Not the more timid Kristine

di Litha
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Sorelle ***
Capitolo 2: *** Ordinaria amministrazione ***
Capitolo 3: *** 3. Promessa ***



Capitolo 1
*** 1. Sorelle ***


Mancava meno di una settimana a quei benedetti esami di riparazione, ma purtroppo mia sorella non ne avrebbe preso parte, non avrebbe potuto rimediare i suoi pessimi voti, non ora.

Una distrazione, un semplice errore. Mia sorella non era più con me, non mi avrebbe più potuta rassicurare, consolare, o solamente insultare la mia timidezza. Lei che era presente sempre, anche mentre mi sfuriavo con il cuscino, quando litigavo con i miei nonni, lei era lì, pronta ad ascoltare senza giudicare. Ma ora, mi sentivo persa. Lei costretta a stare sdraiata su di un letto ospedaliero, senza sapere che succede intorno, senza aprire gli occhi. Bloccata in un sonno continuo. I dottori avevano detto che si sarebbe ripresa, sapevo che non se ne sarebbe andata, troppe cose la legavano qui. Lei era forte e determinata. E non avrebbe mai lasciato sole le sue sorelle. Mai.

La andavo a trovare tutti i giorni, parlavo senza aspettare una risposta, senza versare una lacrima, come faceva mamma quando la vedeva. No , non piangevo. Sapevo cosa mi avrebbe detto, mi avrebbe ripreso per la mia debolezza. E non volevo essere debole. No, non più.

Sdraiata sul suo letto pensavo e ripensavo. Cosa avrei fatto ora? Non lo sapevo nemmeno io.

Presi il computer e andai sulla sua cartella. Lessi i sui scritti, mai finiti.

Scriveva su tutto. Sulla sua vita, sui suoi sogni. E per la prima volta sperai riuscisse ad esaudirli.

Passai più di tre ore a leggere le storie incompiute. Aveva finito forse qualche one shot, ma erano talmente tanti racconti che non mi accorsi nemmeno.

Lessi e rilessi. Fino a quando non trovai la biografia che stavamo scrivendo insieme. Aprì la pagina, sicura che non avrei ritrovato il sorriso ,leggendo.

L’acqua che ho tenuto tra le mani in tutto questo tempo sta diventando troppo movimentata, esce dai buchetti tra le dita, fino a quando non rimarrà altro che una mano bagnata, con delle gocce che si asciugheranno presto al sole. Ho perso tutti i miei ponti, e sono stanca, distrutta da non so nemmeno cosa, per ricostruirne di nuovi.

La frase che più di tutte mi aveva colpita. Ecco, mi sentivo allo stesso modo. Ma in cuor mio sapevo che avrei dovuto ricostruire nuovi ponti. Per me, ma soprattutto per lei.

 

                  -Kristy! Sveglia! Devi andare a scuola- eccolo, il giorno che avrei evitato volentieri arrivasse.

Il primo giorno di scuola. In più non avevo nemmeno i compagni dell’anno scorso. E no, ero stata bocciata. Fan culo.

-arrivo- sbuffai tirando indietro le coperte che mi avvolgevano e mi facevano sentire quello stato di tepore  e riposo.

Andai in bagno, cercando di rimanere sveglia e sopprimendo i continui sbadigli. Guardandomi allo specchio mi accorsi di quanto sembravo distrutta. Ero un mostro. Le occhiaie diventavano violacee, le labbra erano secche e screpolate, e la pelle giallastra sembrava malaticcia.

Lavai il viso e i denti. E mi ridiressi in camera.

Sedetti sullo sgabello di Lisa, dove era solita truccarsi la mattina. E presi i suoi trucchi. Non avevo deciso cosa fare fino a quando non accesi il piccolo lampadario.

Correttore fondotinta e tanto nero sugli occhi. Mi pettinai con una coda, raccogliendo la frangia in una bombatura. Lucidalabbra ed ero pronta.

Decisi di andare a scuola a piedi. Camminare mi faceva bene, anche nei giorni nuvolosi e umidi come questi, mi aiutava a pensare, e pensando non faticavo ad arrivare a scuola in orario. Andai all’entrata, e vidi le mie ex compagne di classe che parlavano animatamente. Non mi riconobbero per mia fortuna. Quindi sgusciai fino al portone senza essere riconosciuta da nessuno. Molti mi guardavano, certi cercavano di capire chi fossi, stupita da tanta attenzione e dal fatto che non arrossì, alzai lo sguardo e i miei occhi incrociarono delle irridi azzurre, due occhi enormi mi fissavano interessati. All’inizio rimasi positivamente sorpresa, poi ripensai a tutto quello che avevo passato e un moto di disgusto si fece sentire nel mio stomaco. Quel ragazzo era di bell’aspetto, occhi celesti come il cielo, e capelli biondo cenere, la carnagione era abbronzata, e vestiva con una maglietta nera e jeans lunghi. Mi guardava come se stesse aspettando chissà che, e dopo si voltò deluso.

La campanella suonò e riprendendomi dai miei pensieri, entrai senza esitazione.

-scusi, la seconda M?- domandai alla segretaria dell’istituto, lei mi sorrise e mi indicò la classe, le informazioni che mi diede erano semplici, anche perché conoscevo la scuola relativamente bene ma il suo accento mediterraneo resero il compito alquanto audace.

Entrai nella classe senza troppe cerimonie, e andai a prendere il banco in fondo all’aula. Era un banco rovinato ed anonimo, perfetto.

Mi guardarono tutti, sembravano imbambolati, come dei bambini che guardano il giocattolo nuovo ma che non possono toccarlo per paura che si rompa. Ecco la mia sensazione era quella, io ero il giocattolo, fragile e delicato. Una sola parola rivoltami mi avrebbe fatto avvampare e tirare giù la testa. Ma poi ricordai le parole del testo di mia sorella.

“Se la timidezza è un tuo difetto, basta combatterla.

Forse troverai che nei tuoi pregi c’è anche l’audacia!”

-ciao, io sono Silvia, tu sei nuova?- domandò al mio indirizzo una ragazzina dai capelli neri corvini, raccolti in una coda di cavallo, due occhi marroni e un boschetto della felicità sopra di essi. Ovvero due enormi sopraciglia.

-no, sono stata bocciata, ero della seconda M dell’anno scorso- dissi e mi stupì del tono incolore che usciva dalla mia bocca. Le mie corde vocali non avevano mai usato un tono simile, era strano.

La ragazzina si guardò in giro, e con voce mielosa riportò la mia attenzione su di sé.

-quindi tu vai male a scuola?- chiese trattenendo una risatina, una risatina che avrei volentieri fatto tacere con un pugno.

Purtroppo i miei piani vennero rovinati dall’entrata del professore. Il professore di matematica, Stefano Rioni. Un uomo sulla quarantina, capelli neri e occhi del medesimo colore. Un uomo che detta con tutta sincerità farei sparire dalla faccia della terra.

-bene ragazzi, seduti- disse con la sua r moscia, naturalmente nessuno lo ascoltò, e lui timidamente ripeté più volte.

Dopo ben dieci minuti i ragazzi si sedettero ai loro posti. Lui andò alla cattedra e iniziò a fare l’appello. Era impensabile come quell’uomo balbettasse anche mentre diceva venti nomi, di alunni che probabilmente non si sarebbe ricordato nemmeno.

-ragazzi abbiamo nuovi compagni, forza, Kristine e Jason alla cattedra- chiamò me e un altro ragazzo.

Mi alzai di malavoglia, non avevo voglia di avere tutti gli occhi puntati su di me.

Mi stupì nel notare che il presunto Jason era il ragazzo biondo di poco prima, mi fissò di nuovo intensamente e io ricambiai lo sguardo a testa alta.

-bene, Jason vuoi presentarti tu?- chiese il professore, balbettando solo sull’ultima sillaba.

- d’accordo, mi chiamo Jason Aire, ho appena compiuto tredici anni, vengo dall’America precisamente da Brooklyn. Mi sono trasferito in Italia per problemi famigliari, e ora vivo qui da due mesi. Sono un anno più grande perché sono stato bocciato in prima media. Spero di trovarmi bene qui- il ragazzo era sicuro di sé, sapeva esattamente cosa dire e teneva la testa alta in ogni occasione ci avrei messo la mano sul fuoco.

-bene, invece ragazzi lei è Kristine..- bloccai il professore con la mano, lanciando uno sguardo molto, ma molto truce.

Poi finsi un colpo di tosse per attirare l’attenzione verso di me.

-grazie professore, ma penso di potermi presentare da sola-.





*** Spazio Autrice ***
Ciao a tutti! Spero che il primo capitolo sia stato interessante...
Questa è una storia che ho in mente da tempo... fatemi sapere se devo continuare a pubblicare i capitoli ...
Spero che sia di vostro gradimento e se potete (me che supplica in ginocchio) lasciate una recensione... Per Favore...:'(
Apparte questo ditemi se vi piace o no =)
Un bacio Litha

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Capitolo 2
*** Ordinaria amministrazione ***


Non potevo credere alle mie orecchie. Eppure quella frase l’avevo detta io. Io che fino a qualche mese fa abbassavo lo sguardo se qualcuno mi rivolgeva una qualsiasi domanda, io che avevo il timore di questo giorno e ne parlavo la notte con Lisa.

“Sbattitene! Insomma non vorrai farti mettere i piedi in testa no?

Quel giorno dovrai essere sicura di te! Essere capace di far tacere anche un professore!”

Ecco cosa mi ripeteva mia sorella ogni volta che parlavo dell’inizio della scuola, mi incoraggiava a non temere nulla. E senza volerlo avevo esaudito uno dei suoi desideri.

-ehm, d’accordo allora signorina Allen si presenti pure- disse balbettando in tutta la frase. L’avevo lasciato di stucco glielo si leggeva negli occhi.

-grazie, allora mi chiamo Kristine, ho tredici anni, e si, sono stata bocciata, frequentavo la seconda M l’anno scorso, ero un tipo abbastanza solitario e timido, vi basti tenere a mente il verbo al passato- e dicendo ciò andai a sedermi, lasciando il professore ancora scosso. Si, ora mi sentivo veramente tanto realizzata.

La prima ora passò velocemente, così come la seconda e la terza. Tre ore ininterrotte di Rioni. Come avrebbe detto mia sorella da spararsi siringe di insulina. E impasticcarsi di valeriana.

I problemi sorsero all’intervallo.

Tranquillamente stavo seduta al banco, a pensare quanto fosse noiosa la vita, non avevo intenzione di alzarmi e buttarmi nella mischia di corpi ammassati che chiamano intervallo, preferivo di gran lunga la solitudine della classe quasi vuota.

Poi sentì una voce chiamarmi e con rammarico mi girai, lasciando perdere la contemplazione delle piante del giardino.

-ciao, tu sei Kristine giusto?- un gruppo di ragazzi che avevo scorso nella classe prima mi si avvicinò sorridente, feci cenno di sì con la testa.

-ci chiedevamo se per caso... beh... se magari... volevi venire in giro con noi oggi pomeriggio- mi domandò uno del gruppo. Ma da quando i ragazzi balbettano quando mi parlano? Di solito quella ero io...

-mi dispiace ma sono impegnata.. sarà per un’altra volta- tagliai corto tornando a guardare il giardino.

Sentì degli urli isterici e qualcuno che diceva”avete visto quanto è carina?”.

Tutti uguali, superficiali e noiosi.

I dieci minuti concessi per l’intervallo terminarono velocemente. E speravo che quella giornata non mi avrebbe più riservato sorprese.

-ragazzi, i vostri professori sono impegnati, quindi ora ci sono io- una voce che avevo conosciuto e odiato, ma soprattutto odiato.

Voltai lo sguardo riducendo gli occhi a due fessure. La professoressa Diana. Dentro di me un moto di vomito si fece largo. Io non la tolleravo quella donna. Troppo saccente, troppo perfetta e troppo stupida.

-Kristine, sono felice di rivederti, come stai?- domandò nella mia direzione. Si aspettava chissà cosa. Forse che avrei abbassato la testa sentendo i suoi insulti in silenzio.

- salve professoressa, io tutto bene, lei?- domandai con voce ferma e sicura e forse anche fredda.

Rimase di sasso. Sorrisi tra me e me, ero cambiata e dovevano ancora accorgersi di quanto.

-vedo che sei cresciuta, studierai quest’anno? Sai non vorrei doverti aiutare troppo, insomma io mi sono diplomata e queste cose le so a memoria, mi annoierei a rispiegarle- cercava di mettermi in difficoltà. Ma no, non gli avrei fatto vincere questa battaglia.

-ma professoressa, così mi delude- dissi sorridendo. O meglio ghignando.

-in che senso?- chiese lei scettica e furibonda.

“Sai, gli stupidi non sono quelli che non sanno.

Ma sono quelli che presumono di sapere!”

Altra pillola di saggezza di Lisa. Questa frase me l’aveva detta durante una storica litigata.

-sa, professoressa, mi hanno detto di prendere per stupidi quelli che presumono di conoscere tutto, e di prendere seriamente chi non pretende e vuole imparare- lo dissi calcando bene la parola stupidi. Oh si. Gliel’avevo messo in culo!

I suoi occhi si chiusero in due fessure, mentre due luci nelle pupille mi fecero capire quanto a fondo avevo colpito.

Dentro di esultai, risi, ballai addirittura la danza della vittoria. Non mi ero mai sentita così bene.

Dietro la professoressa Diana, vedevo i miei ormai, compagni di classe fissare la scena sconvolti, mi misi a ridere più forte dentro, non era mai capitato che qualcuno mi fissasse e che io non abbassassi lo sguardo intimidita. Stavo bene, come non lo ero mai stata.

Tornai a guardare la professoressa, che non parlava, semplicemente mi lanciava sguardi carichi d’odio. Mentre io la fissavo nelle pupille senza avere paura, senza rimpianti per quello che avevo detto.

-bene, dato che si comporta così che ne dice di venire a sedersi in prima fila? Vicino al signorino Aire- non era una domanda, infatti mi prese la borsa e me la mise nel banco vicino a quello del biondo, senza esitazioni mi alzai dalla sedia, e tenendo la testa alta, andai in prima fila, dove il biondo mi squadrava da capo a piedi.

Mi sedetti, in un movimento preciso ed atletico. Poi tornai a guardare la professoressa, che sorrideva malignamente, o meglio ghignava sadica.

-oh, grazie qui vedo molto meglio!- dissi fingendomi felice. La ballata della vittoria continuava nella mia testa. E il ghigno che avevo stampato in faccia mostrava ciò che stava succedendo. Mi sentivo potente ed indistruttibile, insomma una sensazione mai provata.

Mi voltai a guardare il mio compagno di banco, lo vidi assorto a leggere qualcosa. La curiosità di sapere cosa leggesse, era forte, ma non avrei ceduto. In effetti  non mi doveva importare niente. Io nemmeno lo conoscevo.

Lui mi beccò a guardarlo,e contro ogni mia aspettativa sorrise. Era un sorriso diverso da quelli che avevo visto sul volto dei miei ex compagni di scuola, questo era un sorriso caldo e sincero. Mi chiesi come mai, nemmeno lo conoscevo, perché mi regalava quel sorriso così bello?

La mia faccia doveva essere di stupore, perché anche la sua divenne perplessa. Io guardavo lui, mentre lui guardava me.

Quel momento di silenzio imbarazzante fu interrotto da lui, che riprendendo il sorriso iniziò a parlare.

-piacere, io sono Jason, tu Kristine?- domandò retoricamente. Annui, parlare non sarebbe servito. Sapeva benissimo chi ero, e allora perché dare fiato alla bocca inutilmente?

-sei una tipa scontrosa sai?- chiese sempre retoricamente. Continuava a farsi domande delle quali anche uno stupido avrebbe capito le risposte.

-sono gli altri che mi ci hanno fatto diventare- dissi, rispondendo di malavoglia. Non avevo voglia di parlare. Volevo solo che quella mattina finisse in fretta. Molto in fretta.

Iniziò a parlare, di cose che sinceramente ritenevo futili, ma lui non si scoraggiava dalla mai faccia perplessa continuava imperterrito a parlare. Parlare e parlare.

Pensai che il suo cervello girasse solo sul calcio dopo che in venti minuti mi aveva raccontato filo per segno la finale della scorsa settimana. Inutile era dire che io il calcio non l’avevo mai capito. Vedere questi tipi super pagati correre in calzoncini dietro un pallone non era la prospettiva migliore che avevo. Avevo iniziato a seguire il calcio per avvicinarmi ad un ragazzo, ma quando avevo capito che lui nemmeno calcolava la mia esistenza avevo deciso di lasciar perdere. E mi ero concentrata su cose stupidissime, come ad esempio, vecchie commedie famigliari, che mi avevano traviato, facendomi perdere il contatto con il mondo esterno.

Quel pensiero mi passo veloce nella testa. Come ero stata stupida a credere di poter interessare ad un ragazzo popolare e pieno di amici. Una bambina. Mi ero comportata da bambina.

Quando lo dissi a Lisa, lei si mise a ridere. E continuò per un bel po’. Poi aveva deciso di aiutarmi, ripetendomi più volte che sarei stata  bellissima se mi fossi curata di più. Cercando di togliere quei brufoli che mi deturpavano il viso fino a due mesi fa.

Ora la mia pelle era curata e perfetta. Certo un po’ giallastra a causa della preoccupazione e della pressione delle ultime settimane. Ma comunque liscia e senza imperfezioni.

-scommetto che il calcio non ti interessa- sospirò infine lui, riportandomi sulla terra. Ecco, mi ero persa di nuovo nei miei pensieri.

-già, non ne trovo l’utilità- risposi annuendo impercettibilmente.

Mi sorrise e poi con un sospiro molto più profondo del precedente prese parola.

-vedi, il calcio di per se non ha alcuna utilità, hai ragione. Ma è un modo come un altro per sfogarsi, uno sport divertente- disse serio -anche se si è super pagati- l’ultima frase la disse ironicamente. Non riuscì a trattenere un sorrisino.

-allora sa ridere!- mi prese in giro scompigliandomi i capelli, stava già prendendo troppa confidenza, ma ripensando agli altri compagni di classe lui era il più simpatico, senza dubbio.


Ciao a tutti! spero che questo capitolo vi sia piaciuto !
Un bacio!
Litha

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Capitolo 3
*** 3. Promessa ***


Seduta vicino al suo letto la guardavo. Il viso spigoloso riposava rilassato. Le palpebre chiuse nascondevano i suoi occhi color del cioccolato, le labbra carnose e rosse serrate in un’espressione neutra. Sembrava che dormisse come tante volte, ma quel sonno durava da ormai quattro settimane. Non la vedevo sorridere da un mese.

Lisa riposava, facendo piccoli respiri quasi impercettibili. Immobile in modo disumano.

Nella stanza ero solo io, mia madre era andata a parlare con i medici. Quando ero entrata nella stanza piangeva. Non che fosse una novità, piangeva tutto il giorno e anche tutta la notte. Il suo viso stava invecchiando a causa della preoccupazione e dell’ansia. Le occhiaie già marcate prima ora sembravano due borse della spesa troppo riempite, le rughe iniziavano a vedersi per la prima volta e la pelle era più gialla della mia. Smorta e triste.

Ormai ero sicura non dormisse nemmeno più.

-sai, oggi ho iniziato la scuola- dissi, fissandomi sulla porta e riportando gli avvenimenti di quella mattina alla mente.

-ho anche seguito i tuoi consigli, sono stata audace –continuai, senza aspettare una risposta. Chissà cosa mi avrebbe detto se fosse stata sveglia, probabilmente mi avrebbe dato il cinque, complimentandosi con la mia sfacciataggine.

Avrei voluto che lei vedesse come mi ero comportata, avrei voluto che vedesse la nuova me.

In un certo senso sapevo e speravo che lei avesse visto.

Guardai la stanza, era una singola, pareti bianche, una finestra che dava sulla città e il letto in mezzo. Sicuramente non gli sarebbe piaciuta, avrebbe detto “bella merda”.

L’orologio sopra la porta segnava le quattro e venticinque, fra poco sarei dovuta tornare a casa. Non volevo lasciarla li da sola, anche se la solitudine a lei piaceva da impazzire.

-fra poco devo andare, vengo a romperti anche domani non ti preoccupare- trattenni le lacrime. Non volevo e non potevo piangere, dovevo essere forte. Per tutti.

-però ti prometto che ce la metterò tutta- sussurrai avvicinandomi al suo orecchio, di cosa parlavo lo sapevamo solo noi.

Mi alzai dalla sedia e mi diressi alla porta, mi voltai un’ultima volta sussurrando un flebile ed impercettibile “ciao”.

Corsi verso l’uscita il più in fretta possibile, volevo andarmene da quel posto così vuoto e privo di sentimenti felici, tanta tristezza sentivo nell’aria, o forse era solamente la mia che mi bloccava il respiro.

Presi il cellulare e scrissi un messaggio a mia madre. Gli comunicavo che sarei tornata a casa a piedi. Non avrei voluto lasciarla da sola ma non potevo restare lì un minuto di più.

Mentre mi apprestavo ad inviare il messaggio andai a sbattere contro qualcuno, che come me usciva dalla struttura. Abbassai gli occhi e senza degnare di uno sguardo la persona davanti a me, mormorando uno “scusa” iniziai a correre.

Corsa che fu fermata dalle urla di quest’ultimo, che si era messo ad inseguirmi gridando di fermarmi. Mi fermai solo quando impossibilitata dal traffico non potevo più correre ed attraversare la strada.

-finalmente ti sei fermata- disse una voce dietro di me, annaspava e stranamente non sembrava arrabbiata o altro. Mi voltai, cercando l’espressione più normale nel mio repertorio. Ma non ci riuscì, e sul mio volto rimase quella smorfia, misto di dolore e sofferenza che provavo dentro.

Quando alzai lo sguardo e vidi la persona che sorrideva e cercava di prendere fiato, rimasi di sasso. E lui che ci faceva qui?

I lineamenti del mio viso dovevano essere qualcosa di estremamente leggibile. Perché ero talmente stupita da aver abbandonato la maschera di freddezza che avevo quella mattina a scuola, quando l’avevo incontrato.

-Kristine, mi spieghi perché stai correndo come una pazza in mezzo al traffico?-domandò scrutando il mio viso con le sue irridi chiare.

La sua voce era divertita, ma anche preoccupata.

-sono sul marciapiede veramente- dissi senza accorgermi nemmeno. Sembrava che la bocca parlasse senza l’aiuto e l’autorizzazione del cervello.

Si mise a ridere senza un’apparente e logico motivo. Lo guardai alzando scetticamente un sopraciglio, al che lui si bloccò. Mi fissò intensamente, come a volermi leggere dentro poi, di nuovo senza un motivo valido mi sorrise, non felicemente ma più che altro mi sorrise rassicurante.

-che ne dici se ti invito al bar a prendere qualcosa da bere?- mi domanda, e senza aspettare una mia risposta mi prende il braccio e mi trascina al locale dietro di noi. Ignorando bellamente le mie proteste, mi fece accomodare ad un tavolo fuori e si mise sulla sedia di fronte.  Lo guardai confusa. E questo cosa voleva?
-cosa prendete?-domandò la cameriera apparsa dietro di me nel giro di un secondo. Mi spaventai sentendo la sua voce, ma fui rassicurata dalla sguardo solare di Jason.

-un succo di frutta alla pesca- disse lui, abbagliandomi con un sorriso che metteva in mostra i suoi denti bianchi e dritti.

-un cappuccino- ordinai cercando di avere la voce meno scocciata di quello che ero sicura fosse appena uscita.

La donna se ne andò, e noi rimanemmo soli al tavolo. Jason mi aveva trascinato al tavolo in fondo, quello più appartato.

-comunque non hai risposto- cominciò interrompendo il silenzio che si stava formando –che cosa diavolo ti è preso?-domandò il più serio possibile. Il suo viso si era trasformato da quello solare di un ragazzino a quello preoccupato di un uomo. La sua espressione faceva sì, che anche i lineamenti sembrassero più adulti.

-niente- abbassai lo sguardo, certa di non poter sostenere il suo –e poi non credo siano affari tuoi- continuai senza alzare gli occhi. Non volevo incontrare le sue irridi chiare.

-forse hai ragione, ma comunque, anche se ci conosciamo da poco di me ti puoi fidare- lo disse sempre seriamente, lo sentivo dalla voce, nona avevo bisogno di guardarlo per capire che non stava mentendo. Sembrava sincero. E seriamente preoccupato.

-problemi famigliari- dissi sperando che lasciasse cadere l’argomento senza troppe storie.

-di che tipo?- ecco, speranza vana a quanto pare.

-mia sorella- senza rendermene conto gli stavo raccontando la verità.

-sta male?- tirò ad indovinare.

-è in coma- sputai, senza esitazioni. Alzai lo sguardo e incrociai il suo viso. Ora non era più serio e nemmeno solare, era angosciato e spaventato allo stesso tempo. Preoccupato di aver commesso chissà quale errore irreparabile. Mi sentivo in colpa, dato che se il suo viso era così spaventato la causa di ciò ero io. Quindi feci la cosa che non avrei mai pensato di riuscire a fare. Sorrisi.

Non era un sorriso caldo e felice, ma nemmeno un sorriso tirato. Era un sorriso rassicurante, calmo e dolce.

-e tu? Che ci facevi in ospedale?- domandai, e nel mentre formulavo la domanda sentì bisbigliare uno “scusa” quasi impercettibile, avrei potuto credere di averlo immaginato, ma avevo notato la sua bocca muoversi.

Si riprese e mi spiegò, con meno entusiasmo di prima, che era andato a fare una visita medica per il calcio.

Parlammo tranquillamente per un’ora, di calcio, scuola e altre cose poco importanti. Poi data l’ora decisi di tornare a casa. E mentre mi apprestavo ad attraversare la strada, lo sentì urlare:

-Ehi! Potremmo anche diventare amici!?- aspettai di arrivare dall’altro lato, per girarmi e sorridere.

 

 

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