100 Stories for HIM di DubheShadow (/viewuser.php?uid=80351)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Indice ***
Capitolo 2: *** For Love In Limbo ***
Capitolo 3: *** Beyond Redemption ***
Capitolo 4: *** Beautiful ***
Capitolo 5: *** Behind The Crimson Door ***
Capitolo 6: *** In Love And Lonely ***
Capitolo 7: *** I'Ve Crossed Oceans Of Wine To Find You ***
Capitolo 8: *** Rip Out The Wings Of A Butterfly ***
Capitolo 9: *** Salt In Our Wounds ***
Capitolo 10: *** Close To The Flame ***
Capitolo 11: *** When Love And Death Embrace ***
Capitolo 12: *** Ikkunaprinsessa ***
Capitolo 1 *** Indice ***
1 - For
Love In Limbo
Genere:
Song-fic,
Malinconico, Introspettivo
Riassunto:
Una ragazza
ha perso il suo giovane amico, un gatto a cui è molto
legata. Il suo nome è
Talvi, ovvero “Inverno” se tradotto dal finlandese.
Potrà il suono di un
carillon riportarlo a casa?
Personaggi:
Una
ragazza, un gatto
Note: E'
il primo ad
essere stato scritto, perciò conserva un significato un po'
acerbo e alcuni
punti da sviluppare, soprattutto perché a quei tempi non
avevo ben chiara
l'idea del progetto in cui stavo per inoltrarmi. Nonostante
ciò considero che
sia il racconto associato alla migliore canzone degli HIM, o quantomeno
la mia
preferita, e merita una lettura.
2
- Beyond Redemption
Genere:
Song-fic, Dark, Horror
Riassunto:
Lo
strascico di un omicidio e la sua ricerca infinita di perdono prendono
spazio
in un angusto vicolo della città. Si implora la redenzione,
ma sarà così facile
conquistarla?
Personaggi:
Una
ragazza, un angelo
Note:
Piuttosto forte,
da un target giallo. È il più spinto della
raccolta, ma la sua brevità ne
limita l’effetto sui lettori. In ogni caso un tentativo di
trasmettere dolore
con toni che richiamano certi film horror, non privo di vene gotiche.
Su esso
non c’è molto da dire poiché
è stato sviluppato poco: anch’esso, una volta
concluso il progetto, meriterà una revisione.
3
– Beautiful
Genere:
Song-fic,
Romantico, Introspettivo
Riassunto:
Un
paesaggio da sogno, che ricorda vagamente le vaste foreste finlandesi,
funge da
sfondo per un timido incontro. Una giovane coppia passa la giornata
dichiarandosi il suo amore, contemplando la bellezza unica che si
può
nascondere anche nel particolare più modesto.
Personaggi:
Una
ragazza, un ragazzo
Note:
Bellissimo come
il titolo della canzone da cui prende spunto. Romantico fino alla
radice, e con
vasto spazio a descrizioni di cui sono piuttosto soddisfatta. In
sé non ha una
trama tangibile, sono azioni che comprendono poche ore, ma che cercano
di
racchiudere il significato di un amore candido e non per
questo meno
malinconico.
4
- Behind The Crimson Door
Genere:
Song-fic, Fantasy, Dark
Riassunto:
Siamo al
funerale del tempo perduto. Un incendio porta le lancette a toccare per
un
istante il Paradiso, permette loro di inebriarsi di qualcosa di vero.
Poi, lo
strappo, il ritorno a una terra bruciata e logora, ignobile.
Personaggi:
Svariate
lancette d’orologio, cinque uomini non meglio identificati
Note: Ci
ho impiegato
diversi giorni per redigerlo, e sono abbastanza soddisfatta del
risultato.
Forse è il primo racconto in cui sono riuscita a intingere
tutto il simbolismo
esplicitato nel testo della canzone, e ciò mi rende quasi
orgogliosa poiché
indica che sto facendo un buon lavoro. È un vorticare di
sensazioni fantastiche
che racchiudono un significato segreto.
5 - In
Love And Lonely
Genere:
Song-fic,
Introspettivo, Drammatico
Riassunto:
“Dopo
che si è conosciuto l’abisso, anche il misero
gradino che lo precede viene
chiamato paradiso.” Ed è anche vero che
certe delusioni non passano
facilmente, o almeno non come il sole sorge e tramonta sul tuo dolore.
Personaggi:
Un
ragazzo, una ragazza
Note: Ha
una piega fra
il realistico e il pessimistico, quasi privato della nota fantasy che
ho voluto
dare a ogni scritto, ma spero non per questo meno originale. I
caratteri dei
due protagonisti cercano di trasparire dalla descrizione abbozzata e
dal breve
dialogo, quasi a stereotipare i modelli attuali, quasi a delineare essi
stessi
la struttura del testo.
6
- I’ve Crossed Oceans Of Wine To Find You
Genere:
Song-fic,
Sovrannaturale, Dark
Riassunto:
Una
girandola… cosa ci fa una girandola in mezzo ad un prato? E
perché ogni cosa,
ogni angolo del paesaggio, sembra più viva degli stessi
giovani che ci
camminano su? Nello stravolgimento delle regole si nasconde
l’inizio di ogni
logica.
Personaggi:
Una
ragazza, un ragazzo
Note:
Secondo alcuni
si tratta del mio lavoro migliore. Ci ho messo un grande impegno nello
scriverlo, non lo nego, e di tutti è quello che ho rivisto
più spesso e che
posso considerare alla stregua del più completo. Ho amato
l'atmosfera surreale,
che in realtà permea un po' tutti i miei scritti, ma che in
questo caso si
trasforma in qualcosa di essenziale ai fini della storia, un mondo che
diventa
autore, nel primo piano, e risalta anche più dei personaggi.
Personaggi che nel
loro amore timido e cieco, non sono altro che distruttori di loro
stessi.
7
- Rip Out The Wings Of A Butterfly
Genere:
Song-fic,
Introspettivo, Drammatico
Riassunto:
Se vi
fermate un attimo ad osservare le farfalle, vi accorgereste che
anch’esse
nascondono un segreto. Ma scoprirlo non è sempre indolore,
specie se dietro c’è
un tragico compromesso e un inganno infantile.
Personaggi:
Una
bambina, un padre, delle farfalle
Note: Qui
ho prodotto
qualcosa di più corposo e con una trama stabile e concreta.
Nonostante apprezzi
certe note gotiche presenti negli scritti precedenti, qui esse fanno
capolino
solo in piccoli punti, e restano sempre un po' nascoste da un velo di
realtà
incantata. Mi piace come sia riuscita a caratterizzare bene i due
personaggi, e
rendere dell'azione crudele non tanto una carneficina prospettata,
quanto un
atto ingenuo di un uomo disperato.
8
- Salt In Our Wounds
Genere:
Song-fic, Dark, Introspettivo
Riassunto:
È quasi un
viaggio all’interno della prigione del sogno. È un
labirinto che ti racchiude,
è paura che si dissolve con un nuovo e trepidante giorno.
È il sale che brucia
nelle tue cicatrici, come se fosse mistura di errori e grazie del
cielo.
Personaggi:
Una
ragazza
Note: Qui
ho
sottolineato una vena confusionaria, la paura e il timore del domani,
la
sofferenza di un amore inspiegabile, tutti concetti facilmente
riscontrabili
nel testo della canzone presa in esame. Per quanto riguarda la forma,
non è
delle migliori, ma ho dovuto utilizzare la seconda persona per rendere
più
realistici certi ammonimenti accennati durante il racconto.
9
- Close To The Flame
Genere:
Song-fic, Introspettivo, Slice of life
Riassunto:
“Il deserto. Caldo. Distante. Diverso da quella
città così glaciale
perfino in piena estate, tutta ferro e asfalto.”
Forse anche un luogo verso
cui fuggire, di nuovo, ancora.
Personaggi:
Un uomo,
una donna
Note:
Scritto dopo una
lunga pausa. È partito come un racconto più
lungo, con una seconda parte che
infine ho completamente tagliato. Forse è anche un
po’ per questo che lo scritto
sembra incompleto, ma l’obiettivo che volevo rappresentare,
le emozioni che vi
volevo intingere… beh, quelle ci sono tutte, perfette,
immutate dalle continue
revisioni di cui la Song-fic è stata vittima.
10
- When Love And Death Embrace
Genere:
Song-fic, Dark, Slice of life
Riassunto:
“L’abito
è bianco, e bianco è il dolore”.
La riscoperta di qualcosa ancora celato è
il tema delle parole: alla fine, sarà la musica a trovare la
strada del
ritorno, quando tutto sembrava oramai perduto.
Personaggi:
Una
ragazza
Note: Una
goccia di
vita quotidiana intinta in una pozione di grottesco. Ecco la
descrizione più
adatta a questo racconto, un misto in cui, per certi brevi momenti, ci
si
potrebbe sentire protagonisti e affini alla ragazza in questione, per
poi
sussultare ad una manciata di dark che s’infiltra come fumo
dalle fessure di
una finestra, e ti avvolge nel suo affascinante mistero.
11 -
Ikkunaprinsessa
Genere:
Song-fic,Introspettivo, Malinconico
Riassunto:
Lauri è un
mendicante, o così può sembrare, osservandolo
suonare agli angoli delle strade
di Helsinki. Fra stracci di vita quotidiana, verrà narrato
il timido passo verso
un amore nascosto, che saprà portar via il passato ed aprire
il giovane a un
nuovo futuro.
Personaggi:
Lauri Koivun Onnea, Johanne, Jonsu Onnea
Note:
Come dire, il
gran finale per una canzone altrettanto stupenda? O forse no.
Semplicemente, la
storia di un giovane che ama la musica, e che, al battere del suo
cuore,
crescerà in spirito come un fiore della notte. I nomi dei
personaggi sono
inventati, così come i personaggi stessi:
l’ambientazione solo è realistica,
così come la citazione a eventi o strade di Helsinki,
eccezione fatta per il
negozio di robivecchi. È stata una casuale decisione
chiamare il protagonista
Lauri (nome del cantante dei Rasmus) e la sua giovane madre Jonsu (nome
della
cantante delle Indica), poiché con i rispettivi personaggi
famosi non hanno
nulla a che fare.
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Capitolo 2 *** For Love In Limbo ***
Il
ramo di ginepro
vibra sotto il peso di un frammento di ghiaccio, condensato nel freddo
inverno
sulla sua sottile punta. Dall’incantevole stalattite
illuminata da un gelido
sole, gocciolano lievi stille azzurrine. Cadono e si poggiano
ritmicamente sul
manto di neve fresca, lasciando un piccolo solco, quasi impercettibile,
come
unico segno del loro passaggio.
Dal
frammento di
ghiaccio, se si avvicina lo sguardo e si socchiudono le palpebre, si
scorge
qualcosa che danza all’interno. Aspetta. Si muove e riflette,
alza leggermente
la veste. Ci sta raccontando una storia.
Perché
l’acqua che
scorre, e che noi osserviamo in questo inverno lontano, prima ha saputo
assistere paziente ad ere di vecchi racconti da narrare nella sua vita
novella.
Nel
ghiaccio, la nostra
figura è abbigliata di una giacca di lana cucita a mano, la
fattura mutevole e
morbida celebra sere passate a filare davanti a un camino come unica
luce. È
scalza, che danza sulle punte dei piedi, e sopporta il gelo; con le
mani ci
invita a raggiungerla nel suo piccolo universo di misteri e segreti. Ci
prende
e trascina, via, con sé, presi dal suo vortice di silenziosa
passione. E si
precipita, prigionieri del ghiaccio.
«Talvi! Talvi, dove sei
finito?» la giovane fruga un po’
ansiosa fra i cespugli denudati, scuote gli arbusti provocando cascate
di neve,
chiama nel bosco un solo nome che riecheggia, subito riassorbito dal
riflettersi mite dei tronchi lignei. Nella sua ricerca disperata, si
ferisce a
del filo spinato. Inciampa, cadendo sul terreno gelido, mentre il ferro
acuminato si fa strada nel suoi piedi fragili e sottili, non protetti.
Le
rifugge un grido,
e piccole gocce rosse lasciano una scia di orme funeste. Il sole batte
e
comincia a sciogliere i residui dell’ultima nevicata,
trasforma il candido e il
bianco in una poltiglia quasi fangosa e spiacevole al tatto.
Ma
la giovane
prosegue il cammino. «Talvi? Talvi, dove sei?»
È
tardi per cercare
il suo gattino. Mentre il sangue ricorda il fatuo percorso, vermiglio
liquido
delicatamente baciato dal sole, lei ritorna sconfitta nella sua dolce
dimora.
Nel bosco, due occhi velati d’oro la inseguono a distanza, e
il tintinnare di
un campanellino d’argento passa inosservato.
Nella
sua stanza,
dall’alto della torre isolata, non si medica i piedi. Prende
il carillon che ha
sempre tenuto poggiato sul comodino, lo adagia sul davanzale della
finestra. Lo
carica girando con lentezza studiata la rotellina, lo sguardo offuscato
da reminiscenze
che non attendono musica per riprendere a danzare in testa.
L’oggetto,
sferzato
da un vento pungente, coraggioso apre le sue spire al mondo.
Dall’ovale
ricamato d’oro, spuntano due figure che al ritmo delle
soffici note girano su
se stesse, si abbracciano mortalmente per terminare il gioco con un
bacio
fatale. Lo scrigno si richiude sul loro incantevole funerale, su una
bellezza
fuggevole e ambigua che si costringe a replicarsi ogni volta uguale,
identica a
com’era prima. Perfetta.
E
dalla finestra
ricorrono le sferzate a reclamare i loro gridi di protesta,
perché nel gelido
inverno l’amore è come sangue gettato su neve
fresca: mortale e impossibile.
Il
carillon cade,
precipita giù dalla torre infrangendosi sul ghiaccio di una
lamina d’acqua,
cristallizzata dal freddo come un incubo impresso fra scarti di
fantasie
distorte.
La
giovane osserva,
muta, si porta una mano alla bocca e trattiene un sospiro. Le due anime
sono
spirate da una breccia dello scrigno d’oro dipinto, e ora,
come ad esalare un
ultimo e tenue respiro, salgono trascinate da magici refoli di vento.
Dalle
soglie del
bosco, s’affaccia un gatto. Cammina soffice finché
non raggiunge il luogo
dell’immutabile delitto. Alza gli occhi e li punta sulla
figura sporta
leggermente dall’anfratto della finestra. È
sguardo impaurito, e innocente è la
piega della sua bocca sottile.
«Talvi…»
sussurra la giovane. Si precipita verso le scale, e
corre, corre per arrivare veloce dal suo amato animale.
Quando
giunge nel
tranquillo giaciglio del carillon, Talvi non c’è.
La ragazza cade in terra,
scossa dai singulti per l’amore perduto. Il dono di un amore
più grande e
lontano, di cui nelle notti rammenta il suono musicale della voce
suadente, il
tocco gentile delle mani ammalianti.
Le
sue lacrime
formano un cuore di fessure fra la neve sciolta. Sul riflesso delle
schegge di
ghiaccio rivede sagome non sue, ma volti di amanti di mondi dispersi,
occhi che
rispecchiano la sua stessa disperazione striata di strazi. Fra essi,
l’ombra
dell’altra sua metà, dissipata da frescure
più nuove.
Ragazzina
pallida e
silenziosa, chissà quale è il tuo nome.
Sarà favoleggiante e rivestito di
velluti preziosi, intarsiato da rare gemme e filigrane argentate,
sarà
leggiadro, amabile. Ma sarà vero, reale, o visione e
miraggio?
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Capitolo 3 *** Beyond Redemption ***
Un
grido squarcia
l’aria. Nel vicolo, al buio di una luna nera,
s’imprime un silenzio
sovrannaturale.
Una
giovane vestita
di stracci stringe nella mano destra un cuore. Lo si vede quasi
pulsare,
vibrare morbido nella sua stretta massacrante. La sinistra tiene un
pugnale
insanguinato, l’impugnatura intarsiata a formare il volto del
diavolo.
Gli
occhi della
ragazza sono rossi, così come i rubini incastonati
nell’arma di Satana.
Il
cuore palpita,
veloce, ritmico, non muore. Il suo battere è incessante, lo
si vede fuoriuscire
dalle fessure fra un dito e l’altro della mano della
fanciulla, le vene
lacerate pompano fuori fiumi di sangue. Finché non si
trasforma in pietra,
fredda e gelida, che assorbe nel suo tenue grigio ogni stilla,
immobilizza la
vita, la conserva al suo interno come una briciola intrinseca
circondata da
meste dipartite.
La
giovane getta il
sasso contro il muro, lo guarda frantumarsi in una polvere sottile e
lasciare
un solco nel muro di mattoni.
È
carponi, non riesce
ad alzarsi perché debole, sporca e lercia, con i capelli
oleosi e neri raccolti
in ciuffi selvaggi. È una belva prigioniera della
civiltà. Striscia sul
lastricato ruvido, muove come un animale a caccia i suoi arti
sproporzionatamente lunghi.
Sul
suo viso nasconde
cicatrici dalle forme sensuali, che quasi scintillano nella notte buia,
piccoli
tagli sulla pelle scura che la interrompono a tratti.
Quello
stesso viso un
tempo conteneva bellezza e splendore, ora strappati e laceri come cenci
di
naufraghe vele; quegli occhi nascondevano l’entrata di un
paradiso segreto,
adesso marcito nel solitario sepolcro di un odio insano.
Nella
stretta e
deserta stradina trova una porta dimessa. Batte spenta le nocche sul
legno
mangiato dalle tarme e che trascina i segni di un incendio passato, la
sua
forza di pochi istanti prima smorzata da poteri assurdi,
incomprensibili,
trascendenti dal male.
Apre
qualcuno.
«Redenzione»
grida con voce roca, da arpia agonizzante,
«Redenzione per la figlia del Dio!»
L’uscio
si richiude
con uno scatto secco.
La
ragazza cade sul
selciato. Si addormenta a pochi passi dal suo tentativo mancato, scossa
da
tremori nervosi figli dell’incoscienza.
Poco
dopo, scende una
figura dal cielo. Ha ali d’angelo dipinte di nero. La prende
in braccio e la
conduce con sé ancora assopita, imprigionandola dentro un
cimitero cupo,
circondato da floridi cipressi. Dall’alto del suo volo, la
lascia cadere nel
campo dei morti.
Lei
si sveglia, si
volta stranita, finché non comprende. Vorrebbe alzarsi,
urlare, fuggire da quel
luogo.
Ma
riesce solo a
mormorare fra le labbra secche - preghiere inaudite.
«Redenzione» invoca,
«Redenzione per la figlia di Dio.»
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Capitolo 4 *** Beautiful ***
Sento
gocce di
rugiada bagnarmi i piedi, nudi, mentre cammino nel prato.
L’erba è soffice, di
un verde chiaro che risplende ai raggi del sole primaverile, luce
accecante e
piacevolmente calda sulla pelle.
Il
terreno è umido,
cede di poco sotto i miei passi. Fra i filamenti nascono piccoli fiori
di
campo. Ne colgo uno, e il suo stelo si lacera al mio tocco gentile,
quasi già
fosse pronto ad abbandonare la linfa e le sottili radici. Quasi si
fosse
concesso a me.
È
giovane, pressappoco
il respiro si ode fra quei petali rigati di violetto, e le morbide
sfere di
polline che alla fresca brezza lasciano indietro il rifugio, volano
nell’aria
cosparsa d’azzurro.
Il
cielo è del colore
di una tela tinteggiata a sprazzi, dove macchie bianche sono nuvole che
sembrano immobili nel quadro della gioia, getti di vernice lanciata nel
vuoto.
Per guardare in su sono costretta a schermarmi il viso con una mano. Il
sole è
libero e riesce a splendere incontrastato, e i miei occhi si
socchiudono,
investiti dal biancore rosato del primo mattino.
Mentre
osservo, e
navigo col pensiero oltre le volte celesti, laddove un monte ancora
imbiancato
svetta all’orizzonte, qualcosa s’intreccia alla mia
mano per sfiorare con me il
piccolo fiore. C’è un sentimento che mi pervade,
sono in pace, ora che non sono
più sola.
E
non ho bisogno di
voltarmi per scoprire chi è al mio fianco. Perciò
si continua a camminare, a
sentire piccoli sassi inframmezzarsi al terreno che riporta segni di
piogge
passate, e calpestare vite come se si passasse su rose sparse in un
sentiero di
piume.
Il
prato degrada in
dolci colline nella vallata, forse sterminata per sguardi che non
ammirano
dall’alto. E sulla destra, si procede, e ci si imbatte in una
folta macchia che
è propaggine delle foreste ghiacciate del nord.
Sarà il vento che ci guida
verso quella direzione, sarà il segreto e l’aura
che s’incontra fra i maestosi
tronchi. Sarà perché c’è
voglia di esplorare, e sicurezza di trovare fresche
sorgenti che allegramente gorgheggiano presso cespugli di giunchi e
bacche di
more.
Passeggiamo
mano
nella mano fra i percorsi impervi del bosco. Ci si inventa una via per
districarsi fra i faggi, i salici, le querce e le elegantissime
betulle, regine
che con i loro cavalieri fanno un’unica fronda infinita.
È il mantello delle
foglie che è tetto di ogni selva possente, ove i raggi
filtrano e creano ombre
e giochi di luce fra muschi e licheni. L’aria è
pura e sa di frescura, mentre
il dolce e a tratti un po’ aspro sapore di resina si confonde
e ci insegue, la
scia e il ricordo di impercettibili stille. È quasi il
sudore degli alberi, che
nel loro infaticabile lavoro ci sanno dilettare ancora, stanchi, con
mille
suoni e mille odori diversi.
Forse
è il sogno che
si fa più vero, ma è immutato nel tempo questo
essere vivi, semplicemente e
senza rancori, il respiro che è tale e il battito che resta,
il corpo che
muove.
Un maniero fa la sua comparsa,
immerso nel fogliame fitto, misterioso
poiché distante da occhi indiscreti; e fugge anche i nostri
occhi, che
s’incrociano come le mani e le dita un po’
più giù,e non badano se non alla
musica che aleggia e agli stormi di usignoli che volano metri sopra
l’umano.
Mi
lascia,
d’improvviso, comincia a correre. Sebbene si nasconda, anima
mia, fra ogni
minimo pertugio, e seppellisca i rumori del passo frettoloso fra gli
scrosci
d’acqua lontani, e mischi le risate con il passare dello
scoiattolo e il cadere
di una pigna, sono capace di scorgerlo ancora e ancora, indirizzata dal
sentimento e dalla passione. Lo rincorro, ridendo anch’io
come il tulipano che
s’apre all’accarezzar del giorno, mentre i capelli
s’incastrano fra i rami e
scivolano, regalandomi sulle spalle scorci di foglie novizie e
brandelli di ragnatele,
la mia divisa selvaggia.
Brillando
del
riflesso del mondo, lo agguanto da dietro, e lo costringo a girarsi
verso me. Nella
radura che ci ha scelto come ara del nostro affetto, luce si riflette a
macchie
indistinte, illumina il nostro bacio.
E
sempre il nostro
bacio è che si riflette nella polla d’acqua a
distanza di pochi balzi, lì proprio
dove ora è caduta la piuma di una rondine passeggera,
lì dove un cervo la sera
prima aveva assecondato la sua sete, lì dove una notte la
luna ha cantato la
sua serenata a un lupo solitario. Lì dove ora siamo noi, a
dirci “ti amo” nel
tempo che scorre, a tacere senza imbarazzo perché coscienti
dell’essere uno,
insieme, e il se del per sempre.
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Capitolo 5 *** Behind The Crimson Door ***
Un
ticchettio
lontano. Penetra le barriere del suono, si ode nella solitudine. Sembra
il
grattare di chi è stato sepolto vivo, che da dentro la bara
graffia il legno
fino a farsi sanguinare le unghie, nel completo silenzio di un respiro
affannoso e ritmato che si spegne con il tremore di un sussurro.
Un
altro suono si
sovrappone: è il delicato strillare dell’argento
che s’incontra con l’oro, come
di oggetti gettati via e sovrapposti alla rinfusa. Si sentono le catene
di
filigrana scivolare fra le fessure, stridere e fermarsi fra le
ammaccature
delle ricchezze che s’accumulano.
È l’addio al
peccato, questo? Lì dove, in una fossa scavata
nella terra fresca dopo la pioggia, vengono gettati centinaia di
orologi da
anime in fuga. È il tempo che scorre, quel battere costante;
è la preziosità
dei momenti sprecati, quell’abbandonare infernale. Ogni tanto
si scorge un lucore
passeggero, quasi una lacrima sulle vestigia del segnatore puntuale;
oppure un
bagliore improvviso fende il buio della separazione, si nasconde nei
vetri che
cominciano a incrinarsi e rompersi negli acuti del dolore.
Ed
è quando il cielo
apre per un istante le sue volte di nubi grigiastre, e lascia cadere
veli di
fiori incantati a ricoprire la carcassa ormai pressoché
dissolta del tempo
sprecato, che le figure fugaci prendono la consistenza di uomini
vestiti di
nero. Indossano occhiali a coprire occhi non sofferenti, ma immobili,
vuoti ad
assistere i boccioli pioventi trasformarsi in patine amaranto, sciolte
altresì
a foderare come una coperta il defunto. Da lì, si ode
l’odore aspro delle colpe
private, l’impossibile che sa di fredda e gelida nebbia.
Scoppia
un incendio
su quella piccola bara, bruciando con sé anche i pensieri
più oscuri, e
lambendo l’erba ai suoi bordi s’impedisce di
lasciarla ardere, limita la sua
stessa passione divorante che trascina nell’oblio. Mentre
sembra che non ci sia
più nulla da distruggere, eppure le fiamme continuano ad
avvampare alte e
funeste, qualcosa si alza fra le ceneri e il fumo. Piccole, dorate o
venate
d’azzurro, migliaia di lancette giacciono a
mezz’aria circondate dal fuoco.
S’innalzano, lievi, e come una colonna volano veloci verso
l’alto, assorbite
dalle nuvole ancora scure e ignobili che impediscono la vista di un
più
confortevole cielo.
Sono
eleganti nei
loro arabeschi sottili, sembrano organze pronte a piegarsi al minimo
scontro;
annerite a tratti e ferite, s’arrampicano sempre
più sopra, quasi volessero
raggiungere i cancelli di un paradiso perduto.
E
sopra i firmamenti
si combatte un’altra battaglia, dove le sopravvissute
indicano col capo il
delitto in atto. La luce viene spenta come la fiammella di una candela
presa
fra due dita, e le gocce d’acqua tiepida che
l’attorniano come frammenti di
specchi vengono spazzate via da un vento crudele, fra cui arrivano
foglie
rinsecchite e dai colori smunti, che taglienti sferzano le migliaia di
dolci
granelli sabbiosi dello schieramento opposto. Sono gli elementi che
s’assaltano
per il prevalere del tempo che, seppur trafitto dagli uomini, non
smette di
scorrere per vie avverse. Poiché così Estate si
ritira nel cantuccio del suo
letargo forzato e lascia il posto al deperito Autunno, che dopo Inverno
andrà
cantando, e veloce Primavera sopraggiungerà nella rinascita,
poi ancora di
nuovo tutti vittime di questo strano circolo vizioso.
Le
lancette si
allontanano, come se fossero un unico fascio di stelle, e fra loro
nascono rose
rosse di sangue che le imprigionano vive fra i loro soffici petali.
Come un
muro, una porta invalicabile, vengono chiuse in celle frementi, e
possono solo
osservar fuori dai piccolissimi spiragli rimasti aperti fra una rosa e
l’altra.
Sono l’occhio del carcerato che sbircia da dietro delle
sbarre favoleggianti di
profumi freschi, occhio che si socchiude e si nasconde al passare
dell’ombra o
al sussulto di un passo.
Vive,
tremano e si
distraggono in vortici confusionari, quasi in cerca di una morte che
non pare
sopraggiungere poiché protette dalla loro prigione cremisi.
S’ubriacano del
nettare che esce dai fiori, e che sgorga come liquido nero in fiotti
invitanti.
Le lancette zampettano fra le corolle, s’impregnano del vino
di Venere che
viene loro offerto come unico piacere d’amore.
Un
vino che pare
portato da distanze infère, mondi opposti dove diavoli
vestiti di rubini
regnano sotto pioggia d’onice, e offrono coppe in cristallo
nero riempite di
veleni oscuri. Le stesse pozioni che ora, nelle volte celesti, sono
concesse ai
piccoli angeli dalle ali di trasparente colore. Il fluido del peccato
ha
attraversato vortici d’aria e ha raggiunto luoghi a lui
funesti per mietere
ancora offerte maligne dall’animo ignaro.
Ogni
lancetta smette
d’abbeverarsi dalle rose fonte di candida morte. Ognuna giace
ancora una volta
ferma e immobile, mentre ciascun fiore scompare, dissolto in briciole
di
passato. Le lancette cadono, tutte insieme, risucchiate verso la
realtà con la
forza di un’onda che trascina a riva.
C’è solo un tintinnare di sottofondo che
viene subito zittito dalla calma della loro rinnovata tomba, bara dove
ancora
sembrano riposare gli orologi bruciati e arsi in cumuli neri.
I
cinque uomini sono
rimasti tutto il tempo attorno al giaciglio ultimo, le mani incrociate
in
grembo, in un’attesa glaciale. Ora, da sotto gli occhiali,
due linee di gocce
cremisi colano a rigare il volto di ognuno. Dopo, come le punte di un
pentacolo, cadono all’indietro sull’erba ormai
asciutta.
I
fili si riscuotono
ad accogliere i loro pesi, e impregnati dell’odore acre di un
ardore passato,
brillano un poco sotto un sole rosso sangue. Le nuvole sono
improvvisamente
scomparse, e il disco pare oscuro, con una macchiolina nera vicina
all’estremità destra. È piccola, dai
contorni netti. Sembra una serratura…
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Capitolo 6 *** In Love And Lonely ***
Dopo che si
è
conosciuto l’abisso, anche il misero gradino che lo precede
viene chiamato
paradiso.
La
penna vergava in
fretta questa sorta di aforisma, volando sulla pergamena leggermente
ingiallita
dal tempo. Così come, in un attimo fugace, i ricordi vennero
ripescati dal loro
vortice, tirati a forza dal sacco in cui erano stati rinchiusi e quindi
gettati
senza indugi nel fuoco della mente.
Il
giovane si
affaccia dalla finestra, dove scorci di una città spenta lo
salutano nella
fretta irrisoria dei passanti. Il sole sta per sorgere, e
così si sveglia il
formicaio che sputa già le sue prime figlie suicide. Il sole
sta per sorgere,
sì, e rischiara d’azzurro e rosa pallido i primi
grattacieli che ne
frammenteranno il percorso. Le ombre nascono dove la luce comincia a
sfiorare
il lampione, a girovagare sull’autobus, a salutare da lontano
l’inserto
pubblicitario.
Con
lui c’è la
reminiscenza di una ragazza in lacrime. Pare disperata, ogni tanto fra
i
singulti spunta un grido mal represso, non ci sono fazzoletti ad
asciugare le
sue guance ormai fradice.
Il
giovane non se ne
preoccupa, ma continua a seguire i raggi che decorano di un nuovo
chiarore il
grigio delle zone urbane. Si odono già i primi clacson, gli
sbuffi dei tram, il
continuo rollare della metropolitana che si sporge dai sottopassaggi.
Si
accende con tranquillità una sigaretta, aspira il fumo con
fare nervoso,
scocciato.
Il
lamentarsi della
ragazza si fa più mesto, per poi spegnersi del tutto.
«Hai finito?» le
chiede. Le si avvicina, abbandonando la cicca
sul davanzale. Le porge un pacco di fazzoletti mezzo svuotato.
«Sì.»
balbetta appena, non è sicura. Tira fuori uno specchio
dalla borsa per aggiustarsi la matita, che fra le lacrime ha lasciato
buffe
macchie scure sul suo volto.
«So
com’è.» dice lui, gli occhi quasi
socchiusi, una smorfia
di tristezza che compare nella linea sottile delle labbra.
«Com’è
cosa?»
«Amare ed essere
soli.»
A
lei sfugge una
risata. Cerca di nascondere il fallimento, l’agonia che
l’ha portata allo sfogo
di pochi attimi prima. «Io non sono sola.» Con un
velo appena steso di trucco,
sembra riagguantare la sua maschera impassibile, tornare indifferente,
pronta a
venire accolta nell’irrilevanza di qualche piano
più in giù, laddove farà parte
del quadro in movimento che si scorge dalla finestra.
«Lo sarai presto, se non la
smetti.» Un monito. Forse
servirebbe anche a lui, preda, vittima identica, anch’essa
restia ad ammettere
il tutto.
«Smetterò quando
ne avrò voglia.» Prende la giacca firmata e
se ne va. Come se niente fosse, si aggiunge alle altre pedine, si
lascia
manovrare con la consapevolezza di essersi offerta volontaria. Se sono
gli
altri a prendere per noi le scelte, seguirle, agire di rimando
è più facile e
semplice.
Il
giovane si
riappropria del pacco di fazzoletti, utilizzando l’ultimo
rimasto. Non c’è
pianto ad intingerlo d’orrore, ma quel che può
l’inchiostro di una biro.
Ora anche il
mio
paradiso se n’è andato. E scappa il mio ultimo
amore, così come lei si è
lasciata sfuggire il suo.
La
carta sottile
viene gettata fuori dalla finestra, vola nella leggera brezza che forse
spira
anche per luoghi migliori, si lascia trasportare per cadere
nell’abisso,
colomba bianca ridipinta dell’arancio di un mattino assolato.
Come se un
piccolo appartamento in un anonimo quartiere fosse l’ultimo
appiglio ai sogni,
o l’ultima isola incontaminata. Come se l’osservare
tutto dall’alto mettesse
una barriera fra noi e il mondo, quando invece è solo
cemento che ci circonda e
unisce di un legame fasullo.
È
proprio vero che ci
stiamo illudendo.
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Capitolo 7 *** I'Ve Crossed Oceans Of Wine To Find You ***
La
girandola vortica senza sosta. Sola, al centro frammezzato di mezza
via. I
colori dei suoi spicchi si confondono, mossi da quel vento incostante,
e il
giallo dei girasoli si tramuta in blu crisantemo, il rosso è
allo stesso tempo
il verde del cielo e l’azzurro dell’erba. O
è il contrario?
Eppure agli occhi della ragazza è
proprio così… non può essere
diversamente. Il cielo è verde, con le sue nubi nerastre,
filamenti avvinghiati
da soffici catene. L’erba è azzurra, e ogni tanto
vibra, quasi essa stessa
respiri di candida gioia.
Presa
nel gorgo, la fanciulla
è una macchia grigiastra nel foglio della calda campagna, lo
sguardo fisso ad
osservare le giravolte mobili ma statiche nel loro brandello di aria,
il loro
rapido fruscio, sguardo che sa penetrare oltre e scrutare anche la
fessura in
mezzo al giogo incantato. Seduta in fronte al fulcro del suo osservare,
sembra
perdersi, affogare nel mare dei pensieri. Un forellino, piccolo,
incurvato nei
bordi, funge da lente per una gradita sorpresa. Quindi spia
dall’apertura nella
girandola, attorno è solo ruotare, spia e guarda al di
là della sua gabbia di
colori, prigione d’abbagli.
Fiancheggiando
un ruscello
vermiglio, un po’ denso nell’atmosfera irreale,
un’altra ombra scorre per le
rotaie del sogno. Un’altra sagoma dai contorni sfumati,
bigia, eppure forse
unica nel sentore di tatto gentile che emana, aulente e compagna.
Arriva ad
affacciarsi alla finestrella al di là del mulinello stornato
da brezza che, ne
era certa, fanciulla, sapeva di mare.
Perché
le uniche cose che
tramavano vita… erano le uniche senza uno strascico di tinta
vera?
Giovane.
Sì, un giovine è
colui che si è inginocchiato fra l’alta
sterpaglia, lo stesso che prima aveva
costeggiato l’acqua rossastra. Fra l’erba il suo
sguardo ha colto un fiore
cristallizzato in piume d’angelo, e ora poggia
l’iride incauta lì all’apertura
del mondo. Ivi le due pupille s’incontrano, specchio nel
specchio, e tale il
viso scorre senza sfiorare il continuo girare, ancora specchio nel
specchio,
per portare le floride labbra a incrociarsi nel vuoto.
Lei
è graziosa, avvolta in un
abito bianco, semplice e corto, infagottato di sottili nastri di seta.
Due
ballerine minute le incorniciano i piedi, e scuri fili di capelli le
avvolgono
il volto.
Lui
è serio, nei ricci nerastri
che gli scompigliano l’aspetto. Solo una giacca e dei
pantaloni dai toni
metallici; scalza l’anima del ragazzo ha vagato per i
bizzarri sentieri.
Le
mani di entrambi si alzano
dopo aver giaciuto immobili in grembo. Si uniscono in una stretta
fatale ai
lati della girandola, mentre gli occhi si chiudono ad attendere il
seguito
della loro macabra danza. Non c’è
possibilità di un bacio in quei pochi granelli
d’aria che distaccano le bocche, contornate di divoratrice
voglia e turbinante
passione. E allora un soffio, un respiro, è lo scambio. In
esso, gocce di vita
svanita nella chimera che serra i battiti restii. Allora come una
scarica li
percuote: i nastri di lei diventano di un rosso ciliegia, ed
è l’onda che la
trapassa a colorarla a tratti di un biancore reale, le mani rosate che
sembrano
pallidi fusi imperlati; lui in cui nuove spume si smuovono fra i
capelli
ramati, ed è la stilla di verde speranza a pitturargli
l’iride smorta, il
bocciolo di rosa cremisi ancora intento a spirare esistenza.
Si
possono trapassare le
porte dell’Inferno?
Si
rialzano, lenti come il
sipario di un’opera incompiuta, docili come fiori in preda
alla corrente che
con loro non portano emozione. Ora sono l’uno di fronte
all’altra, con quello
che è il motore di un miraggio che sa di fantastico. Sotto
il suo rombare, ogni
segno che indica presenza di mare: una conchiglia posata nel tratto di
terreno
brullo, striscia lunga che pare allontanare i ragazzi, oppure una piuma
di
gabbiano che galleggia sul fiume di sangue per andare a ricongiungersi
con la
sua casa. Una squama di sirena smarrita nel vento.
«Lo seguiamo?» voce di donna
che è sussurro. Se solo quegli aliti si
fossero condensati come brina invernale, a qualche passo di farfalla
dalle
labbra rinsecchite, la verdognola volta celeste avrebbe osservato un
moto di
desiderio spostarsi dall’uno verso l’altro,
l’inseguimento che si nasconde fra
gli spiragli delle nubi nero petrolio. Una patina di plastica pare
dividerli. È
il segno nel terreno, ove nulla cresce, laddove la girandola vive, il
sorgere
del muto divieto.
E
la girandola corre, corre…
trascina un mondo dietro di sé.
«Cosa?» voce di uomo che
è raschiare. Come un lupo che ambisce alla
preda. Non si resiste al fremere del tormento.
«Il mare…» risponde
lei.
«Per dove?»
«Di qua.» Allora rompe la
barriera, lo prende per mano, e subito si
getta nell’acqua vermiglia. Quindi segue la corrente flebile,
che trascina
entrambi verso la sua foce vicina. Le loro figure grigie si macchiano
di rosso,
come una vecchia foto incorniciata dal vetro incrinato, che
è immobile vittima
di un suicidio di sangue.
Fuggono,
lasciandosi alle
spalle la girandola che ancora vortica, forte, decisa. Determinata come
il volo
di una civetta nella notte buia.
Dopo
pochi passi, fa la sua
comparsa il mare. Distesa cremisi, di un colore marcato e liquido come
vino.
Forse del vino ha anche il sapore accogliente…
Piano
i due s’immergono,
restano con i capelli smossi dall’aria, mano nella mano, a
contemplare un
orizzonte che sa di fine. Una fine infinita, sempre lo stesso bordo di
scoglio,
come un granchio che s’arrampica sul masso ma poi viene
riportato giù dalle
onde violente, e riprende la risalita, ancora e ancora.
Un
secondo. La confusione. O
è caos? La visione si sta capovolgendo. Le proiezioni umane
vengono trascinate
in fondo al mare, la testa che sbatte e crolla fra gli spuntoni del
fondale
irto. Quindi una corda si avvolge attorno ai fragili colli,
nell’acqua è fluida
e sinuosa come un serpente che tenta. Il cappio si stringe.
Due
figure, nel sogno, sono
impiccate a testa in giù nel letto dell’oceano di
vino.
La
girandola cessa di
muoversi. Nel cielo, le catene delle nuvole s’attorcigliano a
formare una
scritta. È un addio lugubre, grottesco, la canzone di un
giullare burlesco.
Come se in quel luogo accattivante ci fosse mai stato qualcosa di
concreto…
anche l’ultima ombra terrena è svanita,
inghiottita. Morta.
“La brezza saprà concedervi un
buon vento su cui prendere la via dei
sogni… a volte lo scrosciare delle onde, ad occhi chiusi, sa
essere quello di
un paradiso lontano…”
E
lì si nascondono occhi che
mai più s’apriranno a vedere. Lì,
giacciono orecchie che sempre ascolteranno lo
stesso ritmo di mare.
Si
può chiamare Paradiso il
posto che ha ucciso anche l’ultima ombra di te?
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Capitolo 8 *** Rip Out The Wings Of A Butterfly ***
Qualcosa,
oltre la
porta socchiusa, si smuove palpitante fra le mani di un uomo. Si sente
lo
stridere di carta velina che si lacera lenta. In sé,
è un innocuo strappare per
creare nuove opere dal sapore dolce di una prelibatezza presa dal
pasticcere lì
affianco. Ma lo sfrigolio che lo segue… sa di dolore. Bianco
dolore dello
spegnere di un sogno, come una candela finita in terra, caduta dal
davanzale di
una madre in pena per il figlio lontano, e schiacciata da una carrozza
di
passaggio.
La
porta è ancora
chiusa, si vede solo un triangolo di luce allungarsi tetro in terra,
proiezione
dei pochi tratti d’aria che si sporgono all’interno
del laboratorio. Il suo
tenue riflesso mostra le fughe che dividono una lastra di pavimento
dall’altra,
le fa rilucere un poco, mostra le incavature dell’uscio
legnoso, la maniglia
lucida e accattivante, dorata. Bella perché forse mezzo
dell’apertura di un
mistero da svelare. Nel buio, si nota l’ombra appena
più scura di una figura
piccola e lieve, imperlata in una tunica in lino. Una bambina curiosa.
Si
avvicina, le
pattine che scivolano silenziose, la veste che segue i movimenti con un
ondeggiare leggero. Spia, con il respiro che s’accavalla ad
ogni scoperta che i
suoi occhi in esplorazione compiono. Un singulto che sa di
verità taciute la
scuote.
Al
di là, l’uomo
assapora la carta sottile. L’avvicina al naso con bramosia,
lascia che essa
accarezzi le labbra grezze e screpolate, le palpebre chiuse ad
acchiappare
idee. Un’estasi malata che si consuma, e finisce quando il
foglio fine viene
gettato sull’impiantito. Esso compie un volo leggiadro, sosta
in aria, vittima
di correnti inesistenti, quindi si poggia portando con sé
uno scampanellio
lontano. Allora l’uomo prende una penna, la intinge
nell’inchiostro e lascia
che la mano scorra rapida sulla carta ingiallita. Scrive, scrive, narra
la sua
storia con desiderio. Non si ferma, e forse anche i polmoni sono
bloccati dalla
corsa che cerca di compiere, inesausto.
Nella
stanza c’è solo
lui, i capelli un po’ radi sulla fronte ma ancora di un nero
intenso, qualche
ruga a incorniciare i tratti. La scrivania è già
intrisa di scartoffie, mentre
sul lato sono accumulati fogli puliti e calamai. Affianco ha una
lampada che fa
luce; posta in terra, ha un braccio in metallo che nella penombra pare
stranamente opaco. L’intensità della lampadina
è regolabile attraverso una
rotella rossa, come a invitare di cercare la tonalità giusta
per ogni racconto.
Un paio di occhiali sono abbandonali lì affianco.
Ma
il pavimento, il
soffitto, il resto della camera sono un colpo violento. Gabbie lugubre
giacciono appese, le trame in ferro fitte come a imprigionare nuvole e
nastri
d’argento. E non sembrano fiori d’arancio, sprazzi
di nubi, cuori argentati, i
lampi che si scuotono e avvampano, lì reclusi nel tempo?
Solo voliere ad
ammobiliare il locale.
L’impiantito
è un
cimitero. Scheletri di farfalle, senza ali, sono come addormentati,
sopiti.
Eppure nelle loro posizioni rigide si nota la sofferenza della morte,
il
sacrificio dolente di una vita che non avrebbero voluto abbandonare
così presto.
Sono le innocenti sacerdotesse di un culto segreto, e sperano ancora
adesso,
con gli occhi neri e lucidi aperti sul vuoto, che non venga mai
rivelato. Fra
le piastrelle scorrono rivoletti di sangue, macchioline rossastre e
indistinte.
Più in là, sono ammucchiate le loro ali:
raggrinzite, lerce, talvolta
sminuzzate in più parti, ormai senza una briciola vivida del
loro vero colore.
Smembrate.
La
bambina si sente
mancare, stordita, avverte le lacrime solcarle le guance. Quelle
lacrime
portano il ricordo di giorni passati, cautamente intinte in episodi
remoti,
vibrano della rimembranza di voci lontane. Poi cadono, in goccioloni
pieni che
s’infrangono al suolo. Alcune sfiorano i cadaveri, quasi a
voler abbeverare i
loro visi rinsecchiti, senza sapere che il ricordo che esse portano,
solo poche
ore prima, avrebbe potuto far parte di un mistero più grande
e perduto.
«Papà,
papà! Guarda quante farfalle!» grida raggiante.
«Sì, tesoro,
sono tutte per te.» L’uomo si aggiusta gli
occhiali sul viso e la sua bocca si contorce in un sorriso sbieco. Ha
portato
la figlia in un enorme prato appena fuori la città.
L’erba è alta, sembra non
esser mai stata rasata, ma conserva tonalità fresche e
delicate, come se si
curasse da sé, giardiniera dai gusti pittoreschi e coltura
accondiscendente al
tempo stesso. Fra essa nascono decine di fiori delle più
svariate specie che insieme
fanno un caleidoscopio di colori che attrae chiunque, insetto o umano
che sia.
È un piccolo angolo di paradiso che si crea il suo timido
posto nelle campagne,
fra i campi arati di tutto punto. Campi che anch’essi hanno
un sapore
macchinoso, ferree code postume del centro abitato, dove il sapore del
grano si
mischia ai freni caldi dell’aratro, dove lo spaventapasseri
è un gigante in
metallo che percorre i sentieri rombando acutamente.
Il
prato invece è
puro, limpido come il cielo che lo sovrasta, oggi azzurro e venato di
nuvolette
che sembrano gli sbuffi dei camini invernali per il sentore familiare
che
emanano. Il sole picchietta a sprazzi, è caldo sulla pelle,
ma non duole: le
ombre chiare delle nubi sono ripari fra cui saltellare per cercare
riposo, e l’estate
è lontana con la sua afa avvinghiante. Un vento sospira fra
i fili d’erba, li
fa frusciare, e rende ancor più lieta l’atmosfera
d’amore. La piccina parte per
tuffarsi nel suo cantuccio di natura.
«Aspetta, tieni»
il padre le porge un retino dal manico
rosa, comprato apposta per lei.
«A che serve?»
chiede la bambina, sbigottita, percorrendo
l’oggetto con lo sguardo.
«Per prendere le farfalle.
Una volta fatto torni qua e le
mettiamo nelle gabbie che ho portato da casa.»
«Ma,
papà… sono così belle a volare
lì sul prato! Perché le
devo imprigionare?» mette il broncio. Non vuole far loro del
male.
«Non succederà
loro nulla,» continua l’uomo, quasi
leggendole nel pensiero, un tono di voce fin troppo rassicurante ad
accompagnare le sue parole «è per il tuo
compleanno.»
«Il mio compleanno?
È fra più di un mese!»
«Lo so. Noi verremo qua
ogni settimana, e ne prenderemo un
po’. Poi al tuo compleanno le libereremo tutte, e loro
voleranno nel cielo
colorando i tuoi splendidi dieci anni.» indica la volta
celeste col dito, ma
gli occhi sono come sempre posati sulla figlia che, pensierosa, ancora
pondera
la proposta inusuale.
Lei
si apre ad un
sorriso. Il pensiero di un regalo tale la rende felice, e i dubbi di
prima si
dissipano come un fiocco di seta sciolto da una sarta. Prende il retino
e si
fionda nel campo, ridendo, gaia di quella giornata preziosa.
Le
farfalle sono
davvero tante: ad ogni suo passo qualcuna si libra dal fiore su cui era
posata,
e si va ad aggiungere alle altre che danzano in aria. I colori brillano
alla
luce del sole, si creano quasi arcobaleni viventi, nugoli di creature
venate
dalle tinte dell’anima. Sotto, le formiche fuggono ai passi
della bambina,
s’infilano nei buchi del terreno a cercar rifugio, magari
trascinando un pezzo
di foglia o un chicco di grano. Delle coccinelle riposano pigre sui
fili verde
smeraldo, osservate da qualche ragno curioso che interrompe la sua tela
per
ammirarle; perdersi nelle loro macchiette nere, incastrate nel rosso
ciliegia
del manto, non è mai sembrato agli otto zampe un piacere che
ne abbia di più
dilettevole. Sopra, s’abbandona la penombra della fitta
vegetazione, e si entra
nel regno dei cieli: bombi, api e vespe si dividono i fiori in tanti
capannelli, ognuno occupato a saccheggiare il suo nettare preferito.
Lavorano con
passione, a volte pare collaborando fra loro, i più arditi
che spirano occhiate
alle reginette del prato.
Le
farfalle… le
farfalle sono fiori, se solo quest’ultimi avessero il dono
del volo. Se si
osservano bene, a pochi passi di distanza si possono trovare copie
perfette. Un
crisantemo blu saluta scuotendo la corolla la sua amica, dalle ali
tinteggiate
d’azzurro intenso, gli occhielli vicini alle punte dalle
sfumature violette e
contornate di nero. Questa in risposta gli vola affianco, carezzando
con la
zampa uno dei suoi petali carnosi. Di là, una camomilla
lancia occhiate
invidiose alla sua gemella alata, che metri più in su
volteggia come un sole
danzante. O ancora, al ciglio che s’affaccia alla strada
asfaltata, il papavero
gareggia in bellezza con una farfalla dalle ali enormi, di un rosso
fuoco che
ricorda un vino pregiato o le labbra cosparse di rossetto di qualche
attrice
famosa. Entrambi si dannano ad apparire i più belli:
l’uno trattiene le sue
gocce di rugiada per splendere ardente, l’altra
s’atteggia a tango suadenti
muovendo altezzosa le antenne sottili.
La
bambina ne ha
acchiappate molte, ma ora è stanca di inseguirle. Vuole solo
sdraiarsi fra
l’erba, mettersi il cappello di paglia come cuscino ed
osservare con occhi
ammirati quel minuto mondo che tanto l’affascina. Restituisce
il retino al
padre, che è rimasto tutti il tempo appoggiato allo
sportello della macchina a
guardarla, forse pensando a qualche storia da riportare su carta.
È uno
scrittore, e la figlia ne è fiera, perché questo
significa anche tante fiabe
narrate alla sera.
Una
farfalla le si
posa sul naso. Le ali sono appuntite, un po’ ricurve,
sembrano fini come una
tenda in raso. Le zampe le fanno solletico, mentre scivolano
leggermente sulla
superficie liscia della sua pelle, poggiandosi poi in una presa
più salda. La
piccina cerca d’incrociare gli occhi per agguantare tutte le
sfumature
d’acquamarina della creatura, che scorrono ondulate, sono le
onde di un mare
caraibico smosse dal passare di una sirena.
«Qual è il tuo
segreto? Perché sei venuta proprio da me?» la
voce della bambina esce in piccoli refoli dalla sua bocca, eppure ogni
breve
folata pare spingere la farfalla a volarsene via. Ma lei si aggancia
meglio
alla sua seggiola, piega il capo allungato da un lato, fissa gli occhi
sull’umana con fare stupito. Quegli occhi neri sono pozzi di
fata, gocce
d’Empireo che racchiudono qualcosa di indecifrabile e strano
a capire. Vedono
il mondo enorme, più grande di quello che è, come
uno specchio deformante ne
carpiscono i sogni per racchiuderli nelle venature dei loro fievoli
corpi.
«Quindi tu viaggi per le
nostre menti? Non dire bugie. Ho
visto… ho visto il mio incubo dell’altro giorno
nelle tue ali.»
Lei
tace, e come
stizzita riprende il volo. Al suo posto arriva la farfalla vermiglia di
poco
prima, che prende ad arrampicarsi su per il braccio. Al riflesso del
sole, pare
che ci siano delle mani chiuse a coppa disegnate sulle sue ali. Fra
loro scorre
sangue, sangue come fosse vino appena versato. Ma è solo un
attimo, e la
visione svanisce, dileguandosi nel placido rosso di sempre. I suoi
occhi
fiammeggianti d’Inferno vagano sui capelli ramati della
bambina.
«E tu? Qual è il
tuo segreto? Non sei ciò che vedo, ci sono
storie dentro di te.»
Anche
lei scappa,
fugge nell’aria. La bimba s’assopisce, e sogna.
Sogna le sue fantasie ghermite
dalle farfalle, che poi ne fanno storie da portare sulle loro ali in
giro per
il mondo. E piccola, lei, vola con loro, diffonde ogni briciolo di
racconto
raccolto per strada, così come le api racchiudono il polline
dei fiori fra le
loro zampette. Asperge polvere di possibili romanzi, sparge petali di
future
narrazioni, le aiuta nel loro compito greve.
«Papà, che hai
fatto?» finalmente ha trovato un briciolo di
audacia per parlare. Forse si era nascosto alla punta delle pantofole,
là dove
il piedino sfiora la calda intelaiatura. Ha sprecato del tempo per
trovarlo, ma
alla fine l’alluce ha sfiorato il suo coraggio, rintanato nel
suo rifugio, e
l’ha costretto a uscire allo scoperto. Ma le lacrime di
bambina ancora non
s’arrestano.
L’uomo
interrompe la
seduta di scrittura e si volta a guardare la figlia. Indossa cautamente
gli
occhiali, quasi per vedere meglio il suo dolore e accertarsi del suo
aspetto
affranto.
«Papà, che hai
fatto? Le mie farfalle… perché hai mangiato
le mie farfalle?» è sgomenta dal fatto che
un’azione tale ha incrinato
l’immagine così perfetta, dolce e protettrice, del
suo amato padre.
Lui
sospira. Le fa
cenno di avvicinarsi con una mano tremante. «Vieni
qui.» Anche la voce pare
bisbigliata, non ferma, quasi essa stessa non sappia capacitarsi del
suo
ardire.
Lei
esita a prendere
posto sulle ginocchia del genitore. Un tempo erano sinonimo di
sicurezza,
tepore, erano il nascondiglio dalle brutture del mondo. Ora sono solo
un luogo
dove stare più comoda, in attesa di qualcosa che sa
già le farà male. Ma lo
stesso ubbidisce, come una brava bambina. Il braccio che
l’avvolge è freddo, il
petto su cui si poggia, nonostante sia estate inoltrata, è
glaciale come uno
scoglio di brina sorto in mezzo all’oceano.
«Tesoro,
le farfalle non
erano per il tuo compleanno… ma questo lo saprai
già. Posso raccontarti una
storia?» un mesto sorriso gli si apre sul volto. Gli spazi
vuoti fra i denti,
così scuri nella luce scarsa, sembrano voragini di menzogna.
Forse un tempo
potevano ispirare simpatia, mista a un pizzico di pazzia che contornava
quell’aura fin troppo spensierata, ma ora erano come finestre
sul cupo antro di
un racconto atroce.
«Ora ci vuole anche il
permesso per parlare?» è stata
cattiva, lo sente, percepisce dalla smorfia melanconica
dell’uomo che qualcosa
nelle sue parole deve averlo turbato. Forse un po’ di quella
ferocia, uscendo
in rivoli fumosi dalle labbra dell’uomo,
s’è infiltrato nel suo corpo gracile,
e ne ha fatto triste mezzo d’usura.
Lui non desiste, e riprende a parlare
con fare affrettato
«Non devi avercela con me. L’ho fatto per
noi»
«Questa è una
brutta storia. Non voglio ascoltare brutte
storie.» Ancora termini neri ad oscurare
l’atmosfera glabra. La piccola
s’aggrappa alla camicia del padre, tira il colletto come per
arrampicarvisi
sopra. Cerca di arrivargli all’altezza degli occhi,
avvicinarsi così che possa
scrutare la sua anima falsa, senza che gli anni separino il suo
giudizio dalla
sua maschera infame.
«Dentro ogni farfalla
c’è la storia che tu vuoi ascoltare,
quella che ti racconto alla sera, quella che il papà scrive
di notte. Vedi,
questi fogli, un giorno, saranno presi tutti in un libro. Il libro ci
darà i
soldi per mangiare e bere,e per farti andare a scuola. Se questi fogli
non
hanno una storia scritta sopra, il libro non arriva e i soldi nemmeno.
E io ho
bisogno della storia, per questo uso le farfalle, per averla e
prendermela, per
scriverla.» Ha fatto confusione, la bambina se ne accorge, ma
allo stesso tempo
pare di aver capito qualcosa in quel garbuglio di frasi. Ma allora
ricorda i
pomeriggi al campo, e l’idea si fa strada, si compone
leggiadra e crudele nella
sua giovane mente.
«Non possono darti le
storie? Non puoi chiedergliele per
favore?» Perché ucciderle così
spietatamente?
«Loro non la raccontano
mai. La custodiscono gelosamente.
Sono orgogliose e troppo altezzose per dartele. Se tagli loro via le
ali, la
storia si libera e il papà può
scriverla.» L’uomo aveva scoperto il segreto per
caso, e tutt’ora non gli sono chiari tutti i particolari. E
spiegarlo a una figlia
è difficile, specie se sei solo.
«Le storie sono tutte vere,
non è così? Le prendono dalla
fantasia della gente, dagli altri universi, dappertutto.» Un
lampo di
consapevolezza si fa strada nelle iridi azzurre della piccola.
«Sì,
è così.»
«Papà?»
«Sì? Dimmi
tesoro.»
«Io non ucciderei mai una
farfalla per una stupida storia.»
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Capitolo 9 *** Salt In Our Wounds ***
Destra.
Sinistra.
Giusto. Sbagliato.
E
poi ancora dritto,
verso una via immersa in truce nebbia che ti guarda fra spifferi
arrossati dal
sangue, giù verso la scarpata dell’oblio che ti
avvolge con le sue ali nere
gocciolanti lacrime amare. Correre e non fermarsi, fuggire da
ciò che ti
insegue, essere sempre all’erta fra i graffi dei rovi che
incombono come pareti
di vetri spezzati, cocci di cuori infranti che ti piovono addosso.
Feriscono,
tagliano, bevono dai tuoi liquidi sparsi.
Destra.
Sinistra.
Giusto. Sbagliato.
Si
scivola da
quell’altura verso cui si cercava rifugio. Ti aggrappi alle
radici di quel
giovane olmo che sporge verso il burrone, perché non vuoi
cadere vittima della
tempesta dolce e soffice che ti attende all’abisso. Una
bufera di sale che
s’attaccherà alle tue ferite, e brucerà
insana fino a smembrarti la carne. Dolorosa
e terribilmente gentile. È un vortice, un gorgo biancastro
che sembra attirarti
e allontanarti da una possibile salvezza o la fine. Ma la radice tiene,
e
piano, mano dopo mano e sforzo di braccia, si è sulla terra
ferma e solida di
irte spine e sterpaglie. E quindi via verso il labirinto da cui non
v’è uscita.
Confusione.
Maledetta
confusione che schiavizza e non lascia liberi. E se solo si avesse
l’arma, la
spada, per sconfiggere il nemico di guerra. Eppure non si conosce
nemmeno chi
manovra questi fragili fili, e le difese sembrano anch’esse
finite nella
tormenta e distrutte dalla forza dei venti. Si cerca come fermarla,
come poter
infilzare un bastone negli ingranaggi dell’orrore e poter
arrestare il tutto;
riappropriarsi delle perdute certezze è ormai un sentiero di
stelle: lontano.
Cos’è
giusto? È un
giro, un tondo fatto di lamiere affilate, questo muoversi velocemente
alla
ricerca di nuove ali?
Cos’è
sbagliato? Amarlo
ancora dopo tutto questo caos che t’imprigiona e ti rende
vittima ignara,
sofferente detenuta di un incubo oscuro?
E
ti chiedi se solo
vi sia differenza, ora che il pensiero è scandito da un
cuore malato, ora che
la mente è vago fumo nell’aria. Ora che il
tormento è il mostro rinchiuso nella
grotta, da dove si sentono solo urli e strusciar di catene.
È tutto finito;
assurdo come l’improvviso è inaspettato, come
l’atteso sa essere l’insensato
puntuale dell’incontro col futile fato.
Perché
la calma è giunta,
sono spuntate le rose, e il sole ha levato il velo del lutto. Le
cicatrici
restano impregnate del sale che ancora brucia sotto un filo di
disgrazia,
l’abito è lacero laddove si è scalfito
fra gli scrosci di ghiaccio inviati dal
cielo. Ma tu sei lì e qualcosa è rimasto, dentro
un povero corpo che s’accinge
a scavarsi un gracile sepolcro di petali secchi. Un goccio di follia si
nasconde nella tenue risata, mentre cadi nella tua semplice bara. E non
dici
addio, ma l’arrivederci verso una rinascita
nell’innocenza fatta d’organza.
Un
raggio buca la
coltre di sottili nubi, viaggia fino alla lapide in marmo. Accarezza
una foto
in bianco e nero, sorvola il mazzo di tulipani, sfiora il viso di chi
poco fa
ti ha baciato. Spirito nell’anima, ha toccato i tuoi resti
vermigli dopo la
lunga battaglia, e l’amore è tenero
nell’approdare verso i porti del cielo. A
braccia aperte t’accoglie il destino.
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Capitolo 10 *** Close To The Flame ***
Il
piede spinge
sull’acceleratore, nervoso. L’auto fa un nuovo
scatto in avanti, aumenta la
velocità, e il motore quasi ruggisce. Ormai non è
che una macchia rossa, veloce
e inquietante, possente. Infiammata della stessa rabbia che
drasticamente
consuma… macinando leghe su leghe, scappando da non si sa
cosa.
Ancora
più rapidi,
ancora più lesti su questa strada vuota: energia,
nient’altro che ti freme nel
corpo, e che brucia ogni dolore che s’incastra fra gli
inganni del cuore. Affianco,
il paesaggio scorre sempre uguale, con monti rossastri che
s’intravedono
all’orizzonte e che paiono calici da cognac rivoltati, con le
loro sfumature
ramate che incantano e quasi si cullano, mobili, vorticanti e
irrequiete.
Erbacce e piante grasse spuntano qua e là sul terreno brullo
e scarno, rosso
come il sole che sopra a tutto infuoca il deserto. L’essere
soli è una
sensazione strana che rende padroni del mondo, padroni della propria
solitudine
senza confini, è il musicare inquieto dell’animo
che vaga libero da catene. Un
animo in fuga.
Il
limite fra terra e
asfalto è labile, quasi inesistente, con i granelli sottili
che sfumano nel
grigio pietra, a volte spingendosi quasi fino al centro della via che,
unica,
s’inerpica sfacciatamente dritta nella desolazione. In fondo,
compare un cielo
terso e di un azzurro velato, dall’aspetto indeciso e
lontano, quasi malsano. Sembra
solcato da crepe giallo limone, fulmini diurni che sanno tanto di
allucinazioni
instabili, riflessi di uno spirito indiano. L’aria fa vibrare
tutto, tramortente
come onde sonore gettate dalle casse di un concerto, passionale come un
nastro
mosso da una ballerina. Agita i contorni come fossero sassolini durante
un
terremoto feroce, che s’incontrano e si staccano, e tremano
impauriti,
schioccando fra loro.
La
vista quasi
s’offusca, coperta dagli occhiali da sole, neri e
impenetrabili, che cercano di
nascondere uno sguardo sconfortato e debole. Una goccia di sudore cola
dall’occhio, sembra quasi una lacrima salata baciata dal
sole; mentre si fa
strada sulla guancia, viene spinta e schiacciata dal vento che ne
frammenta il
percorso.
Non
se l’asciuga. Le
mani sono ancora ben strette sul volante, le dita massicce che ogni
tanto si
aprono e si stendono per sgranchirsi lentamente, senza però
lasciare la presa
salda. Forse un brivido appena le scuote, il singulto represso di un
tormento
ghiacciato che non vuole saperne di sciogliersi. La pelle abbronzata
risalta al
tocco del sole cocente, che con i suoi raggi scivola giù per
il collo,
insinuandosi sul petto che mostra la camicia nera e sbottonata,
sensuale. Le
gambe, strette in dei jeans chiari, si muovono al ritmo di una canzone
veloce.
Ogni tanto il segnale si blocca, si fa oscuro, la radio non prende
bene. Delle
interferenze lanciano melodie nuove di altre stazioni, poi tornano al
solito
riff di chitarra elettrica, più potente di prima,
liberatorio e selvaggio. Ma
la gamba continua a tenere il ritmo, costante, quasi le orecchie
dell’uomo
sentissero ancora il riverbero della musica ora interrotta, ora ripresa.
Una
mano si stacca dallo
sterzo e si poggia sullo sportello, lasciando sporgere fuori parte
della curva
del gomito. Il contatto con il metallo quasi lo infiamma, ma dopo pochi
secondi
la sensazione sfuma, momentanea, e non resta che un senso di calore
soffocante
che permea il tutto. Mentre la strada corre veloce scappando per ritmi
avversi,
per la prima volta un sorriso compare sul volto dai tratti duri, a
labbra
strette, pare il ritorno trattenuto di un dolce ricordo.
«Ancora?» chiede.
«Sì,
ancora» risponde, facendo cenno al bicchiere vuoto, di
cui non si scorge che un bagliore ramato dei resti racchiusi nei
cubetti di
ghiaccio. Il vetro accuratamente sbozzato brilla sotto i neon
fosforescenti, e
i suoi bordi paiono taglienti, acuminati come il ghiaccio che, seppur
prossimo
a sciogliersi, conserva i suoi spuntoni aguzzi e la sua tenue e
sbiadita vena
azzurrina.
«Non intendevo questo.
Parti ancora, eh, Sbrex?» la donna
non gli versa da bere, ma si poggia sul bancone e lo osserva negli
occhi. Il
trucco pesante rende il suo sguardo irresistibile, ma ora è
coperto da una
patina di ira repressa, i tratti del viso tirati e seri. Lui preferisce
soffermarsi sulla sua scollatura dell’abito, di certo meno
pericolosa, e
generosa nel mostrare la pelle chiara e fragile, liscia come un petalo
di fiore
di pesco.
«Di nuovo con quel
soprannome?» un mezzo riso, nulla più,
«comunque sì, parto. Ora mi riempi il bicchiere o
devo andare al bar di fronte
per avere un po’ di brandy?» dice, cercando
d’essere ironico. I suoi occhi di
un verde smeraldo sono ancora più scuri nel semibuio del
locale, offuscati da
mille pensieri nascosti e dalle immagini di ciò che
è prossimo ad abbandonare.
È tornato da poco, questo lo sa, ed è quasi certo
che ritornerà anche stavolta.
Quando, però, resta un mistero.
Lei
fa come le viene richiesto.
Ma forse l’unica cosa che cerca, con questo gesto,
è tenerlo con sé per qualche
istante di più. Il pub è affollato, e nonostante
le luci soffuse e a
intermittenza che lo rendono un po’ più intimo, il
lavoro la porta spesso ad
allontanarsi da quella figura abbattuta a cui presta tanta attenzione.
Il
vociare colma ogni angolo, così come la musica sparata ad
alto volume, ma che
viene comunque attutita dalla gente che balla. Il pestare dei piedi sul
pavimento scuro, il ronzio delle numerose lampadine che però
non rischiarano
quanto dovrebbero, il rumore assordante proveniente dalle casse, le
grida. Voci
di ragazze che ogni tanto lanciano urli accaniti, risate di uomini.
Caos.
Lui
osserva i suoi
ricci corvini allontanarsi per servire una giovane coppia, le osserva i
fianchi
stretti nel vestito di raso nero muoversi suadenti. Non si accorge
delle
occhiate lascive che anche altri le riservano, perché
è certo di possederla,
così come è stato per molto tempo. Forse non
smetterà mai, questo sensazionale
gioco di notti insonni e viaggi indorati in un’alba tardiva,
il limbo in cui la
tiene stretta e la inganna è un luogo da dove lei non
potrà mai fuggire.
Nonostante
il suo
sguardo segua ancora i suoi movimenti, ormai la mente è
andata così lontano da
non percepire più la presenza della donna, e la vista
è solo un intrattenimento
di colori e forme agitate. Si distrae così tanto che per un
istante gli pare di
scorgere due donne camminare allo stesso ritmo, completamente uguali,
vede due
sorrisi, quattro bottiglie di birre posante sul bancone. No, sui due
banconi
del bar… o forse ci sono anche due bar? Scuote la testa e si
scioglie il codino
che tratteneva i suoi capelli color sabbia e, sebbene possa sembrare
solo una
mossa per fare conquiste, sa che stavolta lo fa solo per schiarirsi le
idee.
Partire.
Ancora.
«Per dove?»
è tornata da lui, e ora deterge dei calici da
cocktail frattanto che gli parla. La sua voce è la stessa di
prima, sembra
quasi che non avessero cessato un attimo di conversare, e anche il
cipiglio è
preoccupato e ansante, forse pure un po’ triste. Intanto
cerca di guardarlo il
più possibile, per trattenere ogni singola goccia che anche
solo sappia
dell’uomo che tanto la incanta.
«Non lo so. In
giro» è intontito, troppo. Il liquore ramato
gira nel bicchiere, fa piccoli salti e scivola fra il ghiaccio in
pezzi. È così
scuro da sembrare terreno arso dal sole, acqua del deserto, veleno
ammaliante.
«Il deserto…» mormora.
«Cos’hai
detto?»
«Lascia perdere.»
Il
deserto. Caldo.
Distante. Diverso da quella città così glaciale
perfino in piena estate, tutta
ferro e asfalto.
Il
deserto.
Solitario. Semplice. Ardente e focoso come il suo animo in fiamme.
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Capitolo 11 *** When Love And Death Embrace ***
L’acqua
scorre, si
riversa sul lavandino unto. Viene inghiottita dallo scarico, va via. Se
ne va
per essere sostituita da altra semplice acqua; così, in un
ciclo continuo,
interminabile finché qualcuno non avrà
l’accortezza di chiudere il rubinetto.
La
ragazza giace di
fronte allo specchio, e osserva. Puntellandosi con le mani sui bordi
del
lavabo, fissa l’acqua che l’abbandona e che scorre
in continuazione,
indisturbata. I suoi pensieri sono lontani con le gocce dei minuti
prima, forse
hanno già raggiunto l’accogliente oceano dove non
si è più soli o piccoli, ma
parte del tutto.
Non
si scorge il
viso, coperto dai capelli biondi che le ricadono ai lati, poggiano
sulle
guance, si uniscono in ciocche deformi e spettinate.
L’abito
è bianco, e
bianco è il dolore.
Si
dirige fuori dal
bagno. Chiude la porta sull’uscio, e il clangore di una
serratura vecchia
riempie per un attimo il silenzio.
Le
pareti del
corridoio sono dipinte di un rosso spento, scolorito, a cui mancano
pezzi
d’intonaco. La giovane percorre a passi lenti il varco, al
suo passaggio le
lanterne giallastre si spengono con un ronzio. Dietro di sé
è morte, buio che
dilaga al suo procedere. Le ballerine rosse lasciano scie di sangue
vermiglio,
orme che s’imprimono e si ampliano come macchie sul tappeto
consunto.
Al
centro del
corridoio, sul lato sinistro, è addossato un tavolino in
legno. Sulla sua
superficie si notano i cumuli di polvere, piccole sfere che vibrano
leggermente
al respiro della ragazza. Si ferma. Un altro specchio, contornato
d’oro, la
attende. Lei non lo guarda, non ancora, e apre il cassetto del mobile.
Dentro
c’è un giradischi, ma nessun vinile aspetta di
essere suonato. Lo prende fra le
mani e lo alza con cura, soffia con forza per scostare lo sporco degli
anni, e
una nuvola opaca si riversa verso il vetro riflesso.
Abbraccia
il
grammofono concedendosi un sorriso. Ricomincia la marcia, su per le
scale dai
gradini scricchiolanti e con il corrimano dalle colonnine spezzate.
Continua
fra il vagare nelle stanze dalle pesanti tende di broccato che si
chiudono
all’improvviso al passare della ragazza. Si conclude nella
soffitta colma di
oggetti inutili, rotti, dimenticati. L’unico luogo in cui,
dalla minuta
finestra ogivale, riesce a entrare un raggio di sole. Il pulviscolo
vola, è mare
di piume di colibrì bianchi.
In
un cassettone,
attendono schieramenti di dischi pronti a rompersi nel loro girare
imperterrito, nel loro ultimo sordo rumore. Il nero luccica, invita a
venire
toccato, agguantato. Fremono i vinili, si agitano, è
terremoto di suoni ancora
da esprimere.
S’inginocchia.
Mentre
cerca di scegliere, i suoi palmi diventano rossi di sangue, imbrattando
l’impiantito e tutti gli oggetti. Tutti tranne uno. Un
solitario 33 giri quasi
protetto dall’ombra. Pare una spenta e monotona canzone
d’amore, una
sciocchezza, direbbero alcuni. La giovane lo afferra, lo imprigiona
quasi nella
morsa del giradischi.
Ora,
che la musica
trovi la sua strada.
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Capitolo 12 *** Ikkunaprinsessa ***
Lo stridio di una macchina che
frenava, lo scroscio della
pozzanghera che fece scivolare l’auto un po’
più avanti di quanto si sarebbe
voluto. Dalla fretta di attraversare la strada, non notai che mi
avevano quasi
investito.
Raggiunsi
velocemente
il marciapiede opposto, e proseguii dritto finché non trovai
una tenda rigida
sotto cui ripararmi. Prima stavo suonando tranquillamente ad un angolo
della
piazza, quando nubi nere e temporalesche avevano offuscato la luce del
tiepido sole
primaverile, e nel giro di poco aveva cominciato a piovere. Avevo
appena fatto
in tempo a conservare la chitarra nel fodero e a infilarmi il
cappuccio, che il
cielo si era sfogato con un diluvio che pareva non voler finire.
E ora eccomi lì, ancora mi
rivedo, sotto il portico
gocciolante di un negozio di periferia a tremare dal freddo, bagnato
come un
pulcino. Avevo diciassette anni, ma sembravo più piccolo,
uno strascico di
sogni infranti e nuove idee come carico adolescenziale.
Mi
guardai intorno:
oltre alla gente che con gli ombrelli correva chi a trovar riparo chi
semplicemente verso i propri impegni, non c’era anima viva
disposta ad
ascoltare la mia musica. Mi voltai verso la vetrina della bottega che
tanto
gentilmente mi stava ospitando, sebbene fuori e ancora vittima del
vento
gelido, fino a quando il fortunale non sarebbe scemato. Il vetro era a
tratti
appannato, ed era così sporco che l’immagine
riflessa mi arrivava opaca e
scurita. Ma non v’era dubbio, quel bastardo dai capelli
biondi appiccicati alla
fronte e gli abiti stracciati, il manico di una chitarra che spuntava
da dietro
la schiena e che ora mi sorrideva di rimando, beh, non potevo che
essere io.
Il
mio sguardo però
non si soffermò a me, che, diciamolo, in quella situazione
non ero per nulla un
bello spettacolo; bensì andò oltre, e
scrutò ciò che la vetrina lasciava
intravedere del locale. Capii subito che si trattava di un negozio
d’abiti,
forse una rivendita degli scarti delle vecchie stagioni,
poiché ogni capo
d’abbigliamento esposto era semplicemente orribile. In un
angolo c’era anche
una sorta di riproduzione tutta imbrillantinata di qualche ballerino
anni ’70,
con i pantaloni a zampa e un’inguardabile parrucca cotonata.
Davanti
all’entrata, un cartello scarabocchiato con inchiostro nero
recitava: Chiuso per lutto.
Perfetto, meglio di
così non poteva andare, davvero.
Un
attimo, in quel
negozio non era però proprio tutto da buttare. Un manichino
discostato dagli
altri, posto affianco al bancone della cassa, era fiocamente illuminato
da una
lampadina rimasta accesa. Ritraeva una figura alta e longilinea, lunghe
braccia
leggermente aperte e le gambe messe in una posizione che dava
l’impressione che
stesse camminando. Era una donna attraente e dallo sguardo coperto da
un
cappello in paglia, la larga banda della visiera decorata da nastri
color pesca
portava un’ombra sottile sul volto, che quasi non riuscivo a
scorgere a causa
della lontananza. Ma qualcosa mi diceva che sotto si nascondevano delle
gote
rosee e un paio di labbra cremisi, come bagnate di succo di fragola,
forse un
naso appuntito, e anche delle lunghe ciglia nere per far risaltare
degli occhi
verde smeraldo. Proseguii ad esplorarne le forme arcuate, soffermandomi
sui
seni piccoli che spuntavano timidi ricoperti da un abito leggero. Sotto
il
petto c’era un cinturino in pelle marrone dalla chiusura
dorata, al cui lato
era attaccata una catenina sottile che ogni tanto sembrava mandare
bagliori
ramati. Il vestito arrivava alle ginocchia leggermente sbozzate, e la
gonna a
veli si spostava, alzandosi, mossa da una corrente d’aria
proveniente da chissà
dove. I piedi erano chiusi in degli stivaletti in camoscio rossastro.
Sul polso
sinistro, stretto con un fiocco, c’era una fascia a cui era
attaccato un
piccolo girasole.
Mi
venne da pensare
al vecchio barbuto che doveva essere il padrone
dell’attività, me lo immaginai
a spogliare quella donna così perfetta. Quasi lo rividi
chinato a stringere il
fiocco del bracciale a girasole, con una cura che mal si addiceva alla
sua
figura dispotica e addetta alla poltroneria. Da un lato avrei voluto
essere al
suo posto, poter calcare il cappello su quel viso e quindi assaporarne
i tratti
gentili, sapendo che sarebbero appartenuti solo a me.
Dall’altro lato, però, mi
crogiolavo a cercare di scoprire da solo la mia dama, ammirarla al di
là della
lamina in vetro appannata dal mio caldo respiro. Amarla.
Sembrerà
strano, ma
in quel momento mi ronzava in testa questa storia. Una melodia da
tracciare il
giorno dopo sulla chitarra stava prendendo forma, piano, nella mia
mente di
giovane rocker. Erano note sgrezzate in una figura di plastica e cera,
come
lei, e attendevano di essere denudate per brillare nella loro gracile
essenza.
La amavo. Dio, se non mi ero beccato un malanno per colpa di tutta
quella
pioggia ed ero sano di mente, ero pronto a giurare che il mio cuore in
quel
momento stesse battendo, forte e veloce, per un fottuto manichino.
Il
giorno dopo mi
svegliai di buon’ora. Tornai nella stessa piazza del giorno
prima, sperando in
un tempo migliore. Ogni tanto qualche starnuto mi ricordava che mi ero
buscato
un bel raffreddore, e io di rimando pregavo al mio naso di non
sgocciolare
proprio mentre suonavo.
Mi
misi all’ombra di
un edificio, all’angolo fra il bar e la panetteria. Tolsi la
mia carissima
chitarra dal suo fodero, e saggiate alcune corde cominciai a tracciare
una
motivo appena accennato. Era primo mattino e pochi circolavano,
perciò ne
approfittai per creare la mia canzone d’amore. Appena avessi
visto camminare
più gente avrei messo da parte i miei folli esperimenti, e
con un sorriso mesto
avrei suonato il mio repertorio comune.
Di
per sé la chitarra
elettrica non è il miglior modo di chiedere
l’elemosina, l’ho provato sulla mia
pelle. Un tamburello o un aspetto da fanciullo da soli possono molto di
più. Il
fatto è che se le persone ti vedono strimpellare
allegramente, pensano di
conseguenza che i soldi ce li hai. Primo perché sorridi
invece di piangere,
secondo perché altrimenti non si sanno spiegare dove hai
preso il denaro per
comprarti quello sfacelo di
strumento.
Ma io ho una risposta sensata ad
entrambe le questioni,
peccato che nessuno si degni di chiedermelo. Sorrido perché,
cavolo, io
suonando mi diverto. E se passassi il tempo a piangere di certo sarei
finito
all’altro mondo da un bel po’, mentre io la vita
voglio tenermela ben stretta.
La chitarra è stato un regalo di mio padre, un uomo di cui
non ricordo la
faccia e che prima di abbandonare mia madre in mezzo alla strada ha
avuto questa
brillante idea. Non so che pensare di lui, ma alla mia chitarra voglio
bene.
Attraverso lei ho capito il senso della musica, che non è
solo il rumore che
esce dai sintetizzatori e dalle radio. La vera musica è il
battito d’ali di un
gabbiano che sorvola lo scrosciante oceano, oppure è il
palpitare del cuore di
un bambino che allunga le mani verso il sole. Musica erano le
ninnananne che
mia madre mi cantava prima di farmi addormentare.
Tornando
a noi, quel
giorno fui come al solito sfortunato. Racimolai gli spiccioli per una
parca
cena, e nel frattempo avevo composto però quella canzoncina
che mi aveva
tormentato tutta la notte. Non che fosse un’opera
d’arte, ma mi piaceva
particolarmente. Aveva un ritmo tutto suo, anni ’50, e il
testo si era quasi formato
da sé, esclusi alcuni pezzi che ancora non mi convincevano.
Camminavo in
ritorno al mio rifugio e ancora la canticchiavo.
Passò
un altro
giorno, e stavolta ero deciso a mettere in pratica il mio lavoro.
Volevo sapere
se il pubblico, per così dire, apprezzava. Recandomi alla
solita piazza, passai
davanti al negozio in cui per primo scorsi la mia dolce principessa.
Aveva
riaperto i battenti.
Sostai
lì alcuni
minuti, senza sapere che fare, sotto l’insegna intermittente Glendora’s che mi faceva
compagnia.
Strano che prima non l’avessi notata; ora i neon rosati si
accendevano
accecanti, producendo un ronzio fastidioso a cui però
nessuno faceva caso
perché coperto dai motori delle auto, e dal caos cittadino
in generale.
Ero
ancora indeciso
su cosa fare. La scritta che annunciava la chiusura
dell’attività era sparita,
ma ancora non ero riuscito a scorgere nessuno dentro. Il vetro sembrava
essere
pulito, o forse era la luce del cielo limpido a permettermi di vedere
meglio
l’interno. Era più curato di quanto mi aspettassi:
c’erano cianfrusaglie
ovunque, ma tutte messe con un ordine loro, raggruppate per tendenza e
colori.
Nonostante fosse palese che il locale fosse troppo piccolo per tutto
quell’abbigliamento, si erano conservati stretti corridoi fra
uno scaffale e
l’altro, tanto da dare l’effetto di trovarsi in un
labirinto dalle siepi
arcobaleno. Il mio manichino era ancora lì, affianco alla
cassa, e sembrava
invitarmi ad entrare.
Mi
feci coraggio e…
no, non aprii la porta. Lasciai scivolare la mano sulla vetrina e mi
voltai,
andandomene via fischiettando allegramente, come se così
facendo dissimulassi
quel mio atto di bizzarra vigliaccheria.
Dovete
sapere che
Helsinki è una città molto, ma molto strana. Ci
stavo pensando proprio allora,
sgambettando per il Kauppatori
mentre
mangiavo un po’ di fagioli racimolati fra le varie
bancarelle. L’odore del
pesce era come al solito mitigato dalla fredda brezza marina, e
nell’aria si
spandeva il sapore dolciastro di tè ai frutti di bosco e di
vino caldo. In
alto, a volare con le ali spiegate, decine di gabbiani mandavano ogni
tanto i
loro stridii. Lungo tutto il mercato si incontravano diversi capannelli
di
turisti, spesso accostati attorno ai banchi di souvenir o a mangiare il
pesce
caldo sulla banchina. I finlandesi invece camminavano svelti,
silenziosi, e il
loro chiacchiericcio era molto sommesso, quasi carezzevole. Non ero
ancora
deciso se considerare la mia città strana perché
vi vivevo io, o per qualche
altro vago motivo. In effetti non potevo portare nessun argomento a
favore
della mia tesi, solo che i palazzi, la gente, tutto in generale, mi
mettevano
addosso una sensazione inspiegabile. Mi pareva di trovarmi sempre fuori
luogo.
E
per questo forse
davo la colpa a lei. Helsinki sa prendersi tutti gli oneri di una madre
generosa ma severa, e così ne approfittavo
anch’io, tanto da mettermi fra le
sue grazie e poi criticarla al primo accenno di brutto tempo. Se io non
trovavo
un posto dove stare, era perché si era dimenticata di farmi
spazio fra tutti i
suoi figli. Non poteva essere altrimenti. D’altronde, a
diciassette anni non
ero in grado di assumermi nessuna colpa. Assolutamente. Animo puro.
Quasi.
Lavorai
per la
mattinata intera, appostato sulla banchina del porto. C’era
un via vai molto
accanito, così ebbi la possibilità di racimolare
un buon guadagno. Verso
mezzogiorno feci una pausa, e mi avvicinai a una fontanella che
gorgogliava
allegramente per abbeverarmi. Si trovava a pochi passi dalla mia
postazione,
perciò lasciai lì il cappello in cui la gente
metteva i soldi, convinto che non
sarebbe successo nulla in quei pochi secondi.
E
invece non fu così.
Un ragazzino si gettò letteralmente sul cappello,
agguantandolo, e poi prese a
filare fra i vari banconi. Ero rimasto attonito per alcuni istanti, poi
realizzai l’accaduto e presi ad inseguirlo, ansante.
Stavo
correndo con la
chitarra ancora in mano, inseguendo la figura che svelta si faceva
largo fra la
folla. Mi misi a gridare improperi da lontano contro quello scricciolo
del
malaugurio. “Ehi, la mia cena! Torna qui,
brutto…”
Lo
riacciuffai
all’angolo di Södra Kajen.
Lo presi
con forza dalla collottola e lo sbattei contro il muro. I nostri
respiri
affollati si susseguivano a ritmo irregolare, a volte sovrapponendosi,
altre
volte cominciando al terminare dell’uno. Il ragazzino non
doveva avere più di
dieci anni, tanto che i suoi piedi penzolavano di buoni venti
centimetri da
terra. Terrorizzato ma allo stesso tempo con occhi infuocati,
lasciò cadere il
mio cappello pieno di spiccioli. Sentii un tintinnare di monete
roveschiate, ma
non vi prestai caso. L’unica cosa che mi importava in quel
momento era
fargliela pagare.
“Mi fai
male…” bisbigliò con tono rauco. Solo
allora mi
accorsi di aver stretto un po’ troppo la presa, e che il
collo del piccolo
cominciava ad arrossarsi violentemente. Lo riposi sul marciapiede come
di
solito si fa con un regalo non voluto e lo lasciai andare.
“Non stavo facendo
niente.” mi disse, con un tono di voce che pareva aver
riacquistato d’un tratto
tutta la sua autostima.
“Vedi di guadagnarti i
soldi da solo, la prossima volta.”
risposi. Lui mi guardò ancora un attimo, poi
fuggì come un lampo lungo la via.
A me non rimase che inginocchiarmi come un cane a raccogliere i miei
spiccioli,
con un’aria così afflitta e disperata, stanca, che
dovevo far pena da lontano.
Stavo
pensando…
ancora non vi ho detto come mi chiamo. Sono Lauri Koivun Onnea. Mia
madre,
quando ero piccolo, soleva raccontarmi una storia sul mio doppio
cognome, che
assunsi però solo dopo la separazione forzata dei miei.
Letteralmente
significherebbe “fortuna della betulla”, e a dire
il vero oltre a suonare male
non ricorda nulla in particolare.
Mentre
mi rimboccava
le coperte, Jonsu mi cantava di un albero cresciuto
all’interno di un fitto
bosco. Si trattava di una piccola e fragile betulla, soffocata dalle
possenti
vicine querce. Il legno di betulla, si sa, è molto pregiato,
e un giorno un
boscaiolo si recò nel bosco per procurarsene un
po’. Arrivato dove sorgeva la
nostra betulla, però, rimase affascinato dalle querce che
l’attorniavano, e
desistette dal suo obiettivo primario. Prese a tagliare con foga i rami
degli
altri alberi, e ad ogni colpo la betulla si scuoteva, tremava, temendo
segretamente l’arrivo del suo turno. Ma ciò non
accadde.
Il
boscaiolo,
contento del ricavato, caricò la legna sulla sua slitta e
tornò a casa. La
betulla, un po’ nascosta e salvata dal pregio delle sue
vicine, era passata
incolume alla sortita del boscaiolo, e potette godere ancora della
calma del
bosco.
Mia
madre fa di
cognome Onnea, mentre mio padre Koivu. Lei mi raccontava di essere
stata una
piccola fortuna, uno sprizzo di lucente gioia nella vita lugubre di mio
padre,
che fino allora aveva vissuto subissato dal lavoro. L’aveva
salvato in più
occasioni, quando pensieri cupi si affacciavano alla sua mente, e tutto
il
carico degli anni appesantiva le sue membra. O almeno fu
così finché fra loro
ci fu amore.
Da
allora sono sempre
stato scettico sui rapporti. Sarà che la sofferenza di Jonsu
mi ha insegnato a
tastare il terreno prima di procedere, o semplicemente non voglio
ricadere in
errori simili, ma ho sempre creduto che l’amore non fosse
cosa per me. Seppure
suoni di ciò che potrebbe definirsi romantico, triste e
malinconico, finora non
sono caduto trappola dell’innamoramento. Finora.
Fu
allora che feci la
mia prima mossa avventata. Ormai non mi davo pace: mi sembrava di star
valicando, non so, i cancelli del paradiso, quando con i miei anfibi
inzaccherati di fango fecero il loro ingresso al Glendora’s.
avevo l’idea che quel negozio fosse mezzo abbandonato,
perché ogni volta che ci passavo, a dire il vero ultimamente
molto spesso,
l’interno era sempre vuoto. Nemmeno un’anima viva.
Chiudendomi
la porta
alle mie spalle, sentii alcune campanelle tintinnare sopra di me. Quasi
contemporaneamente, un rumore di scatoloni rovesciati mi fece
sobbalzare
all’indietro, seguito da un gridolino acuto proveniente dal
fondo del locale.
Dio, una femmina.
Mi
precipitai verso
il luogo da cui era venuto tutto quel trambusto. Una figura si
dibatteva sotto
una catasta di vestiti che era caduta da uno scaffale.
“Calma, calma…” con le
mani rovistai fino a scoprire la povera donna, poi le porsi una mano
per
aiutarla ad alzarsi. Dal mucchio di abiti intanto era emersa una
ragazzina. “Oh,
grazie” biascicò, tirandosi in piedi da sola.
Imbarazzata, spinse con un piede
le stoffe sotto lo scaffale, cercando di fare spazio.
“Comunque, io sono
Johanne” continuò, porgendomi la mano,
visibilmente più a suo agio.
“Lauri” risposi.
Non dissi altro, e in verità era già molto
che fossi riuscito a dire il mio nome per intero. Ero incantato, anzi
no,
stregato da quella giovane. I suoi occhi erano di un azzurro ghiaccio
che aveva
però il potere di riscaldarmi il cuore, e dei capelli mossi
del rosso del fuoco
le contornavano il volto gentile.
“Cerchi
qualcosa?” la sua voce riuscì a distogliermi dalle
mie fantasticherie.
“No, io… entro
entrato solo per dare un’occhiata.”
“Beh, se vuoi vedere
qualcosa in particolare dimmelo; con
tutto questo casino in due almeno potremmo scovare qualcosa.”
Sorrisi appena al
suo buffo modo di parlare, svelto e veloce, e al fatto che
più volte aveva
ripetuto la parola qualcosa.
“Ti sembrerà
strano, ma mi piace quel manichino.” Feci,
indicando la mia principessa. Dio, che uscita. Quel giorno avevo
davvero il
cervello in fumo se fui capace di dire
quest’assurdità. Forse devo mangiare di
più, così se non altro una circolazione
più attiva mi permetterebbe di
ragionare meglio.
“Il manichino?”
come volevasi dimostrare, avevo fatto la figura
del perfetto idiota. Johanne mi guardava stupita, con la faccia di
qualcuno che
spera di non aver compreso bene.
“No, niente, lascia perdere
che è meglio” mi voltai, pronto
ad andarmene e dire addio al Glendora’s.
Ma lei mi trattenne prendendomi per mano, e mi trascinò fino
al bancone della
cassa. Prese il cappello di paglia e me lo mise in testa, poi mi porse
uno
specchietto.
“Certo, fa un po’
effemminato, ma devo dire che stai niente
male” disse, trattenendo una risata. Le donne sono
fantastiche quando cercano
di non ridere: le guance diventano tonde per l’aria
trattenuta e le gote si
tingono loro di un lieve rossore, la bocca s’atteggia a una
smorfia deliziosa
che subito nascondono con una mano.
Mi
guardai allo
specchio. “Sembro un contadino.”
Forse
approfittai
della situazione, o forse semplicemente stavo cominciando ad
affezionarmi.
Passai diversi pomeriggi in compagnia di Johanne, che alle sette
smontava
puntuale dal suo turno al negozio. Ci facevamo un giro per le strade di
Helsinki, chiacchierando un po’, magari fermandoci sulla
banchina del porto o
nei bar sparsi per il centro.
Di
lei apprezzavo il
fatto che non faceva mai domande personali, e vista la mia condizione
non
potevo desiderare di meglio. Spiegare ad una ragazza che non si
possiede un
soldo e si vive elemosinando non è cosa facile, specie se
poi le notti le passi
in un ostello finanziato dal clero a cui devi la possibilità
di un tetto sulla
testa.
Un
giorno la vidi più
allegra del solito, e io accompagnai i suoi sorrisi quando mi
mostrò un paio di
biglietti per l’Helldone.
Cavolo,
avevo sognato una vita di andarci, e ora che ne avevo
l’occasione quasi non
riuscivo a crederci.
Il
concerto fu
fantastico, ma ancora più fantastica era lei, che saltellava
a ritmo e gridava
le sue canzoni preferite. Io guardavo il palco, sognando di poterci
salire da
protagonista, in un futuro lontano, e suonare per lei. Si susseguirono
diverse
band, poi una canzone, più romantica delle altre, mi fece
girare la testa. Non
letteralmente, certo, ma mi diede il coraggio di abbracciare Johanne
mettendole
un braccio attorno al collo, avvicinarla a me, baciarla sotto il suono
della
batteria e della sensuale voce di Ville Valo.
Così
passò il tempo.
A volte monotono, a volte veloce come un fulmine a ciel sereno. E io
cambiai
con esso, un particolare a secondo, in modo da diventare un altro senza
accorgermene. La mia musica mutò con me: ora non cantavo
più d’amore senza
conoscerlo, agguantando sensazioni dall’aria rarefatta degli
amanti, ma
attingevo al mio cuore per cercare le parole più dolci.
Andai
anche quel
pomeriggio al Glendora’s.
Nonostante
la porta del locale distasse da me ancora diversi passi, mi accorsi
subito che
qualcosa non andava per il verso giusto. Un camioncino bianco e anonimo
sostava
all’entrata, e alcune scatole sigillate venivano
meccanicamente caricate
all’interno. Altre erano a terra, dimenticate e aperte, con
un mucchio di
cianfrusaglie ammucchiate a casaccio. L’insegna era
già stata rimossa e non
avevo idea di che fine avesse potuto fare.
Johanne
uscì dal
negozio e mi salutò con una mano.
“Chiudiamo,” disse “da quando
è morto il
vecchio proprietario non aspettavo altro. Il tempo di sbrigare alcune
pratiche
e svendere quel che si poteva, e ora finalmente mi libero di questo
lavoro
tedioso.”
“Ma… scusa, non
ti dispiace perdere il posto?” ero
sconcertato.
“No, dai, ne
troverò subito un altro migliore. Non mi
preoccupo.” Lei era così tranquilla, che quasi non
riuscivo a dare spiegazione
al mio comportamento. Sembravo più legato al Glendora’s
di lei. “Che ne dici se vieni dentro a darmi una
mano?”
aggiunse.
Io
rimasi ancora un
po’ fuori, ammutolito. Fra le cose da buttare vidi la mia
principessa.
Sentii
un groppo
salirmi alla gola. Dopo tutto questo tempo, la chiamavo ancora
così. Forse era rimasta
la notte fuori, perché la trovavo molto malmessa, e il
cartone era umido. Le
mancava un occhio, e la plastica del corpo era a tratti graffiata; uno
sfregio
le trapassava la guancia sinistra, rovinandole il volto. Il girasole
sul polso
si era spostato a rivelare un taglio da cui uscivano batuffoli di
ovatta e
l’imbottitura del manichino. Forse quel foro ci era sempre
stato.
Giaceva
scomposta,
tutta la sua eleganza svanita in uno sbuffo invernale. Mi inginocchiai
per
accarezzarle i capelli sintetici, tutti arruffati. La mia principessa
era
caduta vittima dei gatti di strada. La sua bellezza…
dispersa nel vento.
Ogni
bellezza però è
effimera, così come la vita umana. È il battito
delle ali di una farfalla che
non sa tornare indietro.
“Lauri? Ci sei?”
Johanne mi guardava interrogativa,
affacciata dalla porta del locale.
“Sì…
arrivo.” Niente è mai perduto, se un sogno
distrutto
porta al concreto. C’era sempre stata una stella nel Glendora’s, ma per troppo tempo
avevo guardato troppo a sinistra, aggrappandomi
al suo tenue riflesso. E non avevo visto che, lì affianco,
un’intera galassia
non attendeva che me.
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