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Poco dopo l’una e cinquantacinque del
mattino, l’atmosfera assume quell’aria umida e fragrante della notte, quel
leggero freddo primaverile che ti dà fastidio se non hai almeno un leggero cappotto,
e quel silenzio particolare tipico della città dormiente.
All’improvviso, in questo spazio incontaminato tra la fine della sera e
l’inizio di un nuovo giorno, una sirena in lontananza rompe il silenzio.
Un’ambulanza corre a tutta velocità verso
l’ospedale. Un’auto la segue, sembra un’automobile di una persona benestante,
qualcuno che nella vita se la passa bene. Una Lancia Musa. Questa corre dietro
l’ambulanza, senza perderla di vista nemmeno quando passa col rosso. È
severamente vietato dal codice della strada, ma non c’è problema. Le strade
sono deserte, talmente deserte che ci si potrebbe organizzare una corsa
clandestina. Poco dopo i due veicoli scompaiono alla vista.
Il silenzio si ristabilisce ancora per un breve lasso di tempo, finché
un altro rumore squarcia la tranquillità rinnovata.
PEEEE!! PEEEEEE!!!!! PEEEEEE PEEEE PEEEEEEE!!!!
Il clacson di un’automobile. Questa volta il
veicolo è un taxi, una Fiat Brava abbastanza male in arnese. Anche questa sta
cercando di seguire l’ambulanza, ma per qualche ragione, non riesce a tenere il
suo ritmo, ma è spinta ugualmente da una strana frenesia che, lo sa, la porterà
sulla strada giusta. Quella dell’ospedale. Ecco il perché del continuo suonare
del clacson.
*****
La sala d’attesa è piuttosto gremita di
gente. Sembra che per quanto la città sia vuota, il pronto soccorso sia pieno
in proporzione inversa. Un medico dall’aria giovanile, ma comunque sulla
trentina, si avvicina al banco della reception.
-Chi sta arrivando, allora?-
-Un’ambulanza che ha soccorso una donna
incinta. Sta per partorire.-
Il giovane medico è poggiato al banco della
reception, e legge le chiamate arrivate al centralino dal computer
dell’infermiera, una ragazza bionda con gli occhialini sul naso.
-Bene.-
-La mandiamo in maternità?-
-Assolutamente no. Appena arriva la mandate
da noi, che dobbiamo fare dei controlli prima.-
-Va bene Dottor Kasuga.-
Il medico è un ragazzo giovane. Trentuno anni,
single, lineamenti orientali. Il sogno della sua vita è sempre stato quello di
fare il medico, e in trentuno anni ci è riuscito. Infatti
è il responsabile del Pronto Soccorso.
Fuori dalle porte dell’ospedale, l’ambulanza
urla con le sue sirene, e appena queste si placano, poco dopo da una porta a
doppio battente viene fuori una ragazza che geme di dolore, con il pancione
gravido di un nascituro e il vestito nero lungo bagnato.
Un’infermiera accorre ad aiutarla e le dice
quelle parole, mentre con una mano prende una sedia a rotelle dove fa
accomodare la ragazza madre. La partoriente è una donna dai capelli neri, occhi
neri, che sta piangendo dal dolore.
Da una porta secondaria, un’altra donna
entra nell’atrio dell’ospedale, e cerca qualcuno con gli occhi. Sembra
piuttosto in ansia, sta sudando ed ansimando. Tiene la borsa stretta al fianco
come se fosse uno scudo protettivo. Una ragazza che tiene per mano un bambino
le chiede se va tutto bene, se vuole sedersi al suo posto, ma lei declina tanto
gentilmente quanto in fretta. Non può aspettare, deve sapere. Alla svelta si
dirige verso il bancone della reception, per chiedere informazioni.
L’infermiera bionda dietro il bancone la squadra con ansia. Non le piace per
niente l’espressione sul suo viso. Sembra che da un momento all’altro la donna
possa collassare.
-Posso aiutarla,
signora?-
-S…sì, Vorrei… vorrei sapere dov’è la
ragazza che sta per partorire.-
-Lei è una parente?-
-Io.. sono una …
una sua amica.-
La donna è sempre più sudata, sempre più
pallida. L’infermiera chiede istruzioni su come comportarsi, quando
all’improvviso la donna si accascia a terra in ginocchio, tenendosi lo stomaco
e versando lacrime di dolore. Alcuni congiunti dei pazienti in sala d’attesa
(quelli che sono sani) accorrono per aiutarla.
-Infermieri!!
Questa donna sta male!!!-
Dalla borsa della donna intanto viene fuori
la carta d’identità. Tra i tanti medici che accorrono, viene anche il trentenne
giapponese. Il suo occhio nota il documento della donna. Lo prende in mano, lo
apre… e quando vede chi è la donna, ha un capogiro per lo stupore.
-Oh cazzo…-
Mentre la donna viene portata via da una
barella, lui le corre dietro. Non può permettersi di perderla. Non deve…. non deve assolutamente.
*****
Pochi istanti dopo, giunge alla reception un
ragazzo. Biondo, occhi azzurri, capelli abbastanza spettinati. È nel panico.
Parla un italiano molto stentato, perché non è la sua madrelingua. Già colmi di
emozioni, i paramedici si precipitano a capire cosa c’è, e quando lui mostra un
ragazzo in un taxi, che perde copiosamente sangue dal fianco, essi accorrono e
mettono il ferito sulla barella. Il ragazzo biondo straniero è in lacrime, nel
panico più totale. Mentre il passeggero che era nel taxi viene trasportato in
ospedale dagli uomini in camice bianco, lui lo segue, lo segue fino a che non
può più seguirlo perché i paramedici gentilmente lo bloccano ed un altro medico
gli chiede le generalità del paziente. Lui risponde a scatti, perché non parla
bene l’italiano… Allora il medico gli tocca la spalla e gli dice
-Andrà tutto bene. Il suo congiunto se la
caverà… è solo questione di tempo. Si fidi di noi.-
Allora il ragazzo biondo si zittisce, e
prova a calmarsi, confortato dalle parole del medico, anche se non può capirle
bene perché non parla italiano.
Intanto, altrove, fuori dall’ospedale, succedono tante altre cose…
Al dodicesimo
rintocco del campanile della chiesa, MadokaAyukawa era ancora sveglia. Complice il leggero caldo che
iniziava a maturare nell’aria, per persistere durante tutta l’estate ormai alle
porte, sudava. Ma non solo per il caldo.
“…Se non pago,
mi sfrattano…”
Per tutto
l’anno, fino alla prima settimana di Giugno, aveva lavorato come segretaria
presso quella grande azienda… fino a che tutto era crollato. Ufficiali
giudiziari, carabinieri, addetti dell’agenzia recupero crediti avevano apposto
i sigilli sulle porte d’ingresso e di conseguenza i dipendenti erano stati
licenziati, tutti. Tra questi c’erano anche madri in attesa e studenti
universitari, che senza quel lavoro avrebbero avuto più difficoltà a sbarcare
il lunario.
Lei, Madoka, non era più studentessa universitaria da almeno
dieci anni, ma dallo stesso lasso di tempo non era riuscita a trovare un lavoro
decente nella “Città Eterna”. Soltanto lavori brevi, di copertura, di
“sopravvivenza” – come li chiamavano in molti – che non l’aiutavano più di
tanto a mantenersi da sola. Si guardò attorno, mentre era seduta sul letto,
rannicchiata in sé stessa come una bambina impaurita… La stanza era illuminata
dalla fioca luce dell’abat-jour, l’arredamento era
composto da un comò, un armadio e una scrivania completa di computer portatile
e stampante… e una sedia, dove c’erano i suoi vestiti. Una camicetta a fiori ed
un paio di jeans. Il sonno non voleva coglierla, i suoi occhi erano spalancati
e vigili, la sua testa piena di pensieri.
“Perché non mi
sono mai trovata un ragazzo…? Perché?”
Pensò in un
momento di lucidità. La risposta le venne immediata. Lei aveva sempre voluto
essere indipendente, bastevole a sé stessa, orgogliosa di non voler chiedere
niente a nessuno. Per questo aveva lasciato il Giappone anni prima, ospitata da
un’azienda italo-nipponica che l’aveva messa a fare
la segretaria, quando all’improvviso la società era finita a gambe all’aria
stroncata dalle imposte italiane. Pur di non tornare indietro ed ammettere che
per lei non c’era posto in Italia, si era trovata un altro lavoro… e poi un
altro, e poi un altro, e un altro ancora. Tutto questo per dieci anni di fila.
Ed ora era lì, incerta sul da farsi.
Cercare un
altro lavoro?
Tornare a
casa?
Dormire…
Dormire, già.
Si distese sul
letto, provando a chiudere gli occhi. L’indomani mattina avrebbe avuto la mente
più fresca, e sicuramente sarebbe stata in grado di gestire la faccenda in
maniera migliore che non perdendo il sonno con le congetture sul suo futuro.
*****
-Aaaah… aaaahhh…. Ooohhhhhh!!!!-
-Hmmm…. Hikaru…. Aaaaahhhh…..-
Altrove, in
un’altra stanza da letto, un uomo di mezza età ed una ragazza di circa ventotto
anni stavano facendo l’amore. Chiunque avesse sbirciato nel suo portafogli,
avrebbe visto che l’uomo si chiamava Vegeta, aveva cinquantotto anni ed era
sposato. Lo stesso che gli avesse guardato la mano sinistra, avrebbe rilevato
una differenza sostanziale fra il documento: l’uomo non portava la fede
nuziale. Terminato l’amplesso, l’ennesimo di quella serata, lui si distese su
un fianco, dando le spalle a lei. Lei si accese una sigaretta. Dalla sua
posizione Vegeta poteva sentire il rumore leggero del tabacco che veniva
bruciato dalla tirata della ragazza.
-Hikaru…-
-Che c’è.-
Chiese lei,
freddamente.
-Lo sai che
non …-
Lei sbuffò una
nuvola di fumo, scuotendo la testa.
-Non mi
importa. Ho bisogno di rilassarmi.-
Evitando di
prolungare la discussione, Vegeta si zittì, trattenendo l’impulso di bloccarle il
polso contro la spalliera del letto e levarle l’orrenda sigaretta che ora lei
teneva fra l’indice e il medio della mano destra. Dopo una nuova sbuffata, lei
mormorò qualcosa.
-…A volte mi
chiedo chi me lo fa fare.-
-Hikaru… Ascolta….-
-No, ascoltami
tu, Vegeta. Io non ne posso più. Quanto ancora dovrà
andare avanti questa storia?-
Sempre dandole
la schiena, Vegeta rispose
-Non molto
ancora. Stamattina ho parlato col mio avvocato.-
-E…?-
-Ha detto che
se la lascio, non riuscirò ad ottenere il suo patrimonio e in più dovrò anche
pagarle gli alimenti.-
-Pfffffft. Che palle. Ami più i tuoi soldi che me?-
Hikaru sbuffò nuovamente e scrollò la cenere della
sigaretta nel posacenere che stava sul comodino. Vegeta si issò a sedere. Il
suo petto glabro era muscoloso e tonico, e le sue braccia scolpite.
Delicatamente lui la cinse per i fianchi, stringendola a sé e dandole un
leggero bacio sulla fronte. Lei a quel gesto si sciolse, chiudendo gli occhi e
sentendo tutto l’amore che provava per lui.
-…Scusami…-
-Non è niente.
Purtroppo mia moglie tiene i fili della mia vita…-
-…-
-Hikaru… Io… ti faccio una promessa. Quest’estate non avrò
nulla da fare, mia moglie se ne andrà in vacanza in crociera con delle sue
amiche… Se vuoi… io e te… potremmo…-
-…Andare in
vacanza insieme?-
-Sì. E fare
finta di essere marito e moglie. Che ne diresti?-
Le venne da
piangere. Il loro rapporto clandestino era iniziato tre anni prima, quando lei
era ancora una semplice contabile presso la Banca dove Vegeta era un correntista. Era rimasta
affascinata da quell’uomo così carismatico ed indipendente, ma pian piano, nel
corso del tempo aveva scoperto molti punti deboli nel suo carattere…
Specialmente uno. Sua moglie.
-Ci penserò.
D’accordo?-
-D…D’accordo.-
Rimase un po’
turbato da quella risposta, per cui decise di non insistere oltre. Dopodiché si
distese nuovamente sul letto, su un fianco, questa volta guardandole le cosce
generose che per tre anni gli avevano regalato momenti lieti… Sorrise tra sé,
mentre lei… Lei era persa a guardare nel vuoto, mentre la sigaretta fumava tra
le sue dita. Poco dopo la spense, e si accoccolò a dormire accanto al suo
amante, baciandogli dolcemente le labbra.
*****
Nel suo
appartamento all’attico di un palazzo in pieno centro di Roma, una donna in
camicia da notte era in preda all’insonnia. Nel locale tutte le luci erano
spente, l’unica fonte di luce era la luna che donava all’atmosfera una diafana
tranquillità. Lei, la donna, era in piedi sulla grande porta a vetri che dava
sul terrazzo. Alla luce della luna, i suoi capelli blu cobalto apparivano
bianchi, come la camicia da notte, dandole le sembianze di una qualche dea
mitologica che stesse comunicando con altre entità sconosciute agli umani.
Ma una dea non
era.
Lei era
semplicemente Bulma, cinquantasei anni, imprenditrice
di un’azienda metalmeccanica ben avviata, madre di un
figlio, moglie di un figlio di puttana di nome Vegeta… nonché…
“…Prossima
alla morte. Condannata da una giustizia superiore, senza appello.”
…Nonché
gestante di un tumore allo stomaco, in uno stadio molto avanzato. A causa degli
impegni che il dirigere un’azienda comporta, non aveva mai trovato il tempo di
pensare a sé stessa, neanche di andare a fare una visita. Le ci era voluto un
malore fortissimo allo stomaco mentre era in banca, dal suo consulente
finanziario. La morsa le si era stretta attorno alla bocca dello stomaco come
un pugno, lei aveva stretto i denti e si era accasciata a terra. Portata al
pronto soccorso di un ospedale vicino, le avevano consigliato di andare a fondo
alla faccenda… e adesso….
Adesso sarebbe
voluta tornare indietro, resistere stoicamente al dolore e non fare tutte
quelle visite successive che l’avevano condotta per mano in un abisso senza
fine.
Contemporaneamente
alla sua malattia, accuratamente tenuta nascosta ai familiari (perché non
sapeva ancora come dirlo a suo figlio e non voleva parlarne con suo marito),
aveva scoperto che quest’ultimo la tradiva, e il dolore era aumentato.
Non trovando
il coraggio di affrontare l’argomento, per paura di venire abbandonata anche
dal marito (sì, era un figlio di puttana ma era anche l’unico che l’avesse
amata, almeno negli ultimi anni), si teneva tutto dentro. E non sapeva come
uscirne.
Aprì la grande
portafinestra, e uscì sul terrazzo. L’aria fresca le sferzò il viso e fece
ondeggiare i lembi inferiori della sua camicia da notte, oltre che i suoi
capelli. Si avvicinò al parapetto, vi posò lentamente le mani sopra e, con
uguale lentezza si sporse oltre con la testa.
Al ventiduesimo
piano del palazzo, tutte le cose sotto sembravano piccole. C’erano molte auto
parcheggiate lì, tutte abbastanza di lusso. Una Mini Cooper, una
BMW ultimo modello, una Mercedes Classe A, e tanti altri veicoli che
erano la Zeta di
Zorro del quartiere sciccoso della città. Le venne da ridere,
pensando che se avesse provato a spiccare il volo da quell’altezza, il giorno
dopo i suoi vicini si sarebbero riempiti la bocca col dire “…e chi l’avrebbe
mai detto? Una donna così bella, brava, caparbia… che ha
compiuto un gesto del genere!” … oppure “Povera Bulma,
chissà perché l’ha fatto?” …oppure ancora la migliore di tutte, degna dell’alta
borghesia “E adesso chi è che pulirà questo casino?”
Ridacchiò,
scuotendo la testa al pensiero di giocare a fare Icaro da quell’altezza.
Suicidarsi sarebbe stato come mettere la firma sul testamento e dare tutto a
suo marito, cosa che non voleva assolutamente fare. Indietreggiò, come se la
ringhiera fosse un animale feroce e lei non volesse darle le spalle, e ritornò
nell’appartamento.
Fin dal primo momento che l’aveva visto, se n’era innamorato
Fin dal primo
momento che l’aveva visto, se n’era innamorato. I suoi capelli grigio-neri, la
sua camminata particolare con quel portamento elegante e fiero, il suo viso
bellissimo e bianco… E quella voce da fare impazzire. Takao
era completamente cotto di quel ragazzo del corso di lingue straniere, Kei. Conosceva il suo nome solo per sentito dire, avendolo
chiesto a delle ragazze che frequentavano il suo stesso corso. Tutto era
cominciato una mattina di Ottobre, quando Takao,
appena arrivato in aula, si dispose a ripassare la lezione di economia del
turismo sul libro di testo. Mentre studiava le righe, la porta si aprì,
rivelando la figura di un bellissimo ragazzo. Kei,
appunto.
-Scusa… è
questa l’aula di letteratura americana?-
-…-
-Eh?-
-…N..no, questa è l’aula di economia del turismo. La tua è più
in fondo.-
-Grazie. Ciao!-
Non ebbe il
tempo di replicare, che il ragazzo con i capelli grigi si eclissò dietro la
porta a doppio battente. Takao rimase folgorato da
quell’incontro. Sette parole, non una di più, bastarono ad ammaliarlo, tanto
che nei giorni seguenti non faceva altro che pensare a lui. La notte non
riusciva a dormire, e studiava con la mente annebbiata.
“Sarà gay? Non
sarà gay? Ma certo che lo è, si vede lontano un miglio! Se lui non è gay io
sono la Regina Elisabetta.
Sì ma… anche se lo è.. gli piacerei? Non gli piacerei?”
Si riferiva al
fatto che ultimamente aveva accumulato un po’ di ciccia… Non era obeso, però
era piuttosto in carne. Tuttavia, con i vestiti larghi, sembrava anche
abbastanza appetibile. Almeno così pensavano i suoi amici, avventori del Gay Village.
Ora lui si
trovava da solo, a passeggiare per Roma. La città era così silenziosa, mentre
dormiva, e pensò che se avesse avuto Kei al suo
fianco, sarebbe stata una notte davvero romantica. Camminava tranquillamente
con le mani in tasca, confortato dal rumore dei suoi passi sul marciapiede…
Decise che avrebbe vagato fino a che non fosse stato stanco, dato che per un
motivo preciso, non riusciva a prendere sonno.
“Kei… Quanto vorrei che tu mi aiutassi a riprendere sonno.”
Pensava,
camminando.
*****
Perso nei suoi
pensieri, seduto al posto di guida del suo taxi, Lorenzo guardava nel vuoto. La
giornata era stata particolarmente pesante, ma lui non aveva alcuna voglia di
tornare a casa. Poco gli importava se c’era lì sua madre ad aspettarlo,
probabilmente abbioccata sul divano mentre guardava un programma alla
televisione, tanto lo sapeva che ormai anche lei era persa da qualche parte con
la testa… Proprio come lui.
Buttò
un’occhiata al portaoggetti della vecchia Fiat Brava. Con un gesto lo aprì e
tirò fuori una revolver Smith & Wesson calibro 38. Aprì il tamburo, che era vuoto, quindi
lo fece girare con un dito. Il rumore che produceva era simile a quello di una
roulette, forse era per quello che i giochi suicidi venivano chiamati “Roulette
Russa”… Lo richiuse, quindi osservò l’arma. Era una
pistola relativamente piccola, più adatta alla difesa personale che all’offesa
vera e propria, ma – suo padre gli aveva detto – comunque letale.
Da suo padre
aveva ereditato una moglie ubriacona e scansafatiche (sua madre) e il suo taxi,
nonché la passione per la letteratura. Prima che il vecchio morisse di infarto,
appena un anno prima della pensione, Lorenzo stava per terminare gli studi di
lettere e filosofia alla Sapienza, sognando di diventare scrittore o
giornalista… Sfortunatamente, la morte prematura del padre e il conseguente
impoverimento dovuto alla mancanza di fondi per il sostentamento, costrinsero
il povero Lorenzo ad implorare il padrone di suo padre per trasferirgli la
licenza di tassista. Così, da tre anni lui girava per le strade scarrozzando
gente di qua e di là.
Lorenzo era
anche stato innamorato, una volta. Sì, lo ricordava. Lo ricordava troppo bene…
Il suo fidanzato
si chiamava Lucas. Il ragazzo più bello e gentile del mondo, che per due anni
l’aveva fatto vivere nella completa tranquillità, illudendolo che l’amore fosse
senza fine. Infatti, da un giorno all’altro, Lucas scaricò Lorenzo senza troppi
complimenti, e a nulla servì implorarlo di tornare. Lucas aveva preso la sua
decisione, e Lorenzo poteva tranquillamente attaccarsi al tram.
Sospirò,
ripensando al ricordo dei bei giorni passati con il suo Lucas… Giorni ormai
lontani, eppure così dolorosi per il suo cuore. A distanza di sei mesi, ancora
pensava a lui, ancora sognava di stringerlo fra le braccia, di assaporare le
sue labbra di ragazzo italo-brasiliano… Ma lui
niente. Lui non c’era più, sparito dalla circolazione come una banconota fuori
corso.
Ed ora era
Lorenzo, che voleva sparire. Per sempre, come se non fosse mai esistito… Lo
voleva da quando Lucas l’aveva lasciato, e ancor di più da quando aveva capito
che nel mondo non c’era posto per lui, così maledettamente fuori forma e così
fottutamente romantico che non riusciva a trovare un ragazzo che lo
sopportasse.
Con la mano
destra sollevò la pistola, portandosela alla bocca.
Inizialmente
tremò come un disperato. Nonostante il suo desiderio di cancellarsi fosse così
intenso, aveva paura.
“C…coraggio vecchio.
D..Di che cos’hai p..paura? …Quest’arnese è scarico. Non potrà certo farti del male.”
E la sua bocca
si deformò in un sorriso, prima che dalla sua gola venisse fuori una risata.
Una risata allegra, divertita, che in breve si trasformò in una risata
isterica, stridula ed alta.
“…Immagina di
essere qui da solo. E lo sei. Sei qui solo al mondo, ma non c’è nessuno a cui
chiedere aiuto, nessuno che può tirarti fuori dallo stato d’animo in cui ti
trovi. E allora cosa fai? Semplice, prendi la porta e te ne
vai.”
Quella voce
che sentiva nella testa era quella di Lucas. Ribatté con la sua voce.
“..Ma… e se domani fosse un altro giorno?”
“Domani è già oggi. E non sta succedendo niente. Allora, vuoi stare
qui a guardare un altro giorno uguale a quelli passati oppure vuoi…”
“No.
D’accordo.”
“E allora
fallo. Tira quel grilletto, e sarai libero.”
Senza
ribattere più nulla a quel soliloquio interiore, Lorenzo premette il grilletto.
La
deflagrazione fu assordante, nel piccolo abitacolo. La pistola che avrebbe dovuto
essere scarica, esplose un colpo nella bocca di Lorenzo, che si addormentò ad
occhi aperti in quell’abitacolo dai vetri ora colorati di rosso vermiglio e
grigio, mentre fuori suonava un cicalino.
BI-BI-BI-BI-BIP!
BI-BI-BI-BI-BIP!
BI-BI-BI-BI-BIP!
Madido di
sudore, Lorenzo si svegliò di soprassalto nella sua stanza da letto, spaventato
dal suono improvviso della sveglia e dall’incubo che aveva fatto.
“Gesù, un
altro incubo…. Cristo, non ce la faccio più.”
Si strofinò
gli occhi, trattenendo l’impulso di piangere. Stringendo i denti, spense quella
sveglia infernale, correndo verso il bagno per prepararsi ad una nuova
giornata.
*****
Alla stessa
ora, il dottor KyosukeKasuga
stava per finire il suo turno di notte al Pronto Soccorso, di cui era responsabile.
“Ancora un
minuto e poi potrò andarmene a letto… puff. Non vedo
l’ora.”
Finì di
firmare dei moduli di ricovero, poi si alzò dalla poltrona e velocemente si
tolse il camice, appendendolo all’attaccapanni. Senza di esso, dimostrava ancor
meno dei sui trentuno anni… Mentalmente tracciò la
scaletta di quello che avrebbe fatto una volta sveglio: Riordinare casa, andare
al supermercato, pagare le bollette… e….
“…Andarlo a
trovare.”
Già, perché
“lui” lo stava aspettando. Un brivido gli percorse la
schiena, e un sorriso comparve sulla sua faccia.
“Chissà cosa
mi racconterà oggi…”
Rincuorato dal
pensiero di quella persona, il dottor Kyosuke si
incamminò verso casa a bordo della sua Volvo.
Con i barattoli in mano, Bulma non sapeva decidersi se stimolarsi con un po’ di tè o
caffè oppure rilassarsi con della buona camomilla o un’aromatica tisana al
gelsomino.
“Se è vero ciò
che i medici mi hanno detto, fra non molto il mio riposo sarà eterno.”
Ancora una
volta, le venne da ridere. Com’era possibile prevedere che una persona non ci
sarebbe stata più a partire da una certa data? Chissà. Lei non ci capiva
niente, dato che in tutta la sua vita si era solo occupata di gestire la sua
azienda…
“A proposito
del lavoro. Non ho neanche tanta voglia di essere lì, dopodomani… Che palle,
sempre le solite facce, sempre il solito posto… E io domani devo
morire! Mi domando chi me lo fa fare di…”
All’improvviso,
le venne un’idea, come un fulmine a ciel sereno. Mollò i quattro barattolini
nella dispensa ed andò a prendersi un eccitante di cui si serviva suo figlio…
Non lesse nemmeno le avvertenze, prese quattro pastiglie e se le ficcò in bocca,
accompagnate da un bicchiere d’acqua. Poi andò in camera da letto a cambiarsi.
“La notte è
ancora giovane… è sabato… e io sono sola.”
Aprì l’armadio
e da lì tirò fuori ogni ben d’Iddio comprato in giro per boutique del centro:
vestiti, tailleur, pantaloni, camicie… Erano talmente tanti che a veder
l’armadio c’era da chiedersi come facesse a contenerli tutti. Il letto non era
disfatto. E lei era sveglia con il pigiama… erano un po’ di mesi (diciamo pure
anni) che dormiva sul divano con una sola coperta a riscaldarla. Ancora un po’
e intorno a quel divano ci avrebbe costruito una tenda da campo, per quanto
tempo ci passava… Pomeriggi su pomeriggi passati a guardare Maria De Filippi ed
il suo programma “Uomini e Donne”, oppure “Verissimo” quando era ancora in
programma, e poi “Chi vuol essere Milionario”. Già… Quanti pomeriggi e quante
serate sprecate a casa a vedere e sentire storie di vita che non erano le sue,
mentre suo marito era protagonista della sua vita più di quanto lei era
protagonista nel lavoro.
“E va bene,
Vegeta. L’hai voluto tu. Adesso io scelgo un bel vestito da sera, di quelli che
mi sono comprata quando tu mi lasciavi sola; prendo la macchina e vado in uno
di quei locali che il telegiornale chiama con l’appellativo di “Movida”,
rimorchio un povero imbecille e…”
…E poi?
Con un vestito
in mano, Bulma si girò a guardare verso il comò. Il
mobile era composto da uno specchio e da quattro cassetti. Sopra di esso
c’erano alcuni profumi, un portagioie, e delle fotografie. Una raffigurava lei
e Vegeta il giorno delle nozze. Lei sembrava una bambina, nell’abito bianco.. Lui invece un attore di telenovela. Si avvicinò e prese
in mano la fotografia incorniciata. Sospirò, guardandola… quella foto era forse
stato l’inizio della fine, per lei… Che ricordasse, era sempre stata con
Vegeta. Mai un amante, mai una scappatella extraconiugale… mai niente di
niente. Solo lavoro e casa, casa e lavoro, e
ultimamente…. Malattia.
Ma un’altra
foto le schiarì le idee.
La foto di lei
che teneva in braccio un bimbo dagli occhi grandi e scuri, moro di carnagione,
con i capelli di un nero tendente al blu. Suo figlio. Sorrise a quella
fotografia, e decise di portarsela con sé.
Intanto, si
era decisa su che vestito mettersi. Aveva optato per un tubino blu con uno
scialle color prugna. Un accostamento di colori che avrebbe mandato ai pazzi
qualunque stilista, ma che a lei piaceva tantissimo. Si sorrise allo specchio,
poi andò in bagno a darsi una sistemata ai capelli. Li pettinò e si profumò il
corpo con due gocce di Chanel N.5. Dopodiché, passò al viso: un velo di
rossetto, un po’ di mascara… e una leggera spolverata di ombretto sulle
palpebre. Che altro…? Ovviamente, non poteva mancare lo sguardo da predatrice
di uomini.
-Raaaurgh.-
“Bulma mia, sembri pronta per fare la pubblicità di una casa
di moda. Vediamo quanti uomini riesci a rimorchiare stasera…”
-…Alla faccia
di quello stronzo di mio marito.-
E anche alla
faccia della sua malattia.
Se mai ne
aveva una, di faccia…
*****
Velocemente scese
nel parcheggio dove c’era la sua Lancia Musa ad aspettarla. Schiacciò il
pulsante dell’allarme e la macchina lampeggiò con le frecce, segno che la sua
padrona poteva salire. Si accomodò al volante e pronunciò la parola
“ACCENSIONE”, che fece accendere il computer di bordo sulla plancia. Una voce
femminile la salutò dagli speaker.
-Buongiorno, Bulma. Benvenuta. Per selezionare il navigatore, pronuncia
“Navigatore”; Per selezionare il browser, pronuncia “Internet”; per ascoltare
la radio, pronuncia “Radio”-
Mentre
inseriva la marcia ed apriva il cancello con il telecomando, pronunciò
“Navigatore”.
-Hai
selezionato “Navigatore”. Dove vuoi andare?-
E disse
l’unica parola che le venne in mente.
-Hai
pronunciato “Discoteca”. Caricamento…-
Uscì con una
certa eccitazione. Si era guardata allo specchio e si era piaciuta da morire.
Quella notte, ne era certa, avrebbe fatto sconquassi. Per lei non significava
nulla tradire suo marito, a differenza di molte donne... Spesso le donne
tradiscono perché il loro caro maritino non le accontenta come si deve, o
perché sono stufe della loro condizione di casalinghe disperate e cercano
altrove ciò che non riescono ad avere in casa… Ma lei no. Lei, Bulma, voleva solo assaggiare quanto fosse buono il miele
della vita, per quel poco che le restava da vivere.
Cambiò marcia.
Mentre faceva ciò, avvertì una leggera fitta di dolore allo stomaco. Un gemito
di dolore le sfuggì dalla gola, ma cercò di non badarci. Accostò, accese le
quattro frecce e frugò nella borsetta.
“Meno male che
me le sono portate.”
Alla visita
medica, la dottoressa che le aveva diagnosticato il cancro allo stomaco, oltre
a consigliarle di entrare in terapia, le aveva dato delle pillole per alleviare
il dolore. Inizialmente lei le aveva guardate con disprezzo, ma poi si era
convinta ad accettarle. Le portava sempre nella borsetta, ma non le aveva mai
usate. Ora era il momento buono.
Svitò il tappo del flaconcino e
ne trangugiò due (secondo le avvertenze). Poco dopo stava già meglio.
-Niente alcool
questa sera.-
Disse,
rimettendo il flaconcino nella borsa e ripartendo in sgommata.
*****
Nel frattempo,
Takao aveva continuato a camminare. Conosceva bene
Roma, e sapeva che era troppo grande da attraversare tutta a piedi. Gli tremavano
le gambe per lo sforzo, quindi si fermò e si sedette su un muretto lì vicino.
Meditò se prendere un autobus notturno oppure un taxi per tornare a casa, dato
che quella notte non aveva voglia di dormire allo studentato.
-Certo che se
avessi una compagnia… sarebbe meglio.-
Di compagnia
ne aveva anche troppa. Gli sarebbe bastato entrare in un qualsiasi locale gay
di Roma e tutti gli avrebbero steso ponti d’oro. Il fatto era che non gli
andava un’altra storiella da una serata, perché ormai nei suoi pensieri e nel
suo cuore, c’era Kei. Si tastò la tasca destra dei
jeans. Il suo portafogli c’era ancora, quindi decise che si sarebbe concesso il
lusso di prendere un taxi.
Guarda caso,
ce n’era uno che stava arrivando. Era una Fiat Brava bianca, e la luce spenta
indicava che non era occupato.
Velocemente Takao
si alzò dal muretto e agitò la mano per farlo fermare.
-TAXI!!!!-
Rallentando,
il taxi si fermò, e Takao salì a bordo, accomodandosi
sui sedili posteriori. Il tassista, un ragazzo che gli sembrava giovane, lo
apostrofò con voce piatta.
-Ciao, dove
andiamo?-
-Strada dei
Girasoli, numero centoventuno.-
-Okay…-
Il giovane
tassista impostò il tassametro. Aveva i capelli castani mediamente lunghi, ben
ordinati. Era un po’ in carne, ma non esattamente grasso… Solo un po’ robusto.
Niente foto di fidanzate in giro sul cruscotto, soltanto la licenza appiccicata
accanto al tassametro. Lesse il nome. Il ragazzo si chiamava Lorenzo Marchetti ed era nato il Primo Maggio 1985. Dopo qualche
minuto di silenzio, Takao pensò di esordire facendo
conversazione, per riempire la distanza che lo separava da casa.
-…Ha visto che
notte? Non è molto freddo.-
-Già…-
-Di solito mi
piace passeggiare, fa bene alla circolazione.-
Takao sorrise, ma in risposta ottenne solo una fugace
occhiata del tassista, che lo guardò attraverso lo specchietto retrovisore.
Guidava tranquillamente, guardando la strada e cercando di non perdersi in
chiacchiere. “Finalmente un tassista discreto” pensò Takao,
che tutte le sante volte che andava in taxi, trovava un tassista chiacchierone
che a momenti non lo lasciava nemmeno uscire… Invece questo Lorenzo era
tutt’altra persona. Era molto taciturno, e Takao
pensò che forse aveva troppi pensieri per la testa.
Lorenzo
incrociò lo sguardo del suo passeggero nello specchietto retrovisore, poi
guardò la strada, poi lo riguardò di nuovo.
-Lei è
giapponese?-
-Eh? …Non
esattamente. Sono nato in Italia, ma i miei genitori sono di Tokyo.-
-Capisco.-
-Lei è molto
giovane per fare il tassista…-
-Ho soltanto
venticinque anni.-
-Mi lasci
indovinare. Lei lavora e suo padre è in pensione?-
-Mio padre non
c’è più. È morto.-
Takao mormorò un “oh.. mi
dispiace”, talmente sottovoce che Lorenzo scosse la testa in segno di diniego,
senza ben capire cosa il passeggero avesse detto.
-Prima che
morisse, io studiavo lettere e filosofia alla Sapienza…-
-Davvero?
Allora com’è che non ci siamo mai incrociati? Io studio lì!-
-Che cosa
studi, allora?-
-Economia del
turismo!-
-Interessante.
Un percorso molto utile, per chi vive in una città come Roma.-
Affermò
Lorenzo, mentre con le mani sterzava in un viale. Takao
sorrise. Poi porse la mano destra al tassista, da dietro i sedili. Lorenzo lo
guardò stranito.
-Io mi chiamo Takao. Piacere!-
Porgendogli la
mano, Lorenzo gliela strinse piano.
-Io Lorenzo.
Piacere mio.-
Felice di aver
scambiato quattro chiacchiere con il ragazoz, Takao guardò poi fuori dal finestrino, notando la movida
della notte… prostitute e spacciatori, sotto i
lampioni e seduti sui marciapiedi. Il viale proseguiva verso una salita, che
Lorenzo conosceva bene. Quello era il settore degli omosessuali. E lì
incominciò la sfilata: Ragazzi giovani, ben vestiti, alcuni con dei
pantaloncini così corti che si poteva intravedere il loro fallo anche senza
bisogno di toglierli… Alcuni con pettinature ricercate, altri che mostravano il
sedere a quell’auto bianca che passava… “Che cosa sono costretti a fare…” Pensò
Lorenzo, con le mani sul volante. Intanto Takao
osservava fuori dal finestrino, in una sorta di religioso silenzio.
Poi,
all’improvviso… lo vide.
Gli attraversò
il finestrino in una frazione di secondo, e come se fosse stato un caso di
emergenza, Takao toccò la spalla al tassista.
-Ehi fermati,
presto!!!-
Spaventato,
Lorenzo inchiodò l’auto, che si fermò con uno stridore di pneumatici
sull’asfalto, attirando l’attenzione di più d’una persona. Alcuni spacciatori
si stavano avvicinando, le loro espressioni erano minacciose. In più il motore
dell’auto si era anche spento. Lorenzo imprecò silenziosamente, mentre Takao scendeva dall’auto, pregandolo di aspettarlo.
Raggiungendolo,
Takao era indeciso se sorridere oppure essere
disperato. Il suo amore Kei era lì, vestito molto
elegante, con un completo nero, una camicia bianca mezza sbottonata e un paio
di scarpe da ginnastica… Tra le mani teneva una sigaretta, e camminava qua e là
facendo finta di niente. Quando vide Takao, lo
osservò con stupore. Fece per andarsene, ma Takao lo
fermò.
-Aspetta…-
-Vai via.-
Disse Kei, allontanandosi.
-Perché? Io…
io vorrei…-
-Cosa? Cosa
vorresti? Cazzo. Che … che imbarazzo.-
Si riavviò i
capelli con fare nervoso, sbuffando una nuvola di fumo dalla bocca e buttando
via la sigaretta. Takao lo guardò ammaliato, più
innamorato che mai. Non sapeva più cosa dire, però voleva a tutti i costi
parlargli.
-Allora? Il
gatto ti ha mangiato la lingua?-
-No.. io… io volevo soltanto …. Passare la notte con te.-
Kei lo guardò di traverso.
-La… la notte?
Ti rendi conto che io…-
Immediatamente,
Takao tirò fuori il portafogli, da cui estrasse una
banconota da duecento euro. Gialla, abbastanza grossa, e molto… invitante. Kei la guardò quasi stupefatto, e quando Takao gliela mise nella tasca della giacca, per poco a Kei non venne un coccolone. Non aveva nemmeno mai visto la
banconota da duecento euro prima d’ora. Intanto, intorno a loro, molti
“colleghi” curiosi di Kei si avvicinarono.
-Ehi Kei… non ce lo presenti, il tuo
amico?-
Disse un
ragazzetto biondo alto come Kei. I suoi occhi erano
azzurri, e in quel visino d’angelo brillava un barlume di lussuria.
-Guarda
quant’è carino… così moro, così ben piazzato…-
Questo invece
era un bel ragazzotto muscoloso, capelli corti e neri pettinati a spazzola, che
andò a toccare il sedere di Takao. Lui arrossì, e Kei lo portò via tirandolo per un braccio.
-Non è un mio
amico. E voi tornatevene al lavoro, puttane!-
-Qui l’unica
puttana sei tu! Ahahahah!-
Fecero quelli,
di rimando. Intanto Kei si allontanò portandosi
dietro Takao, verso la
Fiat Brava bianca con cui era arrivato.
Lorenzo era lì al posto di guida,
che parlava con un ragazzo con il ciuffo, in stile Emo.
-…Mio padre
aveva una macchina così.-
-Ah sì? Beh…-
-E’ molto
vecchia…-
-Ha solo
tredici anni...-
-Uao. Cinque anni più giovane di
me. Ti andrebbe se quando hai finito il tuo turno, mi vieni a trovare? Mi
chiamo Davide, e conosco molti trucchi per rilassare i bei ragazzi come te… e
poi… di sicuro il mio sedere è molto più morbido da stringere, di quel volante.-
Il ragazzino
gli fece un sorrisetto ammiccante, a cui Lorenzo rispose con un freddo e
distaccato “Grazie, tornerò.”, cercando di contenere l’improvvisa eccitazione
sessuale che gli era venuta. Con nonchalance spostò il piede destro dall’acceleratore,
cercando di mascherare l’erezione che gli era appena venuta. Davide rise.
-Lo sai… Mi
piacciono i ragazzi un po’ in carne… ed ho un debole
per i tassisti.-
Detto ciò, e
vedendo che i passeggeri di Lorenzo stavano arrivando, Davide si congedò. Si
baciò un dito e lo posò delicatamente sulla guancia di Lorenzo, facendogli
l’occhiolino. Poi si allontanò sculettando.
Intanto Kei
aprì lo sportello e fece entrare Takao, che si
accomodò nel posto dietro a Lorenzo. Una volta entrato, Kei
chiuse le sicure.
-Dove… dove
andiamo?-
Takao fece per rispondere, ma Kei
lo anticipò.
-Il più
lontano possibile da qui, prima che qualcuno noti il portafogli gonfio di soldi
che ha questo qui.-
“che voce dolce,
che bello… finalmente passerò un po’ di tempo con lui!!!”
pensò Takao.
Accanto a lui,
Kei pensava a tutt’altro.
“Se questo
coglione va a dire in giro il mestiere che faccio per arrotondare, posso dire
addio alla laurea. Cazzo… Ma tutte a me, devono capitare?”
Vegeta era
irrequieto. Nonostante il silenzio rilassante della stanza, non riusciva a
prendere sonno. Accanto a lui, Hikaru, la sua giovane
amante dormiva tranquilla, rannicchiata su sé stessa, proprio come una tenera
gattina.
La osservò.
I lineamenti del
viso erano bellissimi, i suoi capelli rossicci in tinta con la spruzzata di
lentiggini sul viso le donavano un aspetto birichino, anche se quando portava
gli occhiali cambiava totalmente aspetto: diventava una donna in carriera.
Proprio come Bulma… trent’anni prima.
Trent’anni
prima lui non era così. Era soltanto un giovane procacciatore d’affari per
un’agenzia di pubblicità. A ventotto anni non gli pareva vero di avere già
un’automobile, rispetto e successo. Aveva grandi progetti sul suo futuro, primo
fra tutti di fare carriera nell’agenzia, racimolare quanto bastava per tirare
su un’azienda tutta sua, e poi… Spassarsela ogni tanto in crociera o su
un’assolata spiaggia in compagnia di qualche bella ragazza.
Per fortuna o
purtroppo, le cose per lui erano andate diversamente.
Quel maledetto
venerdì di settembre, con l’estate ormai agli sgoccioli, era stato mandato a
rappresentare la sua azienda presso questa grande fabbrica di automobili.
Ricordava di essere accaldato. Molto accaldato. Con tutto quel bollore che gli
cuoceva il cervello, non era sicuro di riuscire a concludere l’affare.
Così, come faceva di solito, fece una proposta a sé stesso: “Se
riesci a concludere l’affare, esci da lì, ti cerchi un bar e ti fai una bella
limonata. Affare fatto?”
Affare fatto.
Una volta
arrivato alla fabbrica, fu accolto da una donna bellissima.
-Buongiorno.
Sono la dottoressa Brief. Prego, mi segua nel mio
ufficio.-
Dimenticando
la sensazione di caldo, Vegeta la seguì osservando l’ambiente circostante…
Davvero una bella azienda. E davvero una bella proprietaria.
Nell’ufficio,
parlarono a lungo. A dire la verità, parlarono del pacchetto pubblicitario
soltanto per pochi minuti, poi tutta la loro conversazione verté su tanti altri
argomenti… Si vedeva che la ragazza era sola, e che aveva bisogno di conforto.
-Le … Le
andrebbe se… le offrissi una limonata?-
Disse ad un
certo punto Vegeta. Lei gli sorrise e si alzò dalla
poltrona, quindi si diressero fuori verso il bar più vicino.
“…Una
settimana e ci fidanzammo… tre anni dopo quella limonata… ci sposammo… E poi?”
Poi ci fu il
suo nuovo lavoro alle dipendenze della sua fidanzata. I successi di carriera, i
sogni da dividere… La casa nuova… Le prime rabbie, le sporadiche litigate
furiose perché Bulma credeva che Vegeta guardasse le
altre… Poi ancora il loro figlio, nel 1988. Nonostante tutto, la loro vita era
trascorsa bene, tra emozioni, gioie, dolori …
“…e noia.
Tanta noia. Perché non era ciò che mi aspettavo. A cinquantotto anni mi sento
ancora irrealizzato, nonostante la mia brillante carriera lavorativa e tutti i
soldi che ho.”
Guardò ancora
una volta Hikaru. Lei continuava a dormire, forse
sognando l’uomo che l’avrebbe fatta felice mettendole un abito bianco ed un
anello al dito. E se quell’uomo fosse stato lui, Vegeta? Cosa sarebbe successo,
dopo?
Si mise a
sedere sul letto, e guardò l’orologio sul comodino di Hikaru.
Le tre del mattino.
Fra non molto
lei si sarebbe svegliata, preparata e vestita per andare in banca. Lo odiava, quel posto. E odiava vedere tutti quei suoi colleghi
giovanissimi neolaureati e palestrati che le ronzavano intorno, alla ricerca di
una scopata con la loro collega più dolce ed innocente... La sua più grande
paura era di perderla, per colpa delle avances di quei cicisbei. “Ma chi cazzo vi credete di essere, voi? Siete solo un
branco di froci senza cazzo né palle. Lasciate stare la mia Hikaru.”
Avrebbe voluto dire a tutti loro… se non avesse saputo che Hikaru
era devota soltanto a lui. “Loro non mi interessano.
Io voglio soltanto te.” Gli aveva detto un giorno, mentre erano seduti a
pranzare in una tavola calda. La sua mano delicata si era posata su quella
forte di lui, stringendogliela dolcemente. Lui le aveva sorriso, e lei aveva
ricambiato.
“Mentre dormi
sembri una bambina. Una dolce bambina che mi ha preso il cuore… Qualunque cosa
accada, io ti resterò vicino. Sei il mio angelo più bello, la rosa bianca
dell’amore, il mio sogno bellissimo ed indimenticabile. Ti amo, piccola mia.”
Lasciò il
biglietto scritto sul comodino, insieme con una rosa. Poi in punta di piedi
uscì dall’appartamento, per non svegliarla.
*****
Dovette girare
un bel po’ prima di trovare un locale che facesse entrare anche dopo le tre del
mattino. Il problema era che molti di questi facevano entrare solo con lista, e
lei non era stata invitata da nessuno. Di fronte ad un locale di questi, il “Pantera di Velluto”, il buttafuori non la fece entrare.
Non fidandosi di mostrare i contanti come lasciapassare, fece per tornarsene
all’auto ed abbandonare l’idea della sua notte di divertimento, quando una mano
le toccò la spalla.
Lei si voltò,
e vide un uomo sulla quarantina che le sorrideva. Capelli brizzolati,
orecchino e pizzetto, vestito con una camicia bianca ed una giacca e dei jeans
neri.
-Problemi ad
entrare?-
-Lei che ne
dice?-
-L’avevo
intuito. Perché non entra con me? Ho degli amici che mi stanno aspettando, se
vuole…-
Lei valutò la
proposta. Si sentiva leggermente spaventata, ma quell’uomo la intrigava
parecchio. Decise di provare.
-Sì… va bene.-
Pochi minuti
dopo erano nel club. Non c’erano molti giovani, per lo più erano persone dai
quarant’anni in su… che ballavano e si divertivano. Le
luci stroboscopiche illuminavano coppiette che si baciavano, uomini e donne che
ballavano, e persone sole che se ne stavano appollaiate
a bere drink al bar in fondo alla sala.
Così era
quello il famoso “Regno della Notte” che tanto faceva impazzire la gente. In
tutti quegli anni lei non l’aveva mai scoperto, ad eccezione di quelle rare volte
in cui era andata in discoteca con alcune conoscenze comuni di suo marito. Per
lo più donne già sposate con cui parlava soltanto di casa e lavoro. Delle gran
snob.
L’uomo la
portò a salutare alcune persone. C’erano Tre uomini e due donne, molto ben vestite,
truccate come delle bambole e i loro accompagnatori erano davvero molto carini.
-Ehi ciao,
ragazzi.-
-Oh, guarda
chi c’è. Rudy.-
-Dai vieni a
sederti, c’è posto.-
-Hai portato
un’amica?-
-Lei è Bulma. Una mia amica di vecchia data.-
Timidamente, Bulma salutò la combriccola. Tutti si alzarono per
stringerle la mano, e lei fu stupita che nessuno l’avesse riconosciuta.
“Sono
un’importante imprenditrice … ho una fabbrica che ha un fatturato in attivo di
milioni di euro… e questi non mi conoscono. Devo dire che il non farsi vedere
troppo ha i suoi benefici.”
E di tali
benefici se ne abbuffò, quella sera. Ballò per tutto il tempo con quell’uomo
chiamato Rudy, bevve soltanto degli analcolici
(mascherando la sua richiesta con un “ho problemi allo stomaco”) e si divertì,
in un modo o nell’altro.
*****
-Sono
venticinque euro e sessantadue.-
Takao aprì il portafogli e porse una banconota da venti e
una da dieci euro a Lorenzo. Questi fece per dargli il resto,
maTakao, molto signorilmente, lo fermò.
-Tieni il
resto.-
Gli sorrise. Lorenzo si imbarazzò leggermente, poi sorrise e
ringraziò sentitamente.
Osservò i due
ragazzi andarsene verso quel palazzone con il grande cancello in ferro battuto,
e pensò che il ragazzo moro chiamato Takao si sarebbe
divertito, quella sera.
Per quanto gli
riguardava, lui aveva ancora molto lavoro da fare. Ed erano appena le tre del
mattino. Puntuale come la morte, la radio gracchiò.
-Genova quarantacinque in due minuti. Genova quarantacinque
in due minuti. Rispondi Lorenzo.-
Lorenzo prese
il microfono e parlò alla radio.
-Sto
arrivando, Magda.-
Ingranò la
retromarcia, fece inversione, e ripartì in discesa verso altri quartieri.
*****
Guardandosi intorno,Kei non riusciva a credere
ai suoi occhi. Il palazzo era un magnifico complesso di circa una dozzina di
piani. Li contò. Erano quattordici. Ben tenuto, con un giardino che sembrava un
parco naturale e pieno di fiori… già in passato era stato ospitato da certi
clienti molto facoltosi, che quando le loro mogli erano in vacanza, li
portavano a casa… Però nella maggior parte dei casi i rapporti clandestini con
il bel ragazzino gay li consumavano in auto o, quando andava bene, in squallidi
alberghi di periferia. Osservò Takao prendere fuori
un mazzo di chiavi ed aprire il portone d’entrata. Entrarono.
L’atrio era
pulitissimo, con delle appliques alle pareti dal
design molto raffinato. Le caselle postali dei condomini erano in legno lucido,
e la portineria (ora chiusa) sembrava la reception di un albergo.
Seguì Takao verso l’ascensore. Gli venne un coccolone quando Takao premette il pulsante “14”, e si spaventò quando
l’ascensore iniziò a salire.
-Cos’hai?-
Gli domandò Takao. Kei si accoccolò a lui,
dichiarando che soffriva di una leggera claustrofobia. Takao
lo strinse a sé, sentendosi appagato da quel contatto così dolce. Aspirò il suo
profumo da uomo fino nei polmoni, e represse l’istinto di bloccare l’ascensore
e baciarlo.
Poi,
l’ascensore si fermò, e le porte si aprirono.
Sul
pianerottolo c’erano soltanto due porte. Una era completamente sbarrata da una
porta in ferro battuto dov’erano appesi degli ombrelli… L’altra invece era
aperta. Takao sperò che sua madre e suo padre
stessero dormendo.
-Qual è la tua
porta?-
-Quella in
fondo. L’altra porta è l’appartamento dell’avvocato Bracardi.
Un vecchio avvocato che vive da solo... sua moglie è morta tre anni fa.-
Kei annuì, seguendo Takao verso
la porta di casa. Ebbe l’ardire di guardare giù verso la tromba delle scale.
Vedere il vuoto da lassù era piuttosto impressionante. Distolse lo sguardo per
fissarlo solo su Takao.
Entrato
nell’appartamento, sentì un profumo di pulito che mai aveva sentito prima…
Quando Takao accese le luci, si trovò di fronte un
appartamento degno di un Re.
L’ingresso era
composto da mobili dal design mediamente vecchio… probabilmente anni ’80 o ’90…
C’erano una consolle con specchiera dove era poggiato il telefono, un armadio e
una colonnina di gesso dove c’era un vaso pieno di fiori… Alle pareti, c’erano
dei quadri colorati.
-Questi quadri
sono riproduzioni del pittore russo VasilijKandinskij. A mia madre piacciono le cose colorate.-
-Ah.. capisco. Interessante…-
Superato un
arco, si apriva il salotto. C’era un bel divano ad angolo molto confortevole,
che guardava un televisore a schermo piatto poggiato su una grande libreria di
DVD… Ad una parete, era appeso un dipinto… Mostrava una donna dai capelli
bluastro seduta su una poltrona, un uomo dai capelli neri con un pizzetto nero
che le teneva la mano, ed un bambino che giocava. Kei
ebbe una stretta al cuore nel vedere quella scena familiare…
-Quello è un
ritratto della mia famiglia. Lo eseguì un pittore amico di mio padre.-
Annuendo, Kei si mosse verso un tavolo nero dal pianale di vetro, coperto
da una tovaglia. Sopra di esso c’erano due candelabri ed un altro vaso.
Immaginò che i genitori di Takao fossero degli amanti
delle cenette a lume di candela… Osservò la tenda. Takao
si avvicinò a lui.
-Da qui… Si
può vedere tutta Roma.-
Scostò la
tenda servendosi del filo che comandava i ganci, e questa si spostò rivelando
un cielo bellissimo illuminato dalla luna. Anche senza aprire la grande
portafinestra, si poteva vedere molto di Roma… le vie illuminate, i palazzi…
gli alberi… Lo spettacolo fu tale da mozzargli il fiato.
-E.. è…stupendo…-
Takao sorrise. Dopo un attimo di stordimento, Kei si voltò verso di lui, serio in viso.
-Allora… cosa…
come …-
Stranamente,
si sentiva inceppato. Non sapeva cosa dire, per la prima volta nella sua vita.
Di solito erano gli uomini che lo prendevano, talvolta con una foga che gli
faceva chiedere “ma chi me lo fa fare di vendere il mio corpo”, per servirsi di
lui fino a che la loro sete non si fosse placata... Invece quel suo compagno
d’università… Era così dolce, così sensibile e tranquillo, che non sapeva se
abbassargli direttamente i pantaloni e fare il suo dovere o chiedergli prima
cosa volesse. Gli chiese la prima cosa che gli veniva in mente.
-…Forse è
meglio se andiamo in camera tua?-
-Già. Forse è
meglio.-
Attraversando
il corridoio, Takao si rese conto che erano soli in
casa. Aveva sbirciato nella stanza da letto dei suoi, constatando che nessuno
dei due era in casa. Sospirò, ricordando improvvisamente perché dormiva allo
studentato. Per sentirsi meno solo.
Chiuse la
porta della stanza dietro di sé.
La sua stanza
era una specie di mini salotto, con una scrivania ed
un letto. Anche lui aveva un televisore a schermo piatto dov’erano collegate
una X-Box ed una Play Station 3, oltre ad un lettore DVD ed un
videoregistratore.
Sulla scrivania invece c’era un computer portatile chiuso, e intorno
c’erano un sacco di libri. Per la maggior parte di Stephen King.
Il letto era
un bel letto da una piazza e mezza, che poteva ospitare tranquillamente due
persone. Sulla parete c’era un poster di Twilight, il
film tratto dalla saga della scrittrice StephenieMeyer.
Takao si sedette sul letto.
-Mettiti pure
a tuo agio.-
Ed invitò Kei a sedersi. Questi si stava già sbottonando la camicia. Takao arrossì.
-Ehm…-
-Non vuoi?-
-Io… Voglio
dire… non…-
Alterandosi,Kei sbuffò.
-Si può sapere
perché cazzo mi hai portato qui, allora??? Che cosa
vuoi???-
Facendosi piccolo piccolo dalla paura, dopo
un attimo di silenzio, Takao riuscì soltanto a sussurrare...
-Voglio…
voglio solo stare un po’ con te.-
Pentendosi di
aver reagito così, Kei si sedette accanto a lui,
tenendo i vestiti addosso. Takao sentiva il cuore
battere forte per l’imbarazzo… Chissà cosa sarebbe successo se gli avesse
dichiarato il suo amore? Cercò di tenersi dentro quel pensiero, e di godersi
l’attimo finché poteva.
Vedendolo così
impacciato, Kei pensò di fare la prima mossa… Gli
cinse la spalla con un braccio, mentre con l’altro gli massaggiò il ventre
leggermente carnoso. Takao si vergognò della sua
pancetta, ma vincendo l’imbarazzo, cinse il fianco sinistro di Kei e lo abbracciò delicatamente.
-hhmmm… Kei…-
Sussurrò Takao. Posandogli due dita sulle labbra, Kei lo zittì.
-Shhh. Fai finta che io sia una persona che tu ami.-
Si guardarono
negli occhi, quindi Takao li chiuse e baciò Kei con una passione incredibile, tanto che Kei si chiese a chi stesse pensando, per baciarlo con
cotanto coinvolgimento. Il suo bacio era dolce, incredibilmente innocente. Con
la lingua Takao esplorò la bocca di Kei, che sulle prime era un po’ imbarazzato, poi rispose al
bacio via via con più passione. Nella mente di Takao, nel frattempo, un pensiero ricorreva.
“Non ho alcun
bisogno di fingere……..”
E restarono lì
a baciarsi. Intanto, l’orologio sul comodino di Takao
segnava le quattro del mattino.
La serata era
trascorsa abbastanza bene. Ora Bulma si stava
intrattenendo con il tipo che l’aveva rimorchiata: era dentro di lei con il suo
pene eretto, e la stava baciando con passione. Lei si beava di quel contatto, immaginando
che l’uomo la stesse curando dal tumore con una
medicina particolare… Le labbra di lui le baciarono il collo, e lei agganciò le
gambe al suo corpo.
Senza farselo
ripetere due volte, Rudy la penetrò ancora,
stringendole le cosce magre ma tornite. Quell’uomo era veramente affascinante e
lei stava godendo come mai le era successo prima. Strinse le coperte forte con
le mani, quando raggiunse l’amplesso. Poi Rudy le
andò sopra e le bagnò il ventre con il suo liquido seminale. Di questo lei fu
un po’ schifata, ma non lo diede a vedere.
Poi lui si
alzò e andò nel bagno della camera d’albergo, senza dire una parola.
Lei si sentiva
bene… più che altro era soddisfatta per aver tradito Vegeta, che sicuramente a
quell’ora del mattino (guardò l’orologio Cartier donna che portava al polso e
vide che erano le quattro del mattino) era chissà dove con la sua amante.
“Ma sì Vegeta…
sai quanto cazzo me ne frega? A cinquantotto anni sono ancora in grado di
rimorchiare gente più giovane di me… vedessi questo qui… scopa da Dio, e non è
escluso che gli lasci il numero di telefono.”
-Hai detto
qualcosa?-
Lui fece
capolino dal bagno, il corpo nudo bene in vista con il pene ormai ridotto. Lei
trattenne una risata. Era talmente piccolo che si stupì di aver goduto così
tanto.
-N..niente. Non importa.-
-Volevo
fermarmi qui per la notte. Che ne diresti?-
-Cosa?!? Non se ne parla nemmeno. Tu adesso ti rivesti e mi
riporti alla mia auto!-
-Ehi, rilassati,
tesoro. Non ti va di restare qui con me?-
-No. Non posso! Rivestiti e riportami indietro,
forza!-
Quando fece
per alzarsi, lui le andò vicino e le afferrò il polso. Bulma
gemette di dolore, la stretta era veramente forte.
-Hhhaaaahh!!! Ahia!! Lasciami il
polso o grido!-
Lesto, lui le
tappò la bocca, e la spinse di forza sul letto. In quel momento lei ebbe paura.
Una paura folle che si irradiò dal suo stomaco fino a tutto il corpo in ondate
di freddo che le sconvolsero le ossa. La paura bastò a paralizzarla, mentre lui
le apriva le gambe e, di nuovo eretto, entrava dentro di lei con prepotenza.
-Hai detto che
ti piace? E allora prenditelo. Prenditelo tutto!-
Spingendo
forte, velocemente e dolorosamente, Rudy violentò la bella
ragazza che si era trovato lì al club… mentre lei piangeva di dolore, con la
mano di lui premuta sulla bocca affinché non urlasse. Il tutto durò più di due
ore, finché lui non si stancò, inondandole la vagina con il suo seme. Chiuse
gli occhi, piangendo…
*****
Distesi sul
letto, Takao e Kei si
baciavano appassionatamente. Se non era per i duecento euro nella tasca dei
suoi pantaloni, Kei avrebbe detto che quello era un
appuntamento con il suo fidanzato. Ma Takao non era
il suo fidanzato, bensì un cliente come tutti gli altri… Solo che c’era
qualcosa di diverso in lui. Lo poteva capire da come lo stringeva a sé, da come
lo baciava… Un ragazzo ricco fino all’imbarazzo eppure così solo, senza
nessuno.
Immaginò sua
madre e suo padre che gli volevano bene ma che lo
trascuravano troppo, per andare in viaggio chissà dove oppure a tradirsi
l’uno con l’altra.
-A cosa stai
pensando?-
Domandò Takao, sopra di lui. Il ragazzo era paffuto, ma ugualmente
affascinante. Keigli
sorrise, e lo baciò teneramente sulle labbra.
-Niente. Sei
un bel ragazzotto, lo sai?-
Takao arrossì, e Kei gli carezzò
entrambe le guance. Sospirò. L’ora era ormai vicina… L’ora in cui si sarebbe
dovuto staccare da Takao per tornare al lavoro, per
altre due o tre ore. Era la prima volta che Kei
intratteneva un ragazzo senza spogliarsi, ed in un certo senso Takao gli piaceva, tanto che sarebbe voluto restare con lui
per tutto il resto della giornata. Però…
Lentamente si
mise a sedere sul letto.
-Cosa c’è?-
-Devo… Adesso
devo andare.-
-Oh…-
Kei gli prese la mano nella sua.
-Mi dispiace.
Spero comunque di vederti, all’università. Magari può capitare di rimanere soli
nella stessa aula…-
Così dicendo,
gli fece l’occhiolino. Takao arrossì di botto,
pensando a come si sarebbero scambiati i loro affetti… E lo abbracciò
teneramente.
-Dai…
lasciami… Devo andare.-
Disse Kei, ridacchiando e divincolandosi allegramente dalle
braccia di Takao. Questi però non aveva intenzione di
mollarlo così facilmente.
-Posso almeno
accompagnarti? Roma non è il massimo, di sera…-
*****
Pochi minuti
dopo, Kei era sul sedile passeggero della HyundayGetz
di Takao. Il sonno gli era quasi arrivato al
cervello, e i suoi occhi restavano aperti a scatti. Si addormentava per un minuto,
poi li riapriva di scatto; loro si richiudevano e la pausa si prolungava per
magari due o più minuti. Non riusciva a stare sveglio… A fanculo
i clienti ed i soldi, quella sera se ne sarebbe andato a dormire e non ci
avrebbe pensato più.
Mentre guidava,
Takao osservava il suo passeggero con la coda
dell’occhio… Non ci poteva credere che il ragazzo più bello dell’università si
pagasse gli studi in quel modo.. Provò una gran pena
per lui, e si augurò che nessuno dei suoi clienti gli facesse del male. Intanto
il suo cervello pensava e pensava, macinando pensieri che forse non erano del
tutto leciti. E se mamma e papà sapessero che ho portato un ragazzo in casa?
Cosa direbbero? E se proponessi loro di far restare Kei
con noi, come reagirebbero?
Takao non sapeva che in capo al giorno dopo, i suoi
genitori non sarebbero più stati un problema.
-Bell’impianto stereo.-
Disse Kei, guardando il lettore CD
installato nella plancia.
-Grazie. Lo
fece installare mia mamma quando la macchina era
ancora sua.-
Pensò a sua
madre che aveva tenuto quell’auto per così poco tempo, per poi passare ad un
marchio italiano, la Lancia Musa.
Essendo un ragazzo molto attivo, a Takao non piaceva
andare in giro in auto. Preferiva i mezzi pubblici oppure la bicicletta, oppure
i suoi piedi, quindi quella macchina era sempre tenuta in garage senza
accorgimenti particolari… Immaginò anche che ci fossero i vecchi CD di sua madre, masterizzati da lui stesso con il suo
computer portatile.
Accese lo
stereo.
Dopo pochi
secondi, una musica dolce uscì dagli speaker, introducendo un assolo di
chitarra seguito da parole leggere...
***And here's to you, Mrs. Robinson
Jesus loves you more than you will know, wowowo
God bless you please, Mrs. Robinson
Heaven holds a place for those who pray,
Hey heyhey
Heyheyhey***
La canzone era “Mrs. Robinson”, del duo
americano Simon & Garfunkel, una canzone che piaceva molto a sua madre.
Simultaneamente con la canzone, Kei traduceva le
parole dall’inglese all’italiano.
-…Ed ecco a
voi, Mrs. Robinson/ Gesù vi ama più di quanto voi non sappiate… wowowo/
Dio benedica Mrs. Robinson/ Il paradiso tiene un posto per chi prega… Heyheyhey…
Heyheyhey.-
Takao rise quando Kei cercava di
accordare le parole in italiano alla musica e non ci riusciva. Kei lo guardò e si mise a ridacchiare.
-Non è colpa
mia. È che l’inglese ha una struttura sintattica molto diversa dall’italiano, e
cercare di tradurre e poi mettere in musica le canzoni inglesi in italiano è
impossibile.-
Takao guidando, e Kei risvegliandosi
dal suo torpore, finirono di ascoltare la canzone.
***We'd like to know a little bit about you for our files We'd like to help you learn to help yourself
Look around you, all you see are sympathetic eyes
Stroll around the grounds until you feel at home
And here's to you, Mrs. Robinson
Jesus loves you more than you will know, wowowo
God bless you please, Mrs. Robinson
Heaven holds a place for those who pray,
[ Hey heyhey ]
[ Hey heyhey ]
Hide it in a hiding place where no one ever goes
Put it in your pantry with your cupcakes
It's a little secret, just the Robinsons' affair
Most of all you've got to hide it from the kids
Coo coo ca-choo, Mrs.
Robinson
Jesus loves you more than you will know, wowowo
God bless you please, Mrs. Robinson
Heaven holds a place for those who pray,
[ Hey heyhey ]
[ Hey heyhey ]
Una sensazione
strana si impadronì di entrambi. Si sentivano bene, in pace l’uno con l’altro. Takao avrebbe voluto fare un giro più lungo di quello che
era richiesto per arrivare dove Kei gli aveva detto,
ma ormai il loro viaggio stava per volgere al termine. Mise una mano sul cambio
per passare dalla terza alla quarta e poi seguì il rettilineo che usciva dalla
città e portava in periferia. Con ancora la mano sul cambio, sentì la mano
sinistra di Kei che si posava sopra la sua.
Si guardarono
negli occhi. Keigli
sorrise.
Ricambiando il
sorriso, Takao gli strinse leggermente la mano nella
sua e tornò a guardare la strada… Il rettilineo era davvero lungo, quindi per
il momento non avrebbe avuto bisogno di sterzare, quindi poteva benissimo
tenergli la mano mentre guidava.
Sitting on a sofa on a Sunday afternoon Going to the candidate's debate
Laugh about it, shout about it
When you've got to choose
Every way you look at it you lose
Where have you gone, Joe DiMaggio?
Our nation turns its lonely eyes to you, woo woowoo What's that you say, Mrs. Robinson? Joltin' Joe has left and gone away,
[ Hey heyhey ]
[ Hey heyhey ]
E mentre le
voci dei due cantanti facevano da sottofondo a quel tenero quadretto, in
lontananza fuori dal finestrino si ergevano i palazzoni del quartiere popolare.
Complessi residenziali molto alti, teoricamente ad affitti bassissimi. Si
chiese con chi abitasse Kei…
-Dove devo
svoltare?-
-Adesso te lo
dico.-
L’auto
proseguì per un po’ di chilometri. Ai lati della strada asfaltata c’erano altre
stradine che portavano ai vari complessi. Era un vero e proprio quartiere
popolare… Si potevano vedere da lì tutti i negozietti e i minimarket con le
saracinesche chiuse… E quei campi sterminati di erbaccia, che sicuramente
d’estate diventavano covi di vipere e altri animali tipici di un territorio
verde. Pensò a sé stesso, di essere nato con il culo al caldo da un agente di
vendita ed un’imprenditrice del settore meccanico… E a Kei,
povero ma con tanta voglia di farsi un’istruzione, e per ciò costretto a
prostituirsi per racimolare qualche soldo utile alla retta universitaria. Un
brivido gli corse lungo la schiena. Osservò Kei, che
guardava l’esterno attraverso il parabrezza, calcolando mentalmente quando
fosse stato il momento per Takao di svoltare.
-Ecco. Svolta
qui a sinistra.-
Takao sterzò il volante senza nemmeno mettere la freccia (a
quell’ora non c’era nessuno, erano quasi le cinque del mattino) – e seguì la
via verso il palazzone popolare.
Lanciò di
nuovo un’occhiata a Kei, che sembrava preoccupato… Le
canzoni che passavano per il lettore CD erano vecchi
successi di twist e rock ‘n roll
dell’epoca di sua madre, ma a Kei sembravano non
interessare. Nella sua mente c’era qualcos’altro. Qualcosa di preoccupante.
-Tieniti
pronto, siamo quasi arrivati.-
Proseguì per
qualche altro metro, poi la strada finiva in una strada senza uscita che era
l’entrata del palazzo di Kei.
-Ecco. Io
abito qui.-
Un palazzone grigio
e altissimo si ergeva contro di loro. Le macchine parcheggiate a lato della
strada erano parecchio malandate, alcune addirittura vecchie di secoli. C’erano
una Fiat Cinquecento, una vecchia Citroen senza targa, una Renault Nevada
bianca con il parabrezza scheggiato, una Volkswagen Passat bruttissima e senza
un fanale e addirittura una vecchia Autobianchi Y10 con il lunotto posteriore
mancante, sostituito da un velo di cellophane incollato con lo scotch da
pacchi.
La strada era
pressoché consumata, i pochi centimetri di asfalto erano bucherellati come
gruviera, i marciapiedi erano scassati e in un piccolo recinto erano tenuti una
betoniera per il cemento arrugginita e dei pacchi di calce.
L’unica nota
di colore sullo sfondo grigio del palazzone erano alcuni lenzuoli ed
asciugamani colorati stesi ad asciugare fuori dalle terrazze… Per il resto,
l’ambiente complessivo era piuttosto squallido. Kei
notò la faccia incredula di Takao nel guardarsi
intorno.
-Ti fa schifo,
vero?-
-Beh… diciamo
di sì. Non ero mai arrivato fin qui… è una parte di Roma che non conoscevo
ancora.-
-Eppure
esiste. Vedi, appena ho visto il quartiere dove abiti, il tuo palazzo così ben
tenuto con un giardino che sembra una foresta, la tua casa così bella e
signorile… ho pensato che il mondo è così ingiusto. C’è chi sta bene e chi sta
male…-
Colpito nel
profondo, Takao mise le mani in grembo e abbassò il
capo, sentendosi colpevole. Se solo Kei avesse saputo
quanto si sentiva solo, si sarebbe ricreduto sull’ingiustizia del mondo. Anche
i ricchi piangono.
Come se avesse
letto nei suoi pensieri, Kei gli andò vicino e lo
abbracciò teneramente, baciandogli la guancia.
-…Tranquillo.
Non è colpa tua se sei nato tra i ricchi. E francamente… a me non importa di
quanti soldi tu abbia in banca. Qualcosa di bello ce l’hai anche tu… e per il
poco tempo che siamo stati insieme, sono stato bene.-
Ascoltando
quella voce celestiale, Takao si sentì meglio.
Ricambiò l’abbraccio e sorrise, ottenendo un dolce bacio sulle labbra.
-Devo proprio
andare, adesso. È tardi.-
Velocemente, Kei aprì lo sportello e scese dal veicolo. Con le mani sul
volante, Takao lo osservò allontanarsi verso il
cancello… aprirlo e scomparire dietro ad un angolo. Poi vide la colonna delle
scale accendersi, segno che Kei stava salendo. A che
piano abitava? Sperò non troppo in alto. Si vedeva che era stanco, e se fosse
caduto dalle scale per un colpo di sonno, non se lo sarebbe perdonato.
Restò lì con
le mani sul volante per altri dieci minuti buoni, pensando al suo Kei, pensando che forse era la volta buona che riusciva a
mettersi con lui… pensando che …
“…che forse
stai correndo troppo,TakaoKinomiya. Non montarti la testa per un paio di baci ben
dati… dopotutto, gli hai anche pagato duecento euro, e se fossi in te starei
bene attento a non innamorarmi di un gigolò. Non si può mai
sapere che cosa porta …”
Oh cazzo! Si
schiaffeggiò per aver pensato una cosa del genere! Non era nemmeno ipotizzabile
che Kei fosse malato di qualcosa, e anche se fosse…
lo amava! Non gli importava niente. Decise comunque di andarci piano, e di non
forzare troppo la mano. Avrebbe aspettato e visto come si sarebbero evolute le
cose.
Sbadigliò
enormemente.
“Andiamo a
casa, và…”
Girò la chiave
nel quadro e l’auto si mise in moto. Ingranò la retromarcia e fece inversione,
diretto verso casa sua.
Di nuovo sveglia, dopo aver dormito poco più di due ore, Madoka era in
cucina a massaggiarsi la testa, poggiata con il sedere sul mobile della cucina
Di nuovo
sveglia, dopo aver dormito poco più di due ore, Madoka
era in cucina a massaggiarsi la testa, poggiata con il sedere sul mobile della
cucina. Troppi pensieri minacciavano di esploderle in testa, e fra qualche ora
(si era ricordata) doveva andare ad un colloquio di lavoro. Non era per niente
rilassata, aveva sonno ma non riusciva a mettersi tranquilla. Ormai conosceva
bene il ritornello del “le faremo sapere”, che segnava la fine di un colloquio
andato male. Sentiva di essere molto vicina ad una specie di malore, ma non
sapeva bene come definirlo.
All’improvviso,
il suo respiro si fece affannoso, la vista le si annebbiò e dovette aggrapparsi
al tavolo per non cascare sul pavimento. Un attacco d’ansia in piena regola.
Doveva fare
qualcosa.
Velocemente
andò verso il telefono e compose un numero.
Il numero che
aveva composto era anche su un bigliettino da visita in mezzo a quelli che
stavano in un posacenere (che lei non usava mai). Era intestato ad un certo
“Dottor Zenigata – Psicologo e psicoterapeuta”.
A quell’ora,
pensò Madoka, il suo medico sessantacinquenne Zenigata era
sicuramente a letto con la moglie, e venire svegliato da una telefonata
alle cinque del mattino poteva essere fatale. Ovviamente non aveva nessuna
relazione clandestina con il dottore, ma purtroppo, come si sa bene, le mogli
sono sempre un po’ sospettose…
Squillo. Ora
il telefono aveva iniziato a suonare.
Madoka immaginò il sonno di Zenigata che veniva rotto
all’improvviso…
Un altro
squillo… stavolta immaginò che il destinatario della telefonata stava
riprendendo conoscenza.
Un altro
squillo… E il medico si tirava su.
Ancora un
altro… e lui cercava di raggiungere il telefono.
Un altro……
-Pronto?-
Una voce semi addormentata e roca gli rispose.
-D..Dottor Zenigata?-
-Sì, chi
parla?-
-Sono… Madoka,
dottore. Mi scusi se l’ho svegliata così.-
-Mi aspettavo
che lo facessi, figliola. Stavo dormendo molto bene e
stavo facendo anche un bel sogno.-
Sentì un
qualcosa che si muoveva dall’altra parte, forse una sedia. Con gli occhi della
mente vide il dottore seduto accanto al mobiletto del telefono nel corridoio
(dato che aveva lo studio nella stessa casa dove abitava). E il rumore di un
accendino. Evidentemente aveva bisogno di rilassarsi dopo essere stato
svegliato così bruscamente. Lei rimase in silenzio.
-Ti dispiace
se fumo? Oh, scusa… lo so che non può dispiacerti, siamo al telefono. Eheheheh!-
Lei però non
rise.
-Vengo subito
al punto, dottore. Credo di essere in ansia… Ho un impellente bisogno di
vederla, se è possibile. Potrebbe fissarmi un appuntamento fra qualche ora?-
Il medico non
rispose. Al posto della sua voce sentì un tiro di sigaretta… Dopo una pausa di
circa un minuto, dove Madoka stava tirando a sorte su
quale sarebbe stata la risposta del medico, questi rispose
-…Madoka, se non sbaglio il nostro prossimo colloquio è
fissato per Venerdì. Ne abbiamo avuto uno Venerdì
scorso, esattamente due giorni fa…-
-Lo so
dottore, ma … la prego, è un caso urgente. Lei mi disse che poteva …rendersi
flessibile nel caso ce ne fosse stato bisogno…-
-D’accordo figliola, ma oggi è una giornata veramente piena. Ho un
sacco di persone da vedere, e la mattina non è proprio possibile…-
Madoka si portò una mano alla fronte. La mattina era
proprio il momento che gli serviva…
-Non può fare
uno strappo? Per questa volta?-
Sentì un
sospiro. Anche se poteva apparire freddo, il dottor Zenigata era un buon
diavolo. Una persona squisita, dal portamento e dai modi molto signorili.
L’aveva scelto perché le ricordava suo padre, e anche lui aveva confermato il
perché di quella scelta durante una delle loro sedute. Per non essere troppo
brusco con lei, il medico la lasciò con una promessa.
-Ascoltami.
Purtroppo per la mattinata non è proprio possibile. Vedrò di infilarti in un
appuntamento, se qualcuno mi telefona e dice di non riuscire a presentarsi… Voi
giovani siete sempre un po’ più impegnati di noi vecchi, e tra i miei
appuntamenti c’è uno studente che non sapeva se avrebbe dato un esame oggi
oppure no. Se lui rinuncia, il posto è tuo.-
-A che ora,
Dottore?-
-Alle due del
pomeriggio. Più di così non posso fare.-
Era troppo tardi, ma andava bene. Annuendo, con la cornetta in
mano, Madoka accettò.
-D’accordo,
dottore. Verrò alle due del pomeriggio se lei mi chiamerà.-
-Va bene,
figliola. Ho il tuo numero di cellulare, ti chiamerò lì.-
-Grazie
dottore. La ringrazio vivamente.-
-Non c’è di
che, davvero. Cerca di calmarti, ricorda le nostre sedute.-
Tirando un
grosso respiro per non impazzire, Madoka chiuse la
conversazione con un “arrivederci”, e posò la cornetta sul telefono. Non sapeva
dire a che stadio fosse, perché non sapeva nemmeno di cosa stava soffrendo… Ma
era una cosa molto, parecchio seria.
*****
Non sapeva
nemmeno come aveva fatto ad uscire da quella stanza di motel. Semplicemente,
aveva preso la porta e se n’era andata da una porta di servizio. Era stata
troppo fortunata?
Di sicuro era
stata troppo stupida.
Cosa sperava
di ottenere, che il marito tornasse da lei perché lei si era fatta un altro
uomo oppure di divertirsi un po’? I maschi erano tutti uguali diceva sua madre,
ed ora lo sapeva, in caso le servivano ulteriori prove. Fortunatamente la
borsetta c’era ancora dove l’aveva lasciata, e anche il suo vestito. L’unica
cosa che le mancava erano le mutandine, ma solo perché non aveva avuto il tempo
di mettersele.
Ora era lì,
che camminava mezza dolorante sulla strada, imprecando ad ogni buca che la
faceva incespicare. I tacchi alti non erano stati un’idea tanto saggia.
“Perché Takao non risponde…. Cazzo!”
Per cercare di
ottenere un passaggio, stava provando a chiamare suo figlio. All’improvviso,
una voce nella testa le parlò.
“Oh sì, chiama
pure tuo figlio, sottospecie di idiota! Ricordati che tu stai facendo le cose
clandestinamente, e qualora tuo figlio venisse qui, ti
chiederebbe cosa cazzo ci fai mezza nuda nel cuore della notte e perché
sanguini dalle parti basse. Ci hai pensato a questo, oppure sei troppo scema???”
In più, le
venne in mente che era l’alba… L’aria era chiara ora, e i primi sprazzi di luce
stavano lentamente cancellando il buio della notte. Aspirò quell’aria frizzante
di primo mattino come se fosse stato un prezioso ricostituente. La sua notte
brava l’aveva avuta, ora poteva anche…
-Hhhhhnnn!!!!-
-AAAAHHH!!!-
Una figura
ammantata di nero sbucò fuori da un cespuglio e le strappò la borsetta dalla
spalla.
-AL LADRO!!!-
La strana
figura correva in modo stranamente goffo, era scalza e coperta con una zozza
coperta nera come la notte. Istintivamente, Bulma
scattò come una pantera all’inseguimento, che durò poco più di cinque metri. In
brevissimo tempo riagguantò la sua borsa, e con l’altra mano prese per il
braccio la figura che l’aveva scippata.
-Fermo!!! E bada di non fare scherzi, altrimenti te le suono!-
Invece di
reagire, la figura si inginocchiò a terra, quasi piangendo, e la implorò di non
farle del male. Era una voce femminile, e Bulma si
stupì. Le tolse la coperta dalla faccia, e vide chi era quella persona.
Era una
ragazza.
Una ragazza
dai capelli e gli occhi neri, con un visino d’angelo molto sporco, e qualche
ecchimosi qua e là. Assunse che doveva essere stata picchiata o che comunque
qualcuno non l’avesse trattata troppo bene. In più, la ragazza era gravida.
Aveva un pancione molto pronunciato.
Quando Bulma si chinò, la ragazza si coprì con le braccia,
proteggendosi.
-La prego… non
mi faccia del male…-
-Io non te ne
faccio, ma tu prometti di non prendermi la borsa.-
-…Gli…glielo
prometto.-
-Santo cielo,
tu sei incinta. Scusami per averti strattonata. Non volevo…-
-Non… non si
preoccupi, signora, è colpa mia… non avrei dovuto rubarle la borsa.-
A quel punto,
la ragazza si mise a piangere.
-…Mi.. mi scusi… è che mi costringono a rubare.-
Tra una
lacrima e l’altra, la ragazza spiegò che i suoi fratelli la mettevano lì su
quella strada a rubare le passanti, e se non rubava abbastanza, la picchiavano.
Orripilata da tanta cattiveria, Bulma
le offrì un fazzoletto di carta con cui asciugarsi gli occhi.
-Tieni… come…
come ti chiami?-
-Chichi. Mi chiamo ChiChi,
signora.-
-Bene, ChiChi. E io sono Bulma. Senti,
ho assolutamente bisogno di aiuto. Devo tornare a Roma a riprendere la mia
macchina. Tu puoi aiutarmi?-
ChiChi la guardò e ci pensò un po’ su, prima di dire
-Mi dispiace
signora Bulma, ma… io non so guidare. E non posseggo
una macchina.-
Sconsolata, Bulma sospirò.
-Sei proprio
sicura di non potermi aiutare?-
Ancora una
volta, la ragazza ci pensò, poi le venne l’illuminazione. Sorrise ampiamente,
prese Bulma per mano e si alzarono entrambe da terra.
Le ginocchia di Bulma erano sporche, quasi come i
piedi scalzi di quella ragazza di nome ChiChi.
-Dove mi stai
portando?-
Senza dire nulla, la ragazza la stava trascinando da qualche parte. Di
questo Bulma fu spaventata. Nel suo portafogli
c’erano comunque più di settecento euro in contanti, le sue carte di credito
più preziose e il suo cellulare ultimo modello. Se proprio volevano qualcosa di
valore, non avrebbero dovuto ucciderla.
Sperò con
tutta se stessa che quella non fosse un’altra trappola.
Camminarono
per un bel pezzetto su un campo erboso, dove c’era un vecchio casolare… Cazzo, Rudy l’aveva portata proprio fuori mano. Si domandò da che
parte fosse Roma…
Il casolare
era abbandonato. Le finestre erano sbarrate e le porte anche. Su un muro c’era
affisso un cartello che strillava “ATTENZIONE – PERICOLO DI
CROLLO”.
A lato, c’era
una specie di garage.
ChiChi sorrise a Bulma.
-Eccoci arrivate.
Qui dentro c’è una macchina che i miei fratelli usano in caso di emergenza.
Finora non l’hanno mai usata, ma ci dovrebbe essere benzina a sufficienza per
arrivare fino a Roma.-
La ragazza
mora si chinò, tolse una pietra e poi un’altra. Per la terza, Bulma pensò di aiutarla. Dopotutto, era pur sempre una
ragazza incinta. Insieme, tolsero le quattro grosse pietre che tenevano chiusa
la saracinesca.
Una volta
aperta, Bulma si trovò di fronte ad un reperto di
archeologia automobilistica.
L’auto era una
vecchia Renault 5 del 1979, proprio il primo modello costruito dalla casa
francese. Era grigia canna di fucile, ricordo di quando ancora il colore
metallizzato non era stato previsto… Nonostante la polvere accumulata, sembrava
in buono stato.
Al colmo della
gioia, Bulma fece per entrare nell’abitacolo. ChiChi l’aspettò fuori, e Bulma
constatò con piacere che la chiave era già inserita nel quadro, pronta a far
scattare l’auto in caso di una fuga improvvisa dalla polizia. Sorrise beata,
pensando che forse non tutti gli scippatori vengono per nuocere… ma il suo
sorriso si spense quando girò la chiave e vide che il motore non si avviava.
-CAZZO!!!-
-Q..Qualcosa non va?-
Chiese
timidamente ChiChi.
-Non parte!!!-
Rispose
bruscamente Bulma. La ragazza si dispiacque… Allora
vide Bulma che scendeva dal posto di guida e apriva
il cofano. Lì il motore sembrava in buono stato. Unico problema? I cavi della
batteria che erano scollegati.
-Ahhhh, ecco dov’è il problema. La batteria!-
ChiChi sorrise di nuovo, pensando che i fratelli l’avevano
pensata bene. Staccare la batteria per evitare che qualcuno rubasse il veicolo.
Una volta
collegata la batteria, l’auto si avviò al primo colpo, dopo cinque secondi di
esitazione.
-SSSSIIIII!!!-
Strillò Bulma, mentre schiacciava forte la frizione ed inseriva la
prima marcia, che grattò paurosamente minacciando di investire ChiChi. Lentamente rilasciò il pedale della frizione e
l’auto andò in avanti.
-Tu non vieni
con me?-
-Io…? Ma io
devo… restare qui. I miei fratelli…-
-Lasciali
perdere. Tu vieni con me e ti aiuterò io. Va bene?-
-Io… io…-
Si guardarono
negli occhi. La ragazza zingara di nome ChiChi guardò
in quelli della signora con il trucco fuori posto Bulma.
Non sembrava una donna cattiva… e se lo era,
sicuramente lo dimostrava male. Per dirla tutta ChiChi
sentiva di potersi fidare della donna. E poi… era sempre meglio che venire
picchiata dai fratelli. Però doveva decidere in fretta. Loro sarebbero tornati
a breve…
Senza dire una
parola, la ragazza fece il giro dell’auto e si accomodò sul sedile passeggero,
chiudendo la sicura dello sportello. Fece lo stesso anche con quella di Bulma, che la osservò comprendendo il bisogno di sicurezza
della ragazza.
Di nuovo Bulma inserì la marcia e partì in sgommata su quel veicolo,
seguendo il sentiero che portava sulla strada.
*****
Lorenzo
sbadigliò. Se c’era una cosa che gli piaceva di quel lavoro, era sicuramente la
mattina presto… Quando il sole del nuovo giorno si affacciava timidamente
sull’Italia, rischiarando l’atmosfera e asciugandola dall’umidità della notte.
Anche se era Maggio, alle sei meno dieci era sempre un po’ fresco, il che
provocava un po’ di sonnolenza al povero Lorenzo, che era stato in piedi tutta
la notte e ancora aveva da lavorare.
Se ne stava
appoggiato al cofano della sua auto, con le braccia conserte. Da lì a poco
avrebbero aperto l’edicola ed il Bar, e si sarebbe fatto un bel caffè con
giornale…
“Caffè!
Giornali! La posta! Proprio come Fantozzi… solo che lui non faceva il tassita.”
Ridacchiò
Lorenzo, pensando a quanti film di Paolo Villaggio erano stati girati lì nella
Città Eterna…
E ripensò a
Lucas… a quando facevano tardi la sera per vedere l’alba sorgere, dopo essere
stati in un qualche locale a divertirsi l’uno con l’altro. Gli aveva rubato il
cuore… e poi la voglia di vivere.
Si girò. La
pistola era sempre lì nel portaoggetti…
“Se la usi
ora, non vedrai che cos’è successo ieri… Leggiti il giornale, beviti un caffè e
poi …”
-…Sì, sì.. va bene.-
Oppure… mentre
aspettava sarebbe potuto tornare da quel ragazzino che aveva visto quando aveva
accompagnato il giapponese. Sì, perché no. Anche se era a pagamento, chi se ne
importava? Se non altro per un attimo avrebbe avuto l’illusione che qualcuno
gli volesse bene. Chi l’aveva detto che i soldi non facevano la felicità?
Magari era vero, però con i soldi si poteva comprare un po’ di tempo felice…
-Ma sì. Si
vive una volta sola.-
Saltellò fino
allo sportello del posto di guida, si accomodò, accese il motore e partì alla
volta del “Viale della perdizione”.
Sulla grande parete della cucina, in mezzo alle varie stampe grafiche,
c’era un orologio a pendolo
Sulla grande
parete della cucina, in mezzo alle varie stampe grafiche, c’era un orologio a
pendolo. Forse una delle poche cose rétro che erano in casa di Vegeta.
Questi entrò
piano, cercando di fare meno rumore possibile, per non svegliare sua moglie.
“Oggi Hikaru farà mezza giornata … Alle tre vado a prenderla, ma
prima vedo di organizzare un viaggio in crociera per me e per lei… Da lì
vedremo cosa succederà.”
Una volta
entrato in camera da letto, si stupì nel vedere che esso era vuoto. Spalancò
gli occhi, ma era totalmente vuoto. Sua moglie lì non c’era. Si toccò il mento,
chiedendosi dove potesse essere… che fosse rimasta a dormire a casa di un’amica
dopo una partita a carte? Oppure dopo essersi viste un film? Tutto poteva
essere… Sapeva che sua moglie, quando non se ne stava sul divano a guardare la
televisione, usciva con qualcuna delle sue amiche… o almeno così gli riferiva.
Non diede peso
a quel pensiero più di tanto, entrò nella stanza, si slacciò la cravatta (che
peraltro era annodata male), si sbottonò la camicia e mollò la giacca su una
sedia.
Si guardò allo
specchio, notando i suoi muscoli ancora perfetti di cinquantenne palestrato.
Fece un piccolo ruggito di approvazione allo specchio, sussurrando “Ti faccio
diventare rossa, pupa”… e facendo strane mossettine
da culturista davanti allo specchio.
Il tutto durò
una cinquina di minuti. Nel riflesso dello specchio vide poi una figura. Si
fermò con i pugni a mezz’aria, a mostrare il torace, e si girò lentamente.
Sulla porta,
c’era suo figlio Takao con un bicchiere di latte in
mano.
-Ehm…-
-C…Ciao… Papà.-
Arrossendo,
Vegeta tirò giù le braccia e diede uno scappellotto al figlio. Questi rispose “ahio!”
-Che ci fai
già sveglio? Non dovresti essere all’università???-
-Papà, è sabato!!!-
Come se fosse
atterrato sulle chiappe da un volo di duemila e passa metri, Vegeta scosse la testa sorpreso. Due figuracce in una volta sola.
-Scusa
figliolo. Non sapevo…-
-Niente…-
-Sai dov’è tua
madre?-
-Io? Credevo
che fosse con te.-
-Dico, possibile
che in una casa di centottanta metri quadri nessuno sappia dove sia una
persona???-
Con
nonchalance, Takao rispose a suo padre
-…è tua
moglie, papà.-
Quattro
semplici parole bastarono a ferirlo. Takao era il figlio
che lei gli aveva dato, un ragazzo a cui voleva bene, per cui avrebbe fatto di
tutto. Si sentì un verme per aver pensato di voler lasciare la sua famiglia per
andarsene in crociera con la sua amante…
Però era anche
vero che ormai con sua moglie non c’era più intesa.
Non si
parlavano quasi più.
Non uscivano
quasi più insieme.
Non pranzavano
mai insieme.
E addirittura…
non si trovavano più a letto insieme.
Sospirò… Takao fece altrettanto.
-Problemi con
la mamma, papà?-
-Ehm…eh? N..no, nessun problema.-
-Sicuro?-
-Sì. Tu,
piuttosto… quand’è che mi presenterai una nuora carina?-
Questa volta
fu il turno di Takao, per arrossire.
-Presto.-
Rispose secco Takao, bevendo il latte dal bicchiere mentre sorrideva al
padre, con le guance rosse. Ovviamente Vegeta non sapeva che suo figlio era
gay, e nemmeno sospettava nulla. Quando andava a trovarlo all’università lo
vedeva sempre circondato da ragazze… Avrebbe dovuto sentire puzza di bruciato
quando una di loro l’aveva baciato sulla bocca per scherzo e lui si era
particolarmente ritratto, imbarazzatissimo… Ma non ci aveva dato peso più di
tanto.
Proprio come
in quel momento, in cui l’unico pensiero di Vegeta era di mettersi a letto dopo
la lunga e faticosa notte.
-Io vado un
po’ a letto. Tu che fai?-
Alzando le
spalle, Takao rispose
-Finisco di
fare colazione e mi distendo un po’ anch’io.-
-Bah… dove
sono i giovani d’un tempo, che dopo la colazione andavano a fare un giro in
bicicletta…-
-…Papà………-
Ridacchiando, Vegeta
si chiuse la porta lasciando Takao fuori, che scosse
la testa e tornò in cucina dove c’era la sua brioche calda ad aspettarlo.
*****
-Hai fame?-
Chiese Bulma a ChiChi, che se ne stava
seduta sul sedile della Lancia Musa ormai recuperata. Sapeva che essere incinte
provoca fame… Quando lei era incinta di Takao,
mangiava quasi a tutte le ore, non come adesso, che a causa del tumore
rigettava quasi tutto ciò che transitava in bocca. Ultimamente era dimagrita,
constatò… Forse perché per nascondere il suo male ai familiari era costretta a
saltare i pasti e mangiare soltanto un frutto di nascosto, oppure un’insalata.
Era giunta alla conclusione che solo mele verdi ed insalata non le facevano
impazzire lo stomaco, ma non sarebbe mai giunta da sola alla conclusione che se
continuava quella dieta di tamponamento, uno di quei giorni avrebbe perso i
sensi per la debolezza.
-Un po’.-
-Ti porto a
fare colazione.-
-Oh?? Ma… dice… dice sul serio?-
Stanca di
sentirsi dare del lei, Bulma pregò gentilmente la
ragazza di trattarla come una sua coetanea.
-Va bene… Bulma.-
Rispose ChiChi, sorridendole. Il suo sorriso era dolce e sincero, e
soprattutto pulito.
-Quanti anni
hai?-
Chiese Bulma mentre ChiChi inzuppava la
pasta alla crema nel suo cappuccino. Il locale era un anonimo bar pasticceria
poco lontano dalla discoteca dove lei aveva passato la
serata, e dove aveva lasciato la vecchia Renault presa in prestito dai fratelli
di ChiChi.
-Io.. ho trentatre anni.-
-Sei una
bimba. Io ne ho cinquantotto.-
-Davvero???-
-Non ci credi?
Vuoi vedere la carta d’identità?-
-No, dicevo…
Sembri… sembri molto più giovane.-
-Grazie. Anche
tu.-
ChiChi sorrise, e Bulma sorrise
di rimando. Non sentiva la solita adulazione che facevano le amiche snob, ma sentiva
sincerità nella voce della ragazza. La osservò con la coda dell’occhio mentre
consumava la colazione. Vide che aveva quasi finito la seconda pasta alla
crema… Con la mano chiamò il cameriere, e si fece portare altre due paste. ChiChi arrossì.
-Sembro così
affamata?-
-No, non lo
sembri… lo sei!!-
Bulma rise, e istantaneamente anche ChiChi.
Risero per un minuto buono, poi si riguardarono e ricominciarono a ridere. Gli
altri avventori del locale osservarono le due donne con malocchio. Un signore che
leggeva “L’Unità” alzò un sopracciglio e scosse la testa, borbottando una frase
incomprensibile… Una donna con un cagnolino al guinzaglio storse la bocca,
mentre la cassiera ebbe tutta l’aria di pensare “Che fracassone quelle due.”
L’apparenza
era piuttosto evidente. Nonostante la notte brava, Bulma
portava ancora il suo abito da sera, e anche senza il trucco sembrava una donna
molto bella… invece ChiChi vestiva soltanto un lungo
vestito gitano con la gonna, ed alle orecchie portava due grossi orecchini ad
anello; I lunghi capelli erano raccolti all’indietro da una fascia, lasciando
scoperto il suo bel viso… La differenza di rango tra le due era talmente
evidente da dare adito ad equivoci.
Equivoci di
cui lei, Bulma, non se ne vergognava. Anzi le piaceva
essere per una volta fuori dalla solita considerazione… Le venne da ridere
pensando che avrebbe potuto portare la zingara al lavoro, in azienda, e
sbattere fuori Cinzia, quell’odiosa ragazza che faceva la
capo segretaria… Ah, quanto le sarebbe piaciuto.
Tuttavia, la
ragazza aveva bisogno di un nuovo vestito.
-Ti andrebbe
di venire ancora con me?-
-Dove?-
-Tu fidati e
non preoccuparti.-
ChiChi abbassò lo sguardo verso il cappuccino, finendolo in
fretta. Bulma intanto si era già alzata e stava
andando a pagare il conto.
*****
-E così sei
uno scrittore?-
-Chi, io? …No,
diciamo che… vorrei esserlo.-
-Ah-ha. Capito…-
Il ragazzino
gigolò, Davide, aveva finito il suo turno. Ora era a casa sua con Lorenzo, che
l’aveva gentilmente accompagnato. Fra tre ore il tassista sarebbe dovuto
tornare in servizio… Ma era davvero stanco, avrebbe dato qualunque cosa per
poter riposare almeno un’oretta. Seduto accanto a lui, Davide gli versò un
altro po’ di caffè.
-Basta così,
grazie.-
Disse gentilmente
Lorenzo. Prese la tazza e bevve un po’ del liquido scuro…
-Io dovrei
iniziare a studiare… ma non so davvero cosa scegliere.-
-Dipende da
cosa ti piacerebbe fare da grande. Hai qualche idea?-
-Non lo so… mi
sarebbe sempre piaciuto lavorare nello spettacolo… sai, magari partecipare al
Grande Fratello, o L’Isola dei Famosi… oppure…-
Gli snocciolò
altri nomi di reality show, ai quali Lorenzo reagì annuendo mestamente,
risparmiando di dire al ragazzo che per fare quegli show non c’era bisogno di
alcun titolo di studio. Anzi. Meno si aveva cultura, meglio era.
Un giorno che
lui era in ferie, provò a guardare il Grande Fratello, insieme a sua madre, che
si addormentò dopo cinque minuti.
Al termine
della trasmissione, le uniche parole che riuscì ad articolare, non certo grazie
alla faccia inorridita che gli era venuta, furono
“…Questo
programma è un insulto alla cultura ed all’intelligenza.”
Ed aveva
spento il televisore, rifugiandosi nella stanza da letto con un classico della
letteratura italiana.
Quel caffè non
serviva a niente. Gli occhi di Lorenzo si chiudevano lentamente, bisognosi di
qualche ora di sonno. Non si era reso conto che Davide stesse ancora parlando,
per cui si alzò e andò verso la porta.
-Ma… vai già
via?-
-Beh… immagino
tu vorrai dormire un po’…-
-Effettivamente
sì, ma… pensavo che tu…-
-Cosa?-
Davide si alzò
dalla sedia, e gentilmente prese il braccio di Lorenzo. Adesso sembrava
provocante come quando gli aveva parlato attraverso il finestrino…
-…Speravo che
tu mi avresti fatto un po’ di compagnia…-
-Oh… allora…
aspetta…-
Automaticamente,
Lorenzo mise mano al portafogli, ma quando lo tirò fuori, Davide ridacchiò e lo
fermò gentilmente.
-Non pagarmi.
Mi hai accompagnato fin qui, è giusto che io ti ricompensi in qualche modo. Ti
offro di dormire insieme a me per qualche ora. E se vuoi… potremo anche…-
Senza
aggiungere altro, Davide baciò dolcemente la guancia di Lorenzo. Questi gli cinse
i fianchi con le braccia… Era veramente molto magro. Provò a tirarlo su, e ci
riuscì. Dovette stare attento perché l’appartamento era piccolo e c’era il
rischio che il ragazzo sbattesse la testa…
La stanza da
letto era stata ricavata mettendo un armadio divisorio, con una porta a
soffietto. Disponeva di un letto matrimoniale e tanti poster molto normali. Nel
vedere quel letto, Lorenzo ebbe un sussulto. Come se Davide gli avesse letto
nei pensieri, gli carezzò dolcemente i capelli e gli sussurrò in un orecchio
-Non
preoccuparti. Non ricevo mai clienti a casa.-
-Ah… meno
male.-
Gentilmente,
adagiò Davide sul letto, poi vi girò intorno e si sedette sull’altro lato.
-Beh…? Non mi
spogli?-
Timidamente,
Lorenzo incominciò a spogliare Davide, cominciando dalla maglietta… gliela tirò
via gentilmente, lasciandolo a torso nudo. Un piccolo tatuaggio a forma di
stella era disegnato sul suo ventre. Davide gli
sorrise, carezzandogli le guance e posandogli un leggero bacio sulle labbra.
-Adesso le
scarpe.-
Sussurrò, e Lorenzò andò a togliergli le Vans
a scacchi verdi e neri. Poi gli tolse i calzini e il ragazzo gli carezzò le
guance coi piedi, ridacchiando divertito.
-Eheheh.-
Rise Lorenzo,
per poi gattonare su di Davide per slacciargli i pantaloni. Altrettanto
gentilmente, gli tolse i pantaloni aderenti, lasciandolo solo con i boxer.
Poi si tolse
le scarpe e si infilò sotto le coperte. Davide rise nuovamente.
-Ma resti così
vestito? Eheheh!-
Lorenzo lo
guardò arrossendo, e sussurrò che non voleva che lui vedesse quanto fosse
grasso. Davide allora gli andò vicino e si accoccolò con lui, sbottonandogli la
camicia e facendogli scivolare via il gilet… Con le labbra lambì il lobo
dell’orecchio destro di Lorenzo… Questi ebbe un tremito di piacere. Contemporaneamente
con una mano Davide gli abbassò la zip dei pantaloni,
e iniziò ad armeggiare con ciò che era nel bassoventre. Inspiegabilmente,
Lorenzo era ancora un po’ rigido.
-Voglio dirti
una cosa, tassista… Mi piaci un casino, anche con qualche chilo in più.-
-Io…-
-Dimmi, tesoro…-
-Io sto ancora
pensando… al mio ex ragazzo.-
Incredibilmente
paziente, Davide sorrise ancora, e con un gesto fece distendere completamente
Lorenzo, e gli andò sopra.
-Fai finta che
io sia il tuo ragazzo… Ci riesci? Lo faresti per me?-
Il tassista ci
pensò su, poi decise che ci avrebbe provato. Sorrise, e incominciò ad
abbracciare il ragazzetto. Si coccolarono dolcemente per un po’ di tempo, poi
fecero quello che convenzionalmente viene chiamato “amore”…per due ore intere.
Poi si addormentarono l’uno fra le braccia dell’altro.
Mentre Bulma faceva colazione con ChiChi, Madoka passeggiava avanti e
indietro per il corridoio di casa sua con una tazza di caffè in mano, Takao
dormicchiava pensando a Kei e sognando di rivederlo ancora, mentre Lorenzo
dormiva abbracciando un gigolò di
Mentre Bulma faceva colazione con ChiChi,
Madoka passeggiava avanti e indietro per il corridoio
di casa sua con una tazza di caffè in mano, Takao
dormicchiava pensando a Kei e sognando di rivederlo
ancora, mentre Lorenzo dormiva abbracciando un gigolò di nome Davide, mentre
Vegeta dormiva tranquillo e beato sognando della sua Hikaru…
Qualcuno a quell’ora si stava risvegliando.
Era il dottor Kasuga, la cui giornata iniziava sempre molto presto… Di solito
accadeva che iniziasse anche prima del previsto, quando veniva chiamato
d’urgenza dall’ospedale. Allora prendeva la sua Volvo 940 e si scapicollava
fino al posto di lavoro, a soccorrere qualche ferito da un incidente stradale
oppure qualche ubriaco che aveva avuto la bella idea di provare a volare giù da
un ponte salvo poi rendersi conto che l’acqua del Tevere era da tutt’altra
parte.
Nonostante
ciò, il suo lavoro gli piaceva.
Sì, gli
piaceva alzarsi alle quattro del mattino quando il cellulare suonava; gli
piaceva ammazzarsi di lavoro per poi prendere quei miseri 1700 euro al mese;
gli piaceva pensare che a Tokyo non poteva tornare
perché amava troppo l’Italia… Ma soprattutto, gli piaceva pensare che la sua
persona importante fosse ancora viva.
Si sistemò la
cravatta nel riflesso dello specchio. Una pettinata ai capelli e un buon
dopobarba aggiunsero il tocco perfetto. Sembrava pronto per un appuntamento
galante, se non fosse che alle sette del mattino di solito gli appuntamenti
galanti sono già finiti da un pezzo.
Prese le
chiavi dell’auto e uscì dall’appartamento.
Guidando,
ascoltò una canzone di Donna Summer alla radio.
“Radio Globo”, l’emittente locale capitolina. Lo aspettava un viaggetto lungo
un’ora, ma lui se lo gustò fischiettando allegramente mentre con le mani
stringeva quel volante e con gli occhi guardava la strada che lo separava dal
suo appuntamento…
“Ti
vendicherò, te lo giuro.”
Quella era la
voce della sua testa, rimasta ferma a circa vent’anni fa, ad un evento che
conservava ancora vivido nella sua memoria, che talvolta tornava a tormentarlo.
Tuttavia,
cercò di non pensarci troppo, e di godersi il viaggio. Ora non era tempo di
macchinare vendette. Il tempo giusto sarebbe giunto presto.
Ne era sicuro.
*****
Un fischio
acutissimo attraversò l’orecchio di Bulma, che si
riscosse dal suo stato di torpore trasalendo vistosamente. ChiChi
notò quello sbalzo e si preoccupò.
-A cosa stai pensando,Bulma? Va tutto bene?-
-Oh? Niente, deve essere stato solo una piccola scossa elettrica
nel mio corpo. Ti piace quel vestito?-
La gitana
guardò il vestito lungo a fiori sorridendo.
-Sì, mi piace
tantissimo.-
-Tienilo pure,
te lo regalo. E anche questi altri.-
-Ma… ma sei
sicura?-
-Certo. Sei a
casa mia, ricordi?-
L’aveva portata
nel suo secondo appartamento, dove teneva una buona scorta di vestiti e scarpe,
tutti comprati nel corso degli anni. Ce n’erano talmente tanti da fare invidia
ad una boutique, ma molti (per non dire tutti) erano ormai passati di moda.
Tra gli esempi
passati alla storia c’erano una vestaglia rossa ed una cinturona
di pelle marrone con l’anello d’oro, rimasuglio dei gloriosi anni ottanta. Poi
c’era un tailleur color crema con camicia bianca e collana di perle, gonna con
spacco posteriore e scarpe in tinta nera, in evidentissimo contrasto con tutto
il vestito.
Insomma, tra
la miriade di capi, Bulma aveva regalato a ChiChi una buona scorta di essi, e lei si era già
accomodata in uno di questi: un vestito bianco con una doppia fascia passante
per le spalle, che lasciava scoperte le braccia. Riusciva a coprire bene il
pancione e anzi la faceva sembrare molto più carina.
-Non so come dirtelo,Bulma… Grazie!!!-
La ragazzina
era entusiasta. Bulma sorrise, ma poco dopo il suo
sorriso si spense, accompagnato da una terribile fitta allo stomaco. Bulma si chinò, come se avesse appena ricevuto un calcio
dritto in pancia, poi si aggrappò allo stipite della porta, lamentandosi.
-Uhhhhh…-
-Bulma??? Che cos’hai?? Ti senti
bene?-
Si allarmò Chichi. Bulma alzò una mano a
voler dire “non è niente, non preoccuparti!!!” e poi
corse di filato nel bagno. Lì si chiuse la porta alle spalle e aprì il
rubinetto del lavandino a tutta manetta. Bevve tanta di quell’acqua da
riempirsi ben bene lo stomaco, e il dolore sembrò attenuarsi un po’, poi dalla
borsetta tirò fuori il flaconcino di pillole e ne trangugiò un paio. I suoi
occhi erano cerchiati dalle lacrime di dolore, che lentamente scomparve sotto
l’effetto del medicinale.
“Cristo…
maledetto tumore…”
Sentì bussare
alla porta.
-Bulma, ti senti bene? Vuoi aiuto?-
-S..sto bene, è stato solo un piccolo dolore allo stomaco.
Sono nel mio periodo.-
-Ah, capisco…
Se hai bisogno, chiamami.-
-Sì, sì. Va
bene.-
Tirò un bel
respiro, cercando di calmarsi… Dopo pochi secondi il suo battito era ritornato
regolare. Si sentiva meglio, come se l’attacco non ci fosse mai stato.
Uscita dal
bagno, ChiChi era lì ad accarezzarsi il pancione.
Prima ancora che potesse aprir bocca, Bulma la
rassicurò.
-Va meglio
adesso. Ogni tanto ho degli attacchi di mal di stomaco, per cui devo andare in
bagno a bere un po’ d’acqua.-
Sorridendo, ChiChi girò su se stessa mostrandole il vestito. Bulma pensò che stesse veramente molto bene, ma che ci
fosse ancora qualcosa da sistemare.
-Allora? Che
ne dici?-
-Sì, il
vestito ti sta molto bene, però….-
Si massaggiò
il mento in cerca della risposta. Poi si toccò i capelli blu, si guardò una
ciocca ed ebbe l’idea.
-Vai a
riposarti un po’ se lo desideri. Dopo ti porterò in un bel posto.-
Disse Bulma, strizzandole l’occhio. La ragazza sorrise, ma era
vistosamente imbarazzata all’idea di dover dormire in quella casa. Si guardò
intorno, spaesata…
-Ah, vieni con
me…-
La prese per
mano e la condusse in una stanza dove c’era un letto ad una
piazza e mezza completo di una coperta abbastanza calda. Quella era la
stanza che sarebbe dovuta essere di suo figlio Takao,
ma siccome quel testone si era incaponito a voler andare a dormire allo
studentato, la casa era rimasta sfitta, destinata soltanto a magazzino dei capi
fuori moda di Bulma.
Oltre al letto
nella stanza c’era anche un bel tavolo di legno, totalmente vuoto e un po’
polveroso, un comò di noce opaco con uno specchio ed una poltrona in pelle. Una
stanza molto accogliente.
ChiChi entrò nella stanza come se fosse una reggia, si
guardò intorno e pensò che forse quel giorno aveva battuto la
testa ed era entrata in coma… Prima la colazione, poi il vestito… adesso
anche un letto dove dormire un po’? C’era qualcosa che non quadrava…
-Perché…
Perché fai questo per me?-
Chiese la
ragazza. Bulma sospirò.
-Ti fidi di
me?-
Mai nessuno le
aveva rivolto una tale domanda. Chiaramente la ragazza era abituata a quasi
tutto, essendo cresciuta in una famiglia dove i fratelli la picchiavano e
portando in grembo un figlio di cui non ne conosceva
il padre… per cui … perché avrebbe dovuto allarmarsi per una gentile signora
che le offriva un posto dove dormire? Decise di non chiedere oltre, quindi si
limitò ad annuire e avvampò di vergogna, abbassando il capo.
-Oh… ChiChi…-
Bulma andò ad abbracciarla, carezzandole i capelli. ChiChi si irrigidì.
-Non… non vuoi
farmi delle cose brutte, vero?-
-Oh tesoro…
no, no… assolutamente no.-
Detto questo, Bulma restò a guardarla ancora un po’, poi si allontanò dalla
stanza, dicendole che se avesse avuto bisogno, lei era nella stanza accanto.
Rimasta sola, ChiChi aprì il letto e guardò sotto le coperte. Un
normalissimo letto morbido, pensò… e vi si infilò dentro, con tutto il vestito
che Bulma le aveva regalato.
Poi chiuse gli
occhi, abbandonandosi sempre di più all’abbraccio di Morfeo.
La Banca Nazionale
del Lavoro disponeva di un’entrata secondaria per il personale. C’era un
parcheggio interno coperto da alcuni alberi, e un vialetto che dava sul retro della
banca. Dalle auto in sosta incominciarono ad uscire alcuni impiegati, uomini,
donne, per lo più ragazzi sulla trentina venuti dall’ultimo concorso dove
avevano vinto il posto più ambito di tutti, quello di gestire i soldi della
gente.
Se è vero che
i soldi non fanno la felicità, deve essere sicuramente vero che danno allegria:
tutti gli impiegati della banca si salutavano, entravano in ufficio sorridendo,
scherzando tra di loro. I maschi parlavano della partita del pomeriggio, e le
femmine ostentavano i loro elegantissimi tailleur, arma vincente su un qualche
pensionato che avesse voluto aprire un conto corrente… Tra tutte, una ragazza
dai lineamenti orientali e capelli rossicci se ne stava sulle sue, pensando che
lei era la più felice di tutte…
-Hikaru! Tesoro, come stai?-
Hikaru si voltò di scatto, persa nei pensieri. Sorrise
raggiante alla sua collega.
-Ciao Angela!
Io sto benissimo, e tu?-
-Magnificamente!
Sai, io ed il mio ragazzo abbiamo incominciato a
parlare delle vacanze! Oddio, quanto sono eccitata!-
-Ah sì? E dove
andate quest’anno?-
-Ah! Abbiamo
organizzato una bella vacanza in Sardegna… Verranno alcuni amici, e ci sarà da
divertirsi di sicuro!-
-Che bello!
Non ci sono mai stata, in Sardegna…-
-No? Dai, che
peccato…. Senti, ho un’idea! Perché non fai un pensierino per venire con noi?
Il posto c’è, e non si sa mai che tu riesca a trovare anche un fidanzato!-
Angela rise, e
Hikaru ridacchiò pudica, arrossendo debolmente. Per
la verità lei avrebbe voluto stare con il suo Vegeta,
ma non poteva certo rivelare il suo nome… Dopotutto era ancora correntista in
quella banca, e il fatto che la ragazza se la facesse con lui, non avrebbe
certo giovato alla sua carriera. Camminando, liquidò la collega con un secco
“Ci penserò”.
-D’accordo,
allora quando ti decidi, fammi sapere. Sai dove trovarmi.-
Certo che
sapeva dove trovarla. Angela era l’addetta ai bonifici esteri, maneggiava più
valute estere che Euro, ed i suoi clienti erano per la maggior parte
imprenditori extra europei che avevano scelto la banca per le loro transazioni
italiane. La prospettiva di andare in viaggio con lei la stuzzicava… Non erano
proprio amiche, però erano delle buone colleghe. Quando non c’era nessuno con
cui parlare, Angela era lì pronta a scambiare quattro chiacchiere. Con lei si
poteva parlare di tutto, era una ragazza molto colta e spiritosa, ed era un
vero peccato che fosse stata relegata a gestire la valuta estera… Una ragazza
così avrebbe venduto un sacco di conti correnti.
Ora Hikaru era nella sua postazione.
Accese il
computer e incominciò a guardare le scartoffie… Era una bella rottura lavorare
di sabato mattina, ma per fortuna sarebbe durata poco… Fra un’ora la banca
avrebbe aperto al pubblico, e alle ore 15 avrebbe chiuso, dopodiché le restava
un’oretta per mettere a posto le stampe delle ricevute bancarie che le
arrivavano ogni giorno.
Il suo
ambiente era composto da una scrivania che dava sull’intero atrio della banca,
una parete laterale a sinistra dove c’erano un calendario e alcuni fogli con i numeri
telefonici interni dei suoi colleghi, e una parete posteriore dove teneva
appeso un poster pubblicitario
CONTO REVOLUTION – LA RIVOLUZIONE DEL
CONTO CORRENTE!
Per invogliare
i clienti nell’acquisto del prodotto.
Mentre apriva il
gestionale della banca, Hikaru notò la squadra degli
otto cassieri appena arrivati, che come al solito facevano un gran pollaio. Si
sentivano tutte le loro chiacchiere e risate allegre, e le loro frivole
conversazioni su come avevano passato la serata precedente e su cosa avrebbero
fatto quel sabato sera. C’era chi aveva in programma di andare al pub, chi
andava in discoteca, chi invece aveva un appuntamento con il suo ragazzo…
Immancabilmente, Hikaru si chiedeva come facesse la
gente a parlare con così tanta disinvoltura degli affari propri. L’unica volta
che lei aveva confessato ad un’amica di farsela con un uomo di trent’anni più
vecchio e per giunta sposato, si era dovuta sorbire tre quarti d’ora di un
sermone sulla romanticità, sulla fedeltà, sul fatto
che per lei un uomo anziano (benché non dimostrasse gli anni che aveva) non era
adatto, e menate simili. Da allora, aveva giurato, nessuno avrebbe più saputo
che frequentava un affascinante cinquantenne dai muscoli d’acciaio e pieno di
soldi fino all’imbarazzo.
“Gli affari
propri è meglio non rivelarli con troppa leggerezza”, pensò con una punta di
fastidio, implorando mentalmente che arrivasse qualcosa o qualcuno a porre fine
al forum che si era aperto nella zona degli sportelli.
Tutto ad un tratto, le giunse all’orecchio una discussione tra due
cassiere.
La prima voce
sembrava quella di Clara Ammaniti, dello sportello 4; l’altra invece
apparteneva a Nicoletta Galbiati, cassiera dello
sportello 5.
In ufficio le
avevano soprannominate “La mora e la bionda”, anche se tra il pubblico
femminile erano conosciute come “le due comari”, per la loro abitudine di
sparlare sempre di tutto e di tutti. Guai a confidarsi con loro. Si rischiava
di perdere la faccia.
Una volta una delle due,
Nicoletta, aveva provato ad allacciare con Hikaru
quando era ancora una stagista nella banca… Le si era avvicinata durante la
pausa caffè, esordendo con un “Ciao, tu sei quella nuova, sono contenta che ti
abbiano presa, così avremo una nuova alleata!” per poi continuare con un sacco
di pettegolezzi sui colleghi… e anche sui clienti. Così era andata il primo
giorno.
Una settimana
dopo, la ragazza le presentò Clara, e da lì presero a chiedere alla povera Hikaru se ci fossero dei colleghi che parlavano male di
loro, o se avesse scoperto qualcosa sul conto delle persone che le stavano
intorno. A tutte le loro domande, Hikaru
aveva risposto, semplicemente “Non sono una ficcanaso. Io vengo qui solo per fare il mio lavoro, e spero di farlo bene.”
Le due erano
rimaste a dir poco folgorate da una risposta del genere, e da quel giorno in
poi l’avevano lasciata in pace, però incominciando a parlarle dietro, da
quando…
…Da quando lei incontrò un
cliente in quella banca.
Vegeta.
L’aveva
stuzzicata fin dal primo momento in cui si era seduto sulla poltrona davanti
alla sua scrivania fino all’ultimo secondo della loro conversazione, quando lui
le aveva offerto di pranzare in un ristorante che conosceva lui.
Risultato? Una
pausa pranzo passata fuori dalla banca e le lingue delle due pettegole si erano
scatenate, avendola vista dalla finestra che saliva sul
macchinone del cliente.
-Sai, si dice
che qualcuno qui se la faccia con i correntisti…-
-Ma dai?!? Sul serio??? E hanno
continuato, secondo te? Oppure…?-
A sentire
quelle parole e vedere quelle due facce da cretine tutte imbellettate come
delle bamboline Barbie che proferivano parole alludendo a lei, Hikaru prese un voluminoso fascicolo di distinte bancarie e
lo sbatté pesantemente sulla scrivania, provocando un gran rumore.
BAAAM!!!!
Il suono
echeggiò per tutto l’atrio.
Le due streghe
si girarono verso di lei, guardandola come se fosse impazzita, mentre il brusio
generale si interruppe come per magia.
Hikaru si guardò intorno, sentendo gli occhi dell’intera
filiale posati su di lei, persino quelli di Angela, che sembrava una statua: le
sue dita toccavano appena la tastiera, la bocca era semiaperta in un “oooh” di stupore, e gli occhi erano spalancati dalla
sorpresa.
Portandosi una ciocca dietro
l’orecchio, Hikaru sforzò le sue labbra fino a
trasformarle in un sorrisetto, e disse
-…C’era una
fastidiosa zanzara sul mio tavolo.-
*****
La lezione
incominciava alle nove in punto. Mancavano ormai pochissimi minuti, per cui Takao decise di girare un po’ intorno per il corridoio. La cosa
più bella delle università era che erano piene di giovani tutti da guardare,
vestiti alla moda oppure solo carini e basta, che parlavano tra di loro e
offrivano uno spettacolo dal valore inestimabile agli occhi di Takao. Quelli poi del suo orientamento,
abbondavano. Ne vedeva sempre uno magrissimo, che portava sempre magliette
firmate, pantaloni attillati e scarpette colorate. Soleva nascondere gli occhi
dietro un paio di occhiali scuri e portava un cappello stile gangster di quelli
che stavano ultimamente spopolando tra i giovani. Buttando l’occhio qua e là,
non si accorse di essere uscito dalla facoltà di economia del turismo, per
entrare nel labile confine della facoltà di lingue e letterature straniere.
Qui, i giovani erano parecchi, e in più c’erano molti stranieri (come lo era
lui, del resto… romano ma nato da genitori giapponesi)… Li guardò con
interesse, però poi gli tornò in mente il ricordo di Kei
e della bella notte passata con lui… I baci che gli aveva dato, incomparabili
con tutti quelli che riceveva ogni volta che andava in discoteca… il suo bel
corpo snello e atletico… I suoi occhi di ghiaccio… così belli ed al tempo
stesso raggelanti. Il solo pensiero del suo amato Kei
lo faceva camminare a mezz’aria. Sorrise, rincuorato da tale pensiero, finché
non urtò qualcuno.
I libri di quello sconosciuto
caddero per terra, e tutti i presenti si girarono a vedere cos’era successo.
-Ma che caz… e stai più attento quando cammini!-
-Scu…scusa.-
Aiutandolo a
raccogliere i libri, Takao vide chi era quel ragazzo.
-Kei!!!-
Esclamò. Il
ragazzo russo portava un paio di occhiali scuri ed un cerotto sulla guancia
sinistra. Al polso, una fasciatura di garza, come se la mano si fosse staccata
e quella cosa servisse a tenergliela attaccata al braccio. Kei
raccolse i suoi libri e voltò le spalle a Takao, come
se non l’avesse riconosciuto. Dopo un attimo di smarrimento, Takao gli saltellò dietro, fino a raggiungerlo.
-Ma si può
sapere che vuoi? Chi cazzo sei???-
Chiese
alterato Kei, girandosi. Takao
fece una faccia truce.
-Come sarebbe
a dire “Chi sei”?! Sono quello che ti ha accompagnato
a casa poche ore fa!-
-E allora?
Sono forse obbligato a salutarti ogni volta che ti vedo in giro per il
corridoio???-
-No, ma…-
-Allora
lasciami in pace e vai a lezione, forza!-
-Io… Io…-
Costernato,
senza parole da aggiungere, Takao si allontanò
lentamente da Kei, che ancora portava gli occhiali
scuri… Non se li era tolti per tutto il tempo della loro conversazione, e
stranamente il suo labbro era contratto in un’espressione che a Takao non piaceva nemmeno un po’.
Giratosi, Takao
prese a camminare velocemente per il corridoio, stringendo la fibbia dello
zainetto nella mano destra.
Rimasto solo, Kei si accomodò nell’ultima fila di banchi e guardò nel
vuoto attraverso le lenti degli occhiali scuri. Gli faceva male il cuore per
aver trattato così Takao, però non poteva fare
altrimenti… Dagli occhi incominciarono a corrergli delle lacrime, che
sgorgarono copiose sulle sue guance. Intanto la classe si stava riempiendo di
gente, che non lo vide piangere e non gli chiese cosa c’era che non andava… Lui
continuò il suo sfogo in silenzio, asciugandosi gli occhi di tanto in tanto.
La Volvo 940 percorse l’ultimo tratto di strada che dal Grande Raccordo
Anulare prendeva il nome di “Diramazione Roma Nord”, fino a svoltare ad un
cartello che diceva “Magliano Sabina”
La Volvo940
percorse l’ultimo tratto di strada che dal Grande Raccordo Anulare
prendeva il nome di “Diramazione Roma Nord”, fino a svoltare ad un cartello che
diceva “Magliano Sabina”. Ai lati della carreggiata,
come in un bellissimo sogno, si stagliavano all’orizzonte distese di erba verde
ed alberi da frutto… Il cielo era terso e sereno, la strada praticamente libera
da auto.
Kyosuke procedette con calma, rilassandosi un po’ alla vista
del paesaggio, e pensando alla persona che stava andando ad incontrare, gli
venne da sorridere. Quanti anni erano che faceva quella strada, ormai? Quanti
Capodanni aveva passato a Magliano Sabina…? Tanti,
forse troppi. E sentiva che era arrivato il momento di dare una svolta a questa
storia, prima che potesse finire in tragedia.
Ad un certo
punto, la strada asfaltata intercettava una specie di sentiero sterrato,
carrabile ma con molto rischio. All’inizio di questo sterrato c’era un
cartello, che man mano che ci si avvicinava, diventava più chiaro.
CLINICA
RIABILITATIVA E. VALENZANO – 5
Km.
Kyosuke svoltò nella direzione indicata dal cartello,
imboccando lo sterrato e avvertendo come al solito lo scossone della prima buca
che sollecitava le sospensioni. Ingranò la seconda marcia e l’auto incominciò a
procedere lentamente, almeno per il primo tratto che era costellato da buche
enormi. Ricordava le sue prime volte quando andava lì, appena dieci anni
prima... Non vedendo le buche, aveva rischiato di rimanere bloccato nel
fossato, in quanto la sua vecchia auto (una piccola Peugeot 106), si era quasi
ribaltata, a causa della velocità con cui l’incauto giovane Kyosuke
procedeva.
Man mano che
la strada acquistava consistenza, Kyosuke accelerò,
sollevando un nuvolone di polvere dietro al veicolo. All’orizzonte intanto si
delineava la figura della clinica, protetta da un alta
muraglia di mattoni rossi sormontata da spunzoni d’acciaio, con un grande
cancello bianco che chiudeva il tutto. Accelerando sempre di più, Kyosuke raggiunse il cancello, che si aprì e lo fece
fermare ad una sbarra.
Lì c’era un
gabbiotto, ed una guardia giurata gli chiese i documenti. Passati i documenti
al guardiano, Kyosuke ricevette un cartellino verde
da attaccare alla giacca, con su scritto “VISITATORE”.
Lasciata
l’auto nel parcheggio, entrò nella struttura.
Nell’atrio
c’era tanta gente in attesa, parecchie persone anziane e qualche raro
giovanotto. Dal corridoio principale, gli infermieri andavano e venivano
parlando tra di loro, oppure semplicemente guardando avanti ad essi come se
fossero presi da mille pensieri.
Kyosuke si guardò intorno, cercando con gli occhi una
persona. Improvvisamente, si sentì toccare il braccio. Una ragazza con i
capelli ricci e gli occhiali, vestita con un camice bianco, gli
sorrise.
-Ciao Kyosuke.-
-Ciao
Francesca, come stai?-
-Benone! Sei
venuto qui per il solito, vero?-
-Eh già…
proprio così.-
-Vieni dai…-
Lo prese
sottobraccio e lo accompagnò fino al quinto piano, dove c’erano tante stanze…
In realtà non avrebbe avuto bisogno di essere accompagnato, però Francesca era
una cara amica ed aveva sempre piacere di rivederlo.
-Allora, per
quanto ancora me lo farete tenere qui?-
Chiese Kyosuke. Francesca sospirò.
-Direi che non
so ancora nulla… Qui i dottori fanno i cazzi loro, li conosci bene.-
-Eh già.
L’unico che non può farsi i cazzi propri sono io… sai dove lavoro.-
-Certo, in un
pronto soccorso bisogna essere svelti. Qui però è una clinica privata, le
decisioni le prendono molto lentamente, e poi circa il tuo caso non abbiamo
molte risorse…-
Annuendo, Kyosuke raggiunse la porta. Francesca l’aprì, ed entrarono
nella stanza.
L’ambiente era
molto bello. Non somigliava nemmeno ad una stanza d’ospedale. Le pareti erano bianche
tappezzate di quadri e qualche stampa d’epoca, c’era un televisore su un mobile
ed uno specchio con tante fotografie appiccicate, che ritraevano alcuni
bambini, un giovanotto dai capelli lunghi, una ragazza, e tante altre persone
di cui nessun visitatore conosceva l’identità, a parte Kyosuke,
Francesca e…
-…Hitoshi.-
Il ragazzo
voltò la testa. La bocca era semiaperta, come al solito… la apriva e la
chiudeva a tratti. Gli occhi percorrevano lentamente la stanza, fermandosi solo
quando vedevano una persona o una cosa interessante. Come vide i due
visitatori, Hitoshi cercò di congiungere le mani,
forse per fare un applauso, aprendo e chiudendo la bocca alternativamente. La
sedia a rotelle su cui era seduto era imbottita di cuscini, e lui stava guardando
fuori dalla finestra. Kyosuke e Francesca gli
andarono vicino.
-Ciao, Hitoshi… tesoro mio.-
-Si è
svegliato presto, oggi. Alle otto era già qui a guardare fuori dalla finestra!-
-Può uscire,
vero?-
-Certo! Te lo
lascio due ore, poi riportalo qui che gli diamo da mangiare.-
Il giardino
della clinica era veramente stupendo. Curato, pulito… e molto suggestivo. C’era
anche un laghetto con le oche ed una vasca con molti pesci. Panchine a non
finire ed alcune fontane che zampillavano allegramente in mezzo alla piazza
principale.
Spingendo la
sedia, che era sempre leggerissima, Kyosuke chiese a Hitoshi dove si voleva fermare. Questi gli rispose alzando
il braccio, indicando una panchina che guardava verso il laghetto. In realtà Kyosuke lo sapeva benissimo dove voleva andare suo
fratello, però gli piaceva chiederglielo, era troppo felice quando stava con
lui. Arrivati alla panchina, Kyosuke si sedette,
posizionando la carrozzina in modo che guardasse verso il lago. Si guardarono. Hitoshi aprì la bocca e allungò la mano verso quella di Kyosuke, articolando alcune parole che volevano dire “Sono
contento che sei venuto”.
-E io sono
contento di trovarti sempre qui, fratello mio.-
-N’n … ‘sto… b…ene… ‘ortami
v’a d’ q…i.-
Sussurrò con
un filo di voce Hitoshi… Sapendo cosa voleva dire, Kyosuke sospirò ampiamente.
-Ancora non
posso portarti via… non finché i medici non riusciranno a guarirti…-
Quell’inferno
era cominciato proprio dieci anni fa. Kyosuke era al
secondo anno alla facoltà di medicina e chirurgia, mentre Hitoshi,
appena diciannovenne, lavorava come impiegato notturno presso una società di
spedizioni a nord-est di Roma.
La strada che
percorreva ogni notte era famosa per la miriade di incidenti che nel corso
degli anni avevano macchiato l’asfalto. Non essendoci all’epoca molti
autovelox, la gente tendeva a schiacciare a tavoletta per andare più veloce in
qualunque posto, con alto rischio di chi in quella strada ci passava
rispettando le regole della circolazione. Il tratto terminava con un grosso
incrocio a “X”, dove la strada sinistra riportava a Roma, mentre la strada alla
destra portava verso le autostrade e altre direzioni.
Alle ventidue
e trenta, Hitoshi aveva raggiunto l’incrocio a bordo della Opel Corsa blu di sua madre, aveva messo la freccia a
sinistra, si era fermato a lasciar passare un’auto che proveniva dalla corsia
opposta, e rilasciando la frizione… l’auto si era spenta.
Purtroppo la
vecchia auto che gli era stata assegnata dai parenti
era abbastanza vecchia, ed ogni tanto il motore faceva questi scherzi… Di
solito bastava girare la chiave e farla ripartire, ma nella peggiore delle
ipotesi bisognava spingerla. Quella sera, sarebbe ricorsa la seconda ipotesi.
Hitoshi girò la chiave nel blocchetto d’accensione ma
l’auto tossì solamente, senza accendersi.
Riprovò una
seconda volta (tanto non c’era nessuno in arrivo), ma nemmeno fu fortunata.
Intanto,
dietro di lui, un’altra auto sopraggiungeva, una Toyota Yaris con dentro una
ragazza ed il suo fidanzato, e dietro di questa ne comparve
un’altra che stava correndo all’impazzata. Quest’ultima auto, un fuoristrada
Cherokee color bianco, nel vedere la freccia a destra della macchina davanti,
pensò bene di sorpassarla. Ma purtroppo la corsia era ancora semi occupata
dall’auto di Hitoshi…
BOOOOOOOOM!!!!!!!!
L’impatto fu
violentissimo. Nei suoi pensieri post-incidente, Hitoshi
avrebbe ricordato per sempre il momento dell’impatto, dicendo a sé stesso che
era stato fortunato soltanto per non essere morto d’infarto quando il muso del
fuoristrada colpì violentemente il fianco posteriore della piccola Corsa,
mandandola a girare in testacoda fino ad un muretto, dove si piegò
letteralmente in due.
Hitoshi venne soccorso dai passeggeri della
Yaris e da altri autisti che si fermarono in quel momento (nei suoi
ultimi istanti di coscienza gli sembrò di aver sentito una ragazza urlare dallo
spavento), eccetto il pirata della strada, che si era dileguato.
Da
quell’incidente Hitoshi restò invalido, riportando
gravi danni alla spina dorsale e a parte del cervello. La buona notizia era che
il cervello poteva essere recuperato, ma il ragazzo sarebbe dovuto andare in
una clinica riabilitativa…
Kyosuke apprese tutte le notizie con un’enorme tristezza
perché voleva bene a suo fratello, e con grande rabbia nei confronti
dell’autore di quel crimine, giurando che se l’avesse mai incontrato,
gliel’avrebbe fatta pagare.
Ci furono
delle indagini sul caso, e fu accusata una donna. Una signora di quarantotto
anni che si sospettava fosse transitata in quella strada quel giorno a
quell’ora. Una donna di cui Kyosuke ne aveva sentito
e riconosciuto il nome, ma non riusciva più a ricordarlo dopo tanti anni…
Tuttavia le testimonianze smentirono ogni accusa a carico di questa donna
misteriosa, per cui il caso fu archiviato e il pirata non fu mai trovato.
Eppure Kyosuke sapeva che la donna era colpevole. Ne era convinto.
Ora, guardando
Hitoshi, Kyosuke si sentiva
bene e male allo stesso tempo… Bene perché era contento che suo fratello fosse
ancora vivo e parlante… Male perché poteva solo immaginare quanto stesse
soffrendo su quella maledetta sedia a rotelle, tutti i giorni inchiodato in una
stanza a guardare la televisione se non c’era suo fratello a portarlo fuori,
senza poter godere dei frutti della giovinezza…
Ad un certo
punto, vide che Hitoshi stava tentando di dirgli
qualcosa.
-’I…. Oh… ‘on….
Guuu..a…’hirò…
Maaa…ma…Ih.-
-Questo non è
vero, Hitoshi. Tu guarirai. Te lo prometto. Io sono
un dottore, e i miei colleghi ti restituiranno le tue belle parole e potrai
usare di nuovo le mani e le braccia.-
A quel punto, Hitoshi ribatté, in tono più acuto
-I’ ..OH! ‘N GUAHI..RHOOO MAAAAHHIIII!!!-
-Non è vero!!! Smettila!!!! Tu guarirai!!!!
Fidati di me!!!-
E Hitoshi si mise a piangere, dimenando la testa di qua e di
là, cercando di sbattere le mani sui braccioli della sedia, picchiando la testa
contro il cuscino imbottito che aveva, ripetendo frasi
sconnesse e mal pronunciate… Kyosuke allora
gli andò vicino e cercò di abbracciarlo, accarezzandogli la testa, baciandogli
la fronte, poi tenendogli le mani… Sentì che voleva piangere, voleva piangere
tanto e per tanto tempo, perché soltanto il vedere suo fratello in quelle
condizioni gli faceva male… ma ancor di più gli faceva male che nessuno fosse
stato punito per quello che aveva fatto.
Serrò i denti
e strinse forte le labbra, ricacciando indietro le lacrime mentre abbracciava
suo fratello. Non poteva permettersi di mostrarsi debole, Hitoshi
aveva bisogno di lui più di chiunque altro.
-Ti guariremo, fratellino… ti guariremo. Te lo prometto. Te lo
prometto. Te lo prometto…-
Continuò a
ripetergli, stringendolo e cullandolo dolcemente.
*****
“…passiamo ora alle ultime notizie. Tragico
incidente sulla superstrada per La Rustica. Coinvolto
un giovane di diciannove anni che transitava lì alle ventidue e trenta di ieri
sera. Tutti i particolari nel telegiornale delle 20.”
All’ultimo
piano del palazzo signorile situato nella zona più chic di Roma, viveva
l’avvocato Gaspare Bracardi. Egli era un taciturno e
solitario nonnino di novantaquattro anni, che aveva smesso di frequentare i
tribunali dopo cinquant’anni di onoratissima carriera, e che ora si godeva la
pensione da solo, dopo che sua moglie era morta tre anni prima. A guardarlo,
nessuno gli avrebbe mai dato gli anni che aveva. Si vestiva sempre con dei
bellissimi completi, con giacche e cravatte sempre diverse. Prendeva l’autobus
o un taxi e si faceva portare nel centro di Roma, dove frequentava un circolo
per pensionati piuttosto facoltosi, dopodiché si ritirava in casa. Qualche
volta aveva incrociato i suoi vicini di casa in ascensore o nell’androne del
palazzo, e l’impressione che aveva dato a Bulma era
sempre stata quella di un signore distinto e molto ben educato. A Vegeta non
era molto simpatico, per i suoi modi troppo inglesi… giudicava che fosse una
persona fredda e cinica al di là delle apparenze di un tranquillo vecchietto.
E poi, non
spostava mai la sua auto nel parcheggio. “Che cosa cavolo se ne fa di una
macchina se non può nemmeno guidarla perché non gli hanno rinnovato la patente??” diceva Vegeta a sua moglie, che prontamente gli
rispondeva “Lui ne ha una sola, noi invece ne abbiamo tre. Quindi, lui potrebbe
anche chiederci che ce ne facciamo di tre auto, una ciascuno, però non lo fa.
Non trovi che sia sbagliato dire così, Vegeta?”,
azzittendolo completamente.
Comunque, al
di là delle apparenze di tranquillo vecchietto, l’avvocato Bracardi
possedeva qualcosa di più.
Quella mattina
si svegliò al suono di una radio che trasmetteva notizie da un punto
imprecisato della sua stanza. Aperti gli occhi, gli ronzarono in testa soltanto
le parole…
“tragico
incidente… ventidue e trenta… strada provinciale… La Rustica… diciannove anni.”
Mettendosi a
sedere sul letto, si massaggiò le tempie, sentendo i radi capelli bianchi sulla
fronte che necessitavano di essere pettinati… Andò verso il bagno, si sciacquò
la faccia e pettinò i capelli, tornò in camera da letto e si preparò alla sua
giornata.
Come al
solito, andò a fare colazione al circolo… si era seduto su un tavolino
d’angolo, fissando il vuoto davanti a sé e tamburellando la mano destra su una
copia del giornale “La Stampa”.
Quella parole continuavano a tormentarlo. Primo,
perché non c’era nessuna radio in funzione nel suo appartamento, secondo,
perché sapeva che quelle parole erano importanti, ma non sapeva bene come
collegarle tra di loro… Cribbio, non ci riusciva proprio… Le dita continuavano
a tamburellare, gli occhi a fissare l’ambiente davanti a sé. C’erano parecchi
uomini che giocavano a biliardo, alcune donne che parlottavano tra di loro, una
di queste vestita di giallo che teneva in braccio un barboncino con un collare
rosa… C’erano i baristi giovani che servivano caffè e cappuccini al banco. Il
tutto era un brusio costante, ma lui era come entrato in trance. Non sentiva
più nulla, e tutto stava per dissolversi, quando all’improvviso…
-Buongiorno,
Gaspare. Va tutto bene?-
Una voce
interruppe il filo dei suoi pensieri. Era Guido Anselmi, un anziano procuratore
che era stato suo collega ed amico. L’avvocato lo guardò con un viso stranito,
poi disse
-Ciao Guido.
Sì, va tutto bene, perché?-
-Sono venti
minuti che stai girando il tuo caffè senza berlo.-
-Oh? …Oh,
diamine. Non me n’ero accorto. Ero perso nei miei
pensieri.-
-Un euro per i tuoi pensieri.-
-Ahahah. Non scherzare… Niente, pensavo solo … Che tu
sappia, ci sono stati incidenti stradali, recentemente?-
Dapprima il
procuratore lo guardò alzando un sopracciglio, poi ridacchiò allegramente.
-Che domande
mi fai, Gaspare? Di incidenti ce ne sono quasi ogni giorno, perché lo vuoi
sapere?-
-Questa
mattina sono stato svegliato da una radio che parlava di un incidente stradale
in cui era stato coinvolto un ragazzo di diciannove anni-
Mentre
parlava, sfogliò la copia del giornale che aveva sottomano. Il procuratore
guardò come se stesse assistendo alla spiegazione dei reperti su un luogo del
delitto.
-…ma qui sul
giornale non ce n’è notizia.-
-Capisco. Tu
hai un nipote di diciannove anni, vero?-
-Sì, ne ho uno
di diciannove, uno di ventotto e l’altro di trentadue, ma…-
-Ti preoccupi
per loro?-
-Ovviamente
sì! Ma io volevo vedere la notizia… però qui non compare.-
Sfogliava le
pagine del giornale preoccupato, come se cercasse qualcosa che non c’era.
-Non capisco…-
-Amico,
sicuramente ti sei sognato tutto… Se fosse stato coinvolto tuo nipote,
sicuramente tua figlia ti avrebbe chiamato.-
-Hmmm.-
Fece per
prendere il caffè, ma il procuratore lo fermò.
-Lascia, questo ormai è freddo. Te ne offro uno io. Bobo,
prepara due caffè e portaceli al tavolo!-
Ciononostante,
la mente dell’avvocato continuava a vagare su quelle parole.
Madoka era distrutta. Quella crisi di panico che le era incominciata durante la notte era perdurata per tutto
il mattino seguente. Era già reduce da tre camomille e addirittura un
bicchierino di grappa, che al posto di scioglierla un po’, l’avevano rintontita
completamente. Ci avesse pensato prima, forse avrebbe dormito più serenamente…
proprio come stava facendo ora.
“Che cazzo mi
è venuto in mente di prendermi la grappa!”
Pensò, mentre
con la mano tremante si sistemava il rossetto sulle labbra. Tra poco avrebbe
dovuto sostenere un colloquio come impiegata in una società di recupero
crediti. Ma figurarsi. Gli occhi le si stavano
chiudendo, le mani le tremavano così come le gambe, e sapeva benissimo che
anche lì le avrebbero chiuso la porta in faccia.
“No nono, così non va bene, porca puttana! Devi essere più
reattiva, più positiva! Se ti presenti con questa faccia in un posto dove
bisogna essere il più spietati possibile per cercare
di recuperare i soldi, quelli come minimo ti scambiano per una debitrice!
Allora forza, datti da fare e cerca di tirarti su!”
Si guardò
nello specchio, e lentamente digrignò i denti, serrando i pugni, ripetendo a
bassa voce “ce la posso fare, ce la posso fare, ce la posso fare!” come un
mantra, continuando a ripeterselo mentre si vestiva, mentre si metteva le
scarpe, e mentre prendeva la borsa per uscire.
Improvvisamente,
un qualcosa la attirò in cucina.
Era ormai
sulla porta pronta ad uscire, quando uno scintillio attirò la sua attenzione.
In cucina c’erano ancora le tazze usate per gli infusi della notte appoggiate
al tavolo. Lei le prese e le infilò nell’acquaio, dove affondarono nell’acqua
di sciacquatura… Si chiese perché era entrata lì, poi un secondo scintillio la
riportò sul filo dei suoi pensieri.
Fuori dalla
finestra il sole batteva forte, illuminando quella magnifica giornata romana, e
facendo brillare uno dei coltelli da cucina appesi alla rastrelliera sul muro. Madoka era stranamente attirata da quella lucentezza, come
incantata da uno strano sortilegio… La mano che prima era sulla tracolla della
sua borsa, iniziò a volare lentamente verso l’utensile, ne carezzò il manico e
la lama brillante. Era un coltello elegante, che Madoka
aveva usato spesso per tagliare la carne o affettare le verdure… Per lei era
sempre stato ciò che era, e cioè un utensile da cucina buono soltanto a
preparare pasti. Da tempo però Madoka si doveva
accontentare di mangiare cose meno elaborate, a causa della mancanza di soldi,
dovuta alla mancanza di lavoro.
Prese in mano
il coltello. Visto nelle sue mani sembrava ancora più lungo di quello che
realmente era. Stimò che la lama potesse essere lunga una ventina di
centimetri, mentre il manico soltanto una decina o forse quindici. Lo guardò
attentamente, specchiandosi nella lama lucente… Sorrise, genuinamente.
Poi lo fece
sparire nella sua borsetta.
Fischiettando, prese la porta ed uscì.
*****
Con l’ennesimo
bicchiere di caffè della giornata stretto nella mano destra, Lorenzo pensava
alla notte che aveva appena passato. Davide era un bel ragazzo, e gli era
sembrato ben strano che si fosse accomodato con un tipo come lui, che di solito
aveva lo stesso potere di attrazione di una mostra sull’evoluzione dello
spinterogeno. Almeno così era quando, da che Lucas l’aveva lasciato, ogni volta
che provava ad avvicinarsi ad un ragazzo in discoteca, questi lo snobbava… E se per qualche fortunato caso riusciva a
portarlo a casa, la visione di quell’ubriacona di sua madre rovinava tutto.
L’ultima volta, era riuscito a portarsi a casa un ragazzo abbastanza carino e
molto timido. Si erano parlati tranquillamente per tutta la serata, poi con il
taxi l’aveva portato a casa sua. Entrati, il salotto era immerso nell’ombra… e
la televisione era accesa. “Mia madre si addormenta davanti alla tele” aveva
spiegato Lorenzo, e il ragazzo (ricordava si chiamasse Tiziano) gli aveva
sorriso imbarazzato. Poco dopo, in camera da letto, con tutta la porta chiusa,
sua madre era entrata come una furia sbraitando di un incubo che le era venuto
in mente mentre dormiva, piangendo e singhiozzando. “Lorenzo, figlio mio,
aiutami!!!” gli aveva urlato la madre, nel panico
totale… Tiziano era rimasto un po’ di tempo con Lorenzo e la madre, ad
ascoltarla ripetere lo stesso incubo in continuazione, con parole diverse… e a
consolarla perché continuava a piangere... Poi se n’era andato, e da quel
giorno Lorenzo non ne aveva più avuto notizia.
Ovviamente la
madre di Lorenzo non sapeva dell’omosessualità del figlio. Per lei c’erano solo
l’alcool e la sua depressione. Lorenzo stava male per lei, e non ce la faceva
più… Quasi gli dispiaceva di doversene andare da questo mondo… Nonostante
tutto, era comunque sua mamma, e prima che si
lasciasse andare, gli aveva anche regalato dei bei momenti. Già… i bei momenti
passati ad essere suo figlio. Quando lo portava al parco oppure quando lo
accompagnava a scuola… Giorni felici di bambino, che finirono proprio quando il
dottore comunicò al padre che i suoi giorni erano contati. Lanciò un’occhiata
al portaoggetti. La signora Smith & Wesson era
ancora lì che aspettava di tirare i suoi colpi nel tamburo, come Lorenzo era lì
che aspettava passeggeri. Si guardò intorno, per assicurarsi che non ci fossero
poliziotti in giro. Se l’avessero visto maneggiare un’arma carica senza alcun
motivo, poco ma sicuro avrebbe concluso la sua giornata in questura. Accertato
che non c’era nessuno in giro, con molta attenzione aprì il portaoggetti della
Brava, tirandone fuori la pistola.
L’arma era
mediamente pesante, all’incirca quanto un telefonino di vecchia generazione… La
osservò attentamente. La sicura era inserita, quindi in teoria non avrebbe
dovuto sparare… Per cui, se la portò alla tempia destra e si guardò nello
specchietto. Se in quel momento fosse entrato qualcuno nell’auto e l’avesse
visto in quell’atteggiamento, sicuramente sarebbe sceso e si sarebbe cercato un
altro taxi, pensando che il conducente era pazzo a fare certi giochi, ma ancor
di più perché una pistola spaventa chiunque.
In quella
posizione, chiuse gli occhi per un istante. Si domandò se per caso non stesse
sbagliando tutto. Forse la sua strada era con quel ragazzo chiamato Davide, ma
istantaneamente il suo pensiero gli disse che egli era andato a letto con lui
solo perché l’aveva riaccompagnato a casa, non certo per altri motivi… E poi
lui era ancora legato a Lucas, in qualche modo… e il dolore gli bruciava
dentro. Non sarebbe stata una sveltina a fargli cambiare idea.
Ma forse, un
passeggero sì.
-Buongiorno, è libero questo t….?-
Udita quella
voce, Lorenzo si risvegliò dal suo stato di depressione, velocemente riaprì il
portaoggetti e vi infilò dentro la pistola, richiudendolo in tutta fretta. La
persona che gli aveva parlato era lì accanto al suo finestrino. Era un ragazzo dai capelli castano chiarissimo, quasi biondo, con gli occhi
verdi. Indossava una giacca nera ed un paio di pantaloni dello stesso colore,
sotto la giacca una camicia bianca. Per un attimo i loro sguardi si
incrociarono, e ci fu un attimo di silenzio… Poi, Lorenzo sbatté le palpebre e
diventò rosso in viso.
-Mi… mi scusi…
s…stava…dicendo?-
-Le ho chiesto
se questo taxi è libero. Lo è?-
L’accento del
ragazzo era anglosassone, forse era americano. Lorenzo rispose entusiasta,
lieto che il ragazzo non si fosse accorto dell’arma.
-Sì! Certo che
lo è! Si accomodi pure!-
Titubante, il
ragazzo fece per aprire il bagagliaio. Lorenzo cacciò un accidenti a sé stesso
per non essersi accorto del bagaglio del ragazzo, quindi velocemente scese
dall’auto e prese il trolley, anticipando il biondino.
-Grazie.-
-Eh? Di
niente, è il mio dovere.-
E richiuse il
bagagliaio. Poi entrambi salirono sul taxi.
-Allora, dove
la porto?-
-All’Hotel Excelsior, per favore.-
-Però. È un
bel po’ lontano… La avverto che potrebbe volerci un po’ di tempo, se ha fretta…-
-Non ho alcuna
fretta. La calma è una virtù di noi inglesi.-
Dunque era
inglese. Un po’ di tempo fa Lorenzo aveva sentito aneddoti di ogni tipo sugli
inglesi da parte dei suoi colleghi tassisti. Dicevano che non erano molto
inclini alla conversazione in auto, quindi con loro bisognava tenere la bocca chiusa
e possibilmente non metterli a disagio… Fortunatamente Lorenzo conosceva
l’inglese, a differenza dei suoi colleghi più anziani, e questo almeno gli
avrebbe evitato di fare brutte figure.
Durante il
tragitto però, il ragazzo si mise a parlare, sorprendendolo.
-Credevo che
qui a Roma tutti i tassisti erano dei chiacchieroni.
Lei invece è molto taciturno, lo sa?-
-Beh, ho
sentito dire che a voi inglesi non piace essere disturbati da sconosciuti… E
comunque non tutti i tassisti romani sono uguali.-
-Nemmeno tutti
gli inglesi sono uguali, a me per esempio piace fare un po’ di conversazione
mentre sono in auto.-
-Mi … Mi
scusi… non intendevo…-
-Non si
preoccupi. Tipica spontaneità italiana.-
Condì quella
frase con un sorrisetto, che Lorenzo vide mentre guardava lo specchietto
retrovisore.
-Si fermerà
molto a Roma?-
-Non proprio.
Ero venuto qui per visitare una persona, quindi non so
con esattezza quanto tempo mi fermerò.-
-Capisco.-
-Lei parla un
inglese perfetto, le mie congratulazioni.-
-Grazie, molto
gentile. Anche se di solito ho delle difficoltà con gli americani...-
-Non è
l’unico. Parlano troppo veloci, non è vero? Anche noi inglesi abbiamo
difficoltà a comprenderli. Diciamo che non parlano neanche inglese, ma una
lingua tutta loro.-
Lorenzo rise
della tipica battuta di humor inglese, e anche il suo
passeggero. Accidenti, sembrava molto giovane… eppure così dannatamente adulto.
Inoltre, era parecchio carino… Si chiese se fosse omosessuale, rispondendosi
che la maggior parte degli inglesi aveva certe tendenze… Ridacchiò leggermente,
ma il ragazzo non se ne accorse. Ogni volta che l’auto si fermava ad un
semaforo rosso, Lorenzo si perdeva ad ammirare il suo viso. Bello, praticamente
perfetto. Non l’aveva notato prima, il ragazzo portava
un orecchino all’orecchio destro. A quel punto, non c’erano più dubbi.
“Chissà chi è
il fortunato che si gode questo gioiellino di ragazzo…”
Pensò Lorenzo.
-Non ci siamo
ancora presentati. Io mi chiamo Lorenzo. E lei?-
-Mi chiamo
Jason. Lieto di conoscerla.-
-Piacere mio,
Jason… Mi sembra molto giovane…-
-Ho
ventiquattro anni.-
-Accidenti, ma
allora siamo coetanei. Io ne ho compiuti venticinque questo mese!-
-Oh! Ma
allora… possiamo anche smettere di darci del lei. Scusami… so che in Italia
funziona così.-
-Figurati. Eheheh!-
E si misero a
ridere entrambi. Lorenzo era ben lieto di essere passato al “tu” così in
fretta… e sperava che da lì si sarebbe potuto evolvere
in qualcos’altro.
“Ma cosa vai a
pensare, scemo… è solo un tuo passeggero… ecco, guarda. Siamo quasi arrivati,
dopo che scenderà da quest’auto, tu non lo vedrai più, quindi cerca di non
perderti in un bicchier d’acqua.”
Infatti, erano
quasi arrivati. L’imponente figura dell’albergo, con l’insegna “EXCELSIOR”
sulla sommità, sormontata da cinque stelle, si delineava in lontananza.
-Siamo quasi
arrivati.-
-Molto bene.-
Lorenzo entrò
nel parcheggio dell’albergo (c’era addirittura una pista riservata ai taxi,
probabilmente per evitare episodi di traffico quando c’erano congressi ai quali
partecipava gente che arrivava con auto più lussuose di
quella Brava mezza sgangherata…) e si fermò davanti all’entrata. Jason guardò
fuori dal finestrino, poi un sorriso gli si accese sulle labbra. Forse in
quell’albergo c’era la persona che doveva incontrare. Lorenzo era curioso di
sapere chi fosse.
Gli scaricò il
bagaglio e glielo portò mentre lo accompagnava alla portineria. Di questo Jason
fu contento.
-Grazie.
Quanto ti devo?-
-Ah, sono…
trentadue euro e sessanta.-
Jason gli
porse due banconote da venti euro.
-Lascia che ti
dia il resto.-
-Tienilo pure.-
E gli sorrise. Sembrava che fosse contento di essere in quel
posto, e all’improvviso Lorenzo capì chi era che doveva incontrare. Dalla
saletta adiacente alla portineria comparve un signore sulla sessantina, corpulento
e incanutito, vestito elegantemente e dall’aspetto facoltoso. Venne loro vicino
e toccò la spalla di Jason.
-Ben arrivato,
Jason. Ti stavo aspettando.-
Come se
quell’uomo avesse acceso un interruttore, Jason sorrise radioso, evidentemente
felice di vederlo. Educatamente, Lorenzo mise via i soldi e fece per andarsene,
quando Jason lo fermò.
-Grazie di
avermi portato fin qui, Lorenzo.-
-Ehm… di
niente. Dovere.-
L’uomo anziano
non disse nulla, si limitò a guardare Lorenzo con uno sguardo inquisitore, tanto
che per un momento Lorenzo si sentì sotto esame. Poi, gentilmente si allontanò
e lasciò soli i due sconosciuti…
Tornando al
posteggio dei taxi, pensò e ripensò a chi potesse essere quell’uomo. Uno zio?
Un collega di lavoro…? Decise di non pensarci più, mise su una canzone di
Franco Battiato e si godette le belle parole.
Hikaru trasalì nel vedere una persona che si era seduta
sulla poltroncina davanti alla sua scrivania. Era un bel ragazzo, dai
lineamenti spigolosi, molto ben vestito e distinto.
-C…certo.-
Rispose Hikaru, mentre sorrideva imbarazzata. Intrecciò le mani tra
di loro e riprese il controllo della situazione, dopo che il suo pensare alla
relazione l’aveva distratta parecchio… guai se l’avesse beccata il direttore!
Per cui si dispose a servire quel nuovo, presunto cliente.
-Come posso
esserle utile?-
-Vorrei aprire
un conto.-
-Naturalmente.
Privato, aziendale…?-
-Aziendale. Ho
un’azienda da avviare, e mi serve un conto in banca. Così ho pensato a voi.-
-Ed ha fatto
bene! Da anni la nostra banca si vanta di essere la migliore per le aziende e
per i piccoli risparmiatori.-
Condì quella
frase con un sorriso, mentre apriva il gestionale per l’apertura dei conti.
Intanto l’uomo la osservava attentamente, studiando ogni suo movimento… Quel
giorno Hikaru non portava il tailleur scollato,
quindi non capiva cosa il cliente stesse guardando… Arrossì, leggermente
imbarazzata. Lui le sorrise.
-C’è qualcosa
che non va, forse?-
-Eh? Oh… no,
no … Va tutto bene. Adesso dovrò farle firmare dei moduli, dopodiché avrei
bisogno dei suoi documenti per…-
-I miei documenti? Accidenti, dovrò farle vedere la mia data
di nascita…-
-E’ un
problema per lei? Le assicuro che sono legata al segreto d’ufficio… la
riservatezza è d’obbligo per me.-
-Non è per
quello… non voglio che lei mi giudichi troppo vecchio.-
Le sorrise.
Lei arrossì ancora di più, ridacchiando allegramente. Per un momento fu come se
fossero esistiti soltanto lui e lei nell’atrio della banca, mentre tutto il
brusio generale si era annullato, nonostante ci fosse un vecchietto che stava
già sbraitando allo sportello numero cinque, quello dove era insediato Enzo Sciaccaluga, un collega genovese. Il cliente stava
sbraitando, e quello lo invitava alla calma… Eppure né il signore seduto di
fronte ad Hikaru, né lei stessa si curarono di quello
che stava succedendo.
Si scoprirono
a guardarsi negli occhi, e sentì la gamba dell’uomo che si stava leggermente
strofinando contro la sua. A quel punto, tornò in sé, sempre più imbarazzata.
-Mi… mi scusi.-
-Oh, mi scusi
lei… si figuri.-
-L… Le passo
il modulo, lo riempia e poi iniziamo a chiacchierare.-
-Bene.-
Velocemente, Hikaru passò il modulo all’uomo, poi gli prese la carta
d’identità, scoprendo che non era poi così vecchio. Aveva trentadue anni, e si
chiamava Delfo De Mei. Mise il documento nella fotocopiatrice,
e lo osservò mentre riempiva il modulo.
“Quant’è
carino….”
*****
Vegeta si
svegliò nel suo letto, madido di sudore e stranamente agitato. Il sogno che
aveva fatto si era tramutato in un incubo, da cui ringraziò il cielo di essersi
svegliato. Che ore erano…? Le dieci. Si alzò di scatto dal letto, andando verso
il bagno per sciacquarsi la faccia e magari farsi una doccia. Il getto d’acqua,
spruzzato a pioggia sulla sua testa, già sembrava essere d’aiuto per scacciare
via i cattivi pensieri fioriti durante il sonno. Ricordava di essersi sentito
così in passato, quando un affare stava per andargli buca… Ed avvertì in quel
momento una sensazione di Dejà-vu. Uscito dalla
doccia, con l’accappatoio ancora indosso, si guardò nello specchio. Il suo
volto aveva un’espressione impaurita, ma non sapeva bene perché.
“Coraggio vecchio mio, non dirmi che adesso te la fai sotto perché
devi andare a prenotare un viaggio per te e la tua Hikaru,
voglio sperare?”
Si guardò
negli occhi, come quando lo guardava il suo sergente di quando faceva il
militare, fisso ed intenso, per due minuti buoni. Alla fine si sorrise e si
diresse in camera da letto per vestirsi e poi uscire di nuovo.
Al volante della sua BMW X5, si
rilassò ascoltando della musica classica, per la precisione “La Gazza Ladra” di Rossini, che
era la colonna sonora di uno dei suoi film preferiti: Arancia Meccanica. Trovava che Stanley Kubrick fosse un regista incredibilmente
bravo, per non dire un genio. Non ci capiva molto di cinema, ma sapeva
riconoscere qualcosa di bello quando lo vedeva… e i film di Kubrick erano
veramente diversi da tutti gli altri. Avevano un qualcosa in più che non sapeva
spiegare.
Intanto, fuori
dal finestrino, correvano le immagini della città di Roma. Auto incolonnate,
persone che guidavano, che camminavano, che si affrettavano… Alcune ridevano,
altre parlavano animatamente al telefono… Come in una specie di film muto a
colori, scandito dalla colonna sonora del Rossini in sottofondo. Vide un’auto
tamponarne un’altra, i guidatori che scendevano e si prendevano a male parole,
che addirittura se le davano davanti a tutti… Era incredibile come le grandi
metropoli italiane potessero contenere gente con il sangue così caldo. E gli
italiani in particolare erano abbastanza riscaldati da tutti i problemi che
avevano… Malgoverni, tasse, qualità della vita scadente. Non si sentiva mai
sicuro a girare con il suo bestione di BMW. Tante volte aveva pensato di
fregare la Getz
di Takao per andare in giro a Roma, ma chiudersi in
una scatoletta come quella lo faceva sentire ridicolo. Ora la sinfonia era
arrivata quasi a metà… Vegeta accelerò sorpassando una Fiat Punto ed una
Renault Clio, che gli suonarono perché andava troppo
veloce, quindi sterzò il volante e s’immise in una via laterale, imboccando la
via per il centro.
Pochi metri
dopo, giunse in un grande parcheggio, non troppo pieno. Parcheggiò il SUV tra
due auto, salvo scoprire che erano parcheggiate talmente strette da non dargli
spazio per uscire.
“Vaff…. Certe volte vorrei avere una forza sovrumana da
poter spaccare queste cazzo di auto parcheggiate
male!”
Riaccese il
motore, ingranò la retromarcia ed uscì, appostandosi in un altro spazio poco
più avanti… da lì riuscì a scendere dal suo veicolo.
L’agenzia
viaggi SunTravels era un’agenzia di medie dimensioni.
Contava diverse filiali in tutta Italia, e tra i suoi progetti aveva in mente
di diventare un tour operator internazionale. C’erano
impiegate ed impiegati alle scrivanie che spiegavano i pacchetti vacanze ai
clienti sorridenti ed emozionati all’idea di poter lasciare la città per
qualche giorno, per andare a rilassarsi in una bella crociera o in un qualche
villaggio turistico. Scosse la testa guardando tutte quelle coppiette. Dato che
questa doveva essere una sorpresa per Hikaru, aveva
preferito non portarla e lasciarla tranquilla in banca… Vide una coppia
omosessuale che prenotava un viaggio. Uno era calvo ed aveva l’orecchio
sinistro pieno di orecchini a brillantino, era vestito con una giacca marrone e
sotto una maglietta nera, ed un paio di pantaloni color kaki. Il suo compagno
(si tenevano la mano anche mentre erano seduti a parlare con quel pezzo di
ragazza bruna che li stava servendo) invece era piuttosto giovane, portava un
orecchino al naso ed i capelli per metà biondi e per metà neri sparati da tutte
le parti, modellati con un qualche prodotto da parrucchieri. Indossava una
maglietta bianca con su scritto “Rosa è più bello”,
con sopra un gilet nero. Storse il naso, pensando che ai suoi tempi gli
omosessuali se ne stavano tranquilli nei loro nascondigli senza mescolarsi con
la gente comune, e benedì il cielo che suo figlio Takao
non fosse uno di quelli.
Lentamente si
avvicinò alle scrivanie. Alcune ragazze lo osservarono mentre avanzava, come
incantate… Ogni volta si stupiva di come a quell’età riuscisse ancora a fare
effetto sulle ragazze. Purtroppo però, non era diretto verso una ragazza.
-Ciao, Trunks. Come stai?-
Un ragazzo
biondo con i capelli a caschetto e gli occhi verdi portò lo sguardo dallo
schermo del computer a Vegeta, che stava in piedi dietro di lui. Un largo
sorriso si spalancò sulla sua faccia.
-Ehi, guarda
chi si vede. Ciao Vegeta! Io sto bene, e tu?-
-Bene, grazie…
Tuo padre?-
-Sta bene
anche lui. È qui in giro, se lo vuoi salutare… Anzi, aspetta, te lo chiamo.
Accomodati intanto.-
Vegeta si
sedette sulla poltroncina di pelle nera, e mentre Trunks
teneva in mano la cornetta del telefono, lui si godette le impiegate
dell’agenzia. Trunks era l’unico maschio, figlio del
proprietario, Goku. Era un ragazzo di venticinque anni, bello come un adone e
parecchio professionale, ma molto, molto timido. Lo conosceva da quando era
soltanto un bambinetto e frequentava la palestra di arti marziali insieme con Takao. Già allora era carino ed umile, e non si concedeva a
nessuna ragazza. Poi si era messo a studiare… non essendo bravo in matematica,
si era messo a studiare da tecnico dei servizi turistici, con ottimi risultati.
Quindi, a vent’anni era entrato a lavorare nell’agenzia di famiglia. Posò la
cornetta del telefono, sospirando.
-Non risponde.
Sarà impegnato…-
-Pazienza,
dai. Lo aspetterò.-
-D’accordo.
Ah, posso offrirti un caffè, magari?-
-Certamente!-
Trunks si alzò e tornò poco dopo con due bicchierini di
caffè bollente.
-Ti ricordi
come prendo il caffè, vero?-
-Ristretto e
senza zucchero.-
-Proprio così!
Vedo che hai una buona memoria per gli amici di tuo padre, eh?-
-Già. Non mi
sfugge nulla, losai.-
Sorrise
timido, mentre Vegeta gli faceva l’occhiolino e beveva il caffè che gli aveva
portato.
-Sono venuto qui perché voglio prenotare un viaggetto.-
-Oplà! Ti sei
deciso a prenderti un po’ di riposo, eh?-
-Sì, diciamo
di sì. Ne ho particolarmente bisogno, in questo periodo.-
-Ti capisco.
Avevi già in mente qualcosa?-
-Una bella crociera. Però non saprei… tu cosa mi
consiglieresti?-
-Vediamo
subito cosa abbiamo in serbo!-
Fece volare le
dita sulla tastiera del suo computer, che constava in una tastiera
semitrasparente dai tasti bianchi, ed uno schermo abbastanza grande tenuto in
orizzontale come un quadro, sostenuto da una specie di struttura trasparente.
Lo schermo portava il simbolo della Apple. Guardò il
video. Trunks aprì un gestionale pieno di form dove inserire le informazioni. Vegeta vide che cliccò
l’opzione “Preventivo rapido”.
-Quante
persone?-
Chiese ad un
certo punto Trunks.
-Ehm… due.-
Trunks schiacciò il numero “2” sul tastierino numerico del
suo computer. Vedendo che c’era in memoria un altro viaggio già fatto con sua
moglie (Sicuramente era quello che aveva fatto nel 2002 con Bulma,
a New York), Trunks chiese sorridendo
-Vai con tua
moglie, vero?-
Mal tradendo
un certo imbarazzo, Vegeta strinse i pugni ed i denti, sorridendo nervoso. Trunks contrasse le labbra, come a scusarsi della domanda
che gli aveva fatto.
-No…-
Senza perdersi
d’animo, Trunks inserì l’opzione “Altro viaggiatore”
e chiese a Vegeta i dati della sua compagna. “HikaruHiyama”, dichiarò meccanicamente
Vegeta. “Nata il 12 Giugno1980 aDosaka”
… Trunks inserì tutti i dati con una discrezione
incredibile, anche se era indiretto testimone e complice di un tradimento. Ad
un certo punto entrò in scena suo padre.
-Beh, non
saluti più i vecchi amici, Vegeta?-
-Goku! Finalmente ti fai vedere, eh?-
-Eheheheh! Ero uscito a farmi un bel panino al bar qui di
fronte. Per fortuna che qui c’è il mio figliolo a fare la guardia!-
-Papà, sempre
a mangiare…-
-Figliolo, ci
sono due cose buone nella vita: la salute ed il cibo! Il cibo ti dà salute, e
la salute è buona… Quindi…!-
Allegro e
gioviale come sempre, Goku diede una pacca amichevole sulla spalla di Vegeta,
mettendosi dietro la scrivania del figlio. Con un’occhiata allo schermo,
comprese immediatamente la situazione, e gentilmente fece allontanare suo
figlio.
-Molto bene Trunks. Vedo che stai preparando un bel preventivo, eh?
Adesso vai pure a fare una pausa. Qui penserò io.-
-Ma… papà…-
-Ti ho detto
vai pure, figliolo. Non preoccuparti.-
-Okay… Ci vediamo, Vegeta!-
Vegeta vide Trunks che si allontanava e veniva subito preso d’assalto
da alcune ragazze che gli chiedevano aiuto… Lui sorrideva gentilmente e dava
loro spiegazioni, allontanandosi fino a scomparire alla vista. Rimase
nell’angolino solo con Goku, che si era accomodato sulla poltrona e fissava
Vegeta con un sorrisetto tipico del cattivo dei film. Vegeta s’indispettì.
-P..Perché mi fissi così? Piantala.-
-Eheheh! Dai Vegeta… ci conosciamo da tanto tempo… che cosa
c’è che non va?-
-C’è che non
mi piace essere osservato in questo modo, ecco cosa c’è.-
-Ma su,
rilassati… sono tuo amico, e comunque qui sei al sicuro. Sbottonati pure con il
vecchio Goku, se ti fa sentire meglio.-
L’aria tontolona e gioviale di Goku tradiva una personalità molto
paterna e soprattutto intuitiva. Innumerevoli volte Vegeta si era trovato in
difficoltà a causa del suo lavoro, e frequenti erano i mal di testa e le
insonnie notturne, però al suo fianco aveva sempre trovato Goku a consolarlo.
Bastava prendere in mano il telefono, comporre il suo numero e lui c’era. In
qualunque momento, anche a notte fonda, anche i giorni di festa. Goku era un
uomo bonario e comprensivo, che si sarebbe dato completamente a tutti. Quante
volte ricordava con piacere i giorni in cui aveva litigato con Bulma e se n’era andato in ritiro col suo amico in una
località in montagna… Si era rilassato all’aria aperta, aveva pescato e fatto escursioni nei boschi, e Goku era sempre stato lì a
consolarlo e dirgli che tutto si sarebbe sistemato. Guardandolo un po’, si
scusò per essere stato brusco, giustificandosi che era un po’ in tensione, e
gli raccontò la storia della giovane impiegata bancaria, Hikaru.
-Accidenti,
amico. Non credevo che tu fossi alla frutta, con tua moglie.-
-Eh già.
Eppure lo sono. Non lo credevo nemmeno io, ma sembra proprio di sì.-
-Che cosa c’è
in lei che non va?-
Vegeta sbuffò,
roteando gli occhi per l’incertezza. Scosse la testa, dichiarando l’unica cosa
che gli veniva in mente quando guardava sua moglie.
-Assenza.
Abulia. È praticamente inesistente. Non so che cosa stia combinando, ma in
questo periodo è come se non ci fosse. È già da tre anni buoni che si comporta
così…-
-Non hai
provato a parlarne direttamente con lei?-
-No. Sono semplicemente andato in banca un giorno ed ho
incontrato un angelo.-
-Hikaru.-
-…Già… Sono
riuscito a tener buona anche lei per questi tre anni, ma
rischio di impazzire se non succede qualcosa. Se divorzio, mi toccherà pagare
gli alimenti a mia moglie e mio figlio… Già. Mio figlio. Gli voglio molto bene,
ma anche lui è come se non esistesse… guida quella scatoletta di sardine che è
l’auto che gli ha regalato sua madre … io dico che sembra un finocchio, che
dovrebbe guidare auto più “maschili”… Gli avevamo assegnato un appartamento
vicino all’università dove studia, ma lui ha voluto prendersi una stanzetta in
affitto nei dintorni…-
Sospirò,
mentre rigettava fuori tutti quei pensieri che stagnavano nella sua mente da
parecchio tempo, e si chiese come mai non si fosse rivolto prima a Goku. Questi
annuì, sospirando a sua volta.
-Da quello che
è la mia esperienza, posso dirti che tutto dipende da te. Io sono stato
lasciato da mia moglie quindici anni fa… ti ricordi, vero?-
Vegeta annuì.
La moglie di Goku era una gallina di qualche anno più giovane di lui,
ossessionata con il look e la moda, poco capace di lavorare ed edonista al
massimo. Tuttavia Goku la amava, e per lei avrebbe fatto di tutto. Gli crollò
il mondo addosso quando lei una mattina uscì di casa, per poi non tornare più.
-….Ho ancora quella lettera in un cassetto. Non la leggo mai,
mi fa ancora un po’ male leggerla… Certe ferite non si rimarginano mai.-
Un ombra di nostalgia si addensò sul volto di Goku, che
guardava un punto imprecisato della stanza… Il brusio di sottofondo era calato
d’intensità, quindi Goku riprese a parlare.
-Quello che
posso dirti… è che la chiave della soluzione ce l’hai in mano soltanto tu.
Pensa bene alla tua vita, a perché hai scelto Bulma
come tua compagna, e cerca di riscoprirla… parla con lei, fai finta di essere
trent’anni più giovane e portala da qualche parte.
Vedrai, non saprà dirti di no.-
-Ma.. come… come faccio?-
Goku sorrise,
strizzandogli l’occhio. Quindi si girò verso il computer e ticchettò con il
mouse più volte. Ad un certo punto la stampante laser HP si mise in moto,
vomitando fuori due fogli in sequenza. Con l’aria di un pasticcere che mette in
mostra due suoi capolavori dolciari, Goku mise sotto il naso di Vegeta due
fogli. Preventivo numero 01085 e 01086.
-Facciamo come
quel film che mi piace tanto… com’era che si chiamava…. Ah sì! “Matrix”.
Preventivo numero 85, pillola blu. Se riesci a parlare con tua moglie e ti
ritrovi con lei, allora portala in crociera. Preventivo numero 86, pillola
rossa. Se non ti ritrovi più con tua moglie, allora coltiva Hikaru.
I miei numeri li conosci, ti basterà soltanto dirmi il numero del preventivo e
io ti prenoto la vacanza. Inutile dire che ho applicato il massimo sconto
possibile… Per gli amici, questo ed altro.-
Vegeta osservò
i due preventivi, in cui l’unica variante erano i nomi dei viaggiatori. In uno
c’era una certa signora BulmaBrief,
e nell’altro c’era una ragazzina di nome HikaruHiyama.
-D’accordo. Ti
farò sapere.-
-Ciao, e
riguardati. Anzi, fatti rivedere ogni tanto da queste parti. C’è sempre posto
qui per te, vecchio mio.-
-Grazie
ancora, Goku.-
-E di che!
Faccio solo il mio lavoro, qui!-
Detto ciò, gli
strizzò di nuovo l’occhio, complice. Vegeta gli
sorrise e si avviò verso l’uscita con i due fogli in mano.
La selezionatrice della società di recupero crediti guardò prima il
curriculum poi la proprietaria dello stesso
La
selezionatrice della società di recupero crediti guardò prima il curriculum poi
la proprietaria dello stesso. Madoka era seduta in
posizione tranquilla sulla poltroncina davanti la scrivania, osservando come la
donna – chiamiamola pure ragazza – leggeva il curriculum. Nella tensione
generale tradita dalle gambe di Madoka, che ad ogni
colloquio era sempre piuttosto tesa, si chiese quanti anni avesse avuto la
ragazza. Forse una ventina? Venticinque? Dubitava che una ragazza così giovane
possedesse le capacità richieste per un posto, quello di selezionatrice del
personale, dove come minimo si richiedeva una laurea in consulenza del lavoro o
simile… Dopo un’attenta lettura del curriculum, la ragazza alzò gli occhi a
guardare Madoka, congiungendo le mani.
-Posso
chiederle come mai ha deciso di rispondere alla nostra inserzione?-
-Ho avuto…
un’illuminazione. Sì…. Ho… ho pensato che in questo periodo di crisi, potevate
aver bisogno… di una persona come me… ho già avuto un’esperienza in un’altra
società di recupero crediti, e così…-
Non andava
bene. Si stava mangiando le parole, e questo era un pesante deterrente per ogni
selezionatore, soprattutto per una posizione di addetto ai solleciti. Cercò di
riprendere un po’ di grinta, ma la ragazza tagliò corto per lei.
-Lei è
laureata in scienze statistiche, a quanto vedo… Quindi dovrebbe essere brava
con i numeri, non è così?-
-Assolutamente!
Laureata con centodieci e lode, ho sempre avuto la passione per i numeri ed i
dati, e nell’organizzazione del mio lavoro sono molto precisa.-
-Certo, certo…
Vorrei mettere in discussione questa voce del suo curriculum. Il titolo della
sua tesi di laurea: “Metodi statistici per la rilevazione di episodi di
criminalità e delle devianze sociali” … Non le sembra un argomento un po’ troppo
forte su cui scrivere una tesi?-
“E questa che
cazzo di domanda è?” Venne da pensare a Madoka, che
alzò gli occhi al cielo e agitò un po’ le mani per cercare di spiegare cosa
l’avesse portata a scrivere quella tesi, quando ancora era una studentessa…
-Come può
vedere io sono diplomata presso un istituto di scienze
sociali, per cui ho sempre avuto una certa predisposizione a capire le persone,
e … insomma… la scelta di scrivere una tesi sulle devianze sociali in ambito
statistico mi attirava…. Per cui ho scritto una tesi in proposito.-
-Le devianze sociali la attirano? Confortante, direi.-
Madoka alzò un sopracciglio perplessa,
e contrasse le labbra in una specie di ringhio, che la ragazza non notò. Questa
intanto si sistemò gli occhiali sul naso e annuì ancora una volta guardando il
curriculum, prima di sfornare la classica risposta di commiato.
-Molto
bene…Qualora decidessimo di avvalerci della sua prestazione lavorativa, la
chiameremo.-
Così dicendo
si alzò, e Madoka con lei… umiliata e delusa per
l’ennesima volta. Cercò di mantenere un’espressione rilassata mentre usciva
dall’ufficio e guardava le altre impiegate che lavoravano al sollecito dei
clienti. Ascoltò delle frasi non molto confortanti... “Se lei non paga saremo
costretti a pignorarle i mobili” … oppure “Non ci interessa se siete in
difficoltà, potevate pensarci prima di contrarre i debiti” e cose del genere.
Strinse il manico della borsa che teneva nella mano destra, uscendo bruscamente
da quella specie di fabbrica delle minacce.
Una volta al
volante della sua auto, si mise a piangere a dirotto. La strada attraverso i
suoi occhi sembrava deformata, nonostante fosse una bella giornata di sole.
Piangeva e guidava, maledicendo quella stronza di una selezionatrice, quei
pezzi di merda che consentivano a certa gente di lavorare, quell’Italia che
trovava bizzarro leggere su un curriculum vitae una tesi sulla rilevazione
statistica delle devianze sociali.
“Capitolo 1 – si definisce devianza sociale
un comportamento, atto o fatto che porta ad un altro fatto di illecito penale.
Esso può essere prolungato nel tempo oppure limitato ad un solo episodio.
Spesso gli episodi isolati sono dovuti a differenti cause. La prima di tutte è
il cosiddetto raptus di follia……”
Era ferma nel
traffico quando le tornarono in mente le parole della tesi. Per la precisione
l’introduzione. E quelle tre parole … raptus
di follia. Ricordava quando aveva partecipato a dei seminari alla facoltà
di psicologia che spiegavano come il germe di un raptus di follia crescesse fino
a mettere radici nella mente di una persona. I più affetti da tale patologia,
se così si poteva chiamare, erano gli americani. Nel solo decennio 1970 – 1980
era stato rilevato che gli omicidi singoli e plurimi avvenuti nello stato del
Maine erano causati per la maggior parte da follia repressa: le persone colpite
impazzivano all’improvviso, per motivi che andavano dal più grave incidente
stradale alla più banale lite con l’impiegato scortese allo sportello della
banca.
Reiterate nel
tempo le ingiustizie subite da una persona, e a seconda della risonanza che
ciascuno ha, si ha una probabilità più o meno alta dell’eruzione del raptus di
follia. Così aveva scritto nei suoi appunti durante il seminario di psicologia.
Il traffico di
Roma, ad esempio, era un ricettacolo di episodi di follia. Clacson che suonavano, auto che sgommavano, automobilisti disattenti.
Di solito Madoka non utilizzava mai l’auto. Solitamente prendeva il
metrò o il tram o l’autobus… guidare in giro per Roma la faceva impazzire, non
era proprio per lei. Fu più o meno nel periodo post-laurea che decise di
lasciare la sua vecchia Volkswagen Passat in garage. Allora era un periodo
tranquillo per lei, impiegata a termine presso l’ufficio reporting
di un’azienda metalmeccanica. Ricordava che si vedeva
con qualcuno, ma che quel qualcuno l’aveva lasciata pochi mesi dopo per
un’altra più spensierata e soprattutto più disponibile ad una relazione. In una
sera d’inverno, dopo il lavoro, stava tornando a casa. Pioveva a dirotto, per
cui era piuttosto difficile guidare in quelle condizioni e con quel cielo così
nero appena alle quattro del pomeriggio… Dopo una interminabile
incolonnamento ad un semaforo, era arrivata alla testa del corteo. Frettolosa
di rintanarsi in casa e fare un bel bagno caldo, appena era scattato il verde,
era partita velocemente, occupando l’incrocio.
Alla sua
sinistra, un’auto non aveva rispettato il rosso e le stava per venire addosso.
Lei inchiodò, e lo stesso fece l’altra auto, per un pelo non andando a sbattere
contro la station wagon di Madoka. Lei abbassò di
poco il finestrino nella pioggia battente, e nel rumore ovattato sentì la voce
dell’altro automobilista che le urlava.
-Sei
totalmente rincoglionita??? Perché non mi hai lasciato
passare, stronza???-
Per una strana
legge non scritta presente in Italia, chi passava con il rosso doveva sempre
avere la possibilità di passare liberamente e mettere a rischio l’incolumità
degli altri automobilisti. Oltretutto lei era passata con il verde (così le
avevano insegnato) e lui con il rosso. L’auto che per poco non la tamponava
adesso si era messa a strombazzare per passare. Lei era ancora ferma con il
piede sulla frizione, spaventata a morte e imbarazzata al massimo. Inserì la
retromarcia, ma si trovò a dover fare i conti con una sinfonia di clacson che
urlavano al suo indirizzo, compreso quello dell’automobilista maleducato. Le
mancò il fiato per un istante, poi ingranò la prima, ma per la fretta di
partire, rilasciò la frizione troppo in fretta, causando lo spegnimento della
vettura. Allora l’automobilista maleducato, al colmo della rabbia, fece una
retromarcia paurosa, e sgommando passò davanti al muso della Passat di Madoka, che con la mano tremante sulla chiave d’accensione,
la stava girando, per riaccendere il motore. Quando il motore fu ripartito, con
tutti i clacson che la stavano facendo impazzire, pigiò sull’acceleratore e
sgommò poderosamente, liberando l’incrocio e ristabilendo il silenzio ovattato
tipico della giornata di pioggia. Tornata a casa, da quel giorno decise che non
avrebbe più ripreso in mano il volante.
“Bell’affare
che ho fatto, vaffanculo. Prendere l’auto per
imbottigliarmi in questo traffico del cavolo, per un colloquio che è andato
male con una stronzetta. Fanculo, fanculofanculo!”
Intanto
intorno a lei il traffico si stava animando di suoni. Come al solito gli
automobilisti maleducati suonavano il clacson ed imprecavano a chi non
ripartiva immediatamente… Madoka chiuse gli occhi per
un attimo, pensando che forse ce l’avessero con lei, vedendo il semaforo verde
e lei che era inchiodata in mezzo all’incrocio. Chiuse il finestrino per non
sentire le imprecazioni di rabbia, e guardò il cellulare. Nessuna chiamata.
Attendeva che il suo psicologo, il dottor Zenigata, la chiamasse, ma ancora non l’aveva fatto. Accidenti anche
a lui. Magari le sarebbe bastato aspettare fino a Lunedì. Soltanto un giorno.
Mai avrebbe
potuto immaginare quanto dura ed inutile sarebbe stata l’attesa… C’erano molte
ore prima di Lunedì, e l’incertezza in cui Zenigata l’aveva messa, la
stava consumando. Era già mezzogiorno e lui non aveva ancora chiamato…
Incominciava a preoccuparsi.
Improvvisamente,
mentre la sua mente vagava, con la mano sul cambio ed il motore che ronfava
sommessamente, fu spaventata da un clacson sparato a tutto volume nel suo
orecchio. Si voltò. Alla sua sinistra c’era un fuoristrada enorme che chiedeva
strada. E suonava, suonava… Dal finestrino di guida venne fuori un uomo che la
caricò di insulti.
-Allora, ti
vuoi togliere dai coglioni, porca puttana???-
La povera Madoka fece di tutto per cercare di spostarsi, senza però
reagire agli improperi dell’uomo che era sul fuoristrada (che continuava a
strombazzare). Inquieta, dapprima cercò di fare retromarcia, beccandosi la
clacsonata di quello che le stava dietro (una donna anziana al volante di una
vecchia Alfa Romeo). Agitò le mani, disperata, quindi ingranò la prima e si
portò quanto più incollata possibile al paraurti dell’auto davanti, così che
quell’imbecille in fuoristrada potesse passare. Contrariamente alle sue previsioni,
che vedevano il fuoristrada abile a passare tra il didietro della sua Passat ed
il davanti dell’Alfa Romeo, si verificò che quest’ultima auto si incollasse
ancora di più a Madoka, arrivando quasi a toccare il
suo paraurti. Questo provocò ancora di più la rabbia del fuoristrada, che
stavolta indirizzò i suoi insulti alla vecchietta.
Dallo
specchietto retrovisore, Madoka vide e sentì la donna
rispondere alle minacce del cafone in fuoristrada.
-Ahò, ma perché nun te ne vai a
pigliartela ‘nder culo???
Qua dalla mia parte è verde, sei te che nun dovevi passà, à stronzo!!!-
-A vecchia babbiona de mmerda!!! Ma che te venisse ‘n canchero mentre stai ar volante de quer rottame
milanese, te e quella stronza che c’hai davanti!!!-
Anche la targa
dell’auto di Madoka causava i suoi bei problemi. Infatti era targata Milano, e per un’altra legge italiana
non scritta che vedeva un’ostilità aperta tra gli ambrosiani ed i cittadini
eterni, lei rientrava nelle mire di molti a cui non piaceva l’idea di una
milanese (che non era) in giro per le loro belle (si fa per dire) strade
romane. Lei però non abbassò il finestrino né replicò agli insulti, sentendo
però dentro di sé un fiume che scorreva, ingrossato dal rancore. Accese la
radio e sparò la musica ad un volume tale da non sentire più i maleducati
litigare.
*****
Takao non era riuscito a seguire le cinque ore di lezione
all’università. Il pensiero che Kei l’avesse
disconosciuto dopo la notte che avevano passato, lo stava consumando. Se non
era per lui, col cavolo che andava in università di sabato mattina!!! Se ne sarebbe rimasto a letto a dormire! Ma invece no,
ormai era lì ed era anche ora di pranzo. Tenendo lo zaino su una spalla sola,
scese velocemente la scalinata della Facoltà di Lettere, quando all’improvviso
si sentì tirare.
-Ohhhh!!!-
-Ehi
Takao, non si salutano più gli amici?-
Appoggiati al corrimano, c’erano
Rei e Max, i suoi due amici più cari. Rei se ne stava tranquillo a fumare una
sigaretta, mentre Max era ancora lì che gli tirava lo zaino, sorridendo
sornione come solo lui sapeva fare.
-E
che cazzo, Max! Vuoi per caso ammazzarmi? Questa
scalinata è ripida!-
-Quante
storie… E cosa dovremmo dire noi allora, che ci sei passato davanti senza
nemmeno dire “ciao”?-
-Uff… scusate, è che…-
-Non
dircelo… hai un altro ragazzo per le mani?-
Intervenne
Rei, buttando via la cicca in una nuvoletta di fumo bluastro.
-No,
è che… cioè… sì…-
-Ah-haaa… Che stronzo. Lo sapevo
io! Quando Takao è innamorato, trascura gli amici!
Patetico…-
-Piantatela, ragazzi. E comunque… che cosa volete?-
Li
conosceva da anni. Praticamente avevano fatto le scuole insieme, loro tre. E
sapeva benissimo che quando si comportavano in quel modo, volevano qualcosa. I
due si guardarono in faccia, dandosi una leccatina sulle labbra, come gesto
d’intesa. Poi spostarono di nuovo lo sguardo su Takao.
-Devi
farci metter in lista al Gay Village questa sera.-
Takao sgranò gli occhi, stupefatto.
-Io
devo… Che cosa??? Scordatevelo.-
I
due si fecero avanti, lo acchiapparono e lo sbatterono sul corrimano, che gli
urtò il sedere in una maniera orrenda.
-Ahio!-
-Dai
facci entrare in lista! Sei tu quello che conosce quasi tutti nell’ambiente…
Noi siamo poveretti, dobbiamo pagare l’università e poi non abbiamo soldi… Ti preeeeeeeeeeeeego.-
-Risparmiatemi
il tono supplichevole, ragazzi. Vi ho detto che non…-
Improvvisamente,
Takao si sentì toccare il pacco da Max. Il biondino
era stato in passato una delle sue mire, ma non era mai riuscito a
conquistarlo, dal momento che era fidanzato con Rei, in una relazione aperta.
Tuttavia, Takao lo sognava ancora di notte, che
entrava dalla finestra e lo riempiva d’attenzioni… Arrossendo, Takao spostò la mano di Max e allontanò Rei dalla sua
faccia. Il cinese ridacchiò, sibilando “peccato, ero già pronto a darti il
bacio di Giuda”.
-E
va bene, va bene… Siete due rompicoglioni, però. Vi faccio mettere in lista,
contenti?-
-Sssssssììììì!!!!-
Esultarono
quelli, battendo un cinque tra di loro e abbracciandosi. Quando si staccarono,
si guardarono negli occhi un momento e poi si sbaciucchiarono appassionatamente
per un cinque minuti buoni.
-Hmm… ti amo, dolcezza.-
-Anch’io ti amo, pasticcino.-
Si
girarono verso il corrimano. Takao era scomparso.
-Ma
… dov’è andato?-
-Lascialo
perdere. Ormai abbiamo ottenuto ciò che volevamo, no?-
*****
Defilatosi
dalle smancerie dei due amici, Takao si era rifugiato
in biblioteca. A quell’ora era sempre deserta, e spesso gli studenti entravano
lì per pomiciare oppure per godersi l’aria fresca del condizionatore quand’era
estate, oppure il calduccio dei termosifoni quand’era inverno. Ma ora lui stava
camminando avanti e indietro per i corridoi formati dagli scaffali dei libri,
con il telefono in mano.
-…Come
sarebbe a dire che non puoi? Will, non puoi farmi questo. È per… due miei
amici.-
Dall’altro
capo del telefono, c’era Will, il PR del Gay Village.
Un altro di quelli che si era portato a letto, che ogni tanto gli faceva dei
favori. Solo che questa volta era un po’ restio.
-Mi
dispiace Takao, ma sono delle nuove disposizioni. Non
posso fare una lista di due persone soltanto per te. Devono essercene minimo quattro.-
-Che
palle, Will!!! Ma da quand’è questa novità?-
-Più
o meno da quest’inverno. Tu ti sei fatto vedere proprio l’ultima sera che c’erano
ancora le liste senza il minimo.-
-Ah
già, che bella fortuna, vero? Per tua informazione,
carino, io studio. E studio anche sodo!-
-Sì
sì, sai che gioia… Sprecare anni sui libri per poi fare che cosa…?-
-Lavorerò
nell’azienda di mia madre!-
Will
si fece una risatina. Lo immaginò portarsi una mano inanellata alla bocca e
ridacchiarci dentro, come una vera donna d’alta classe. Takao
stava già perdendo la pazienza.
-Ascoltami, Will. Se io non riesco a metterli in lista, quei
due mi faranno la faccia da funerale come minimo per trent’anni! Ed io non ho
tutto quel tempo per sorbirmeli!-
-Perché,
devi morire domani?-
-…Non
sei spiritoso, Will.-
-Ahahah! Va bene, va bene… non si scherza a casa del morto.
Comunque, ti faccio la mia offerta: tu mi porti altri due sfigati da mettere in
lista e io te la apro. Vi faccio avere anche il tavolino privato gratis, ed il
biglietto a prezzo ridotto. Eh? Che ne dici?-
Nella
loro cocciuta imbecillaggine, Rei e Max avevano saputo essere gentili in
passato con Takao, tanto da arrivare a passargli le
risposte di un esame scritto, senza le quali sarebbe stato sicuramente segato,
e costretto a passare un altro mese di corso con quell’odioso professore. Per
cui, in quel senso, doveva molto ad entrambi. Ripensando che era da tempo che
non si divertiva (eccezion fatta per la nottata trascorsa con Kei), decise di accettare l’offerta.
-…Affare
fatto. Metti anche me in lista.-
-Così
mi piaci, Takao!!! Adesso
mancherebbe soltanto una persona.-
Come
un fantasma, dagli scaffali sbucò una persona, che toccò la spalla di Takao facendolo trasalire. Urlò.
-Ehi,
che succede lì???Takao???-
Takao si girò. Dietro di lui, a guardarlo con un sorrisetto
maligno, c’era Kei. Portava ancora gli occhiali scuri
e la garza sterile sul braccio.
-Che
stronzo, mi hai fatto prendere un colpo!-
-Certo,
eri tutto concentrato a parlare al telefono… Comunque puoi mettere in lista
anche me.-
-Come
come come? E perché dovrei?
Questa mattina mi hai trattato come una pezza da piedi!-
-Posso
solo immaginare quanto ti piacerebbe essere la mia pezza da piedi. Avanti, mi
vuoi mettere in lista oppure vuoi restare in pasto ai tuoi amici per tutta la
vita?-
Con
il cellulare ancora in mano e William ancora in contatto, Takao
guardava Kei. Sembrava sicurissimo di sé ed era stato
spaccone come al solito, ma indiscutibilmente … affascinante. Arrossì
violentemente mentre comunicava la sua decisione a William.
-Ho
il quarto ragazzo. Mettici pure in lista.-
-Okay.
Nome?-
-Kei… Kei….Hiwatari.-
Ringraziato
e salutato William, Takao chiuse il cellulare a
conchiglia. Kei era ancora lì che lo guardava,
sorridendo.
-Di
un po’, tu… hai per caso delle crisi di sdoppiamento della personalità o cosa?-
Lo
apostrofò Takao. Per tutta risposta, Kei scrollò le spalle, avvicinandosi a lui. Gli toccò la
guancia con fare sensuale, e gli rubò un bacio dalle labbra.
-Diciamo
solo che… Ho avuto modo di constatare che quando i tuoi amici ti mettono a
disagio sei tremendamente……….-
“Avanti,
dillo” pensò Takao. “Offendimi ancora una volta, dato
che ormai ho capito che sei uno stronzo e che io sono perdutamente innamorato
di te che farei qualunque cosa.”
-….Cucciolone.-
Scherzosamente,
Kei gli prese un po’ dei manicotti di ciccia che Takao aveva sui fianchi e glielo strizzò, facendogli
leggermente male.
-Ahio! Non farlo mai più! Odio essere preso per la ciccia!-
Kei ridacchiò, quindi si avvicinò al suo orecchio e gli
massaggiò il pancino molle…
-…Ci
vorrebbe un po’ di palestra, per questo disastro, cucciolone…
Magari se la fai con me, ci sarà anche da divertirsi.-
Fu
allettato da una tale proposta, ma era piuttosto inquietato da quella garza e
dagli occhiali scuri. Allungò lentamente una mano, cercando di toglierglieli,
ma Kei si ritrasse velocemente, allontanandosi da
lui. Sussurrò un “No…” a cui Takao non oppose
resistenza.
-Che
ti è successo, Kei?-
-N…
Niente. Sono… caduto dalle scale.-
Takao lo guardò ancora per un momento, finché lui si
eclissò dietro uno scaffale. Restò lì come un babbeo per un po’ di tempo, fino
a che non disse
-Ehi,
come faccio a contattarti per questa sera?-
Da
dietro gli scaffali provenne un rumore. Come di un foglio che viene raschiato.
Poi lo stesso foglio venne appallottolato e alla fine fu lanciato come una
pallina sulla testa di Takao. Lui lo raccolse, mentre
sentiva i passi di Kei che si allontanavano. Sul
foglietto c’era scritto il suo numero di cellulare.
Distesa sul divano, con una coperta leggera addosso, Bulma ascoltava in
silenzio i rumori dell’appartamento
Distesa sul
divano, con una coperta leggera addosso, Bulma
ascoltava in silenzio i rumori dell’appartamento. La casa era sempre vuota, ma
in compenso era arredata da mobili di tutto rispetto, e in particolare c’era un
televisore completo di VHS ed alcune videocassette che erano scampate al
trasferimento nel loro attico in centro. Suo figlio Takao
quell’appartamento non l’aveva voluto, così lei lo teneva perennemente chiuso.
Però si era rivelato utile per portare ChiChi, la
ragazza che dormiva nella camera adiacente, a riposarsi un po’.
Sinceramente ci sarebbe anche
andata da sola. Quella mattina non aveva proprio voglia di rivedere suo marito,
che, lo sapeva, era stato da qualche amante. Ah, se solo avesse potuto sapere
chi era la povera scema che Vegeta si scopava…
“…Già, e poi
che cosa le farei? Le direi che è una deficiente se spera che mio marito mi
lasci per lei? Probabilmente lo sa già, però le fa comodo avere il vecchietto
che la porta in giro ogni tanto... Che gran presa per il sedere che è la vita.
Non fai in tempo ad accorgerti che ti sta andando male, che … che ti sta
andando veramente male.”
Era l’una del
pomeriggio, eppure lei si sentiva stanchissima. Gli occhi le si stavano chiudendo, ed era entrata in quello stato in cui la
mente è così scollegata dalla ragione da pensare qualunque cosa… I suoi
pensieri scorrevano tranquillamente adesso. Le piaceva quello stato di riposo,
tanto che spesso in inverno si chiudeva in camera e si distendeva sul letto,
vedendo tante belle cose ed entrando in contatto con una dimensione così
diversa dalla realtà che le sembrava quasi rincuorante, confortevole…
In quello
stato di trance vide molte persone e sentì molte voci. Vide suo marito Vegeta
che rideva in mezzo a delle ragazze. Lei cercava di prenderlo e portarlo via,
ma poi decideva di lasciarlo dov’era. Poi vide suo figlio Takao
che otteneva la laurea, però da vecchio. “Me la sono presa con calma, mamma”,
sentiva che le diceva, ma lei era contenta lo stesso. Poi rivide la vecchia
Renault tutta sgangherata con la quale era riuscita a recuperare la sua
nuovissima Lancia Musa… vide un bel parco verde dove correre ed andare
sull’erba, e poi… vide ChiChi che teneva un fagottino
fra le braccia. Dai vagiti non sapeva dire di che sesso fosse, però era
contenta.
Improvvisamente
però il sogno divenne un incubo. Sentì delle api ronzare, dapprima lievemente,
poi uno sciame intero che si avvicinava a lei, minaccioso. Cercò di scappare,
ma le api erano già lì a pungerla… la punsero dappertutto, ma era lo stomaco
ciò che le faceva male di più.
Si svegliò di
soprassalto, lanciando un piccolo urlo di paura. Dopo pochi secondi comparve ChiChi accanto allo stipite della porta, preoccupata. Bulma la guardò, ansimando per la paura.
-Che è
successo?-
-Niente. Ho.. ho soltanto avuto un incubo.-
La ragazza si
avvicinò a lei tenendosi il pancione, e Bulma diede
dell’idiota a sé stessa per averla spaventata… Sperò di non averlo fatto
veramente… gli spaventi non erano delle belle cose, per le gestanti. ChiChi le si accomodò accanto, abbracciandola dolcemente e
posandole un bacio sulla guancia.
Bulma arrossì, ma non si tirò indietro, anzi portò il
braccio attorno alla vita di ChiChi e l’abbracciò
teneramente… Era la prima volta in tutta la sua vita che qualcuno andava a
consolarla dopo che aveva avuto un incubo. E di incubi ne aveva visti tanti,
durante cinquantotto anni di sonni. Quel
gesto di consolazione fece scattare qualcosa nel cuore di Bulma.
Si sentiva bene, stranamente… Guardò l’orologio.
-Hai fame?-
ChiChi annuì.
*****
Il locale si
chiamava La Locanda
del Viandante Solitario. A dispetto del nome non proprio richiamante la
compagnia, il cibo era veramente ottimo ed abbondante. Dalle cucine poteva
uscire di tutto, dalla carne di prima scelta al pesce più fresco di tutta Roma
e provincia. I proprietari, un gruppo di ragazzi giovani, portavano avanti il
locale che i loro padri, pescatori d’alto bordo, avevano fondato nella
Capitale. Bulma si presentò lì con ChiChi al seguito, che si guardava intorno spaurita. Si
guardava intorno con gli occhi sgranati, tenendosi il pancione come se volesse
proteggerlo… Gli abiti nuovi che Bulma le aveva
fornito le stavano molto bene. In più, con un’ombra di rossetto ed ombretto
sulla faccia, sembrava veramente molto carina. Avvicinatasi al bancone del
locale, Bulma si tolse gli occhiali e salutò la
ragazza che stava alla cassa.
-Ciao, Nami.-
La ragazza,
che stava battendo le cifre sulla tastiera del registratore di cassa, girò lo
sguardo verso di lei. Sorrise.
-Bulma, ciao! Che bella sorpresa! Cosa ti porta qui?-
-Non una
semplice visita di piacere. È ora di pranzo.-
Risero
entrambe, mentre ChiChi si avvicinava. Bulma la prese delicatamente sottobraccio, e a quel gesto ChiChi arrossì.
-Lei è con me,
è una mia amica.-
-Ah, piacere
di conoscerti, io sono Nami.-
Timidamente, ChiChi porse la mano, e Nami
gliela strinse amichevole.
-Pi…piacere,
mi chiamo ChiChi.-
-Il piacere è tutto mio. Le amiche di Bulma
sono anche amiche mie!-
-Sei troppo
gentile, Nami. Senti, c’è il mio tavolo preferito?-
-Certamente,
seguitemi.-
Nel tragitto
dalla saletta alla sala ristorante, Bulma fu salutata
da un cameriere di nome Zoro, dal pizzaiolo che si
chiamava Rubber, da Sanji,
il cuoco in cucina, e da Usopp, l’altro cameriere. Nami camminava con un portamento molto aggraziato, e i
bracciali che portava al polso destro tintinnavano ad ogni passo. Sembrava una
modella, piuttosto che la cassiera di un ristorante. Le scortò al tavolo
preferito di Bulma, un tavolinetto che dava su una
finestra larga, con vista su Castel Sant’Angelo. Quel
locale era stato per lei un luogo molto significativo. Lì aveva organizzato i
migliori ricevimenti della sua azienda, le colazioni di lavoro, le fruttuose
incorporazioni di altre aziende metal meccaniche nella sua. Le era sempre
piaciuto anche il nome… La locanda del viandante solitario. Un nome che le si
addiceva, perché lei era una solitaria. Lo era sempre stata, ma solo
ultimamente si stava rendendo conto che tutta quella solitudine non le aveva
fatto bene. Sposarsi con Vegeta l’aveva resa felice, ma fino a quanto…? Fino a
quando lui non aveva cominciato a tornare tardi la sera, fino a quando non si
era sentita ignorata da lui che guardava la televisione tutte le sere e non
spiccicava parola, o quando parlava ore ed ore al cellulare con i suoi
colleghi…
Mentre si
sedevano, Bulma si sentì struggere alla vista di Castel Sant’Angelo, e dal ventre le partì una fitta
dolorosa che per poco non la mandò a terra in ginocchio. Nami
si allarmò, e ChiChi anche.
-Bulma? Bulma???
Stai bene??-
-Oooo…. S…Sì… sì… sto… sto bene. Nulla di cui preoccuparsi.
Solo un po’ di dolore allo stomaco, niente di grave.-
Dicendo ciò,
si sedette, e ChiChi la imitò, guardandola stranita. Nami annuì, promettendole di farle avere un po’ di citrato
al più presto possibile, e si allontanò per tornare alla cassa. “Beata te”,
pensò Bulma “se pensi che un po’ di citrato mi possa
risolvere questo problema…”
Si massaggiò
lentamente il ventre, stringendo i denti dal dolore. Chichi
la osservava preoccupata, e appena Bulma la notò, cercò
di tirare fuori un sorriso.
-Sto bene…
Adesso mangiamo qualcosa, va bene, ChiChi?-
-Sì. Va bene, Bulma. Grazie.-
-Non
ringraziarmi. Lo faccio con piacere.-
Intanto il
dolore andava scomparendo, per l’ennesima volta in quel giorno… Per quanto
ancora avrebbe potuto continuare con quella messinscena?
*****
Nello stesso
locale, soltanto qualche tavolo più lontano da Bulma
e ChiChi, c’erano Hikaru ed
un uomo. Lei era seduta al tavolo e lo ascoltava parlare con un sorriso,
tenendo la mano destra sotto il mento, le labbra piegate leggermente a formare
un sorriso dolce…
-…E così ho
deciso di prendere al volo l’occasione e di creare un’impresa tutta mia.-
-Sei molto
giovane… A trentadue anni possedere uno spirito imprenditoriale non è da molti.-
-Se non si
comincia da giovani, non si ha la stessa freschezza.-
Rispose lui.
Poi prese la bottiglia di vino bianco e fece per versarglielo nel bicchiere.
Lei lo fermò con la mano.
-Devo.. devo tornare al lavoro, non è il caso che mi ubriachi.-
-Coraggio,
soltanto un goccio.-
-E va bene. Ma
poco, mi raccomando.-
Lui sorrise e
versò un po’ di vino nel calice. Alzarono i bicchieri e li fecero tintinnare
insieme. Lei era visibilmente emozionata. E pensare che fino a poche ore prima era a letto con Vegeta ad immaginare come sarebbe stata la
sua vita con lui, com’era dolce quando le telefonava… Tre anni d’amore e di
passione, che tuttavia dovevano essere ufficializzati in qualche modo. Solo che
Vegeta temporeggiava, non si sapeva bene per quale motivo. Lei non aveva mai
visto sua moglie, la conosceva soltanto di nome e null’altro. E neanche aveva
mai visto suo figlio. Certe cose la facevano sentire immancabilmente un’esclusa
dalla sua vita, perché lei non era parte della sua famiglia. Lei era solo
un’amante, o… la sua “Fidanzata segreta” come a lui piaceva chiamarla.
Dapprincipio a lei piaceva essere definita un’amante segreta. Ci rideva sopra e
pensava che fosse divertente, ma a lungo andare, tale definizione era diventata
brutta. Non poteva uscire con Vegeta che lui subito iniziava a guardarsi
intorno con circospezione e certe volte a nascondersi dietro le colonne facendo
finta di parlare al cellulare… c’era stata una volta in cui stavano quasi per
essere scoperti. Lui aveva visto chissà chi e si era girato, senza che lei se
ne accorgesse. Quando era sparito, lei si era allarmata parecchio, aveva preso
il cellulare e gli aveva mandato un sms... dopo pochi secondi lui aveva
risposto che era nel negozio adiacente. Subito dopo le aveva spiegato che aveva
visto un suo collega di lavoro che conosceva sua moglie, per cui si era dovuto
eclissare. Inutile dire che a tale spiegazione Hikaru
aveva ceduto, dominando la rabbia per averla piantata in asso, perché lo amava
troppo. Ma essendo l’amore bello finché dura, la sua resistenza stava
lentamente iniziando a scemare. Questo era il motivo per cui ora si trovava in
quel ristorante con Delfo, il cliente della banca.
Il ragazzo era
veramente carino. I suoi capelli erano ricci e la sua pelle
abbronzata. Gli occhi erano di un verde scuro che ingannava, facendoli
sembrare marroni… Denti bianchi e perfetti, ed una voce che avrebbe fatto
impazzire qualunque ragazza.
Gentilmente,
lui le tese la mano, fino a toccare la sua… Lei gentilmente gliela prese e
gliela strinse… arrossendo dolcemente.
“Ma che cosa
sto facendo…? Io… io sono fidanzata con Vegeta….”
Pensò, in un
attimo di lucidità. Poi le venne in mente che non era esattamente fidanzata con
Vegeta, ma che era soltanto una ragazza segreta… e che Vegeta non le aveva mai
preso la mano sul tavolo di un ristorante come adesso stava facendo Delfo.
Sospirò emozionata, mentre Delfo le carezzava le dita con il pollice,
mandandole delle scariche di piacere su per tutto il corpo. Poi le baciò la
mano, e lei si sentì così bene che fu come una magia: tutti i suoi pensieri
scomparvero in un istante.
“Dicono che
quando il vero amore arriva, ce ne accorgiamo subito… Allora forse … è arrivato
il mio turno.”
E pensato
questo, lasciò che Delfo le carezzasse la mano, aspettando il pranzo che
sarebbe arrivato da lì a poco.
Per
perdere un po’ di peso, Lorenzo di solito evitava di pranzare. Se solo avesse
anche lontanamente immaginato che saltare i pasti è peggio che mangiare troppo,
in quel momento si sarebbe sicuramente diretto a casa o presso un qualche
locale per prendersi qualcosa, anche leggero. Invece, come tutti i pomeriggi a
quell’ora, si era messo al parcheggio dei taxisti. Lo
sportello aperto, la gamba a penzolare fuori, il giornale aperto davanti alla
faccia. Tra tutti i suoi colleghi, lui era il più giovane. Lo conoscevano per
la parentela con suo padre, lo avevano in simpatia, ma generalmente non c’erano
molti scambi di battute, anche perché Lorenzo non era un padre di famiglia e
mai lo sarebbe diventato… Era totalmente diverso da loro, in tutto e per tutto.
Così durante le pause preferiva leggersi il quotidiano.
Gli
occhi correvano stancamente su e giù per le righe degli articoli, ma la mente
di Lorenzo era da tutt’altra parte: Continuava a pensare a Jason, il ragazzo
biondo che aveva lasciato in quel lussuoso albergo, dove si era incontrato con
un uomo a dir poco più anziano di lui di trent’anni. Il pensiero non lo
abbandonava – non il pensiero di un giovanotto che va con un vecchio, ma più
che altro la faccia di Jason, il suo parlare così pacato e tranquillo da
perfetto gentiluomo inglese, il suo viso così armonioso e dolce.
E
via che la mente incominciò a proiettare possibili scenari.
Forse
Lorenzo avrebbe potuto mettere in moto il taxi e tornare all’albergo.
Forse
avrebbe potuto chiedere di lui ed incontrarlo.
Forse
si sarebbero fermati a prendere un caffè insieme.
Forse…
“Ehi,
ma che cosa vai a pensare, tutto ad un tratto?
Ricordati che tu oggi devi morire, hai una pistola nel cruscotto. Per cosa l’hai caricata a fare, sennò?”
La
voce che gli aveva parlato era della sua immagine riflessa nello specchietto
retrovisore. Senza accorgersene aveva mollato il giornale per guardare il sé
stesso riflesso nello specchio. Un sé stesso completamente diverso, abitante in
un altro mondo, ma perfettamente capace di interagire con lui.
“Guarda
che se muoio io, morirai anche tu.”
“M’importa
assai.”
“E
poi, lo deciderò io se oggi sarà il mio ultimo giorno oppure no. Tu resta nel
tuo mondo e fatti i cazzi tuoi.”
“Che
antipatico sei. Vai a fare in culo!”
“Anche
tu. Ciao.”
E dopo quella simpatica
conversazione mentale, squillò il telefono di servizio. Uno dei colleghi andò a
rispondere.
-Chi…?
Come? Attenda, prego.-
E fu allora
che sentì chiamare il suo nome.
-Lorenzo!-
-Dimmi
Giacomo.-
-C’è
uno che ti vuole, qui. Dice di andarlo a prendere all’Hotel Excelsior!-
A sentire quel
nome, una lampadina gli si accese in mente.
-Cosa?
Ma sei sicuro?-
-Ha
detto che vuole Genova Quarantacinque. E qui l’unico Genova Quarantacinque sei
tu!-
-Ti ha detto
chi è?-
-E
che ne so, vieni a parlarci.-
Velocemente,
Lorenzo smontò dalla macchina, e quasi correndo si avviò verso il telefono di
servizio. Prese la cornetta dalle mani di Giacomo, ringraziandolo per aver
risposto.
-Pronto?-
Ma
inspiegabilmente il telefono dava il segnale di libero.
*****
Contrariamente
a ciò che avrebbe fatto se un cliente gli avesse sbattuto il telefono in
faccia, Lorenzo mise in moto l’auto e si avviò velocemente verso l’Hotel Excelsior. Anche se non sapeva chi l’avesse chiamato, era sicuro
che si trattava di Jason. Il ragazzo aveva riappeso la
cornetta, forse per paura di parlare… però Lorenzo era determinato a saperne di
più.
Arrivato
all’albergo, lo cercò con gli occhi in mezzo alla grande sala. Non vedendolo,
si allarmò leggermente. Andò alla reception, chiedendo se l’avessero visto. Il
portiere era un uomo di circa sessant’anni, molto ben vestito e gentile.
-Un ragazzo biondo con gli occhi azzurri?-
-Esattamente.-
-Con
l’orecchino sul lobo destro dell’orecchio?-
-Sì!!! Proprio lui!-
-Ah,
certo. È uscito circa una mezz’oretta fa dopo aver fatto una telefonata...
Probabilmente ad un servizio di taxi, dato che mi ha chiesto il numero prima.-
Lorenzo
capì che aveva telefonato a lui.
-Come
le è sembrato quand’è uscito?-
-Non
saprei. Normale… è uscito abbastanza in fretta.-
-Capisco.
Non saprebbe dirmi dov’è andato?-
-No,
mi spiace.-
-Va
bene. Grazie, arrivederci.-
Uscito,
saltò sul taxi e partì in sgommata. Appena fuori dal complesso alberghiero, si
mise a cercarlo con gli occhi in mezzo alle strade, pregando che non avesse
preso il metrò. Intanto la sua ansia cresceva. Non sapeva perché l’avesse
chiamato, ma intuiva che c’era qualcosa che non andava. In preda
all’eccitazione, portò l’accelerazione della Brava al massimo su un rettilineo,
che portava direttamente ad un pezzo del Lungotevere. E fu lì che lo vide.
“Jason!!!”
Il
ragazzo se ne stava appoggiato con i gomiti sul parapetto, guardando in basso.
Il suo sguardo era molto triste, però non piangeva. Ai suoi piedi c’era il suo
trolley, ed a quel punto capì che c’era veramente qualcosa che non andava. Si
avvicinò lentamente, e diede un colpo di clacson.
Jason
si girò per vedere chi l’avesse chiamato. Nel vedere il taxi, il suo viso si
illuminò leggermente, ma poi prese il suo trolley e fece per andarsene. Lorenzo
si mosse e gli andò vicino, parlandogli attraverso il finestrino.
-Ehi,
Jason. Mi hai chiamato?-
-Sì,
ma… non importa. Non ho bisogno di un taxi.-
-Mi
sembri un po’ triste, sei sicuro di stare bene?-
-Sto
benissimo.-
Di
colpo, Jason si fermò, e Lorenzo frenò l’auto. Pochi istanti dopo, Jason tirò
il trolley verso di sé ed entrò nell’auto. Si guardarono negli occhi per un
momento, poi Jason incominciò a piangere. Si portò le mani a coppa davanti agli
occhi, versando le sue lacrime. Istintivamente, Lorenzo cercò un pacchetto di
fazzoletti nel cruscotto e glielo porse.
-Cos’è successo, Jason?-
Con
voce rotta dal pianto, Jason gli rispose
-Quel
… bastardo. Mi ha lasciato. Dice che la differenza d’età è troppa, e che io…
non sono abbastanza maturo per lui.-
Stupito
da tale spiegazione, Lorenzo pensò che chiunque fosse quell’anziano signore con
cui era stato Jason, fosse uno stronzo da gran premio. Si stupì ancor di più
del fatto che Jason avesse chiamato lui per primo. In fondo, non si
conoscevano, si erano parlati soltanto durante il tragitto dall’aeroporto
all’albergo… Tuttavia, ne fu piacevolmente colpito. Discretamente, gli toccò la
spalla, per fargli capire che con lui poteva parlare.
-Coraggio…
Il mondo è pieno di gente. Troverai qualcun altro.-
Mentre
piangeva, Jason era così dolce… Lorenzo trattenne l’impulso di abbracciarlo e
baciarlo, ma Jason non fu dello stesso avviso. Gli si avvicinò e gli portò le
braccia intorno al collo, senza nemmeno chiedersi se il tassista fosse
omosessuale o meno, e piangendo gli rispose che non aveva più voglia di vivere.
-Ma
no, dai… non puoi dire così. Il mondo perderebbe una bellissima persona, senza
di te.-
Lo
abbracciò teneramente, e Jason rimase in silenzio ad ascoltarlo mentre lo
consolava… Non riusciva a credere alle sue stesse orecchie. Lui, Lorenzo Marchetti, che fino a poche ore fa sognava di togliersi la
vita con la revolver che giaceva nel cruscotto, a
cercare di salvare qualcuno dal suicidio? Incredibile. Eppure non voleva che
Jason si suicidasse, la sua mente rifiutava di
accettarlo. Continuò a stringerlo dolcemente, perdendosi nel suo profumo di
vaniglia. Dai tempi di Lucas, era il secondo ragazzo carino che stringeva tra
le braccia, dopo l’avventura con Davide, il ragazzo escort.
-Ti
faccio una proposta. Vuoi restare con me tutta la giornata?-
-T.. tutta la giornata? Ma… ma tu devi lavorare.-
-E
allora? Non morirò di certo se mi prendo un po’ di ore di libertà. E poi… mi fa
piacere farti compagnia.-
-Oh,
io … non so come ringraziarti.-
-C’è
un solo modo. Cerca di farti coraggio, ok?-
Asciugandosi
le lacrime, Jason annuì. Lentamente, un sorriso comparve sulle sue labbra, nel
vedere che finalmente una persona aveva a cuore il suo stato d’animo. Cosa gli
importava che fosse un tassista conosciuto appena un paio d’ore prima?
L’importante era non sentirsi solo in quel momento triste.
*****
Il
tempo stava per scadere. A breve Hikaru sarebbe
tornata al suo posto in banca, e Vegeta non era ancora riuscito a parlarle. Con
il cellulare in mano, provava e riprovava a chiamarla, ottenendo soltanto in
risposta il messaggio della Vodafone che dichiarava freddamente che il
cellulare poteva essere spento o non raggiungibile. Al decimo tentativo si arrese,
buttando il cellulare sul sedile passeggero della BMW. Non era mai successo che
Hikaru tenesse il suo cellulare così tanto tempo
spento… Almeno non di sabato, quando loro due uscivano quasi sempre a fare
quattro salti in discoteca oppure una passeggiata al parco. Lontano lontano nella sua mente, si formò il pensiero che la
ragazza si fosse stancata… Oh, cielo! Se così fosse stato, lui non avrebbe
avuto più motivo di rimanere su questa terra. No, non era possibile. Non voleva
pensarlo assolutamente. Si disse che sicuramente la ragazza era in riunione, e
che quindi non poteva rispondere al cellulare. Una volta ogni tre mesi
succedeva. Allora perché preoccuparsi tanto?
Eppure…
Per
la prima volta, dopo tanti anni, pensò a sua moglie. Bulma.
Si domandò cosa stesse facendo in quel momento, se fosse in casa, o in azienda,
oppure con qualcuno. La terza ipotesi non lo scosse particolarmente… Sapeva che
sua moglie era una brava donna, devota al marito e comunque non interessata a
più uomini contemporaneamente. Riprese in mano il cellulare, cercando nella
rubrica il numero di cellulare di Bulma. Lo trovò.
Premette il tasto di chiamata.
Tuuuuuu….
Tuuuuuu….
Tuuuuuu….
….
Squillò
esattamente trenta volte, prima che la solita voce femminile della Vodafone gli
dicesse che la chiamata stava per essere trasferita alla segreteria telefonica.
“E poi dicono
che il cellulare dovrebbe farci sentire più vicini a chi vogliamo bene…”
…A chi
vogliamo bene? Ma come, se per tre anni sua moglie era diventata meno di una collega
di lavoro? Se casa il loro rapporto si era ridotto ad un mero “Buongiorno –
Buonasera – Salve – Grazie - non c’è di che”?
Degli anni
passati insieme a Bulma, rimaneva soltanto il
ricordo.
Si portò le
mani alla testa, arruffandosi i rigogliosi capelli nero-bianchicci, rendendosi
improvvisamente conto di aver ignorato sua moglie per troppo tempo, e
pentendosi di averlo fatto. E tutto questo perché? Soltanto perché Hikaru non stava rispondendo alle sue chiamate.
Niente fa più
male di riavere indietro il male che noi abbiamo fatto agli altri.
Dal cruscotto
tirò fuori la bustina trasparente contenente i due preventivi per le crociere.
Su entrambi i fogli c’era il logo dell’agenzia viaggi di Goku, ovvero una “S”
ed una “T” con su scritto in minuscolo, in basso, “SunTravels”, nella sua terza
versione.
Osservò i due
fogli ancora una volta. Sul primo c’era segnato il nome di Hikaru,
sul secondo, il nome di Bulma.
Pillola rossa
o pillola blu. Il peso della scelta.
“Andare con Hikaru significherebbe l’inizio di una nuova vita… Mentre
andare con mia moglie potrebbe forse aiutare il nostro matrimonio… Ma io, che
cosa voglio da questa vita? …Che cosa voglio?”
Decise di
ritirarsi un momento a pensare. A casa poteva farlo tranquillamente. E poi…
incominciava ad aver fame.
-V..Vi
prego.. dovete concedermi un po’ più di tempo. Io non riesco a pagarvi le rate
della bolletta…-
-Ci dispiace, ma non possiamo
proprio più aspettare. Le scadenze vanno onorate, ed a maggior ragione se si è
in mora come lo è lei.-
-Ma io sono senza un soldo! Ve ne
rendete conto?-
-Non è un nostro problema,
signorina. Chi ha bisogno di soldi, se li va a guadagnare con ogni mezzo.-
Uscì dalla
banca con una rabbia sorda in corpo, che non era sfociata soltanto perché Madoka non era tipo da fare delle scenate in pubblico. Si
sentiva male, e per di più era affamata come un lupo. Fallito il tentativo di
cercare di convincere la banca ad erogarle più credito per le bollette di casa
e l’affitto da pagare, le toccava di andare a fare la spesa.
I pochi soldi
a disposizione nel suo bilancio non le consentivano stravizzi, per cui si
accontentava in genere di un pacchetto di cibi surgelati. Uno al giorno, che
tra l’altro non le facevano neanche bene. Si era scoperta essere aumentata un
po’ di peso, ma la sua linea era il problema di minor conto.
Arrivata al
supermercato, girò per quasi venti minuti alla ricerca di un parcheggio. Come
una manna dal cielo, vide una Toyota che accese le luci della retromarcia,
uscendo da un parcheggio. Lei si accostò in maniera da lasciar uscire il
veicolo quel tanto che bastava, e rimase a guardare le manovre finché il
veicolo non liberò il parcheggio. Tutto d’un tratto, dalla corsia opposta sbucò
fuori una Lancia Ypsilon guidata da una ragazzina,
che si infilò lesta nel parcheggio che Madoka stava
tenendo d’occhio. Colta da un altro accesso di rabbia sorda, Madoka si mise a scrutare l’auto e la sua proprietaria. Il
veicolo era praticamente nuovo e ben tenuto (lo si poteva evincere dalla targa,
che era del nuovo tipo – due lettere – tre cifre – due lettere), di color rosso
ocra con finiture d’argento, i sedili interni color crema ed una
mini targhetta con il nome della proprietaria – “Anna”. La ragazza era una
snella e bionda ventenne, portava un paio di pantaloni attillati ed un top bianco
marcato Fiorucci che lasciava intravedere l’ombelico. Le labbra erano dipinte
da un rossetto di color rosa brillante, mentre i capelli lisci come seta le
ricadevano sulle spalle del corpo, così magro e ben fatto. Con tutte le
probabilità pensò che la ragazza era una figlia di papà,
che sicuramente non frequentava l’università né lavorava, ma che passava le sue
giornate a girare in auto e magari ad incontrarsi con le amiche al centro
commerciale dov’era adesso (la sentì parlare al cellulare I-Phone
mentre si dirigeva verso l’entrata) – Mentre lei? Chi era Madoka?
Madoka era una laureata con centodieci e lode in statistica socio demografica, viveva da sola in un bilocale
sommersa dalle bollette delle varie utenze, era intelligentissima ma non
riusciva a trovare lavoro; la sua macchina (che peraltro non guidava mai) era
una vecchia e scassata Volkswagen Passat di tredici anni; non aveva amiche ed
era in cura presso uno psicologo finché le rimanevano i soldi; spendeva un
quarto delle sue sostanze in antidepressivi…. E….
“…E questa
puttanella mi frega anche il posto.”
Strinse i
denti e le mani sul volante, chiuse gli occhi per dominare l’accesso di rabbia,
quindi sgasò sul pedale dell’acceleratore e si dispose a cercare un altro
parcheggio, quando si ricordò della borsa che viaggiava con lei sul sedile
passeggero.
Si accorse
dell’oggetto quando esso luccicò al sole del primo pomeriggio, mandando un
raggio nel suo occhio. Il coltello da cucina lungo quindici centimetri che si
era portato dietro da quella mattina. Non ricordava bene il perché fosse lì, ma
l’unico pensiero che le venne in mente fu
“Il prossimo
che mi frega il parcheggio, si ritrova la lama di questo coltello ficcata per
lungo nella gola. Fosse l’ultima cosa che faccio.”
Incoraggiata
da quest’ultimo pensiero, ritornò a cercare con lo sguardo un posto dove
lasciare la Passat.
*****
In qualsiasi
ora della giornata, il centro commerciale era sempre pieno. Con il suo
sacchetto in mano, Madoka alzò gli occhi al cielo,
trattenendo una sfilza di parolacce; Cercò di farsi strada tra la gente, ma
molti non la lasciavano passare.
-Permesso… mi
scusi…-
-Ehi! E guarda
dove vai, scema!-
La apostrofò
un uomo di circa cinquant’anni. Lei si fermò e prese un respiro profondo,
quindi si girò verso l’uomo e lo guardò stancamente.
-Le ho chiesto
scusa.-
-Dammi almeno
il tempo di spostarmi, no?!? Che cazzo di giovani…-
Ogni volta che
usciva, c’era sempre qualcuno che la apostrofava a male parole. Ma perché?
Perché proprio lei? Che cos’aveva fatto di male per essere sempre trattata
così? In corpo si sentì montare di nuovo la furia galoppante della sua rabbia.
Ora lei era come un vulcano. C’era tanto magma nel suo corpo che rischiava di
esplodere, se non si fosse calmata immediatamente. Le restava solo da pagare la
spesa, tornare alla macchina e scappare a casa, e magari provare a richiamare
il dottor Zenigata.
Giusto, il
dottor Zenigata. Erano quasi le quattro e lui non l’aveva ancora chiamata.
Ma che cosa stava aspettando, quello strizzacervelli
da strapazzo? Forse c’erano altre clienti più giovani e più belle di lei che
desideravano il suo aiuto??? No, non era possibile.
Conosceva il Dottore come una persona retta e fedele alla moglie, e per quanto
avesse le possibilità di farsela con le sue giovani clienti, non si azzardava a
sfiorarle con un dito. Pensò di chiamarlo in quel momento, ma si sentì di non
doverlo disturbare. E poi, non era certo il momento giusto.
Avendo
soltanto poche cose, Madoka cercò con gli occhi la
cassa rapida, quella dove si può accedere solo con un massimo di dieci pezzi.
La trovò. Avvicinatasi, scoprì che c’era parecchia gente con il carrello pieno.
A bocca aperta, s’indignò.
-Scusi, ma
questa non è la cassa rapida fino a dieci pezzi?-
Davanti a lei
c’era una grassa signora con un bambino sul carrello, che fece finta di non
sentirla. Quasi come parlando a sé stessa, Madoka
continuò…
-…Andiamo
bene, se ci sono delle regole da rispettare e nessuno lofa.-
Detto questo,
la grassa signora si girò e le rispose malamente.
-Senta, cara
la mia signora scassa palle, se ha bisogno della cassa rapida, vada a
cercarsene un’altra! Io ho fretta, ho un figlio da portare dal medico mentre
lei è lì che non ha nessuno. Per cui veda di non rompere i coglioni, intesi???-
Madoka rimase a bocca aperta di fronte a cotanta
maleducazione. Guardò da più parti, non sapendo cosa dire, sentendo la rabbia
che le pulsava nel cervello ed una voglia matta di
(piantarle un coltello in gola a quella
grassa scrofa)
gridare,
di scappare…
E
così fece.
Girò
i tacchi e si lasciò dietro lo sguardo della signora e di pochi altri clienti
del supermercato che non mossero un dito per difenderla, quindi trovò un’altra
cassa rapida ed aspettò pazientemente il suo turno, quando all’improvviso le
tornarono ancora una volta alla mente le parole della sua tesi di laurea.
“…L’incidenza percentuale dei soggetti
colpiti da raptus di follia è sensibilmente più alta in luoghi molto popolati:
contesti stradali, banche, negozi, supermercati…”
Non l’aveva mai fatto, eppure immaginava che non fosse tanto difficile
Non l’aveva
mai fatto, eppure immaginava che non fosse tanto difficile. Appostato davanti
alla Banca Nazionale, munito di occhiali scuri e seduto
al sedile passeggero della sua BMW, Vegeta osservava l’entrata della banca,
consultando spesso l’orologio. Parecchie persone passavano da lì, ma a lui
interessava soltanto una.
“Hikaru…”
Erano le
quattro, e di solito a quell’ora gli impiegati uscivano, uno alla volta, dopo
aver fatto gli ultimi controlli di cassa. Lui era lì da circa quaranta minuti,
avendo improvvisamente cambiato idea sul mangiare e sul farsi una dormita. Non
ci sarebbe riuscito, allarmato com’era. Una cosa era migliorata: Il cellulare
di Hikaru ora squillava, ma lei non rispondeva. Le
aveva mandato tre sms da quando il cellulare era tornato alla linea, ma
purtroppo lei non si era degnata di rispondergli.
“Che cazzo ti
è preso, amore? Perché non mi rispondi???”
Trattenendo un
accesso di rabbia, mentre scrutava l’entrata della banca, la vide. Era lì che
parlava con una collega. Sorrideva, e Vegeta restò ammaliato dal suo sorriso.
Era così bella… Scese dal suo SUV, e a lunghi passi si avviò verso di lei. La
collega lo vide per primo, quindi salutò gentilmente Hikaru
e si defilò, andando a chiudersi dentro una Renault Twingo nera. Hikaru sgranò gli occhi sorpresa, portandosi
contemporaneamente una mano alla bocca. La sua espressione cambiò poi da
sorpresa a leggermente spaventata. Con gli occhiali da sole ancora sugli occhi,
Vegeta la scrutò.
-Ciao, Hikaru.-
-V… Vegeta…-
-Sì, io. Lo
stesso che sta cercando di chiamarti da ore e tu non rispondi.-
Imbarazzata, Hikaru si spostò verso una colonna portante del portico
della banca, e Vegeta la seguì, parandosi molto vicino a lei.
-V…Vegeta… Per
favore… allontanati da me. Qualcuno potrebbe vederci.-
-Non mi
importa. Sei la mia ragazza, no? E allora che guardino pure.-
-Ma tu sei un
cliente di questa banca! E io ci lavoro! Se ci vedessero…-
-…Io cambierei
banca e tu continueresti a fare tranquillamente la tua vita.-
-Oh no! Quello
sarebbe il peggio! Ti prego, allontanati…-
Infischiandosene
completamente delle sue parole, Vegeta prese il polso di Hikaru.
Lei si spaventò leggermente, e per un attimo i suoi occhi incrociarono quelli
coperti dalle lenti scure di Vegeta. Lui le si avvicinò e le parlò sulle labbra.
-Piccola… non
avere paura. Io voglio solo parlarti. Poche ore fa abbiamo fatto l’amore, ci
siamo parlati… Perché all’improvviso hai staccato il telefono?-
Si vedeva fin
troppo bene che Hikaru era nella confusione più
totale. Guardava dappertutto, respirava affannosamente e contraeva le labbra in
maniera concitata, tremando come una foglia. Poteva sentirlo dal suo polso. Per
distenderla un po’, Vegeta le lasciò il polso, e lei se lo massaggiò, traendo
un sospiro di sollievo. Scosse la testa.
-Vegeta…-
-Hikaru…-
-Io… io…-
-”Tu” che
cosa?-
-Io ti voglio…
ti voglio tanto bene, lo sai.-
Bastò
quell’unica frase a mandare Vegeta in stato confusionale. Come se Hikaru gli avesse trasmesso il virus che pocanzi la stava
divorando. Le gambe incominciarono a tremargli e sentì un accesso di sangue
alla testa, che si tramutò in una scarica elettrica lungo tutto il suo corpo.
Si tenne la fronte con una mano. Preoccupata, Hikaru
gli si avvicinò.
-Vegeta!
Cos’hai?-
-N… niente.
Sto bene. Vai avanti…-
-Ma…-
-Vai avanti,
ti ho detto! Dì quello che devi dirmi!-
La rabbia lo
fece stare leggermente meglio. Ma non del tutto. Fu un’illusione passeggera,
perché quando Hikaru incominciò a parlare, la sua
testa riprese a pulsare.
Con il
maggiore tatto di cui era capace, Hikaru spiegò le
sue ragioni a Vegeta. La sua voce scandiva le parole dolcemente, come una madre
che spiega ad un bambino i misteri della vita e della morte… Gli spiegò che
quei tre anni erano stati i più belli della sua vita, ma che ora
sentiva il bisogno di pensare a sé stessa per un po’ di tempo… Che si
stava perdendo troppe cose che alla sua età potevano essere preziose, ma
soprattutto… che desiderava farsi una vita con un uomo.
-Ma … sono io
il tuo uomo, Hikaru!!! Che
cazzo vai tirando fuori questi discorsi da Madre Teresa di Calcutta??? Io sono
il tuo ragazzo, e sono io colui che vorresti sposare!!!-
Quasi urlava
Vegeta, con il rischio di farsi beccare da qualcuno. Cercò di contenersi,
ricordandosi che comunque sua moglie Bulma era in
giro. Hikaru gli rispose con calma.
-Non lo so se
sei tu l’uomo che voglio sposare. Ti chiedo soltanto di darmi un po’ di tempo
per pensare, ecco tutto.-
-Un po’ di
tempo per pensare?! Un po’ di tempo per… pensare??? …Questa è una grandissima stronzata! Dimmi chi è, risparmierai
un’altra giustificazione cretina!-
Ormai Vegeta
era al colmo della rabbia e dello sconforto. Per tre anni il loro rapporto era
filato senza intoppi. Durante la settimana Hikaru
andava a lavorare, lui anche… e si scambiavano messaggi e telefonate… A lui
andava bene così, mentre decideva sul da farsi. E quel “da farsi” l’aveva più o
meno deciso. In tasca c’era ancora la bustina con i due preventivi per la
crociera. Goku era aperto fino alle sette e bastava fare una telefonata,
maHikaru…?
-Vegeta… Ti
prego. È già abbastanza difficile così.-
L’uomo guardò
da più parti, non sapendo più che cosa dire o fare, cercando una risposta, un
segnale d’aiuto. Quando poi non riuscì più a trattenersi, saltò addosso ad Hikaru e si provò a baciarla. Lei saltabeccò strillando,
cercando di sottrarsi alla presa forte di Vegeta. La colluttazione durò circa
un minuto o due, durante i quali Vegeta riuscì a strapparle due bacetti sulle
labbra ed un bacio passionale, a cui la ragazza si sottrasse con un ultimo
strattone. Per sicurezza, si tenne a distanza, uscendo dall’anfratto in cui era
situato il Bancomat, e dentro il quale Vegeta l’aveva attirata.
-Se solo mi
tocchi un’altra volta…-
Incominciò,
tirando fuori il cellulare e componendo un numero.
-…Chiamo tua
moglie e le racconto tutto. Ho il numero, te l’ho
estorto un giorno mentre guardavo il tuo cellulare. Non ti azzardare a toccarmi
altrimenti lo faccio.-
Teneva il
cellulare a mezz’aria tra l’orecchio e il suo corpo, pronta
a chiamare la consorte del suo persecutore e farle sentire ciò che il marito
aveva da dirle. A sorpresa, Vegeta si mise le mani in tasca e ridacchiò.
-Chiamala
pure. Quella stronza non risponde nemmeno al cellulare. Avanti, chiamala.
Chiamala ed io le dirò che voglio passare il resto della mia vita con te.-
-No, Vegeta.
Tu non passerai il resto della tua vita con me. Tu sei sposato, hai una
famiglia… Io devo farmene una, e non sarai tu ad impedirmelo. Me lo hai già
impedito per troppo tempo.-
Così era
questo ciò che era stato il loro rapporto, per lei? Un impedimento a farsi una
vita propria? Vegeta si sentì destabilizzato da un colpo del genere, ma senza
perdere la tranquillità, si avvicinò ad Hikaru,
sempre con le mani in tasca. Lei indietreggiò.
-Non toccarmi
o strillo.-
-Dimmi chi è.-
-Chi???-
-Di chi ti sei
innamorata?!?-
-Non sono
affari tuoi.-
-Cristo, Hikaru, ti chiedo solo di…-
Improvvisamente,
alle spalle di Vegeta comparve un ragazzo.
-Lasciala in pace, amico, o dovrai vedertela con me.-
Vegeta si
girò, e nel vedere quel ragazzetto che doveva essere per forza colui che Hikaru si era scelta, sentì la rabbia montargli in corpo.
Serrò i pugni contro i fianchi, mentre con la bocca digrignava i denti. Il
ragazzetto venne avanti.
-Ti avviso
subito che non voglio battermi. Per cui datti una calmata. Se ci battiamo, Hikaru chiamerà la polizia e tu sarai nei guai.-
Sentendosi
impotente, leso nella sua dignità, triste ed ancora innamorato di Hikaru, Vegeta pensò bene di lasciar perdere un eventuale
scontro. Finché sua moglie sospettava qualcosa e non diceva nulla, andava
ancora bene così, ma una rissa non ci voleva proprio. Guardò prima Hikaru, che se ne stava in piedi alla sua destra, con il
cellulare in mano. La sua espressione era dura, ma in un certo senso, sotto
quel velo di durezza si nascondeva un’ombra di pietà per il povero Vegeta. “Non
volevo che succedesse, però … è successo” sembrava dire quell’ombra della sua
ormai ex-fidanzatina… Concretizzando tutti i suoi incubi precedenti, e cioè che
la ragazza si sarebbe potuta innamorare di qualcun altro in quella maledetta
banca. Già… la banca…
-…D…domani
chiuderò il mio conto qui.-
-Oh.. Ve…Vegeta… io…-
-No, sta’
tranquilla. Non dirò al tuo direttore che te la fai coi clienti…-
E scoccò
un’occhiataccia al ragazzo, che lo osservava a braccia conserte.
-…T…Ti prego,
non lasciare la banca… Sei il nostro miglior correntista…-
-Vai a fare in
culo.-
Le rispose
malamente, mentre a passo lento si avviava verso la sua BMW parcheggiata
sull’altro marciapiede. Hikaru e Delfo videro il SUV
uscire dal parcheggio e partire in sgommata, mentre dentro l’abitacolo Vegeta
lottava contro l’impulso di piangere.
*****
Lavorare al
Pronto Soccorso per quei cinque anni, e cioè con diversi turni spezzati in più
parti della giornata, aveva ridotto i meccanismi del sonno di Kyosuke a funzionare in maniera bizzarra. Gli poteva
capitare di avere un sonno pazzesco in certi giorni dopo il suo turno, oppure
non averne affatto, oppure ancora durante il suo turno di giorno.
Quel giorno,
dopo aver fatto il turno di notte, non si sentiva per niente stanco. Erano
quasi le cinque di quel sabato pomeriggio, e non sapendo cosa fare, decise di
andare in biblioteca. Si era diretto nella sezione giornali.
I documenti erano dei grossi fascicoli rilegati, contenenti tutti i giornali
delle varie epoche, ma a lui interessava di più quella di quando suo fratello
perse l’uso delle gambe. Allora non aveva letto molto i giornali né guardato
troppo la televisione, però sapeva che un probabile colpevole era stato
trovato… L’unico problema era che non si erano trovate delle prove concrete
della sua colpevolezza.
Scorse i
giornali, andando a finire su un titolo.
TROVATO
PIRATA DELLA STRADA CHE CAUSO’ INCIDENTE
Sarebbe una donna la responsabile
dell’incidente stradale avvenuto sulla Strada Statale 16
“Non abbiamo abbastanza prove per celebrare un processo”
Non essendo
una notizia molto importante, le fu dedicato soltanto un articolo a piè di
pagina, ma in quell’articolo c’era un nome. Bulma B., che si dichiarava essere una personalità abbastanza importante
all’epoca, per cui bisognava andare coi piedi di piombo in caso di un processo.
Scorse ancora le pagine, cercando notizie di un eventuale processo, ma tutte le
notizie si fermavano alle indagini – il che fece pensare a Kyosuke
che fossero ancora in corso dopo dieci anni.
Scosse la
testa per la rassegnazione, sentendo una rabbia montargli in corpo, per come le
cose andavano in questo Bel Paese che era l’Italia. Un pirata poteva
tranquillamente falciare un onesto lavoratore e passarla liscia perché “non
c’erano abbastanza prove per celebrare un processo”. Robe
da matti. Inoltre, quel nome, “Bulma B.”, compariva
soltanto una volta in quell’unico articolo, per poi non comparire più nelle
edizioni seguenti.
Dalla tasca
della giacca Kyosuke tirò fuori un taccuino con una
penna, e trascrisse alcune parti salienti dell’articolo, compreso il nome della
presunta colpevole, cercando di capire chi potesse essere. Il fatto che fosse
una personalità importante restringeva il suo campo d’azione, per cui sarebbe
diventato più facile stanarla.
Fece girare lo
sguardo verso la biblioteca semi-deserta. Con lui c’erano soltanto un paio di
vecchietti che leggevano il giornale, una ragazza che studiava dei vecchi
quotidiani, e la bibliotecaria addetta alla sezione giornali
che rilegava alcuni quotidiani della settimana precedente. Poi incontrò il suo
riflesso nello specchio della finestra. Vide un sé stesso consumato, smunto,
provato dall’avere un fratello ridotto ad una mezza larva umana… Succedeva
sempre così, quando andava a trovarlo… Hitoshi
riusciva sempre a dare i numeri, in un modo o nell’altro. Tante volte aveva
provato il desiderio di prendere un cuscino e soffocarlo durante il sonnellino
pomeridiano, ma si era sempre fermato con le lacrime agli occhi, ripetendo a sé
stesso che Hitoshi era la sua unica famiglia, e che
comunque c’era una lievissima speranza di operarlo e farlo tornare come prima…
Per cui si fermava e poi chiedeva perdono, pregando il Signore affinché gli
desse un segno. Il segno non era mai arrivato, da dieci anni a quella parte, maKyosuke restava in
fiduciosa attesa.
“Piuttosto
trovo quella puttana che ti ha ridotto così e le sfiguro il volto. Posso farlo, sono un medico.”
Fu un pensiero
improvviso. Venuto fuori come una carota che viene a galla in un minestrone.
Sì, avrebbe potuto pensare ad un piano per uccidere quella persona, e farsi
giustizia in quel modo… Le sue labbra si piegarono in un sogghigno.
*****
Capita.
Non
c’è una ragione precisa per cui ciò accada, si sa solo che succede senza che
nessuno ne conosca bene il perché.
Delle
sue facoltà (se così si poteva dire) l’avvocato Bracardi
non ricordava molto. Forse però un primo segnale di ciò che gli sarebbe stato
utile in un probabile futuro lo ebbe quand’era ancora un adolescente. Era la
notte prima degli esami di scuola superiore, quelli che lo avrebbero portato
all’università. A mezzanotte lui era ancora lì a studiare, sentendo gli occhi
che si stavano lentamente chiudendo per il troppo sonno arretrato. Con
l’intenzione di finire il capitolo, si sforzò di tenere gli occhi aperti e
continuare a leggere, sbadigliando di tanto in tanto.
Continuava
a pensare che ci fosse qualcosa che non andava.
Improvvisamente,
andò al telefono, e compose un numero.
-Carabinieri.-
Gli
rispose una voce maschile dall’altro capo del telefono.
-Pronto?
Mi … mi chiamo Gaspare Bracardi, abito in Via Delle
Botteghe Oscure 18, e… ho una strana sensazione.-
Per
un momento, il suo interlocutore sembrò non capire. Seguì un silenzio
abbastanza lungo, fino a che il militare al telefono non parlò.
-Le
chiedo scusa, ma non capisco. Che tipo di strana sensazione?-
-Come…
come se stesse per succedere qualcosa di brutto.-
-Giovanotto,
o mi spieghi che cosa vuoi oppure veniamo lì e ti portiamo in caserma. Scegli tu.-
Poi
improvvisamente ebbe una visione.
Vide
una banca che veniva rapinata da una banda di cinque uomini incappucciati, che
sparavano all’impazzata agli impiegati ed ai clienti dopo aver terminato le
operazioni di rastrellamento del denaro. E lui era lì a vederli come in un
film…
Quando
scosse la testa, era ormai tutto sparito.
-C’è
una banca che sta per essere rap………-
-Come
hai detto???-
Sentendo
il tono aggressivo, Gaspare si affrettò a chiudere la telefonata. S’inquietò
abbastanza, al pensiero di aver fatto una stronzata.
Il
giorno dopo, sul giornale della sera, lesse che effettivamente una banca era
stata rapinata quella stessa mattina, e che i rapinatori avevano ucciso più di
un impiegato e qualche cliente dell’Istituto. Letta la notizia, Gaspare si
sentì quasi mancare. Lui l’aveva visto a poche ore di distanza.
Nel
corso degli anni questa facoltà gli aveva permesso di superare qualche esame
all’università, e quando incominciò a praticare come avvocato, di riuscire a
capire come difendere al meglio i suoi clienti.
Ora,
in quello stesso istante, si sentiva allo stesso modo. Svegliato da quella
strana voce alla radio, che annunciava un incidente stradale, i suoi sensi si
erano messi all’erta. Seduto nel suo studio, guardò qua e là alla ricerca di
qualche spunto… Si mise a guardare le pareti, alle quali
erano appesi molti quadri raffiguranti paesaggi e stampe d’epoca, la sua Laurea
in Giurisprudenza e l’articolo di giornale che indicava la fine del Fascismo.
Sul
tavolo, teneva la fotografia della moglie defunta, e accanto, la foto di sua
figlia Eleonora.
Gli
venne un’idea. Prese in mano la cornetta del telefono e compose un numero.
-Pronto?-
Rispose
una voce femminile all’altro capo.
-Ciao
Eleonora.-
Con
una voce dolce e contenta allo stesso tempo, la ragazza rispose.
-Papà!
Ciao, come stai?-
-Benone,
direi… E tu?-
-Al
solito.-
-Ti
annoi, figliola?-
-Un
po’… Sai, con Francesco non andiamo mai da nessuna parte… e poi…-
-Beh,
almeno va tutto bene, se ci si annoia.-
-Sì
che va tutto bene. Eri preoccupato per qualcosa?-
-Effettivamente
sì. Come sta Andrea?-
Ci
fu un momento di silenzio anche quella volta. Eleonora sembrò sospirare, per
poi riprendere la conversazione.
-Sta
bene. Perché vuoi saperlo?-
-No,
niente… Forse … è stato solo un brutto sogno.-
-Oh
mio dio, papà… cos’hai sognato?-
In
breve, l’avvocato raccontò alla figlia il suo risveglio nei minimi particolari, del sogno che aveva fatto e di ciò che aveva
sentito non appena aveva aperto gli occhi al nuovo giorno.
-…e
poi ho sentito questa voce alla radio che diceva che c’era un tragico incidente
sulla superstrada per La
Rustica…-
-La Rustica?
Ahhhh…-
-Che
vuoi dire, figliola? Ne sai qualcosa?-
-Ma
come, non ti ricordi, papà?-
-Non…
non capisco.-
-E’
stato quel caso per cui dovesti aiutare la tua vicina di casa, Bulma. Lei ti chiese di non rivelare nulla e di cercare di
tenere le cose sotto controllo con i giornali, perché comunque lei era ancora
una persona bene in vista…-
Sorpreso,
l’avvocato ascoltò la figlia annuendo con la cornetta del telefono premuta
sull’orecchio, per non perdere nemmeno la più piccola parola.
-…Poi
non mi ricordo più cosa successe.-
-Ho
capito, grazie figliola. Puoi dirmi in che periodo più
o meno accadde?-
-Sarà
stato… Più o meno Maggio del ’99 o Giugno…-
Dalla
scrivania l’avvocato prese un foglietto e segnò quelle due date. Poi ringraziò
la figlia.
-Di
niente, papà. Vieni a trovarci ogni tanto! Sei sempre lì da solo in quella casa
che sembra una torre d’avorio!-
-Verrò
a trovarvi sicuramente. Ho proprio bisogno di una buona vacanza, a quanto pare.-
-Sei
sempre il benvenuto, losai.-
-Grazie
Eleonora. A presto. Un bacio… ciao.. ciao…-
-Ciao
Papà. Un bacione.-
Salutata
la figlia, l’avvocato riappese la cornetta. Prese il foglietto tra le dita e
uscì dallo studio.
Mancavano ancora molte ore all’incontro con Rei e Max
Mancavano
ancora molte ore all’incontro con Rei e Max. Prevedendo che li avrebbero presi
in giro entrambi, com’era loro usanza, Takao aveva
ben pensato di invitare Kei a passare il pomeriggio
insieme. Già il fatto che gli avesse buttato una pallina di carta con il suo
numero di telefono, era indice di molte cose… Per cui appena compose il numero
e Kei rispose, Takao non
provò alcun imbarazzo. Anzi, sorrise tra sé nel sentire la voce del ragazzo.
-Pronto?-
-C…ciao.-
Riconoscendo
la voce, Kei ridacchiò.
-Ah, sei tu…
ciao. Sei uno che non perde tempo, vero?-
-Più o meno.
Come va?-
-Non
diversamente da questa mattina.-
-Beh, almeno
non va peggio.-
Takao fece una risatina, maKei non si unì al coro. Imbarazzato, Takao
si portò una mano dietro la folta chioma di capelli, stringendo i denti e
ripetendosi a mente “Che idiota che idiota che idiotaaaaa”
– quando Kei lo apostrofò.
-Ehi, sei
ancora lì oppure sei collassato?-
-Eh? N..No, sono ancora qui.-
-Perché mi hai
chiamato?-
Colto in
contropiede, Takao pensò di dover buttare lì una
scusa qualunque.
-Volevo…
invitarti ad uscire con me.-
-Adesso?-
Sempre guidato
da quel suo cervellino, Takao rispose di sì.
-Okay, mi
vesto e sarò pronto. Tu intanto vieni a casa mia. Riesci a ricordare la strada,
vero?-
Takao restò a bocca aperta. Non poteva credere che avesse
accettato. Mormorò un altro “Sì” smozzicato al quale Kei
rispose con una risatina, conscio del potere che esercitava sul bel ragazzotto
moro… Una volta chiusa la chiamata, Takao si
precipitò in macchina e partì in sgommata alla volta del quartiere popolare
dove viveva Kei.
*****
Giunto a
destinazione, prese il cellulare e fece uno squillo a Kei.
Dopo pochi
minuti il ragazzo comparve dietro un portone, che si richiuse alle spalle. Era
vestito in modo elegante, con una maglietta a righe bianche e nere, un paio di
jeans attillati ed un paio di scarpe Vans a righe. Un
perfetto emo boy, se non fosse stato per la
capigliatura, che differiva dai canoni classici emo.
Lo osservò avvicinarsi e poi entrare nell’abitacolo della Getz.
-Ciao.-
-Ciao… sei
molto carino.-
-Grazie. Anche
tu.-
Gli scoccò un
occhiolino. Takao arrossì, mentre con la mano cercava
la chiave per avviare il motore. Pensando bene di aiutarlo, Kei
gli mise la chiave in mano e la girò. L’auto fece un balzo, perché la marcia
era inserita e Takao era stato tanto scemo da non
pigiare il pedale della frizione prima di avviare il motore. Risero entrambi di
questo piccolo incidente, poi Takao si lasciò
prendere di nuovo la mano e l’auto si mise in moto.
Giunsero nei
pressi della passeggiata del Gianicolo. Takao lasciò la
Getz in un posto appartato sotto un
albero, e presero a camminare.
-Non riesco a
credere che tu abbia accettato.-
-Perché?-
Takao non si aspettava quella domanda. Era possibile che Kei fosse un ragazzo “facile” dietro pagamento di denaro,
però era assai improbabile che uscisse con i suoi clienti. E Takao ne era uno, volente o nolente… gli aveva dato quasi
quattrocento euro la notte precedente. Si toccò la nuca
imbarazzato, ridacchiando.
-N..no, è solo che … Sai, tu mi …-
-…Ti piaccio,
non è vero?-
-Io… Io….
Ebbene sì.-
Keigli sorrise.
-Vieni,
andiamo su quella panchina.-
Si sedettero.
Ora erano in silenzio tutti e due, osservandosi l’uno con l’altro. Kei sembrava il selezionatore di una grande azienda e Takao il candidato per il posto di lavoro. Un lieve sorriso
comparve sulle labbra di Kei.
-…Devo dirti…
che anche tu mi piaci, in un certo senso.-
-D..davvero?-
-Sì. Davvero.
E non perché mi hai sganciato tutti quei soldi…-
Takao arrossì imbarazzato.
-Tu… tu mi
sembri davvero molto diverso. Prima d’oggi, tutti i ragazzi con cui sono stato
mi hanno usato come un giocattolo, pagando cifre anche parecchio superiori alla
nostra retta universitaria…-
-E ora sei stanco?-
Kei lo fulminò con lo sguardo.
-No. Non sono stanco. Questo lavoro mi piace.-
-Ah…-
Takao cambiò radicalmente espressione. Fu come venire
pugnalati da un ghiacciolo in pieno cuore. Così a Kei
piaceva fare il gigolò? E quei ragazzi erano veramente dei ragazzi della loro
età? Assolutamente no. Sapeva benissimo che erano tutti dei vecchi bavosi che
bramavano come lupi la carne fresca di uno studente ventiduenne. Gli venne da
guardarlo in faccia. Portava ancora gli occhiali da sole.
-Perché non mi
fai vedere cos’hai dietro gli occhiali da sole?-
-Non voglio.
Non sono affari tuoi.-
Era ritornato
amaro come la mattina all’università. Così, all’improvviso… Si chiese perché
fosse così restio a dargli delle risposte, ma ora che
l’aveva lì vicino, non poteva certo sprecare un’occasione così preziosa. Cercò
di fargli quante più domande possibili.
-Con chi vivi?-
-Vivo con… un
amico.-
-E chi sarebbe
questo amico, il tuo protettore?-
-Smettila!!!-
Urlò Kei, e Takao capì di aver colto
nel segno. Kei viveva con un protettore, che
sicuramente lo prendeva a botte ogni volta che poteva.
-Ti picchia,
non è vero? Dimmelo se è così, perché non ….-
-Ti ho detto
di smetterla. Non mi piace questo discorso, non farmi pentire di aver accettato
questo invito.-
-Okay. Scusa.-
Detto questo, Takao si alzò dalla panchina e lasciò Kei
da solo… dandogli le spalle. Pochissimo dopo, Kei
andò dietro Takao e gli gettò le braccia sulle
spalle, accoccolandosi dietro di lui e piangendogli sulla schiena. Istintivamente,
Takao si girò e lo abbracciò dolcemente, baciandogli
la fronte… Quando piangeva, Kei era adorabile… Come
un cucciolo. Lo strinse forte a sé, carezzandogli i capelli…
-…Takao… scusami tu. Sei il primo a cui ne parlo… Perché
sarebbe inutile nasconderti una verità… Vivo con un uomo che si chiama Vorkof. Lui è il mio protettore, ma è molto violento con
me. Lui mi paga l’università, ma mi ha detto di non farmi scoprire, altrimenti
indagherebbero su di lui… Io.. io voglio laurearmi, ma
ogni tanto lui dice che dovrò lavorare per lui, quindi una laurea non mi
servirebbe a nulla. Oh, mio dio, come sono disperato.-
Più o meno
ogni due tre parole, Kei singhiozzava violentemente,
ma Takao non lo interrompeva. Lo lasciò parlare, e
quando ebbe finito gli baciò la guancia, asciugandogli le lacrime.
-Kei… non temere, adesso ci sono qua io. Guarirò le tue
ferite, ma tu dovrai darmene la possibilità.-
-E come…?-
-Senti,
vorresti venire a vivere da me?-
-Da te…?-
-Sì. Io sono…
beh… insomma…-
Non gli
piaceva dire di essere ricco, di possedere molti soldi. Molto spesso se ne
vergognava, per questo andava in giro con una macchinetta molto modesta, e si
vestiva con abiti veramente molto spartani… Così cercò di scegliere bene le sue
parole.
-Io… ho una
bella casa, che i miei genitori mi hanno lasciato per quando vorrò andare a
viverci con una ragazza… E così… magari pensavo che…-
-Vorresti che
io venissi a vivere insieme a te?-
Takao annuì. Sulle sue labbra comparve un sorriso dolce.
Osservò Kei, che lo guardava incerto.
-…N… non
saprei. Tu credi che questo risolverebbe il problema? E se poi Vorkof cercherà di uccidermi?-
-Non lo farà.
Ti farò cambiare università, ci trasferiremo.. sarà
tutto più facile se verrai con me. Ho in mente tanti progetti, io…-
-…Tu…?-
-Io … io
voglio stare solo con te, Kei. Perché ti amo. Non
riuscirei ad amare nessun altro che non sia te.-
Sbalordito da
cotanta dichiarazione, Kei guardò negli occhi di Takao ancora per un momento, non sapendo bene cosa dire.
Era proprio lui che in passato sognava l’amore vero, quello che ogni regista e
scrittore aveva rappresentato nei film e nei libri che a lui erano piaciuti di
più… Eppure non avrebbe mai immaginato di trovarsi davanti una persona come Takao, che gli avrebbe dichiarato il suo amore in quel
modo. Immaginava sempre che la sua vita sarebbe stata quella di un puttano laureato… Ma forse stava per diventare qualcosa di
meno. Un laureato e basta. Niente di più. Tutto dipendeva da lui.
-T…Takao… Io… vorrei… vorrei uscire con te. Facciamo così? Ci
frequentiamo per un po’ e poi decidiamo insieme se poterci fidanzare. Che ne
dici?-
-Kei, vieni a vivere da me. Ti prego. È per il tuo bene che
ti faccio questa offerta.-
Ripensandoci,
vivere con Vorkof era un inferno. Oltre a subirsi le
botte, doveva anche tenere in ordine la casa, e se non ci riusciva erano
dolori. Chiuse gli occhi, quindi … rispose a Takao.
-V.. va bene, Takao. Vediamo cosa si
può fare. Okay?-
Luminoso di
felicità, Takao sorrise, e baciò sulle labbra il suo Kei.
Kei sorrise, rispondendo con passione al bacio… Strano, i
baci di Takao avevano il potere di calmarlo e
tranquillizzarlo al meglio. E Takao non gli
dispiaceva affatto, come ragazzo. Gli tastò i cuscinetti di ciccia che aveva…
pensando “Che adorabile pacioccone”.
*****
L’appartamento
di Lorenzo era un trilocale al settimo piano di un palazzo poco fuori Roma.
Dentro era piuttosto in disordine, dato che la padrona di casa, Claudia, la
madre di Lorenzo, era sempre troppo ubriaca per
permettersi di curare la casa. Mentre apriva la porta, Lorenzo chiese
gentilmente a Jason di non badare al disordine…
-Non
preoccuparti, ci sono abituato. Ho vissuto in appartamenti per studenti,
parecchio disordinati… Quindi non mi spaventerò.-
Varcata
la soglia, Jason si sentì investito da un leggero odore di chiuso. Storse il
naso, e non appena Lorenzo se ne accorse, si precipitò nel salone principale ad
aprire la finestra. Qui, in sottofondo, parlava la voce di Barbara D’Urso nel
suo programma “Pomeriggio Cinque”, che Claudia guardava sempre con una bella
lattina di birra accanto al divano, salvo poi addormentarsi dopo i primi cinque
minuti.
Lorenzo
fece segno a Jason di entrare, di accomodarsi. Non volle svegliare sua madre,
ma lei si svegliò ugualmente sentendo la variazione di persone e di temperatura
con la finestra aperta.
-Paolo…
Paolo…? Chiudi la finestra… c’è corrente…-
Biascicò
la donna, cercando di girarsi dall’altra parte. Con la mano cercò a tentoni il
telecomando, forse per spegnere la televisione, ma non gli riuscì di trovarlo, sebbene fosse a pochi centimetri dalla sua….
Coscia. Apriva e chiudeva la bocca, come un pesce che boccheggia… Infine
mugugnò qualche parola e si tirò su a sedere, barcollando leggermente. Lorenzo
sospirò e le andò vicino. Jason si avvicinò, tenendosi a distanza di sicurezza,
dietro al divano dove sedevano madre e figlio.
-Mamma,
non sono papà… Sono io, Lorenzo…-
-Lorenzo… E che ci fai … qui? Sei venuto a fare visita alla
tua mamma?-
-Oh,
mamma. E piantala di bere così tanto.-
Le
disse Lorenzo, prendendo la lattina di birra prima che lei potesse farlo, e
porgendole la bottiglia d’acqua. Si guardarono negli occhi. Negli occhi di sua
madre, Lorenzo lesse ciò che leggeva ogni giorno. Tristezza, dolore, voglia di
lasciarsi annegare in quel mare di alcool che lei stessa si era creata… e Buio.
Tanto buio. I suoi occhi erano spenti, depressi… Delicatamente, Lorenzo aiutò
la madre a bere dal collo della bottiglia… Le sorrise
amorevole, e lei incominciò a bere un po’ di quel liquido non tossico.
-V…
voglio… dormire.-
-Ti
spengo la televisione?-
-N…
No, voglio… voglio sentire se alla fine il bambino ritorna.-
Parlava
di una puntata andata in onda in inverno, che lei aveva visto e ne era rimasta
colpita. Ancora adesso, a distanza di mesi, pensava che ci fosse la stessa
puntata… E ripeteva sempre che voleva sapere se il bambino rapito era stato
ritrovato. Aprì e chiuse la bocca ancora una volta, distendendosi sul divano.
Lorenzo prese una coperta dal bracciolo del divano e la usò per coprire la
madre, che mormorando qualcosa di incomprensibile, si rimise a dormire…
-Mamma,
ho portato… un amico.-
Ma
Claudia era già partita. Mormorò un “Piacere di conoscerti” evidentemente
rivolto a Jason, senza nemmeno conoscerlo… Jason sorrise tragico, provando un
forte senso di tenerezza per Lorenzo e per sua madre, così complessata.
Lorenzo
tirò un altro sospirone, quindi si allontanò insieme a Jason.
Molto
velocemente, Lorenzo preparò due tazze di Tè, che andarono a bere in camera di
Lorenzo. Lui si sedette sul letto, e Jason sulla poltroncina della scrivania.
-…Da
quando mio padre non c’è più, mia madre è caduta in uno stato di depressione
nera. Non esce più di casa, non mangia più regolarmente, beve troppo e dorme di
più…-
-Mi
dispiace.-
-Cose
che succedono… Lei era molto innamorata di lui, anche se ogni tanto si lasciava
prendere dal vizio del bere… Litigavano, ma più o meno si amavano. La morte di
mio padre non le ha certo giovato.-
Sorseggiando
il tè, Jason annuì, e per fargli sentire che gli era
vicino, si accomodò sul suo letto accanto a lui.
-Sei
fortunato ad avere ancora una mamma. Io vivo con i miei zii in Inghilterra… non
ho mai conosciuto i miei genitori.-
-Orfano?-
-Mi
abbandonarono da neonato a mia zia, la sorella di mio padre. Lui e mia madre
non vollero mai riconoscermi, preferendo la bella vita agiata. Ancora oggi,
sento molto la mancanza di un papà vero e proprio.-
“Forse
è per questo che era insieme a quell’uomo così anziano” pensò Lorenzo, muovendo
la sua tazza di tè leggermente… Come se avesse letto i suoi pensieri, Jason gli
fece un debole sorriso.
-E
forse è per questo che ero fidanzato con quell’uomo.-
-Oh…-
-Ti
sei imbarazzato? Sei tutto rosso…-
-N…
no, assolutamente. Dimmi di più, eri fidanzato con lui da molto tempo?-
-Tre
anni.-
-Ah.
Un bel po’…-
-Già…
ci siamo conosciuti qui, a Roma. Lui è un avvocato, sposato per giunta. Però …
io ero il suo amante, e così…-
-Vieni
spesso a Roma, quindi?-
Jason
sospirò, mentre lo guardava con occhi tristi. Forse quella era l’ultima volta
che passeggiava per Roma con un ragazzo. Il dolore per la separazione era
ancora troppo fresco.
-O…
scusami.-
-Di
niente.-
Jason
sorrise a Lorenzo, e questi arrossì. Trovarsi un bel ragazzo inglese nella sua
stanza da letto, che fino a pochi mesi prima aveva condiviso con Lucas, lo faceva
sentire bene. Era come se Jason fosse circondato da un’aura benefica che
portava bontà dovunque andasse.
-E
tu… non ce l’hai un fidanzatino, Lorenzo?-
-I..io? …No.-
-Davvero?
E come mai?-
-Il mio ragazzo mi ha abbandonato qualche mese fa.-
-Oh,
povero. Mi dispiace…-
Lorenzo
rispose con un’alzata di spalle, mentre il suo sguardo vagava nel vuoto… Jason
gli prese gentilmente la mano, e gliela strinse. Lorenzo voltò il capo verso di
lui. Jason sorrideva.
-Coraggio.
Sei un così bel ragazzo…-
-Dici?-
-Sì.-
-A…
anche tu sei bello, Jason. E… penso proprio che tu sia sprecato, accanto a
uomini maturi.-
-Gli uomini maturi mi danno sicurezza.-
A
quella frase, Lorenzo si sentì pervadere da un senso di inadeguatezza. Fino a
poche ore fa voleva suicidarsi con una rivoltella, e adesso…? Adesso voleva
diventare sicuro? E perché, poi?
“Per piacere a
Jason.”
Jason gli sorrise.
-Ma non è
detto che non possa innamorarmi di… qualcuno più giovane.-
Aggiunse
l’inglese, come a voler dare un po’ di respiro al suo interlocutore, che era
dichiaratamente della stessa età.
A Lorenzo il
ragazzo piaceva, ma voleva vedere fino a che punto arrivava.
-Jason…?-
-Sì?-
-Che ne
diresti se io… ti invitassi a cena?-
Jason gli sorrise dolcemente.
-Sarebbe una
bella idea. Mi farebbe molto felice.-
Vedendo che il
ragazzo accettava, dopo mesi che riceveva soltanto rifiuti e dopo che si
struggeva sempre di più nel ricordo di Lucas, Lorenzo fece un saltino di gioia sul letto, sorridendo. Jason invece sentiva
la nostalgia per il suo anziano ex-fidanzato scomparire momento per momento, e
contemporaneamente sentiva crescere un affetto incredibile per il tassista
italiano.
Ore
diciotto. Fu intorno a quell’ora che Madoka perse
coscienza di sé stessa, trasformandosi in un’altra persona… o meglio, in
un’entità totalmente diversa da ciò che lei stessa era, più vendicativa e parecchio più pericolosa.
Dopo aver fatto la spesa, Madoka era dovuta andare a fare altre commissioni
importanti, tra cui la più importante di tutte: comprare una scatola di
medicinali calmanti. Sfortunatamente, all’unica farmacia che ancora gli faceva
credito, i medicinali erano finiti, per cui si era dovuta rassegnare e tornare
a casa, pregando iddio che Zenigata la chiamasse al più presto possibile. Con le mani sul
volante, strizzandolo a più non posso, guidava aspettando la chiamata… Di
sabato Zenigata chiudeva lo studio un po’ prima, ma confidava che il medico
le potesse fare un’eccezione. Si stava sentendo morire. La testa le pulsava per
il dolore ed il dispiacere di quella giornata così storta, le gambe le facevano
male e desiderava soltanto un po’ di pace… a casa.
Già, la casa…
fra qualche giorno le scadeva la rata dell’affitto, e in banca non aveva più
nulla. Si morse le labbra al pensiero di dover pagare l’affitto dando via la
sua verginità… scacciò quel pensiero dalla testa accendendo la radio.
Dolcemente, la musica si diffuse nell’abitacolo… c’era una canzone di Vasco
Rossi, che lei ascoltò tranquillamente.
All’improvviso,
però, l’auto mandò un suono ripetitivo, una specie di bip.
BIP-BIP-BIP-BIP-BIP-BIP…
-Checosa…?-
Madoka si fermò, lasciando suonare l’auto ancora per un
po’. Non riusciva a capire la fonte di quel suono. Provò a spegnere il motore,
ma il suono non cessava. Aprì la bocca con stupore, poi pensò che forse l’auto si era guastata e avrebbe dovuto sborsare altri soldi per
ripararla. Respirò a fondo, cercando di capire cosa fare. Il quadro degli
strumenti non dava segni di squilibrio apparente. C’erano il contagiri
azzerato, idem il tachimetro ed il contachilometri elettronico che segnava
soltanto i chilometri parziali e totali. Il livello della benzina era a posto
(vale a dire poco al di sotto della metà) e la temperatura dell’acqua era a
posto. Cosa cavolo voleva quella cazzo di macchina
tedesca???
BIP-BIP-BIP-BIP-BIP-BIP…
Quel
cicalino continuava a suonare, entrandole nel cervello, infastidendola
profondamente. Cercò di non pensarci, riaccese il motore e partì decisa alla
ricerca di un elettrauto, pregando iddio che non fosse nulla di più di un
semplice contatto tra i fusibili.
Nel
suo ritorno a casa, si infilò in una via a senso unico, piuttosto deserta…
Procedeva piano, mentre lo stereo suonava ora una canzone di Bruce Springsteen,
che lei ascoltò con attenzione cercando di distrarsi dal fastidioso cicalino
della Passat.
“Forse
potrei dare un’occhiata al libretto di istruzioni.”
Pensò,
mentre si accingeva a svoltare. Con la mente occupata da tutti i pensieri, non
si accorse di un segnale di “STOP” alla fine della via.
Passò
tranquillamente, e proprio in quel momento, arrivò un’auto da destra.
PEEEEEEEEE!!!!!!
L’impatto
fu violento. La Passat
guidata da Madoka andò a finire sul marciapiede, con
il semiasse mezzo rotto. Lei si prese un mezzo infarto, aprì la bocca in un
silenzioso urlo mentre ancora teneva le mani sul volante. Gli occhi spalancati
videro all’esterno un uomo che usciva dall’auto che l’aveva tamponata. Un uomo
sulla quarantina, vestito con giacca e camicia bianca ed un sacco di collane
d’oro appese al collo. Sembrava furibondo. Lei stava ancora respirando forte,
la bocca che si muoveva in su e in giù per la
disperazione. Aveva fatto un altro danno. E adesso…?
-Ahò, a stronza!!! A quale cazzo
stavi a pensà quando nun
hai visto er segnale de stop??? Puttana!!!-
Insulti.
Insulti su insulti, che l’uomo le stava gridando. Lentamente, tolse la sicura
dalla portiera e scese dall’auto, prendendo meccanicamente con sé la borsetta.
La sua psiche stava per collassare.
-M’hai
sentito??? Sto a parlàco’ te, puttana!!! Ma chi cazzo è quer
frocio che t’ha dato la patente???-
Lei
avanzò verso di lui, che già aveva serrato le mani a pugno, furibondo. La sua
auto, una bellissima Audi A8, presentava il frontale semidistrutto. Lui ancora
le stava urlando improperi, ma lei lo guardava con occhio fisso, come una
bambolina.
-Mòme dai tutti i tuoi dati der cazzo e me paghi seduta stante, m’hai capito??? Sei
passata co’ lo stopp, e la
costatazione amichevole nun te la firmo manco se
viene giù er Padreterno a farme
la machina nova!!!-
Detto
questo, lui tirò su col naso, voltandosi a guardare il disastro che aveva
combinato Madoka. Lei non ne poté più.
E
fu un istante.
L’uomo
vide Madoka scattare su di lui, con un coltello da
cucina in mano. Sentì la sua mano sinistra acchiappargli la camicia, mentre con
la destra lo pugnalava al collo.
-AAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!-
Urlò,
cadendo a terra. Si tamponò la ferita con la mano, ma lei si chinò e infierì
ancora su di lui, questa volta alla gola. Lui non ebbe più fiato nemmeno per
urlare, dato che lei gli aveva piantato il coltello così in profondità da
recidergli le corde vocali. I pochi pensieri che passarono nella testa
dell’uomo furono che non avrebbe mai più picchiato sua moglie, e se la donna
avrebbe avuto in seguito l’opportunità di incontrare Madoka,
forse l’avrebbe anche ringraziata per averle ucciso il marito.
Con
rabbia, Madoka infierì sul pover’uomo, riducendogli
il collo a brandelli. Quando fu sicura che l’uomo fosse morto, andò verso la
sua auto ed accese il motore. Parcheggiò tranquillamente e scese, chiudendo le
portiere. Miracolosamente, il cicalino aveva smesso di suonare.
“Verrò
a prenderti più tardi. Stronza. Proprio adesso dovevi
spegnerti?”
Resasi
conto di ciò che aveva appena fatto, non ne fu per niente contrariata.
Anzi.
Si
guardò le mani, che erano ora sporche di sangue.
A
quella vista, sorrise. Si sentiva bene, per lei giustizia era stata fatta.
Guardò
di nuovo l’uomo morto che lei aveva assassinato.
-Così
impari a non avere rispetto per una povera fanciulla indifesa.-
Mormorò
al cadavere. Poi lo trascinò fino al bagagliaio della Audi
e lo infilò dentro, chiudendo tutto. Si pulì le mani e pulì un po’ delle gocce
di sangue sull’asfalto con una salvietta profumata, quindi salì sulla Audi e partì, pronta a fare giustizia…
La
sua follia era appena incominciata.
*****
Nel
frattempo, Bulma e Chichi
se n’erano andate in un centro commerciale. Chichi,
tenendosi il pancione, osservava tutte le cose per l’infanzia, prendendo in
mano diversi pupazzetti e giocattoli colorati. Guardandola, Bulma
pensò a quando lei dovette scegliere per suo figlio Takao,
in quel lontano 1988. Rivide sé stessa, con i capelli più lunghi ed un pancione
piuttosto pronunciato (alla nascita Takao pesava
circa quattro chili. Un neonato piuttosto carnoso, a dispetto della minuteria
della madre) e soprattutto… si vide con suo marito accanto.
-Bulma?-
-Eh?
Dimmi Chichi.-
-Ti
eri incantata?-
-Oh,
no… mi ero solamente distratta.-
Le
sorrise. Provava una sorta di affetto fraterno per quella zingara incinta…
Pensò che forse avrebbe potuto adottarla o comunque tenerla con sé. Non voleva
assolutamente abbandonarla a sé stessa dopo che l’aveva tenuta così tanto tempo lontana dai suoi fratelli. Sempreché loro non la
stessero già cercando ed ora fossero in pericolo. Questa era una cosa di cui
non aveva tenuto conto. Si guardò intorno, improvvisamente spaventata, e lo
stomaco iniziò a mandarle dei segnali di dolore. Strinse i denti, respirando
forte, mentre Chichi cambiava reparto. Pensò di
seguirla, ma invece si mise dietro uno scaffale e le parlò.
-Chichi, io vado un attimo in bagno… se hai bisogno… Beh…
Chiamami sul cellulare.-
-Va
bene, Bulma.-
-Non
scappi, vero?-
Seguì
un lungo istante di silenzio.
-No,
non scappo…-
E
concluse con una risata. Siccome Bulma aveva ben poco
da ridere, si allontanò velocemente verso il bagno, tenendosi la pancia. Qui,
una donna con una bambina si voltarono a guardarla mentre entrava nel gabinetto
e chiudeva la porta.
Dentro,
lei prese il suo flaconcino di pillole analgesiche e se ne ficcò due in bocca, ingoiandole
con foga, battendosi la gola per farle scivolare meglio. Tutto ciò che ottenne
fu quasi di strozzarsi, quindi dovette correre fuori e abbeverarsi al
lavandino. Bevve a grandi sorsate dal lavandino a pedale, sentendosi un po’
meglio… Sospirò, lo stomaco di nuovo calmo… ma fino a quanto? Ripensò di essere
stata parecchio scema ad essersene andata così
liberamente in giro con un mostro che le stava divorando lo stomaco.
Uscita
dalla toilette, si guardò intorno. Poco lontano, c’era
un bar. E nel bar, seduto ad un tavolino, c’era … suo marito.
Lo
studiò a distanza. Era curvo sulla poltroncina, portava gli occhiali scuri e
nella mano destra teneva un bicchiere di qualcosa di alcoolico, probabilmente
un Glen Grant, l’unico liquore che l’uomo preferiva bere. Se lo portò alle
labbra, che poi si leccò con la punta della lingua. Poi scosse la testa,
poggiando il bicchiere. Come se lei lo avesse chiamato, lui voltò la testa, ed
i loro sguardi si incrociarono. Imbarazzata come una bambina che ha appena
scoperto i suoi genitori fare l’amore, Bulma guardò
da più parti, non sapendo bene cosa fare. Vedendo che Vegeta non reagiva, gli
si avvicinò. Prese una sedia e si sedette accanto a lui.
-Ciao…-
-Ciao.-
-Che
ci fai qui?-
-Ni… niente. Stavo solo… schiarendomi le idee.-
Bulma incrociò le braccia. Sperava che Vegeta le confessasse
di avere un’amante, ma si tenne sul vago e ascoltò le balle che il marito aveva
da dirle. Erano sposati da circa vent’anni, ma in quel frangente sembravano due
sconosciuti. Si guardarono negli occhi. Vegeta portava ancora gli occhiali
scuri. Come se le avesse letto nel pensiero, Vegeta portò una mano agli
occhiali e se li tolse, rivelando i suoi occhi. Non più protetti da quei due
vetri neri, gli occhi di Vegeta apparivano arrossati e lucidi, come qualcuno
che non aveva dormito abbastanza durante la notte oppure … qualcuno che avesse
pianto. Bulma socchiuse le labbra, ma non chiese
nulla al marito, non tanto per discrezione nei suoi confronti. Quanto per
studiare una possibile tattica di mobbing verso il marito. Ce l’aveva lì tutto
per sé, ed avrebbe potuto sputtanarlo in qualunque momento, chiedergli chi
fosse la sua amante, perché la tradisse…
Ma
non fece nulla di tutto questo.
Vegeta
abbassò lo sguardo, come un cagnolino sottomesso che si vergogna per qualcosa
che ha fatto al suo padroncino… Di colpo, Bulma si
sentì colpevole per aver tradito il marito quella notte, di essere andata in
discoteca e di essersi data alla pazza gioia, salvo poi trovarsi stuprata da
quello schifoso di Rudy…
-Che
cos’hai, Vegeta…?-
-Nulla.
Sono solo… un po’… stanco.-
-Hai
l’aria di uno a cui è mancata una persona a cui tenevi tanto.-
Ironizzò
Bulma, pentendosene immediatamente. Vegeta la squadrò
con amarezza, poi le distolse lo sguardo e bevve un altro sorso del suo Glen
Grant.
-…So
tutto, Vegeta.-
Vegeta
non reagì a quella frase.
-”Tutto”
cosa?-
-Vegeta…
finiscila di fare la commedia. Tu hai un’amante. Coraggio, dimmi chi è e
facciamola pure finita, se è questo che vuoi.-
-Si
può sapere che cazzo ti prende, all’improvviso? Io non ho nessuna amante, e …-
-…E
allora perché sei sempre fuori di casa, hai sempre qualcosa da fare, non ci sei
mai per me né per tuo figlio?-
Il
medicinale che si era appena ingollata le stava facendo lentamente effetto.
Avvertiva un leggerissimo mormorio all’interno del suo stomaco, ma non c’era
traccia di dolore. Era stata una fortunata coincidenza incontrare suo marito
proprio pochi istanti dopo aver preso la sua medicina.
-Bulma… Vedi, io… Ho cinquantotto
anni. Eppure… non mi sento realizzato, non capisco che cosa mi stia succedendo.
Ma … Tu sei nei miei progetti, io non voglio lasciarti indietro. E nostro
figlio… c’è anche lui. Mi credi?-
Sembrava
sincero. I suoi occhi li conosceva bene, oppure Vegeta era un abile attore.
Possibile che si fosse sbagliata su tutto? Sul fatto che avesse un’amante e che
fosse addirittura felice? Felice non lo era per
niente, e anzi… dopo quella rivelazione, Bulma si era
praticamente mossa a compassione per il suo povero marito. Frenò l’impulso di
toccargli le mani.
-No.-
Rispose
lei, guardandolo intensamente negli occhi. In quegli occhi azzurro ghiaccio, Bulma conteneva tutta la sua personalità di spietata
imprenditrice che era stata fino a qualche anno prima.
-Bulma… ti prego.-
-Non
ti credo. Perché dovrei? Da un po’ di tempo a questa parte
sei assente, sconosciuto. Non… non so se voglio ancora crederti. Quante
palle mi hai raccontato finora?-
In
quanto a palle, lei ne teneva una bella grossa. E nel suo stomaco: il suo
tumore. Lei gli aveva tenuto nascosto l’incontro con la sua dottoressa, e di
conseguenza anche la diagnosi. Ora era lei a sentirsi una fottuta mentitrice,
una poco di buono… non sapeva cosa dire, ma soprattutto... Cosa fare.
Le
venne un’idea improvvisa.
-Ascoltami,
Vegeta… Io non so a che gioco tu stia giocando, o che cosa tu voglia fare della
tua vita. Quel che adesso conta è che dobbiamo sistemare tutto. Questa sera
vieni a Villa Borghese. Se non ci sarò, tu aspettami…-
-Fino
a quanto dovrò aspettarti?-
-Non
importa. Tu aspettami, e se non arrivo… vorrà dire che ho risolto a modo mio.-
Vegeta
aprì la bocca, sconcertato, cercando parole che non riusciva a trovare…
sentendo un orologio che si accendeva. Più che un orologio, una bomba ad
orologeria. Che sarebbe esplosa nell’eventualità che Bulma
non si fosse presentata all’appuntamento con suo marito quella sera a Villa
Borghese. Si guardarono per un lungo, lunghissimo istante.
-Verrai?-
-Io
verrò. E tu?-
Bulma non sorrise, né si degnò di rispondergli. Lentamente
raccolse la sua borsetta e si allontanò, guardandolo intensamente, fino a che
non sparì dietro ad una colonna del grande centro commerciale.
Nel cielo di Roma, il sole si stava lentamente spegnendo, per lasciare
posto alla sera imminente
Nel cielo di
Roma, il sole si stava lentamente spegnendo, per lasciare posto alla sera
imminente. Con il vento nei capelli e la furia omicida nel cuore e nella mente,
Madoka guidava a tutta birra, senza una meta precisa.
Ebbra della sua stessa collera ed in qualche modo eccitata dal fatto di aver
assassinato un uomo con un coltello da cucina, si sentiva in dovere di rifarlo.
“Io sono Maddie, l’angelo della morte inviato da Nostro Signore su
questa empia terra, a portare la sua parola ed il suo castigo contro i mortali
che tanto male hanno portato…”
Si ripeteva in
testa, completamente andata. Dimentica di tutto, anche del fatto che Zenigata stesse
provando a chiamarla da ore ma che il suo cellulare risultava spento.
Pochi istanti prima, guardandolo, aveva ridacchiato, pensando che non le
sarebbe stato più utile.
E l’aveva
gettato a fare un bagno nel Tevere.
“Da domani
sarò viva o sarò morta. Dovunque sarò, nessuno potrà più farmi del male. Mai più per il resto della mia vita.”
Si fermò in
un’armeria. Molto velocemente scese dall’auto, lasciando acceso il motore. Il
commesso la vide entrare come una furia, e si allarmò per un momento.
-Posso… Posso
aiutarla in qualche modo, signorina?-
Lei lo guardò
… e per un attimo si guardarono, come studiandosi a vicenda. L’uomo
aveva tutta l’aria di stare pensando “E adesso che cazzo ci fa una ragazza in
un’armeria? Per di più è quasi ora di chiusura…” Come
avendo intuito i suoi pensieri, lei sentì montare una rabbia selvaggia, ma
cercò di controllarsi, tenendo ben sottomano la borsetta.
Sfoderò un
sorriso a trentadue denti all’impiegato dietro il bancone.
-Certo… vorrei
vedere… quei fucili lì dietro di lei.-
-Questi?
D’accordo, signorina. Le faccio notare però che sto per chiudere, quindi se lei
volesse…-
Se fosse andato
avanti a parlare, sicuramente le avrebbe consigliato di tornare fra due giorni,
Lunedì, per formalizzare l’acquisto dietro visione del porto d’armi. In realtà Madoka non aveva alcun porto d’armi e nemmeno voleva
acquistare un’arma da fuoco… Voleva solo “prenderne una in prestito”… Più
potente del coltello da cucina che ora stringeva nella mano destra.
Il coltello si
piantò nella giugulare del commesso, che mandò un grido sommesso di dolore e
stupore.
-Oooooohhhh!!!-
Digrignando i
denti, lei inarcò le labbra in un ghigno malvagio, poi tirò via il coltello dal
collo dell’uomo. Mentre lui si accasciava a terra, lei gli andò sopra. Prima
ancora che lui potesse aprire un cassetto (che scivolò fuori rivelando una
Beretta M92F), lei gli balzò addosso, recidendogli la gola con la grossa lama,
poi accoltellandolo al cuore. L’uomo morì pochi secondi dopo, dissanguato e con
gli occhi sbarrati.
-Così impari a
fare il maschilista con me, porco.-
Alzandosi,
pensò che doveva fare in fretta… Guardò intorno, notando
che tutte le armi erano inchiodate alla rastrelliera. Perquisì l’uomo,
trovandogli addosso un mazzo di chiavi. Non aveva tempo
per provarle tutte, quindi avrebbe dovuto ripiegare su un’altra arma.
Le cadde
l’occhio sulla pistola caduta fuori dal cassetto nel bancone.
La prese in
mano. Era una Beretta M92F, quella usata dalla polizia. Non era pesantissima,
pesava forse poco più di un telefono cellulare vecchio modello. Con le sue
conoscenze d’inglese, Madoka vide una levetta che
diceva “Safe”, ed intuì che fosse la sicura. Poi
premette un pulsante sul calcio della pistola e il caricatore scivolò fuori. Rastrellò
il negozio in cerca di altri caricatori come quello e ne trovò una scatola
piena. Ne prese una decina, e fu pronta ad andare a vendicarsi.
Nel frattempo,
una telecamera di sorveglianza aveva ripreso tutto quanto.
*****
-…Certo che da
qui il tramonto si vede proprio bene…-
-Già… è
semplicemente… stupendo.-
Di tramonti in
vita sua ne aveva visti abbastanza, Lorenzo,
specialmente quando guidava nei turni pomeridiano - serali. Nei momenti di
svago la sua testa si perdeva ad osservare le miriadi di colori che assumevano
le nubi stagliandosi all’orizzonte, mentre la sua fantasia dava loro delle
forme precise… Una volta un drago, un’altra volta un bel ragazzo che volava nel
cielo, un’altra volta ancora il volto di una persona conosciuta.
-…Lucas…-
-Cosa?-
Chiese Jason,
e subito osservò il suo quieto osservare le nubi.
-Oh… niente.-
Rispose
Lorenzo, leggermente imbarazzato. Jason gli sorrise.
-Guardare un
tramonto da solo è bello, ma in compagnia lo è ancora di più.-
-Ogni tanto
guardavo i tramonti col mio amante…-
-Ah… sì?-
Jason annuì.
-Ci piaceva
passare del tempo insieme. Qualche volta andavamo anche in discoteca, qui a
Roma… al Gay Village. Ma era sempre una difficoltà
andarci… lui aveva sempre paura di venire scoperto da qualcuno. Sai, ti ho già
detto che è un avvocato, e che ha moglie e figli.-
Lorenzo
annuì, sospirando. Non sapeva dire se stesse aiutano Jason a dimenticarlo
oppure se lui fosse ancora così innamorato. Quel che era certo era che il
bell’inglese era abbastanza tranquillo e in un certo senso si sentiva bene a
stare con lui.
-Jason?-
-Sì?-
-Che…
che lavoro fai tu a Londra?-
-Io…
sono disoccupato. Non riesco a trovare lavoro da due anni. Prima facevo
l’impiegato presso un’azienda di trasporti.-
-Capisco…-
-Tu
fai il guidatore di taxi per molto tempo?-
Evidentemente
voleva dire “Da molto tempo”, ma intuì che con l’italiano non ce la faceva più
che tanto.
-Un
po’. Mio padre è morto, e dato che mia madre non lavora, io ho dovuto lasciare
l’università e prendere la licenza di mio padre. E così sono diventato un
tassista.-
-Tas-sista? È così che voi dite?-
-Sì
esatto. Ma tu puoi chiamarmi “guidatore di taxi”, se ti è più comodo.-
Lorenzo
gli fece l’occhiolino, e Jason si mise a ridere. Inizialmente anche Lorenzo
ridacchiò, poi si unì alle fragorose risate di Jason… mentre tutta la gente che
era lì li stava guardando. Diamine, erano secoli che non rideva così con
qualcuno. Nemmeno con Lucas ci riusciva, benché Lucas fosse un ragazzo molto
solare e divertente. Si appoggiarono l’uno all’altro, ridacchiando, ridendo
ancora delle loro diversità linguistiche. Poi si guardarono negli occhi, per un
lungo istante.
I
loro visi si avvicinarono, mentre gli occhi si socchiudevano… e infine
successe. Dolcemente, Jason e Lorenzo si baciarono alla luce di quel tramonto
romano. Fu un bacio molto dolce, molto delicato per entrambi, tanto che avevano
assunto la stessa identica posizione: abbracciati l’uno con l’altro.
Si
staccarono per un istante, poi si guardarono negli occhi.
Jason
sorrise a Lorenzo.
Lorenzo
gli carezzò la guancia sinistra con il palmo della mano…
-…You’re such a lovely guy.-
“Sei un ragazzoamorevole.”
Ancora guardando il bell’inglese
e carezzandogli la guancia, Lorenzo gli rubò un altro bacio dalle labbra, aggiungendo
-So are you. My sweet english boy.-
“Così
sei tu. Mio dolce ragazzo inglese.”
Jason
ridacchiò, poi sorrise , dandogli un altro bacio sulle
labbra e portando le sue mani a quella di Lorenzo, strofinandola contro la sua
guancia.
*****
Nello
stesso istante, Takao e Kei
stavano salendo la scalinata per la terrazza. Erano arrivati al penultimo
gradino, quando in lontananza Takao vide una persona
che conosceva.
-Lorenzo?!?-
Il
tassista si girò, ed il ragazzo che era con lui anche. Si sciolsero da un
abbraccio romantico, e Takao ebbe l’impressione di
aver disturbato entrambi con il suo starnazzare. Arrossì leggermente,
poi corse verso l’amico. Kei si tenne in disparte.
-Ehi…
ma tu sei… Takao?-
-Sì.
Sono proprio io.-
-Tutto
bene?-
-Sì…
che combinazione, ritrovarci qui. E il taxi dove l’hai lasciato?-
-L’ho
abbandonato in un posteggio qua vicino. Non potevo salire qui sopra con quello.-
Risero
di gusto, Lorenzo, Takao e anche Jason. Soltanto Kei non rise.
-Oh…
ehm… vi presento… Jason.-
-Hi… C..ciao!-
-Ciao
a te, sei un amico di Lorenzo?-
-Ehm
… sì.-
Rispose
timidamente Jason, sorridendo al ragazzotto giapponese. Kei
era ancora indietro, e Takao se ne accorse.
-Kei.. vieni qui, dai.-
Kei si avvicinò, non salutò nessuno apertamente se non con
un “ciao”. Lorenzo lo riconobbe come “il gigolò di Viale dei Giardini”, ma non
esplicò il suo pensiero in pubblico… Entrambi lo salutarono.
-Bel
posto, eh?-
-Già,
bellissimo.-
-Io
ci vengo spesso, qui… però sono sempre solo.-
Disse
inaspettatamente Kei. E da lì i quattro iniziarono a
parlare. Tranquillamente, come quattro amici che si incontrano per una normale
uscita di tardo pomeriggio… Poco dopo Lorenzo andò anche al bar e offrì una
consumazione a tutti. Takao prese un sorbetto, Jason
da buon inglese preferì un tè freddo, mentre Kei si
accontentò di un caffè. Per sé prese una cedrata, ma la cosa più bella era che
forse si era trovato degli amici…
Guardò
Jason.
…Ed
un fidanzato.
Sorrise,
sentendosi felice, per la prima volta dopo tanti mesi.
L’avvocato Bracardi si svegliò di soprassalto sulla sua poltrona,
nella luce fioca del televisore che trasmetteva le immagini di un telefilm che
davano sempre dopo il telegiornale sulla quarta rete. Strabuzzò gli occhi,
ripetendosi quelle parole in testa… cosa volevano dire?
La sua
intuizione gli consentiva di conoscere in anticipo certi eventi, ma adesso che
era anziano, non riusciva a capire cosa significassero quelle nuove parole
della sua visione onirica.
Poggiò la
testa allo schienale, massaggiandosi le tempie e cercando di ricostruire il
sogno che aveva fatto.
“…Sono sicuro
che c’erano tre persone. Una era in un letto, l’altra
era in piedi e brandiva un’arma… mentre l’altra ancora era seduta da qualche
parte…”
Benché avesse
smesso da tempo, andò a cercarsi una sigaretta.
Nel cassetto
del televisore ne teneva ancora un pacchetto, bello vecchio. Forse poteva avere
una ventina d’anni, e Bracardi sorrise al pensiero di
fumarsi una bionda ventenne. Ridacchiò, cacciandosi la sigaretta in bocca ed
accendendola con un fiammifero che era lì nel pacchetto.
Fumando,
cominciò a riflettere.
“…Uno era un
uomo. L’altra era una donna… ed anche l’altra… Una soffriva parecchio, come se
avesse un mostro nel corpo.”
…è più giusto difendere chi già soffre
oppure chi soffre per causa propria?
Quella domanda
improvvisa gli raggelò il sangue nelle vene.
Ora gli era
tutto più chiaro, lampante, arrivato come una scossa elettrica attraverso il suo
corpo. Gli sarebbe stata dura trovare la persona che cercava, ma decise di non
perdere neanche un minuto.
Essendo così anziano,
l’avvocato non aveva più la patente di guida, ma
ancora possedeva la sua auto (che parcheggiata lì in garage riusciva soltanto a
dare fastidio al suo vicino di appartamento, il signor Vegeta, e lui lo
sapeva), una vecchia Alfa Romeo 75 rimasta ferma lì da anni, mentre lui
continuava a pagarne il bollo e l’assicurazione… Grazie a qualche intervento di
manutenzione effettuato nel tempo libero, la vettura funzionava ancora
benissimo come quando l’aveva comprata, nel lontano 1987. Seduto al posto di
guida, l’avvocato Bracardi girò la chiave nel quadro
ed il motore rombò. Subito dopo partì velocemente.
“…Se mi
dovessero beccare a guidare senza la patente, chi se ne importa. Sto andando a
salvare la vita di una persona!”
*****
Alle otto e
venti, Bulma e ChiChi erano
sedute in una pizzeria molto raffinata. Durante il loro giro all’ipermercato, ChiChi si era cambiata il vestito. Era sempre un vestito
lungo, però di nuovo c’erano le scarpe. Un paio di ballerine molto comode. I
capelli erano stati lavati ed acconciati da un parrucchiere del Centro dove Bulma andava spesso. Costo totale dell’operazione,
centosessanta euro.
-Bulma… Io non so come ringraziarti, oggi ho passato una
giornata davvero fantastica insieme a te. Credevo che persone buone come te
esistessero soltanto nei telefilm.-
-Le persone buone sono dappertutto, è solo che spesso non tendono
ad esporsi più di tanto. Essere buoni non è sempre una
prerogativa di sicurezza.-
-Cosa vuoi
dire?-
-Voglio dire
che il mondo è pieno di lupi. E se tu sei una pecora molto buona, alla fine i
lupi ti mangeranno. Per cui ci vuole una buona misura, nell’essere
buoni.-
-E tu… sei
misurata?-
-Non lo ero
fino a ieri.-
-Ooohh… e cos’è successo che ti ha fatto cambiare idea?-
-Diciamo che…
non vorrei presentarmi davanti all’Onnipotente con tanti pesi nel cuore.-
-Hai dei pesi
nel cuore, Bulma…? E che cos’è che ti pesa?-
-Non lo so...
O forse sì, ma … forse non è il caso di parlarne.-
-Posso
aiutarti, se vuoi.-
-E come?-
Domandò Bulma. A quel punto, ChiChi le
sorrise e le prese la mano, cominciando ad accarezzarla. Per tutto il giorno Bulma era stata come la sua sorella maggiore, comprandole
cose, portandola con sé, godendosi la sua compagnia. Perché si sentiva bene.
Perché in tutta la sua vita non aveva mai provato a portarsi in giro qualcuno,
così disinteressatamente… E adesso forse ChiChi
voleva ricambiare a modo suo. Sentì la mano morbida di ChiChi
toccare la sua, sfiorarla con le dita, come se volesse leggerle la mano.
-Tu lo sai che
noi zingare sappiamo leggere la mano, non è vero?-
-Per sentito dire, lo so.-
Si sorrisero.
Allora ChiChi abbassò lo sguardo sulla mano di Bulma… strizzò leggermente gli occhi, passando l’indice sul
palmo della mano in modo trasversale, e poi in senso contrario… Bulma si sentì piuttosto appagata da quel contatto. Ebbe un
fremito di piacere. Nonostante fosse una donna a toccarla.
ChiChi sospirò.
-Oh,
cara … La tua vita è molto infelice, non è vero?-
-Più
o meno… Diciamo che i soldi non fanno la felicità.-
ChiChi continuò nella sua analisi, e spalancò gli occhi in
un’espressione di tristezza.
-…Ci
sono molti uomini che ti ammirano, ma hanno tutti paura
di te. Anche tuo marito. E ci sono probabilità che lui ti tradisca.-
-L’avevo
intuito che mi tradisse, quello stronzo.-
-…Ma
non è un tradimento d’amore. È solo un… gioco.-
-Meno
male. Speriamo che non abbia giocato troppo, allora!-
Ridacchiarono
insieme… Poi ChiChi passò il
pollice su una linea della mano di Bulma, e la
sua espressione cambiò in peggio.
-Oh
mio dio… Vedo che hai… una cosa brutta. Qualcosa che non va in te, nella tua
salute. Dovresti… andare da un dottore e farti visitare.-
A
quelle parole, Bulma la guardò con un’espressione
neutra. Invece che sentirsi spaventata, Bulma le
sorrise. ChiChi non capì. Subito dopo Bulma le spiegò della sua malattia, del fatto che suo
marito la tradiva, e anche dell’appuntamento che si erano dati per quella sera…
ChiChi ascoltava attentamente, nonostante fosse
parecchio dispiaciuta del fatto che Bulma fosse
ammalata di tumore e non sapeva nemmeno quanti giorni le restavano da vivere…
-Ma…
ma perché non ti fai curare,Bulma?-
-E
a cosa servirebbe? A farmi vivere ancora? A prolungare le mie sofferenze? E poi
non c’è fretta… Questo bastardo dentro di me sta avanzando in modo molto lento,
per cui non c’è pericolo… almeno per il momento.-
-Io
voglio che tu viva ancora, Bulma. Io… vorrei uscire
di nuovo con te, vorrei…-
-Vorresti
venire a vivere con noi?-
ChiChi aprì la bocca in un “oh” di stupore.
-Venire
a vivere con voi? Con la tua famiglia?-
Bulma annuì, sorridendo.
-Certo.
Ti ho già detto che ho un figlio? Si chiama Takao, ha
vent’anni e studia all’Università… Se vuoi potresti stabilirti da noi, ho
un’altra stanza… Ti potrei adottare come mia figlia, ti proteggerei dai tuoi
fratelli.-
-Oh,
io… non … non saprei. Devo pensarci. E poi… avrei anche il mio bambino.-
-Non
c’è problema, adotteremo anche lui.-
Sorrise
Bulma, tenendo la mano a ChiChi.
Lei era scombussolata… Non sapeva se accettare quella proposta. Temeva che i
suoi fratelli l’avrebbero cercata e gliel’avrebbero
fatta pagare una volta trovata… Ancora adesso si domandava se non la stessero
già cercando… Era passato troppo tempo rispetto all’orario in cui sarebbe
dovuta tornare a casa e portar loro i suoi proventi dei furti.
-Stai
pensando ai tuoi fratelli, non è vero?-
-Oh
mio dio, sì.-
-Dimmi
dove vivono. E io li denuncerò per conto tuo.-
-Ma
io ho paura!!!-
Bulma l’abbracciò… Alcuni clienti seduti ai tavoli si
girarono a vedere chi aveva gridato, ma Bulma non se
ne curò. Consolò ChiChi con tante carezze e dandole
dei baci sulla guancia… Le sorrise.
-Non
avere paura. Con me sei al sicuro.-
-Sicura?-
-Sicurissima.-
-Oh
Bulma… Sono… sono così commossa… mi sento così bene
insieme a te.-
-E
anch’io sto bene insieme a te, ChiChi.-
Si
sorrisero, come due amiche per la pelle, unendo le loro mani insieme.
-Signore,
le vostre pizze.-
Appena
il cameriere arrivò, posando le pizze, loro si staccarono.
-Beh…
buon appetito, ChiChi!-
-Buon
appetito, Bulma!-
Ed
incominciarono a mangiare di gusto le pizze più buone di Roma.
*****
Distesa
sul divano, a molti chilometri di distanza, Claudia dormicchiava con in sottofondo la sigla d’inizio di una fiction che
andava in onda sul quinto canale a quell’ora. Ma che cos’erano diventate per
lei, Claudia Finelli, le ore? Soltanto delle mere
convenzioni per dividere un giorno, dei limiti
insensati per chi non aveva tempo da perdere. Già… il tempo. Come lo utilizzava, il suo tempo, da tre anni a quella parte? Si
ubriacava, poltriva sul divano… mentre la casa era un lupanare e suo figlio
andava in giro con il taxi di suo padre, lasciandola sola.
Per
la prima volta dopo tre anni, si sentì veramente ancora più sola. La morte di
suo marito l’aveva lasciata senza parole, sconvolta, abbandonata a sé stessa.
Incapace di vedere oltre quella nera notte, non si rendeva conto di stare
trascinando Lorenzo insieme a lei… ma lui aveva con sé un piccolo lume: la
speranza, unita al bene che ancora voleva alla sua mamma.
-…Lorenzo….
Vieni dalla tua mamma…-
Mormorò
nella penombra della sera… Ma nessuno le rispose. Dalla finestra venivano
rumori di auto, clacson e motori, e sirene… Ma Lorenzo non c’era.
-…Voglio…
voglio andare a Parigi, a Londra… a Barcellona… Con te, Lorenzo. Voglio passare
con te gli anni che mi restano da vivere. Io… ti voglio bene, amore mio… Sei
proprio come tuo padre, e sei l’unico ricordo che di lui mi è rimasto…-
Cercò
di alzarsi dal divano, ma non le riuscì. Le si era acceso uno strano dolore
alla milza, che le pulsava come un tizzone ardente.
-Lorenzo…. Aiuto….-
Il
dolore era sempre più forte, e la mandò in ginocchio sulla moquette. Aprì la
bocca, dolorante… E strisciò fino alla porta che dava sul corridoio, in cerca
del telefono. Spaventatissima, tirò il filo dell’apparecchio, che cadde sul
pavimento con un tonfo plastico. Prese la cornetta. Dava libero. Compose il numero
per le emergenze.
-Pronto
Intervento, buonasera.-
-Pronto…
aiuto.. sto male, vi prego… venite presto!-
Con
molta calma, la centralinista le chiese di darle il suo indirizzo. Con la mente
annebbiata, Claudia rispose dando l’indirizzo. Quasi piangeva dal dolore.
-Aiuto…
Aiutatemi vi prego.-
-Saremo
lì al più presto possibile, signora! Quali sono i sintomi?-
-Mi
fa male… male… la m…milza…. Ahi…. Sto … morendo…-
-Non
la faremo morire, signora. Si calmi, si sieda e chieda
aiuto ad un vicino.-
L’avrebbe
fatto volentieri, se non avesse saputo che l’appartamento di fronte a loro era
abbandonato da circa dieci anni… Strinse il telefono così forte che per poco
non le si frantumò nella mano, piangendo e delirando.
-Aiutatemi…
avvisate mio figlio, si chiama Lorenzo. Ha ventiquattro anni, ditegli che gli
voglio bene, ditegli che mi dispiace …-
-Lo
chiameremo, signora, lo faremo. Ora si calmi, che…-
-VI
PREGO!!!-
Ma
la comunicazione si interruppe, e lei cadde in uno stato di dolore che le
annebbiò la vista… Per un tempo indefinito vide il corridoio allungarsi e
girarle attorno come una trottola, poi lo vide contrarsi in sé stesso, ed
assumere delle inquietanti ombre scure mescolate alla fioca luce della finestra
del bagno, come in una visione spettrale e terrificante… I quadri alle pareti
sembravano occhi che la guardavano con disprezzo, mentre lei cercava di
sottrarsi a quelle orribili visioni… Si appoggiò al mobile dove era il
telefono, tenendo il medesimo a portata di mano, pronta
a chiamare anche i carabinieri se fosse stato necessario. Piangeva… e per di
più sentiva di voler dormire… Infine, sentì le sirene di un’ambulanza che si
avvicinava… Sorrise. Chiuse gli occhi, dolorante e sfinita.
Per Takao il sabato sera era stato un momento di baldorie con la “B”
maiuscola, nel senso che fino all’inverno si divertiva come un matto, poi c’era
stato il suo periodo di fermo a causa dello studio e di Kei che gli aveva
rubato il cuore, ma in un certo
Per Takao il sabato sera era stato un momento di baldorie con
la “B” maiuscola, nel senso che fino all’inverno si divertiva come un matto,
poi c’era stato il suo periodo di fermo a causa dello studio e di Kei che gli aveva rubato il cuore, ma in un certo senso,
era contento di tornare a folleggiare, anche se il futuro avesse previsto che
sarebbe stato solo per quella notte.
Con lui, c’era
finalmente Kei, che aveva accettato di passare la
serata insieme alla sua compagnia, e alla stessa si erano aggiunti anche quel
tassista di nome Lorenzo che aveva accompagnato Takao
e Kei a casa del moro giapponese, ed un suo amico
biondo che parlava poco l’italiano ma in compenso sapeva benissimo l’inglese.
In poche parole, Takao era contentissimo.
-Non dirai sul
serio? Hai intenzione di adottarlo e farlo vivere con te?-
Takao si morse la lingua per aver detto in precedenza a Rei
e Max che avrebbe voluto farlo vivere con lui, con il suo protettore alle
calcagna che magari li stava già cercando. La compagnia si era riunita in una pizzeria lì vicino, e per uno scatto di solidarietà, Takao aveva invitato tutti quanti, offrendosi di pagare il
conto, qualunque cifra avesse riportato.
-Dov’è il problema, ragazzi? Io lo faccio vivere a casa mia, così avrà tutto il tempo per rifarsi una vita
onesta e senza dover battere il marciapiede tutta la notte.-
Takao, Rei e Max si erano riuniti al piccolo bar della
pizzeria, mentre Lorenzo, Jason e Kei erano rimasti
al tavolo che si erano scelti, a parlare tranquillamente, in inglese. Takao li osservò tutti e tre per un momento. Notò che
Lorenzo era un bravo conversatore, nonostante l’aspetto non proprio appetitoso
che poteva avere… era un po’ sovrappeso (sicuramente a causa della lunga
permanenza in auto e del poco movimento), portava gli occhiali e più che altro
somigliava ad un ragazzo comune… Insomma, non certo il tipo da rimorchio, però
aveva una conversazione molto educata e rispettosa, e diceva cose molto
interessanti. Jason era più o meno simile a Lorenzo: tipica flemma inglese, gesti
delle mani praticamente molto controllati o addirittura assenti, cenni di
assenso molto frequenti e sorrisi dolci. Ma al contrario di molti inglesi, non
parlava male di nessuno. Soltanto di come si passa la vita a Londra e di come
la stampa londinese tenda spesso a parlare male degli italiani. Kei era il più taciturno. Più che altro annuiva a quello
che dicevano i suoi vicini al tavolo e dava dei pareri molto precisi su ciò che
era la vita di strada… Adesso la conversazione si stava spostando sull’Università.
Jason non l’aveva mai frequentata ma aveva intenzione di farlo in futuro,
Lorenzo si era iscritto a lettere e filosofia ma era stato costretto ad
abbandonare gli studi a causa della morte del padre, e ovviamente Kei era iscritto al corso di lingue e letterature
straniere.
Rei
e Max intanto avevano ricominciato a parlare.
-E
tua madre cosa dice?-
-Non
gliel’ho ancora detto.-
-Stupendo,
prendi le decisioni senza consultare tua mamma? Che
bambino cattivo…-
Disse
Max, e alzò gli occhi al cielo con una risatina.
-Secondo
me stai facendo una cazzata, Taky…-
Scosse
la testa Rei, mentre diceva quelle parole…
-Io
penso invece che riuscirà tutto bene, e poi… dalla mia ho un po’ di avvocati.
Se riesco a convincere Kei a denunciare il suo
protettore, forse…-
-E
tu pensi che se avesse potuto, lui non l’avrebbe già denunciato?-
Oh
accidenti. Questa era una cosa a cui Takao non aveva
pensato. Perché il bel Kei restava lì a farsi
maltrattare dal suo protettore quando poteva denunciarlo senza problemi? Forse
perché gli pagava l’università? Oppure c’era altro? Decise di non interrogarsi
troppo su questo dettaglio, sperando solo che Keisi sarebbe convinto a denunciare il suo protettore e
finalmente vivere la sua vita con lui.
-Ma
non credi di essere troppo possessivo? In fondo, chi ti assicura che a Kei non piaccia fare il mestiere che fa?-
Anche
questo era un dettaglio non di poco conto… che a Kei
piacesse fare il gigolò. Si pentì ancora di più per aver chiesto il parere dei
suoi due amici per la pelle. Ma a cosa gli serviva poi? Si aspettava di
sentirsi dire che loro erano felici per lui? Pia illusione. Per il momento, più
che felicità avevano dimostrato soltanto molti dubbi…
Poco dopo
erano tutti al tavolo rettangolare della pizzeria. Takao
e Lorenzo ai rispettivi capotavola, alla destra di Lorenzo c’era Jason, accanto
a lui c’era Kei, e di fronte ad entrambi c’erano Rei
e Max. I due sembravano i più curiosi. Facevano domande a raffica, e a tratti
imbarazzanti. Gli unici a non arrossire furono Jason e Kei,
mentre quelli che arrossirono di più furono Lorenzo e Takao.
-Secondo me il modo migliore di far godere un ragazzo è usare le
mani…. Sai quando lo prendi in mano e poi cominci a strofinarlo….-
-Ma stai
zitta, scema! È meglio usare la bocca… Quando ti entra in bocca e puoi
gustartelo tutto con calma…. Hmmmmmmm!!!-
-Ragazzi, dai…
siamo in un locale pubblico.-
Parlavano
abbastanza ad alta voce, dando sfoggio di erudizione sul tema dell’eros.
Lorenzo guardava imbarazzato il menù, incontrando di volta in volta lo sguardo
di Jason, che gli sorrideva dolcemente… Per aiutarlo a sopportare quei due, gli
prese la mano sotto il tavolo e diede una piccola stretta…Lorenzo sorrise, rosso come un
peperone. Intanto quei due continuavano.
-Ehi ragazzi,
chi l’ha mai fatto con i vestiti addosso?-
-Cosa?-
-Come?-
-Oh…? Con.. i vestiti?-
Takao, Kei, Lorenzo e Jason erano
stupefatti.
-Vuoi dire che
è possibile farlo anche con i vestiti?-
-Ma certo, Kei! Takao non ti ha mai
raccontato di quella volta che…-
-….che hai
abbordato un ragazzino in discoteca e l’avete fatto sul muro e tu ti sei venuto
nei pantaloni…. È sempre la stessa storia che conosco a memoria e che racconti
a tutti, Rei!-
-Eh, ma dai…
non è il caso di reagire così… Amore?-
-Cambiamo
argomento, vi va?-
-Sicuro! Di
cosa parliamo?-
Chiese Max.
Dopo averci pensato un po’ su, Rei lanciò una nuova domanda.
-Quando avete
scoperto di essere gay e/o attratti dalle persone del vostro stesso sesso?-
-Baaaah…. Che domanda disimpegnata…-
-Ah-ha, signor Brief.
Perché non cominci tu, visto che sei per le domande “Impegnate”?-
Rise Rei, e
con lui anche Max e Kei. Quest’ultimo sorrise a Takao e lo spinse a cominciare. Dopotutto era un argomento
innocente, non c’era nulla di male a raccontare la propria esperienza… E così Takao prese un sospiro e cominciò…
-…E va bene.
Diciamo che… lo sono sempre stato, fin da piccolo. Le ragazze non mi attiravano
più di tanto, e mi spaventava diventare come mio padre e mia madre, che già da
allora non si parlavano. Loro lavoravano sempre e sempre e sempre… e non
avevano tempo per occuparsi di me. Così mi mandavano in una specie di… Come
posso dire… una specie di ritrovo pomeridiano per ragazzi…-
-Eddai, dillo a tutti che andavi in parrocchia!-
-Ahahahah!-
-Ahahahahahah!!-
Tutti risero,
e Takao arrossì ancora di più, tirando uno
schiaffetto al braccio di Rei, che miagolò di dolore e gli fece una linguaccia.
-Scemi!
Comunque… non andavo in parrocchia, era un centro ricreativo privato per
bambini e ragazzi. Mi ricordo che eravamo più maschi che femmine… le poche che
c’erano si riunivano in crocchio e giocavano a fare le sfilate di moda… o a
prendere il tè con le bambole.-
Jason annuì,
riconoscendo l’attitudine tipicamente inglese di prendere il tè alle cinque di
pomeriggio. Takao si fermò un momento. Doveva
rimettere a posto i tasselli della memoria. Max lo esortò a continuare.
-Dunque? Vai
avanti, Takao!-
-….Dunque…
eravamo abbastanza ragazzi, io mi ero creato il mio gruppetto… E tra questi
miei amici ce n’era uno che era l’unico ad interagire con le ragazze. Voglio
dire: faceva loro degli scherzi, sollevava loro le gonne, toccava i loro seni…
insomma, un vero arrapato. Come Rei!-
-Ahahahah!-
-Non è vero! E
comunque qui si parla di te, e non di me! Vai avanti!-
-…Questo
ragazzo un giorno mi invitò a casa. Lì, in camera sua, teneva una piccola
collezione di riviste pornografiche… E… insomma….-
-E…?? E…?? EEEE???
Cosa successe poi?-
-Dai Rei, non
fare l’allupato! Takao vai avanti! Cosa successe
dopo???-
Lorenzo e
Jason ridacchiavano nel vedere come i due fidanzatini Rei e Max erano arrapati,
mentre Kei ascoltava attentamente Takao…
infine, questi concluse la sua storia.
-…E … non
successe assolutamente niente! Però da quel giorno ebbi molte fantasie erotiche
che vedevano me e quel mio amichetto giocare nudi… Diciamo che la mia è stata
un’esperienza strana, non dettata da un rapporto carnale.-
Lo scontento
negli occhi di Rei e Max era chiaro, tanto che scossero la testa e Max fece una
pernacchia scherzosa a Takao. Fu il turno di Kei.
-Beh, io ho
cominciato a guardare i ragazzi a causa dello sport. Giocavo a pallavolo, ed
alla fine di ogni partita in spogliatoio, sentivo il fallo che s’induriva. Era
veramente imbarazzante quando i miei compagni mi abbracciavano dopo aver vinto
una partita… Ma fu grazie a quello che ebbi il mio primo rapporto sessuale.-
-Ah-ha!!! La cosa si fa
interessantissima!!!!! Continua continuacontinua!!!-
Takao ascoltò attentamente quella parte, sperando di
carpire qualche segreto per giungere al cuore di Kei
in un modo o nell’altro, e anche di farlo godere un po’ quando avrebbero fatto
sesso. Arrossì violentemente a quel pensiero birichino, e Kei
se ne accorse, tanto che fece un sorriso malizioso ed iniziò a fargli piedino
sotto il tavolo, mentre raccontava la sua testimonianza. Il calzino di Kei scivolava sulla gamba di Takao
così bene, che lui si sentì appagato ed ebbe un’erezione… ma cercò di non
perdere la concentrazione.
-…Avevo appena
compiuto quindici anni. C’era stata la partita finale dell’estate, ed avevamo
vinto. Cercando di controllarmi più che potevo, riuscii a non farmi venire
un’erezione mentre guardavo i corpi dei miei compagni di squadra, ma proprio
mentre eravamo tutti in mutande, arriva il capitano che si mette ad urlare
“Scopiamo fra di noi!!! L’abbiamo messo in culo agli
avversari!!!” – Naturalmente tutti quanti si misero a ridere, a chiamarlo
“finocchio” e a mandarlo a quel paese… Compreso io. Allora ci preparammo al
solito abbraccio cameratesco. Fra i tanti che mi abbracciarono, uno di questi
mi abbracciò veramente forte, e non mi lasciò andare per una manciata di
secondi. Intanto con le sue mani mi stava massaggiando il sedere, e – ahimé - …mi fece indurire il pene come un tubo,
istantaneamente.-
Ci fu un “oooh” di stupore da parte di tutti. Lorenzo stava bevendo
un bicchier d’acqua, Jason teneva le mani in grembo e guardava Kei, Takao sembrava essere
imbarazzato (soltanto Lorenzo se ne accorse, e quando vide Kei
muoversi in modo un po’ innaturale, capì che stava combinando qualcosa sotto il
tavolo e fece un mezzo sorriso come per dire “ho capito tutto…”), Rei e Max
erano al pieno delle loro emozioni, sembravano bombe pronte ad esplodere, con
quegli occhi sgranati a non perdersi neanche una virgola della spiegazione di Kei…
-…Non mi disse
nulla, ma mi guardò con un’espressione da “Ti ho beccato, brutto stronzo”, ed
io arrossì violentemente, staccandomi al più presto dal suo contatto… Mi
rivestii velocemente, deciso ad andarmene a casa. Quando arrivai, me lo trovai
davanti al portone che mi aspettava… Si leccò le labbra ed entrò nel portone.
Io lo seguii. Nel buio, lui mi prese e mi baciò. Andammo a casa mia e scopammo
per tutta la notte.-
-Wwwwwoooooooowwwww!!! Che storiaaaaaaaaaaaaahhh!!!-
-Mamma mia,
mai sentita una storia così romantica…. E sensuale!-
-E’ tutto
vero, non ho inventato nulla.-
-Ti crediamo,Kei… Soprattutto Rei e Max.-
-Eheheh!-
Tutti
ridacchiarono. Adesso era il turno di Jason. Cercò di parlare in italiano il
meglio possibile, e più o meno ci riuscì.
-Io sono
sempre stato gay. Fin da bambino mi piaceva guardare ai ragazzi e a scuola
giocavamo a fare esperienze, ogni tanto… In molte scuole inglesi alcuni bambini
giocano in un modo particolare.-
Tutti, ad
eccezione di Kei, storsero le labbra. E pensare che
gli inglesi erano un popolo così fine e morale,
attento all’educazione… invece questo qui, inglese verace, stava facendo
intendere che gli inglesi erano così prettamente fru-fru fin da piccoli.
Lorenzo trattenne un sorriso. Rei e Max erano fomentati come dei cani
anti-droga ad un reggae.
-E poi?? E poi???-
-Cosa?-
-Come finisce
la storia?-
-Non era una
storia. Ho risposto a vostra domanda, voi mi avete chiesto quando ero diventato
gay e io ho risposto che sono sempre stato.-
-Accidenti! La
prossima volta che ci sarà un inglese alla nostra mensa, gli chiederemo di dire
qualcosa di più sulla sua esperienza!-
-Ahahah!-
Risero un po’
tutti, ad eccezione di Jason, che si limitò ad un mezzo sorriso.
Turno di
Lorenzo. Essendo il più vecchio, avrebbe dovuto vantare un’esperienza pluriennale,
ma…
-…Io ho
iniziato a guardare i ragazzi solo dai diciotto anni in poi. Prima mi piacevano
le ragazze.-
-Sul serio???-
-Sì. Ma perché
vi stupite tutti, quando dico che mi piacevano le ragazze?-
-Perché …
perché potresti essere contagiato da loro!!Aaahhh!!-
-Smettila, Rei. Qui gli unici contagiati siete voi. Vi
comportate come ragazze.-
Disse Takao a difesa di Lorenzo. I due si zittirono, e Lorenzo
poté continuare.
-….Avevo appena terminato una storia con una ragazza del mio
liceo. Si chiamava Monica, ed io ero molto innamorato di lei, però…-
-Però…?-
-Però…. Non
riuscivamo a….-
-A fare cosa?-
-A.-
-A?-
-Sì, “A”!-
-E che vuol
dire?-
-Uffaaaaaa…-
Disse
sbuffando Lorenzo. Takao rise, spiegando quello che i
due volevano sentirsi dire. Lorenzo non riusciva ad avere rapporti sessuali con
la sua ragazza.
-…Esattamente.
Grazie Takao.-
-Prego, non c’è di che. Ti costava così tanto?-
-Vai a quel
paese anche tu.-
-Grazie!-
-Prego!
Comunque… dicevo… non riuscivamo ad avere rapporti sessuali, così un giorno lei
mi piantò perché aveva trovato qualcuno più virile di me. Il che non mi
demoralizzò più di tanto, lei non ebbe nemmeno il tempo di dare in giro la
notizia in quanto la scuola sarebbe finita da lì a un mese e c’erano gli esami
di maturità in mezzo… Contemporaneamente, io stavo anche prendendo la patente.
Il mio istruttore di guida era un ragazzo di trent’anni, veramente carino e
maschile nei modi, ma, lo scoprii dopo, era omosessuale. Una sera, finita la
mia lezione di guida, mi fermai un po’ con lui e … Beh, finimmo per coccolarci
e baciarci. E da lì… beh…-
-…Da lì non
hai mai più preso la patente, ed ora siamo tutti in pericolo se viaggiamo sul
tuo taxi?-
-Ahahahah! Che scemo!-
Rise Kei alla sua stessa battuta. Takao
gli fece l’occhiolino, assicurando a tutti che Lorenzo era un ottimo tassista e
guidava molto bene, mentre lui faceva vedere a tutti il badge rosa che era la
sua patente di guida. Jason intanto guardava Lorenzo con occhi amorevoli.
-Che storia
romantica.-
-Beh, è
successo tutto per caso. Io non credevo di piacergli, ma qualche sospetto
dovevo averlo, dato che lui mi aiutava un po’ troppo spesso a cambiare marcia. Eheheh!-
Takao lanciò una domanda interessante.
-Ma lui
diventò il tuo fidanzato?-
-No,
assolutamente no. Anzi, mi venne anche un po’ di paura, dato che venni a sapere
che molti ragazzi gay di Roma frequentavano quella scuola guida. Praticamente
lui andava a cercarsi i ragazzini diciottenni e ogni tanto, durante le lezioni
di guida, impartiva lezioni di sesso.-
-Il passaparola tra i gay è diffuso, a quanto pare…-
-Eh già…-
Intanto, le
pizze stavano arrivando. Una volta che i piatti furono in tavola, Takao dichiarò “buon appetito!!!”
E tutti iniziarono a mangiare. Intanto Max toccò gentilmente il braccio a
Lorenzo e gli fece una domanda.
-Ehi, io non
ho ancora preso la patente. Quale scuola guida frequentavi, scusa?-
Kyosuke entrò nel suo ufficio di responsabile del pronto soccorso e
s’infilò il camice
Kyosuke entrò nel suo ufficio di responsabile del pronto
soccorso e s’infilò il camice. Nella sua testa molti pensieri si stavano
agitando, rischiando di farlo impazzire. Principalmente avrebbe voluto trovare
quella “Bulma B.” e piantarle un bisturi nel collo.
Ma doveva portare pazienza, in fondo poteva anche darsi che non sarebbe mai
riuscito a trovarla e quindi non avrebbe mai spento la sua sete di vendetta.
L’unica cosa
che poteva fare adesso, era concentrarsi sul lavoro.
Fuori, in sala
d’attesa, aveva visto parecchie persone con casi più o meno gravi. Guardò sullo
schermo del computer la progressione dei pazienti e le relative urgenze. Per
fortuna non c’erano ancora gravi urgenze, e di quelle medie se ne stava
occupando il suo vice, il dottor Angeletti.
-Kasuga, sei arrivato finalmente?-
-Sì. Ciao Angeletti.-
-Ciao.
Ascolta, dobbiamo liberare un letto in oncologia, ho aspettato te perché…-
-Angeletti… Porca puttana, quante volte devo dirti che non
si possono liberare letti in oncologia se prima non si sente il primario? A
quest’ora lui non c’è, e se lo liberiamo così, quello rompe i coglioni prima a
te e poi a me.-
-Ma come ti
incazzi sempre! Cioè, se c’è bisogno di farlo, lo si fa, punto e basta. Se ci
arriva una con un tumore in stadio avanzato, cosa facciamo?-
Stava per
ribattere, mentre ticchettava sulla tastiera del suo computer, ma non gli
uscirono le parole. Semplicemente, un blackout cerebrale di una frazione di
secondo. Restò zitto il tempo necessario a calmarsi, poi con voce roca rispose
-Va bene,
libera un letto lì in oncologia. Si sa mai che potrebbe servire.-
-D’accordo. E
scusa, ma con questa nuova circolare che ci dobbiamo occupare anche dei
reparti, è una rottura di scatole.-
-Lo so, è uno
dei tanti modi per dare responsabilità a chi non se le merita. Ringrazia il
nostro caro ministro della funzione pubblica.-
-Eh già. Ma
anche da voi in Giappone avete dei ministri come i nostri?-
Mettendo i
vari moduli delle ore precedenti in ordine per archiviarli, Kasuga
ridacchiò, rispondendo molto tranquillamente
-Oh no… lì da
noi le cose vanno peggio. Molto peggio.-
Ed i due
responsabili del Pronto Soccorso si misero a ridere insieme.
-Sigaretta?-
*****
Seduta
su una panchina fuori del ristorante, Bulma stringeva
tra le dita una sigaretta. L’aveva gentilmente chiesta ad un uomo fuori del
locale, che molto signorilmente gliel’aveva offerta ed accesa. Quando lei gli
aveva offerto un euro per la sigaretta, lui si era messo a ridere e le aveva
strizzato l’occhio, dicendo che non c’era bisogno di pagare per una signora
bella come lei. Il complimento l’aveva lusingata, e ora si stava chiedendo che
cosa fare con Vegeta.
Guardò il suo
orologio da polso. Quasi le dieci e mezza.
Erano passate
diverse ore da quando Bulma aveva lanciato il suo
appuntamento a Vegeta. La verità era che non sapeva bene cosa dire una volta
incontrato il marito. Come affrontare l’argomento della sua amante, cosa fare
del loro matrimonio?
Aspirò una
grande boccata di fumo dalla sigaretta, tremando di una paura sconosciuta, quella
strana sensazione che si ha quando si deve affrontare un discorso complicato o
non facile da gestire. Una paura che le veniva dal profondo del suo stomaco,
che, malato com’era, stava già ricominciando a dare in escandescenze.
“E No, questa
volta non mi rompere le scatole. Lì dentro non ci torno, le pillole te le darò
non appena finisco di parlare con Vegeta. Per cui stai zitto
e soffri.”
Fu categorica
con il suo stomaco, le cui cellule impazzite si risvegliavano ogni tanto, ed il
suo “Stai zitto e soffri” era più rivolto a sé stessa che al suo stomaco. Buttò
un’occhiata al locale. Lì c’era ChiChi, che stava
finendo la sua pizza in santa pace, incredula lei stessa, Bulma
lo sapeva, di aver tentato di rapinare una donna e che questa le sia diventata
amica per chissà quale motivo. Sorrise, pensando che il vero motivo risiedeva
nella cortissima aspettativa di vita di Bulma, che
per una volta, aveva voluto provare cosa significasse avere un’amica del cuore.
Certo, la distanza d’età era piuttosto alta, ma sentiva che tra lei e ChiChi c’era un’intesa speciale… O forse una strana ragione
di istinto materno che Bulma aveva nei confronti
della nomade.
“Beh, Signore
mio, io ci ho provato. Se mai vorrai farla scappare via da me, fai pure… Anche
se, se tanto mi dà tanto, sarò io la prima a scappare via, grazie al
fottutissimo regalo che hai fatto al mio stomaco. Grazie infinite. Per avermi
dimostrato che la vita è breve e bisogna saper essere buoni con tutti…”
Scrollò la
cenere dalla sigaretta, prima di riportarla alla bocca, quindi si decise.
Entrata nel
ristorante, parlò con ChiChi, che le sorrise
vedendola tornare.
-ChiChi, ascoltami… io devo andare in … in un posto.
Potresti aspettarmi qui finché non torno?-
-…Cosa? Io.. da sola ad aspettarti? Ma… non è pericoloso?-
-No, non
preoccuparti. Se vuoi resta qui dentro, oppure fuori dal locale… E…-
Tirò fuori
dalla borsetta il suo portamonete, e da esso ne tirò fuori una banconota da
cento euro. ChiChi era stupefatta.
-…Se non
dovessi tornare alla chiusura del locale, tu paga il conto e aspettami qui o in
un posto tranquillo… Ad esempio quel pub all’angolo della strada.-
-Come … come
faccio a comunicare con te in caso di emergenza?-
Di nuovo dalla
borsetta tirò fuori il suo cellulare, che ChiChi
aveva già tenuto durante la passeggiata al centro commerciale.
-Usa questo.
Chiamami ed io tornerò qui immediatamente. Okay, ChiChi?
…Okay?-
La giovane
nomade annuì, guardandola preoccupata.
-E non fare
quella faccia, tesoro. Sarò di ritorno presto. Non voglio abbandonarti.-
Detto questo,
le prese la faccia nelle mani e le diede un dolce bacio sulla fronte. In quel
momento ChiChi si sentì così bene e benvoluta,
nell’osservare il viso d’angelo dell’amica Bulma,
mentre le sorrideva benevola.
Poi Bulma si allontanò velocemente, quasi correndo fuori dal
locale. La vide entrare nella Lancia Musa e partire, alla volta di chissà dove.
“Non ci sono
problemi. Io resto qui e l’aspetto. Se poi chiudono, pago e l’aspetto ancora.”
Pensò, mentre
tra le mani stringeva il piccolo cellulare, pronta a
chiamarla in caso di urgenza.
*****
Nel frattempo,
Vegeta era tornato a casa. Una buona cenetta preparata da lui a base di cibo
precotto gli aveva placato la fame da lupo causata dal digiuno integrale di
dieci ore, salvo la colazione che aveva consumato la mattina. Dopo il pasto,
non si era nemmeno seduto sul divano ed acceso la televisione come faceva tre
anni prima, quando ancora Hikaru non era comparsa
nella sua vita. Il dolore per lei era ancora vivo, e davvero non sapeva cosa
fare. La sua mente era vuota, incompleta… Si mise a girare qua e là,
lentamente, nella sua casa. Negli ultimi tre anni non si era mai reso conto di
quanto fosse grande l’attico dove abitava con sua moglie e suo figlio. Ora, con
gli occhi della tristezza, le cose gli apparivano più significative.
Sui mobili
c’erano le fotografie che lo ritraevano giovane accanto ad una donna attraente,
su una macchina dalla lucentezza impeccabile; poi ce n’erano altre dove la
stessa donna teneva in braccio un paffuto fagottino dallo sguardo curioso… e in
altre ancora c’era sempre lui, la donna ed il bambino un po’ cresciuto che
cavalcava una bicicletta.
“Takao… Bulma… Scusatemi se ho
dubitato di voi, se vi ho abbandonati. Non
consideratemi uno stronzo, vi prego. Qualunque cosa vogliate, io ve la darò… ma
vi prego, aiutatemi…”
Non sapeva
nemmeno lui cosa dire o cosa pensare. Era però certo che il suo viaggio era
sempre lì nei sistemi informatici dell’agenzia di viaggio di Goku, e aggiungere
una persona non sarebbe costato nulla. Pensò di tenere buono
il viaggio per quando Bulma gli avesse comunicato i
suoi problemi, in modo da addolcirla in qualche modo. Sorrise, con la speranza
di riuscire nell’intento di riparare a tre anni di assenza apparente.
Continuò il
tour della sua casa, quando avvertì l’improvviso bisogno di fare una doccia.
Con
l’asciugamano sui capelli bagnati e l’accappatoio addosso, andò in camera sua e
aprì l’armadio. I suoi vestiti erano mescolati come al solito con quelli della
moglie, e sospirando gli venne da pensare che Bulmaera veramente poco adatta a stivare i vestiti nell’armadio. Armeggiò,
cercando un paio di pantaloni, una camicia ed una giacca da indossare, ma non
trovò quasi nulla che andasse bene come colori.
Ad un certo
punto, nel rimescolamento generale di capi, cadde sul pavimento una specie di
busta gialla, simile a quelle che vengono rilasciate quando si fanno delle
radiografie.
Vegeta la
prese in mano, e guardò i timbri apposti. Recavano le diciture dell’Azienda
Ospedaliera Regione Lazio…
-…Azienda
Ospedaliera Regione Lazio – Dipartimento di Oncologia Diagnostica e Clinica.-
Leggendo le
prime tre parole che indicavano da dove veniva il plico, e cioè dal
dipartimento di oncologia diagnostica, Vegeta fu colto da un brivido lungo la
schiena. Quando poi vide a chi la busta era intestata, il brivido si trasformò
in sudore freddo…
…Aprì la
busta.
Dentro c’erano
delle fotografie nere che rappresentavano una specie di cono con dentro delle
strane macchie bianche… Il referto era un’ecografia. Non essendo un medico,
Vegeta non capì cosa volessero dire, per cui andò a sfogliare gli altri
fogli... Le gambe gli tremavano violentemente, e così anche la bocca.
Quando lesse
la diagnosi del referto finale, per poco non gli venne un infarto. Crollò a
sedere sul letto, cascandovi sopra come una bambola dall’estremità
superiore troppo pesante, e gli venne addirittura da piangere.
Sentimenti contrastanti si fecero strada in lui.
Paura, perché
sua moglie era malata di tumore e quindi rischiava di perderla;
Rabbia, perché
sua moglie gli aveva tenuto nascosto quel suo stato di salute per tutto quel
tempo;
Amore, perché
se poteva, voleva stare con sua moglie ancora un po’, voleva riscoprire la
donna che aveva amato, e se fosse stato il caso, anche di curarla e supportarla
come meglio poteva.
Dai suoi occhi
uscirono copiose lacrime, che si tamponò con entrambe le mani… Pianse ancora,
asciugandosi con la manica dell’accappatoio che ancora indossava… Poi si alzò
in piedi. Si guardò le mani, notando che la sua fede nuziale era ancora là,
all’anulare… Se la baciò, pregando il Signore Onnipotente che non fosse già
troppo tardi.
Velocemente si
vestì, uscì di casa e montò in auto, partendo in sgommata.
Nel salotto
dell’appartamento, l’orologio a pendolo scandì nel silenzio undici rintocchi.
Essendo fuori dalla lista di Takao, Lorenzo e Jason dovettero pagare il
prezzo intero dell’entrata
Essendo fuori
dalla lista di Takao, Lorenzo e Jason dovettero
pagare il prezzo intero dell’entrata. Accanto a loro, Max e Rei erano
eccitatissimi sebbene, Takao lo sapeva, si erano
fatti metà della clientela del locale. Ogni sera però speravano di farsi anche
l’altra metà.
Come spesso
succede, il gruppetto si sparpagliò. Rei e Max andarono a fare i loro giretti
di conquista, forti della loro relazione aperta; Lorenzo e Jason si misero a
chiacchierare per un po’ su un divanetto, mentre Takao
e Kei si erano già messi a ballare.
-Mi piace
ballare, lo sai?-
-Davvero? A me
non tantissimo!-
-Eppure te la
cavi bene, guarda che movimento!-
Sorrise Kei, e alla luce delle stroboscopiche, il suo occhio
leggermente tumefatto appariva addirittura qualcosa di artificiale, come se si
fosse truccato di proposito. Non sapeva come era riuscito a curarselo e ad
eliminare ogni traccia, ma doveva ammettere che era stato bravo. Ripensò alla
loro conversazione del pomeriggio, sulla decisione che Kei
doveva prendere se andare a vivere con lui oppure no. Francamente non gli
sembrava così entusiasta… però la tristezza nel rivelargli che il suo
protettore lo prendeva a botte c’era stata. Che situazione…
-Io vado a
prendere da bere. Ti va?-
-Sì dai.
Grazie.-
Takao lo guardò sorridente, e Kei
gli fece l’occhiolino. Quindi si allontanò e andò verso il bar. Tornò poco dopo
con i due bicchieri di superalcoolico in mano, che consumarono seduti ad un
divanetto. Poco lontani da loro, c’erano Jason e Lorenzo.
-…Non ero mai
stato in un locale prima d’ora.-
Disse Jason a
Lorenzo. Questi lo guardò stupito.
-No? Nemmeno a
Londra?-
-Purtroppo no.
Forse ho sempre rifiutato l’idea di andarmi a cercare qualcuno più giovane di
me, o anche solo della mia età. Per questo andavo a cercarmi uomini adulti
direttamente sui siti specializzati oppure in posti più idonei ad incontrare
gente matura.-
Le parole di
Jason ferirono momentaneamente Lorenzo. Lui era più giovane di lui di qualche
mese, sebbene fosse nato nel 1985… però si sentiva comunque una persona con cui
Jason non stava volentieri.
Come se gli
avesse letto nel pensiero, Jason sorrise a Lorenzo e gli prese la mano,
accoccolandosi a lui.
-Lo sai, Lorenzo? Tu sei l’unico ragazzo della mia età che mi
piace.-
-Davvero? E
perché?-
-Ebbene…
perché sei molto… Come… come dite voi quando una persona è tenera ed è molto …
“Cuddlesome”?-
“Cuddlesome”
in italiano significava “coccolabile”. Lorenzo sorrise divertito e gioioso, e
gli fornì la traduzione italiana.
-Coccolabile.
Pacioccone… E tanti altri vezzeggiativi.-
-Coccolabile…
Pacioccone… Vezzeggiativo.-
-Ehm…
Vezzeggiativo non è un complimento. È un tipo di parola che sta a significare
un complimento dolce.-
-Ah, Ah-ha-ha. Capisco, adesso.-
Si sorrisero
ancora. Naturalmente, per non dargli problemi, Lorenzo gli parlava in inglese,
e si capivano alla perfezione. I loro occhi si incontrarono ancora, ed in Jason
cresceva irrefrenabile l’istinto di baciare il bel tassista.
Anche Lorenzo
sentì la voglia crescere dentro di sé… Si avvicinarono, e si scambiarono un
tenero bacio sulle labbra. Si staccarono.
Si guardarono
negli occhi…
E ripresero a
baciarsi, con passione, abbracciandosi forte e scontando tutte le tristezze che
avevano dovuto subire. Jason per conto del suo amante sessantenne, mentre
Lorenzo per colpa del suo ex ragazzo sudamericano.
Jason si
sciolse dal bacio e dolcemente strofinò il suo naso contro la guancia di
Lorenzo.
-Mi piace
stare con te. Mi piaci tanto.-
-Anche tu…
dolce inglese del mio cuore.-
E continuarono
a scambiarsi tenerezze. Nonostante l’alto volume della musica, loro erano
protetti da un aura di tenerezza che mai prima di
allora avevano provato.
Poco lontano
da loro, Takao li osservava. Sorrise nel vedere che
il triste tassista che l’aveva accompagnato a casa solo venti ore prima,era di nuovo felice
di stare con qualcuno.
Purtroppo
però, era rimasto solo. Kei era scomparso.
Lo cercò con
lo sguardo, ma non ebbe successo. Veramente non si rendeva conto di come gli
fosse sfuggito così facilmente… Forse si era perso ad osservare i due
piccioncini Lorenzo e Jason per troppo tempo che lui si era stancato ed era
andato da qualche altra parte.
Girò nel
locale per un bel po’ di tempo, fino a che non salì una scala e si ritrovò nei
locali dei privé… i salottini privati dove gli ospiti
potevano fare quello che volevano. Una specie di dark room
raffinata, atta ad ogni sordido proposito di piacere. Finì lì per caso, senza
volerlo… E altrettanto, vide ciò che non avrebbe mai dovuto vedere.
-…-
Nello
spiraglio di luce dietro ad una tenda che copriva il privé,
vide tre figure molto conosciute. C’erano Rei, Max e anche Kei.
I due si erano tolti la maglietta ed abbassati i pantaloni, restando solo in
mutande. Kei era in ginocchio davanti a loro.
Sorrideva sensuale come al solito. Vide i suoi amici di spalle che
ridacchiavano e sussurravano qualcosa, mentre le loro mani massaggiavano le
proprie natiche. Ad un certo punto Rei e Max si misero fianco a fianco, in modo
che Takao vide soltanto le loro schiene nude ed i
loro sederi coperti dalle mutande… Che come per magia scivolarono giù,
lasciando intravedere quello che c’era sotto. Kei era
in ginocchio di fronte a loro… Per cinque minuti vide i suoi due amici che si
divertivano con Kei, muovendo i loro bacini avanti ed
indietro, e mugolando di piacere. Takao si mise le
mani nei capelli, poi esse scivolarono sugli occhi e poi sulla bocca, in
un’espressione che ricordava molto “L’urlo” del pittore belga EdvardMunch.
Non potendo
sopportare oltre, si eclissò velocemente nel buio della dark room, prese le scale, spintonò un po’ di gente ed uscì dal
locale in fretta e furia. Andò verso la sua Getz
parcheggiata, mise in moto e partì molto bruscamente.
*****
Di notte,
Villa Borghese era un posto abbastanza frequentato. C’erano coppiette che
godevano dell’intimità della sera per le loro effusioni romantiche, single che
si limitavano a passeggiare avanti e indietro per i suoi viali, pensando e
ripensando alla propria situazione, nel desiderio di trovare un’anima gemella
con cui dividere le proprie notti solitarie, e infine c’erano i vari barboni
che dormivano dopo essersi ubriacati di vino in cartone e qualche famiglia di
extracomunitari che consumava cibo e bevande nella comodità dell’erba fresca
del parco.
Bulma era lì che camminava su uno dei viali, osservando la
gioia delle giovani coppiette che si baciavano e abbracciavano al chiaro di
luna… Pensò al fatto che Roma fosse veramente una città ricca di spunti per
tirare fuori i sentimenti, e soprattutto di luoghi suggestivi dove due
innamorati potevano trovare il punto di partenza per la loro storia, così da
poter dire, una volta anziani e smemorati “ti ricordi
quella volta a ….?” E rivivere insieme sprazzi di giovinezza perduta.
Adesso lei si
sentiva più o meno come una liceale, che, innamorata del proprio ragazzo,
doveva vedere cosa fare con il problema che lui l’avesse tradita. Un po’ di
paura le era rimasta… paura che Vegeta decidesse di lasciarla, oppure di
collassargli davanti. Purtroppo non sapeva nemmeno lei cosa fare, e la
chiacchierata con suo marito si imponeva. Non si poteva più rimandare.
Passeggiò
avanti e indietro, riflettendo su un particolare.
“…E se lui
fosse già qui e non riuscisse a trovarmi? Forse è meglio se
lo chiamo…”
Tirò fuori il
cellulare, e guardò l’ora sul display. Mezzanotte meno un quarto. Tra quindici
minuti il sabato avrebbe lasciato posto alla domenica, e Bulma
già si chiedeva come sarebbe stata.Compose
il numero del marito, ma un’altra chiamata in arrivo le impedì di mettere in
atto la telefonata. Riconobbe il numero, era quello del suo secondo cellulare.
Rispose immediatamente.
-Pronto?!ChiChi?-
Il suo tono di
voce era strano, tra il calmo e l’agitato. Quando ChiChi
si mise a rantolare, spiegandole perché l’aveva chiamata, Bulma
ebbe un tuffo al cuore.
-Bulma…!! Aiuto!!!
Il bambino… sta nascendo!!!-
Cercando per
quanto possibile di mantenere la calma, Bulma
incominciò a saltellare verso il parcheggio per recuperare la Musa e vedere se riusciva ad
accompagnarla all’ospedale.
-ChiChi, tesoro calmati. Andrà tutto bene. Il locale ha già
chiuso?-
-S…sì!!Aaaahhh…!!
Oh dio mio dio mio dio miooooo… ho paura Bulma, ho paura!!!-
-Stai calma,
amore. Vengo subito. Non muoverti da lì!-
-Ti prego fai
presto!!-
-Chiedi aiuto
a qualcuno!!! Io sto arrivando!!!-
Chiuse repentinamente
la telefonata, quindi sempre saltellando compose il numero delle ambulanze.
-Servizio 118,
Come posso aiutarla?-
-Salve, mi
chiamo Brief, ed ho un’amica che sta per partorire.
Mandate un’ambulanza, presto!-
-Assolutamente.
Mi potrebbe indicare l’indirizzo, per cortesia?-
Bulma glielo disse con molta calma, mentre con gli occhi
cercava la sua auto. La trovò, vi montò sopra e mise in moto, partendo in
sgommata. Nel frattempo ringraziò l’operatrice del 118 e chiuse il telefono.
Con le mani strette sul volante, si sentiva allo stesso tempo impaurita ed
emozionata. Stava per assistere alla nascita del pargolo di ChiChi.
Che emozione!!! Allo stesso tempo però pensava a suo
marito. Si disse che gli avrebbe fatto una telefonata non appena…
-AAAAAHHH!!!!-
Un crampo
fortissimo allo stomaco la fece urlare di dolore. Strinse i denti, e gli occhi
le si riempirono di lacrime. Frenò la macchina con una
rabbia pazzesca dettata dal dolore, facendo stridere i pneumatici sull’asfalto.
L’auto sbandò su un tratto di asfalto sbriciolato, andando quasi a finire su un
marciapiede. Tenendosi la pancia, che le bruciava come se gliel’avessero
trafitta con un tizzone ardente, Bulma cercò a tentoni la sua borsetta. Svitò convulsamente il tappo del
flaconcino di pillole e scoprì con orrore crescente che non ne aveva più.
-Oh no!!! No!! NO!!! NOOO!!! Cazzo!!!!!!-
Cercò meglio,
e quanto di meglio trovò fu una pastiglia di aspirina nella tasca del
portamonete. La mandò giù senz’acqua, mordendosi la lingua per sprizzare più
saliva e far scendere la pillola. Il suo respiro si fece affannoso nel
tentativo di scendere a patti con il dolore. Fu colta da una nuova scarica, e a
quel punto pensò di chiamare nuovamente il pronto soccorso e farsi portare in
ambulanza… fino a che il dolore si ridusse (senza scomparire) e lei poté
riprendere la marcia. Dai suoi occhi sgorgavano lacrime di dolore. Sapeva che
l’aspirina avrebbe avuto lo stesso potere calmante di una scopa di saggina
contro un branco di cani affamati, ma sarebbe bastata per arrivare in ospedale
ed assistere ChiChi.
Arrivata al
ristorante, vide l’ambulanza che portava via ChiChi.
Sembrava in buone condizioni, ma era distesa su una barella, il che non faceva
presagire nulla di buono. Non fece in tempo a scendere dalla sua auto ed
avvisare i paramedici, che quelli erano già partiti a razzo alla volta
dell’ospedale più vicino. Allora, decise di infrangere le regole e partì a
razzo anche lei, seguendo l’ambulanza fino a dove l’avrebbe portata.
Intanto, lo
stomaco stava digerendo la compressa di aspirina, ma continuava a farle un male
pazzesco, anche se sopportabile.
*****
Nel frattempo,
Lorenzo era stato distratto da una chiamata sul suo cellulare. Jason lo osservò
stando seduto sul divanetto, e vide che il ragazzo era preoccupato: mentre
teneva il cellulare in mano, si toccava i capelli più volte, contorcendo la
bocca in ghigni preoccupati.
Sentendosi in
dovere di capire cosa succedeva, Jason gli si avvicinò appena Lorenzo chiuse la
chiamata.
-Cosa…?-
-Mia madre. È
stata ricoverata d’urgenza per un’emorragia interna. Oh, mio dio … mio dio.
Devo subito correre in ospedale. Vieni con me?-
Jason annuì.
Il suo viso era preoccupato e impaurito. Lorenzo gli prese la mano, e insieme
si diressero verso l’uscita, senza nemmeno chiedersi che fine avesse fatto Takao.
Velocemente,
si avviarono verso il taxi parcheggiato, uscirono dal parcheggio e si diressero
verso l’ospedale dove era stata ricoverata la madre di Lorenzo.
Il taxi
procedeva spedito, su una via che Lorenzo conosceva bene. Jason guardava fuori
dal finestrino, preoccupato per la donna che quel pomeriggio aveva visto
sdraiata su un divano, completamente in balia dei fumi dell’alcool. Lorenzo
quasi piangeva per la preoccupazione. Era vero che sua madre non era una mamma
perfetta, però era pur sempre l’unica persona che gli fosse rimasta e non
voleva assolutamente perderla. Pregò l’Iddio Onnipotente che
fosse sana e salva, cercando di consolarsi con le parole del medico che l’aveva
chiamato… “Non è grave, la signora potrebbe salvarsi, ma lei deve venire subito
perché sua madre non è in grado di parlare. Abbiamo
dovuto sedarla.”
Le parole gli
rimbombavano in testa come una specie di mantra, un rito miracoloso che avrebbe
potuto tenere sua madre in vita ancora un po’. Sperò con tutto se stesso che la
donna fosse ancora viva, e con l’acceleratore schiacciò di più.
Giunto nei
pressi di un incrocio completamente sgombro, passò con il rosso senza
accorgersene. Alla sua destra sopraggiunse un’auto che procedeva spedita come
lui.
-Attento,
Lorenzo!!!-
SCREEEEEEEEEEEK!!!!!!!!
Con una
prontezza di riflessi degna del miglior guidatore, Lorenzo inchiodò l’auto,
mandandola a sbandare su un marciapiede. L’auto che sopraggiungeva, una Audi Station Wagon, inchiodò a pochi metri dietro di
lui. Jason si era girato sul sedile passeggero, mentre Lorenzo osservava dallo
specchietto retrovisore. L’auto fece retromarcia, e Lorenzo si aspettò che il
guidatore abbassasse il finestrino e gliene cantasse quattro degne di una
puntata di Sanremo, ma questo non accadde. Non c’erano stati danni ai due
veicoli, salvo forse al taxi di Lorenzo, eppure …
Dall’auto
scese una donna dai capelli neri e vestita abbastanza
elegante. Jason la osservò attentamente. Nei suoi occhi non c’era nulla di
umano. Sembrava una pazza furiosa appena uscita da un manicomio. Restò nello
spazio tra lo sportello e la scocca della Audi che
guidava… senza dire nulla, neanche il più piccolo gesto.
-Lorenzo… stai bene?-
-Sì… sto bene,
Jason… è stata colpa mia, non mi ero accorto che era diventato rosso…-
-Oh my god, Lorenzo. Guardalà.-
Riparandosi
dietro il sedile, Jason vide la donna che si chinava nell’abitacolo e ne tirava
fuori una pistola.
-Lorenzo!! Quella donna ha una
pistola!!!-
-Cosa?-
-Ha una
pistola!!-
-Oh Cristo!-
Memore degli
insegnamenti di suo padre, che gli aveva sempre detto di non mai utilizzare la
pistola se non in casi di emergenza estrema, Lorenzo collegò i due aspetti. Era
un caso di emergenza pura. Una pazza stava per sparare a lui ed al suo
passeggero, e anche se non avesse voluto farlo, era meglio tirare fuori la
pistola prima che gli eventi fossero precipitati. Velocemente aprì il cruscotto
e tirò fuori la sua rivoltella a sei colpi. Jason osservò a bocca aperta
l’arma, ancora più spaventato.
-Non preoccuparti, Jason. Non succederà nulla. Tu chiuditi dentro
e aspetta il mio ritorno.-
-Ho paura, Lorenzo.. Ho paura.-
La donna dai
capelli neri era ancora lì. Lorenzo diede un veloce bacio sulle labbra a Jason,
e a quel punto la ragazza iniziò a passeggiare verso di loro.
-Oddio,
Lorenzo… sta venendo qui!-
Impugnando la
pistola, Lorenzo scese dal taxi chiudendo lo sportello. La ragazza lo guardò
con occhi rossi di rabbia.
-Sei uno
sporco frocio e non sai nemmeno guidare…-
-Modera i
termini, ragazza. E metti via quella pistola.-
E fu un
attimo. La ragazza sparò all’indirizzo di Lorenzo, che saltellò qua e là per
evitare i colpi. Nel taxi, Jason stava gridando di terrore, appallottolato nei
sedili posteriori. I botti gli percorsero il corpo, mentre si tappava le orecchie
con entrambe le mani.
Spaventatissimo,
Lorenzo rispose al fuoco, riparandosi dietro il suo stesso taxi. La ragazza dai
capelli neri però si avvicinò e Lorenzo fu costretto a battere in ritirata.
Proprio mentre stava per cercare un punto più sicuro, e mentre con la mano
sinistra cercava di estrarre il cellulare dalla tasca dei pantaloni, un colpo
lo ferì al fianco.
-Ahhhh!!!!!!-
Urlò e cadde
sull’asfalto, e la ragazza si mise a ridere sguaiatamente, cercando di
avvicinarsi a lui… probabilmente per finirlo. Jason osservò tutta la scena
dalla sua postazione, e temette per la vita di Lorenzo, che era appesa ad un
filo. La ragazza avanzava, con la pistola puntata su di lui. E fu allora che
Jason, in una frazione di secondo, notò la pistola che era caduta poco lontano
dal taxi. Scese dalla Brava e silenziosamente la raccolse.
-Fine della
corsa, tassista frocio e culattone.-
Lorenzo chiuse
gli occhi aspettandosi di morire da un momento all’altro. Ci fu uno sparo.
Questo gli colpì il braccio. Lorenzo urlò di dolore, e la ragazza ne sembrò
ancora più attratta.
-AAAAARRRGGGHHH!!!-
Poi
all’improvviso, un altro sparo. Lorenzo credette di
essere morto, ma non era così. Gli faceva solo male da morire il braccio, da
cui stava perdendo molto sangue. Era stato Jason a sparare, ed aveva beccato Madoka alla spalla.
-Brutto pezzo
di frocio culattone del cazzo!!!-
Urlò la
ragazza dai capelli neri, tenendosi la spalla e puntando la pistola verso di
Jason. Ma la sua mira era tremante, non riusciva più a controllarsi. Jason
sparò nuovamente, questa volta il proiettile la mancò, ma fu abbastanza per spaventarla. Lei scappò verso l’auto, partendo in
sgommata. Jason ancora teneva puntata la pistola, quando un gemito di Lorenzo
lo fece sussultare di paura.
-Lorenzo!!-
-J…Jason….
Aiuto… chiama… chiama aiuto…-
Gli porse il
cellulare, ma si era spento. Batteria scarica.
-Oh no!!! Lorenzo, ti prego resisti!!! Non morire!!!-
-Jason… portami… portami all’ospedale…-
-Ma io… io…-
-Hai… hai la
patente…? S…Sai… guidare..?-
Jason annuì,
quindi fece la cosa più saggia. Montò sul taxi e girò la chiave nel quadro.
Inserì la marcia sbagliata e quando sollevò la frizione, spense il motore.
Incominciò a piangere, perché il volante a sinistra era fuori dalla sua
abitudine, e di conseguenza le marce erano all’inverso. Si impose di darsi una
calmata, riaccese il motore e riprovò, questa volta inserendo la marcia
corretta. Spostò il taxi verso il suo padrone, che caricò sul sedile
passeggero… Jason piangeva, Lorenzo invece si tamponava le due ferite…
-Adesso… vai….
Dritto…-
Improvvisamente
però, la sirena di un’ambulanza squarciò la tranquillità della notte. Dietro di
questa, un’altra auto la seguiva.
-Segui… segui
l’ambulanza, Jason.-
Gli disse
Lorenzo. E lui obbedì. Fece retromarcia e si infilò all’inseguimento
dell’ambulanza.
Bulma viene presa e caricata su una barella dalla
sua posizione inginocchiata sul pavimento, rammaricandosi di tutto quel casino
che è successo. Sicuramente adesso avviseranno suo marito, dato che sta latrando
come una povera cagna sciancata che lo chiamino a qualunque costo. Sta anche
recitando il suo numero di telefono cellulare, ma i paramedici sembrano non
ascoltarla. Le infilano un respiratore, lei sente il sonno sempre più
imminente. All’improvviso sviene, ma il suo cuore batte ancora. La crisi
tumorale che ha avuto è veramente grave, sente dire da un medico, mentre la sua
soglia di attenzione scende lentamente, prossima a toccare i livelli dello
zero. Cercando di ricollegare i pensieri, capisce che è così assonnata perché
le hanno somministrato un sedativo. Il dolore è passato, e lei si sente
galleggiare in un universo parallelo. Sorride, credendo di essere morta. È
passato molto tempo, e lei è stata addirittura svestita, rivestita di un camice ospedaliero e portata in una stanza. Ricoverata
d’urgenza.
Ad un certo punto, nel silenzio generale
della stanza, vede una figura avanzare. La sua vista è parecchio sfocata,
immagina che le lenti a contatto le siano state sottratte in un qualche modo,
per cui cerca di strizzare gli occhi ed individua che la figura stringe
qualcosa nella mano destra. Tuttavia, non riesce a spiccicare parola. Crolla in
un sonno profondo.
Bip… bip…
bip… bip… bip… bip…
Il Dottor KyosukeKasuga si avvicina alla nuova paziente. Sa che è lei quella
che ha condannato suo fratello ad una vita inchiodato su una sedia a rotelle, e
vuole punirla per questo. Ha chiuso la porta a chiave, e tirato le tende della
stanzetta in modo che nessuno possa vedere nulla. In mano ha una siringa
ipodermica. Il suo sguardo è truce, arrabbiato. Guarda il sacchetto della flebo, ed il sottile tubicino fissato al braccio della
donna con un pezzetto di nastro adesivo clinico ed un po’ di ovatta. È stato
lui a dare l’ordine di farle una flebo.
Si avvicina lentamente, tirando su la
siringa… Vuota.
Aspira un po’ di aria dalla siringa, quindi
si appresta a staccare il tubicino ed iniettare una bollicina d’aria per
uccidere la troia che ha paralizzato suo fratello.
Tutto si svolge nel completo silenzio,
almeno fino a che…
CLACK!
La porta si apre, ed entra un anziano
signore ben vestito. Kyosuke si gira, pallido di
terrore. Il suo primo pensiero è che se perde il lavoro qui all’ospedale, è una
cosa grave… Senza che l’anziano parli, Kyosuke
capisce tutto.
-Non farlo.-
-Perché? Lei
ha ucciso mio fratello…-
-No, non è
stata lei. Lasciala andare. È malata, non vedi? Di quanto le accorceresti la
sua vita già compromessa?-
Kyosuke sentì di dover piangere, come un bambino che viene
scoperto a fare qualcosa che non dovrebbe, ma che vuole farla a tutti i costi.
Lasciò cadere la siringa e l’uomo anziano la prese, mettendosela in tasca. Poi
guardò Kyosuke come un anziano nonno che guarda il
nipote birichino.
-Hai prestato
il giuramento d’Ippocrate, figliolo. Non dimenticartelo.-
-…Chi… Chi è
lei?-
-Mi chiamo
Gaspare Bracardi. Ero.. un
avvocato. Adesso sono in pensione.-
-Come ha fatto
a capire che…?-
L’avvocato Bracardi non gli diede il tempo di finire la domanda, liquidandolo
con un gesto della mano ossuta e raggrinzita.
-Ci sono cose
che non possono essere spiegate con le semplici parole.-
-Mi… mi
denuncerà, per questo?-
-No. Però tu promettimi di non farlo più. In Italia non è
consentito farsi giustizia da soli, figliolo.-
Kyosuke allora si mise a piangere, portandosi le mani
inguantate a coppa sugli occhi, disperato…
-Tu hai un
fratello, vero? Lui è paralizzato… Ma non è stata quella donna la colpevole.-
-E chi è stato
allora???-
Saltò su Kyosuke in uno scatto d’ira. Calmo come al solito,
l’avvocato gli rispose con le cose che sapeva o che intuiva.
-…A
paralizzare tuo fratello quella notte è stata una ragazza di nome MadokaAyukawa. Quella sera aveva
preso in prestito l’auto di un amico e poi ha tamponato l’auto di tuo fratello,
perché era in preda alla rabbia. Non sono mai riusciti a risalire a lei, perché
riuscì a riparare il danno molto prima che la polizia se ne accorgesse…-
-Come… come ha
detto che si chiama??? Ma io… io devo denunciarla,
questa puttana!!! Mi … Mi ripeta il suo nome!!!-
-Ho detto che
si chiama MadokaAyukawa. Ma
tu non devi preoccuparti di questo, figliolo… Lei sta per avere ciò che si
merita.-
-Cosa? E lei
come fa a saperlo…?-
-Te l’ho detto
figliolo. Ci sono cose che non possono essere spiegate a parole.-
Poi l’anziano
avvocato prese il giovane medico sottobraccio… Kyosuke
si asciugò le lacrime.
-Mio… mio
fratello. Potremo salvarlo?-
-Forse. Ti
aiuterò, se vuoi.-
Rivolgendogli
una triste occhiata piena di gratitudine, Kyosuke si
allontanò con l’avvocato, con le gambe che gli tremavano. L’avvocato Bracardi disse “Vieni… lasciamola riposare.”
E scomparvero
fuori dalla porta.
Sul letto, Bulma continuava a dormire beatamente.
*****
Girovagando senza meta precisa per la città,
Takao ferma la sua Getz nei
pressi di un viale. Nelle vicinanze di casa sua. È il viale dei prostituti, il viale della perdizione omosessuale di Roma.
Il posto dove ha visto Kei quel sabato appena
trascorso da circa mezz’ora… Ora Takao è lì fermo a
pensare… Quando all’improvviso il suo cellulare si mette a squillare.
Briiiiiiip!
Briiiiiiip!
Briiiiiiip!
Prese il
cellulare e rispose.
-Pronto.-
-Hai visto
tutto, non è vero?-
Era Kei. Takao chiuse gli occhi
trattenendo l’impulso di piangere e controllando la sua voce per mantenerla
ferma e calma… Ma dentro di sé si sentiva male, malissimo. E poi, come avevano
potuto i suoi due amici fargli uno scherzo del genere?
-Sì.-
-Mi dispiace.-
-Adesso ti
dispiace, eh? Però mi sembrava che ti stessi dando da fare alla grande, con
quei due stronzi dei miei amici.-
-Senti… devo
dirti una cosa. Io non sono quello che tu vuoi. Non lo sarò mai e non credo che
tra noi funzionerebbe. Per cui … è meglio se non ti fai troppe illusioni, Takao…-
-….-
Quelle parole
furono taglienti come rasoi… Non voleva credere a quello che Kei gli aveva appena detto, eppure era così. Si sentì come
se il mondo gli fosse crollato addosso. E iniziò a piangere. Lacrime gli
sgorgarono dagli occhi, e ci fu un sospiro da parte di Kei.
-Qui con me ci
sono i tuoi due amici… Vuoi parlarci?-
-No. Andate a fare in culo tutti e tre. Stronzi!!!!!!-
Disse
quell’ultima frase urlando, e dopodiché chiuse la comunicazione, scaraventando
il cellulare sul cruscotto.
-FANCULO!!!!-
Sbatté le mani
sul volante, provocando un prolungato squillo di clacson. Poi scese dall’auto
ed andò a sedersi su una panchina. Se il giorno prima si era sentito così
innamorato nei confronti di Kei, una volta che
l’aveva conosciuto bene, si era reso conto che razza di persona era. Non aveva
nessuna intenzione di mollare la sua attività di gigolò, perché era una cosa
che gli piaceva fare… l’aveva dimostrato più che bene andando a fare un
servizio doppio ai suoi due amici. Begli stronzi anche loro! Si erano permessi
di provocare il suo Kei ed avevano approfittato di
lui… “Spero solo che vi faccia una fattura salata, brutti pezzi di merda!”
Pensò, ed improvvisamente sentì il bisogno di calmarsi. Vide un ragazzo che
passava di là, un bel ragazzo castano con gli occhiali che teneva in mano una
cartelletta per disegni. Sinceramente si chiedeva che cosa ci facesse un
ragazzo del genere con una cartelletta per disegni a quell’ora della notte, e
per giunta di domenica. L’unica cosa che gli importava in quel momento era che
il ragazzo aveva una sigaretta stretta fra le dita.
-Scusa…?-
-Sì?-
-Non è che mi
offriresti una sigaretta?-
-Certo, come no.-
Il ragazzo gli sorrise e tirò fuori una sigaretta dal pacchetto di PallMall che teneva nel taschino
dei pantaloni. Gliel’accese e Takao tirò una boccata
soddisfacente… Di rado nella sua vita fumava, ma spesso si era trovato
costretto a farlo per calmarsi.
-Mmm… grazie… ci voleva proprio.-
-Problemi?-
Takao rispose con un’alzata di spalle.
-In un certo
senso…-
-Eh, quanto ti
capisco.-
-Anche tu hai
qualcosa che non va?-
-In un certo
senso.-
Rispose il
ragazzo, sorridendogli amichevole. Takao aspirò
un’altra boccata dalla sigaretta, sbuffando fuori il fumo bluastro dalla bocca…
Gli sorrise di ritorno, e lo invitò a parlare.
Parlarono a
lungo, quella notte… mentre il cellulare di Takao
nella sua auto continuava a squillare. Era l’ospedale che voleva comunicargli
che sua madre era stata ricoverata d’urgenza per un tumore…
*****
Intanto, a Villa Borghese, Vegeta continua a
controllare l’orologio da polso e quello del cellulare, alternativamente. Non
riesce a capire perché sua moglie non sia ancora lì. Ormai ha girato tutto quel
cazzo di parco e lei non c’è. Prova a chiamarla sul cellulare ma non risponde.
Allora a quel punto si incazza sul serio, ma a placare la sua ira arriva una
telefonata.
-Pronto?-
-Signor
Vegeta? Qui è l’Ospedale Sandro Pertini. Abbiamo ricoverato sua moglie per una
grave complicazione del suo tumore allo stomaco.-
-Oh mio dio!!! Dove…?-
-Via Nomentana, signor Vegeta. Sua moglie è ricoverata nella
divisione Oncologia.-
-E come sta?-
-Al momento
sta dormendo. Le abbiamo somministrato dei forti calmanti.-
-Vengo subito,
immediatamente.-
Chiuse la
chiamata, non più arrabbiato ma bensì spaventato… Si avviò verso la sua auto,
accese il motore e di nuovo partì in fretta. “Questo weekend di sicuro me lo
ricorderò per un bel po’ di tempo…” pensò, mentre guidava alla volta del Sandro
Pertini.
Con la mano
destra cercò di comporre il numero di Takao. Suonava
libero, ma non rispondeva nessuno.
-Porca
puttana!!! Che cazzo lo tiene a fare il cellulare mio
figlio se poi non risponde mai!!!-
Fortunatamente
le strade romane di notte erano abbastanza deserte. Passò con il rosso una
decina di semafori e si fece un bel po’ di contromano, sfidando la sicurezza
stradale stessa. Fino a che…
-!!!!-
Un’auto
procedeva sulla sua stessa corsia di marcia. Era una Audi
station wagon.
Alla guida
dell’Audi c’era Madoka. L’emorragia le aveva
appannato parecchio la vista, e al momento girava alla cieca… Per di più su una
corsia di marcia errata. Ora vedeva quel SUV che le veniva incontro, e pensò
che forse doveva frenare, ma non lo fece. Anzi. Pigiò
ancora di più sull’acceleratore. Il SUV lampeggiò con i fari, ma non ci fu
niente da fare.
E fu un
attimo.
I paraurti
delle due auto si baciarono appassionatamente, contorcendosi per l’urto. Non
indossando le cinture, Vegeta fu sbalzato verso il parabrezza, andando a
cozzare forte con il cranio.
Morì sul
colpo.
Nell’altra
auto, Madoka era ridotta allo stesso modo. L’air bag non era acceso per non rovinare l’auto, e di
conseguenza lei aveva cozzato forte il setto nasale contro la corona del
volante. A causa della sua testa, il clacson stava suonando.
Quella di Vegeta,
cinquantotto anni, professione capo ufficio vendite nell’azienda di sua moglie…
che tradiva fino all’altro ieri… ma che voleva riconquistare…
…E quella di Madoka, ventinove anni, disoccupata,
laureata in statistica ma che non trovava lavoro da molto tempo, con
troppo dispiacere da parte della sua mente. Negli ultimi istanti della sua
vita, il suo cervello si mise a ricordare. Tra i tanti ricordi fugaci della sua
vita che le stava correndo davanti agli occhi come un film, rivide sé stessa
impazzita, a guidare un fuoristrada bianco. Poi vide un’altra auto più piccola
che svoltava, e lei che di proposito andava a tamponarla. Poi vide di nuovo sé
stessa che portava l’auto da un carrozziere per farla riparare(non che l’auto si
fosse danneggiata più di tanto), e poi che se ne andava a dormire, rimuovendo
tutto l’accaduto grazie ai pensieri sull’Università e lo studio rimasto
accantonato.
Poi il lavoro
che non si trovava e le angherie amorose varie diventarono il suo problema più
grande. Ebbene quella notte il suo problema era stato finalmente risolto.
Qualcuno dice
addirittura che prima di morire a causa della forte botta, la ragazza avesse
sorriso, e quel sorriso le fosse rimasto per molto tempo. Era finalmente
libera.
*****
Seduto in sala d’attesa, Jason aspetta che
qualcuno gli dica come sta Lorenzo. Ad un certo punto viene fuori un medico
giovane, che sorride e gli dice, in inglese, che il suo amico sta bene. Jason
fa un sorriso a trentadue denti e si asciuga gli occhi dalle lacrime
precedenti, seguendo il medico verso la stanza dove Lorenzo è ricoverato.
Qui, Lorenzo pensa che è
stato veramente fortunato a non morire, per quanto all’inizio di quel
giorno lo volesse più di ogni altra cosa… Ringraziò il cielo di essere ancora
vivo e fuori pericolo. I due proiettili che lo avevano ferito sono entrati ed
usciti, gli hanno detto i medici, e mentre lo medicavano erano addirittura
gioviali, mentre lui stava provando un dolore pazzesco. Ora era tranquillamente
disteso sul lettino, ad osservare la notte fuori dalla finestra.
Ad un certo punto, la porta si apre ed entra
Jason.
-Lorenzo!-
-Jason!-
L’inglese si
fece avanti e gli andò vicino… Sorridevano entrambi, guardandosi negli occhi in
una muta conversazione… Jason era raggiante di gioia, e Lorenzo anche nel
vederlo.
-Sei stato un
eroe, Jason… è … è incredibile.-
-Non ho fatto
nulla… forse sarebbe stato meglio scappare via quando lei era scesa dall’auto.-
-Già… ma io… non
volevo che lei ci inseguisse e ti facesse del male.-
-Oh… l’hai
fatto per me, quindi?-
Guardando
negli occhi Jason, Lorenzo annuì.
-Sì, l’ho
fatto per te. Mi sono già affezionato a te, e ci conosciamo da poco.-
-Anch’io, Lorenzo… Anch’io.-
-Forse è un
segno del destino che abbiamo dovuto affrontare questo…-
-Già. Potrebbe
essere.-
-Perché non
proviamo a restare insieme per un po’? Tu devi tornare a Londra?-
-Ebbene… No.
Non ancora.-
Jason sorrise.
-Vuoi provare
ad uscire con me?-
-Io…-
-Ho capito… non
sono abbastanza maturo…-
Lorenzo fece
una faccia sconsolata… Poi sentì la mano di Jason che gli prendeva la sua… e
gliela stringeva dolcemente.
-Tu sei
maturo… ed io voglio uscire con te… E credo che tu sia il mio eroe.-
Disse Jason
sorridendogli. Lorenzo arrossì per essere stato chiamato “eroe”, e a quel punto
Jason gli baciò dolcemente le labbra… felice di aver trovato qualcuno dopo il
dolore del suo “fidanzato” maturo.
Più tardi
venne comunicato a Lorenzo che sua madre era fuori pericolo, che l’emorragia
era stata fermata in tempo, ma che la signora avrebbe dovuto smetterla di bere
superalcoolici ad ogni ora della giornata. Lorenzo giurò su Dio che se sua
madre avesse toccato anche solo un’altra bottiglia che conteneva alcoolici, le
avrebbe tagliato le mani.
*****
In sala parto, ChiChi
spinge con tutte le sue forze, respira, spinge ancora, incitata dai medici che
l’aiutano, cercando di dare luce a quel bastardo che si porta in grembo da tanto
tempo, di cui non conosce il padre… Alla fine ci riesce.
-Congratulazioni
signora. È una bambina.-
-Ooohhhh…-
ChiChi guardò quel piccolo fagottino umano mentre strillava
e tremava nelle mani dell’ostetrica che l’aveva tirata fuori dal suo grembo… Chiuse
gli occhi, e pianse… Sperò che Bulma stesse bene, e pensò di chiedere notizie ai medici del reparto… Ma per il
momento non lo fece. Adesso c’era sua figlia, e Bulma
poteva aspettare.
Ebbe un mezzo
mancamento quando più tardi le fu riferito che la sua amica era stata
ricoverata in oncologia con una complicazione di tumore.
…Più tardi
nella giornata arrivò anche Takao all’ospedale. Bulma si era già svegliata e quando il figlio le riferì la
notizia che suo padre era morto, piansero insieme, abbracciandosi. Madre e
figlio erano rimasti soli, e per di più lei aveva questo tumore… Takao fu grato che sua madre fosse ancora viva, ma avrebbe
per sempre sentito la mancanza di suo padre…
Anche ChiChi si unì all’abbraccio più tardi, riferendo che aveva
partorito una bellissima bambina… Bulma fu
felicissima di apprendere quella notizia, così come fu felice di presentare la
ragazza a suo figlio.
Girando per i
corridoi dell’atrio, mentre era al bar a prendere due bottiglie di coca per lui
e Lorenzo, Jason incontrò Takao. Da lì andarono a
trovare Lorenzo, che si era beccato le pallottole della pazza che si era
scontrata con il padre di Takao… Sorrisero tutti e
tre, e poi si misero a ridere per essere stati tra i sopravvissuti di un
weekend davvero strano.
Domani arriverà fra un po’
Ma tu sei sveglia già
Avrei bisogno di qualcosa da dire
Avrei bisogno di qualcosa da fare
Ma sarà solo un altro giorno
Un nuovo giorno per ricominciare
Domani proverai a dimenticarti tutto
24 HOURS – STORIES OF AN ORDINARY DAY
Soggetto e sceneggiatura di
Notrix
Marco De Cristina
Produttori esecutivi
BulmaBrief
Vegeta
Segretaria di produzione
Bra Brief
Domani metterai un vestito e un po’ di trucco
Per sentirti diversa
Perché diversa è la tua vita
Diresti che è un po’ più in salita
Ma ce l’hai fatta già altre volte
Che ti ripeti che sei forte
Che dopo tutto in fondo anche questa passerà
Passerà
Domani domani
Domani domani
Dai che domani uscirà il sole
Anche se dentro piove
Regia di
Notrix
Montaggio
KyosukeKasuga
HitoshiKinomiya
E poi c’è la psicologia
Che da equilibrio ad ogni tua idea
E ti ripeti che sei forte
Che dopo tutto in fondo un altro amore arriverà
Arriverà
Operatore alla macchina da presa
TakaoKinomiya
HitoshiKinomiya
Fonico in presa diretta
Junior
Domani domani
Domani domani
Dai che domani uscirà il sole
Anche se dentro piove
Domani domani
Domani domani
Dai che domani uscirà il sole
Anche se dentro piove
Direttore della fotografia
SergeyKasuga
Negativo
KODAK
Canzoni
“Mrs. Robinson” –
Simon & Garfunkel
“Domani” – Fabrizio
Moro
Dai che domani uscirà il sole
Dai che domani uscirà il sole
Dai che domani uscirà il sole
Si ringrazia
Il Comune di Roma
Azienda ospedaliera
Sandro Pertini
Direzione ASL Regione
Lazio
Università La Sapienza di Roma
Direzione Beni
Culturali della Regione Lazio
Accornero
Agenzia Viaggi
Centro Commerciale Casilino
BNP Paribas – Banca Nazionale del Lavoro
Via Condotti
gioiellerie
Muccassassina
Discoteca
Costa Autoveicoli
Concessionaria Lancia
BMW
Audi Zentrum Roma
LaurentinAuto
S.p.A.
NonSoloTaxi
Cinecittà teatri di posa
Arredamenti IKEA
Tutti i personaggi ed i fatti narrati sono frutto della fantasia dello
scrittore e non corrispondono a realtà.
Ogni riferimento a persone o cose realmente esistite è puramente
casuale.