Hey, Soul Sister

di Mushroom
(/viewuser.php?uid=100400)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue: All I want is to rock your soul ***
Capitolo 2: *** First Chapter - Introducing: I knew when we collided ***
Capitolo 3: *** Second Chapter – You can't always get what you want ***
Capitolo 4: *** Third Chapter - So rally up the demons of your soul ***



Capitolo 1
*** Prologue: All I want is to rock your soul ***


Rock your soul ~ Elisa
Prologue
: All I want is to rock your soul
{ Tutto quello che voglio è scuotere la tua anima.

A Maka non erano mai piaciuti i libri d’amore.
Non le erano mai piaciuti, però li aveva sempre letti. Dalle prime, maschilistiche fiabe, che narravano di avvenenti principi e donzelle in pericolo, ai voluminosi tomi di Lev Tolstoj, fino ai romanzetti rosa e dannatamente mielosi di cui non poteva fare a meno. Erano storie stupide ma essenziali. Di quelle che ti disegnavano un amore perfetto che poi non esisteva.
Quella non era una grande scoperta, in realtà. Era sempre stata un po’ troppo disillusa in merito.
Il paradosso: la sua era proprio una di quelle storie d’amore che tanto odiava.
Certo, meno melensa, fatta di tante liti e tante risate, ma – alla fine – come definire lo strano rapporto che aveva con il suo coinquilino? Avevano superato le ostilità e varcato il limite dell’amicizia troppo tempo addietro.
Così aveva scoperto una cosa a lei ignota: l’amore. E l’aveva fatto tardi, troppo tardi.
Pertanto, con questo, aveva scovato anche tutto ciò che l’accomunava, nel bene e nel male.
Sapete cosa aveva scoperto, anche? Che non le piaceva, l’amore. Per questo detestava tanto quei libri.
Se l’era ripetuto a mo’ di mantra. Il “lasciarsi andare” non era il suo forte e mai lo sarebbe stato, in fondo.
Essendo una tipa razionale, avrebbe sempre messo il tutto su una bilancia, e lui l’aveva capito.
Il punto di stallo in cui si trovavano sarebbe rimasto per sempre.
Una cosa però l’aveva imparata, da tutto quello: Soul, quando era nervoso o irritato, suonava. E lo faceva per ore e ore, incessantemente, finché non gli dolevano le mani e non si sentiva finalmente svuotato.
Per quello era andata a cercarlo proprio lì, nel primo posto dove l’aveva visto.
Ed eccolo, che faceva musica.
Le sue mani scorrevano velocemente sui tasti; gli occhi chiusi, con l’aria tesa e ugualmente rilassata.
Ripeteva sempre le stesse battute della stessa melodia, tetra e agghiacciante. Maka conosceva il continuo di quel brano – si addolciva, poi, diventava più andante e delicato.
Dio, quando suonava era inequivocabilmente se stesso.
Allora lei pensava che, forse, le loro anime non fossero mai realmente entrate in risonanza come aveva creduto.
La loro ballata si era forse fermata? No, non ancora. Avrebbero continuato a danzare finché la musica non si sarebbe fermata, probabilmente per sempre. Come due pazzi in preda alla follia.
E meno male che lei non credeva all’amore! Ne aveva letti troppi, di libri così.
Perché lei non era la damigella in pericolo e lui non era il caparbio cavaliere.
Erano solo Maka Albarn e Soul Eater Evans, studenti prossimi al diploma, ragazzi, adolescenti.
La musica si fermò.
Il suo cuore prese a battere più forte.
Quasi certamente si sarebbe dimenticata di lui, col tempo. Aveva tutta una vita da vivere.
Poi questo si voltò, incontrando il suo sguardo.
Forse no si disse, ingoiando un magone.
<< Bene >> bisbigliò, mantenendo il contatto visivo << Cosa ci fai qui? >> sbottò, con quella sua aria da gran figlio di puttana. Eccola di nuovo, l’arma strafottente. Quella che falciava il cielo e attaccava tutti.
Eccola, la sua difesa.
<< Ti riporto a casa >> Maka puntò i piedi in quell’esatto momento. C’erano mille ragioni per le quali sarebbe dovuta scappare, ma solo una la tratteneva lì. Una importante.
<< Quella non è casa mia >> sibilò.
La ragazza avanzò verso di lui, cacciando via l’insicurezza. Era in ballo e avrebbe ballato, anche a costo di scivolare sulla pista e rompersi un braccio.
Avrebbe scosso la sua anima, dannazione, così come lui aveva fatto con lei.
Esso si voltò, chiudendo il piano. Conoscendola, sapeva non si sarebbe arresa, perciò avrebbe adottato la più sincera forma di disprezzo: l’indifferenza.
Peccato che lui non la disprezzasse, tutt’altro. E ignorarla era veramente difficile.
Questa gli si avvicinò tanto dal non lasciarlo passare e abbastanza dal poterlo sfiorare. Maka aveva invaso i suoi spazi, tant’è che, mettendosi in punta di piedi, avrebbe potuto sfiorare le sue labbra.
La guardò truce, implicando una lieve minaccia.
<< Non ti lascerò passare >> rispose << Ti ho stanato, quindi ho diritto a un colloquio >>.
<< Se avessi voglia di parlare, sì >> commentò.
<< Io ne ho >> di certo non sarebbe capitola lì, proprio in quel momento. L’ultima cosa che voleva era mostrarsi vulnerabile. Doveva ascoltarla almeno quella volta e doveva ragionare con lei.
Poco importava se non era cool, come diceva lui.
<< Devi smetterla di scappare >> azzardò, aspettandosi una risposta non troppo allegra.
E lui – con quella sua aria cinica – l’accontentò, ma in modo meno duro di quanto si aspettasse << Sei la prima a farlo, Maka >> incolore, la trapassò da parte a parte, con quel suo sguardo ghiacciato.
Ancora una volta, non ebbe paura. Perché se prima l’inquietavano, quegli occhi, ora la rasserenavano. Aveva visto la neve sciogliersi. Lui non era così.
Quindi rispose con altrettanto ardore. Si aspettava uno di quei contatti visivi minimi, ma che sembravano durare un’infinità, invece ebbe una lieve occhiata, un ghigno, e un bacio.
Sì, la coinvolse in uno di quei suoi bellissimi baci, che le facevano perdere la cognizione di sé. Era furbo, ma fino a un certo punto. Perché anche lui perdeva la ragione, in certi momenti.
Le cinse il capo, prendendo a baciarla più profondamente. Rispose, perché non era in grado di fare altro.
A volte si faceva prendere dagli eventi. Era una cosa che aveva imparato da Soul.
Questo la catturò tra le braccia, spingendola con maggior vigore contro il piano e accarezzandole la schiena. Il suo tocco sulla pelle le trasmetteva sempre elettricità e calore.
Sì, a volte si facevano prendere davvero troppo dalla situazione.
Proprio per questo, Maka si chiedeva – con quel minimo di lucidità rimastale – se avrebbe risolto qualcosa.
Poi questa e i suoi neuroni scomparivano. Nel vuoto, schiava quasi delle sue sensazioni, non voleva far altro che continuare a fare quello che stavano facendo.
Quando stavano così, lei diventava debole.
E capiva che – in fondo – leggeva le storie d’amore per poter credere ancora un po’ nel lieto fine.

________________________________________________________________________________________________________________________________

About the Fanfic -

Buongiorno miei prodi lettori. *prende una vanga e inizia a scavare* se siete arrivati fino a qui, vuol dire che avete avuto il coraggio di leggere questa cosa.
Beh, io ho avuto il coraggio di scriverla. Non so cosa sia peggio. E – mi spiace – ma ormai ho realizzato che mi piace scrivere su questo fandom.
È AU, e neanche io so perché. Forse lobotomizzarsi tutta la sera guardando episodi si Soul Eater in compagnia, fa male. E forse, sintonizzarsi sulla radio poco dopo e sentire "Hey, Soul Sister" (per la trecentesima volta) anche peggio.
Questa cosa non meglio definita è l'inizio di quello che dovrebbe essere una storia.
Detto questo, sappiatelo, io mi sto sotterrando °\\\° poiché il mio neurone cattivo mi sta urlando "scrivi queste c****** e hai anche la f****** faccia tosta di pubblicarle?".
*si lancia dentro la buca*
Inizia in medias res, e da qui si torna indietro, per capire meglio i fatti.
Inizialmente, volevo postare solo il primo capitolo, senza questo proemio.
Perché? perché una cosa simile mi lega troppo a una trama precisa, che potrebbe cambiare e evolversi nel corso dei capitoli. Così non mi sono sbilanciata troppo, lasciando la cosa sul vago.
A tratti potrebbe essere OOC. E si è visto, dato il piccolo capitolo. Non mi voglio sbilanciare troppo, per cui non ho inserito la nota. In compenso, vi ho avvertito sia qui che nell'introduzione.
Infine, metto in chiaro una cosa: il mio livello di sicurezza, per 'sta cosa, è sotto i piedi. Davvero. Ma davvero, davvero molto. Se la sto pubblicando è solo perché quell'amica che mi impedisce di fare 'ste cavolate è partita... quando torna mi uccide ^^"
A ogni capitolo sarà legata una canzone, sempre che la storia vada in porto.
Il primo capitolo sarebbe dovuto essere "Hey, soul sister" (non ridete, ma il nome di questa canzone è così assonante che non ho potuto non usarla. E poi, non ne posso più di sentirla! pietà - sembra lo sfogo di una repressa... ) ma, dato che l'idea della retrospezione mi è venuta al concerto di Elisa dell'altro giorno, ho deciso di usare "Rock Your Soul". Che ci posso fare? quella ragazza è troppo brava.
Bene, ho parlato anche troppo *inizia a buttare terra in modo da seppellirsi meglio*
Vi chiederei di recensire, ma io stessa non recensirei questa storia, quindi non ve lo dirò... ma ricordate che poi mi deprimo se non vedo commenti T.T
Ora che sono sottoterra, potete anche picchiarmi.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** First Chapter - Introducing: I knew when we collided ***


Hey, Soul Sister ~ Train.
First
Chapter - Introducing: I knew when we
collided
{Sapevo che ci saremmo scontrati

Percorrere la strada che la separava dalla scuola leggendo un libro - non necessariamente buono - era una delle peculiarità di Maka Albarn. Lo era anche quel suo passo marziale, che dettava una certa autorità alla sua figura così minuta.
A volte l’aspetto ingannava, e quello era il suo caso.
Maka poteva essere una bella ragazza, sempre se non si fosse troppo fissati con i seni.
La giovane aveva litigato con le sue forme fin dalla prima adolescenza, quando aveva iniziato a rendersi conto del suo aspetto e del suo corpo. Si era ben presto ritrovata sommersa tra ragazze nel fiore degli anni, da forme sempre più prosperose e ormoni a dir poco in subbuglio, mentre il suo corpo rimaneva sempre quello di una bambina.
Per anni il suo massimo era stato agognare a una terza scarsa e – alla fine – l’aveva avuta vinta.
Certo, lei, l’artigiana, vinceva sempre. Se no non sarebbe stata la prima della classe.
Aveva lunghe gambe, sinuose ed eleganti, ma dall’andatura poco aggraziata, simile a quella di un cadetto.
I capelli Biondi, tendenti al color senape, le incorniciavano il viso magro e dai bei lineamenti, valorizzato da due forti occhi verdi.
A volte si tendeva a dimenticargli gli occhi, e a guardarne solo la superficie. Ma, se si era capaci di scavare un po’ più a fondo, si vedeva il coraggio, la determinazione e la forza della giovane donna.
E, guardando ancora un po’, si riuscivano a cogliere i tratti di quel suo carattere un po’ aggressivo e orgoglioso.
Quella mattina era uscita con una certa fretta, sicura di essere in ritardo ma – come sempre – in perfetto orario. Aveva sistemato velocemente la cucina, riponendo il materiale della colazione al suo posto, e salutando – quasi automaticamente – il vuoto della casa “io esco!”.
A volte si dimenticava di vivere da sola. Beh, proprio sola sola no, ma col padre sì. Questo, praticamente, era come condividere la casa con un fantasma.
Col tempo aveva imparato a memoria ogni punto di riferimento presente in quella strada, perché camminare con gli occhi incollati alle pagine poteva essere difficoltoso. In quei tre anni era quasi stata investita un paio di volte e aveva preso in faccia un numero indefinito di lampioni. Ma ora, alla veneranda età di diciassette anni, non aveva più quegli impicci.
Inoltre, quella strada del suo quartiere era poco trafficata. Però quelle macchine, ambedue le volte, l’avevano quasi presa in pieno – le strade strette e la disattenzione portano anche a quello.
Al massimo passava qualche bicicletta, al cavallo della quale stavano sempre degli studenti.
E poi…
Una moto le sfrecciò affianco, facendole perdere l’equilibrio. Il libro volò dalle sue mani, atterrando a qualche centimetro di distanza da lei. Chiuse gli occhi, preparandosi all’impatto. Se avesse avuto un po’ di preavviso, forse avrebbe potuto attutire la caduta. Forse, eh.
Alzò gli occhi, riaprendoli piano piano, e andando in contatto visivo con una Kawasaki. Conosceva quel veicolo e – naturalmente – la persona che aveva l’ardore di guidarlo.
Scattò in piedi, facendo attenzione alla gonna e raccogliendo il libro.
Poi guardò la figura davanti a sé, rivolgendole un ringhio sommesso << Almeno hai avuto la decenza di fermarti >> sbottò, mettendo il segnalibro. Lo conosceva, a lui, e non voleva averci niente a che fare.
Il ragazzo ghignò, con aria quasi innocente << Mi assicuravo che non fossi morta… se no sai che casini >>
Gli lanciò il libro in testa << Sai che è proibito venire a scuola in moto? >>
<< Sai che non si dovrebbero lanciare dei tomi così grossi in testa alle persone? >> borbottò, massaggiandosi il capo.
<< E sai che non si dovrebbe cercare di investire la gente? >> ribatté saccente.
Si guardarono in cagnesco per pochi secondi.
A volte Soul Eater si chiedeva perché, uno cool come lui, venisse zittito troppo spesso da una secchiona come lei. Tutta colpa dell’estate, che con i sui ritmi canzonatori l’aveva fatto quasi rammollire.
Maka si riprese il libro, intenzionata a usarlo come arma in caso di necessità contro il suo fastidioso compagno. Soul Eater Evans era un ragazzo che, per sua sfortuna, condivideva con lei la classe.
Ed era anche un bel ragazzo, a dirla tutta. Almeno, c’era chi diceva così.
Eppure essa aveva trovato i suoi occhi - di quel color rosso – inquietanti più di una volta. Per non parlare dei capelli, di un assurdo colore-non-colore. Tendevano all’argenteo, ma neanche lei sapeva dir come.
Si parlavano poco e, quelle poche volte, riuscivano sempre a litigare.
Soul era un tipo assurdo e del tutto incompatibile con il carattere della ragazza.
Era irresponsabile e pieno di sé, due caratteristiche che Maka non sopportava.
Poi quel mezzo ghigno, che aveva sempre stampato in faccia… no, non le andava proprio a genio.
<< Vattene, Evans. Vattene prima che decida di querelarti per tentato omicidio >>
<< Anche oggi gentilissima! >> le disse con una certa ironia, prima di riaccendere la moto e salutarla con un lieve cenno della mano.
Maka sbuffò e si sistemò per bene la gonna, tentando di spolverarla un poco.
La giornata non poteva iniziare meglio.
<< Buongiorno Maka >> questa si voltò, sorridendo all’amica, che ricambiò con un timido sorriso.
Uno di quelli dolci e comprensivi.
In fondo, Tsubaki era proprio come quei suoi sorrisi. Almeno, finché nessuno la faceva arrabbiare. Sapeva essere paziente e tollerante, ma aveva anch’essa i suoi limiti. Era una forte, lei, più di quanto potesse credere. E Maka, crescendoci, l’aveva capito più di una volta.
Essa le si avvicinò, sistemando un ciuffo scuro dietro all’orecchio.
<< ‘Giorno Tsubaki >> le rispose la bionda, rivolgendole un radiante sorriso. Per Maka, Tsubaki – nel corso della crescita – era stata fonte di mille perplessità. Era alta e aggraziata, con un fisico decisamente invidiabile. Il viso carino e disegnato, gli occhi scuri, profondi, colorati da impercettibili sfumature blu scuro. Questa e tante altre componenti erano frutto, per lei, di attenzioni maschili non richieste.
L’amica, qualche volta, si chiedeva perché Tsubaki allontanasse tutti i possibili corteggiatori. A volte lo trovava quasi uno spreco, anche se sapeva benissimo che gli uomini erano tutti uguali: maniaci in preda agli ormoni, per questo ancora più propensi al tradimento.
Sbuffò, cambiando immediatamente onda di pensiero.
<< Maka, Tsubaki >> le chiamò una terza voce, una voce impastata di chi si è appena svegliato. Si voltarono e Elizabeth “Liz” Thompson raggiunse le due.
Lei era una di quelle ragazze che si notavano subito, sia per l’aspetto sia per il carattere. Inoltre, la sua figura spiccava spesso a scuola; fin dal primo anno, quando litigava con gli insegnanti per la divisa scolastica, ostinandosi a venire a scuola in Jeans e maglietta. Alla fine l’aveva vinta lei, ma solo per personale disperazione di tutto il corpo docenti.
Aveva i capelli biondi, accesi, quasi luminosi, e una figura slanciata.
Sì, Maka – in fatto d’amicizie – era un po’ masochista: e poi si chiedeva da dove arrivassero i complessi di inferiorità.
<< Buongiorno >> risposero in coro, con diversi livelli d’entusiasmo.
Maka guardò sofferente il suo libro ammaccato << Oggi niente lettura? >> le chiese la bionda, osservando perplessa l’espressione dell’amica.
<< Sì e no >> borbottò << Leggevo, ma al passato. Leggevo prima che quell’idiota di Soul Eater mi venisse addosso con la moto >>.
<< Eh? >> Tsubaki le rivolse uno sguardo confuso << Ti sei fatta male, Maka? >>
<< Certo che una cosa simile non è normale. Ma è stato un incidente? >> chiese l’altra.
Maka digrignò i denti << No – il cretino mi è venuto addosso >>
<< Leggevi? >>
Maka annuì.
<< E non eri attenta… >>
A suo malgrado, annuì.
<< Incidente >> decretarono in coro.
<< Aspettate: la vostra migliore amica viene quasi investita e voi non dite niente? >> protestò
<< Né, Liz. E Patty? >>
<< Mi ignorate, per caso? >>
Liz sospirò, iniziando a parlare della sorella minore. Frequentava ancora le medie, ma era perspicace e vivace, anche se un po’ infantile. Spesso si univa a loro, la mattina, mentre andavano a scuola. Le medie si trovavano nello stesso istituto della scuola superiore. Della Shibusen << Patty sta a casa. Ha la varicella >>.
Maka sbuffò, riponendo il libro nella cartella.
Dopotutto, era solo l’ennesima giornata scolastica.

---

Soul sistemò la moto nel retro della scuola. Una noiosissima regola scritta su un manuale che non avrebbe mai aperto, diceva che – agli studenti – era proibito l’accesso all’istituto scolastico con macchine e motociclette. Non che qualcuno avesse mai realmente rispettato quella norma. E, probabilmente, lui non ne sarebbe mai entrato a conoscenza se non fosse stato per quella secchiona di Maka Albarn. Ligia alle regole com’era, sarebbe andata direttamente dal preside solo per far rispettare una qualche minuzia caduta in prescrizione secoli prima. Una volta l’aveva fatto davvero, di andare dal preside. Tutto per via della sua moto molto cool. Fortunatamente, avevano dato ragione a lui.
Il ragazzo sbuffò, mettendosi le mani in tasca e dirigendosi con poca convinzione verso l’istituto scolastico. Nello stato del Nevada – il grande forno americano – la seconda settimana di ottobre pareva l’ultima di giugno. Lo sbalzo stagionale, lì, era veramente radicale. Il freddo sarebbe arrivato pungente da un momento all’altro, e non in modo graduale come succedeva in altri paralleli. Quando era andato a trovare i suoi, lo scorso anno, si era quasi sorpreso di trovare una certa brezza fredda in Marzo.
Questo spiegava perché la scuola spendesse tanto in condizionamento.
Gran parte del merito - riguardo quell’immensa impresa quale era stata convince i docenti a installare dei condizionatori - era di quel damerino del figlio del preside.
Con quella sua aria perfetta, quel suo atteggiamento perfetto e quei suoi voti perfetti, a Soul aveva urtato l’umore più di una volta. E quella sua mania per la simmetria, poi! Degna di un sociopatico.
A dir la verità, aveva pensato di picchiarlo più di una volta.
Poi, chissà come, erano diventati amici. Però la voglia di picchiarlo – o in alternativa, metterlo sotto con la moto – certe volte ritornava prepotente, soprattutto quando insisteva col dire che i suoi capelli erano asimmetrici.
Echecacchio! Erano così, e basta. Aveva provato per anni a sistemarli, con scarsi risultati. E no, non aveva intensione di cospargerci litri di gel per farli sembrare appiccicati al cranio, come leccati da qualche animale. L’idea – e l’immagine - era rivoltante.
Almeno lui non era complessato. Non di certo da cose come i capelli poco ordinati.
E eccolo, il sopraccitato. Lo salutò con un cenno del capo, mentre Soul trascinava i piedi verso di lui.
Lo squadrò di sbieco, poi volse gli occhi verso la moto.
<< Soul? >>
Questo alzò un sopracciglio, non sapendo se interpretare il nome e quella bizzarra espressione come un saluto. Va beh che era strano, ma non così tanto dal corrugare la fronte e indicare davanti a sé come un ossesso senza un motivo. Ancora poco, e forse l’avrebbe udito urlare “Terra! Terra!”.
Di certo – uno come Kid – sarebbe stato utile al Titanic. Con lui non sarebbe affondato per due motivi: primo, non avrebbe mai progettato qualcosa di asimmetrico; secondo, avrebbe urlato “Iceberg! Iceberg!” a chilometri di distanza.
Non si doveva mai deturpare la perfezione del mare con un Iceberg. Mai. Soprattutto con Kid in zona.
<< È un’ammaccatura, quella sulla tua moto? >>
Soul lo guardò sorpreso, non sapendo come interpretare quella frase. Non era scemo, né rincoglionito, e neppure ritardato, ma non poteva aver detto una cosa simile, perché non c’era nessuna ammaccatura sulla sua bellissima moto.
Prima non c’era. E se ora – controllando – l’avesse trovata, la colpa sarebbe stata di una sola persona. E quella l’avrebbe pagata cara. Molto cara.
Si avvicinò al veicolo, accompagnato dall’amico, che blaterava qualcosa sull’alterarsi di qualcos’altro. Insomma: alle solite. Ormai aveva imparato a disintonizzarsi dalla stazione “Buongiorno simmetria”. Bastava andare su FM.
<< Cacchio! >> borbottò, percorrendo con le dita un difetto che – prima di quella mattina – non c’era.
Eppure compariva. Era nel punto esatto in cui era rimbalzato quel fottuto libro dopo che era stato lanciato sulla sua testa. Qualcosa gli disse che l’aveva fatto apposta, quella ragazza, in modo da irritarlo ancora di più. Sapeva che era sgraziata, mascolina e violenta, ma il dotata-di-forza-sovraumana non rientrava nella lista.
<< Indovino >> azzardò l’amico, studiando la forma del colpo << Ennesimo Maka-chop >>
La dura, triste realtà era che lui, Soul Eater, tipo cool, ricercato e famoso per troppe risse; lui, l’arma, veniva continuamente preso a libri in faccia dalla sua compagna di fisica. La secchiona del laboratorio con la quale aveva deciso di far coppia nel vano, illusorio tentativo di copiare qualcosa.
Ma la secchiona non era solo incorruttibile, ma anche non abbindolabile.
A conti fatti, i suoi voti in fisica erano ancora pessimi.
Il proprietario del veicolo sbuffò, trattenendo un moto di rabbia. Si sarebbe vendicato in modo lento e doloroso. Eh, sì.
<< Esatto >> riluttante, diede ragione al corvino << Quella non è normale >>
Death the Kid ghignò << Vedila così: anche se ha i codini asimmetrici, vedervi litigare è dannatamente divertente >>
<< Questa me la segno, Kid >> ringhiò, alzandosi dal capezzale della sua Kawasaki.
<< È la verità >>
<< D’ora in poi, tienila per te >> ribatté stizzito.
<< Né, e Black☆Star? >> chiese Kid. Cambiare argomento era la strategia migliore. Soul si alterava sempre troppo quando si parlava della sua moto. O di Maka Albarn.
<< Diamine, e chi sono? La sua balia? Arriverà quando arriverà >>

---

Fissando con ardore la bacheca, i corridoi della Shibusen iniziarono man mano a ripopolarsi.
C’era chi correva, con l’acqua alla gola per il ritardo; chi si fermava a chiacchierare, con un certo menefreghismo verso l’orario. Chi, ancora come lei, non aveva deciso che materie scegliere.
Perché quell’anno, per accedere agli esami, le mancava un credito.
Aveva scelto le solite materie, come tutte le volte: chimica, fisica, algebra, matematica e scienze. E gliene mancava ancora una.
Spagnolo era fuori discussione: aveva già frequentato l’anno precedente, e voleva che sul suo curriculum scolastico comparissero diverse materie. Più era vario, meglio era. Soprattutto se voleva accedere a un buon college.
Poi c’era educazione fisica, ma lì lei era una schiappa.
Il francese sarebbe stato inutile, lo parlava correntemente, mentre del corso di teatro non se ne voleva sapere. Biologia era pieno, così come informatica e educazione civile.
Non aveva voglia di iscriversi a storia, o geografia, tanto meno a filosofia. Non solo i corsi erano zeppi, ma lei era poco portata per le materie umanistiche.
Infine, c’era un ultimo corso. Erano rimasti solo due posti, e uno di quelli doveva essere occupato per forza da lei.
Maka non capiva perché si sentisse così titubante nel scrivere il suo nome tra la lista degli iscritti.
Era solo il corso base di letteratura inglese. Con tutto quello che leggeva, sarebbe dovuto essere una passeggiata. Il programma, quell’anno, da quanto aveva potuto sbirciare in segreteria, prevedeva la lettura di alcuni romanzi che non le sarebbero andati per niente giù, soprattutto al livello d’analisi critica.
Non avrebbe mai saputo spiegare la relazione tra Mr. Darcy e Elizabeth Bennett, e tanto meno quella tra Heathcliff e Catherine Earnshaw/Linton. Un po’ a malincuore, si iscrisse, sperando anche nella lettura di qualche bel thriller psicologico o di un libro d’attualità.
Guardò velocemente l’orologio: mancava ancora un quarto d’ora all’inizio della lezione.
Sarebbe passata in segreteria. Doveva chiedere il programma di letteratura, e informarsi per i dormitori.
Sapeva che la Shibusen era una scuola abbastanza rinomata, ma non così tanto dal non avere una stanza libera nei dormitori scolastici.
Voleva andarsene da quell’appartamento da troppo tempo, e questa volta ci sarebbe riuscita.

La segreteria era il solito edificio poco affollato, afoso in ogni mese dell’anno e dotato di un design alquanto bizzarro. I colori sembravano essere stati scelti con lo scopo o di spaventare li studenti, o di mischiare tonalità del tutto incompatibili tra di loro. Tempo addietro, Maka le aveva dato il titolo di stanza più bizzarra.
Poi si era ritrovata a cospetto del preside, nella death room, e aveva dovuto cambiare idea.
Beh, se si era ritrovata in quella stanza la colpa era solo e esclusivamente del suo compagno di laboratorio, l’idiota sulla moto, che aveva fatto quasi esplodere l’esperimento. Come, non l’aveva ancora capito. In ogni caso, si era ripromessa di stargli lontano all’ora di chimica. Non voleva sapere cosa poteva combinare con degli elementi in mano, se riusciva a far saltare in aria un semplice e banale test sulle leve.
Quello era stato un vero e proprio insulto alla sua intelligenza.
Si avvicinò alla segretaria con passo deciso. Questa le sorrise, quasi operosa, dandole il programma richiesto,
Poi Maka passò alle note dolenti. Sapeva che, la signora dietro al bancone, non ne poteva più delle sue continue lamentele. Però – purtroppo per l’addetta – era un suo compito, quello di raccogliere proteste e richieste.
<< Mi scusi >> proferì la ragazza << C’è disponibilità per quella stanza che avevo richiesto al dormitorio? >>.
La donna sistemò alcune carte, guardandola solo si striscio << Uhm… >> borbottò << Dovrei controllare nel pc. Torna più tardi >>
Maka si sporse verso di lei. Si stava irritando, diamine. Il pc non era solo acceso, ma anche davanti al naso dell’impiegata, che sprecava il suo tempo su un social network. Doveva essere Facebook, o Twitter: Maka non lo riconobbe. La sua visuale era limitata, e vedeva semplicemente un logo azzurro che non era quello della Shibusen.
<< Senta >> la pregò << Tra poco ho lezione, e capisco che lei sia molto occupata, ma potrebbe dare solo un’occhiata alla disponibilità? >>
La segretaria sbuffò. In quel preciso momento, Maka capì che non sarebbe stata un’impresa facile. << Te l’ho già detto, passa più tardi – digitò qualcosa sulla tastiera – non ho tempo da perdere dietro a te >>
<< Invece ce l’ha >> ribatté saccente la ragazza << È il suo lavoro, e che diamine >>
<< Sta per iniziare la lezione >> con un certo livello di indifferenza, continuando a picchiettare sui tasti del computer, la donna cercò invano di liberarsi della bionda.
<< Lo so >>
<< Allora vai >> suggerì.
<< Non le sto chiedendo un’impresa titanica, semplicemente di vedere se il dormitorio, quest’anno… >>
<< Perché, invece di fare richiesta per una camera, non ne parli con tuo padre, dato che non ne sa niente? >> con quel suo tono stizzito, la segretaria segnò l’ora della sua morte. L’unico essere innominabile alle orecchie di Maka era proprio Spirit Albarn, suo padre. In fondo, avrebbe dovuto sospettare del suo zampino. Quando mai la scuola non offriva alloggio alla sua migliore studentessa?
La rabbia montò nelle sue vene, tant’è che il desiderio di afferrare quell’impiegata scadente e impicciona si fece davvero prepotente.
<< Questi non sono affari che la riguardino. Ora, la stanza >>
Con un colpo secco di mouse, la donna si rassegnò << C’è ne solo una >> disse sbrigativa << Nel dormitorio misto, è… >>
<< Va bene qualunque cosa >> affermò Maka, raccogliendo velocemente le chiavi che le stava porgendo e un foglio fresco di stampa.
<< Come vuoi tu, ragazzina. Poi non lamentarti >>.
Ma lo disse al vento.
Maka era già corsa fuori. Era terribilmente in ritardo, e tutto per colpa di quella donna poco professionale. Avrebbe posto reclamo.
Intanto, al suono preciso della campanella, si sistemò nell’aula di algebra.
Sì, appena in tempo.

---

Soul, quel giorno, entrò in classe con propositi omicidi. Gli aveva avuti tante volte, ma solitamente verso professori o ragazze troppo insistenti. Anche quella volta si trattava di un’esponente del sesso femminile, ma decisamente meno propensa agli atteggiamenti appiccicosi-mielosi delle sue coetanee.
Pensare che l’ora di algebra gli piaceva, anche.
Una delle materie dove riusciva a andare bene senza sforzarsi troppo.
Incurante della professoressa che entrava appena dopo di lui, percorse la classe fino a trovare il banco della ragazza in questione. La secchiona che aveva osato rovinargli la moto.
Non si accorse neanche della sua presenza, presa com’era nella lettura del libro di testo. L’osservò per qualche secondo, mentre corrugava la fronte e storceva il naso, cercando di capire chissà quale esercizio impossibile. Poi il suo volto si illuminò, Maka annuì tra sé e sé e girò pagina.
Fantastico! Pensò ironicamente il ragazzo l’assassina di moto ha anche un lato quasi carino.
Spostò rumorosamente la sedia del banco affianco al suo, in modo dal farsi notare.
Le uniche aule normali della scuola erano quella di matematica e di algebra. Le altre, più che stanze di un liceo, somigliavano a reparti universitari, in cui li studenti si ritrovavano sopraelevati alla lavagna, al professore e alla stanza stessa.
Maka alzò velocemente lo sguardo, poi tornò sul suo libro.
Soul si sentì irritato. Lo stava ignorando, per caso?
<< Perché ti sei seduto qui? >> domandò infine, fitta fitta sul quel tomo che la nascondeva il viso.
Il ragazzo ghignò: no, non lo stava ignorando.
<< Oggi ho deciso di renderti la vita impossibile >> disse candido.
Lei non parve scomporsi, mormorando un “Ah”. Che facesse quello che voleva: quel giorno era già riuscito a innervosirla a causa del quasi-incidente, ma era anche vero che – finalmente – aveva ottenuto il suo alloggio. E niente sarebbe stato più irritante della vecchia segretaria - Niente.
Neppure quello sbruffone che stava seduto al suo fianco.
La professoressa iniziò la lezione. Essendo ancora a inizio anno, erano nozioni semplici e di base. Era più un ripasso che uno studio vero e proprio, ma Maka prese comunque appunti. O, almeno, cercò di prendere appunti.
<< Cos’era quel “ah”? >> domandò irritato << Io ti minaccio, e tu dici “ah”? >> continuò.
La ragazza tentò di ignorarlo, ma con scarso successo. Si reputava una persona matura, ma quando c’era in ballo lui ogni buon proposito veniva distrutto, dando spazio all’irrazionale voglia di prenderlo a schiaffi.
<< Non era il tono di una minaccia >>
<< Se avessi visto l’ammaccatura che hai fatto alla mia moto, sapresti che io – quando minaccio – lo faccio sempre seriamente >> ribatté accigliato e anche irritato. Non essere presi in considerazione era decisamente poco cool, e non poteva permetterselo. Soprattutto, non poteva permettere a quella ragazzina di ignorarlo.
Frequentavano entrambi la Shibusen dalle scuole medie, ma non erano mai stati affini o semplicemente amici. Si scontravano, di tanto in tanto, e basta. Poi, in quell’ultimo periodo, erano arrivati a incontrarsi più spesso, e a litigare in un modo direttamente proporzionale.
Maka sbatté due volte le ciglia, poi guardò davanti a sé: appena la docente si voltò verso la lavagna, scaraventò il dorso del libro d’algebra in faccia al ragazzo.
<< DAN... nnazione! >> il suo tono cambiò appena arrivò la consapevolezza di essere in classe e di non poter ribattere con un’esclamazione. Prima o poi, ne era sicuro, sarebbero finiti a fare a botte.
Benché fosse bravo, guardandola, si ritrovava a dubitare della sua vittoria in un eventuale scontro.
In ogni caso – per quanto potesse essere sessista – non avrebbe mai picchiato una ragazza.
<< Questo per cosa era, sentiamo! >> di lagnò.
<< Per aver detto eresie sul mio conto! >>
<< Mi hai ammaccato la moto, è vero >> ringhiò, questa volta fregandosene del tono.
<< Mi hai quasi investito: sai quanto mi importa della tua moto! >>
Si guardarono nuovamente in cagnesco, in quel modo che poteva sembrare quasi innocente. In quel momento esatto, entrambi isolarono l’ambiente circostante, tenendo conto solo l’uno dell’altra.
Poco importava la sede della loro discussione: avrebbero continuato finché uno dei due non avrebbe avuto ragione – ossia per sempre.
<< Regola numero uno della via dell’assassino: confondersi nelle tenebre, celare il proprio respiro, attendere che l’obbiettivo abbassi la guardia >> sussurrò una voce inconfondibile.
Soul e Maka si voltarono, rimandando silenziosamente il dibattito.
Ecco, c’erano di nuovo.
<< Regola numero due della via dell’assassino: sintonizzarsi con l’obbiettivo e dedurre i suoi pensieri e le sue azioni >> il tono si fece più grave.
I due sbuffarono. << Professoressa, sta arrivando Black☆Star >> l’avvertì uno dei compagni.
<< Regola numero tre della via dell’assassino: abbattere l’obbiettivo prima che si accorga di voi! >>
Soul sbuffò, estrasse il cellulare e inviò velocemente un messaggio a Kid. Bene, ora sapeva dov’era BlackStar.
Appena in tempo per vederlo piombare in classe, distruggendo i vetri di una finestra e atterrando sulla cattedra << Yahooo! Il celeberrimo illustre sottoscritto si dichiara presente! >> esclamò, con quel suo sorriso da ragazzino e quei capelli celesti. Lui era il capostipite di una vecchia famiglia di assassini, della quale si ostinava a prendere le redini. Nessuno aveva ancora capito che famiglia fosse, in realtà.
Black☆Star non aveva contato due piccoli dettagli: non solo la lezione era iniziata da mezz’ora, ma avrebbe anche dovuto ripagare il vetro alla scuola.
La professoressa e i compagni stessi non avrebbero mai potuto abituarsi a quella sua esuberanza.
Tranne Maka e Soul, che osservavano la scena con assoluto disinteresse << E quando inizierebbe la tua opera per rendermi la vita impossibile? >>
<< Forse quando ti crescerà il seno >>
L’unica cosa che coprì i vari insulti, sicuramente poco femminili, che la ragazza rivolse al suo compagno, fu l’urlo della professoressa che inveiva contro il suo alunno un po’ troppo egocentrico.
Già, perché lui sarebbe diventato il nuovo dio.

---

Tsubaki sbuffò, osservando la scena che le si presentava davanti.
Era appena la prima ora e quei due già litigavano?
La campanella era appena suonata, decretando l’entrata della seconda ora, che aveva in comune con l’amica. Era la lezione di scienze, la prossima, quella con il professor Stein. Solitamente, Maka scalpitava di gioia, trascinandola a gran passo verso l’aula. Quella mattina, invece, inveiva contro Soul Eater, lanciandogli qualche libro di tanto in tanto.
<< Se te lo stai chiedendo: sì, sono così dall’inizio della lezione >> la ragazza si voltò, sorridendo a Black☆Star. Anche lui osservava la scena, con due secchi d’acqua rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra.
<< E pensare che non li hanno neanche buttati fuori dall’aula >> disse << L’illustre sottoscritto, invece, è stato punito per aver semplicemente sfondato la finestra >> annuì tra sé e sé, con sguardo convinto.
Tsubaki si chiese se si rendesse conto delle sue parole.
Aveva sfondato un vetro? E come diavolo… ?
<< Ma un giorno, quella prof, si inchinerà al mio cospetto! >> rise, facendo dubitare della sua sanità mentale alla ragazza. Prima o poi, avrebbe voluto sapere cosa faceva di così assurdo in classe.
<< Ti ho detto cinque volte che non ho fatto niente! Sei tu quello in torto! >> urlò dall’altra parte Maka.
<< Guardati le spalle, Albarn >> ribatté quell’altro.
Maka lo guardò male, adocchiando Tsubaki. Ah, la salvezza.
<< Vaffanculo, Evans! >> detto questo, girò i tacchi, prendendo per un braccio la ragazza.
<< Scusa >> si giustificò, sorridendo a lei e al suo intrattenitore << Andiamo, c’è la lezione di scienze >>
<< Maka? >> domandò, mentre si allontanavano dall’aula di matematica << Che è successo a Black☆Star? >>
<< È entrato – non so come, visto che siamo al secondo piano – saltando dalla finestra. Ha rotto un vetro, atterrando sulla cattedra della prof >> alzò le spalle, come se fosse una cosa normalissima.
Sì, una cosa normale.

---

Maka aveva creduto che, quel giorno, sarebbe stato il migliore della sua vita.
Fare i bagagli, abbandonare la propria casa e non salutare suo padre.
Non che si fosse mai veramente sentita a casa, lì, ma il termine più appropriato con il quale descrivere un luogo abitato era quello.
Nella sua equazione – però – non aveva messo in conto la variabile Soul Eater. Già, come poteva calcolarla? Perché li sguardi malvagi delle ragazzine, all’ora di algebra, non erano bastati. Infatti, a quanto sembrava, a un paio di sue compagne non andava a genio il fatto che avesse insultato e picchiato il loro piccolo idolo.
Cavoli loro.
A conti fatti, Maka l’aveva sottovalutato. Tutto per un graffietto insignificante su una dannata motovettura.
Seguire la lezione era stato impossibile, ma qualcosa le diceva che non si sarebbe arreso lì.
Era ottuso ma ostinato: aveva capito che certe strategie non funzionavano, così passava a altre.
Probabilmente, non sé ne sarebbe dovuta preuccupare. Eh, già.
Non sarebbe dovuto essere il suo chiodo fisso, eppure lo era.
Anche ora, mentre cercava – invano – il dormitorio.
Quel ragazzo non aveva fatto nulla di particolare, a conti fatti, ma lei se ne preoccupava ugualmente.
L’inquietava, tutto qua, e sentiva che ne doveva stare alla larga.
Scacciò quel pensiero non appena arrivò di fronte allo stabilimento.
La Shibusen contava tre dormitori: uno femminile, dove alloggiava anche Tsubaki, uno maschile e uno misto. Lei si trovava in quest’ultimo, dove c’era quella fantomatica stanza libera.
Non che le importasse granché, il fatto che fosse misto. Le bastavano un tetto e un letto, il resto sarebbe venuto dopo, in quanto non aveva mai avuto problemi a adattarsi.
I dormitori si trovavano nel quartiere che circondava la scuola, a una distanza non troppo eccessiva. Quello misto, di recente costruzione, era il più lontano.
Non sprecò tempo a osservare il palazzo. Era sicura che, col tempo, avrebbe avuto sicuramente altre occasioni in cui dedicarsi all’architettura dell’edificio.
Aprì il portoncino, ritrovandosi nell’andito, dopodiché chiamò l’ascensore. Con se aveva una borsa contenente i beni essenziali e gli effetti personali, tutto quello che avrebbe mai voluto portarsi appresso dalla sua vecchia abitazione.
Una delle prime novità, che la fece sentire finalmente come Alice nel paese delle meraviglie, fu l’ascensore e la musichetta d’attesa di quest’ultimo.
Ci entrò con un sorriso sulle labbra, premendo il numero cinque. Secondo il foglio e le chiavi, il suo era il quarto appartamento del quinto piano. Con queste informazioni, c’è n’erano anche altre, come i numeri d’emergenza e il numero della scuola, che ormai Maka aveva memorizzato: quarantadue, quarantadue, cinquecentosessantaquattro.
Si sentiva inebriata dalla novità e capace – in quel momento – di far passare per oro ogni cosa che luccicava.
Quasi canticchiando, si avvicinò alla sua stanza. Sì, era la sua stanza, tutta sua. Il suo piccolo mondo senza padri-apprensivi-traditori appresso!
Girò la chiave, aprendo la sua piccola conquista.
Le si presentò davanti una stanza modesta ma grande, dotata di tutti quei mobili che potevano essere utili a uno studente: letto, grande armadio, libreria e scrivania. Affianco a quest’ultima, stava una finestra con un piccolo balcone.
In poche parole: non poteva desiderare di meglio.
Poi – sistemando la roba – se ne accorse.
Si accorse di quella piccola porta, non prevista nei suoi piani. Non contata, ancora una volta, nel suo algoritmo.
Si avvicinò quasi titubante e l’aprì senza pensarci due volte.
Ma cosa…
La porta comunicava con un’altra stanza. Precisamente, comunicava con una cucina.
No, non era semplicemente una cucina: era una sala comune. Il divano stava quasi a ridosso della parete, davanti a una tv. Il mobilio dell’angolo cottura era al completo, tant’è che si chiese se, aprendo il frigo, avrebbe trovato al suo interno dei viveri.
Ed era quasi disordinata. Adocchiò un piatto sporco nel lavello e una chitarra acustica affianco al frigo.
Forse disordinata no si disse ma non dovrebbero esserci comunque, questi due dettagli.
Infine, oltre questa sala, c’era un’altra porta, comunicante con una stanza che doveva essere, a rigor di logica, il bagno.
Certo che quella struttura era strana!
Così l’aprì.
Clack.
E no, non era il bagno.
Quando si trovò davanti la faccia di Soul Eater Evans, capì di essere finita nei guai.
Il sogno era appena finito.

 

_______________________________________________________________________________________________________________________________

About the fanfic

Hemm... eccomi di nuovo XD
Ovviamente, il capitolo prende il titolo dalla canzone che ha un po' dato il via alla storia stessa. Certo, l'idea è passata sotto varie fasi, prima di essere trascritta, ma è partito tutto dalla canzone. In principio, questo capitolo era un'introduzione, e quello è rimasto. Non è eclatante, non accade chissàchè, ma inizia a chiarire la situazione. Benchè sia un Au, vorrei mantenere certi dettagli, certe parti del manga, e matenerle come sono. Primo tra tutti, la convivenza di Soul e Maka.
Spero non me ne vogliate nè per la lunghezza, nè per aver modificato la moto di Soul. Sinceramente, a me piacciono i veicoli belli, e non ho mai capito il modello della moto dell'arma. Sembra più un vespino che una moto vera e propria -.-"
Poi c'è la questione dei genitori di Maka: lo sappiamo che lei odia il padre, per cui mi sembra quasi normale che cerchi scappatoie per non vederlo. In questo caso, si è trovata alloggio nel dormitorio. Per quanto riguarda la madre-fantasma (perchè, anche se non sono spoilerata sulla serie, non l'ho mai vista nè nell'anime nè nel manga)... beh, non lo so neanche io XD
In proposito, voglio sprecare ancora due parole sul prologo.
Per il precedente capitolo, ho scelto "rock your soul" per una serie di motivi. Primo tra tutti, il significato della parola "rock" che, in italiano, può essere tradotto in varii modi - "tutto quello che voglio è scuotere la tua anima" è solo uno.
Può significare scuotere, così come cullare, avere, vivere e - perchè no - completare. è qualcosa di poetico, quasi, per questo l'ho scelta. è a libera interpretazione e questo mi piace, così come mi piace la totalità di quella parola. Non è definita, non ha barriere. Anche l’immagine di sopra è in riferimento al prologo.
L'aggiornamento della storia non so quando avverrà, perchè la prossima settimana sarà probabilmente occupata (e poi mi hanno rimandato in latino e devo studiare =_=) e -inoltre - devo scrivere anche il capitolo di un'altra storia originale che ho in corso XD
Come ho detto nel prologo: la mia sicurezza su questa cosa è ancora bassa! evviva! (faccio supporto morale!)
Ringrazio tutte le persone che hanno aggiunto la storia tra le seguite e le preferite e - particolarmente - chi mi ha fatto coraggio con una recensione =D
Spero di non avervi annoiato troppo! Scappo.

Recensioni:

Dany92: Ogni volta che leggo una tua recensione, ho voglia di correre a abbracciarti XP mi riempi sempre di complimenti, e io non so mai come rispondere >\\\< sono un po' imbranata in certe cose. Pronta per la vagonata di grazie? perchè, se oltre a lasciarmi recensioni così belle, mi metti anche tra li autori preferiti, io non posso far altro che riempirti di grazie, sai? però non posso riempire tutta la pagina con dei grazie, per cui spero accetterai un grande e sincero GRAZIE in maiuscolo grossetto.
Allora, per il bacio da Soul... beh, se vuoi puoi prendere il numeretto e metterti in fila XD
In realtà, l'idea è nata quando, guardando Soul Eater con una mia amica, si è bloccato megavideo. Non ricordo che episodio fosse, comunque c'era il sotttotitolo con Maka che diceva "Hey, Soul..." e, mentre la mia amica inveiva con i fatitici 72 minuti, ho iniziato a canticchiare "hey soul sister, aint that mister mister on the radio, stereo, the way you move aint fair you know"
Sì, lo so, non è una cosa normale.
Poi ho visto questa fanart --- > http://i27.tinypic.com/ej5dw.png
E il resto è venuto da solo XD
L'ho sentita davvero troppo, quella canzone.XD
scusa se ti ho trattenuta con questa risposta delirante XD a presto!
Ps: anche le mie amiche sono così T.T

Lady Airam: prima di tutto: grazie per la recensione! =) ecco il primo capitolo/introduzione della storia. Ok, ammetto che potrebbe essere noioso e lungo, ma... beh, la storia vera e propria inizia al prossimo XD sono contenta che ti sia piaciuto il prologo =) spero continuerai a seguirmi. Baci
Ps: la mia amica-coscenza è ancora fuori, per cui... XD

Midnight_Rose: *scorge la tua faccia da sotto il buco* oooh! luce! salvatrice! XD
E un mio sommo piacere vederti anche qui! XD mi piacciono le tue recensioni!
Quindi, visto che mi hai salvato, ho portato alla luce il primo capitolo della storia ù.ù l'ho modificato un po' rispetto all'origine, ma eccolo, in tutto il suo (non) splendore.
La mia amica è ancora fuori XD per cui, continuo a scrivere idiozie una dopo l'altra (moltre delle quali, sono rimaste nel mio pc in qualche cartella dispersa ù.ù)
Beh, vogliamo parlare della mia, di fortuna in amore? xD se tu sei una nocciolina, io sono un ameba non identificata xD ok, la smetto, anche io sono in vena di dire fesserie XD
Ora vado! baci!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Second Chapter – You can't always get what you want ***


You Can't Always Get What You Want ~ Rolling Stones
Second ChapterYou can't always get what you want
{Non puoi avere sempre ciò che vuoi

Era lui. Non c’erano altre soluzioni.
Occhi rossi, come un fuoco insanguinato. Occhi cinici e spietati, strafottenti. Forse un po’ confusi?
Capelli argentei. Argentei, di quel colore-non-colore che odiava tanto. Spettinati, terribilmente spettinati, forse più del solito.
Si, proprio lui.
O era lui, o doveva comprarsi un paio di occhiali. Se non avesse avuto problemi oculistici allora avrebbe dovuto richiedere immediatamente una tac al cervello: aveva le allucinazioni.
Chiuse la porta dietro di sé, stordita.
Che cosa aveva appena visto, esattamente?
Si appiattì contro la porta, il respiro un po’ corto, in preda allo stupore. Si guardò intorno, ricomponendo mentalmente la stanza. La cucina iniziava a dare i primi segni di vita, sfuggiti a una precedente analisi poco approfondita. Il piatto sporco nel lavello, quella chitarra, messa lì alla ben’e meglio, quel tavolino un po’ troppo sovraffollato; l’odore di cibo, quel calzino vicino allo schienale del divano, la radio con il lettore cd aperto.
Non se ne era accorta?
Si passò una mano tra i capelli, indifferente alla situazione. Era agitata, questo l’avrebbe capito anche un ermellino impagliato. Aveva scelto quel dormitorio per stare da sola. Era una cosa che le piaceva, la solitudine. Quel senso di pace e beatitudine che si prova a colloquio con il proprio individuo la gratificava, liberandola da pensieri molesti e altre forme di distrazione.
La solitudine era un bene.
I piani erano diversi.
Se anche si fosse ritrovata una compagna di stanza, avrebbe saputo come gestire la cosa.
Ma Soul Eater Evans nella stanza comunicante alla sua?
Anzi, non proprio alla sua: nella stanza comunicante all’ambiente comune?
No, questo sconfinava ogni limite. Era una sorte che giocava con i suoi principi, riempiendoli di candida aspettativa prima di buttarli allegramente nel cassonetto.
Uno specchio di vetro che si frantumava più e più volte, senza mai esigere giustificazione tentando di tener sempre un po’ di quei pezzetti per sé.
Scosse la testa, si riconciliò con se stessa.
Lasciò che la sua schiena si staccasse dalla parete.
Maledizione!
Per prima cosa, avrebbe sporto reclamo: chi era l’architetto di quella costruzione? Pure un bambino con dei pastelli colorati avrebbe saputo progettare una casa – un ambiente – organizzato meglio.
Era proprio vero che le lauree – ormai – le davano a cani e porci. Cani e porci con soldi, abbastanza per comprarsi i professori. O direttamente il pezzo di carta.
Riaprì la porta di scatto, riproponendo la scena precedente.
Ancora una volta essa gli era davanti, portando con sé una sommessa sfida non verbale, palpabile solo da chi sapeva leggere quelle note invisibili prodotte dall’aria.
Soul le rivolse uno sguardo si sufficienza, totalmente indifferente alla situazione.
Beh, questo era tipico suo.
Lasciò cadere le braccia lungo il corpo. No, non voleva attaccarlo, ma non poteva neanche ignorarlo come stava facendo lui << Tu… cosa… insomma! >> si ritrovò quasi a balbettare. Non che le mancassero le parole – anzi - e non che avesse timore ma, più semplicemente, non riusciva a trovare qualcosa da dire.
<< Hai intenzione di parlare o ti vuoi limitare a stare lì? >> Soul alzò gli occhi, con quel fare un po’ burbero e indaffarato << Ti posso assicurare di non essere un alieno e di non voler mangiare il tuo cervello, per cui non guardarmi così >>
Strinse i denti: non voleva picchiarlo, voleva parlarci.
Non voleva picchiarlo.
Non voleva picchiarlo.
Non voleva picchiarlo.
Non voleva.
Non vol... diamine, gli avrebbe tirato in faccia un dizionario seduta stante. E l’avrebbe tirato forte, in modo da fargli molto male.
<< Buona sera, Evans >> sorrise dolcemente, sorprendendo il ragazzo. In questo modo, per lo meno, aveva attirato la sua attenzione << Nel caso ti stessi chiedendo cosa ci faccia qui, la risposta è molto semplice: no, non sono venuta a farti una amichevole visita… >> il tono si voce si increspò << … Mi stavo semplicemente trasferendo nella stanza qui affianco e, così per caso, ho deciso di controllare il resto di quel che può sembrare – a occhio esterno – un appartamento >>.
Soul Eater le rivolse uno sguardo vacuo, disinteressato. Non gli importava perché fosse lì, in fondo, tanto perché avesse deciso di rovinargli il resto della giornata dopo aver ammaccato la sua amata moto. Sottolineiamo l’ultimo dettaglio: ammaccato la sua amata moto.
L’affronto subito l’aveva portato a voler rendere la vita impossibile a quella ragazzetta del tutto mediocre; quella sua vocetta petulante e quei suoi sbalzi d’umore e d’espressione, degni di una doppia personalità, stavano rinnovando il lui le sue antipatie, provocandogli un serio bisogno di renderle davvero la vita impossibile.
<< Sei nevrotica >> borbottò << Credo che sia la sindrome da secchiona >>
<< Leggi le righe, teppista: tu cosa ci fai qui? >>
Ah, Maka Albarn – la famosa artigiana – era davvero perspicace. Fece un segno con la mano, indicando tutto ciò che aveva intorno. La irritò ulteriormente, ne era consapevole, ma quel piccolo dettaglio lo divertì quasi quanto vedere i suoi occhi usciere dalle orbite udendo la sua risposta << Campeggio, no? – sogghignò - Qui ci abito, idiota >>
Forse lo divertì meno ricevere un libro in testa.
Sì, quello lo divertì decisamente meno.

La signora della segreteria sorrise sommessamente, ripiegando le labbra in un ghigno soddisfatto. Quel che amava di più era saper di aver vinto. In quel caso, aveva vinto l’oro e, con esso, una sfuriata da parte di una studentessa dalla cresta troppo alta.
Maka Albarn, in tutto il suo splendore, agitava pugni in aria << Io te l’avevo detto >> gracchiò << Non ti puoi lamentare, è l’unico posto libero che abbiamo >>
<< Ma non è possibile >> ribatté, lanciando uno sguardo supplichevole alla donna << Il dormitorio è mezzo vuoto: non può semplicemente spostarmi? >>
<< Ma certo >> la donna sorrise << Se il problema è solo questo, puoi benissimo spostarti a casa di tuo padre, non credi? >>
Maka alzò un sopracciglio, inibita dal comportamento del tutto contro produttivo della segretaria. Quello che doveva essere uno dei giorni più belli della sua vita stava decisamente diventando uno dei più stancanti, sia a livello psicologico che fisico.
Zittì immediatamente lo squillo inopportuno del cellulare, per poi rivolgerle un’altra occhiata furente.

Non capiva, proprio non capiva.
Quella donna la portava quasi alla disperazione.
<< Senti, secchiona >> dall’altro lato, il celeberrimo ragazzo la chiamava in appello, apostrofando quel suo nomignolo con un sorrisino << Perché non lasci perdere? >>
<< Oh, buonasera Soul >> Maka spalancò gli occhi, mentre la donna – sì, la stessa che le stava impedendo di riuscire nei suoi intenti – riservava tanti ossequi a quel suo compagno degenere.
<< Buonasera >> rispose quasi con garbo, lanciandole un grande sorriso << La vedo molto in forma, oggi. È dimagrita? >> questa ridacchiò, emettendo un suono più simile al gracchiare di un’anatra stozzata. Poi batté le ciglia, senza ottenere nessun effetto troppo teatrale.
A Maka venne il voltastomaco.
Che lecchino.
Sospirò.
Era proprio quell’ipocrisia che confermava le sue convinzioni: gli uomini erano tutti dei bugiardi e dei bastardi della peggior specie.
Nessuno escluso.
Così come suo padre, anche Evans stava facendo gli occhi dolci a quella donna, in modo da poter ottenere un’immediata separazione.
Spregevole.
Quante altre volte si era comportato così? Con altrettante ragazze e donne, prendendole in giro alle spalle di qualcuno che amava?
Odiava quel genere di comportamento.
<< Dimmi, Soul. Come posso esserti utile? >>
<< Vede… c’è stato un piccolo problema con le camere >>

---

Maka deglutì, frenando l’impeto di violenza.
Proseguiva a passo spedito e marziale, portando fuoco e fiamme dietro di sé.
A bruciare con loro, a una certa distanza di sicurezza, Soul rideva sotto i baffi.
Era veramente una ragazza strana, anche se quello già lo sapeva. Prendersela così tanto per uno stupido rifiuto.
Dannatamente infantile.
Si portò le mani in tasca, seguendola imperterrito.
Vedeva qualcosa di ilare, in tutto quello.
Qualcosa di così divertente da impedirgli di disperarsi. Per una cosa del genere non sarebbe caduto il cielo, né le terre si sarebbero mosse o il mare avrebbe inondato l’America: certo, cercare di mantenere un rigore di vita comodo avendo sotto lo stesso tetto quella perfettina lì sarebbe stata una vera e propria epopea.
Ghignò nuovamente: voleva davvero renderle la vita impossibile?
Ripensò a quello che era successo poche ore prima, a quel libro e alla moto. La sua moto. Ammaccata.
Voleva vendicarsi? Ovvio.
La vera domanda era: come?
A quanto ne sapeva, tutto di lui la irritava: partendo dalle punte dei capelli, finendo ai piedi, non c’era un solo centimetro che l’artigiana non detestasse.
Non vi era un motivo vero e proprio, ma quella forma di rancore era apertamente reciproca.
Quando avevano iniziato a litigare? Il giorno stesso in cui avevano fatto conoscenza?
Quello era senza alcun dubbio un punto a suo favore: vivere con lui l’avrebbe fatta uscire di testa, e questo gli era ben chiaro.
Ma aveva la sensazione che Maka fosse una tipa fin troppo solitaria.
Gli sarebbe stato difficile indispettirla mentre stava tappata in camera a studiarsi manuali di dubbia lunghezza e entità.
Si passò una mano tra i capelli, interrompendo la linea di pensiero: trovava le sue concezioni estremamente folli. Rigirava intorno a un problema inesistente, quasi come quella secchiona là.
<< Mettiamo le cose ben in chiaro >> Maka si voltò di scatto, fulminando il ragazzo quasi fosse un assassino. In fondo era abituato a quel genere di sguardi. << Io sono io, tu sei tu: non voglio nessun tipo di problema, chiaro? >>
Soul inclinò leggermente il capo, muovendosi verso di lei. Le labbra si arricciarono nuovamente, procurando un nuovo spasmo – non proprio di bell’aspetto – a quella piccola vena sulla fronte della ragazza << Miss acciaio – la ragazza più fiera e impenetrabile di tutta la Shibusen - ha paura di condividere la stanza? >>
Maka ghignò. Paura? Lei? Figurarsi!
Maka Albarn non temeva – né poteva temere – niente e nessuno.
Incrociò le braccia al petto << Mi sento come tornata all’asilo, Mr arroganza: queste provocazioni di poco conto non attaccano >> e ci tenne a sottolineare il non, mettendo una certa enfasi in quella frase.
La realtà era che avevano entrambi captato una sfida che nessuno dei due era intenzionato a perdere.
<< Eppure mi sembri alterata >> constatò, fissando quel vaso sanguigno che pulsava ininterrottamente.
La cosa gli dava soddisfazione.
<< Le ingiustizie mi alterano sempre >> ribatté << La Shibusen non è di certo una scuola povera, né priva di prestigio: allora perché hanno personale come quello? >>
<< Quanto la fai lunga! Quella bidella è così simpatica, gentile e disponibile >>
<< Con te che fai il lecchino >> borbottò, mentre i suoi nervi, già di per sé instabili, iniziavano a poco a poco a spezzarsi. Si sfilavano lentamente, con l’andare quieto, provocandole una sensazione di estremo fastidio.
Sì, quello era un fastidio abnorme e assolutamente inutile.
<< Non è che sei tu, quella fredda? >>
Maka alzò le spalle, non sapendo se mostrarsi offesa o inibita da quella risposta << Posso essere anche fredda, ma almeno ho buoni principi >>
<< Ah, certo: è per questo che ti credi tanto superiore a noi poveri mortali >> lo fulminò con un sguardo che non ammetteva repliche. Al momento non aveva nessun libro appresso, ma – tornata a “casa” – avrebbe rimediato lanciandogli in testa una copia della divina commedia. << È una cosa che detesto >> completò la Buki, lasciando un retrogusto amaro a quelle parole.
La ragazza rimase un attimo sulle sue, analizzando quelle parole: che grande faccia tosta. Le fece salire i nervi a fior di pelle. Lui si permetteva di dire una cosa simile?
Lui?
Il mondo si era appena capovolto.
<< Almeno io non sono un’ipocrita >>.
Un’altra eterna occhiata.
Benché non riuscisse a digerire l’accaduto, l’orgoglio di Maka era così sviluppato da impedirle di tornare nel suo vecchio appartamento: non gliel’avrebbe mai data vinta.
Né a suo padre, né a quella specie di idiota che aveva davanti.
<< Hai fatto tanto il lecchino con quella donna, ma alla fine non hai ottenuto niente >> specificò, mantenendo il contatto visivo << Voi uomini siete tutti uguali >>.
<< Sei senza pregiudizi, vedo >>
<< Ho solo imparato dai miei errori >> ribatté << Per questo non intendo condividere la stanza – se vogliamo chiamarla così – con un essere come te >>
<< La cosa è reciproca >> constatò << Ma, allo stesso tempo, potrei sfruttare la situazione a mio favore >>
Maka grugnì << Certo, come ho detto prima, voi uomini siete tutti uguali >>
<< Sai, io – invece – spero che le donne non siano tutte uguali: un esercito di tante te sarebbe un vero e proprio inferno >>
<< Perché, tanti piccoli Evans sarebbero meglio? Odio già abbastanza il genere maschile, non farmelo detestare ancor di più >>
Per qualche assurda ragione, quell’affermazione fu come un fulmine in mezzo a una tempesta: uno stralcio di luce che permise ai poveri malcapitati di distinguere – anche se per pochi secondi – contorni di figure in un mare di caos.
Ecco.
Maka indietreggiò, mentre – con gli occhi da dannato – sfoderava quel suo sorrisetto da figlio di puttana. Lo stesso dal quale non si sarebbe mai lasciata abbindolare.
<< Mi deludi >> commentò, muovendosi verso di lei. Il tono acido, dalle note pacate ma ironiche << Tu – che sei così forte e logica – vieni a dirmi di odiare gli uomini? >>
Rimase impietrita, come un serpente che danzava davanti al suo incantatore.
Se una parte di lei – probabilmente quella razionale e pensante – le urlava di scappare, di rispondergli male, l’altra l’intimava a rimare lì, per vedere i risvolti della situazione. Era quel suo lato incantato dalla figura che aveva davanti.
I capelli argentei e gli occhi rossi, la penombra accesa da quell’ultimo raggio di sole e l’ambiente press’poco deserto, non facevano che dare al ragazzo una vera e propria figura celestiale, avvolgendolo di un’aria affascinante ma terrorizzante.
Se prima aveva avuto modo di assaggiare l’ilarità e la giocosità del ragazzo, ora leggeva nelle sue iridi qualcosa di estremamente sadico e abominevole: vi vedeva quello che trovavano le persone che osavano sfidare la falce.
L’origine di quel soprannome non era ben chiara neanche a lei: semplicemente veniva chiamato arma oppure falce; lo temevano e lo rispettavano, ma non per questo si tenevano alla larga da lui: avevano semplicemente capito che era meglio averlo come amico che come nemico.
Se lui era l’arma, lei era considerata l’artigiana.
Riusciva a piegare, con tanta buona volontà, ogni cosa, dalle materie più ostiche ai bulletti come lui.
<< Ricordi cosa ti ho detto solo qualche ora fa? >> la stava provocando e non cercava di nasconderlo.
Aveva appena trovato un nuovo gioco, e questo era più difficile di quel che appariva.
Mosse un paio di passi in avanti, ma questa volta non l’intimorì: rimase ferma lì, impiantata, con gli occhi carichi di nuova luce e i pugni serrati, pronti a esser sfoderati alla prima occasione.
Sì, perché l’avrebbe volentieri preso a pugni.
<< Hai detto che mi avresti reso la vita impossibile >> rispose tranquillamente, come se stesse verbalizzando la lista della spesa << Ma dubito fortemente che riuscirai in un intento così infantile >>
Altro sorriso.
Il suo interlocutore pareva immune alle sue parole, come se niente potesse più toccarlo in quella specie di gabbia che si era minuziosamente costruito.
In fin dei conti, se non vuoi sentire una cosa non la ascolti. Fai finta che i suoni siano solo quello: mutamenti acustici prodotti dalle corde vocali. Così, ogni cosa appare come un ronzio indistinto e incolore, incapace di nuocere, ma anche di lodare.
<< Sai… >> avanzò ancora, parlando nuovamente con quel tono calmo e accondiscendete << … credo che la stia facendo troppo lunga, Albarn >>.
Qualcosa la fece rabbrividire: probabilmente, era il suo senso di sopravvivenza che l’intimava a reagire o, ancor più probabile, il suo raziocinio che bussava nuovamente all’interno della sua calotta cranica.
<< Io non esagero >> alzò il muso, provocandolo a sua volta.
Mosse un passo anch’essa, vittima di una strana danza.
Soul sapeva che avrebbe avuto quella ragione. Aveva capito fin da subito che lei avrebbe sempre colto ogni ingiuria.
Così le si avvicinò, annullando le distanze tra loro.
Se si fosse chinato, sarebbe riuscito a baciarla senza troppi sforzi. Ovviamente non l’avrebbe mai fatto.
Oltre al pessimo carattere, Maka era anche piatta – decisamente troppo per i suoi standard cool – e priva di attrattiva.
Eppure…
Maka lo vide chinarsi verso di lei. Ancora quel sorrisino, come se avesse vinto; ancora quell’aria da diavolo.
Sussultò, eppure non arrossì, quando sentì il suo fiato vicino all’orecchio << La stai facendo decisamente troppo lunga >> il tono dosato, liscio e abominevole, quasi lascivo, come se lasciasse con sé mille allusioni, la colpì dritta allo stomaco.
Questo era Soul Eater Evans?
<< Vedrai, sarà divertente >> si allontanò in pochi secondi, precedendola nella strada verso il dormitorio.
In quel momento, fu certa di non poter perdere contro un individuo simile.

---------------------------------------------------------------------------------------

About the Fanfict:

Dopo mesi di assenza, eccomi a aggiornare *musica di repertorio*
Che dite? C’è ancora nessuno?
Me lo lasciate un commentino?
Di certo, so una cosa: questo capitolo fa schifo. Detesto ogni singola riga di quello che ho scritto.
Dovete sapere una cosa: io mi metto un milionetrecentomilamiliardi di problemi (oh, word mi segna il numero in rosso ò.ò <-- e anche questa faccina ) riguardo la lunghezza del capitolo. So bene di non essere un terminator della velocità, ma so anche di non poter scrivere capitoli striminziti tanto per scriverli. Va contro la mia politica: per cui mi scuso per la lunghezza breve di questo “capitolo”; ultimamente fatico a scrivere roba più lunga: il lato positivo è che, con senno di poi, potrei decidere di aggiornare prima.
Perché questo capitolo, proprio di questo genere? Non ne ho idea. Non comando la mia ispirazione T_T peccato, è un super-potere che vorrei avere. Poi, con questo dannato blocco dello scrittore itinerante, che fa un po’ quello che vuole =_= lo odio.
Allora, come ho detto sopra: odio questo capitolo. Non mi piace per niente. Spero solo di riuscire a rimediare con il prossimo. Lo sento molto piatto e poco divertente, anche meno degli altri =__=
Mi scuso immensamente con tutti i lettori e, ovviamente, vengo anche a ringraziarvi per tutto il supporto che mi date.
Grazie mille a tutti i lettori;
Grazie mille a tutte le persone che mi lasciano una recensione, facendomi brillare gli occhi;
Grazie mille a tutte le persone che hanno la pazienza di seguirmi;
Grazie mille a tutti coloro che hanno aggiunto questa storia tra le seguite/preferite/ricordate.

Recensioni: *inizia con a inchinarsi a raffica* scusate, scusate, scusate.
Prima di tutto, grazie a tutti voi che avete recensito: ho adorato ogni singola parola. Mi avete rallegrato, consolato e fatto divertire, per cui grazie a tutti.
So di essere un’autrice degenere, però scusatemi comunque: oggi non riesco a rispondere.
Ho l’influenza, una scarsa voglia di fare e studio da recuperare =_= scusate ancora.
Al prossimo capitolo *si inchina, disperata*

Spoiler capitolo tre:

“Maka gli riservò un personale sguardo d’ira, studiando nei più infimi dettagli la figura davanti a sé: sapeva di essere quasi monotematica, a ripeterselo ancora, ma il solo concetto di avere Soul Eater Evans in casa, mentre stipulavano i turni per la cucina, era a dir poco disarmante.” […]

“ << Ah, questa è la settimana peggiore della mia vita >> borbottò, allungando la mano verso l’armadietto << E ora mi tocca anche il corso di lettere. Se facciamo Romeo e Giulietta, giuro che mi suicido >>
<< Mah – non ti hanno mai detto che il suicidio è controproduttivo? >>”



Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Third Chapter - So rally up the demons of your soul ***


Know your enemy ~ Green Day

Third Chapter - So rally up the demons of your soul
{ Quindi raduna i demoni della tua anima

Sbadigliò, cercando di rivenire dal momentaneo stato di dormiveglia mentre, automaticamente, preparava la caffettiera e si destreggiava con i fornelli. In quel posto era veramente strano accendere il gas. Ah, giusto, non il gas: l’elettricità. Lì i fornelli erano elettrici. E che non le venissero a dire che la scuola non aveva fondi, perché in quel caso non c’era santo che reggesse.
Anche in quello stato pseudo-catatonico capiva che, per quanto inusuale, quella sottospecie di casa era costata davvero un bel po’.
Poteva partire con quella che era la sua cosiddetta “camera di dormitorio”. All’inizio, non le era parsa così rifinita e funzionale. Il letto era in un posizione quasi strategica, posto lì in quell’angolo. Doveva essere un giaciglio antico, perché presentava una testina rifinita e scolpita in legno. Maka non aveva mai avuto l’occhio troppo lungo per l’arte: al contrario di sua madre, lei non sapeva emozionarsi davanti a una sonata di pianoforte, né aveva la capacità di cogliere messaggi e emozioni nelle linee non sempre precise di un artista; eppure quel mobile l’aveva colpita, probabilmente perché non si aspettava di vedere una cosa simile all’interno del territorio della Shibusen. Era rimasta a fissarlo, quella notte, cogliendone il nome dell’artigiano: c’era una piccola incisione, all’estremità: Eibon.
Forse, si disse, era semplicemente il precedente inquilino e non l’autore.
Alzò le spalle, curandosi della caffettiera.
Anche la finestra risultava pratica: era perfettamente simmetrica, e dava una visuale tale da poter mirare il quartiere, ma anche dal poter proteggere da sguardi indiscreti chi abitava al di là di questa.
Poi c’era quel comodissimo armadio a parete, troppo grande per i suoi pochi indumenti: non aveva mai amato lo shopping, ma vedere quel povero guardaroba così vuoto le faceva venir voglia di chiamare Liz e trascinarla in centro. Con la carta di credito di Spirit in mano, ovviamente.
In qualche modo, si era rincuorata.
Valutare in modo oggettivo e – sì, sapeva benissimo che era un controsenso - un po’ ottimistico, la rallegrava, dandole quelle stesse speranze che nutriva fino a poco tempo prima.
Il caffè iniziò a traboccare, mentre il contenitore di questo emetteva un suono stridulo e terribile. Spense il piano cottura e estrasse la caffettiera con una presina, versandone il contenuto in una tazza lì in dotazione.
E – poco prima di portarsela alle labbra – l’accostò al naso.
Amava l’odore del caffè, le ricordava le mattine della sua infanzia. Quando si alzava tutta pimpante, pronta a quel primo giorno di scuola elementare; quando, assonnata, percorreva i corridoi ancora in pigiama, chiamata a raccolta dalla sinfonia di quell’elemento.
Le ricordava sua madre, indaffarata già di prima mattina. Pronta ad andare in ufficio, con quel tajer spiegazzato, i capelli alla rinfusa e le ciabatte.
Piccoli frammenti di una vita quotidiana andata in pezzi.
Piccoli frammenti di una vita quotidiana mai veramente esistita.
Suo padre lì vicino, felice, che sorrideva a entrambe.
Suo padre lì vicino, felice, che sorrideva a entrambe con quel riso da viscido porco traditore
.
Fece un lieve cenno con la testa, poi sorrise, accingendosi a sorseggiare la bevanda.
<< Per me? Che gentile! >>
Accingendosi a sorseggiare la bevanda prima che l’idiota gliela sottraesse da sotto il naso.
<< TU! >> strillò stizzita. Uno sguardo di fuoco trapassò da parte a parte il ragazzo che – incurante – si limitava a sogghignare e bere il suo caffè. Nella sua mente, ci tenne a sottolineare suo.
Se prima si era ritrovata in un nuovo stato di trepidazione, ora come ora ripiombava a capofitto nella più tetra disperazione. Definirla così, si disse poi, non era esattamente giusto.
Più che disperazione era rabbia.

E più che rabbia, era idrofobia.
Non credeva di poter provare un simile sentimento di rancore, ma in quel momento implodeva – letteralmente – di collera.
Perché Maka conosceva benissimo gli uomini come lui, che pretendevano tutto e subito.
Li conosceva e detestava.
Anche se – l’ammise a se stessa – in quel momento stava forse esagerando.
Era poco sicura di ciò: la mattina carburava male.
Da una parte, c’era una vocina che le diceva di non dargliela vinta, perché – da quel momento in poi – sarebbe stata la fine: avrebbe sempre preteso i suoi comodi, senza mettersi nessun problema al riguardo; la seconda, invece, l’intimava a lasciar perdere, dicendole che lei era troppo matura per cedere a una provocazione di così basso livello.
Infine, decisa a non perdere ulteriore tempo con i suoi personalissimi complessi mentali, scelse un mezzo tra i due.
Un po’ di sana aggressività non proprio docile.
Non facciamone una questione di stato, né?
<< Che c’è? >> disse questo, poggiato sull’isola che chiudeva la cucina nel lato sinistro. Le lanciò un sorrisino apparentemente naturale, che – ovviamente – mascherava una piccola vittoria personale riscontrata dal “tipo cool”.
Uno a zero per lui?
Maka detestava anche quel tipo di sorrisi da perfetto bugiardo. Ma lei aveva imparato la semiotica fin da piccola: il linguaggio del corpo non aveva segreti.
<< Sai, Albarn… >> sorseggiò il caffè, portandosi una mano in tasca << Hai una faccia… >> altro sorso << … davvero buffa >> ridacchiò tra sé e sé.
Voleva la morte ora o subito?
Afferrò il libro di ricette “Di zia Pina” posto lì non si sa bene per quale motivo – che fosse anche quello in dotazione agli studenti? -, e glielo scaraventò in testa. All’impatto, la tazza volò via, sgretolandosi in tanti piccoli pezzettini.
Ah, tanto era pagata dalla scuola.
<< ---Azz… era solo un caffè! >> sbottò, ricevendo per osmosi – o forse solo per colpa del Maka Chop appena pervenuto – la stessa rabbia dell’artigiana. Si portò una mano al capo, testandosi il bernoccolo. Com’era possibile che quella ragazza - sempre che di una ragazza si trattasse – riuscisse a colpire sempre il medesimo punto? Una cosa del genere sputava in faccia alla statistica, e lo faceva anche con un certo ardore.
A furia di continuare così il suo povero cervello si sarebbe spappolato, e allora sì che avrebbe avuto problemi.
Soul sapeva che quella lì era una un po’ strana.
Ma non così strana.
Era solo un fottuto caffè.
<< Certo, un caffè! >> ringhiò la ragazza, congiungendo le braccia << Tu lo chiami “caffè”, io “gesto di poco rispetto” >>
<< Quando sei spocchiosa! >>
<< Quanto sei maleducato! >>
<< Vuoi fare una polemica per il caffè? >>
<< Sì >> al contrario di quel che credesse il ragazzo, la risposta fu pienamente positiva << Non ti preparerò la colazione, non sgobberò per te, non ti farò il bucato. Condividiamo una specie di casa, e ognuno fa il suo >>
Il ragazzo alzò le spalle << Come vuoi, Albarn >> grugnì << Ma la cucina… la cucina non possiamo occuparla in due per poi mangiare separatamente. Facciamo dei turni >>
Il sopracciglio destro di Maka migrò versò nord in un riflesso condizionato.
Cosa stava dicendo, il cerebroleso?
<< Dei turni >> ripeté, aprendo esageratamente la bocca. << Sai che sono quelle cose che si fanno per spartire il lavoro, vero? >> al primo sopracciglio seguì anche il secondo.
Maka Albarn era appena passata dalla rabbia alla stupore, e questo in pochi secondi.
<< No, davvero? >> stizzito, si diede un piccolo scappellotto in testa << Credevo di aver proposto una cosa intelligente, ma pensa >> palesemente ironico, scavalcò i cocci di ceramica e il piccolo laghetto che l’accompagnava, passando avanti alla ragazza.
Quando la sveglia aveva accennato il risveglio – quella mattina – Maka aveva avuto solo un riflesso della realtà. Un’immagine distorta e oblunga, un poco oscurata dalla superficie che la proiettava verso il mondo. Poi questa aveva preso forma, diventando sempre più limpida, definendosi nei tratti e nei contorni, fino ad esprimere una certa ideologia.
La mente, ancora non ridestatasi dalla veglia, la guardava senza osservarla realmente, registrandone i colori per poi schiarirli e ottimizzarli.
L’immagine diventava reale.
Era una scena di una passata routine.
E allora qualcosa si accendeva, e una piccola scarica fracassava lo specchio.
Quello era il passato.
Il futuro era ancora più sconcertante.
Viveva con Evans.
Come se nessun pensiero l’avesse mai turbata prima, quella piccola fibrillazione vibrava sempre più forte, colpendola dritta in faccia. Finché era così, poteva anche andare bene.
Era un dolore sopportabile.
Era – però – un qualcosa di incerto; se avesse potuto, avrebbe fatto volentieri i paragoni con la sua precedente vita, ma non ci riusciva: detestava vivere con suo padre, anche se era assente e perennemente allegro, come un dolce prima di cariare un dente. Il suo orgoglio le impediva di farlo, forse, oppure la sua testardaggine: viveva agiata, ma non felice.

Ora come ora, però, era disagiata e confusa. Arrabbiata contro l’idiota che aveva davanti, contro suo padre, contro la segretaria – era un’adolescente, dopotutto -, un po’ contro se stessa. Ma non poteva giudicare qualcosa prima ancora di averla vissuta o di averla letta.
Beh, non poteva giudicare nessuno, tranne Soul Eater Evans. Lui sì. Con lui si prendeva la licenza poetica.
Il sopracitato strappò un foglietto da una specie di blocco appunti, poi scrisse qualcosa con la matita che si era procurato. Raggirò la cucina, sedendosi dall’altra parte dell’isola in marmo, per poi alzare gli occhi verso la ragazza: << Diamoci una mossa, Albarn >>.
Maka gli riservò un personale sguardo d’ira, studiando nei più infimi dettagli la figura davanti a sé: sapeva di essere quasi monotematica, a ripeterselo ancora, ma il solo concetto di avere Soul Eater Evans in casa, mentre stipulavano i turni per la cucina, era a dir poco disarmante.
L’avrebbe trattata a vita così? Come se si rivolgesse a una poppante?

Sicuramente, lei si sarebbe posta a lui come se stesse parlando a un menomato mentale. Sempre.
L’artigiana grugnì qualcosa e serrò i pugni. La sua logica non faceva una piega, in fondo. E se anche l’avesse fatta, non aveva proprio la voglia di andare a smontarla. Così sedette davanti a lui trapelando disappunto.
Avevano dieci minuti per stipulare un’equa tabella di turni per una settimana di giorni dispari. Tre pasti a giornata moltiplicati per sette facevano ventuno turni da dividere. Dispari.
<< Possiamo fare così… >> Maka si sporse in avanti verso Soul, indicando il foglio. Si portò una ciocca ribelle che ricadeva in avanti dietro all’orecchio, poi usò le stesse dita per sfilare dalla mano del ragazzo la matita << Oltre al cucinare, c’è anche da lavare i piatti. Va bene metterli in lavastoviglie, ma prima vanno sciacquati: è un lavoro molto – passami il termine – palloso, e a nessuno piace farlo, però va fatto. Quando io cucino, tu fai i piatti. I turni sono dispari, quindi significa che uno di noi avrà un turno in più: se la prima settimana lo faccio io, la seconda tocca a te. Per cui direi di lasciare vuota la casella della cena della domenica, e segnare il nostro nome una volta a settimana, in modo da evitare le liti idiote da “ma la settimana scorsa l’ho fatto io!” >>.
Soul inclinò la testa di lato: c’era un motivo se era lei l’artigiana.
Se era lei quella che amavano i professori, la prima della classe.
Era pragmatica come un libro di testo, si esprimeva utilizzando un linguaggio denotativo e – ci avrebbe scommesso – guardava sempre prima il lato razionale delle situazioni, soprattutto quando non si trattava di vita reale. Non poteva dire lo stesso della sua vita privata: gli dava la sensazione che fosse una persona parecchio problematica.
In quel momento – pensò – la vedeva meno irritante e più surreale, come se avesse di fronte una persona diversa, più posata e meno aggressiva. Come se avesse di fronte una ragazza.
Questo cambio repentino l’aveva leggermente lasciato interdetto, paralizzandolo: Maka Albarn soffriva davvero di doppia personalità, ora ne era sicuro.

E sapeva anche un’altra cosa: Maka profumava di vaniglia.
Questa alzò il capo, aggrottando le sopraciglia << Mi stai ascoltando oppure ti limiti ad annuire e sorridere come all’ora di algebra? >> .
Soul la guardò di sbieco, inclinando la testa. La sensazione precedente scomparve, e a quell’essere quasi indifeso che scribacchiava velocemente con un grafia perfettamente ordinata, dalle lettere forse un po’ troppo paffutelle ma piccole, prese il posto la ragazzetta poco coerente e lancia libri.
Sì, proprio quella che gli aveva ammaccato la moto. Quel colpo era stato un trauma infantile: l’avrebbe perseguitato nei suoi incubi, come le lezioni del Professor Stein.
<< Sì, ascoltavo >> rispose, non dando nessun particolare significato alle sue parole. Si sbilanciò leggermente in avanti, verso di lei, e le sorrise quasi caparbio. All’inizio stupì la giovane, che, in un primo momento, pensò seriamente di dover chiamare un qualche psichiatra per il coinquilino. Aveva atteggiamenti davvero strani, alle volte. Okay, non solo alle volte, sempre.
<< Che fai? >> sbottò, con un fil di voce, mentre esso avvicinava la mano al suo volto, facendola scivolare fino ai capelli.
<< Sai… >> sillabò, osservando con estrema minuzia un punto non proprio preciso del suo volto. Non poteva definire quale, perché i suoi occhi sicché essi ruotavano tra tutti i tratti della faccia. << In questo momento, volendo… >> fiatò leggermente, con la stessa voce che aveva usato il pomeriggio precedente. Provocante, bassa, rauca.
Ma cosa… ?
Passò due dita tra un codino, per poi afferrarlo con la mano e – con sommo stupore della giovane – tirarlo.
Qualcosa scoppiò nella testa di Maka.
Infantile!
Infantile!
Infantile!

La sorpresa le impedì di cacciare fuori un urletto isterico, mentre il volto assumeva connotati poco dignitosi.
Tra i denti pronunciava qualcosa di incomprensibile anche per lei, mentre quello rideva a crepapelle, tenendosi il busto con le braccia.
<< Ma quanti anni hai, dieci?! >> esplose, indicandolo ripetutamente << Essere inutile… spregevole… infantile… cerebroleso… idiota…. ! >> urlò. Ma il suo riso non accennava a spegnersi, amplificandosi a ogni parola della ragazza.
Qualunque Dio ci fosse, in quel momento non la stava assistendo.
<< Quei codini sono… ridicoli! >> rise tra sé << Non ho resistito alla tentazione! >> prima ancora che la bionda potesse replicare, la zittì con una mano, scendendo con un balzo dalla sedia.
<< A dopo, secchiona! >> prese la cartella, trascinandola – letteralmente – con sé << Ah, un’ultima cosa: se avessi avuto una scollatura, sporta così com’eri verso di me, avrei visto tutto >> ghignò, per poi scuotere la testa << È vero: in ogni caso, non c’è niente da vedere >>.
Qualcosa tuonò. Quel qualcosa fu l’urlo della Shokunin, mentre il ragazzo si eclissava dall’uscita del suo lato di appartamento.
<< Io? Capelli ridicoli?! >> stizzita, guardo prima l’orologio, poi si diresse verso il bagno, a rimirare il suo riflesso. Le aveva distrutto l’acconciatura << Lui ha i capelli molto più ridicoli dei miei: li ha bianchi, come un vecchio! Un vecchio con la mentalità di un bambino di sei anni! >>.
No, probabilmente non ce l’avrebbe fatta a sistemarsi la capigliatura. Slegò i codini e si diede un colpo di spazzola, per poi correre verso la cucina.
<< E poi io non sono così piatta! >> continuò.
Stava parlando da sola? Sì, stava parlando da sola.
Nonostante tutto, si rendeva conto che quello non era da persona normale.
Al diavolo!
Metà del suo caffè era a terra, non aveva mangiato e stava rischiando di arrivare in ritardo.
Che bell’inizio! La giornata si prospettava rosea!
Appese il foglietto e uscì.
Al diavolo tutto!

***

Soul arrivò quasi in perfetto orario. Fermò la moto dietro la scuola, in quegli inutili parcheggi riservati a delle biciclette che nessuno possedeva. Gli studenti preferivano l’auto, oppure l’autobus, o qualsiasi altro mezzo di trasporto che non richiedesse sforzi fisici. Inoltre – a detta di Kid – le bici erano troppo assimetriche. Quel ragazzo aveva seri problemi, ma nessuno batteva Black*Star in fatto stranezze.
Tolse il casco, sistemandolo nell’apposita zona della sua bellissima moto ammaccata, che in ogni caso rendeva le sue entrate in scena più cool di quanto già non fossero.
Quella era la routine, dopotutto. La quotidianità da un bel po’ di tempo, tant’è che non riusciva a ricordarsi quando avesse mollato il conservatorio per trasferirsi dall’altro lato del paese.
I suoi genitori lo volevano alla Juliard, lui voleva semplicemente vivere la sua vita, come ogni adolescente.
<< Vedere quella tua moto con quel dannato graffio turba la mia psiche >> affermò Kid, raggiungendo l’amico.
Soul ghignò << Anche la mia, ma almeno non mi accascio a terra strillando qualcosa di troppo delirante per essere capito da menti comuni >>.
Ritrovarsi lì prima dell’inizio delle lezioni era un po’ una scongiura, un po’ un’abitudine. Lo facevano e basta, non c’era un motivo ben preciso.
Forse – pensò – quel che rendeva così allettante questo luogo era, di per sé, il fatto che fosse il retro della scuola. Un posto calmo, silenzioso. Inoltre, ideale per avere una certa Privacy: per questo, all’ora di pranzo, molte coppie cercavano rifugio lì per limonare.
Un piccolo spasmo colpì l’occhio del ragazzo scuro, che si voltò di scatto << Oddio! >> esclamò, con voce rotta dalla commozione << Io… non posso guardare! Quell’ammaccatura rende la carrozzeria della tua moto più profonda in un angolo di circa sette millimetri! Oh, disgrazia. Oh, crudeltà! >> Soul scosse la testa, rassegnato, e smise di ascoltare il monologo amletico dell’amico.
No, quel giorno non l’avrebbe sopportato.
E non avrebbe retto neanche il….
<< YAHOOOOO! Il grande ME vi ha dato l’onore della sua ECCELLENTISSIMA presenza! >> qualche giorno prima era regale presenza. Black*Star stava aggiornando il suo vocabolario nello stesso modo in cui poteva farlo un cane. I suoni, alla fine, erano sempre gli stessi, così come il messaggio.
Piombò giù nel solito punto dal solito albero. Sì, faceva sempre così e – sì – credeva facesse ancora effetto. In un certo senso, riusciva a stupire un poco chi non conosceva, ma la maggior parte delle persone lo etichettava come pazzo. Poveretto: lui era solo un po’ sopra le righe.
Gli occhi cremisi dello studente rotearono verso l’alto. Mise le mani in tasca e decise che – forse – era ora di entrare in classe.
<< Andiamo, Kid, o Stein ci ammazza >> disse << Anzi, ci viviseziona >> si corresse, dando uno scappellotto all’amico << E non ti preoccupare, vendicherò la moto >>
Questo alzò lo sguardo << E come, sentiamo >>
<< Conoscendo il nemico si può colpire il punto debole. Rimpiangerà quello che mi ha fatto >> soffiò, con lo sguardo cupo e la voce seria, sfiorata nel profondo da un pizzico di follia.
<< Giusto >> Kid ghignò << Dimenticavo che tu sei la Falce >>
<< HEY! VOI DUE! AL GRANDISSIMO BIG QUI PRESENTE NON PIACE ESSERE IGNORATO! >>
Si guardarono e risero, sotto le urla del ragazzo dietro di loro.

***

Tsubaki sbuffò o, meglio, lanciò un piccolo sospiro, incrociando lo sguardo con Liz che, poveretta, stava raggiungendo il limite della sopportazione. Perché Maka era una grande amica, sì, ma un’amica che sapeva prenderti ai nervi, soprattutto quando ingigantiva le cose e le ributtava sul mondo a una velocità tale che solo lei – forse – sapeva starci a presso.
Le amiche avevano appreso negli anni che, l’artigiana, non aveva esattamente una predilezione per il ragazzo della motocicletta, ma – tempo due giorni – aveva avanzato contro di lui una vera e propria guerra fredda. O a armi aperte? In ogni caso, la bionda non sembrava troppo contenta, quella mattina.
Era arrivata di fretta: il colletto aveva una macchiolina di caffè, la cravatta della camicia annodata alla bene’e meglio e i capelli sciolti sulle spalle, pettinatura che non adottava mai – erano troppo scomodi i capelli lasciati all’aria, senza aver un preciso ordine. Maka li detestava.
Aveva inoltre quell’aria palesemente irritata, come se l’avesse svegliata un lamantino vomitandole in faccia. Borbottava qualcosa tra sé e sé, qualcosa di incomprensibile, come una formula magica, di cui le amiche avevano decifrato solo un “Ma dove siamo?! All’asilo?!” – non avevano osato indagare oltre.
La cosa andava avanti dalle prime ore, e si protraeva fino a quella che doveva essere la terza.
<< Che hai ora, Maka? >> Liz si appoggiò alla fina di armadietti, osservandosi le unghie con fare fin troppo attento pure per i suoi canoni. Doveva davvero ripassare lo smalto: una cosa che odiava era avere il colore delle unghie assimetrico. Non lo sopportava proprio.
L’artigiana sbatté con forza lo sportellino dell’armadietto, tenendo tra le braccia un libro bianco << L’anno scorso avevo fisica quantistica, quest’anno ho letteratura inglese >> pure quel mononeurone cerebroleso di Evans si sarebbe accorto che non sprizzava entusiasmo all’idea di partecipare al corso.
A Maka piaceva leggere, ma indipendentemente. Fare antologia a scuola, con quel metodo rigoroso e schematico era, da un lato, pratico e utile, dall’altro molto noioso e privo di prospettiva. Inoltre, non trovava niente di intellettualmente stimolante nelle opere Shakespeariane, e nemmeno in tutto ciò che si poteva studiare in quel corso. Sperava di rifarsi un poco con poesia, ma aveva già notato – nella lista dei libri – che il docente non dava troppa importanza a quella materia.
Liz ghignò << Ammettilo: o questo o educazione fisica >>
Maka grugnì, mentre la prospettiva dell’ora di lezione di faceva meno cupa. << Esatto >> sillabò, arricciando le labbra.
<< Tu? >> indicò il libro blu che aveva in mano.
<< Biologia >> dichiarò << Con Tsubaki >>
<< Beate >> sospirò, pensando con nostalgia a quelle belle lezioni di scienze naturali che tanto le piacevano; al sorrisino sadico del professore e alle infinite vivisezioni. Altro che letteratura, tzè.
Era una materia che l’artigiana prendeva quasi sottogamba: sarebbe stata noiosa, ma non un problema.
<< Se avessi voluto, ti saresti potuta iscrivere anche tu >> azzardò Tsubaki, accennando un sorriso dolce. Maka non poté che ricambiare, alzando le spalle, senza darle una vera e propria risposta articolata.
<< Sai com’è fatta >> sbottò l’altra << Lei è l’artigiana: non si cimenta in ciò che ha già fatto >>
<< Sì >> sbottò la sopracitata, cercando di non rispondere troppo male << Ah, questa è la settimana peggiore della mia vita >> borbottò, allungando la mano verso l’armadietto, chiudendo meglio il lucchetto << E ora mi tocca anche il corso di lettere. Se facciamo Romeo e Giulietta, giuro che mi suicido >>
<< Mah – non ti hanno mai detto che il suicidio è contro produttivo? >> qualcosa di molto simile a un ronzio colpì l’apparato acustico della ragazza. Perché quella voce le era così famigliare? Perché Liz rideva mentre Tsubaki – trattenendo un sorriso – cercava di zittirla? Perché doveva vedere di nuovo l’idiota davanti a sé?
Il Karma, nel suo giro cosmico, doveva averla colpita per sbaglio, magari credendola una Maka Albarn che in realtà non era: magari il tizio che scrivere i nomi sul quaderno nero aveva sbagliato volto colpendo lei, un’omonima.
<< Che vuoi? >> domandò ostile.
<< Irritarti >> controbatté candido, splendente come un sole acceso da un ghigno al metà tra l’ironico e il divertito.
<< Ci stai riuscendo alla perfezione >> gli lanciò un piccolo fulmine mentalmente, poi girò i tacchi verso le amiche << Ditemi che l’aula di biologia è la stessa dell’anno scorso e che dovete fare la strada per la lezione con me >> il suo tono era quasi supplichevole. Poco ci volle alle due per capire che qualcosa non andava. Era troppo irritabile e troppo suscettibile, quella mattina. Poco razionale.
<< Mi spiace >> borbottò << È proprio dal lato opposto >>

Maka avanzava per dei corridoi quasi irreali: a volte più stretti, altre più larghi; dal soffitto che s’alzava e abbassava quasi a suo piacimento, quasi fossero in un libro della Roling. Eppure poco centrava con la magia o con un romanzo: la Shibusen era semplicemente stata costruita così, con finestre piccole e inesistenti, aule ampie e luminose, laboratori ben strutturati e funzionali. Non metteva in dubbio che poteva anche essere un posto agghiacciante, soprattutto per chi non era abituato all’eccentrica struttura, ma – osservandola più nei dettagli – appariva accogliente e bella.
A Maka piaceva la sua scuola: era un’ancora fissa e stabile, un ambiente accogliente che ospitava tutto ciò che poteva servirle.
L’unico dettaglio che stonava nella perfezione dell’ambiente era un’oscura presenza di origini non umane, incline a essere l’essere più fastidioso che – in quel momento – poteva girarle intorno.
<< Smettila. Di. Seguirmi.. >> onde di fuoco uscirono dalla piccola bocca della ragazza, andando a colpire il malcapitato senza nessuna pietà o possibilità di fuga. << Sei diventato uno stalker, ora? >> lui rise, ignorando il palese sottinteso omicida della compagna.
<< Uno cool come me non ha nessun interesse ad andare in giro con una secchiona come te >> spiegò risoluto << Ma stiamo solo andando nella stessa direzione: sei leggermente paranoica, sai? >>
<< Non lo sono! >> sbottò, alzando il tono di un’ottava. Irritante.
<< Si che lo sei >>
<< No >>
<< Sì >>
<< No >>
<< Si >>
<< N--- >>
<< Volete continuare o entrare in classe? >> i due alzarono il capo, mentre un professore dall’aria né vecchia né giovane li attendeva all’uscio dell’aula. Era mezzo pelato, bassottino, con due piccoli occhi castani e un codino raccolto dietro al capo. I capelli, un tempo di un biondo acceso, figuravano in un color miglio pallido, tendente al bianco. Nessuno dei due l’aveva mai visto, ma ebbero reazioni differenti.
Se da un lato Maka si ricompose, portando rispetto alla figura del docente e pronunciando le sue scuse, dall’altro, la falce, assumeva un ghigno strafottente, degno solo di lui, sorpassando con un grande passo il professore di lettere. Quel ragazzo mancava di qualcosa, ma in primo punto di rispetto.
Maka scosse la testa, rassegnata, mentre trenta occhi curiosi di posavano su di loro. La classe era suddivisa come una qualunque aula universitaria: banchi in alto, posti a circolo, cattedra e lavagna in basso, sotto lo sguardo di tutti.
Una ragazza arrossì, dando una gomitata all’amica, per richiamarla da un’apparente stato comatoso. Un brusio sempre più forte si levò intorno a loro, mentre prendevano posto uno affianco all’altro.
Sarebbe stata un’ora molto lunga.
<< Bene, dopo aver dato il benvenuto alle nostre New entry… >> il docente lanciò un brutto sguardo verso di loro, abbassò la testa e prese in mano un gessetto << … direi che possiamo iniziare. >>
Su una lavagna ci almeno cinquanta centimetri di larghezza, scrisse solo una cosa. Una cosa che la riempì per intero “Poesia”.
Ma nel programma non figurava... ?
Qualcuno tirò fuori il blocco per gli appunti; Maka decise di provare a seguire e basta, tanto per farsi un’idea del corso e di quel docente così strano, mai visto prima. Forse aveva frequentato davvero troppi corsi scientifici. Ma l’umanistica comportava l’analisi degli altri, nonché l’auto analisi di se stessi. No, la cosa non le piaceva proprio.
<< La poesia… >> iniziò << … Beh, la poesia è tremendamente noiosa >> si portò le mani ai fianchi, scuotendo la testa << Soprattutto come è fatta qui a scuola: fare la prosa? È una palla, ragazzi miei >> tutti risero, tranne l’artigiana che – sorpresa – fissava stranita il professore << Insomma: non possiamo dare una valutazione oggettiva a una poesia: è follia. Però va fatta, mi spiace >> in quel momento capì che qualcosa non andava. Che educatore era uno che diceva cose simili ai propri studenti?
Uno che mancava di sale in zucca, a parer suo.
<< Vedete, però, se da una parte la poesia è qualcosa di altamente soggettivo – qualcosa che può trasmettere ad ognuno di voi varie sensazioni, belle o brutte, totalmente diverse – è anche un lavoro pratico e razionale >> si contraddiceva da solo, ora? << Pensateci bene: un poeta deve scegliere le parole. Un poeta è un artigiano, che usa le parole come armi – le rifinisce e le lima, le pulisce e lucida – per comporre versi, scegliendo e selezionando ogni singolo scritto. >>
La mascella della giovane partì dritta verso il pavimento, mentre, ignorata da tutto e tutti, qualcosa – forse nell’aria – iniziava a muoversi. Quel qualcosa, sapeva di follia: un presagio, forse. Ma lei non ci credeva, ai presagi. Nonostante ciò aveva una brutta sensazione: quel corso sarebbe stato tutto, ma non semplice.
La lezione proseguì con la stessa ironia con cui era iniziata: più andava avanti, più si convinceva di essere finita in una gabbia di pazzi.
Gli alunni ridevano alle battute, scherzavano con il prof, e lui ne era felice. Trasmetteva la materia come un gioco. Quelle parole, quelle pagine, quei versi, smettevano di essere cose da imparare a memoria, ma diventavano un mondo da scoprire. Proprio come quando eri bambino, ingenuo, e vivevi in un mondo surreale dove ogni minimo colore o sensazione si amplificavano, rendendo il tuo microcosmo più grande e bello. Era esattamente quello che si provava in quell’aula, al metà tra il serio e il giocoso.
Era qualcosa di… strano. Folle.
<< Come sappiamo – o forse no? – la poesia ha un linguaggio tutto suo >> continuò il docente, sedendosi sopra la cattedra. Le gambe a penzoloni, un sorriso in volto, una luce negli occhi. La sua materia gli piaceva, tanto, forse troppo. E gli piaceva trasmetterla. << Qualcuno di voi sa dirmi quale? >> saettò lo sguardo da una parte all’altra, analizzando gli alunni. Puntò il dito contro quella che stava disturbando ancor prima di entrare in classe: l’aveva riconosciuta a primo acchito. In realtà, aveva riconosciuto entrambi senza neanche conoscerli: erano famosi come la Shokunin e la Buki. Rispettivamente la migliore studentessa dell’istituto e il peggiore individuo della Shibusen; non tanto perché fosse violento, oppure svogliato, tanto per il suo modo di porsi al mondo, a quel che poteva essere la vita. L’affrontava come se non ne fosse davvero partecipe e, se succedeva qualcosa, lui era sempre di mezzo. A volte dietro le quinte, come un burattinaio invisibile, di cui si intravedeva solo una luna nascente sul volto: un ghigno ironico. Perché portare gli altri a fare quello che diceva lo faceva sentire grande. Forse per questo qualcuno lo chiamava falce della morte.
Il docente sapeva che dipingerlo in quel modo era spregevole: inquadrare una persona completa in poche parole equivaleva a mostrare l’arroganza di un Dio. Ma lui di divino aveva poco, e nutriva la ferma convinzione che – anche se adolescenti – provano qualcosa di molto più complesso: non solo rabbia nella sua forma più distruttiva, non solo gioia nella sua arte più ingenua. Arrivavano a un livello superiore rispetto ai bambini, ma non assimilavano le loro sensazioni in modo maturo come poteva fare un adulto, che – invece – sapeva di non potere semplicemente stare in balia di ciò che era.
In quel momento ebbe la certezza che quei due gli avrebbero dato seri problemi.
La bionda trasalì, colpita dall’irruenza dell’omino << Tu, New Entry dai capelli spettinati: che linguaggio usiamo con la poesia? >>
Maka sospirò, ignorando il commento inusuale dell’uomo: troppo semplice.
<< Innanzitutto, occorre precisare i tipi di linguaggio che adottiamo usualmente, per poi arrivare a spiegare quale utilizza la poesia. Grossomodo, abbiamo due tipi di correnti, che si appellano al significato e al significante della parola stessa: Primo, abbiamo il linguaggio denotativo, che definisci precisamente una realtà o un concetto; è lo stesso che utilizziamo nei manuali di scienza, nel ragionamento logico, oppure quello che possiamo trovare in un testo giornalistico che rispecchia la realtà: tale tipo di linguaggio è detto anche “Univolo”; poi abbiamo una seconda opzione, il linguaggio Connotativo, che si esprime attraverso metafore, allusioni, giochi di suoni. È un linguaggio evocativo, di natura ambigua. Per esempio: il leone, nel nostro primo tipo, significa propriamente “animale carnivoro”; nel secondo tipo – in base al contesto – può significare “uomo pieno di coraggio”. Se vogliamo andare più nei--- >>
<< Okay, okay, okay >> la interruppe, scuotendo la testa e sbuffando << Certo che sei noiosa e precisa come un libro di testo >>
Maka si sentì profondamente offesa: quello che le aveva chiesto il docente era proprio quello, lei l’aveva semplicemente spiegato come andava espresso.
<< Quel che hai detto è vero, ma non hai risposto alla mia domanda: che linguaggio usa la poesia? >>
Aggrottò le sopracciglia << Quello connotativo, mi pare ovvio >> sbottò, mandando al diavolo il rispetto: se non era reciproco, non intendeva portarlo a quell’insegnante.
<< Non smentisci la tua fama >> esordì << Eppure, sei veramente piatta >> prima che l’artigiana potesse scattare al suono di quella parola, lui riprese << Piatta, priva di emozione. La poesia è emozione, per cui devi capacitarti di usarla quando sei qui. Dì quel che pensi e quello andrà bene >>
Poi alzò nuovamente gli occhi, questa volta puntando il ragazzo. Soul stava mezzo coricato nel banco, ascoltando con interesse la lezione ma apparentemente in un suo personale mondo, a cui era vietato l’accesso se non alla sua psiche. Un po’ come se si fosse rinchiuso in una personale stanza nera.
<< Tu, tizio Caio di cui non voglio ricordare il nome >>
<< Mah, potrei ritenermi offeso, sa, prof? >> rispose, con un po’ di ironia e un po’ di curiosità. I modi di fare di quel tizio – come aveva deciso di definirlo la buki – gli piacevano: era diretto, irritante, ma sapeva fare il suo lavoro.
<< Sì, ma non mi importa >> disse candidamente << Come risponderesti alla tua compagna? >>
Questo guardò di soffiato il profilo irritato e sconvolto della quasi-più-o-meno-indefinibile-coinquilina: stava per scoppiare, ne era sicuro. << Beh, esattamente come le ha risposto lei: che è piatta >> le scoccò uno sguardo sarcastico che lei recepì alla perfezione: il significato di quel piatta era molto diverso rispetto a quello attribuitole dal prof – questo non era connotativo. << E forse che dovrebbe essere meno rigida >>
<< Senti, tu… >> sbottò la compagna, serrando i denti e congiungendo le braccia. Esprimeva aggressività o difesa quel gesto involontario? << … Io non sono né piatta né rigida – esclamò, con le tasche ormai letteralmente piene della lezione – sono solo una persona che tiene a ciò che fa. Questa lezione, prima di tutto, manca di normalità. Non mi piace la cosa. Secondo, non accetto critiche da un arrogante come Soul Eater Evans >>
<< Io? Arrogante? Vogliamo parlare delle tue manie di controllo? >>
<< Io non ho manie di controllo! >> sbottò.
<< Sì che le hai >>
<< No >>
<< Sì >>
<< No, nemmeno mi conosci >>
<< Sì, perché ci vuole poco a cap--- >>
<< Va bene, abbiamo capito: ora state buoni >> li richiamò il docente. Forse avrebbero causato problemi, forse avrebbero solo fatto divertire la classe.
La lezione proseguì e, quando finì l’ora, fu come incappare in un fuoco nella notte.
Quasi come cambiare realtà.
Gli alunni si sparpagliarono, la classe si riempì di brusii, mentre uno strano eco riempiva la testa dell’artigiana, mentre fissava quel libro di testo non aperto.
Non era abituata a quel genere di cose. Le ricordava… beh, le ricordava quando suo papà le leggeva le fiabe, da piccola, quando le diceva che – un giorno – lei sarebbe stata una principessa e un bel principe sarebbe corso in suo soccorso.
Poi aveva imparato che il principe azzurro non esisteva: né azzurro, né bianco e né tarocco. Se i ragazzi erano belli, per qualche ragione dovevano essere anche stronzi. E se non erano belli… erano comunque dei luridi bastardi.
E cosa rispondevi, al tuo papà? “Ma da grande sposerò te, papi. Non ho bisogno di un principe”. E lui rideva, cristallino, felice, abbracciandoti come se fossi la cosa più preziosa. Una stella in un cielo cupo. Perché lui ti voleva bene. Forse.
<< Ci si vede, secchiona >> Soul fece pressione sulle braccia, alzandosi dal banco e lasciando la compagna alle sue lamentele riguardo all’appellativo con cui si stava abituando a chiamarla.
Scosto delle fotocopie con la mano. Roba che non avrebbe mai studiato. Raccolse la borsa svogliatamente e contò le ore mancanti alla pausa pranzo. Ancora due: poteva sopravvivere.
<< Ti ho detto di non chiamarmi così! >> sbottò Maka, alzandosi di scatto con il libro di antologia in mano, pronta all’attacco.
<< Sì, secchiona >> sbottò col minimo disinteresse.
<< Makaaaa >> per qualche ragione, quando l’artigiana urlò il proprio nome, sentì di dover avere paura << Chop! >> completò, scagliandoli il libro in testa. Com’è che – nonostante fosse più bassa di lui – i suoi colpi centravano sempre l’obbiettivo?
Sentì qualcuno ridacchiare mentre, fiera, girava i tacchi prima ancora che il suo nemico potesse controbattere. Perché ormai – forse solo per puro principio – Soul Eater era diventata la sua nemesi.
Era irritante, presuntuoso e pieno di sé. Nonché stronzo, ovvio.
<< Ti sei fatto male? >> sentì. Con la coda dell’occhio, vide quella ragazza che era arrossita a inizio lezione. Soul la stava ancora guardando, con qualcosa – in quegli occhi – che la intimorì. Se il demonio esisteva, doveva avere gli occhi rossi. Poi si voltò, massaggiandosi il capo << No, tutto bene >> sorrise, gentile, e la ragazza – insieme alla sua amica – diventò un piccolo peperone.
Ah, le donne.

[***]

Soul lanciò uno sguardo a pochi armadietti di distanza, ritornando immediatamente su Black*Star, che operava con il telefono cellulare. Chiuse con un piccolo botto l’armadietto, che protestò con un sonoro “clang”. Prima o poi si sarebbe rotto, poco ma sicuro.
Di negativo, c’era che era nervoso.
Di positivo che la giornata scolastica era appena finita.
Le tre sembravano non arrivare mai, come sempre.
<< Sembri nervoso >> il turchino gesticolò con il cellulare, digitando qualcosa velocemente << È da stamattina che sei sovrappensiero >> Soul fece una smorfia: il fatto che quello svampito narcisista se ne fosse accorto era grave, molto grave. Dopotutto, Black*Star non riusciva mai a vedere più in là del suo naso.
<< Sai com’è: problemi quotidiani >> ghignò, passandosi una mano tra i capelli. Si appoggiò alla fila di armadietti, svogliato, con le mani in tasca.
<< Mah >> Black*Star alzò le spalle << Stai andando in bianco? >>
Soul ridacchiò: come se fosse possibile. Aveva una strano effetto, sulle ragazze, e lo sapeva bene. Uno cool come lui non poteva non avere tante belle donne ai suoi piedi. Se ne compiaceva.
<< Diciamo solo che qualcosa mi irrita, in questo periodo >>
L’amico alzò le spalle << A me irrita il fatto che una ragazza abbia appena disdetto per il Gokon. Kid dice che non possiamo assolutamente essere otto ragazzi e sette ragazze. Sta dando di testa… e lo sai cosa fa, con il numero sette >>.
Soul ghignò, poi scosse la testa, dandosi una piccola pacca sulla fronte << Te la rimedio io, un’ottava ragazza >> disse, avanzando di qualche passo.
Black*Star osservò la scena da lontano, mentre Soul si avvicinava alla Shokunin. Da quando aveva a che fare con quella lì? Non erano buone compagnie, prima di tutto. In secondo luogo, andare in giro con una secchiona simile uccideva – letteralmente – la tua reputazione. E Black*Star non poteva tollerare di non essere al centro dell’attenzione. L’unica cosa buona di Maka Albarn era l’amica, Tsubaki: era carina e riservata e aveva un bel corpo.
Maka strillò qualcosa, gli diede un libro in testa, che lui schivò.
<< Non ci casco due volte! >> sogghignò << Se ti annunci, inoltre, è più facile evitare il colpo >>.
Le guancie dell’artigiana si gonfiarono come due palloncini, come quelli di una bambina, diventando prima rossi, poi viola e infine verdi.
<< Non verrò a uno stupido Gokon! >>
<< Perché?! >>
<< Perché devo studiare, pulire, preparare la cena, iniziare a leggere i libri che ci sono nella lista delle lezioni di letteratura, ripassare biologia, iniziare a… >>
<< Sì >> l’interruppe << Devi fare cose da secchiona senza vita sociale, lo capisco – sbottò, alzando le spalle – e non me ne importa niente. Tu vieni con me >>
<< No >>
<< Sì >>
<< No >>
<< Sì >>
Soul era sul punto di avere un esaurimento nervoso: perché la faceva così difficile? Perché avevano questi dialoghi “” “no” da tutta la mattina.
Infine, si appellò a qualche santo, lasciando perdere il discorso diretto.
La sollevò di peso, tra mille proteste e insulti, caricandola sulle spalle come un sacco di patate.
<< Lasciami, stronzo! >> esclamò, dandogli vari pugni sulla schiena e agitando le braccia << Questo è illegale! Mollami! >>
<< No. Te l’ho già detto: mi serve l’ottavo membro per il Gokon* >>

___________

Gokon = Uscita di gruppo per incontrare ragazzi o ragazze nuovi e per cercare possibili partner, organizzato spesso in Giappone.

_____

About the Fanfic

 

Eccomi di nuovo, dopo venti giorni. Sapete, è stato un parto. Ogni giorno scrivevo al massimo 400 parole, per poi rimanere ferma e immobile. Che depressione ò_ò poi però ho scritto dieci pagine, e questo non so esattamente se è un bene o un male.
Questo capitolo è decisamente più OOC dell’altro, mi spiace. Ho scritto di getto, pensando poco a ciò che sono i personaggi. Mi scuso *si inchina*
Notare che – in questo capitolo – sono diventati tutti un po’ più pazzi, e che il caffè è ancora sul pavimento del dormitorio xD
Dopo tre ore di latino, sono spossata =_= ho finito il capitolo ieri notte, ma oggi sono ancora meno lucida.
Mi scuso per la Scadenza del tutto *si inchina* spero che non faccia così vomitare come sembra a me.
RINGRAZIAMENTI!
Prima di tutto, devo ringraziare la Nonnina Marty, perché è in gran parte merito dei suoi consigli se questo capitolo è qui: mi da sempre un grande appoggio, mentre scrivo, e di questo la ringrazio tantissimo; Poi una mia cara amica, di cui non farò il nome, che mi minaccia ogni giorno di morte, costringendomi sì e no a scrivere.
Ora vengo a ringraziare tutti voi lettori: potete anche minacciarmi di morte dopo aver letto l’obbrobrio qua sopra, ma avete tutta la mia gratitudine per gli splendidi commenti che mi lasciate. Per aver seguito non solo questa storia, ma anche tutte quelle Shot che mi ostino a pubblicare e scrivere ò.ò Grazie mille a tutte.
Un grazie a quei prodi coraggiosi che mi hanno inserito tra le autrici preferite, faccendoni cadere la mascella a terra dall’incredulità!
Grazie ai lettori, sia vecchi che nuovi, perché mi date fin troppo coraggio.
Grazie a tutti!

Recensioni:

giovywanda: Grazie mille! XD l'idea di abbandonarla non mi è mai saltata per la mente, ma non ci posso fare niente: l'ispirazione arriva quando vuole arrivare, così come la voglia di fare XD inoltre, un po' mi annoio a scrivere capitoli di transito come quello precedente, e so che - nella maggior parte dei casi - annoia anche il lettore. Per cui grazie della recensione! Spero di risentirti presto.

MartyStyle: Nonnina *_* *stritola* ecco il capitolo che ti ho fatto tanto penare, rompendoti le scatole per ben venti giorni con tutte le mie manie. Ti dovrebbero fare santa, sai? sopportare una come me non è facile >_< lieta che ti sia piaciuto il capitolo precedente: ora ti lascio alla lettura di questo. Okay, ti lascio a finire la lettura di questo, perchè il resto ti ho già obbligata a leggerlo XD

walpurgis: Ciao ^^ è un piacere rivedere il tuo nome nella lista delle recensioni: mi ha fatto davvero piacere il tuo commento, poichè questi capitoli li sto scrivendo tenendo poco conto dell'IC - è una cosa che non si dovrebbe fare, ma la sto facendo. Putroppo non so se riuscirò sempre a rendere le cose come vorrei e neanche se riuscirò a mantenere i personaggi come in originale, però.. però grazie, ecco tutto. Mi hai risollevato il morale.
Prima di pubblicare questa storia ero molto indecisa: non mi andava di buttare all'aria tutto ciò che aveva costruito il sensei Ohkubo scrivendo una AU scolastica. Amo i personaggi e l'ambientazione di Soul Eater, quel che sono le armi e ciò che possono diventare gli artigiani: non mi andava proprio di sconvolgere tutto ciò. Per questo sto cercando di inserire le cose originali nella trama. Mi fa piacere che l'accorgimento ti stia piacendo.
Per quanto riguarda Soul.. beh, ci saranno altre scene del genere, anche perchè -come "autrice" - mi diverto tantissimo a scriverle.
Ancora una volta, grazie del commento e del supporto. A presto ^_^

Dany92: Tu dici sempre di essere ripetiva, io dico invece che, ogni volta che leggo una tua recensione, sento l'irrefrenabile istinto di abbracciarti e stritolarti. Inoltre, non so mai come rispondere alle tue lusighe: faccio schifo a ribattere alle recensioni, ancora di più ai complimenti *va in un angolino*
Questo capitolo è un po' più lungo del precedente: in realtà volevo inserire anche il Gokon, ma poi mi sono fermata: tengo alla sanità mentale di chi è tanto coraggioso da leggere quello che scrivo D:
Putroppo questo pecca MOLTO di più di OOC, soprattutto nell'ultima parte. E il livello di scrittura mi sembra calato .-.
La psicologia dei personaggi, in questo momento, è solo abbozzata: voglio fare uno sviluppo naturale del carattere originale, magari aggiungendoci un po' di mio, ma senza che sembri forzato o irreale. Almeno, questo è l'intento. Farò quello che posso fare nel limite delle mie capacità.
Scusa la poca eloquenza, Dany-chan, ma oggi credo di essere un po' più partita del solito XD
A presto! Bacioni!

Midnight_Rose: Ah, magari aspettassi così tanto per tenervi sulle spine! La verità è che sono una lumaca. Una lumaca più lenta delle altre lumache, che prima gira le antennine da una parte e dall'altra, e dopo un po' inizia a camminare pigramente verso l'obbiettivo. Anche se, quando lo raggiunge, scoppia di felicità, nonostante il traguardo non le piaccia--- ma, hey! perchè sto parlando di me in terza persona? e perchè sto parlando di me rivolgendomi a una lumaca? D:
Ah, Soul lecchino! neanche io c'è lo vedevo troppo, sinceramente *ridacchia* e ancora lo vedo strano, in quella parte.
"Questa convivenza non andrá per le lisce secondo me xD,tutti e due sono determinati a vincere questa sfida che si sono importi,Maka troppo orgogliosa,Soul strafottente.Insomma,non possono perdere!" Io quoto tutto XD non sarà facile, ma sarà pressapoco divertente (per me, almeno XD)
Il ghigno di Soul non promette mai niente di buono XD
Al prossimo capitolo! Baci!
E grazie mille per la recensione e la lettura *_*

Ana_Sama: ANA! *W* okay, questa me la potevo risparmiare XD non ti preoccupare per i giorni di lettura o per quando recensisci o meno: basta che ti sia piaciuto e che l'abbia letto. Tutto qui XD poi io faccio schifo con le recensioni, per cui *angolino*
Spero che anche questo capitolo ti piaccia.
Sei passata dalla parte di Soul, nè? +_+
Alla prossima, baci!

Inuyasha2099: Ciao! *_* che bello vedere un nome nuovo! mah, io sono molto più pigra di te, e il fatto che tu mi abbia lasciato un commento mi fa piacere lo stesso: di recensire tutto non c'è ne tempo ne voglia, per cui non ti preoccupare XD - inoltre sarebbe un suicidio D:
Come Font uso il Georgia, in ogni caso XD
A prossimo capitolo ^_^

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=540380