate ma soprattutto, non
accettava vedere Bill soffrire per lei.
E ora, anche lui si ritrovava a fissare spasmodicamente il cellulare di
Bill, nella speranza che lei rispondesse: perché ogni attesa
di Bill era una sua attesa, ogni lamento era un suo lamento. Nulla di
così sorprendente per chiunque avesse un gemello.
Era qualcosa che apparteneva loro dalla nascita, un filo invisibile che
li legava perennemente, un cordone ombelicale mai tagliato.
“Su questo non ci sono dubbi, Bill. Anche io penso che,
qualsiasi cosa lei provi per te, sia sincera. Solo che non riesco a
capire cosa”
Bill lo squadrò, torvo, e inarcò il sopracciglio:
“Cosa intendi dire?”
“Non lo so, non voglio di certo mettere zizzania, solo che se
ti amasse sul serio non si comporterebbe così”
“Non ti seguo” Bill posò il cellulare
sul cuscino del divano, incrociò le braccia sul petto e
allungò le gambe fino a raggiungere il tavolino e ci
posò sopra i piedi “Spiegati meglio”
“Se io mi innamorassi di una ragazza, vorrei averla sempre
accanto e se questo non fosse possibile per ragioni geografiche, vivrei
con il cellulare costantemente attaccato all’orecchio, per
sapere come sta o anche solo per sentire la sua voce”
Bill strabuzzò gli occhi.
Era Tom quello che parlava? Era il suo gemello sesso dipendente, quello
che sbatteva le sue conquiste in faccia a chiunque, quello che non
parlava mai di amore semmai di “scopate”, quello
che si divertiva a far credere al mondo che fosse un porco?
Sì, era quello. E chi meglio di lui poteva sapere che dietro
a quello sguardo birichino, si celava un gigante buono? Chi meglio di
lui poteva sapere che, nascosto sotto a diversi strati di indumenti e
pelle, batteva un cuore grande?
Sorrise per un attimo, osservandolo gesticolare, nel tentativo di
spiegargli la sua teoria.
“Non guardarmi così, Bill! Mi fai sentire
idiota!” lo rimbeccò Tom.
“No dai, continua”
“Cos’altro devo aggiungere? Se fossi Lea, non ti
tratterei così”
Bill non rispose, abbassò la testa e prese a fissarsi le
mani.
Lea lo amava? Non lo amava? A cosa pensava Lea?
**
In pochi minuti, Lea era tornata a casa di corsa, aveva afferrato il
cellulare, era tornata a lavorare come una scheggia ed ora, chiusa nel
retro del bar, stava controllando le chiamate ricevute nel lasso di
tempo in cui l’aveva tenuto spento.
Le arrivarono decine di messaggi che la informavano che Bill
l’aveva cercata e, imprecando sottovoce, cercò il
suo numero nella rubrica e lo chiamò.
Dopo pochi squilli, il ragazzo rispose.
“Lea!”
“Ciao. Ho visto che mi hai cercata. Mi spiace, avevo spento
il telefono”
“Pensavo fossi arrabbiata”
“In realtà lo ero, anche se credo di avere
esagerato, come al solito” sentendo il tono sollevato di
Bill, si raddolcì.
“Sì, forse sì. Effettivamente, la tua
sfuriata era ingiustificata”
“Insomma! Ho detto che ho esagerato, ma non che ho
sbagliato” precisò, piccata.
“Erano solo delle ragazze che volevano il mio autografo,
nulla di più”
“Non ho nulla contro quelle ragazze, Bill! Io sono incazzata
con te, perché con la tua smania di comportarti come se
fossi il signor Nessuno, rischi di metterti nei guai!” il suo
tono di voce si era alzato di parecchie ottave.
“Litighiamo di nuovo?” domandò Bill,
secco.
“Sei tu che minimizzi sempre tutto! Vuoi vivere nel mondo
delle persone normali? Ecco, allora comincia a ricordarti che le
persone normali, di solito, non vengono aggredite da una folla di
persone e non devono girare per la città nascoste sotto a
due strati di abiti per non essere riconosciute!”
“Sei forse impazzita, Lea? Mi spieghi cosa stai urlando a
fare?”
“Sto urlando perché tu mi fai urlare!”
Prima che Bill potesse dire qualcosa, Lea udì la voce di Tom
in sottofondo che, senza troppe cerimonie, la stava mandando a quel
paese. Subito dopo, sentì Bill intimargli di tacere.
“E Tom cosa vorrebbe?” chiese quindi Lea, ormai
partita in quarta verso una delle più furenti litigate.
“Nulla, non parlava con te”
“Ah no? Sai, pensavo di stare insieme a te, non insieme ad
entrambi! Cos’è, il pacchetto doppio? La versione
deluxe?” commentò, acida come la panna scaduta.
“Tom non c’entra un cazzo, Lea. Stavamo parlando io
e te”
“Io, te e il tuo avvocato. Si dà il caso che debba
lavorare, a differenza tua! Di conseguenza, arrivederci. Passa una
buona serata con il gemello buono che ti difende dalla
ragazzaccia” e di nuovo, per la seconda volta in quella
giornata, gli sbatté il telefono in faccia, senza salutare
né annunciare l’imminente fine della conversazione.
Prima di tornare alla postazione di lavoro, fumò una
sigaretta e, con sgomento, si sentì meglio. Sfogarsi in quel
modo, prendersela con lui, le era quasi piaciuto. Era un pensiero
orrendo, che le fece venire la nausea. Non voleva perderlo, ma nello
stesso tempo aveva il terrore di tenerselo.
Senza accorgersene, si mise ad imprecare ad alta voce tra sé
e sé, fino a quando una voce alle sue spalle la fece
trasalire.
“Tutto bene?”
Lea si voltò e vide Luca, fermo in mezzo alla stanza, con
una sigaretta fra le dita “Sì, tutto
bene”
“Ti ho involontariamente sentita sbraitare”
“Involontariamente?” Lea era già sul
piede di guerra, se avesse scoperto che Luca origliava le sue
conversazioni, sarebbe probabilmente esplosa, lo avrebbe mandato a
cagare e se ne sarebbe tornata a casa, mandando a fanculo anche Tino e
il locale.
“Sì, stavo venendo qui per fumare, non credevo
fossi al telefono. Mi sono fermato sulla porta, cercavo di non
ascoltare ma non era semplice. Però non ho capito una mazza,
se può farti star tranquilla! Non parlo
l’arabo!”
A Lea scappò una risata “Era tedesco”
“Ah ecco. Qualsiasi lingua fosse, non la conosceva! Ho solo
intuito, dal tono, che stessi litigando con qualcuno”
“Solo una discussione, nulla di grave. Come iniziare bene una
serata di lavoro. Avrei fatto meglio a lasciare il cellulare dove
stava!” commentò, ironica.
“E così, il ragazzo del mistero è
tedesco?” domandò, aspirando una boccata di fumo e
passandosi una mano fra i capelli “Non lo sapevo, non ricordo
di averti mai sentito parlare di lui in maniera precisa”
Lea annuì “Sì, è tedesco.
Vive a Berlino con il fratello”
“Wow. Berlino, bella città. Ci sono stato qualche
anno fa ma non capivo nulla di quello che mi dicevano!”
rispose, ridendo “Però la città
è magnifica”
“Per quello che ho potuto vedere concordo con te. Ma non ho
fatto in tempo a visitarla come avrei voluto” Lea si
rattristò, ripensando al giorno in cui si era presentata a
casa di Bill e aveva dovuto ripartire solo poche ore dopo a causa di
Edward.
“Sono certo che lui saprà mostrarti tutti i luoghi
più belli”
“Chi?” chiese Lea, soprapensiero.
“Il tuo ragazzo!” precisò Luca, gettando
il mozzicone nel posacenere “Di cui non so nemmeno il
nome”
“Ah ecco. Sì… Jorge… si
chiama Jorge” balbettò.
“Nome tipicamente tedesco, direi!”
ridacchiò Luca “A dire il vero, mi aspettavo
qualcosa tipo Wolfgang o Ludwig!”
Lea rispose alla risata, senza mostrare troppo entusiasmo e poi
aggiunse: “Adesso andiamo a lavorare, su. Tino ci
avrà dati per dispersi”
Seguendo Luca raggiunse il bancone, ripensando alla bugia che gli aveva
appena detto, mentre nella sua mente si faceva strada il viso
sconsolato di Bill.
**
Alle undici di sera, quando il locale era ormai zeppo di clienti e lei
e Luca si affaccendavano dietro al bancone, spuntarono Sue e Mandy.
Avanzarono con decisione fino a loro e si accomodarono a due sgabelli
liberi.
“Ehi! Che ci fate qui?” domandò Lea,
pulendo un bicchiere.
“Siamo venute a trovarti! Domani né io
né Sue abbiamo lezione, così possiamo permetterci
di tirare tardi! E poi, siamo curiose di sapere i
dettagli…” concluse, ammiccando.
“Tra cinque minuti vado in pausa sigaretta”
Cinque minuti dopo, le tre ragazze sedevano nel retro del locale, su
delle casse di birra vuote, aspettando che Lea raccontasse loro degli
ultimi giorni.
“Mi spiace non avervi chiamato, ma è rimasto qui
solo due giorni e…”
“Non c’è motivo per cui tu debba
scusarti! Lo vedi così poco, mi pare ovvio che quando
c’è lui dimentichi il resto”
commentò Mandy.
“Ma siamo sicure che vada tutto bene?”
indagò Sue “Hai una faccia…”
Lea cominciò a raccontare alle amiche di Bill, partendo dal
suo arrivo a Roma per concludere con la lite di poche ore prima.
Spiegò tutto nei minimi dettagli, senza tralasciare nulla,
preparandosi ad una sfuriata di Mandy e sperando in un po’ di
comprensione da parte di Sue, che a differenza di Mandy era molto
più razionale.
“Lea, mi dispiace ma questa volta hai sbagliato”
disse Sue, spiazzando Lea e lasciandola attonita “Hai reagito
in maniera decisamente esagerata. E lo hai anche accusato di non capire
i ritmi di vita di una persona normale. Che poi, che cazzo significa
normale? Lui non lo è, per caso?”
Lea balbettò un secondo prima di rispondere “No
che non lo è! Non più, per lo meno”
“Sei proprio sicura? A me pare un ragazzo come gli altri, che
fa un mestiere diverso. Tutto qui”
“Non sto parlando della persona. Io parlo di quello che
rappresenta. Fino a che la sua popolarità
arriverà prima della sua vera personalità, non ci
sarà spazio per una relazione a tutto tondo”
“Cazzate” la voce di Mandy si intromise nel
monologo di Lea “Sono cazzate Lea. Stai cercando di
giustificare il tuo comportamento scorretto, solo che non ci riesci e
ti stai pateticamente arrampicando sui vetri. Mi spiace dovertelo dire,
ma lo tratti come fosse un criminale. Che sappia io, non è
reato essere musicista”
“Criminale? Io sono solo preoccupata per lui, per
me!”
“Per te e basta, direi” puntualizzò Sue.
“State con me o contro di me?” chiese Lea,
sostenuta.
“Anche se siamo tue amiche, non significa che dobbiamo darti
ragione anche quando hai palesemente torto. Tu non ti rendi conto della
fortuna che hai avuto: conosci un ragazzo, ne resti affascinata fin da
subito, perché è così che è
andata, scopri che è pure un personaggio famoso, lui si
innamora di te e tu cosa fai? Lo respingi e cerchi di ostacolare, in
tutti i modi, la vostra storia perché temi che possa
danneggiarti, che possa sconvolgere la tua vita, che ti porti lontano
da Roma. Non ti sembra scorretto?”
Lea non rispose, si limitò a scuotere la testa in segno di
diniego, così Sue continuò: “Ah no, non
è scorretto? Secondo noi lo è. Tu pensi solo a te
stessa, Lea. Ma mettiti nei suoi panni. Tra tutte le ragazze che gli
circolano attorno, ha scelto proprio te, capisci? Non si è
preso la super modella o la sexy cantante. Ha scelto te. Una ragazza
normale, acqua e sapone, sconosciuta al grande pubblico. Io dico che la
sua è stata una scelta coraggiosa”
“Così adesso dovrei essergli grata per avermi
scelta fra un nugolo di bellone? Per aver scelto l’anonima
Lea? A me non interessa chi lui sia. Non mi sento privilegiata per
questo, quando siamo soli non penso a lui come al cantante dei Tokio
Hotel!”
“Hai frainteso le mie parole, Lea. Io dicevo che anche per
lui non deve essere affatto semplice. Se tu facessi parte dello star
system, non ci sarebbero tutti questi problemi. Saresti abituata a
spostarti da una parte all’altra del pianeta, avresti le
guardie del corpo che ti proteggono e potresti permetterti di
noleggiare uno yacht piazzato al centro del Pacifico solo per stare
insieme a lui due ore. Ma così diventa tutto più
complicato, lui deve viaggiare per vederti, deve adeguarsi alla tua
vita, deve capire che non sei abituata alle luci della ribalta e che
temi il SUO mondo. E io sono certa che lui queste cose le sa. Sei tu
che non gli lasci mai il tempo di spiegarsi”
“Abbiamo parlato per ore di questa cosa. So che lui vorrebbe
che mi trasferissi in Germania”
“Perché non farlo?”
“Sei pazza?” Lea squadrò prima Sue e poi
Mandy con gli occhi sgranati “E lasciare qui Marie, Phil, voi
e l’università? Non se ne parla”
“In amore bisogna fare dei sacrifici” si intromise,
di nuovo, Mandy “Non è tutto rose e fiori, come
nelle favole. Bisogna sapersi adeguare all’altro”
“E mi dovrei adeguare io?”
“Lui lo fa, per te. E’venuto a Roma da solo, pur
sapendo che avrebbe corso dei rischi, solo per starti accanto in un
momento difficile. Ma tu, anziché apprezzare il suo gesto,
l’hai accusato di essere incosciente”
Per un momento, Lea chiuse gli occhi e si concentrò sul viso
di Bill, ripensò all’emozione che aveva provato
nel vederlo all’aeroporto, camuffato per non farsi
riconoscere, a come l’aveva stretta in mezzo alla folla, a
quanto l’aveva fatta sentire bene la sera in albergo.
Ripensava al suo sorriso felice quando aveva conosciuto Marie e Phil e
alla sua espressione sconsolata quando l’aveva salutata prima
di ripartire.
Le venne di nuovo voglia di vomitare, tutti quei pensieri la stordivano
e desiderava solo infilarsi nel letto e dormire per giorni.
“Ammetto di avere esagerato” bisbigliò,
tenendo gli occhi chiusi.
“Chiamalo, Lea” aggiunse Mandy “Digli che
ti dispiace, che non avevi intenzione di trattarlo male. Non sai la
fortuna che hai ad avere un ragazzo che ti ama così tanto,
non capita a tutti. Io non posso assicurarti che durerà in
eterno ed è per questo che devi cercare di vivere questa
storia al meglio, perché nulla è certo in questa
vita”
“Adesso lo chiamo”
Le ragazze le sorrisero, la salutarono e tornarono nel locale,
lasciandola sola. Lea estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans,
selezionò il numero di Bill ed inoltrò la
chiamata.
Dopo pochi squilli, rispose.
“Bill” mormorò Lea.
“Se mi hai chiamato per urlare di nuovo, puoi anche mettere
giù Lea. Non ho voglia di litigare di nuovo”
“Veramente, volevo solo chiederti scusa”
“Ah” Bill si lasciò sfuggire un sospiro
di sollievo, ma cercò di non far capire a Lea quanto fosse
sollevato. Voleva tenerla sulle spine e non darle l’idea che
fosse sempre disposto a perdonarla, anche se era proprio
così.
“Mi dispiace tanto, sono stata scortese, avventata e poco
comprensiva”
“Lo apprezzo molto, Lea. Mi hai davvero fatto imbestialire,
per un attimo ho pensato di non conoscerti come credevo. Questa storia
è già complicata dalla distanza: cerchiamo di non
incasinarla per delle stronzate”
“Perdonata?”
“Certo. Perdonata” prima che Bill finisse la frase,
Lea sentì delle voci in sottofondo.
“Chi c’è lì con te?”
“Georg, Gustav e Tom. Abbiamo in ballo un mega torneo di play
station!”
“Beati voi! Io devo tornare a lavorare. Ci sentiamo
domani”
“Certo. Buon lavoro, mandami un messaggio quando sei a
casa”
“Lo farò. Ah Bill…”
“Sì?”
“Ti amo”
“Anche io, più di quanto immagini”
Con un sorriso indecifrabile stampato in faccia, Lea chiuse la
comunicazione e tornò al bancone.
**
I pochi giorni che mancavano alla vigilia di Natale, passarono in
fretta. La mattina del 24 dicembre, Lea si svegliò di
buonumore. Phil e Marie, entrambi a casa per le vacanze natalizie,
dormivano ancora, così pensò di preparare loro la
colazione in grande stile. Brioche calde comprate nel bar vicino a
casa, caffè, cereali e latte per Phil e tre bicchieri di
aranciata fresca.
Quando terminò di preparare la tavola, sentì
un’auto fermarsi davanti a casa e corse alla finestra. Temeva
fosse Edward, ma quando vide il logo del corriere espresso si
rilassò.
Alla porta, l’uomo le consegnò un pacco che Lea si
affrettò ad aprire, in salotto, seduta sul divano.
Sotto all’involucro, la scatola era bordeaux. Lea
sollevò il coperchio rigido e la prima cosa che vide fu una
piccola busta. Con mani tremanti la aprì e al suo interno vi
trovò un biglietto natalizio, recante poche semplici frasi:
Anche se sono lontano, il mio
pensiero è sempre con te.
Buon Natale, Lea.
Emozionata e felice, posò il biglietto ed estrasse dalla
scatola un’altra busta, che conteneva un biglietto di sola
andata per Berlino.
Ma il pezzo forte era il pacchettino confezionato in maniera
impeccabile, con una carta blu scuro e un nastro argentato ad
avvolgerla.
Scartato il pacchetto, si ritrovò fra le mani una scatolina
dello stesso colore della carta, con stampato sopra il logo di una
notissima azienda produttrice di preziosi.
Sollevò il piccolo coperchio e, adagiato su un cuscinetto
d’argento, scorse un bracciale di oro bianco, tempestato di
piccoli diamanti incastonati.
Lea lo sollevò con due dita, gli occhi colmi di lacrime, e
lo rigirò fra le mani. I diamanti brillavano come stelle nel
cielo nero.
Casualmente, controllando il gioiello, i suoi occhi catturarono
qualcosa all’interno del bracciale stesso.
Rivoltandolo delicatamente, come fosse un calzino, notò
un’incisione non visibile quando il bracciale era nella
posizione originale.
Aguzzando la vista, lesse le poche parole scritte all’interno
e il suo cuore fece un balzo:
Nach dir kommt nichts
**
Innanzitutto,
bentornata Splash! *_* E grazie mille per il commento! *_*
Ora vorrei solo farvi una piccola precisazione su Lea. Lei è
indiscutibilmente innamorata di Bill, non vi è il minimo
dubbio su questo e vi invito a riflettere un secondo: cosa fareste se
il vostro ragazzo fosse perennemente distante da voi, circondato da
chissà chi, impossibilitato ad uscire senza la scorta? Come
vi comportereste?
Non credo sia facile, è come andare in giro con un mega
diamante sulla testa: si ha sempre il terrore che, prima o poi,
qualcuno si avvicini per soffiarcelo.
Lea non sa come gestire questa faccenda della notorietà, lei
che ha sempre vissuto all'ombra di tutti ora si trova in mezzo al
ciclone. Non è così semplice, anche
perchè ricordatevi che per lei, Bill è SOLO Bill.
Quando l'ha conosciuto, non sapeva bene chi fosse e non era una fan dei
Tokio Hotel. Conosceva sì e no una canzone e non sapeva
null'altro. Ora, accorgersi che il suo Bill è
anche il Bill di tantissime altre persone, la mette in una
situazione angosciante.
Ci tenevo a spiegarvi questo aspetto della protagonista, scusandomi se
dalla ff non si intuisce ^^''
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Marie fu svegliata dai singhiozzi di Lea. Raggiunse la sorella in
salotto e la trovò seduta, le mani strette a pugno e la
testa abbassata, con i capelli che le coprivano il volto.
Si avvicinò guardinga, quasi timorosa di disturbarla in quel
momento. Non sapeva perché, ma intuiva che le sue non
fossero lacrime di dolore.
Sul tavolino, notò subito un pacchetto scartato e quella che
pareva una lettera o un biglietto di auguri.
Si sedette accanto a lei, la abbracciò e prese a cullarla,
in silenzio, senza aggiungere parole che avrebbero solo rovinato tutto.
Quando le lacrime cessarono, Marie sciolse l’abbraccio e
aspettò che la sorella parlasse.
Lea mise fra le mani di Marie il bracciale, mentre si asciugava gli
occhi con la manica della maglietta e aspettava che la sorella dicesse
qualcosa, qualsiasi cosa.
“E’ un regalo magnifico, tesoro”
commentò Marie, studiando il gioiello.
“Leggi all’interno” balbettò
Lea. Marie fece come la sorella le aveva chiesto e un largo sorriso le
invase il volto.
“Che pensiero stupendo. Quel ragazzo merita tutta la mia
stima, Lea”
“Non lo merito, Marie. E’ troppo…
TROPPO! E’ perfetto in ogni cosa che fa, in ogni gesto, in
ogni parola. Io sono solo capace di urlargli addosso”
“Non è perfetto. Ha anche lui i suoi difetti, come
tutti. Il segreto è quello di saper trovare il giusto
equilibrio, di rimpinzare un difetto con un pregio. E tu lo meriti,
Lea. Se ti ha scelta, significa che lo meriti”
Poi, senza bisogno di aggiungere altro, Marie allacciò il
bracciale intorno al polso di Lea e, sorridendole, si alzò.
Lea restò per qualche minuto a fissare il prezioso,
domandosi cosa avesse fatto di così speciale per meritarsi
Bill.
**
Casa Kaulitz-Trumper era affollata, affollata come un supermercato
all’ingrosso, come un negozio di alta moda nel periodo dei
saldi.
Nonni, zii, cugini, amici di vecchia data, si erano stretti intorno a
Simone e Gordon per festeggiare il Natale. Bill e Tom, dal canto loro,
amavano rispettare le vecchie tradizioni.
C’erano stati Natali tristi, Natali in cui la mancanza del
padre si era fatta sentire, prepotentemente. Ma da quando Gordon era
entrato nella vita della loro madre, qualcosa era cambiato.
All’improvviso, era tornata la voglia di festeggiare, di
scherzare, di scambiarsi doni e di tirare tardi raccontandosi aneddoti
del passato.
Gordon e la sua vivacità, avevano riacceso quella fiamma che
era stata spenta per troppo tempo.
Adesso, seduti sul divano del salotto della madre, con la nonna
accanto, si beavano del calore familiare, di quella gioia che nemmeno i
concerti potevano dare loro: quella era la famiglia, e veniva prima di
ogni altra cosa.
“Secondo me, sei un po’ troppo magro!”
sentenziò Hilde, la nonna dei gemelli “Io dico che
devi mangiare di più. Mangi le carote? Guarda che fanno bene
alla vista! E la pasta? Mangi la pasta? I carboidrati sono essenziali,
l’ha detto quel dottore in televisione!”
Tom rideva, dando di gomito a Bill che, educatamente, annuiva ad ogni
parola della nonna materna: “Sto benissimo, nonna. Mangio di
tutto”
“Guarda che ti ho visto il televisione! Ci ballavi dentro
quei pantaloni”
“Mamma, lascialo in pace!” si intromise Simone,
bonariamente “E’ la Vigilia di Natale, non vorrai
farlo scappare, vero?” Tom, coprendosi la bocca con la mano,
continuava a ridere.
“E te non ridere troppo!” aggiunse Hilde,
sporgendosi in avanti per vedere meglio il nipote, coperto da Bill
“Ho letto sul giornale che corri dietro alle gonne!”
Bill proruppe in una fragorosa risata, seguito a ruota da Simone e
Gordon.
“Sono un buongustaio” ammise Tom, sghignazzando.
Mentre la nonna stava per replicare, tirando sicuramente in ballo la
storia d’amore fra lei e il marito sopravvissuta nonostante
guerre e lontananze, il campanello della porta annunciò
l’arrivo di nuovi ospiti.
“Finalmente!” trillò Simone, correndo
verso la porta “Ragazzi, ho una sorpresa per voi!”
Bill e Tom si scrutarono, perplessi. Una sorpresa?
Dopo pochi secondi, in salotto entrano tre persone, una donna, un uomo
e una ragazza, tutti coperti da pesanti cappotti e ingombranti sciarpe.
Quando si spogliarono degli abiti in eccesso, Bill e Tom si alzarono in
piedi, di scatto, e raggiunsero i tre nuovi arrivati.
Si trattava di Mathilde, Michael e la figlia Franziska, amici di
vecchia, vecchissima data della famiglia.
Bill e Tom ricordavano di pomeriggi interi passati con Franziska, a
parlare dei propri sogni e delle proprie paure e dei loro primi
batticuori, scatenati dalla ragazza che, nonostante le numerose avances
da parte di entrambi, non aveva ceduto facilmente.
E, quando lo aveva fatto, si era concessa solo a Bill. Era passato
tanto tempo, eppure i ricordi, nell’istante in cui Bill
incrociò i suoi occhi, si fecero strada nella sua mente.
Quattro anni prima…
“Vieni, sono solo. Tom è uscito con Andreas, mamma
e Gordon sono al lavoro e io mi sto rompendo”
Franziska aveva varcato la soglia della casa di Bill, timidamente. Non
era di certo la prima volta, anzi. Solo che il giorno prima, dopo un
pomeriggio trascorso a vagabondare per Loitsche, lei e Bill si erano
baciati.
Era stato un bacio casto, dapprima, quasi timoroso. Ma via via che le
loro bocche prendevano confidenza l’una con
l’altra, era diventato appassionato.
“Vieni, ti faccio sentire una cosa” le aveva detto
Bill, facendole strada verso la camera. Il disordine regnava sovrano,
come Franziska ricordava, il letto sfatto e i vestiti sparsi ovunque.
Gettando sulla scrivania un cumulo di indumenti, Bill l’aveva
fatta accomodare sul letto e aveva acceso lo stereo.
“Senti qui, io e i ragazzi l’abbiamo registrato
ieri”
Una melodia malinconica e struggente, aveva invaso la camera e
Franziska aveva chiuso gli occhi. Al termine, si era complimentata con
l’amico, che nel frattempo si era accomodato al suo fianco.
“E’ bellissima, Bill. Sono sicura che farete
strada, ne sono certa” le parole di Franziska erano state
provvidenziali, perché pochi mesi dopo la Germania avrebbe
visto nascere e crescere una delle band più famose della
storia tedesca.
“Sono felice che ti piaccia, spero tanto che riusciremo a
farcela”
Dopo pochi attimi di imbarazzato silenzio, i due ragazzi si erano
ritrovati stretti l’uno all’altra sul letto e,
complice l’atmosfera, si erano amati per la prima volta.
La loro breve relazione era durata pochi mesi, ma intensi.
Quando i Tokio Hotel cominciarono a spopolare e i gemelli furono
costretti a lasciare la scuola, anche il tempo da trascorrere insieme
venne meno.
Si lasciarono in un pomeriggio d’autunno, sulla stessa
panchina che aveva visto nascere la loro breve storia
d’amore, quella che li aveva visti scambiarsi il loro primo
bacio.
**
Rivederla ora, dopo quattro anni, scatenò in Bill una
tempesta di ricordi e rimorsi. Forse non si era comportato bene con
lei, forse avrebbe dovuto mantenere i contatti, in memoria dei vecchi
tempi.
Ma nonostante gli anni passati, Franziska non era cambiata. Certo, le
sue forme si erano arrotondate e l’adolescenza aveva ceduto
il passo alla maturità ma i suoi occhi verde smeraldo
brillavano come quando era una ragazzina.
Anche i suoi boccoli rossi erano li stessi e Bill provò
l’impulso di sfiorarglieli. La manciata di lentiggini che
aveva sul naso, inoltre, gli ricordavano la primavera e i fiori che
spuntano nei prati quando l’inverno finisce.
Dopo i convenevoli, i tre ragazzi si appartarono nella stanza degli
ospiti, per ritagliarsi un momento di intimità.
“Allora, superstar, che mi raccontate?”
esordì Franziska, sedendosi per terra su di un tappeto
bordeaux.
“Stiamo per conquistare il mondo” rispose Tom,
ridendo “Non lo sapevi?”
“Oh sì, certo. Mi tengo informata, che credete?
Ogni tanto sento Andreas, gli chiedo se ha delle novità
delle quali i giornali non parlano”
“Tutto come sempre, concerti, spostamenti, interviste,
incontri con le fan. Una vitaccia” rise Tom, di nuovo.
“Eh sì, proprio una vitaccia!”
commentò lei, ironica “E tu, Bill? Non hai ancora
detto una parola!”
“Io… io sto bene! E’ che non mi
aspettavo di vederti!”
“Tua madre ha pensato di farvi una sorpresa, invitandoci qui.
Le chiedo sempre di voi, anche se non ho mai avuto il coraggio di
domandarle il vostro numero di telefono”
“Potevi farlo! Voglio dire, anche se non ci vediamo da
secoli, abbiamo passato l’infanzia insieme”
mormorò Bill.
“L’infanzia e altro…” aggiunse
Tom, tossicchiando.
Franziska lanciò un’occhiataccia al rasta, mentre
Bill tossicchiò a sua volta, chiaramente a disagio.
“Su dai, sono certa che avrete un sacco di cose da
raccontare! Pagherei oro per visitare le città che avete
visto voi! Devo assolutamente sapere com’è Las
Vegas! Sogno di andarci da quando ho 10 anni!”
“Precoce, direi!” ridacchiò Tom.
Le restanti due ore, quelle che precedevano l’inizio della
cena della Vigilia, le passarono in quella stanza, cercando di
riassumere quattro anni di distanza in una manciata di ore. Fiumi di
parole che, in un modo o nell’altro, fecero scordare a Bill
tutto il resto.
Telefono compreso, che squillava incessantemente.
**
“Ti siedi? Mi stai facendo venire il mal di mare!”
Lea continuava a camminare, avanti e indietro, per la sua stanza,
mentre Mandy e Sue la osservavano, dubbiose e in silenzio, fino a
quando Mandy si era scocciata di quella processione a senso unico ed
aveva imposto all’amica di sedersi.
“Sono agitata. Non capisco perché diamine non
risponda! Lo sto chiamando da dopo pranzo! Dovrebbe essere da sua
madre, so che stasera hanno il cenone”
“Avrà il telefono altrove, Lea” la
rincuorò Sue “Non ti preoccupare”
“Non sono preoccupata per la sua sicurezza, ho solo un brutto
presentimento”
“Ovvero?” chiese Mandy, sistemandosi meglio sul
letto e facendo spazio a Lea.
“Non lo so, con precisione. Una sensazione strana”
“Lea, piantala! Non è successo nulla,
avrà semplicemente lasciato il telefono in qualche tasca del
giubbotto. Vedrai che ti chiamerà presto”
Mandy non si sbagliava, in effetti. O almeno, non del tutto.
Bill aveva davvero lasciato il telefono nella tasca del giubbotto,
appeso all’attaccapanni in legno della madre, ma non avrebbe
chiamato Lea quella sera.
**
Mancava poco più di un’ora all’inizio
del cenone della Vigilia. La casa profumava di buono, di pietanze
preparate con cura, l’armonia regnava sovrana e gli ospiti
chiacchieravano piacevolmente, sorseggiando il tradizionale Gluhwein,
tanto amato dai gemelli.
Tom aveva lasciato la stanza degli ospiti e, in
quell’istante, aveva intavolato una piccante discussione
politica con lo zio, tra un bicchiere di vino e l’altro.
Bill e Franziska, rimasti soli, si erano lasciati andare a discorsi
più intimi, complice il caminetto della stanza che
illuminava i loro visi, mentre fuori la notte aveva già
ceduto il posto al sole.
“Come stai?” chiese Franziska, avvicinandosi al
caminetto acceso.
“Bene, sto bene davvero”
“Ma no, non intendo fisicamente. Come stai in
generale”
“Stanco, ma soddisfatto. Faccio quello che ho sempre sognato
di fare e non mi manca nulla”
“Proprio nulla?” domandò la ragazza.
“No, sono felice. Beh certo, sento la mancanza della mia
famiglia, della Germania, però ci torniamo appena possiamo e
questo compensa, in parte, la nostalgia. E tu? Non ci hai detto nulla,
abbiamo parlato solo io e Tom!”
“Io?” Franziska si spostò una ciocca di
capelli dal volto e li sistemò dietro l’orecchio.
Con passo felpato, si avvicinò a Bill e si sedette sul
tappeto, accanto a lui “Io vivo. Insomma, non ho fatto di
certo nulla di spettacolare come voi, però sono felice. O
almeno, credo. Lavoro in una boutique di Berlino, volevo fare
l’Università ma pochi mesi prima
dell’inizio dei corsi ho cambiato idea, così mi
sono cercata un impiego che mi permettesse di rendermi indipendente.
Vivo ancora con i miei, però posso contribuire alle spese e
togliermi alcuni sfizi. Per la laurea, magari, ci sarà
tempo…”
“A scuola era la migliore, ho sempre pensato che avresti
avuto un grande avvenire”
“Beh, come vedi non è stato poi così
tanto grandioso! Ma va bene così, non ho nulla di cui
lamentarmi. Adesso manca solo l’amore”
voltò gli occhi in direzione di Bill e incrociò i
suoi.
“Già, ricordo anche la tua vena
romantica…” aggiunse il ragazzo, spostando lo
sguardo in direzione del fuoco che scoppiettava nel caminetto.
“Tu l’hai trovato?”
“Io? Io… non lo so”
Il viso di Lea gli comparve nella mente. Lea arrabbiata, Lea che voleva
tenere nascosta la loro relazione, Lea che non lo coinvolgeva nella sua
vita, che non capiva le sue necessità. Ma c’era
anche la Lea dolce, quella desiderosa di stargli accanto, la Lea che lo
aspettava all’aeroporto e che lo presentava alla sorella, che
trascorreva la notte con lui e gli dedicava parole d’amore.
“Ah ah!” proruppe Franziska “Dunque
c’è una ragazza…”
“Sì” mormorò Bill
“In effetti sì…”
“Ti va di parlarne? So che non sono affari miei, ma una volta
ci raccontavamo tutto… E’ vero, è
passato tanto tempo, ma sono sempre una buona ascoltatrice”
Bill le sorrise, affettuosamente: “Lo so, non sei cambiata
affatto. Ma non c’è molto da dire, l’ho
conosciuta questa primavera a Roma, durante le tappe italiane. Lavorava
in un locale e…”
“Colpo di fulmine?”
“Credo di sì. Solo che non è successo
nulla fra noi, fino a qualche tempo dopo. Ci siamo rivisti a Parigi e
lì…”
“A Parigi?!” chiese la ragazza, curiosa.
Bill rise nuovamente, mostrando i denti bianchi e perfetti:
“E’ complicato. Insomma, lei è venuta a
cercarmi in Francia, sapeva che avremmo suonato nella capitale. Per uno
strano gioco del destino, alloggiavamo nello stesso albergo e
così, così è iniziato tutto da
lì”
“Parigi” sospirò Franziska “La
città dell’amore…”
“Più o meno” sospirò il
ragazzo, giocherellando con gli anelli “Siamo stati insieme
un paio di giorni, poi lei è ripartita dicendomi che una
storia fra noi, non sarebbe stata possibile”
“E allora, perché cazzo è venuta a
cercarti fino a Parigi?” chiese Franziska, in tono sostenuto.
Era sempre stata diretta, forse troppo, ma quella era una delle
caratteristiche che, all’epoca, aveva fatto innamorare Bill.
“Aspetta, aspetta” la calmò Bill
“Dopo sei mesi, me la sono ritrovata a Berlino. Uno dei
giorni più belli della mia vita, credimi Zicky”
non usava quel nomignoli da anni, eppure in quel momento gli
uscì spontaneo e Franziska sorrise, compiaciuta ma senza
farglielo notare.
“Era tornata, quindi? Aveva cambiato idea?”
“Sì, era tornata. Certo, non è
così semplice. Lei abita in Italia, ci vediamo poco e spesso
non ci capiamo”
“Non mi sembra una storia felice, Bill. Scusa se te lo faccio
notare, ma questa faccenda è tutto tranne che
idilliaca”
“Raccontata così, forse lo sembra”
mormorò il ragazzo. Franziska si alzò,
infilò una mano nella tasca della felpa e ne estrasse un
pacchetto di sigarette. Si avvicinò alla finestra, la
aprì piano ed accese la Marlboro, aspirando una lunga
boccata di fumo.
“Da quando fumi?” chiese Bill.
“Da quando te ne sei andato” rispose, schietta.
Notando l’espressione sorpresa di Bill, aggiunse
“Non è stato per un senso di autolesionismo, ha
solo coinciso con quel periodo”
“Ah ecco…”
“Ma non cambiare discorso, stavamo parlando di te. Sei
innamorato oppure ci fai solo sesso?”
“Zicky! Ma…”
Bill l’aveva lasciata ragazzina ed ora la ritrovava donna.
Adesso aveva un lavoro, fumava, parlava di sesso senza arrossire e le
sue labbra erano velate da un tocco di rossetto.
“Non ho dodici anni, Bill! Non so se tu te ne sia accorto, ma
sono cresciuta anche senza te”
“Lo so, lo so. E’ solo così
strano…”
“Lo stai facendo di nuovo!” lo
rimproverò Zicky.
“Facendo cosa?”
“Tergiversando”
“Sì, sono innamorato e no, non facciamo solo
sesso” rispose, imbarazzato.
“Io non sono più stata con nessuno, lo sai? Voglio
dire, sono uscita con qualche ragazzo, ma non mi sono mai spinta fino a
quel punto. E’ che mi piace ricordare il sesso con
te”
Bill arrossì, violentemente, e benedisse il fatto che le
luci erano spente e solo il caminetto illuminava la stanza.
“Non pensare che mi sia strappata i capelli, dopo la tua
partenza. Certo, ho sofferto molto, ma è passato”
“Mi dispiace, Zicky. Detesto far soffrire qualcuno”
“Non è stata colpa tua, non era possibile
continuare una storia. Non si possono avere legami a distanza, Bill.
Non funzionano mai”
“Non funzionano mai”
ripetè Bill, mentalmente. E di nuovo, Lea invase la sua
mente.
**
Come al solito, grazie per i commenti! *_*
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Bill e Franziska vennero interrotti, nel bel mezzo della conversazione
da Simone, che annunciava loro la cena. La madre di Franziska,
vedendola spuntare al fianco di Bill, le lanciò
un’occhiata compiaciuta: Bill le era sempre piaciuto e
l’idea che la figlia riprendesse a frequentarlo, la
stuzzicava. Era stato importante per sua figlia, come lo sono tutti i
primi amori, quelli che fanno battere il cuore per la prima volta e
aiutano a scoprire quel sentimento tanto decantato.
Osservò la snella figura del ragazzo sedersi a tavola
accanto a Franziska, ridendo.
Forse, il Natale avrebbe portato un regalo speciale.
La cena durò quel tanto che bastava per far sì
che tutti gli ospiti fossero pieni come delle spugne e imbottiti come
un panino. Tom, brillo e sazio, si lasciò andare sul divano,
accanto al patrigno, mentre in tv davano uno speciale dedicato alla
musica rock dei primi anni ’70.
Franziska fece un cenno a Bill con la testa e lo invitò a
seguirla all’esterno. Bill afferrò il suo
cappotto, se lo posò sulle spalle e seguì
l’amica in cortile, che lo aspettava seduta sotto al
porticato con una sigaretta che le penzolava fra le labbra rosa.
“Ubriaco anche tu come Tom?” gli
domandò, facendogli posto sulla panchina.
“No, no. Niente alcolici stasera”
“Come mai? Fioretto natalizio?”
“No” ridacchiò Bill “Non ne
avevo voglia” a sua volta, estrasse le sigarette dalla tasca
del cappotto e ne accese una, con mani tremanti.
“Hai freddo?” chiese Franziska, vedendo le sue dita
tremolare come foglie al vento.
“Sì, parecchio. Forse perché dentro fa
tanto caldo…”
“O forse perché è inverno!”
rise Zicky, buttando indietro la testa e facendo oscillare la sua
chioma rossa “Comunque, prima siamo stati interrotti da tua
madre, ma non avevi finito di parlarmi di lei, o sbaglio?”
“Sbagli” rispose, grattandosi il mento con un dito
“Non c’è nulla da dire. So che i
rapporti a distanza sono difficili da mantenere e so anche che, spesso,
ci saranno incomprensioni fra noi, ma sono innamorato di lei”
“Eri innamorato anche di me, o no?” lo
stuzzicò Zicky.
“Sì…” balbettò il
ragazzo “Certo che sì”
“Eppure” aspirò una boccata di fumo e
riprese “la distanza ci ha fregato” scrollo di
nuovo la chioma e osservò Bill.
“Eravamo più giovani e inesperti. Forse non
eravamo pronti per una storia”
“Adesso lo sei?” chiese Zicky, gettando il
mozzicone ormai spento.
“Credo di sì. Lea è la cosa
più importante che mi sia capitata negli ultimi mesi o
addirittura, nella vita”
“Non scherzare!” ridacchiò Zicky
“Più importante di quello che hai raggiunto con la
band?”
“Sono due cose diverse, Zicky. Il punto è che Lea
è arrivata come un ciclone. Mi ha davvero
sconvolto” stava per aggiungere altro, ma l’arrivo
di Tom con il telefono in mano, lo interruppe.
“C’è Lea al telefono”
**
Lea, snervata per via di quel cazzo di telefono che continuava a
suonare a vuoto, decise di fare quello che non avrebbe mai voluto fare:
chiamare Tom. Fin da quando, per eventuali emergenze, Bill le aveva
lasciato anche il numero del fratello, si era ripromessa di non
chiamarlo. Non voleva essere noiosa e, soprattutto, sapeva che Tom non
nutriva grande simpatia per lei.
Ma ormai erano le undici di sera, Bill non rispondeva da tutta la
giornata e i dubbi e le preoccupazioni le si erano insediate nel
cervello come un tarlo.
Mandy era ancora con lei, avevano cenato insieme e aspettavano la
mezzanotte per scambiarsi i primi auguri di Natale. Sue, a cena con i
parenti, le avrebbe raggiunte poco dopo.
Afferrò il cellulare, compose il numero di Tom che non
teneva in rubrica, bensì scritto su un foglietto che
conservava nel cassetto del comodino e inoltrò la chiamata.
Il ragazzo rispose dopo qualche squillo:
“Sì?”
“Tom, sono Lea”
“Lea?”
“Sì, sto cercando tuo fratello”
“Un attimo, non so dove sia di preciso”
Lea udì, in sottofondo, rumore di risate, di piatti e di
passi. Poi sentì una porta aprirsi e richiudersi e la voce
di Tom che chiamava Bill.
“Te lo passo” mugugnò il rasta. Lea non
fece in tempo a ringraziarlo che già la voce di Bill le
perforò il timpano.
“Lea!”
“Lea un cazzo!” sbraitò, impulsiva come
al solito.
“Che succede?”
“E’ tutto il giorno che cerco di chiamarti! Si
può sapere dove cavolo eri?”
“Ho lasciato il telefono in tasca, non ho la suoneria
così non mi sono accorto che squillasse. Mi
dispiace”
“Cristo santissimo, mi è quasi venuto un colpo!
Non è da te non rispondere!” poi
addolcì il tono della voce e riprese “Tutto
bene?”
“Sì, sì! Tutto bene! Abbiamo mangiato
fino a scoppiare!”
“Grazie per il regalo, Bill. Mi sono commossa”
bisbigliò Lea.
“Sono felice che ti sia piaciuto. Temevo di essere noioso,
sai…”
“E’ magnifico, non avresti potuto scegliere regalo
migliore”
In quel momento, Zicky starnutì e si affrettò a
chiedere scusa a Bill. Lea udì la sua voce.
“Chi c’è con te?”
“Con me? Tom!” mentì il ragazzo.
“Non mi sembrava la voce di Tom”
“E’ raffreddato”
“Ah, capisco. Beh, ora devo scappare. Spero di sentirti
domani. A meno che tu non ti scordi il cellulare chissà
dove…” commentò, ironica.
“A domani, promesso”
Quando Bill ripassò il telefonino a Tom, Zicky lo
guardò negli occhi e sussurrò: “E
così, io sarei Tom?” prima di lasciarsi andare ad
una risata compiaciuta.
**
Tom voltò le spalle al fratello e a Zicky e
rientrò in casa, perplesso. E’ vero, Lea non gli
stava simpatica e detestava il modo in cui trattava suo fratello,
eppure in quel momento, si sentì solidale con lei. Non
riusciva a spiegarsi il motivo per il quale Bill avrebbe dovuto
mentirle, era sbagliato e ingiusto: Lea, tutto sommato, lo amava e Tom
ne era certo. Aveva nutrito dei dubbi circa i sentimenti della ragazza,
ma ora sapeva. Non c’era un motivo preciso, lo sapeva e basta.
Guardò l’orologio e notò che mancavano
pochi minuti alla mezzanotte, così si riaffacciò
alla porta e chiamo il fratello e Franziska, sapendo che di
lì a poco ci sarebbe stato il tradizionale brindisi.
L’unica cosa che vide, prima di ritornare in casa, fu un
abbraccio fra i due e quella visione lo infastidì.
**
“Buon Natale!”
“Buon Natale tesoro!”
Ormai era mezzanotte. Lea e Mandy erano in salotto, a casa di Lea, e si
erano appena scambiate i primi auguri di rito, insieme a Marie. Avevano
anche stappato una bottiglia di spumante e, sedute sul divano, lo
sorseggiavano dai calici di cristallo.
Cercavano di non fare troppo rumore per non svegliare Phil, che ancora
credeva a Babbo Natale e che, se si fosse accorto della presenza delle
ragazze e della madre in salotto, si sarebbe svegliato e avrebbe
preteso di aspettare l’arrivo del buon vecchio con la barba
bianca insieme a loro.
“Quando dirai a Phil che Babbo Natale non esiste?”
chiese Lea, rivolgendosi a Marie.
“Non lo so, credo che lo capirà da solo”
“Quando succederà, rimarrà
male” mormorò Lea.
“Può essere, ma fa parte del processo di crescita.
Per ora, lasciamolo sognare”
“Anche io credo che debba scoprirlo da solo” si
intromise Mandy “Sarà meno traumatico”
Mentre Mandy e Marie continuavano a parlare di Babbo Natale e affini,
Lea si perse nei suoi pensieri. Era mezzanotte e Bill non
l’aveva chiamata per gli auguri. C’era qualcosa di
strano, non sapeva cosa ma sapeva che era così.
“Oddio!” la voce squillante di Mandy, la riscosse
dalle sue divagazioni mentali.
“Che succede?” chiese Marie.
“Georg! Lea! Georg mi ha mandato un messaggio!”
Lea si avvicinò a Mandy e scrutò il display del
cellulare. Il messaggio era semplice, solo un “Ti auguro di
trascorrere un felice Natale”, ma incisivo. Fin dal primo
momento che lo aveva visto, Lea aveva intuito che quel ragazzo fosse
speciale. Non gli aveva fatto l’effetto che, invece, aveva
prodotto Bill in lei, ma gli occhi di Georg erano puri e onesti.
“E’ stato così carino! Adesso gli
rispondo, aspetta. Anzi no, lo chiamo!”
**
Georg e Gustav, poco dopo la mezzanotte, avevano raggiunto i gemelli a
casa di Simone. Ogni anno, la mamma di Bill e Tom li invitava per un
brindisi e perché, da che conoscevano Bill e Tom, per lei
erano come dei figli.
Bill aveva presentato Zicky ai suoi amici e ora, tutti e cinque,
sostavano all’esterno della casa, sulla panchina che poco
prima aveva visto Zicky e Bill abbracciati, e chiacchieravano
animatamente.
Vennero interrotti dallo squillo del cellulare di Georg, che si
allontanò di qualche passo per rispondere.
“Mandy!”
“Georg, ciao! Mi ha fatto così piacere ricevere il
tuo messaggio, che ho pensato di chiamarti!”
“Mi fa piacere sentirti! Come stai?”
“Bene, bene! E comunque, buon Natale! Che fai di bello? Sei
già ubriaco?”
“No, no!” rise il bassista “Sono da Bill
e Tom. Stiamo brindando”
“Ah sì? E dimmi un po’, non vai a caccia
di belle ragazze stanotte?” Mandy lo sentì ridere
e, in sottofondo, udì anche una risata che, a suo parere,
era sicuramente femminile, quindi aggiunse “O forse, non devi
andare tanto lontano”
“In effetti, c’è qui una ragazza niente
male! Ma non credo sia interessata a me”
**
Non appena Mandy udì quelle parole, cercò subito
di disattivare l’opzione del viva voce che aveva inserito per
permettere anche a Lea e a Marie di sentire la conversazione, ma ormai
il danno era fatto. Vide la faccia di Lea divenire rossa e
notò il le dita della sua mano destra stringersi intorno al
calice, fino a farsi diventare le nocche bianche.
“Mandy?” chiese Georg, non udendo risposta.
“Sc-scusa! Non ti sentivo bene! Ma… chi sarebbe
questa ragazza?”
“Una vecchia amica di Bill e Tom,
perché?”
“N-no, nulla…” balbettò Mandy
“Comunque, devo salutarti! Ancora buon Natale!”
spense in fretta il cellulare e si concentrò su Lea che,
immobile, fissava il pavimento.
“Lea?” Marie la guardò e, alzandosi dal
divano, lasciò il salotto in punta di piedi salutando Mandy
con la mano.
“Lo sapevo, non era Tom. Non era lui. Non ha starnutito lui,
prima. Era lei”
“Ma chi?”
“Quando ho chiamato Bill, prima. Qualcuno ha starnutito e ho
sentito una voce. Bill mi ha detto che si trattava di Tom, ma non era
lui. Era lei” nemmeno una lacrima, solo delusione.
“Non tiriamo conclusioni affrettate, Lea”
“Le tiro eccome. Se non avesse avuto nulla da nascondere, non
mi avrebbe mai mentito”
“Forse voleva evitare gelosie inutili”
“Beh, si è sbagliato. Mi ha mentito,
Mandy”
Il suono che segnalava un messaggio in arrivo, fece sussultare Mandy.
Lo lesse distrattamente e poi informò Lea
dell’imminente arrivo di Sue.
“Vieni, usciamo ad aspettarla. Un po’
d’aria ti farà bene”
Lea si alzò dal divano meccanicamente e seguì
Mandy fuori da casa, cercando di immaginarsi il volto della ragazza
che, con tutta probabilità, si stava prendendo un pezzo del
suo cuore.
**
Grazie a tutte le lettrici
e alle mie due fedelissime commentatrici *_*
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
“Chi era al telefono?” domandò Bill,
visibilmente brillo e con Zicky adagiata sulle ginocchia.
Georg si appoggiò al parapetto che delimitava
l’accogliente veranda all’esterno della casa di
Simone, estrasse il pacchetto di Marlboro dal taschino del giubbotto e
si accese una sigaretta, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi.
“Era Mandy, sai no? L’amica della tua
ragazza…” e solo in quel momento, il bassista
capì. Capì la curiosità di Mandy,
capì il silenzio che c’era stato quando lui aveva
parlato di Zicky e, soprattutto, capì di aver fatto una
cazzata, ma in maniera del tutto inconsapevole. Non si era ricordato di
Lea e del suo rapporto con Bill o meglio, non ci aveva badato. La
vedeva così poco al fianco dell’amico che era
facile scordarsi di lei. Tacque, mentre un allarmato Bill chiedeva
maggiori informazioni.
“Cosa ti ha detto? Cosa voleva? E’ successo
qualcosa?” parlava velocemente, gesticolando. Si
alzò in piedi, obbligando Zicky a spostarsi e
squadrò Georg “Allora?”
“Ci siamo fatti gli auguri” balbettò
Georg, mentre Tom e Gustav ridevano, nascosti dietro all’alta
figura di Bill.
“Tutto qui?”
“Ho parlato della tua amica, Bill. M-mi è
scappato!”
Una risata fragorosa spezzò il silenzio. Tom era piegato in
due, una bottiglia di birra in una mano e l’altra sullo
stomaco.
“Che cazzo ridi?” sbraitò Bill.
“Te la sei cercata! Questa volta, sono cazzi tuoi
fratellino” Tom, ormai ubriaco, continuava a ridere seguito a
ruota da Gustav. Georg cercava di trattenersi, con scarsi risultati
però. Zicky, invece, non diceva nulla. Osservava la
situazione e, di tanto in tanto, si concentrava
sull’espressione di Bill ed intuiva il suo umore.
“Fanculo, Tom! Cazzo” lascò gli amici in
veranda ed entrò in casa, chiudendo malamente la porta.
Doveva andare in bagno, sciacquarsi la faccia, respirare a pieni
polmoni e pensare. Era certo che Lea gli avrebbe fatto una sfuriata
gigantesca e sapeva che si sarebbe anche accorta, o forse se
n’era già accorta, della bugia che aveva inventato
poche ore prima.
Abbassò la tavoletta del cesso e si sedette, appoggiando i
gomiti alle ginocchia e prendendosi la testa fra le mani. Doveva
pensare.
Era vero, le aveva mentito. Le aveva detto una sciocca bugia, inutile
fra l’altro. Ma Lea, delle volte, lo induceva a mentire. Quel
suo carattere così impulsivo, quelle sfuriate delle quali si
pentiva subito dopo, lo mettevano quasi in soggezione.
E poi, doveva ammetterlo, fino a quel momento la serata era stata
così piacevole che non aveva avuto voglia di spiegare a Lea
di Franziska e della loro amicizia di vecchia data. Glielo avrebbe
detto poi, di sicuro. Le aveva regalato un biglietto di sola andata per
Berlino che, sperava, avrebbe utilizzato appena dopo il Natale e quando
l’avrebbe rivista, si sarebbe confidato con lei raccontandole
di Zicky e della loro vecchia storia. Storia della quale Lea non si
sarebbe dovuta affatto preoccupare. Era un capitolo chiuso. Forse.
**
Zicky bussò piano alla porta del bagno, di legno scuro.
Sentì la voce di Bill chiedere chi fosse, in tono
leggermente seccato ma, quando udì la risposta, si
affrettò ad aprire e a farla entrare.
“Scusa il tono, credevo fosse Tom”
esordì, sedendosi di nuovo sul cesso.
“Cos’è, il tuo trono quello?”
scherzò Zicky, ridendo.
“E’ il pensatoio. Si pensa meglio al
cesso” ridacchiò il ragazzo, anche se di
malavoglia.
“Senti, mi spiace per quello che è successo
stasera. Non era mia intenzione creare problemi fra te e la tua
ragazza”
“Ma che dici?” alzò gli occhi verso
Zicky e sorrise “Non è colpa tua e non
è nemmeno colpa di Georg. Non avrei dovuto dire quella
sciocca bugia. Da una cazzata simile, potrebbe venir fuori un
pandemonio” sbuffò.
“Gelosina, eh?” insinuò Zicky,
accomodandosi sull’orlo della vasca da bagno e accavallando
le gambe. La gonna si alzò leggermente, mettendo in mostra
le cosce toniche velate da un paio di collant nere, sottili.
“Un po’… ma lo sarei anche io se
scoprissi che mi ha mentito su qualcosa”
“L’hai chiamata?”
“No, adesso è troppo tardi. La chiamerò
domani, con calma” si portò di nuovo le mani sulla
testa e si massaggiò le tempie.
“Stai male?” chiese Zicky, alzandosi e andandogli
di fronte.
“Mal di testa. Ho bevuto qualcosina di troppo”
“Senti Bill” Zicky gli spostò le mani
dalla testa e si fece largo fra le sue braccia, sedendosi nuovamente
sulle sue ginocchia “Ci conosciamo da tanto tempo e, in
qualità di tuo primo amore” sorrise dicendolo
“mi sento in dovere di dirti che questa storia ti sta
lacerando”
Bill non disse nulla, si limitò ad osservarla,
così Zicky proseguì.
“Capisci che non si risolverà mai nulla? Tu sarai
sempre in giro, si verificheranno altre situazioni nelle quali sarai
costretto a mentire per non farla arrabbiare e, prima o poi, la vostra
relazione diverrà un concentrato di recriminazioni.
E’ questo che vuoi? Beh, io non lo vorrei se fossi in te.
Dici di amarla, questo è vero. Ma se la amassi seriamente,
in modo totale e puro, adesso saresti qui con me?”
sbatté le palpebre e sorrise.
“Ma io la amo e non sono qui con te perché non
voglio stare con lei. Nemmeno sapevo che…”
“Bill, non l’hai nemmeno chiamata per augurarle
buon Natale” lo interruppe “A mezzanotte hai
brindato con noi e ti sei scordato di lei. Seriamente parlando, io non
credo che tu sia innamorato. Secondo me, sei molto affezionato a lei,
ma l’amore è tutt’altra cosa”
Bill continuava a tacere.
“Non voglio farti soffrire, ma tu hai bisogno di una persona
diversa. Di qualcuno che ti sostenga, che non ti pressi, che gioisca
dei tuoi successi senza pretendere di essere il centro del tuo
universo. E io conosco la persona adatta” si chinò
lentamente verso di lui e cercò le sue labbra.
**
“Mi ha mentito!”
Lea sbraitava, chiusa nella macchina di Sue con le amiche che cercavano
di farla ragionare.
“Non c’è nulla che voi possiate dire o
fare per mettermi in condizione tale da cambiare idea! Mi ha mentito! E
io non lo tollero! Cosa dovrei pensare?”
“Lea, credo che non volesse scatenare inutili
gelosie” bisbigliò Sue “Conoscendoti,
l’avresti riempito di insulti se ti avesse detto che una
vecchia amica era con loro”
“Non è vero! Avrei solo chiesto di chi si
trattasse”
“Sai che non è così” si
intromise Mandy “Ti saresti incazzata e forse, gli avresti
sbattuto il telefono in faccia. Guarda che, anche se ti adoro
ugualmente, devo ammettere che non hai un carattere facile! Scatti come
una molla subito, sei impulsiva e talvolta nevrotica!”
“Lo so! Lo so, ho un mare di difetti
ma…” gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Non hai un mare di difetti” aggiunse Sue,
accarezzandole una mano “Hai qualche difetto come tutti. Ma
il punto non è questo. Il punto è che adesso ti
calmi, dormi e domani ne parli con lui. Anzi, visto che ti ha regalato
un biglietto di aereo, il 26 parti e lo raggiungi a Berlino”
“Non se ne parla” rispose Lea, asciugandosi le
lacrime con la manica del giubbotto “Quel biglietto me lo
mangio! Non ho intenzione di raggiungerlo. Che cazzo ci vado a fare?
Per litigare tutto il tempo e tornare a casa dopo due ore?”
“Certo che se parti con l’intento di
litigare…” commentò Mandy.
“Come vorrei sapere chi è quella. Voi non
immaginate nemmeno cosa mi sento nello stomaco! E’ come se
una massa di cemento mi stesse soffocando, come se avessi dei serpenti
in pancia” gesticolava, toccandosi lo stomaco ripetutamente.
“Gelosia” sentenziò Sue, pragmatica
“Ma attenta Lea, quando è troppo può
anche danneggiare i rapporti”
Passarono ancora qualche minuto in auto, poi si scambiarono di nuovo
gli auguri e si salutarono. Quando Lea toccò il letto, cadde
in un sonno profondo, popolato da incubi scuri nei quali una bella
ragazza si prendeva ripetutamente gioco di lei.
**
La mattina di Natale era arrivata e, con essa, i primi timidi fiocchi
di neve che, nell’arco di poco ore, si fecero coraggio e
presero a scendere con foga, come se qualche presenza invisibile avesse
sussurrato loro “Coraggio, c’è bisogno
di bianco laggiù”.
Ed ogni cosa era bianca, quando Lea si affacciò alla
finestra appena sveglia, stropicciandosi gli occhi ancora impastati di
sonno.
Bianco ovunque, come un foglio immacolato, come le pagine di un diario
nuovo, come il latte fresco in una tazza.
I figli del vicino di casa giocavano in cortile, mentre i genitori li
osservavano, orgogliosi, abbracciati l’uno
all’altra.
Inevitabilmente, quell’attimo di tenerezza rubato ad una
coppia a lei pressoché sconosciuta, le fece pensare a Bill.
E all’improvviso, si sentì tutta quella neve
schiacciata sul petto, pesante, soffocante e gelida.
E pensare che, solo la mattina prima, scartando il regalo che Bill le
aveva inviato, si era sentita talmente felice che i suoi occhi si era
riempiti di lacrime di gioia. Ora, niente lacrime. Era troppo furente
persino per quelle, oltre ad sentirsi arida e incapace di provare
qualsiasi cosa, proprio come lo era stata prima di Bill.
Era buffo pensarci adesso, ma se cercava di tirare le somme della sua
vita, era semplice dividerla in due: un “prima” e
un “dopo”. E il comun denominatore era sempre Bill.
C’era Lea “prima di Bill” e
c’era Lea “dopo Bill”.
Nella sua mente, proprio mentre si allontanava dalla finestra per
raggiungere il bagno, si affacciò una domanda: e ora, che
cosa ci sarebbe stato?
**
Bill, invece, non aveva dormito affatto. Si era girato e rigirato nel
letto tutta notte, pensando a quella che era accaduto in bagno, solo
poco prima di andare a dormire.
Anche quando la fioca luce invernale invase la stanza, si
ritrovò a pensare a Zicky sulle sue ginocchia, che si
chinava verso di lui in direzione delle sue labbra e a quello che era
successo dopo.
“No Zicky!” le aveva detto, deciso. La ragazza si
era spostata, senza insistere e si era alzata, restando in piedi di
fronte a lui “Non voglio”
“Pensavo di avrebbe fatto piacere scordarti dei tuoi guai per
qualche ora”
“Non è così che me li scordo, non
facendo qualcosa di cui mi pentirei per la vita”
“Ti pentiresti di venire a letto con me?” aveva
chiesto la ragazza, piccata.
“Sì, perché non sarei a posto con la
mia coscienza e tu lo sai” si era alzato dal cesso, aveva
oltrepassato la figura snella di Zicky e, prima di uscire dal bagno, le
aveva detto “Mi dispiace, non era così che doveva
finire. Rincontrarti è stato bellissimo, mi sono divertito
molto questa sera, ma adesso devo andare. Sarebbe stato uno sbaglio e
basta”
“Non lo puoi sapere se nemmeno provi”
“C’è Lea, Zicky. E lei vale molto
più di una notte di divertimento”
“Parole Bill, solo parole. Le dichiarazioni d’amore
sono bravi tutti a farle” lui non aveva risposto,
così Zicky ne aveva approfittato “Lea di qui, Lea
di là, ma intanto questa Lea in Germani non
c’è mai”
“Non credo siano affari che ti riguardano”
“Fai come ti pare. Ma nel caso ti rendessi conto che questa
storia non avrà futuro, sai dove trovarmi” e poi,
con fare deciso, lo aveva a sua volta sorpassato, aveva posato la mano
sulla sua stringendogliela ed era uscita dal bagno, lasciandolo solo.
Adesso, in quel letto troppo vuoto, si chiedeva se Zicky non avesse
avuto sempre ragione.
**
Il celebre rito dello scambio di doni accanto all’albero di
Natale, si era da poco concluso in casa di Lea. Phil giocava beato con
tutto quello che aveva ricevuto dalla madre, dalla sorella e dai nonni,
mentre Marie preparava il primo caffè della giornata. Il
cellulare di Lea, canticchiò le prime strofe della stessa
suoneria, Wish you were here dei Pink Floyd, ormai un cult da quando
Bill era entrato nella sua vita, perché nulla esprimeva
meglio i suoi sentimenti di quella canzone.
Quando il nome del cantante comparve sul display, Lea trattene a stento
una bestemmia. Rispose frettolosamente, rischiando di schiacciare il
tasto sbagliato.
“Cosa c’è?” grugnì.
“Lea, dobbiamo parlare. Ti prego di lasciarmi spiegare senza
arrabbiarti”
“Senti Bill, non ho voglia di sentire spiegazioni inutili.
Quindi, andiamo dritti al sodo. Perché mi hai
mentito?”
Il ragazzo deglutì e rispose: “Non volevo che ti
facessi strane idee. Se ti avessi parlato di Zicky, sicuramente ti
saresti arrabbiata”
“Chi è lei?”
“Una vecchia amica”
“Dimmi chi è veramente”
“Te l’ho detto”
“O mi dici chi cazzo è questa Zicky oppure puoi
anche fare a meno di spendere altri soldi per questa
telefonata”
“E’ stata la mia prima ragazza. Ci siamo lasciati
quando siamo diventati famosi perché i miei impegni e la
lontananza…”
“Ho capito” Lea non lo lasciò finire
“E guarda caso, compare proprio la notte della vigilia.
Avrete giocato a carta tutta sera, vero? Ah no scusa, non carte.
Monopoli”
“Non mi hai lasciato finire”
“Non ne ho voglia. Per me la storia finisce qui. In
settimana, ti rispedisco il bracciale e il biglietto. Non chiamarmi
più”
Dopo queste parole, Bill udì solo un desolato silenzio.
**
Vorrei ringraziare Nataly e Jiada, due nuove commentatrici!
Grazie di cuore, ragazze! E, come al solito, grazie a tutti coloro che
leggono e alle mie fedelissime commentatrici xD
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Preso dal panico, tentò subito di ricomporre il numero della
ragazza, ma il cellulare di Lea risultava spento. Riprovò
nuovamente, ma nulla. Imprecando, lo scaraventò sul letto e
raggiunse il bagno, intenzionato a farsi una doccia che, sperava,
risultasse chiarificatrice.
Dopo aver passato quindici minuti sotto al getto caldo della doccia,
avvolto solo dal profumo del suo sapone preferito, decise di uscire. Si
avvolse un asciugamano in vita e prese a tergersi i capelli corvini,
per poi spazzolarli con cura e passare all’asciugatura.
Teneva in modo maniacale alla sua chioma, specie nei momenti di
nervosismo, quando pensava che prendersi cura dei proprio capelli, lo
avrebbe distratto dal pensare a quello che non andava per il verso
giusto.
Decise quindi di impegnarsi e lisciarli alla perfezione, per poi
vestirsi di tutto punto e completare l’opera con un velo di
mascara e un deciso tratto di eyeliner.
Quando uscì dalla stanza, seguito da una scia di profumo, si
imbatté in Tom, appena sveglio.
“Ma dove vai?” domandò il rasta,
sbadigliando.
“A fare due passi”
“Ma è la mattina di Natale”
“Quindi?”
“Quindi, dove cazzo vai? Se aspetti cinque minuti, mi cambio
e vengo con te”
Bill sbuffò, ma decise di aspettare il gemello.
Tom, dal canto suo, aveva perfettamente capito che qualcosa turbava
l’animo del gemello e, colto da quell’istintivo
senso di protezione che si impossessava sempre di lui, quando si
trattava di Bill, aveva deciso di non lasciarlo solo.
Per strada, diretti verso il bar più vicino a casa della
madre, Bill raccontò al fratello dell’incontro con
Zicky la sera prima e della telefonata fatta a Lea, con conseguente
reazione della ragazza.
“Cosa ti aspettavi?” domandò Tom,
giocherellando con il piercing.
“Scusa?”
“Ho detto, cosa ti aspettavi? Le hai mentito, non ti sei
fatto sentire per un giorno intero, hai fatto il cretino con Zicky,
voglio dire… qualsiasi ragazza alla quale importi qualcosa
di te, si sarebbe infuriata” raggiunsero il bar e si
accomodarono ad un tavolino appartato, ordinando due cappuccini caldi
con due brioche alla crema.
“Sbaglio o una volta Lea non ti piaceva?”
domandò Bill, spiazzato dalla risposta del fratello.
“Lea non è di certo la mia migliore amica e
continuo ad avercela con lei per certi suoi atteggiamenti duri e
severi, eppure questa volta sto dalla sua. Sono certo che lei ti ami
più di qualsiasi altra cosa al mondo e non chiedermi come
faccio a saperlo, perché non saprei risponderti. So che
è così e basta” poi rise sommessamente.
“Che c’è?” domandò
Bill.
“Non è da me parlare in questo modo, lascia
stare” scosse la testa e fece un gesto di diniego con la
mano. Un cameriere visibilmente annoiato, portò loro i
cappuccini e le brioche e si allontanò velocemente.
“Cosa dovrei fare?”
“Dalle tempo, adesso sarà furiosa”
“E se non dovesse tornare più?”
“Non lo so,Bill. Non lo so… non sono mai stato
innamorato, non so cosa si prova quando la persona che desideri
più di ogni cosa, ti lascia. Suppongo non sia nulla di
piacevole”
“No, non lo è per niente”
sbuffò il ragazzo, portandosi la tazza alle labbra e bevendo
un sorso di cappuccino caldo “Deve tornare, deve tornare per
forza Tom, falla tornare” mormorò.
**
Lea era uscita di casa, lasciando Marie e Phil alle prese con la
preparazione della tavola. Di lì a un’ora, sua
madre ed Edward li avrebbero raggiunti per festeggiare il Natale
insieme. Marie era un fascio di nervi, ma per amore del figlio aveva
accettato di invitare i nonni.
Roma era allegra, scoppiettante. Visi sorridenti, grida festose di
bambini, una melodia natalizia. Lea passeggiava con la testa bassa, le
mani nelle tasche del giubbotto e una pesante sciarpa avvolta intorno
al collo, che le lasciava scoperti solo gli occhi.
Are you sure you’re
there alone?
L’i-pod nelle orecchie, che continuava a suonare sempre la
solita canzone, non la distraeva dai pensieri che si affollavano nella
sua testa. Il cuore le scoppiava in petto, gonfio di lacrime che i suoi
occhi si ostinavano a non voler versare. Aveva già pianto
troppe volte per quella storia, era ora di cedere il passo ai sorrisi.
Ma l’impresa non era di certo delle più semplici.
Hello.
Do you miss me?
I hear you say you do
But not the way I'm missing you
E chi l’avrebbe mai detto che una ragazza si sarebbe messa
tra loro? Beh sì, Bill aveva quotidianamente a che fare con
migliaia di ragazze, ma una volta Lea aveva davvero creduto di essere
l’unica. Chissà perché? Del resto lui
era un uomo come tutti gli altri. Bellissimo, simpatico, carismatico e
intelligente, ma pur sempre un uomo. Eppure aveva sperato che fosse
diverso, che non si comportasse come gli uomini della sua famiglia, che
avevano abbandonato la baracca lasciando le loro compagne sole.
Pensò a sua madre, pensò a Marie. Edward era
tornato, è vero. Ma dopo quanti anni e dopo quanti pianti?
Pensò anche che, in questo caso, era stata lei a lasciarlo e
non viceversa, ma la sua era stata una scelta obbligata. Preferiva
vivere senza di lui piuttosto che sapere di doverlo dividere con
un’altra e fingere di non saperlo.
Sentì di nuovo la voce di Bill che cercava di spiegarsi e
cercò di immaginarsi il suo viso. Era triste, era
arrabbiato, dispiaciuto o semplicemente sollevato? Si accorse, con
orrore, di non riuscire ad immaginarsi la sua espressione. Solitamente,
sapeva associare il viso di Bill con relativo movimento ad ogni
sensazione, ma questa volta no. Questa volta, Lea scoprì di
non sapere cosa realmente provasse il ragazzo. Si fermò sul
ciglio della strada, estrasse il pacchetto di sigarette dalla tasca e
ne accese una.
Dall’i-pod, Courtney Love cantava “Never gonna be
the same” e la ragazza si trovò pienamente
d’accordo con la cantante.
Nulla sarebbe più stato lo stesso, senza di lui. Non sarebbe
stato più lo stesso fare tardi chiacchierando, prendersi a
cuscinate in camera da letto, dare un bacio per la voglia, anzi no, per
l’impellente BISOGNO di sentire le sue labbra sulle proprie,
non sarebbe più stato lo stesso perché ognuna di
queste cose avevano uno scopo solo se fatte con lui.
Do you know?
Can you feel it?
Do you feel me?
Si ritrovò a parlottare da sola, rivolgendosi ad un Bill che
non era davanti a lei, mentre i pochi passanti che le camminavano
accanto, la guardavano perplessa.
Un flashback la riportò all’aeroporto, solo
qualche settimana prima e alla gioia che aveva provato vedendolo
arrivare, nascosto dietro agli occhiali da sole. Non ci sarebbero
più stati aeroporti affollati, abbracci in mezzo alla gente,
saluti davanti ai check-in, telefonate nel cuore della notte per via
dei fusi orari. Semplicemente, non ci sarebbe stato più
Bill. Non per lei, almeno.
Quando rincasò, l’allegra famiglia era
già seduta intorno al tavolo e aspettava solo lei. Marie era
alla finestra, preoccupata, mentre Phil sedeva accanto al nonno e gli
mostrava tutti i giochi ricevuti.
“Dove diamine sei stata?” sbottò Marie
“Mi ha fatta preoccupare! E il telefono, dove cazzo ce
l’hai?” il tono perentorio e scontroso di Marie,
fece rabbuiare i presenti. Lea invece non se la prese: sapeva che la
sorella aveva i nervi a fior di pelle a causa della presenza di Edward,
così si limitò a scusarsi sottovoce, per poi
sedersi a tavola.
Per tutta la durata del pranzo parlò poco e di malavoglia.
Phil monopolizzava la conversazione ed Edward gli stava dietro, felice
di dialogare con il nipote ritrovato. Solo al termine del pranzo,
quando le tre donne rimasero sole, Marta prese la parola.
“Adesso che tuo padre e Philip non ci sono, posso anche
chiedertelo” esordì, rivolgendosi a Lea
“Quel tuo ragazzo famoso” e nel dirlo,
gesticolò come se fosse alla ricerca del nome “di
cui non ricordo il nome, che fine ha fatto?”
Lea si pentì in un istante di averle raccontato di Parigi.
Soprattutto perché non l’aveva poi più
aggiornata. La madre non sapeva del loro riavvicinamento, non sapeva
della visita romana di Bill e non sapeva nulla di quello che era
successo solo poche ore prima.
“Vive la sua vita, come faccio io” rispose, evasiva.
“So che sei stata a Berlino, il mese scorso”
asserì Marta, mentre caricava la lavastoviglie.
“Lo so che lo sai. Sono anche tornata per colpa di
Edward”
“Sei tornata perché hai voluto tornare”
“Lasciamo perdere questo discorso, mamma. Non voglio litigare
con te proprio oggi” la ammonì Lea “Ad
ogni modo, è finita così come è
iniziata”
“Ovvero?” chiese Marta, mentre Marie strabuzzava
gli occhi.
“In un lampo” poi bevve il caffè tutto
d’un sorso e sparì dalla cucina.
**
Bill e Tom avevano pranzato con la famiglia, ancora riunita al gran
completo a casa di Simone e Gordon. Mancavano solo Zicky e la sua
famiglia, ripartita la sera prima proprio dopo l’incontro tra
la ragazza e Bill in bagno.
Bill non aveva proferito parola, tirando in ballo la stanchezza e i
bagordi della serata precedente, credendo fossero una scusa plausibile.
Il rito dello scambio dei regali era l’unico momento della
giornata che lo aveva galvanizzato: vedere la gioia negli occhi della
madre e del fratello, quando aveva consegnato loro i doni che aveva
scelto per loro, era una gioia che lo ripagava, seppur in minima parte,
della sofferenza causatagli dalla discussione avuta con Lea.
A Simone, aveva deciso di regalare un prezioso gioiello di Damiani,
comprato mesi e mesi prima, in occasione della data italiana, proprio
il giorno in cui aveva conosciuto Lea.
Per Tom, invece, aveva comprato una felpa di Karl Kani, la marca che il
suo gemello indossava quasi quotidianamente, fatta fare su misura e in
esclusiva per lui. Questo era uno dei vantaggi dell’essere
pieno zeppo di soldi.
In ultimo, aveva regalato l’intera collezione di dischi dei
Led Zeppelin a Gordon che, nonostante li possedesse già
tutti, ammise di averne persi la metà durante il trasloco e
di essersi scaricato la discografia da Internet. Tutto sommato, avere
quelli originali lo riempì di gioia e ringraziò
il figliastro con un lungo abbraccio.
“Sapevo che li avevi smarriti” ridacchiò
Bill “Qualcuno me ne aveva parlato” concluse,
sorridendo in direzione di Simone.
Per il resto dei parenti, qualche pensierino e tanti abbracci. Ma,
fatta eccezione per questo breve interludio, null’altro lo
mise di buonumore.
Quando lui e Tom rimasero soli, fuori sulla veranda, Bill espresse la
sua decisione al gemello: “Domani mattina vado a
Roma”
“Tu sei fuori di testa” rispose Tom.
“Lei non verrà mai a Berlino, ne sono certo. Forse
avrà già anche stracciato il biglietto, per non
cadere in tentazione. So dove abita, so come fare per raggiungerla e
non ho intenzione di restarmene qui con le mani in mano, mentre la cosa
più bella che mi sia capitata si allontana da me”
“Mi sa tanto di romanzo d’amore di bassa lega,
Bill” ridacchiò Tom.
“Non mi interessa, anche se questa faccenda ha preso una
piega inaspettata, sono deciso a risolverla. Voglio che mi dica in
faccia che fra noi è tutto finito”
“Se tu vai a Roma, ci vengo anche io”
“Cosa?”
“Sono moralmente costretto ad accompagnarti”
“Dobbiamo avvisare David e Saki. Il 27 dobbiamo presentarci
in studio e dubito che riusciremo a farlo”
“Cazzo è vero, me l’ero
scordato” sbottò Tom “No Bill, allora
non possiamo. Non ho intenzione di mandare a puttane il lavoro, abbiamo
sempre detto che la band viene prima di tutto”
“L’ho sempre pensato, ma quando lo dicevo non
sapevo dell’esistenza di Lea”
**
“Tu, lasciatelo dire, sei deficiente!”
Mandy, seduta al tavolo di un bar con Lea e Sue, parlava gesticolando
vistosamente. I suoi occhi, di solito splendenti e sorridenti, erano
chiusi a formare una fessura e, a completare l’opera, mancava
solo la fuoriuscita di fumo da naso e orecchie.
Sue annuiva con la testa, senza osare ad interrompere Mandy, mentre Lea
teneva lo sguardo fisso sulla tovaglia rossa e stringeva le mani
attorno ad una tazza di the al limone.
“Io non so più che cavolo fare con te, Lea! Dico
io, hai avuto la fortuna di conoscere un ragazzo che ti ama come nessun
altro al mondo, per la prima volta nella tua vita ti sei resa conto che
c’è dell’altro al di fuori della tua
solita esistenza, lui non esita a sfidare orde di fan urlanti solo per
raggiungerti e tu che cazzo fai? Lo lasci!” si
portò una mano alla fronte, chiuse gli occhi e scosse la
testa “Dimmi cosa ti ha detto il cervello! Lo devo
sapere!”
“Mi ha tradita” mormorò Lea.
“Non lo sai! Tu non lo sai perché non lo hai
lasciato parlare!”
“Mi ha mentito, questo lo so”
“Non è abbastanza, Lea. Non doveva dirti una
cazzata, su questo siamo pienamente d’accordo. Poteva evitare
di inventarsi una bugia così grossolana, ma da qui a dire
che ti ha tradito, ne passa…”
“… di acqua sotto i ponti” concluse Lea
“Lo so, lo so”
“Se lo sai, mi spieghi perché cavolo
l’hai lasciato?”
“Sono stanca di tutta questa storia. Non credevo fosse
così complicato stare con lui, o forse lo sapevo ma speravo
di sbagliarmi”
“E’ complicato come tutte le cose, Lea. Ogni cosa
è difficile, se non la si prende per il verso
giusto”
“Così” disse Lea, dopo aver sorseggiato
del the “Non avrei preso Bill per il verso giusto?”
“Non hai preso per il verso giusto l’intera
vicenda, oltre che Bill. Tu sei partita con quella sciocca idea in
testa” Lea, udendo quelle parole, corrucciò la
fronte, così Mandy si affrettò a spiegare
“Inutile che fai quella faccia! Lo sai bene a cosa mi
riferisco. Tu sei sempre stata convinta che sarebbe stato impossibile
stare insieme, perché lui era famoso e tu no,
perché lui era sempre in viaggio e tu a Roma.
Così facendo, non hai mai lasciato spazio ad altre
riflessioni. Hai fatto una cazzata, amica mia. Fossi in te, correrei da
lui”
“Non ci penso proprio”
“Non venire a piangere da noi quando scoprirai di aver perso
una persona, no anzi, LA persona più importante della tua
vita” disse Mandy, decisa.
“Non è LA persona più importante della
mia vita. Ce ne sono altre, oltre a lui”
“Ti sbagli. Lui ti ha cambiato la vita come nessuno era mai
riuscito a fare. Ci sono altre persone importanti, lo so, ma nessuna ha
fatto per te quello che è stato in grado di fare lui.
Pensaci bene”
**
Innanzitutto, grazie anche ad Edda per essersi aggiunta alle
commentatrici!
Ci terrei, inoltre, a precisare che le canzoni citate in questo
capitolo sono "Kiss the rain" di Billie Myers e "Never gonna be the
same again" di Courtney Love.
Come sempre, grazie a tutti! *_*
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
“Mi raccomando, appena arrivi chiama!”
Sue e Mandy avevano scaricato Lea all’aeroporto di Fiumicino
e ora la osservavano allontanarsi verso il check-in, con le spalle
leggermente ricurve, mentre si tirava dietro un pesante trolley nero.
Dopo la chiacchierata del pomeriggio precedente, insieme alle amiche,
si era convinta. Non aveva ancora perdonato Bill, ma ammetteva di non
avergli lasciato nessuna possibilità, non l’aveva
fatto parlare e non si era nemmeno preoccupata di rispondere alle sue
chiamate.
Per tutta la durata del viaggio aereo, continuava a pensare a lui, a
tutto quello che avevano passato, all’amore che provavano
l’uno per l’altra (lei era arrabbiata,
tremendamente arrabbiata con lui, ma era impossibile negare di amarlo),
alle sere che si era addormentata immaginando di averlo accanto e a
quelle in cui lui c’era stato davvero.
Quando la hostess avvisò i passeggeri
dell’imminente arrivo, Lea pensò che non aveva
avvisato nemmeno Tom del suo arrivo e un moto di preoccupazione si
impossessò di lei: e se i gemelli non fossero stati a
Berlino?
“Stupida idiota!” pensò, sentendo una
fitta nello stomaco. Ma ormai, si era acceso il segnale che indicava ai
passeggeri di allacciarsi le cinture.
**
“Oh, appena arrivi chiamami!”
Tom aveva accompagnato Bill all’aeroporto di Berlino, dopo
una serata passata a riflettere circa la possibilità di
seguirlo a Roma. Il volo sarebbe partito di lì a poco e Bill
era spaventosamente in ritardo.
“No Tomi, non voglio obbligarti a seguirmi. Goditi questi
giorni di ferie. E chiedi ancora scusa a David e ai ragazzi. Ti
prometto che tra due giorni sarò di ritorno” gli
aveva detto, la sera prima per poi, sconsolato, aggiungere
“Se non subito…”
“Si sistemerà tutto, vedrai. Quando
scoprirà che hai mollato anche la band per andare da lei, si
addolcirà” lo aveva rassicurato il gemello
“Qualsiasi ragazza apprezzerebbe un gesto simile”
Con mille dubbi e un po’ di paura, ma con tanta speranza,
Bill si era incamminato verso il check-in, voltandosi solo una volta
verso il gemello per salutarlo con la mano.
**
Mentre Tom usciva dall’aeroporto e si dirigeva al parcheggio,
dove aveva lasciato la sua imponente Cadillac, scorse una figura
famigliare fra la folla. Era ferma di fronte al parcheggio dei taxi,
indossava un giubbotto nero che le arrivava alla vita, un paio di jeans
scoloriti e ai piedi delle Converse viola. Non aveva né
cappello né cappuccio in testa e i fiocchi di neve che
avevano cominciato a scendere già dalla sera prima, le si
impigliavano fra i capelli neri.
Il primo impulso di Tom, fu quello di voltarsi e correre verso
l’ingresso dell’aeroporto, per richiamare il
fratello a gran voce, ma temendo di sbagliarsi e di rischiare di far
perdere il volo a Bill, si avvicinò alla ragazza che, in
quel momento, armeggiava con il telefono.
Quando fu a pochi passi da lei, la sentì parlare in una
lingua a lui poco nota, ma che riconobbe immediatamente: era italiano.
E l’unica ragazza italiana che conosceva abbastanza bene da
ricordarsela era Lea.
In un attimo, le fu alle spalle e le posò una mano sul
braccio. Lea si girò subito, spaventata, e rimase a bocca
aperta riconoscendolo.
“Che… che cazzo fai qui?!”
urlò Tom, incurante dei passanti.
“Scusa?” domandò Lea, piccata, credendo
che Tom non la volesse fra i piedi.
“Tu non dovresti essere qui!” continuò
il rasta.
“Cos’è, per caso il mio arrivo rischia
di interrompere qualcosa?”
“Non dire cazzate!” la prese per mano e la
trascinò verso l’ingresso.
“Che cosa fai?” gridò Lea,
divincolandosi dalla stretta di Tom e attirando l’attenzione
delle persone intorno a loro.
“Dobbiamo entrare! Bill sta partendo!”
“Sta partendo per dove?” domandò la
ragazza, allarmata.
“Sta venendo da te! Cioè, sta andando a
Roma!”
“Sta… cosa?!”
Ma Tom, afferrandole la mano ancora più saldamente, la
trascinò all’interno dell’aeroporto, per
arrivare a pochi metri dal check-in e sentire lo speaker annunciare:
“Il volo YT 679
diretto a Roma è in partenza sulla pista numero 9”
I due ragazzi corsero disperatamente verso la pista numero 9, incuranti
delle persone contro le quali si scontravano, fino a quando scorsero
l’aereo decollare con un boato assordante.
Sempre tenendosi per mano, lo guardarono alzarsi in volo, ognuno con un
pensiero diverso in testa. Solo quando l’apparecchio
scomparve dietro alle nuvole, Tom lasciò la presa. Non si
erano nemmeno resi conto di essersi tenuti la mano per tutto quel
tempo, talmente erano impegnati a raggiungere Bill il prima possibile.
“E’ partito cazzo” imprecò
Tom, tirando un calcio contro un immaginario oggetto.
“Avrei dovuto chiamarlo. Non pensavo proprio che raggiungesse
Roma”
“Beh certo” sbottò Tom “Pensi
mai a qualcosa che non riguardi te stessa?” e voltandole le
spalle, si recò verso l’uscita.
Lea gli corse dietro, trascinando il trolley mezzo ammaccato dopo la
corsa “Scusa? Cosa vorresti dire?”
“Che pensi solo a te stessa, te ne sbatti sempre le palle
degli altri o meglio, di mio fratello”
“Sei impazzito?” Lea aveva il fiatone, ma cercava
di stare dietro a Tom meglio che poteva.
“Hai sempre fatto così, da che lo conosci. Ti
incazzi, gli urli dietro, ma mai una volta che gli permetti di
spiegarsi. Va bene, questa volta ha sbagliato lui, ma nel momento in
cui ha cercato di spiegarsi tu gli hai sbattuto il telefono in faccia e
l’hai mandato a quel paese”
“Cosa avrei dovuto fare? Mi ha mentito! E mi ha
tradito!”
Tom era ormai giunto alla sua Cadillac, parcheggiata non lontano
dall’aeroporto. Lea gli stava dietro, ansimando. Il ragazzo
si voltò immediatamente, udendo quelle parole:
“Non ti ha tradito, Lea” poi aprì la
portiera e salì in macchina “Non ti avrebbe mai
tradita”
Lea rimase impalata come uno stoccafisso, a guardare il ragazza che
inseriva la chiave nel cruscotto e che, dopo qualche secondo, si
rivolse a lei per dirle: “Beh, che fai lì
impalata? Sali no!”
“E quindi…” Lea, appena salita
sull’imponente macchina di Tom, cercava di intavolare una
discussione con il burbero rasta che, osservandola di sbieco, guidava
con sicurezza per le strade di Berlino “… anche
questa volta ho esasperato la situazione”
“Abbastanza” grugnì Tom, inserendo la
quinta e sorpassando un veicolo.
“So di non esserti simpatica Tom, quindi ti pregherei di
lasciarmi in un qualsiasi albergo del centro. Penserò io a
chiamare tuo fratello per dirgli di aspettarmi a Roma”
“Bill non la smetterebbe di rimproverarmi se ti lasciassi in
albergo. Vieni a casa nostra per stasera. E non tornare a Roma,
aspettalo qui”
“Aspettarlo qui!?”
“Non ti mangio, stai tranquilla. Qui avrete la casa tutta per
voi, è grossa abbastanza per ospitare tutti e tre senza
intralci”
“Non voglio essere di disturbo” mormorò
Lea, imbarazzata.
“Senti Lea” Tom si voltò un istante per
guardarla in faccia “Noi due non siamo mai andati molto
d’accordo, ma io sono certo che tu sei la persona giusta per
mio fratello. Quindi cerchiamo di trovare un punto
d’accordo”
“Proviamoci” disse, sorridendo debolmente al
ragazzo.
Qualche minuto dopo, il rasta parcheggiò la macchina
all’interno del cortile ben curato che Lea aveva
già visto.
Fece strada alla ragazza fino al secondo piano, quello dove i ragazzi
passavano la maggior parte del tempo e portò il suo bagaglio
nella stanza di Bill.
“Tra un’ora circa, Bill sarà a Roma. Con
un po’ di fortuna, potrà essere di ritorno a
Berlino già stasera”
“Speriamo…” sospirò la
ragazza.
“Hai fame? E’ quasi mezzogiorno, ti va di mangiare
qualcosa? La pizza va bene?”
**
Dopo il pranzo, consumato in silenzio al tavolo della cucina, Lea
chiamò Bill con il telefono di Tom. Secondo i calcoli, il
ragazzo sarebbe dovuto essere a Roma in quel momento.
Il telefono squillò per pochi secondi, dopodiché
una voce ansante rispose: “Tom?”
“Ciao Bill”
Qualche secondo di silenzio e poi “Lea?”
“Sì, sono io”
“Che… cosa? Lea dove sei?”
“Sono a Berlino”rispose, mordicchiandosi il labbro.
“Berlino?!” la voce squillante del ragazzo le
perforò un timpano “A Berlino? Io sono a
Roma!”
“Lo so, lo so. Tom mi ha spiegato tutto. Bill torna
indietro” lo supplicò.
“Prendo il primo volo, aspettami!” poi interruppe
la comunicazione velocemente, senza darle il tempo di aggiungere altro.
“Torna?” chiese Tom, quando Lea gli
ripassò il cellulare.
“Sì, ha detto che prende il primo volo”
“Questa sì che è bella”
sghignazzò il rasta, abbandonandosi contro lo schienale
della sedia “Tu qui, lui in Italia. Non ho mai visto una
coppia più assurda della vostra!”
Lea si rabbuiò, estrasse il pacchetto di sigarette dalla
tasca del maglione e fece per alzarsi.
“Puoi fumare anche qui” le disse Tom. La ragazza si
risistemò sulla sedia, accese la sigaretta e con una mano,
prese a giocherellare con una ciocca di capelli.
“Ho sempre dato per scontato che a me non sarebbe
successo”
“Cosa?” chiese Tom.
“Di innamorarmi. Pensavo davvero di potercela fare. Sai, un
sacco di impegni, mio nipote da curare, il lavoro,
l’università… ero così presa
da tutto questo che credevo seriamente di non avere la
possibilità di innamorarmi”
“Non si possono programmare queste cose. Non sono lezioni da
studiare sui libri, la vita di coppia si sperimenta solo
vivendola”
Lea fece una smorfia “Non ti facevo così
filosofo”
“Da un Kaulitz puoi aspettarti di tutto”
ridacchiò.
“Me ne sono accorta! Tu dimmi se a quel pazzo doveva venire
in mente di raggiungermi a Roma!” con la mano
batté un leggero pugno sul tavolo.
“Vedi dove sbagli?” Tom si scrocchiò le
dita delle mani e riprese “Questo è
l’amore. Bill ti ama, perché ti risulta
così tanto difficile da capire? Le persone innamorate fanno
queste cose…”
“Sei mai stato innamorato?” gli chiese Lea,
all’improvviso.
“No, non proprio. Non come mio fratello in questo
momento”
“Dovrei trasferirmi a Berlino, secondo te?”
Tom ci pensò un attimo: sapeva che, in qualche modo, la sia
risposta sarebbe stata importante per Lea. Optò
così per un ragionamento logico: “Non spetta a me
dirtelo, è una decisione troppo importante. Certo, sarebbe
tutto più facile, perché ogni volta che abbiamo
del tempo libero torniamo qui. Però, capisco la tua
ritrosia. A Roma c’è tutta la tua vita”
“Da quando ho conosciuto Bill, la mia vita è
divisa a metà. Un pezzo a Roma e un pezzo in giro per il
mondo” mormorò la ragazza, alzandosi per gettare
la sigaretta nel portacenere, posato su di una mensola accanto al
lavello “Se penso al nostro futuro, mi viene
l’ansia. Le unioni a distanza non funzionano mai e noi siamo
così diversi”
“Non così tanto” commentò Tom.
In quel momento, il cellulare li interruppe. Lea rispose velocemente.
“Bill?”
“Tutti i voli sono sospesi!”
“Che cosa?” strillò Lea.
“Sì, c’è una tempesta di neve
qui a Roma e i voli non partiranno fino a che la situazione non si
sarà stabilizzata!”
“Prendo il treno, Bill! Aspettami a Roma!”
“Non se ne parla! Tu rimani lì con Tom! Con il
treno ci vorrebbe comunque troppo tempo e sei più sicura a
Berlino, specie con questo tempo” il tono pacato e dolce
della sua voce, le accelerò i battiti del cuore.
“Mi dispiace Bill. E’ tutta colpa mia, come sempre
ho reagito da isterica. Tom mi ha raccontato tutto”
“Non ti avrei mai tradita, Lea. Io ti amo”
“Anche io…”
“Aspettami, domani sarò a Berlino. Adesso cerco un
albergo, ti chiamo quando sono in stanza. Qui c’è
un casino pazzesco”
“Chiamo Marie, ti ospiterà lei per
stanotte” propose Lea.
“No, no. Lascia perdere, davvero. Non voglio
disturbare”
“Sicuro? La chiamo subito se vuoi”
“Non preoccuparti per me. Io sto bene. Passami un attimo
Tom”
Lea porse il cellulare al rasta.
“Cosa succede?”
“Sono bloccato in aeroporto, cazzo! Mi cerco una
stanza”
“Resta lì! Magari fra un paio d’ore la
situazione si sistemerà!”
“Ho freddo e sonno, vorrei dormire un paio di ore almeno. Mi
raccomando, occupati di lei, non farle mancare nulla e trattala bene,
intesi?”
“Sì grande capo!” poi si salutarono e
Tom interruppe la comunicazione.
Dopo aver parlato con Bill, Tom squadrò Lea e le disse:
“Avrai mica intenzione di stare chiusa qui anche stasera,
vero?”
“In verità” mormorò Lea
“era esattamente quello che intendevo fare”
“Stasera esco con amici. Non posso lasciarti qui,
perché se Bill lo venisse a sapere comincerebbe a strillare,
per poi tenermi il muso per giorni. Inoltre, so che vorrebbe che fra
noi due le cose si chiarissero”
“Si sono già chiarite, Tom”
“Se potessimo instaurare un rapporto di amicizia, Bill
sarebbe davvero felice” abbassò lo sguardo e
proseguì “So che non sembra, ma farei qualsiasi
cosa per quel rompiballe” poi ridacchiò
sommessamente e si fregò la punta del naso con un dito.
“Gli vuoi molto bene, vero? Voglio dire, è proprio
come dicono: i gemelli hanno un legame speciale”
“Esattamente. E’ qualcosa che non si può
spiegare a parole, si capisce solo se lo si vive. Ci credi che non
farei certe cose nemmeno per la donna della mia vita?” Lea
accese un’altra sigaretta e aspettò che Tom
continuasse “Nel senso che potrei morire per mio
fratello”
“Sai che, se non fossi innamorata di Bill, potrei caderti ai
piedi per un’affermazione simile?” rise Lea.
“Alle donne piacciono queste cose”
“Non è che alle donne piacciono, è che
è obiettivamente fantastico sapere che ci sono fratelli che
darebbero la vita l’uno per l’altro”
“Allora” Tom cambiò velocemente
discorso, per non esporsi ulteriormente “stasera vieni con
me?”
“Sono obbligata, a quanto ho capito”
“Esattamente. Alle nove passa a prenderci Andreas, ci saranno
anche Georg e Gustav con alcuni amici. C’è un
locale carino poco fuori Berlino, dove si esibisce una band tedesca che
merita. Verranno anche delle ragazze, non ti sentirai in
imbarazzo”
**
Il locale, proprio come aveva detto Tom, era decisamente carino.
All’ingresso, un lungo bancone in radica dominava quasi tutta
la stanza, che si allungava fino a condurre i clienti verso una zona
più grande, dove erano soliti esibirsi differenti gruppi
ogni sera. Alle pareti, di mattoni a vista, erano appese le locandine
dei gruppi storici che, almeno una volta, erano stati lì e
avevano deliziato il pubblico con le loro performance. Dal soffitto
pendevano lampadari che emanavano una piacevole luce soffusa e
contribuivano a rendere l’ambiente ancora più
accogliente. I tavoli, rotondi e coperti da tovaglie viola scuro, erano
sparsi qua e là per il salone e ognuno di essi aveva un
candelabro vintage al centro.
Il palco era basso ed essenziale e la band stava già
intonando le prime strofe di una canzone che Lea non aveva mai sentito.
Si accomodò tra Tom e Georg, ad un tavolino appartato,
lontani dal centro della sala. Le due ragazze che erano con loro la
misero a suo agio, dispensando sorrisi cordiali e sinceri.
Andreas le fece un sacco di domande e si disse felice di avere,
finalmente incontrato la famosa ragazza del suo amico.
“Finalmente ti conosco” esordì il
biondino “Pensavo quasi che fossi un’invenzione di
Bill!” rise.
“No, no, esisto! Solo che non capito spesso in
Germania” rispose “Ad ogni modo, il piacere
è mio! Fino ad ora, ti avevo visto solo sui
giornali”
Lea era certa che, se ci fosse stato Bill, quell’atmosfera
l’avrebbe reso felice, perché per
l’intera serata si sentì parte del mondo del suo
ragazzo, un mondo che tutto sommato, non era poi così
diverso dal suo: se si fosse abituata all’idea di non vederlo
per mesi, il resto sarebbe stato una passeggiata.
A fine serata, Andreas riaccompagnò a casa Tom e Lea, che
decisero di concedersi una tazza di tè caldo prima di andare
a letto.
Seduti sul divano, Tom le chiese se si fosse divertita.
“Oh sì, molto! Sono felice di non essere rimasta
qui. I vostri amici sono così gentili e alla mano”
“Chi pensavi che avessimo come amici? Heidi Klum e Puff
Daddy? Io e Bill siamo molto attaccati alle nostre origini. Se solo
possiamo, ci piace stare con le persone che ci conoscono da sempre. Non
abbiamo molti amici celebri, anzi, non abbiamo amici famosi, solo
conoscenti. Le nostre vere amicizie, sono quelle che hai
visto”
“Me ne sono resa conto, sai? Per un paio di ore ho
dimenticato chi voi siate in realtà. Mi siete sembrati solo
dei ragazzi come gli altri”
“Che è quello che siamo, alla fine” Tom
sorseggiò del tè e le sorrise “Persone
normali. Ok, io sono decisamente più bello di tutti i
ragazzi che potrai mai conoscere, ma sono comunque normale”
Lea scoppiò a ridere, rischiando di strozzarsi
“Sei anche molto modesto, in effetti”
“Il mio secondo nome è modesto”
I due ragazzi finirono il tè, si diedero la buonanotte e Lea
si chiuse nella camera di Bill, addormentandosi con il suo profumo a
farle compagnia.
**
Ringrazio anche Funny Lady e Bambi, che si sono aggiunte alle
commentatrici! :)
Inoltre, vorrei aggiungere che mancano solo tre capitoli alla fine ^^
Grazie, come sempre, a tutte! *_*
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
Bill, distrutto da una notte insonne, si era recato in aeroporto poco
prima delle otto di mattina, nella speranza di trovare un volo il prima
possibile, così da poter tornare a Berlino da lei.
Gli scappava quasi da ridere pensando a tutta la storia, a lui che era
corso in Italia mentre lei lo stava raggiungendo in Germania.
Aveva temuto di perderla veramente, questa volta, ma il suo gesto gli
aveva ridato speranza: se non le fosse importato più nulla
di lui, non si sarebbe di certo presa la briga di andare fino a
Berlino, senza nemmeno essere certa di trovarlo.
Ebbe fortuna. Un volo sarebbe partito di lì a
mezz’ora e il ragazzo si affrettò a comprare il
biglietto. Prima di partire, bevve un caffè al bar
dell’aeroporto, sempre egregiamente camuffato dietro ad un
grosso paio di occhiali neri, con il viso quasi del tutto coperto da
una pesante sciarpa grigio scuro e un cappellino con visiera della
stessa tinta, calato sulla fronte.
Una volta sull’aereo, inspirò profondamente e si
assopì, felice all’idea di poter rivedere
l’unica persona che era stata in grado di far vacillare ogni
sua convinzione.
**
“Credo che tu abbia bisogno di un calmante”
Tom sorseggiava del caffè bollente da una tazza, seduto al
tavolo della cucina, due spesse occhiaie a cerchiargli gli occhi color
nocciola, i rasta avvolti alla rinfusa e tenuti insieme da un grosso
elastico nero, la voce ancora impastata dal sonno. Lea, invece, era
già sveglia da ore, vestita di tutto punto e nervosa come
una scolaretta il primo giorno di scuola.
Aveva preparato la colazione per Tom, svegliatosi in seguito ai rumori
prodotti involontariamente da Lea in cucina e adesso, con una sigaretta
stretta fra l’indice e il medio, osservava i profili dei
tetti berlinesi.
“Niente calmanti” mugugnò.
“Sembra che tu non abbia mai conosciuto Bill. Ti comporti
come le ragazze che incontriamo ai meet&greet. Anche loro sono
nervose, si torturano le dita con i denti, alcune piangono. Ma posso
capirle: stanno per incontrare i loro idoli. Tu invece… tu
non hai motivo di essere così agitata!”
“Non lo vedo da tanto e l’ultima volta che ci siamo
sentiti, non è stata una conversazione propriamente felice!
Inoltre, il solo pensiero che resti bloccato di nuovo a Roma, mi fa
agitare”
“Nel caso dovesse succedere, troveremo
un’alternativa” poi sbadigliò
vistosamente e appoggiò la testa sul tavolo.
“Mi spiace averti svegliato” mormorò Lea.
“Nessun problema, dormirò più
tardi”
“Sì ti prego, resta sveglio adesso” Lea
si avvicinò al rasta e lo obbligò ad alzare la
testa dal tavolo “Ho bisogno di parlare, di
distrarmi”
Tom sghignazzò e si apprestò a far compagnia alla
ragazza per le seguenti due ore.
**
Aria di casa.
Era sempre bello tornarci, anche quando restava distante solo poco
tempo.
Il taxi che lo stava accompagnando a casa, sfrecciava veloce per le vie
della città. Mancavano pochi minuti alle undici e la
città era nel pieno della sua attività.
Giunti davanti al cancello di casa Kaulitz, Bill pagò
velocemente la corsa e varcò la soglia.
Attraversò il cortile con il cuore in gola, aprì
la porta del piano terra con mani tremanti e salì le scale
facendo due gradini per volta.
Una volta giunto davanti alla porta che l’avrebbe condotto da
Lea, tentennò. Era certo, in cuor suo, che Lea non fosse
lì per lasciarlo, ma ora temeva che i suoi pensieri fossero
sbagliati, che Lea fosse andata davvero a Berlino solo per chiudere la
loro storia una volta per tutte.
Abbassò la maniglia lentamente, aprì la porta ed
entrò in casa. Dalla cucina, gli giunsero le voci di Tom e
di Lea e una morsa gli strinse lo stomaco, fin quasi a farlo gemere.
Quando richiuse l’uscio, le voci zittirono e dopo pochi
secondi vide la figura del gemello comparire dalla cucina, seguito da
quella di Lea che, impacciata e imbambolata, lo fissò a
lungo senza dire nulla.
Un dejavù: Bill aveva già vissuto questa scena,
anche se le parti erano invertite.
Sorrise al pensiero del giorno in cui Lea si era precipitata da lui e
lo aveva trovato a petto nudo, con lo spazzolino da denti in bocca e il
dentifricio che gli colava sul mento. Scosse la testa, posò
la valigia a terra e si levò gli occhiali da sole. Tom lo
salutò con un sorriso e un gesto della mano e
sparì in camera sua.
Bill fece qualche passo verso di lei, mormorando un
“Ciao”. Lea, sul subito, pensò di
adottare la tattica del
“non-credere-di-farmi-capitolare-subito” ma quando
scorse i suoi occhi lucidi e le guance arrossate dal freddo, cedette.
Prima di buttarsi fra le sue braccia, mormorò un debole
“Mi sembra di aspettarti da una vita”.
Dopo, non ci furono molte parole.
**
Non avevano fatto l’amore, non c’era tempo, non
c’era bisogno.
Dovevano dirsi tante cose, dovevano guardarsi negli occhi e capire se
era davvero possibile continuare quella storia d’amore che,
per certi versi, pareva una bellissima fiaba ma, per altri, sembrava un
incubo.
Stretti sul letto del cantante, coperti con un plaid trovato in un
armadio, avevano parlato per ore. Prima di tutto, Bill le aveva
spiegato di Franziska, con tutta la sincerità possibile, le
aveva raccontato del loro amore giovanile, del tentativo di baciarlo,
della proposta che Franziska gli aveva fatto, senza tralasciare nulla.
Lea si era finta offesa e gelosa, più di quanto in
realtà non fosse. E non lo era, nonostante le apparenze, per
un semplice motivo: Lea sapeva che Bill la amava. Ne era certa, come si
è certi del proprio nome.
Sentiva che qualcosa di speciale era accaduto, quel giorno di tanti
mesi prima, quando si erano incontrati a Roma.
Non era magia, era solo amore. Quello vero, quello delle favole appunto.
“Ho pensato davvero di lasciarti” gli disse,
guardandolo dritto negli occhi “Anche se so che mi ami
davvero”
“Anche io ho creduto che mi lasciassi”
“Non era tanto la mancanza di fiducia, quanto la paura. Io ho
paura”
“Di cosa?”
“Di te”
Bill strabuzzò gli occhi e si alzò, poggiandosi
su un gomito: “Di me?”
“Di quello che rappresenti. E non parlo dei Tokio Hotel,
parlo di quelli che rappresenti per me” sospirò e
proseguì “Tutti parlano di amore. Amore di qui,
amore di là, ma solo se lo stai vivendo sai cosa significa
sul serio. Tu sei, per me, la personificazione dell’amore e
se un giorno dovessi andartene, sarebbe la fine. Non potrei amare mai
più, almeno non come ho amato te”
“E perché hai paura?”
“Perché rappresenti un sentimento troppo grande e
io temo di non saperlo gestire. Mi scoppia il cuore in petto quando ti
vedo, mi tremano le mani, a volte vorrei piangere di gioia quando mi
sei accanto. E’ una cosa così folle che,
sinceramente, non credevo nemmeno potesse capitare”
Bill si chinò verso di lei e la baciò
gentilmente, facendo aderire perfettamente le loro labbra. Poi disse:
“Vieni a vivere con me”
“Lo sai che non è possibile, non parliamo ancora
di questa cosa”
“Tra poco inizieremo il nuovo tour, vieni con me”
“Non voglio interferire con la vita della vostra band.
E’ giusto che io ne resti fuori. Ma ti verrò a
vedere tutte le volte che mi sarà possibile”
“Come faremo, Lea?” Bill tornò a
sdraiarsi al suo fianco e posò la fronte contro quella della
ragazza.
“Vorrei dirti che basta l’amore, ma sappiamo
entrambi che non è così. Io non posso pensare di
lasciarti, ma è tutto così difficile. Avrei
voluto conoscerti quando non eri ancora Bill dei Tokio Hotel,
così ti avrei avuto solo per me”
“Sarà ancora più difficile partire,
adesso” mormorò Bill.
“Quanto potrà durare? Per quanto tempo
sopporteremo la lontananza?”
“Non c’è limite, credo”
“Se tutto questo diventerà troppo pesante da
sopportare, dovremo trovare il coraggio di essere onesti e dircelo.
Dirci che non possiamo più affrontare la distanza, la
solitudine, la mancanza, anche se questo dovesse portare alla fine del
rapporto”
“Se fossimo due attori, a questo punto dovrei chiederti di
sposarmi” le disse, a fior di labbra.
“Ma non siamo attori e questo non è un film
romantico. Siamo persone che vivono la loro vita e che sanno che un
matrimonio non risolverebbe nulla. Non potrei comunque seguirti in giro
per il mondo”
“In fondo, tanti miei colleghi” e nel dire la
parola colleghi ridacchiò “hanno una compagna che
li aspetta. E molte storie sopravvivono anche così”
“Noi non sopravvivremo. Noi vivremo, in un modo o
nell’altro”
Il lungo bacio che ne seguì, venne interrotto da Tom, che
bussò insistentemente alla porta: “Bill, dobbiamo
andare in studio. Ti aspetto in macchina, hai
mezz’ora“
Lea rise e, prima di alzarsi, lo baciò di nuovo e disse:
“Vai…”
**
Poco prima di uscire di casa, Bill propose a Lea di seguirlo allo
studio di registrazione.
“Perché non vieni anche tu? Finalmente, ho
l’occasione di mostrarti dove lavoro”
“Non vorrei disturbare, magari gli altri non sono
d’accordo” rispose, titubante, la ragazza.
“Scherzi? Non dai nessun fastidio, ti puoi accomodare nella
postazione di David, tanto oggi non ci sarà”
Così, in meno di cinque minuti, Lea si preparò
per visitare, per la prima volta, il luogo in cui Bill e soci
sfornavano i loro successi.
Durante il tragitto che li avrebbe condotti a destinazione, Lea
osservava Bill dai sedili posteriori mentre chiacchierava con Tom,
allegramente. Il rasta, impegnato alla guida, rispondeva al gemello con
foga e, spesso, i due si osservavano senza dire nulla, come se bastasse
uno sguardo per capire le parole dell’altro.
Lea provava una stretta al cuore ogni volta che gli occhi di Bill
incrociavano quelli di Tom, sentendosi quasi un’intrusa.
Ma come aveva potuto anche solo PENSARE di lasciare Bill? Come aveva
potuto credere di riuscire a condurre una vita felice senza lui al suo
fianco?
Immersa nei suoi pensieri, non si accorse nemmeno che la macchina si
era fermata e che Bill le stava parlando.
“Lea?”
“Sì?” mormorò, scuotendo la
testa come per ridestarsi da quella sorta di trance in cui era piombata.
“Siamo arrivati. Non hai aperto bocca per tutto il tragitto,
va tutto bene?” aggiunse Bill, scendendo dall’auto.
“Sì, sì. Stavo solo pensando”
“Tu pensi troppo” rispose, sorridendo e
circondandole la vita con un braccio. Lea si irrigidì e
cercò di scostarsi da lui: era giorno e loro erano
all’aperto, sotto gli occhi di tutti. Lo studio era
posizionato in una zona relativamente isolata, ma non così
tanto da poterle garantire di non essere visti. Ma poi, sentendo che
Bill non accennava a mollare la presa, si arrese. In fondo, se anche li
avessero visti, che male c’era?
Tom fu il primo ad entrare, seguito da Lea e da Bill. Il rasta si
diresse verso la zona cucina e preparò un caffè,
mentre Bill faceva visitare il resto dello studio alla ragazza,
spiegandole nei dettagli come nasceva una canzone e quanto tempo
avessero trascorso in quella casa.
Non era grandissimo, come studio. Era composto da una sala dalle pareti
insonorizzate, dentro alla quale registravano e provavano le melodie.
Da lì, una porta conduceva alla zona in cui David e i
restanti produttori osservavano i ragazzi mentre si esercitavano,
attraverso un grosso vetro, proprio come quelli che Lea aveva visto in
televisione.
Oltre alle due stanze utilizzate per il “processo
creativo”, vi erano una piccola cucina, un bagno e un
salottino, con due grossi divani, un tavolino al centro della stanza e
una televisione a schermo piatto.
Le stanze, tranne quella in cui registravano, erano illuminate da ampie
finestre, abbellite da dei tendoni scuri che toccavano terra.
Per un secondo, Lea immaginò Bill da solo, in quella stanza,
con le tende tirate e una ragazza diversa da lei a fargli compagnia. La
rabbia che provò le fece venire un indomabile voglia di
avvicinarsi a lui e prendergli la mano. Il ragazzo non solo la
lasciò fare, ma la strinse a sé e la
baciò sulle labbra, facendola sedere sul divano
più vicino.
Se non avessero udito il rumore di una macchina lungo il vialetto di
ghiaia che conduceva allo studio, probabilmente avrebbero fatto
l’amore su quel divano, incuranti di Tom nella stanza
accanto. Si rialzarono di scatto, ridendo come due bambini, si
sistemarono i vestiti e i capelli come meglio potevano e raggiunsero
l’ingresso, dove Lea rivide dopo tanto tempo, anche Georg e
Gustav.
Ora che la band era al completo, non restava che incominciare. Lea
venne fatta accomodare nella stanza adiacente allo studio vero e
proprio e lì vi rimase per quasi quattro ore, intervallate
solo da brevi soste durante le quali Bill la raggiungeva, premuroso
come sempre.
Cenarono insieme e ripresero a provare subito dopo, finendo a notte
fonda. Quando lasciarono lo studio, diretti verso casa, Lea si
assopì in macchina, con il sorriso sulle labbra.
**
Si risvegliò solo in tarda mattinata, avvolta nelle coperte
che profumavano di lacca, di bagnoschiuma e di lui. Girandosi sul lato
destro, si accorse che anche Bill stava ancora dormendo così
si accoccolò contro la sua schiena e gli passò un
braccio sopra il fianco, fino a carezzargli il ventre.
Il ragazzo si voltò verso di lei, mugugnando lievemente e le
sorrise.
“Dormito bene?” sussurrò, gli occhi e la
voce ancora impastati dal sonno.
“Benissimo. Non ricordo nemmeno di essere andata a
letto”
Bill ridacchiò: “Eri mezza addormentata, io e Tom
ti abbiamo portata a letto in spalla, praticamente”
Solo in quel momento, Lea si rese conto, infatti, di essere ancora
vestita.
“Oddio, scusami! Ero così stanca… ma
soprattutto, ha giocato molto il fatto che mi sia scesa la tensione dei
giorni precedenti. E’ come se fossi collassata!”
“Mi spiace solo che tu abbia dovuto dormire con addosso i
jeans! Sono riuscito solo a levarti il maglione”
“Che farei senza di te…”
mormorò Lea, ridacchiando.
“Me lo chiedo anche io, cosa farei senza
te…”
“Suppongo che faresti quello che hai sempre fatto prima di
conoscermi”
“Prima era prima. Adesso è tutto nuovo”
Lea gli si avvicinò e lo baciò di sfuggita sulla
bocca, poi si ritrasse e gli sorrise: “Possibile che tu sia
sempre perfetto? Sai sempre dire la cosa giusta al momento
giusto”
“A dire il vero” rispose Bill
“c’è qualcosa che ti dovrei dire, ma non
so se sia il momento giusto”
Lea si alzò, appoggiandosi ad un gomito e lo
squadrò, preoccupata: “Ovvero?”
“Ci ho pensato a lungo e… beh… vorrei
farti conoscere mia madre”
**
Grazie di cuore a tutte, per i commenti e per la lettura!
Kate
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** Capitolo 19 ***
Avviso: ultimo capitolo!
Buona lettura! ^_^
**
La reazione di Lea, contrariamente a quanto Bill avesse temuto prima di
porgergli la domanda (e durante), fu sorprendentemente calma. La
ragazza accettò con piacere di conoscere la madre di Bill,
arrossendo solo leggermente nel confermarglielo.
Bill decise di non perdere tempo. La loro relazione, spesse volte, era
stata messa a dura prova da parecchi imprevisti che, in alcuni casi,
avevano anche rischiato di farla collassare così scese
velocemente dal letto, cercò il cellulare e
chiamò la madre, per avvisarla che lui, Tom e “una
persona che ti voglio far conoscere” avrebbero pranzato da
lei.
Lea osservava lo sguardo eccitato del suo ragazzo, che si mordicchiava
un dito mentre parlava al telefono, facendo attenzione a non mordere
troppo per non rovinare lo smalto. Erano quelle le piccole cose che
l’avevano fatta capitolare del tutto. Le sembrava
impossibile, arrivati a quel punto, tirarsi indietro. Mentre il cuore
le scoppiava di felicità, Lea pensò che,
qualsiasi cosa Bill le avesse chiesto quel giorno, lei avrebbe
accettato.
Tom dormiva ancora beatamente, quando Bill aprì piano la
porta per comunicargli la notizia. Vedendo la faccia del gemello
premuta contro il cuscino, la bocca leggermente aperta e i rasta
scompigliati, mentre un timido raggio di sole che penetrava dalla
tapparella gli conferiva un’espressione angelica, decise di
non svegliarlo.
Erano le undici passate e la madre li aspettava per l’una.
Tom avrebbe fatto in tempo a prepararsi, tra i due lui era quella
più veloce in bagno, lo era sempre stato.
Richiudendo piano la porta raggiunse Lea in cucina, che lo aspettava
seduta al tavolo, davanti a due tazze di caffè fumante.
Bill si sedette di fronte a lei e ridacchiò: “Mia
madre era curiosissima, prima al telefono! Non ha fatto domande, ma ho
sentito il tono della sua voce”
“E se non le dovessi piacere?”
“Beh, l’importante è che piaci a me,
no?” rise Bill, bevendo del caffè.
“Ah beh, grazie!” rispose Lea, assumendo
un’espressione buffa, tra il divertito e il preoccupato
“Ma lei è tua madre! Metti che le sto
antipatica?”
“Piantala Lea! Io sono sicuro che le piacerai, proprio come
sei piaciuta a me”
“E’ diverso, insomma…”
Il suono del telefono di Bill interruppe la loro conversazione.
Entrambi si guardarono negli occhi, zittendo. Il ragazzo si
alzò in fretta, andò in stanza, raccolse il
telefono da dove l’aveva lasciato e guardò il
display: era David.
“David?”
“Bill per fortuna ti trovo! E’ successo un
disastro!” Bill avvertì un tuffo al cuore.
“Cosa è successo?”
“Mi hanno appena chiamato dalla Cherry Tree, sono in studio
nonostante là sia notte fonda perché per un
problema di carattere tecnico, si sono perse delle tracce che avevate
già registrato e inviato. Se non le risistemiamo entro la
fine del mese, dovremo posticipare di nuovo l’uscita del
nuovo album”
“Andiamo subito in studio, le registriamo in
giornata”
“I loro server si sono bloccati, non potremo comunque
inviargliele, non oggi almeno. Dobbiamo partire, raggiungerli a Los
Angeles. E’ questione di un paio di giorni, dovrete solo
registrare nuovamente due canzoni, non ci vorrà molto
tempo”
“David ma io non posso partire oggi!”
“Bill, devi fare qualcosa di più importante della
registrazione del vostro nuovo album?”
Bill non rispose: in silenzio, con il telefonino premuto contro
l’orecchio, pensò a Lea. Lea che, a differenza di
una canzone, poteva sentirsi abbandonata. Lea che, a differenza di una
canzone, si sarebbe sentita messa da parte di nuovo, che avrebbe avuto
la conferma di come la loro unione sarebbe sempre stata una scelta
continua. Lea che si sarebbe stufata e sarebbe tornata in Italia, senza
nemmeno aspettare spiegazioni che, a quel punto, le sarebbero parse
inutili.
“Bill?” David era impaziente.
“Non possiamo partire nel tardo pomeriggio?”
“C’è un aereo privato che ci aspetta tra
un’ora e mezza. Toby è già andato a
prendere Gustav e Georg, mancate solo tu e Tom. Non ti preoccupare dei
bagagli, ci ha già pensato Dunja”
“Avresti potuto dirmelo subito che la decisione era
già stata presa” brontolò Bill.
“E’ importante, Bill. Lei capirà.
Passiamo a prendervi tra mezz’ora”
sussurrò David. Bill non si stupì
dell’intuizione di David. Gli aveva parlato di Lea in
passato, soprattutto nei lunghi mesi dopo Parigi.
“Non credo” rispose, riattaccando.
Gettando il telefono sul letto, vi si sedette, le mani appoggiate alle
ginocchia. Lea comparve sulla soglia, gli occhi bassi.
“Lea, era David”
“Lo so, ho sentito. Non era mia intenzione origliare, ma
quando ti ho sentito fare il suo nome non ho resistito. Ho sentito
tutto, o meglio, ho sentito quello che hai detto tu. Devi
andartene?”
“Los Angeles, tra mezz’ora. Lea non sai
quanto…”
“Lo so, lo so. Lo so sempre” rispose, rassegnata.
“Non è colpa mia, non pensavo
che…”
“Non è colpa di nessuno, Bill. E’
successo, come succede sempre, come succederà ancora. Adesso
vai a svegliare Tom, dai”
Bill si alzò meccanicamente, senza guardarla. Un nodo gli
serrava la gola ed era un terribile misto di rabbia nei confronti di
David e di quegli imbecilli che avevano perso le registrazioni e di
tristezza nel vedere Lea così affranta, tristezza per non
essere stato capace di mantenere una promessa.
**
Tom apprese la notizia con scarsa vivacità. Gli piaceva
viaggiare, ma detestava gli imprevisti. Comunque, mantenendo fede alla
sua puntualità, riuscì a lavarsi e cambiarsi in
tempi record.
Dopo venti minuti, i due gemelli e Lea erano già in cortile,
ad aspettare la macchina che avrebbe portato tutti quanti
all’aeroporto.
“Sei ancora in tempo per venire con me, Lea” la
pregò Bill “Ci sarà anche Dunja con
noi, potrai dormire con lei nel caso in cui David non riuscisse a
trovare una stanza libera”
“Lasciami stare, per cortesia. E già abbastanza
difficile così, non ti ci mettere anche tu con le tue
teorie” rispose, stizzita. Era arrabbiata, anzi no, era
furente.
Furente con Bill, perché veniva continuamente schiavizzato
dal suo lavoro, furente con sé stessa, per essere tornata da
lui nonostante avesse deciso di lasciarlo, furente con il mondo, che
non girava mai per verso giusto. Quando arrivò la macchina
che li avrebbe scortati in aeroporto, tirò un lungo sospiro
e aspettò che Toby caricasse i suoi bagagli prima di salire.
Il tragitto fino all’aeroporto lo passò in
silenzio, interrotto solo da una rapida conversazione con Dunja e David
che le chiesero come stava.
Bill cercò la sua mano, aveva bisogno di stringergliela
prima di lasciarla nuovamente, ma la ragazza si divincolò
malamente.
Dopo venti minuti circa, l’auto si fermò e il
gruppetto, scortato da Toby e dagli altri membri della sicurezza,
varcò la soglia dell’aeroporto. Camminando a passo
spedito, Bill si avvicinò a Lea senza farsi notare e le
sussurrò: “Lea vieni con me, ti prego”
La ragazza non rispose, ricacciò indietro le lacrime e
continuò a camminare.
Giunti al check in, David si fermò per salutarla:
“Il nostro aereo ci aspetta sulla pista 10. Lea, sicura di
non voler venire con noi?”
“La ringrazio, preferisco tornare a casa” rispose,
compita.
“Sbaglio o ci davamo del tu?” disse lui, nel
tentativo di alleggerire l’atmosfera.
“Sì, scusa. Comunque, grazie ma torno a Roma. Fate
buon viaggio” poi, lanciando uno sguardo furtivo a Bill,
aggiunse “Ci sentiamo”
Il ragazzo cercò di dire qualcosa, ma nulla di sensato gli
venne in mente. Imbronciato, seguì David e gli altri fino
alla pista numero 10, dove un elegante jet privato li attendeva con i
motori già accesi.
**
“Marie, sono Lea”
“Lea? Dove sei? Cos’è questo
rumore?”
“Sono in aeroporto, sto tornando”
“Non dirmi che avete litigato nuovamente, ti prego!”
“E’ una storia lunga, ti spiegherò
quando arrivo. Prendo il primo aereo disponibile, ti mando un messaggio
quando so l’orario della partenza”
“Stai bene?”
“Sì” mentì la ragazza
“Ci sentiamo dopo”
Spense il telefonino, per resistere alla tentazione di mandare un
messaggio a Bill e si avviò verso la biglietteria,
intenzionata a comprare un biglietto per il primo volo disponibile per
Roma. Ma, mentre si recava a grandi passi verso la sua destinazione, le
dita della sua mano avvertirono la presenza di qualcosa di freddo e
liscio nella tasca del giubbotto. Si fermò, il trolley in
una mano e, dalla tasca, estrasse un anello. Come un flashback,
ricordò la sera in cui Bill l’aveva portata allo
studio di registrazione e al momento in cui se l’era tolto,
perché gli prudeva un dito. Le aveva chiesto di tenerglielo,
per non rischiare di perderlo e la ragazza se l’era infilato
nella tasca del giubbotto, dimenticandosi poi di restituirglielo.
Scrutando l’anello, vi vide riflessa la sua vita senza lui.
Fredda e liscia come il mare d’inverno.
Ma il mare era immenso e libero, mentre lei senza Bill si sentiva
piccola e in prigione.
Affidandosi solo al suo istinto, ricacciò l’anello
in tasca, sollevò il trolley dal terreno e
cominciò a correre verso la pista numero 10.
Quattro mesi dopo…
“No, non lì! Piano… no! Tom no! Guarda
che lo spacchi!”
“Ma no, non lo spacco!” un tonfo sordo
seguì le parole del chitarrista che, ridendo, si
abbassò per raccogliere l’oggetto che gli era
sfuggito dalle mani.
Lea si affrettò a raggiungere il rasta, pulendosi le mani
sporche di vernice sui jeans sbiaditi e inveendo contro al chitarrista
che non smetteva di ridere.
“L’hai rotto?!”
“Ma no! Che rompipalle che sei! Se penso che dovrò
vederti pure quando sono in ferie, mi viene voglia di cambiare
stato!” rise il ragazzo.
“Che simpatico!” rispose Lea, facendogli la
linguaccia.
In quel momento, Bill varcò la soglia della piccola villetta
a schiera che, da un mese a quella parte, era di proprietà
di Lea. Distava solo cento metri dalla casa dei gemelli, era caldo e
confortevole e Lea aveva scelto un arredamento sobrio ma, nello stesso
tempo, adatto ad una ragazza della sua età.
“Come procedono i lavori?” chiese il cantante,
avvicinandosi a lei e posandole un bacio sulla fronte.
“Bene, a parte tuo fratello che sta cercando di distruggermi
la casa!” ridacchiò Lea, guardando Tom che
continuava ad armeggiare con il quadro che aveva fatto cadere poco
prima.
“Ho portato qualcosa da mangiare, è quasi
l’una” spiegò Bill “Direi che
ci vuole una pausa”
“Sì, direi! Tu, con la scusa di andare a prendere
da mangiare, non hai fatto un cazzo!” lo apostrofò
Tom, ridendo e dirigendosi verso la cucina.
“Ormai manca solo da sistemare il salotto, il resto della
casa è a posto” spiegò Lea, seguendo
Bill in cucina “Sta uscendo bene. Non vedo l’ora di
farla vedere a Marie!”
**
Quattro mesi prima, proprio quando Bill stava per sparire dalla sua
vita, Lea aveva trovato il coraggio di fare dietrofront e correre
dall’unica persona che l’aveva fatta capitolare,
definitivamente.
Bill stava salendo sul jet che lo avrebbe condotto in America, quando
la voce di Lea lo aveva fatto voltare. Si erano scambiati solo poche
parole, concitate e confuse dal rumore dei motori dell’aereo,
ma Bill aveva capito che Lea lo avrebbe aspettato a Berlino. Per
sempre, questa volta.
Al suo ritorno, la ragazza era in aeroporto, stretta in un cappotto
nero e con un grosso paio di occhiali da sole sugli occhi.
Lui le si era avvicinato con circospezione, fingendo quasi di non
conoscerla ed insieme erano saliti su una grossa macchina scura che li
aveva condotti a casa.
Una volta soli, Lea aveva comunicato a Bill la sua decisione:
“Compro casa a Berlino. Ho pensato che potrei trascorrere qui
i mesi in cui tu sei libero, potrei fermarmi tutte le volte in cui gli
impegni ti permettono di tornare a casa e, per il resto
dell’anno, continuare a vivere a Roma”
Bill l’aveva guardata a lungo, senza essere in grado di
parlare. Non sapeva trovare una parola, solo una, che spiegasse a Lea
cosa significasse per lui quel gesto.
Ci aveva pensato lei a rompere quel lungo silenzio: “So che
tu saresti vissuto su un aereo solo per raggiungermi ogni volta che
avresti potuto, ma sei già costretto a spostarti per lavoro
e io non voglio che la nostra relazione diventi un viavai di saluti
all’aeroporto. Con una casa mia, qui in Germania,
sarà tutto più facile”
“Sei sicura?” aveva chiesto lui, ai limiti della
commozione.
“Sicura. Quando stavi partendo mi è capitato fra
le mani l’anello che mi avevi dato allo studio di
registrazione” lo tolse dalla tasca e glielo porse, poi
continuò “In un attimo, mi sono resa conto di
quanto mi sarebbe costato vivere senza di te. Ho pensato che se la vita
mi aveva regalato questo sogno, sarebbe stato un peccato, anzi no,
sarebbe stato un vero affronto rinunciarvi. C’è
gente che sogna tutta la vita un amore come questo e io non mi sono
sentita di mandarlo all’aria. Non so perché non me
ne sia resa conto tempo fa, forse credevo di non aver bisogno di te.
Ma, paradossalmente, quando ho capito che saresti partito di nuovo mi
sono sentita in gabbia, proprio io che non ho mai avvertito la
necessità di un legame. A volte, libertà non
significa solitudine”
Bill l’aveva lasciata parlare, tenendole le mani, fino a
quando non l’aveva stretta a sé così
forte da farle quasi mancare il respiro.
Ora, sentiva che la sua vita era davvero un sogno.
**
“Non mi hai mai detto come ha reagito Marie, dopo la notizia
dell’acquisto della casa”
Lea e Bill erano seduti in salotto, o meglio, in quello che sarebbe
stato il salotto della nuova casa di Lea. Il pavimento era cosparso di
giornali e divano e poltrone erano avvolti nel cellophane.
“Beh, è rimasta spiazzata all’inizio. Ma
quando le ho spiegato della mia, come dire, doppia residenza, ha
accettato di buon grado il mio trasferimento. Così come lo
hanno accettato Mandy, Sue e Phil”
“Sei felice?” le domandò Bill,
all’improvviso.
“Sì” si voltò e lo
fissò dritto negli occhi, in quegli occhi color cioccolato
che le scaldavano sempre il cuore “Sono felice. Ho avuto
paura, soprattutto dopo la firma del contratto d’acquisto. Ma
ora sono felice. So che questo non mi impedirà di vedere la
mia famiglia, le mie amiche o di continuare i miei studi. Questa
è una parte della mia vita. Senza di te, non sarebbe stata
completa”
“Non avrei mai pensato che ti saresti decisa. So che per te
non è stato facile, ed è per questo che apprezzo
ancora di più il tuo gesto. Lo sai che io avrei viaggiato
giorno e notte per raggiungerti, ma ora che sei
qui…”
“Ora che sono qui, devi solo fare cento metri a
piedi” sghignazzò lei, avvicinandosi alle sue
labbra.
“Aspetta…” il ragazzo si alzò
da terra, si avvicinò alla radio che Lea aveva sistemato in
un angolo e che le teneva compagnia durante i lavori e la accese.
Poi spense le luci e lasciò che fosse la luna ad illuminare,
dalla grande portafinestra, la stanza.
Quando tornò a sedersi al suo fianco, le note di una canzone
a loro ben nota, invasero la sala.
“Oddio Bill” mormorò Lea, accoccolandosi
fra le sue braccia.
“E’ lei, è lei…”
sussurrò il ragazzo, riferendosi alla canzone.
“E’ un segno del destino?”
“E’ una promessa…”
Every breath you take
Every move you make
Every bond you break
Every step you take
I’ll be watching you…
FINE
**
Anche questa storia è finita. Grazie a tutte, ma davvero a
tutte, per i commenti e per la lettura!
Ora lascio a voi la parola! ;)
Kate
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=538099
|