Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Cosa pensavi?
Cosa pensavi di risolvere commettendo il mio stesso errore? La cosa più
imperdonabile è dinuovo davanti ai miei
occhi. L’hai fatto per nobiltà d’animo? Che ipocrisia. Per lui? Doppiamente
ipocrita, perché anche se in questo modo hai dimostrato di riuscire a
comprendere quale sia la cosa più importante, non hai fatto nulla per
tutelarla. Hai chiuso gli occhi e hai realizzato il suo desiderio, perché hai
pensato che questa fosse l’azione più giusta da fare, quello che lui davvero
voleva, e invece non capisci che così hai dimostrato solo la profondità della
tua miseria? Cadere in pezzi, per lui. Pensavi che questo lo avrebbe reso più
felice? Eppure era chiaro che a questo punto, dato che in qualunque modo avessi
agito lui sarebbe sempre stato infelice, avresti dovuto pensare a te soltanto.
Era ovvio, no? Eppure lo hai ucciso, nonostante entrambi aveste lo stesso
diritto a essere felici.
Io desideravo
la tua felicità, sai? E invece sei riuscito a vanificare l’unica cosa che
volevo tu facessi per me. E anche se sei vivo e respiri, in questo momento sei
morto. Pensavi che io non capissi? Io che lo provato il tuo stesso dolore, sai
che ora per te desidero la morte più di ogni altra cosa? Perché da qui in poi
il tuo destino è già segnato. Il vero inferno, per te, inizia ora ed io non
farò nulla per rendertelo migliore, sappilo. Hai preferito cambiare un destino
che non avrebbe dovuto essere cambiato a nessun costo? È stata una tua scelta.
Ma è per questo che desidero la morte per te, perché così non sarai costretto a
vedere la mia vera natura, o meglio la mia nuova natura, mostruosa, deviata
oltre ogni dire. Tu che non conosci ciò che ti spetterà d’ora in poi, come hai
potuto agire in modo talmente sconsiderato? Ma io fuggirò da te; finché
esisterà la benché minima possibilità che quel destino si avveri, io scapperò
da te. Anche qualora tu dovessi inseguirmi per tutta la vita.
E ti guardo
ancora, mentre vedo il tuo cuore cadere in pezzi, schiacciato dal peso del
dolore e del sangue. Le tue mani, rosse. Il tuo volto, bianco. Come potrebbe
esserci ancora qualcosa che non vorresti perdere, per darti la forza per andare
avanti?
Chiudo gli
occhi: mi duole il cuore. E sono ancora qui. Anche se è inutile che io rimanga,
le mie gambe non si muovono. Eppure non rimane che la separazione, è
inevitabile: perché come io appartengo a Seishiro, ora tu appartieni a Fuuma. È
giusto così; ma il cuore mi fa male lo stesso. E così sei tu a rendermi debole,
ora che dovrei essere forte? E sorrido, perché è interessante vedere quanto gli
esseri umani possano essere stupidi; io su tutti, perché questo dolore per te,
ora altro non è che pietà. È per questo, capisci? Non seguirmi. Assolutamente,
perché non c’è domanda a cui io possa rispondere, dolore che io possa
alleviare, non più. Perché ora, io sono il Nulla. Perciò non odiarmi, ti prego.
E continuo a
tenere gli occhi chiusi, mentre le mie orecchie vengono straziate dal tuo
dolore. Li riapro. I tuoi occhi, persi sul cadavere dell’uomo che volevi tanto
salvare, davvero sarebbe stato possibile riportarli qui, in questo mondo? Quel
futuro, davvero si sarebbe realizzato? E la mia debolezza, fin dove si sarebbe
spinta?
“Hai
sbagliato.”
E
anche a distanza di anni, il ricordo di questo giorno, continua a ricorrere nei
miei pensieri, tormentandomi. L’errore. Tutto iniziò da lì, per colpa mia. Il
tuo destino, è stato anch’esso colpa mia? Della mia debolezza, dell’affetto che
provavo per te. Io, che non avevo idea di come tutto si sarebbe messo in moto,
il motivo che ti avrebbe spinto a inseguirmi così, come ho potuto fornirtelo io
stesso? Il fato, crudele, si prende gioco di coloro che vi rimangono invischiati,
che non avendo la forza per affrontarlo o accettarlo, vi si arrendono come
foglie in balia del vento. Ma quel destino che è già stato cambiato una volta,
è davvero immutabile a sua volta? Io spero di si, se ancora esiste in me un
sentimento simile alla speranza.
“Perdonami…”
Un leggero
sussurro che come un alito di vento, arriva sino alle tue orecchie, che pur non
essendo in grado di ascoltare più nulla se non il risultato del tuo stesso
dolore, miracolosamente attirano a me la tua attenzione. E solo qui mi rendo
conto del mio errore, tremendo, crudele:
Il mio egoismo
ti ha ‘strappato’ a lui.
L’inizio
di una nuova tragedia, di un destino di cui mi è data conoscere solo la fine,
può essere stato solo colpa mia? Se è così, ti chiedo davvero di perdonarmi,
Kamui. Perdonami, perché d’ora in poi sarò un uomo troppo debole per cercare di
evitarti altro dolore; troppo debole pure per smettere di desiderare per te la
felicità, nonostante la consapevolezza che sarò io a sprofondarti tra tenebre
ancora più buie di queste.
E svanisco.
Lasciandoti per sempre, giro le spalle, consapevole che tu mi stai guardando,
ma non possedendo la forza per dirti nulla. Non guardarmi. Non seguirmi. Non
costringermi a provare ancora delle emozioni. Il mio addio, non considerarlo
importante, perché d’ora in poi potrò solo mostrarti quanto invece sia
miserevole il vero me stesso, che tu hai considerato degno d’affetto. Addio,
vorrei dirti, ma taccio, per non rendere più profonda la tua ferita. Perché
questa volta, il mio addio è definitivo. Il mio futuro, il Sakurazukamori. Non
c’è bisogno di dignità, per fare una cosa come questa, perciò rinuncio anche a
quella, sai? E tutto per lui, anche se lui non esiste più da nessuna parte.
Andandomene,
non mi voltai nemmeno una volta.
Aside
E questo è
l’inizio di *LtN*. Tutta la vicenda prende le mosse da questo episodio,
riassumibile, volendo, in una singola parola. Quella che leggete qui è una
versione differente rispetto a quella che è stata disponibile fino a poco fa,
perchéessendo questa la mia prima
fanfic, lo stile in particolare di questa prima parte lasciava parecchio a
desiderare. Un’unica annotazione: qui ho usato il corsivo per distinguere gli
avvenimenti del passato dal commento che di essi viene fatto a posteriori,
mentre nei capitoli a venire lo userò per distinguere la realtà dal sogno.
Buona lettura.
Campagna
di Promozione Sociale - Messaggio No Profit:
Dona l’8‰ del tuo tempo alla causa pro recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
(Chiunque
voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio crede)
Ora che hai perso ogni cosa, ciò che ti è rimasto è solo
questo nome,
/amato e odiato/
“Qual è il tuo nome?”
“Sakurazuka. Subaru Sakurazuka, piacere” e sorridi.
Lo sapevi, no?
Che ormai nulla ha più importanza.
E tutto per cosa?
Per un nome. Per il ‘suo’ nome, per
l’eredità pesante di un uomo che ormai non esiste più da nessuna parte se non
lì, nel suo nome ch’è anche il tuo e nel tuo occhio.
Solo questo.
Solo questo in mezzo a
quell’insostenibile niente.
Ma questa vita miserabile non è poi
tanto male; semplicemente ‘tu’ non sei un essere umano e la persona davanti a
te non è destino che viva. Dopotutto la vita degli uomini non può prescindere
dalla nascita e dalla morte; è un ciclo.
E non soffri più. Dato che non devi più
preoccuparti di puntare alla realizzazione di un qualsivoglia desiderio,
semplicemente respiri, così che anche ‘essere felici’ non ha più alcun
significato, perlomeno non fin quando eviti di farti coinvolgere in quel flusso
che tu chiami vita. E lo trovi semplice, perché tutto ciò che ti è richiesto di
fare in cambio di questa pace, è solo di scegliere di tanto in tanto un
incarico tra quelli commissionati dal governo giapponese e uccidere la vittima
da loro designata. Anche continuare così non ti dà noia; passare le giornate
osservando il mondo ‘reale’ in fondo era quello che faceva anche lui.
Assuefazione: ormai è questo a rendere
la tua vita normale, ma a te sta bene anche così, perché sei anche tanto stanco;
stanco di soffrire, di preoccuparti, di amare. E tutto questo è così pesante
che cerchi di ricordare cosa ti spingesse appena sedicenne a sforzarti così per
gli ‘altri’, quegli altri che amavi così tanto da aver rinunciato a tutto per
loro. All’epoca, perché rimanevi così ferito nel sentirti dire la parola
‘inutile’? Forse perché pur avendo il potere di fare qualcosa per loro, alla
fine non risolvevi mai nulla? Stolto. Come potevi pensare che un ragazzino come
te potesse salvare degli estranei, se non riusciamo a proteggere nemmeno quello
che stringiamo tra le braccia? Ma è proprio in questo che risiedeva la tua
purezza, per questo apparivi così adorabile agli occhi della ‘gente’: così
giovane, eppure così vecchio.
E ora cosa conti di fare? Di continuare
per sempre ad uccidere?
/fin quando non morirai/
Finché non incontrerai qualcuno che ti
uccida liberandoti da questa maledizione? ‘Colui che sarà il tuo degno
successore’, che si bagnerà del tuo sangue dimostrandoti la tua infima
debolezza? O forse ti lascerai uccidere?
Non importa. Quando giungerà quel giorno
avrai talmente in odio ‘te stesso’, che preferirai tornare polvere. È un ciclo,
no?
E in quell’attimo sarai felice…?
Non lo sai, ma
non puoi fare a meno di chiederti se non sia questo lo stesso percorso che ha
portato Seishiro a farsi uccidere da te. E sorridi. Perché sai che stai
diventando esattamente come lui, cinico e ipocrita, con il cuore immerso tra le
tenebre. E non è neppure particolarmente umiliante: in fondo, che si sorrida
realmente o si finga solo di farlo è ininfluente, cambia solo la paura di non
esistere più dietro la facciata che ci si è costruiti.
...e forse nel
tuo caso è proprio così: dietro la tua maschera non esiste più niente.
Senti una
trista melodia salire dalla città sotto i tuoi piedi e dal grattacielo dove sei
seduto ti perdi in quel suono, che trasforma quel tuo nulla in voce. A occhi
chiusi canti /Let me flyaway/ e pensi che forse era vero quando Seishiro ti diceva
che avevi una bella voce.
Che peccato.
È ora di muoversi,
il ciliegio reclama la sua preda.
La luna era particolarmente grande quella sera, e le tenebre, vinte dal suo
pallore, sembravano quasi ferirsi al contatto, così che ritirandosi, regalavano
man mano alla luce il volto del Sakurazukamori, il suo corpo, le sue mani
ancora intrise di scarlatto. Il fenomeno gli parve insolito abbastanza da
indurlo a voltarsi verso il cielo. Era raro che la luna fosse così visibile, a
Tokyo solitamente le luci della città erano tali da oscurare qualunque altra
cosa. Ma quella era ‘la notte’. E se le previsioni erano giuste, di lì a poco
sarebbe avvenuta la cattura. Avrebbe
potuto fuggire, ma perché farlo, se sapeva che sarebbe stato perfettamente
inutile?
Era inevitabile. Come gli avevano detto, quello era il suo destino. E
fuggirlo non avrebbe cambiato proprio nulla.
Distolse lo sguardo dal cielo per farlo lentamente scivolare sul pavimento,
dove giacevano ancora i cadaveri della coppia che aveva avuto l’ordine di
uccidere. Poverini. Non si erano neanche accorti della sua presenzache probabilmente erano già morti. Meglio
così. Odiava guardare gli occhi pieni di terrore di chi era già condannato a
morte, anche se ammetteva che concedere loro almeno questo, avrebbe significato
tenere in qualche considerazione il fatto che erano esistiti. Ma il rispetto
non rientrava più nei suoi compiti.
Era quasi ora. Si preoccupò di volare il più lontano possibile da quel
luogo e dai fantasmi che lo infestavano, che parevano quasi volerlo incatenare
per sempre lì, ad osservare lo scempio che aveva compiuto. Ora occorreva
trovare un posto tranquillo per fronteggiare quello che doveva succedere.
Atterrò sul tetto di un palazzo che affacciava su una zona residenziale, alla
periferia della città.
Perfetto. Qui non avrebbe avuto problemi, qualunque cosa fosse accaduta. E
non sarebbe accaduto nulla: non poteva permettersi alcuno sbaglio, non quando
finalmente era stato capace di ritrovare un suo equilibrio.
Quattro anni erano passati da quella terribile notte che aveva deciso il
destino della Terra, quattro anni e ancora non riusciva a dimenticare
quell’orrore, il dolore di un mondo che sarebbe dovuto finire quella notte, ma
che ancora era stato costretto ad esistere, con tutti i suoi mali, le sue
contraddizioni, le sue brutture… gli ‘esseri umani’.
Essere salvato: per quel pianeta questa era stata la dannazione. L’ultimo
tentativo di salvare il salvabile era fallito, e questo era stato l’inizio
della fine. Per quanto tempo la Terra sarebbe ancora stata capace di permettere
a noi esseri umani di sopravvivere? 50 anni? Un secolo? O forse due? Perlomeno
saremmo morti insieme, noi e la Terra. Che consolazione.
E quando aveva appena iniziato a pensare di potersi lasciare tutto
alla spalle, ecco che invece l’incubo tornava: doveva scappare, lontano; per
quattro anni era fuggito, disperatamente, sapendo che un giorno /questa notte,
precisamente/ avrebbe dovuto affrontare la questione, eppure mai, neppure per
un attimo, era riuscito a trovare anche un solo motivo per fermarsi, per
guardare in faccia colui che seguendolo, lo dannava. Eppure doveva saperlo che
era tutto inutile, che anche se lo avesse raggiunto, come stava per fare, nulla
sarebbe cambiato, nella vita di entrambi. Quali risposte pretendeva? Cosa
voleva da un uomo che non possedeva più alcuna certezza, che per trovare un
posto nel mondo si era abbassato a fare il sicario? Forse lo odiava? E perché?
Perché non era la persona che sperava che fosse? Che stupidaggine.
Sicuramente sapeva che lui non poteva salvarlo. Doveva aver visto le sue
vittime, una ad una. E dopo una cosa del genere, come poteva esistere ancora
qualcuno che potesse assolverlo? Questa era certamente una bella speranza da
nutrire, ma decisamente ipocrita, e per questo aveva deciso di rinunciarvi.
La notte gli gelava il viso. Quanto tempo avrebbe dovuto ancora aspettare?
Era tentato d’andarsene, e invece rimase ancora lì, fumando nel tentativo di
rendere il freddo meno pungente. Gli tornò in mente quella sera al Rainbow Bridge, quando stava aspettando il drago dalla
terra che avrebbe dovuto, secondo le previsioni di Hinoto, distruggere quel
luogo. Sinceramente non si aspettava di trovare lì Seishiro, ma forse,
se aveva accettato di venire, era proprio perché sapeva che ci
sarebbe stato lui lì, quel giorno. Purtroppo.
Fece un sospiro, quasi per liberarsi da quei pensieri. Era da tempo che non
si concedeva più di ricordare certe cose, preferendo l’oblio al dolore, ma
doveva ammettere che pensarvi a distanza di quattro anni, sicuramente faceva un
certo effetto. Eppure era la sua vita: allora cos’era quel principio di
indifferenza che sentiva in fondo al cuore? Per essere un Sakurazukamori aveva
forse perso se stesso?
/Per permettere a Seishiro di sopravvivere/
…aveva cancellato quel Subaru Sumeragi da cui ‘lui’ aveva
tanto voluto essere ucciso?
Possibile. In fondo non si sentiva di escludere nemmeno la possibilità che
il motivo per cui non provava più alcun sentimento, fosse riconducibile al
fatto che Seishiro non esisteva più. Che senso avrebbe avuto, infatti,
continuare ad essere in quel modo, se non esiste più la persona per cui siamo
diventati tali? Le persone cambiano, se scelgono di continuare a vivere. E lui
aveva scelto di diventare un assassino. Per Seishiro? Forse. Ma neanche questo
dopotutto, aveva più molta importanza, dato che quell’uomo era morto. E la
morte è la fine di tutto.
Un rumore lo distolse dai suoi pensieri. Qualcuno stava arrivando, e a
giudicare dal suo passo, se la stava prendendo anche abbastanza comoda. Era
ancora nascosto dall’ombra, ma Subaru non dovette aspettare che uscisse alla
luce della luna per avere la certezza che fosse lui.
Kamui era cambiato in quei quattro anni. Era diventato più alto e meno
gracile, anche se ancora qualcosa della sua persona suggeriva l’idea di essere
miseramente fragile; forse erano gli arti, sottili quasi come se fossero
affetti da rachitismo, anche se questo suonava poco elegante. Inoltre una certa
aria di trascuratezza esalava dal suo corpo: decisamente questi anni avevano
nociuto più a Kamui che a lui. Ma lo shock peggiore era lo sguardo, duro,
sarcastico, a tratti detestabile, come può esserlo solo quello di chi
guardando avanti verso il nulla, sembra prendersi gioco di chi gli è davanti.
Almeno però, non sembrava aver perso se stesso. E ne fu invidioso, anche se
questa sciocca sensazione durò solo un attimo.
“Ti aspettavo molto prima”
“Quando ho capito che non saresti scappato, ho deciso di prendermela
comoda” Il prezzo per avermi fatto aspettare quattro anni, giusto?
“Perché mi cercavi?”
“Non ci arrivi da solo?” qui lo sguardo di Kamui si incattivì. E Subaru per
un attimo ne ebbe paura.
“Desideri uccidermi?”
L’espressione di Kamui si contrasse in un ghigno derisorio.
“Era questo che temevi?” Il motivo per cui scappavi, era questo?
Subaru non rispose. O, meglio, non aveva nessuna intenzione di rispondere a
domande come quella, fatte a caso da chi non sapeva nulla.
Il silenzio si fece opprimente e Kamui, scocciato, assunse apposta un tono
provocatorio.
“E anche se fosse? Anche se volessi ucciderti, ci sarebbe qualcosa di male,
dopo tutto quello che hai fatto?” Inaudito che un assassino avesse paura di
morire. Che quell’assassino poi fosse Subaru, era ancora più incredibile: gli
dava quasi l’impressione di non conoscerlo affatto. Non che fosse fondamentale,
ma la sensazione per cui tutti quelli che lo circondavano sembravano lentamente
impazzire, certo non aiutava. Ma Kamui non poteva sprecare l’unica possibilità
che aveva per parlargli, dopotutto erano quattro anni che aspettava, quattro
interminabili anni passati cercando di capire dove si nascondesse, il motivo
per cui fuggisse così, quasi a voler dare prova della sua colpevolezza.
Subaru intanto era rimasto silente; evidentemente non era così stupido da
rispondere a provocazioni ostentate come quella. Kamui tirò un sospiro prima di
continuare, quasi come una promessa a moderare i toni.
“…potrei dirti un miliardo di cose come questa,
ma non sono qui per farti la morale su come hai vissuto in questi anni. Non
penso nemmeno di essere la persona più adatta per dirti alcunché. Se sono qui è
perché cerco delle risposte da te” e qui fece un pausa, probabilmente
aspettando un cenno di assenso che non sarebbe mai arrivato.
Era stato uno stupido a
preoccuparsi, /quel futuro/ era ancora lontano dal realizzarsi. Ma non per
questo avrebbe sottovalutato il problema. Che dirgli? Cosa voleva sentirsi
dire? La verità? Ma per favore. Venirla a chiedere al Sakurazukamori era
assurdo, ed era sicuro che Kamui ne fosse cosciente. Era anche vero che se
Kamui lo aveva inseguito per questi anni era solo colpa sua. Allora cosa
avrebbe dovuto fare? Giustificare la propria debolezza? Quello stupido pensava
davvero che lui avrebbe accettato di fare una cosa simile?
Kamui si fece prendere dall’agitazione. Non gli piaceva l’atmosfera che si
era creata; non che si aspettasse qualcosa in particolare, ma quella gelida
tensione pareva quasi rendere vani tutti i suoi sforzi. Che significato aveva
avuto inseguirlo così, se poi quello che otteneva era questo? E l’inquietudine
si trasformò in rabbia.
“Non mi dici nulla?” L’irritazione impregnava le sue parole, mentre
l’espressione rifletteva tutta la sua amarezza.
Aveva visto la sua vita cadere a pezzi dopo la fine del mondo. Aveva
sperato di morire, ma era stato curato. Anche dei suoi ‘amici’ era rimasto ben
poco: Sorata era morto, Arashi era scomparsa, Karen era morta per proteggere Seichiro, che quindi si era salvato insieme a Yuzuriha. Ma anche solo loro due, come avrebbe potuto
essere in grado di guardarli negli occhi? Cosa avrebbero mai potuto dirgli?
Forse grazie per aver salvato la Terra? Bella roba, se il prezzo da pagare era
stato la morte di Fuuma. No, era disgustato. E non poteva nemmeno morire,
perché Fuuma aveva dato la sua vita per quella ben più miserabile e deprecabile
di ‘Kamui’. Cosa gli rimaneva da fare? Così, senza più un motivo per vivere… aveva inseguito quell’uomo. Era colpa sua se non
riusciva più a cadere in coma, per quello che aveva osato dirgli prima di
andarsene e scomparire per sempre dalla sua vita. Perché aveva pronunciato
quelle parole? E poi come aveva potuto andarsene, lasciandolo lì così? L’unica
persona che lo comprendesse abbastanza bene da condividere il suo dolore,
perché gli aveva chiesto di perdonarlo? Lo aveva odiato, e probabilmente lo
odiava ancora abbastanza da poterlo uccidere. Era solo colpa del suo egoismo,
se ancora esisteva a questo mondo nonostante vivere fosse una punizione.
Subaru intanto lo osservava. Attentamente cercava di cogliere ogni sfumatura
della persona che si trovava davanti, ma più a lungo lo guardava, più non
riusciva a ritrovarsi nella figura di Kamui. Il ragazzo che conosceva lui era
dolce, fragile, sempre attento a chi lo circondava; non infieriva sulle colpe
altrui per trovarsi in una posizione di vantaggio. Era cambiato molto, forse
troppo per i suoi gusti, anche se ammetteva che era infinitamente più semplice
trattare con una persona che aveva perso ogni illusione: non rischiava di
spezzarsi al primo colpo.
“Vuoi farmi credere che mi hai inseguito solo per chiedermi perché quel
giorno io ti avessi chiesto perdono? Commovente.” E così dicendo tirò fuori una
sigaretta dal pacchetto. Era una Mild Seven.
Kamui sembrò quasi azzannarlo con lo sguardo: quello non era Subaru, ma il
Sakurazukamori. Poco male. Sarebbe stato solo un po’ più difficile da trattare,
ma niente di davvero complicato. Poteva farcela.
“Eh, no. Semplice cavarsela così, non ti pare?” e sfoderò un sorriso che
più falso di quello non ne esistevano. Quello stronzo. Come osava? Di chi era
la colpa, se erano arrivati a quel punto? Scappare così: cosa pensava, che lui
si sarebbe arreso al primo tentativo e lo avrebbe lasciato andare? Dopo quella
maledetta notte, aveva perso tutto. Sul letto d’ospedale, passava la giornate guardando
fuori la finestra, in silenzio, con la sola compagnia di quelle maledette
domande rimaste senza risposta, forse per sempre. A Fuuma non poteva più
chiedere, ma ‘lui’ era ancora vivo. Anche se era come se non lo fosse più, per
quanto lo concerneva. Ma piano piano era come se
quelle domande avessero cominciato a divorare il suo mondo, a distruggerlo
lentamente, perché quando non si hanno più certezze, il dubbio ingoia ogni
cosa. L’inizio dell’incubo. Avrebbe potuto essere anche Arashi, ma aveva iniziato
col cercare questo infame perché lei sicuramente rappresentava un tasto molto
più delicato, dopo la morte di Sorata. Ma quattro anni. Aveva pur diritto a
qualche spiegazione, no? Non che avesse avuto qualcosa di meglio da fare per
tutto quel tempo, anzi, quando non si ha la forza per guardare avanti, la cosa
migliore era decisamente fare come aveva fatto lui, ovvero attaccarsi a qualche
stupido motivo e testardamente avanzare. Anche se forse sarebbe stato davvero
meglio seguire Arashi, dato che l’unica traccia che lui si lasciava dietro
erano quei maledetti cadaveri.
Subaru si ritrovò all’improvviso alle strette. Cosa pretendeva da lui? E
Kamui approfittò di quel momento di palese incertezza per affondare la sua
lama.
“Perché fuggivi?” perché quel giorno … ma non ebbe il coraggio di terminare
il pensiero.
Subaru chiuse gli occhi in preda ad un dolore acuto. Di nuovo quel dolore
lo martoriava, lo stesso che lo aveva colto la notte in cui era stato costretto
a rivivere la morte di Seishiro nei panni di quei due ragazzi. Rivide con gli
occhi della mente la silhouette di Kamui mentre piangeva sul corpo dell’altro
Kamui, i suoi occhi vuoti mentre fissava il nulla piangendo scompostamente, le
sue braccia ancora strette intorno al suo collo. E lui come un folle, se ne era
sentito responsabile. Non ne aveva motivo, dopotutto lo aveva messo in guardia
in ogni modo, eppure si era sentito ‘inutile’. Ancora. Impotente,
completamente. Non riusciva a capire Kamui. Perché alla fine aveva scelto di
ucciderlo? Era una persona così gentile da rinunciare alla propria felicità per
quella di Fuuma?
… Non aveva seguito neppure uno dei suoi consigli, alla fine.
“Non fuggivo. Sei tu che non sei stato abile nel cercarmi.”
/Bugiardo./ Non nascondere ‘a me’ la verità.
“Perché sei fuggito da me?” Perché non hai permesso a me di trovarti?
“Come ho detto, è compito del Sakurazukamori nascondersi e uccidere tutti
coloro che lo vedono in volto.” Non sei tu la persona che è in grado di
trovarmi, Kamui. Non forzare la mano.
Kamui perse la pazienza. Quel testardo si rifiutava di fare l’unica cosa
che potesse fare per lui.
“Allora immagino che non mi dirai nemmeno perché mi hai chiesto perdono
lasciandomi lì in preda alla disperazione.”
Subaru tacque. Doveva spiegargli di quell’assurda debolezza? Di quel trauma
che si portava dietro sin da quando era solo un bambino? Non esisteva. O
perlomeno non avrebbe mai ammesso una cosa del genere ora che non aveva più
senso farlo. Il passato … era passato. Che senso aveva indugiarvi così,
attaccarsi all’immagine di un se stesso che ormai non esisteva più? No, era
solo un pretesto. Lo sentiva. Kamui lo aveva solo usato per avere un motivo per
cui continuare a vivere, e quella per lui era la resa dei conti. Che seccatura.
“Vieni con me.”
“Dove?” Lo sguardo di Kamui si era riempito di diffidenza, sentendo la
proposta del Sakurazukamori. Non ne capiva le intenzioni e per questo fidarsi
poteva essere pericoloso.
“Non riesci più a fidarti di me?” Qualcosa in quella frase suonò doloroso
per Kamui. Incerto lo fissò negli occhi. Ma quell’espressione e persino quella
trista malinconia, erano le sue, le avrebbe riconosciute tra mille: non erano
del Sakurazukamori, appartenevano a Subaru.
Senza una parola Kamui tese la propria mano in direzione di quella
dell’altro, che solo dopo un attimo di esitazione la prese, trascinandolo con
sé tra le tenebre, lontano dalla pallida ma rassicurante luce della luna.
Aside
Il resto del dialogo, nel
prossimo capitolo, “Home”, dove Kamui comprende che forse cercare Subaru è
stato un errore.
Subaru condusse Kamui nei pressi di un grattacielo in centro Tokyo.
Kamui lo conosceva, era uno di quei luoghi che ospitava gli uffici delle
aziende di comunicazione, ma perché portarlo lì? Non capiva, e capì ancora meno
quando Subaru gli fece cenno di seguirlo all’interno. Al pianoterra c’era la
reception, da cui Subaru ritirò una chiave, come se si trattasse di un albergo.
“È con me” disse, giustificando così la presenza di Kamui agli occhi del
‘portiere’ che continuava a fissarlo sospettosamente. Presero l’ascensore, e
raggiunsero l’ultimo piano, dove con sorpresa scoprì che si trovava un’unica
porta, nonostante l’elevata estensione del piano. Subaru usò la chiave per
aprire e quello che apparve davanti agli occhi del ragazzo era un appartamento
in piena regola.
“È casa tua…?” L’esitazione fece tremare la
sua voce.
“Si. Una delle tante.” La naturalezza con cui Subaru aveva ammesso
questo era stupefacente per Kamui, che se ne sentì leggermente irritato. Ne
parlava come se fosse ovvio, quando sapeva perfettamente che non lo era
affatto.
“Tu non hai idea di quanto io abbia cercato questo luogo.” Dato che
non riuscivo a trovare ‘te’, ho pensato di venire ‘qui’, innumerevoli volte.
Mai ho smesso di cercarlo, sai? Ma l’emozione gli bloccava la voce in gola. Era
troppo per lui ritrovarsi davanti agli occhi la prova della propria stoltezza e
incapacità con quella semplicità mostruosa. E Subaru lo sapeva, perciò taceva
aspettando che Kamui riprendesse a parlare.
“… ma era protetto da molti sigilli, troppi.” La verità? Non ci sono
riuscito, perché ero troppo debole. Potrò mai perdonarmi per questo? Per quella
debolezza che è costata la vita all’unica persona che abbia mai deciso di
proteggere?
“Non sono opera mia.” Quando sono diventato Sakurazukamori “…sono stati loro a guidarmi nella casa del precedente
capofamiglia e mi hanno seguito anche nella mia attuale dimora. Si tratta di incantesimi
antichi e potenti, a cui non esiste rimedio” perciò non incolparti a quel modo,
Kamui. Tu sei forte.
Kamui sorrise. La dolcezza nella voce di quell’uomo era sempre la
stessa, non era cambiata di una virgola. Poteva star anche fingendo, che non
gli sarebbe importato granché, fintanto che lui avesse continuato a recitare la
parte di Subaru.
La casa, in stile occidentale, presentava all’ingresso un piccolo
atrio con attaccapanni annesso, che dava su un salone arredato in modo semplice
e funzionale. Le pareti, candide, contrastavano con il divano in pelle nera che
abbracciava la stanza, mentre al centro troneggiava un tavolino in vetro su cui
poggiava un posacenere. Da questa stanza si diramavano dai lati due corridoi
curvi su cui, per quel che poteva vedere, davano delle porte che avevano l’aria
di essere stanze da letto, mentre dal lato opposto all’ingresso, attraverso un
arco, il salone si collegava idealmente alla cucina. Kamui ne stava osservando
i particolari, quando si accorse che a causa della curiosità che nutriva nei
confronti di quel luogo, siera
dimenticato di togliersi le scarpe prima di entrare. Stava per chiedere scusa e
tornare nell’atrio, quando vide che neanche Subaru lo aveva fatto, né
nell’atrio ricordava di aver visto babbucce per gli ospiti. Decise di lasciare
perdere. Si tolse la giacca e si accomodò sul divano, là dove Subaru gli aveva
indicato di sedersi.
“Ti va un caffè?” Kamui respinse l’invito scuotendo la testa. Aveva
solo bisogno di sapere, ora.
“Perché mi hai portato qui?” La casa del Sakurazukamori deve rimanere
segreta a tutti, no?
“Avevi bisogno di risposte, hai detto.”
“Quando ti ho fatto le mie domande sei rimasto in silenzio, mi
sembra.”
“Perché quelle erano risposte che non potevo darti” che non volevo
darti.
“Adesso decidi tu cosa è bene che io sappia?” Il tono, aspro, ferì le
orecchie di Subaru.
“Non era questo che intendevo, lo sai.” Non rendermi le cose più
difficili.
“E di cosa vorresti che parlassimo? Del passato, forse?!”
Subaru si arrese. Abbassò lo sguardo posandolo sul tavolino lì
accanto, mentre la sua mente si perdeva nei propri pensieri. Trattare con Kamui
era diventato difficile per lui. Certo, forse portarlo lì non era stata un’idea
brillante, ma come spiegargli quel bisogno improvviso di avere qualcuno con cui
parlare dopo così tanto tempo? Era anche vero che le circostanze non erano le
migliori, insomma, dopotutto lo aveva mollato come un sacco di patate dopo
avergli chiesto scusa, e, quando aveva capito che lo stava cercando, gli era
sfuggito per quattro anni. No, decisamente dal punto di vista di Kamui quella
non era una bella situazione. Non lo si poteva biasimare, se si comportava
così.
Kamui si morse un labbro. Adesso gli tirava fuori anche l’aria
ferita? Se l’era cercata. Ma sospirò profondamente. No, non poteva continuare
così. In fondo Subaru era il Sakurazukamori e come tale doveva tutelarsi. Se
tra i suoi doveri c’era quello di nascondersi dal mondo, allora in questo caso
era lui a star sbagliando, accusandolo in quel modo, giusto? Doveva
costringersi a pensarla così, anche se non riusciva a togliersi di dosso la
fastidiosa sensazione di star mentendo a se stesso. Dopotutto se Subaru aveva
scelto di essere un Sakurazukamori, lui non poteva farci nulla, né aveva il diritto
di dirgli alcunché. Perciò era inutile che si sentisse offeso da questo.
“Non volevo. Ho esagerato.” Scusami.
Subaru sorrise e Kamui si ritrovò a osservarlo bene per la prima
volta dopo quattro anni. Non era cambiato molto. Ogni suo gesto, il portamento,
come anche i suoi atteggiamenti, emanavano un’aria adulta ed elegante che ben
si accompagnava col suo sorriso. Anche se, a dire la verità, lo preferiva quando
era più insicuro: gli dava l’impressione che la persona che aveva davanti fosse
‘reale’. Sincera. Ma le persone cambiano, su questo non aveva alcun dubbio;
neanche Subaru sarebbe tornato ad essere lo stesso, mai più. Lo sguardo gli
cadde sulle mani dell’uomo: erano ancora scarlatte. Inavvertitamente contrasse
il viso; qualche frase dolce non poteva cambiare ciò che era stato. Subaru era
un assassino e proprio per questo da lui non poteva aspettarsi più nulla. Ma
allora perché non riusciva a smettere di desiderare di riuscire a scorgere un
po’ più del suo Subaru in quell’uomo?
“Quanti ne hai uccisi?”
Fu il tono piatto con cui furono pronunciate queste parole, a colpire
Subaru. Un dolore intenso lo attraversò, mentre la sua mente viaggiava a
ritroso in quei quattro anni. Come avrebbe potuto ricordare? Come avrebbe
potuto dimenticare? Tutti. Se li ricordava tutti, i volti. Perché nel caso non
fosse stato così, sarebbe impazzito, sicuramente. Si guardò le palme delle
mani.
“Sono queste a turbarti tanto?” e così dicendo le alzò a livello del
viso. I suoi occhi, contratti dal tormento, per un attimo a Kamui sembrarono
lucidi. Peccato fosse impossibile.
Dato che Kamui non dava segno di voler rispondere, Subaru si alzò, e
recandosi in cucina, lavò la mani nel lavello. Poi, tornò a sedersi. Ora erano
bianche, anzi, dello stesso colore della luna.
“Questo non cambia il fatto che quelle persone siano morte.”
“Forse no, ma cambia per me” e anche per te. Per quanto sia
deprecabile, anche tu sei così, no? Anche tu hai fatto così per poterti
lasciare indietro la ‘sua’ morte, per evitare di impazzire.
Kamui si sentì male. Non poteva accettare quelle parole, non ancora,
non più. Il peso, la consapevolezza delle proprie azioni, gli fecero girare lo
stomaco per un attimo. Per quattro anni aveva vissuto alla giornata, cercando
di non pensare alle proprie colpe; ma vedersi sbattere così in faccia quelle
parole, era troppo. Si sforzò quindi di mantenere quel poco di contegno che
ancora gli rimaneva per assumere un’espressione neutra, per cancellare tutti
quei sentimenti che sembravano traboccare. Non gliel’avrebbe data vinta. Non ad
uno che per sopravvivere aveva ucciso per primo se stesso.
Subaru aveva notato l’espressione disgustata di Kamui, ma fece finta
di niente. Non sapeva che farsene della sua disapprovazione. Piuttosto era
meglio smettere di parlare di sé: aveva l’impressione che Kamui non avrebbe
gradito sapere di più.
“Dove hai alloggiato, finora?” Kamui trasalì nel sentire la domanda,
arrivata quasi a bruciapelo. Era il suo turno di fargli domande, ora? Ma si
sforzò ugualmente di rispondere.
“Non è che abbia dimora fissa. Il più delle volte alloggio
all’istituto CLAMP, ma è capitato anche che passassi mesi in alberghi un po’ più… ‘così’.” Non riuscivo a darmi pace, né possedevo la
forza necessaria per rifarmi una vita. Non quando il senso di colpa si faceva
più forte della mia volontà di sopravvivere.
“E hai già pensato a quello che farai d’ora in poi?” …Si divertiva a metterlo in difficoltà, forse?
“Futuro? Non ci ho pensato. Nokoru mi sta dando una mano a cercare
Arashi, ma niente di più. Mi mancano due anni per finire il liceo, forse posso
arrangiarmi a prendere un diploma presso qualche scuola serale. Lavorare nei
locali come cameriere, non penso sia male, potrei provarci, no?” e qui fece un
debole sorriso.
All’improvviso vide Subaru fare un’espressione di disappunto: fu solo
così che si accorse che una lacrima, sfuggita al suo selvaggio tentativo di
reprimere le proprie emozioni, era scivolata lunga giù per il viso, laddove
l’aveva trovata lo sguardo attento di Subaru.
“Oh…” La vergogna si dipinse nei suoi
occhi, mentre sentiva il volto andare in fiamme. Sentì Subaru alzarsi, e il
terrore che potesse avvicinarsi, lo portò istintivamente a porre un mano avanti
a sé come per proteggersi da lui, mentre con l’altra si asciugava il volto. Ma
le lacrime continuavano a scendere. Da quanto tempo non piangeva? Non se lo
ricordava. Tanto, comunque. E questo rendeva la cosa ancora più imbarazzante.
Subaru intanto gli si era chinato davanti; con una mano aveva afferrato il
braccio che Kamui aveva steso a mo’ di scudo, mentre con l’altra stringeva un
fazzoletto che usò per tamponargli gli occhi.
Quelle mani sul suo corpo. Kamui usò la mano libera per allontanarlo
da sé, ma quelle maledette lacrime non si fermavano, e per questo,
rinunciandovi, chiuse gli occhi, coprendoseli con quella stessa mano. Il motivo
di quelle lacrime lo conosceva: era questo tuffo nel passato, così doloroso, a
quei tempi in cui gli era ancora concesso di stare accanto a quell’uomo per
capirne il dolore e lenirglielo. Doveva saperlo, che quest’incontro si sarebbe
trasformato in un invito al dolore gratuito. Subaru, vedendo che Kamui non lo
stava obbiettivamente respingendo, si limitò allora a stargli accanto, in
silenzio, tenendolo per quel braccio, chiedendosi se la sua presenza fosse
gradita o meno, anzi, sapendo che la risposta a quella domanda era
probabilmente negativa, ma riscoprendosi incapace di muoversi: il vecchio
Subaru non glielo avrebbe mai perdonato, se ora avesse ignorato il suo dolore.
“Kamui…?”
E Kamui, come svegliatosi all’improvviso, si alzò, recuperando così
la sua integrità, il suo orgoglio.
“Dimentica quello che è successo” la mia debolezza, dimenticala,
perché non hai bisogno di un ricordo del genere.
Subaru non rispose, ma Kamui non se ne preoccupò; nella sua testa
quell’episodio era già una questione chiusa. Che gli era saltato per la testa,
accettando di venire fin lì?
“È meglio che vada” disse dunque, approfittando del fatto di essere
in piedi. Si avviò verso la porta, seguito da Subaru.
E qui si voltò un’ultima volta verso di lui, per ammirarne i tratti
del viso, la pelle bianca come la neve, i capelli neri come l’ebano, e… /Il sangue rosso sulla sua pelle./ La maledizione di
Biancaneve.
Kamui scosse la testa per quella bizzarra associazione d’idee. Ma
quella distrazione gli costò cara, perché non gli permise di accorgersi in
tempo di quello che Subaru stava per fare; altrimenti avrebbe fatto qualcosa
per evitare un atto doloroso come quello, anzi, a tutti i costi lo avrebbe
impedito, perché non desiderava che l’immagine di quell’uomo penetrasse più a fondo
dentro di sé di quanto non avesse già fatto fino a quel momento. Ma non ci riuscì,
e Subaru lo abbracciò. Solo per pochi secondi, come un padre farebbe col
figlio, lo attirò a sé, come la prima volta in cui si erano incontrati, per poi
lasciarlo andare, sorridendo. Mentiva? Kamui non seppe dirlo, ma il cuore prese
a sanguinargli. Quale ferita si era riaperta? Quello, era un addio. Lo sapeva.
Ma allora, perché faceva così dannatamente male? Era la terza volta che lo
lasciava, e sarebbe stata l’ultima. Aveva sbagliato a cercarlo.
“Addio” sussurrò dunque, mentre girandosi, svaniva velocemente dalla
visuale del Sakurazukamori.
Allontanandosi dall’edificio, si accorse che i ricordi iniziavano ad
appannarsi, tanto da non riuscire più a ricordare dove si trovasse quella maledetta
casa. Immaginò che la colpa fosse di uno di quei sigilli che avevano il compito
di proteggere la ‘sua’ dimora, e questo lo tranquillizzò un attimo: infatti, se
non sapeva dove abitava, non avrebbe potuto tornare da lui, né tormentarsi al
ricordo ogni volta che passava per quei luoghi. Per lui, quell’incontro si
sarebbe trasformato solo in un altro dei suoi sogni, e così quell’oscurità
sarebbe svanita presto dal suo cuore.
Aside
Dal prossimo capitolo il focus sarà spostato solo su Kamui. Vedremo
come se la caverà in quello che per lui è “il mondo della luce”, il mondo in
cui vivono coloro che ‘possono essere felici’. Le persone normali, insomma.^^’’
Idealmente questo dialogo avrebbe dovuto essere l’ultimo, una sorta
di addio tra i due ed è stato con questo spirito che l’ho scritto. Con un
Subaru Sakurazukamori ed un Kamui che conosce la verità, vedo difficile
qualsiasi contatto. Ma come sappiamo, il destino è caino, e se ne sbatte dei
desideri di entrambi…
Era una nevosa
mattina di inverno, quella che Kamui scorse sbirciando da dietro le tende della
sua camera. I fiocchi di neve, leggeri, ancora cadevano, posandosi sugli alberi
spogli che, reduci dalla bufera notturna, sembravano rivestirsi di una chioma
candida. Non aveva mai visto la neve da quando era lì a Tokyo e questo lo
riportò col pensiero agli anni che aveva passato in Hokkaido con sua madre in
attesa del giorno promesso. Amava la neve, gli era sempre piaciuta, anche se
ora non era che foriera di tristi ricordi. Sospirando, chiuse le tende.
A tastoni cercò
l’interruttore della luce, rischiando di inciampare nella valanga di oggetti
di-cui-la-metà-non-ancora-identificati con cui Nokoru lo aveva riempito in
preda alla gioia di rivederlo. /Vivo/, si suppone. Ma sorrise, e questo portò
un po’ di luce in quella giornata. Era piacevole il pensiero che qualcuno si
prendesse ancora cura di lui in quel modo; in fondo non gli aveva procurato che
angoscia col suo comportamento assurdo. Avrebbe potuto abbandonarlo, lasciarlo
perdere, eppure, quando gli si era ripresentato davanti elemosinando un tetto
sulla testa, lo aveva riaccolto con sé, sgridandolo per il fatto di non aver
chiamato per tutto quel tempo e pregandolo pure di chiamare quel luogo ‘casa’.
La sua casa. Il CLAMP campus. Suonava bene.
Aveva anche
ripreso a frequentare i corsi in vista del diploma. Se voleva rifarsi una vita,
quello era decisamente il modo migliore per farlo: degli amici, esami a ogni
piè sospinto per distrarlo da eventuali brutti pensieri, un lavoretto in un
negozio di fiori. Come se nulla fosse successo, come se il tempo si fosse
congelato a 5 anni prima di tutto quell’orrore. Il tempo. Che concetto
deleterio. Una vita normale, vissuta sulla superficie della propria coscienza,
era quello che aveva sognato, no? Non essere costretto a pensare di dover
perdere tutto al primo passo falso, la rilassatezza nello stringere rapporti
che se anche si fossero sciolti, non avrebbero lasciato solchi dentro di sé… amava tutto questo. Profondamente. Gli esseri umani,
per essere felici, non hanno bisogno di approfondire troppo il loro mondo
interiore, non hanno bisogno di provare certi sentimenti. Per questo riteneva
di non poter più essere felice, come Subaru gli aveva detto.
Non lo aveva
più incontrato da quel giorno. Erano passati due mesi e quella notte era come
se non fosse mai esistita, avvolta dalla nebbia onirica dell’oblio. Ma lui
sapeva che c’era stata davvero, e non l’avrebbe dimenticata. Non voleva pensare
che esistessero ricordi non degni di essere ricordati. Per Fuuma, avrebbe
continuato a ricordare questo e molto altro. Sarebbe vissuto alla luce del
sole, come lui voleva. Avrebbe sorriso, anche se non a lui, non più. Perché il
suo viso ora abitava solo nei suoi ricordi, più brillante e splendente che mai;
non lo avrebbe mai visto invecchiare: per sempre, giovane e non contaminato
dall’offesa del tempo, lo avrebbe seguito ovunque si fosse recato. Per questo
andava bene che la sua casa fosse l’istituto CLAMP: qualunque luogo sarebbe
andato bene, finché non avesse cancellato la sua ombra dagli occhi.
Guardando
l’orologio si rese conto che era tardi, quindi con un salto oltrepassò il letto
per raggiungere l’armadio dall’altra parte della stanza, da cui sfilò una
maglione a caso ed un paio di jeans scuri; si chiuse in bagno per una doccia
per cui impiegò circa 5 minuti, per essere fuori di casa 10 minuti dopo. Eh no,
decisamente non aveva il tempo per mettersi a fare certi pensieri, perlomeno
non la mattina. Di corsa raggiunse il posto di lavoro e lì, prendendo
gentilmente in prestito il motorino del proprietario e promettendo che avrebbe
fatto attenzione al ghiaccio sulla strada, iniziò il giro canonico per la città
recapitando fiori a destra e a manca. Era stato Nokoru a raccomandarlo per quel
lavoro e Kamui aveva accettato, incapace di smontare il suo entusiasmo nel
pensarlo lì. “Un fiore tra i fiori!” aveva esclamato entusiasta, e di lì a
un’ora era stato già assunto. Ripensandoci, non avrebbe più commesso l’errore
di confidarsi con lui. Proprio no.
All’una
staccava; di solito pranzava al Duklyon dell’istituto
CLAMP, per poi recarsi in biblioteca a studiare, per tenersi al passo con il
programma terrificante che proprio Nokoru aveva avuto il coraggio di
rifilargli. A volte aveva proprio l’impressione che si divertisse un mondo a
scioccarlo. E forse non era un pensiero neanche totalmente fuori luogo. Qui
trovò un gruppo di suoi compagni di scuola, disperati almeno quanto lui al
pensiero dell’esame di fine trimestre, con cui si ritrovò a scambiare appunti,
chiacchiere, consigli… come un ragazzo normale. Non
sapevano nulla di lui, eppure lo accettavano, fintanto che Kamui si mostrava
disposto a tollerare la loro compagnia. Troppo tempo aveva passato da solo per
poter davvero apprezzare la loro presenza, ma ora quelle persone costituivano
ciò di cui aveva bisogno per uscire da quel corridoio buio, da quel mondo in
cui si era trattenuto quattro anni di troppo, per inseguire l’ombra di un uomo
che pensava potesse fare ancora qualcosa per lui. Che cieco era stato. Anzi.
Aveva voluto essere.
Alle 8 p.m.
iniziavano le lezioni, che si protraevano fino a sera inoltrata, quando esausto
tornava a casa e non aveva nemmeno la forza per arrivare fino al letto. Spesso
gli era capitato di svegliarsi la mattina dopo con gli abiti del giorno prima;
ancora adesso non aveva fatto del tutto l’abitudine al ritmo frenetico di quei
giorni tutti uguali, incapaci di procurargli la più piccola emozione o
serenità. Non pensava, non si scopriva mai troppo, cercava sempre di darsi
un’aria tranquilla per non scatenare le domande delle persone che lo
circondavano. A volte, il pensiero di non essere in grado di farcela gli
divorava il cuore: quando accadeva, bastava che si alzasse e con la scusa di
andare in bagno, facesse degli esercizi di respirazione molto utili che in
passato gli aveva mostrato Sorata. Fin dove sarebbe stato capace di spingersi? Non
poteva continuare così, lo sapeva. Non quando non gli importava nulla delle
persone che lo circondavano.
E così si era
riscoperto debole. Proprio lui che aveva avuto la forza di ricominciare quando
tutto sembrava perduto, si ritrovava a mendicare per un attimo di sollievo. Era
proprio vero: non si può ricominciare d’accapo, senza una speranza da stringere
tra le dita. E cosa gli era rimasto attualmente? Niente? Ma chi ha il potere di
definire cosa sia ‘tutto’ o ‘nulla’?
Si sentiva
arido. Nulla sembrava in grado di renderlo davvero vivo. Legarsi ad altri
esseri umani? Come avrebbe mai potuto? Non erano loro le persone che voleva
accanto. Per quanto fossero belli, carismatici o intelligenti –e sicuro lo
erano per frequentare l’istituto CLAMP- nessuno di loro sembrava toccarlo
davvero, anche se accorgendosi del suo dolore, cercavano di tirarlo su di
morale. Non era capace di ricambiare, in nessun modo. Era anche accaduto che
ricevesse delle dichiarazioni d’amore e una di queste da una ragazza senz’altro
molto carina, ma il suo cuore non riusciva ad accettarlo, non ne era in grado.
Kotori lo aveva ridotto in pezzi, e Fuuma ne aveva polverizzato i frammenti
rimanenti. Se amava la compagnia del Sumeragi, era perché, come lui, quel
ragazzo era una bambola rotta; ma ora di lui non era più rimasto neanche
quello, come un cadavere che per dare l’illusione della vita, indossava la
maschera del Sakurazukamori.
Si addormentò,
ma la notte non gli concesse tregua. Incubi orrendi sembravano ingoiarlo; lui
fuggiva, fuggiva, lontano fuggiva, ma non riusciva mai a scappare. Alla fine
veniva sempre preso e trascinato nell’oscurità più profonda; qualcuno o
qualcosa urlava “Non puoi fuggire!” e lì si svegliava.
La mattina
arrivava sempre come una benedizione: la luce del sole che gli accarezzava le
guancie era la promessa che un giorno di più sarebbe stato capace di onorare il
suo patto con Fuuma. “Ce la farò” si diceva, ma non vi credeva mai abbastanza
da poterne sorridere. Non credeva più nelle illusioni in generale, non quando queste
erano andate distrutte definitivamente. Era anche accaduto che per infondersi
coraggio, fosse stato tentato di cercare un motivo, una giustificazione al suo
atto, del tipo: ‘se l’ho ucciso è stato per il bene suo e della Terra’. Ma poi, disgustato da quel pensiero, vi rinunciava:
si era ripromesso di non cercare mai della scuse per quello che aveva fatto,
anche a costo di rendere insopportabile il dolore.
Durante quei
quattro anni, non aveva sentito la necessità di martoriarsi in quel modo per
quanto era accaduto; forse perché la vita che conduceva era già di per sé
miserabile. Era vero. Aveva usato Subaru come una scusa per ‘non vivere’, per
non essere costretto a tornare in un mondo in cui Fuuma non era più presente.
Certamente con quel “Perdonami”, Subaru aveva peccato di insensibilità,
mostrandogli la sua crudeltà e il suo egoismo anche in un momento simile, ma
sapeva che non poteva attribuirgli colpe, se gli aveva permesso di distogliere
la propria attenzione dal corpo di Fuuma. E il perché lo sapeva bene.
In
quell’istante, aveva desiderato che Subaru lo uccidesse. Era il Sakurazukamori, no? Che
compiesse il suo lavoro, allora. Ma Subaru non aveva compreso la sua tacita
richiesta, e forse nemmeno aveva voluto farlo. Quel ‘perdonami’, poteva credere
che fosse perché Subaru non aveva potuto ucciderlo? L’aveva condannato a
vivere. Perché? Eppure doveva sapere cosa significasse essere condannato a
vivere una non vita.…no,
non era questo. Non avrebbe avuto alcun senso. Ma una risposta, esiste? A
quanto pare esisteva, ma a lui non era stato concesso di conoscerla, chissà per
quale astruso motivo. Solo, alla fine non aveva risposto nemmeno ad una delle
sue domande. “Desideri uccidermi?”, solo questo era stato in grado di dire.
Cosa gli era passato per la testa per fargli una domanda del genere? Che senso
avrebbe avuto per lui ucciderlo?
Turbato,
scacciò dalla sua mente quei pensieri scomodi. Ora doveva cercare Arashi,
quindi doveva smettere di pensare a lui come a qualcuno che doveva ancora
essere trovato, salvato. Chiuse gli occhi. In realtà non aveva mai pensato di
poter ‘salvare’ nessuno. Il motivo per cui li cercava non era certo perché
pensava di poter fare qualcosa per loro. Solo… -e qui
si strinse alle coperte del letto, come se un forte tormento lo avesse colto
all’improvviso.- …era stato lasciato indietro. Tutti
erano andati avanti, ma lui non ne era stato in grado, nonostante questa fosse
la volontà di Fuuma. La verità era che si sentiva debole, e per questo li stava
cercando; quasi come se pensare di non essere l’unico fosse un modo per rendere
il suo nulla meno profondo. Come lui, anche Subaru e Arashi erano stati
lasciati indietro, e questo pensiero lo aiutava; cercare la loro compagnia lo
aiutava, perché sapeva che nei loro occhi non avrebbe trovato la ‘vita’, né
aspettative nei suoi confronti, niente. Avere un obiettivo, sapere di non
essere solo, rendeva la sua vita meno amara, l’assenza di ‘lui’ meno evidente
al suo cuore. Cercare di nasconderlo sotto pensieri futili per non perdere ogni
cosa, era davvero così sbagliato? Per vivere, come lui desiderava.
Per questo si
era arrischiato per quattro anni a cercare il Sakurazukamori. Nell’istante in
cui aveva abbandonato l’ospedale, aveva già deciso che sarebbe vissuto per
Fuuma, che non avrebbe più cercato la morte per mano di Subaru, assolutamente,
anche se questo non voleva dire che non rimpiangesse il fatto di non averla
ottenuta. Ma ora era troppo tardi, per qualunque cosa. Lo sapeva, con quel
‘perdonami’ aveva perduto Subaru definitivamente. Non aveva voluto crederci, e
per questo lo aveva seguito, ma era ora che accettasse la realtà: cercarlo era
stato un errore. Per quanto questo gli avesse fornito un pretesto per vivere,
non avrebbe dovuto farlo.
E ora? Avrebbe
continuato a cercare Arashi? Voleva farlo, anche se si fosse rivelato inutile.
Lei era in una posizione diversa, rispetto a Subaru; aveva bisogno di essere
trovata, ne era sicuro, perché aveva imparato aconoscere il suo carattere. Sapeva che anche se si mostrava forte,
inflessibile, era lei la più fragile. Lo aveva capito quella volta, quando
l’aveva vista piangere così disperatamente sul corpo di Sorata, impedendo quasi
loro di portarlo all’ospedale, e ne era rimasto sconvolto. “Allora è questo che
si prova ad amare qualcuno dal profondo del cuore?”si era chiesto. Lui
all’epoca non conosceva ancora questo sentimento. E ora che Fuuma era morto,
non avrebbe più potuto provarlo. Qui il cuore gli dolse, ferito, ma anche quella
sensazione non durò molto: era quasi come aver rinunciato ad amare.
Era deciso,
allora. Avrebbe continuato a cercare Arashi con l’aiuto di Nokoru, cercando
intanto di vivere la sua vita. Non avrebbe più ripetuto lo stesso errore che
aveva commesso con Subaru, non avrebbe fatto della sua ricerca il senso della
sua vita, perché ora sapeva che non ne valeva la pena. Per un attimo si perse a
pensare a lei, ai pensieri che potevano mai scuotere il suo cuore per indurla a
fuggire così dal mondo. Sorata l’aveva sempre protetta da tutto. Anche se lei
non se n’era resa conto, lui l’aveva rinchiusa in una rete di gentilezza, in cui
il dolore, se passava, era filtrato, quasi inesistente. Ma ora, lei non aveva
più Sorata; ciò che le era rimasto, era solo quel dolore. Kamui trovava
insopportabile quel pensiero. Certo ciò che poteva fare era estremamente
limitato, ma non l’avrebbe lasciata in quello stato. Sorata voleva proteggerla,
per questo lui non l’avrebbe abbandonata, mai, anche se questo si fosse
rivelato un errore peggiore di quello che aveva commesso con Subaru.
Sentendosi
all’improvviso a disagio anche se senza apparente motivo, si decise ad alzarsi.
Per ricominciare una nuova giornata vissuta sull’orlo dell’abisso, come in un
incubo senza fine, questa volta ad occhi aperti.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Sei mesi dopo
Kamui correva.
I corridoi del CLAMP campus erano ampi, ma questo non gli impedì di scontrarsi
rovinosamente con uno o due studenti, con cui si scusò sbrigativamente mentre
spariva dalla loro vista. Nokoru lo aveva fatto chiamare per una questione
urgente, e su questo versante nulla di nuovo: era accaduto spesso che per
saltare il lavoro, lo convocasse per delle sciocchezze, che si risolvevano essere
tali solo quando ormai si trovavano davanti ad una fumante tazza di tè
premurosamente preparata da Ijuin, uno dei suoi collaboratori più stretti. Ma
questa volta era diverso. Di solito Nokoru lo faceva chiamare fuori dall’orario
scolastico, quando sapeva di arrecargli il minor disturbo possibile; non faceva
interrompere le lezioni a quel modo, mandando Takamura a chiedergli di
raggiungerlo quanto prima.
Raggiunse
l’ufficio con il fiatone; il CLAMP campus era un complesso di edifici molto
esteso, e la presidenza si trovava da tutt’altra parte rispetto alla scuola in
cui attendeva ai corsi serali. Vedendolo sbucare dalla porta, Nokoru si alzò
dalla scrivania con un’aria preoccupata che a Kamui non piacque affatto.
Cos’era successo, per agitarlo in quel modo? Provò a chiederglielo, ma non
ottenne risposta; Nokoru si limitò ad osservarlo esitante per alcuni secondi
prima di dire alcunché.
“È che alcuni
testimoni oculari affermano di aver avvistato Arashi qui a Tokyo, Kamui.”
Se era una
buona notizia, perché l’espressione sul suo viso non si rilassava? L’ansia
magicamente si impadronì di lui.
“Le è successo
qualcosa? Cosa intendi per testimoni oculari? Posso incontrarli?” La
preoccupazione esalava dalla sua voce in modo evidente, ma nonostante ciò,
Nokoru non fece nulla per tranquillizzarlo. Eppure doveva essersi accorto
dell’agitazione che quel comportamento aveva instillato in lui; ma allora
perché taceva?
L’impazienza
dipinta negli occhi di Kamui era ben visibile a Nokoru, che si costrinse a
rispondere.
“…Non puoi. Perché quelle persone ora sono tutte sotto
ricovero.”
Kamui sbiancò.
“Che
significa?” chiese con un filo di voce. Ma Nokoru, mantenendo sempre quell’aria
grave sul suo volto, ancora una volta non rispose subito. Kamui allora capì che
taceva perché non sapeva come porre la questione con quel po’ di tatto che la
decenza gli imponeva. Ma quando lo vide ricominciare a tergiversare, capì che
se Nokoru non lo aveva trovato, probabilmente davvero quel ‘modo’ non esisteva.
“Aveva una
katana, con sé. E…” qui si bloccò, in evidente
difficoltà.
Fu come se
Kamui lo sentisse parlare dal fondo di un corridoio; lo shock per l’allusione
nascosta nelle sue parole gli tolse ogni forza, gli bloccò ogni reazione. Ma lo
stordimento servì almeno a fargli tornare una parvenza di calma, anche se
dentro era tutto tranne che a posto.
“…Ne conosci il motivo?” perché doveva esserci un motivo.
Nokoru,
preoccupato per quella reazione così fredda, si affrettò a spiegare. Era
agitato. E non tanto per Arashi, bensì per Kamui. Non sapeva ‘quanto’fosse necessario che lui sapesse per
permettergli di vivere in pace con se stesso, ancora. Ma era stato lui a
chiedergli di indagare, quindi davvero poteva esimersi dal dirgli qualcosa? Non
poteva. In un certo senso non c’era modo di evitargli quel dolore.
“ ‘Quelle’
erano tutte persone che per qualche motivo avevano l’ordine di seguirla. E
alcuni di loro erano miei uomini” Sorrideva, ma l’amarezza nascosta nelle sue
parole ferì Kamui. Era colpa sua se quegli uomini avevano rischiato di essere
uccisi. Se solo non gli avesse chiesto di aiutarlo … Vinse il rimorso.
“Vado a
cercarla” da solo.
“No, Tokyo è
troppo grande” vuoi passare altri quattro anni, in quel modo…?
“So badare a me
stesso” Quindi lasciami andare.
“Non è questo
il problema, non trovi?”
Ma si
sbagliava, e ne era consapevole. Il vero problema era in lui. Sin dal primo
istante si era preoccupato per Kamui, per il fatto che dovesse sostenere un
destino del genere, pur essendo così giovane. Era brutto da ammettere, ma era
per questo che aveva deciso di aiutarlo, di appoggiarlo in modo così totale,
dopo quella tragedia. Ma aveva imparato a volergli bene anche per il ragazzo
che era; questa realtà non poteva essere cambiata. Ed era proprio per questo,
se non riusciva a lasciarlo andare.
Kamui era
consapevole che cercare Arashi a tappeto, come aveva fatto con Subaru, non era
una grande soluzione. Con lui aveva agito così perché non voleva coinvolgere
nessun’altro nella ricerca del Sakurazukamori. Era troppo pericoloso. Ma Arashi
non avrebbe dovuto esserlo. Cosa le era successo?
“E gli altri
che la seguivano, chi erano?”
“Stiamo
indagando. Ma da quello che siamo riusciti a scoprire, è feccia. Della peggior
specie.”
“Feccia?
Intendi yakuza?”
Nokoru si
limitò ad annuire tenendo il volto basso. Ancora non sapeva se fosse un male
che Kamui sapesse quelle cose, ma non poteva nascondergliele, era suo diritto
sapere. Per questo decise di mettere da parte gli scrupoli e rispondere a tutte
le sue domande, una ad una, a prescindere da quale sarebbe stata la sua
decisione alla fine. Glielo doveva, almeno questo.
Kamui riprese a
parlare, ma la sua voce suonò tremendamente innaturale alle orecchie dell’uomo
che la udì; eracome se fosse impregnata
di paura.
“…non è nei guai con il governo, vero…?”
Sorpreso,
Nokoru alzò lo sguardo su di lui: il terrore gli sfigurava il viso.
“Non lo so!
Perché?” Era in panico. Perché tutt’ad un tratto gli chiedeva quello? Kamui
però tacque, mentre le guancie assumevano un colorito cadaverico.
Pensava: e se
si fosse alleata con gli yakuza per vendicare la morte di Sorata? Sorata
dopotutto, era stato ucciso dalla parte oscura di Hinoto, e questo era stato il
motivo per cui lui stesso, realizzando che non c’era modo di riportarla indietro,
l’aveva uccisa. Era lo stesso motivo per cui aveva ucciso Fuuma, dopotutto:
usare la spada divina per riportarlo a sé, non aveva significato che solo una
cosa, la liberazione attraverso la morte. Ma mise da parte questi pensieri; ora
era necessario pensare a come salvare Arashi. Lei non sapeva che Hinoto era
morta, né aveva potuto saperlo in seguito, dato che l’esistenza di quella
yumemi era stata un segreto di stato. Il motivo per cui non poteva esserne a
conoscenza, era perché quando Hinoto morì, Arashi era appena scomparsa; Kamui l’aveva
uccisa sulla torre di Tokyo, prima dell’arrivo di Fuuma, prima dell’inizio
della vera e propria fine del mondo. E lei gli aveva detto ‘grazie’. Morendo,
aveva realizzato il suo desiderio? Non aveva fatto in tempo a chiederglielo.
Ma la sua prima
preoccupazione fu coperta da una seconda, più fosca, che lo terrorizzava. Se
doveva fermarla, era anche perché essere una minaccia per lo stato, significava
avere a che fare con un’altra abominevole entità: il Sakurazukamori. Dubitava
che Subaru avrebbe mai potuto uccidere Arashi, ma ne era davvero sicuro…? Se lei gli avesse chiesto di ucciderla, lui si
sarebbe fermato? Scoprì che non sapeva darsi una risposta, e si sentì stupido
per questo, perché anche dopo tanto tempo, non capiva se quello fosse ancora
l’uomo che conosceva.
“Nokoru”sussurrò
appena, con voce strozzata.
“Si?”
“Puoi darmi una
mano a cercare Arashi? Devo trovarla il prima possibile” …prima
che la trovi lui.
Nokuru continuava a non capire cosa lo avesse
spaventato fino a quel punto, ma si ritenne soddisfatto di quella richiesta;
dopotutto era quello che voleva sentirsi dire.
“Certamente!” e
sorrise. Entrambi sapevano che sarebbero potute andarci di mezzo ancora altre
persone, ma se ne sarebbero preoccupati dopo: ora trovare Arashi aveva la
priorità.
“Ti ringrazio”
L’aria serena
con cui Kamui pronunciò queste parole, rilassò Nokoru, che si ritrovò di cuore
a sperare che non fosse troppo tardi, che per quel ragazzo non fosse ancora impossibile
trovare la felicità.
Aside
Volevo
ringraziare Shannara_810 per il
meraviglioso commento che mi ha lasciato. Ma allora scrivo per qualcuno! Scherzo,
scherzo. È che è dura fare ‘lo scrittore senza pubblico’.
Sapevo che scegliendo quella coppia, in quel senso mi sarei tirata la zappa sui
piedi, però, è vero anche che ne valeva la pena. È sempre dura operare fuori
dal canon, e lo è ancor di più se il fandom che masochisticamente ti scegli è
rifiutato dalla maggior parte dei fan, ma essere motivati, significa mettere in
preventivo anche la freddezza con la quale potresti essere accolto e proseguire
per la propria strada, testardamente. Per questo mi riempie di gioia trovare
persone che apprezzano il mio lavoro. Grazie.
Sperando che
questo capitolo sia piaciuto, ne approfitto per dire che il prossimo
aggiornamento sarà mercoledì 22 ottobre.
Mancavano solo
pochi minuti alla fine del suo turno di lavoro, quando Kamui si ritrovò a
guardare sconsolato fuori dalla finestra: la pioggia, leggera fino a qualche
attimo prima, si era trasformata in un autentico diluvio, come a preannunciare
l’imminenza dell’estate e i suoi violenti tifoni. Con un sospiro si rassegnò a
prendere in prestito uno degli ombrelli presenti lì in negozio e a tornare
immediatamente a casa per il pranzo. Certo, non era un cuoco provetto, ma
qualcosa sapeva ancora arrangiarla dopotutto, giusto quanto bastava nei momenti
di necessità come quello.
Aveva appena messo
piede fuori dal negozio, che si rese conto di quanto la sua impresa fosse
disperata: aveva percorso solo tre passi, e a causa del vento contrario era già
fradicio fino alle ginocchia. Preoccupato, tornò a ripararsi sotto la tenda che
sporgeva dal negozio, mentre vagliava le possibilità che gli si prospettavano:
il negozio di fiori era compreso all’interno del CLAMP campus, ma la distanza
che lo separava dal proprio appartamento era troppa per sperare di arrivarci
integro; gli sarebbe convenuto prendere il trenino che attraversava tutto il
campus, ma questo non toglieva che avrebbe comunque dovuto arrivare davanti
alla fermata, il che era fuori discussione: se doveva infradiciarsi per
arrivare fin lì (ed era davvero distante), tanto valeva correre a casa
direttamente.
Decise di
aspettare che spiovesse un attimo, ma dopo un quarto d’ora si era già stufato
di aspettare; si era quasi convinto a correre sotto la pioggia fino a casa,
quando gli tornò in mente che avrebbe potuto passare esternamente al CLAMP
campus, dato che appena all’esterno c’era una stazione della metro. Presala,
avrebbe sfruttato poi una delle uscite secondarie per rientrare nel complesso
scolastico. Era una soluzione più semplice rispetto al trenino, semplicemente
per una questione di distanze rispetto alla fermate corrispondenti. Provare,
dopotutto, non avrebbe fatto male a nessuno; al limite sarebbe arrivato a casa
bagnato come un pulcino.
Era a pochi
passi dalla fermata dalla metro, quando gli parve di vedere con la coda
nell’occhio un ‘qualcosa’ muoversi veloce, quasi come un guizzo, sospeso per
aria. Sbalordito prese a guardarsi attorno per assicurarsi di non avere le
allucinazioni e gli parve di scorgere una sagoma saltare da un palazzo ad un
altro nella direzione in cui la ‘cosa’ era svanita. Lo colse uno strano
presentimento, e per questo prese a correre nella direzione verso cui l’aveva
vista muoversi. Non dovette percorrere molti metri per constatare che la figura
si era fermata sul tetto di un hotel di a quattro stelle, e che pareva quasi
aspettarlo. La pioggia gli offuscava la vista, ma quanto vide bastò a dare una
conferma ai suoi pensieri: una gonna, lunghi capelli neri… Arashi.
Si avvicinò
cercando di farsi riconoscere, in modo da non incuterle timore; ma lei, dopo
essersi voltata, svanì dietro un angolo. Riprese a inseguirla, chiedendosi
perché fuggisse nonostante lo avesse visto, ma fu distratto da questi pensieri
dal fatto che si era perso: i vicoli che stava attraversando appartenevano ad
una zona di Tokyo che non conosceva, e per Arashi era stato semplice fargli perdere
la bussola. Imboccò l’ennesimo viottolo, ma di Arashi nemmeno l’ombra. Preso
dalla frustrazione lo percorse fino in fondo, per scoprire che conduceva ad un
vicolo cieco. Sentendosi in trappola, quasi come se da cacciatore si fosse
tramutato in preda, si fece prendere dall’ansia, quindi fece per tornare
indietro, per scoprire solo di essersi perso.
“Maledizione!
Dove sei Arashi?! Ho bisogno di parlarti!” Ma la sua voce si perse nel nulla.
Come poteva averla trovata ed essergli sfuggita in quel modo dalle mani? Anche
con Subaru era stato così, per quattro lunghi anni: non importava quanto vicino
gli giungesse, alla fine riusciva sempre a dileguarsi da lui e correre via
lontano. Sapeva che se voleva prenderlo al più presto, avrebbe dovuto farsi più
furbo, sfruttare il suo stupido orgoglio, la sua triste abitudine a scegliere
solo i casi di persone per cui era impossibile continuare a vivere normalmente,
ma la crudele realtà era che per lungo tempo non aveva desiderato per davvero
di catturarlo.
Ciò che aveva
desiderato, era solo un motivo per non essere costretto a vivere una vita
normale.
E
adesso sei soddisfatto? Adesso che grazie alle sue parole puoi vivere alla luce
del sole, sei soddisfatto? Un
brivido gli corse giù per la schiena. No, ovvio. No che non era soddisfatto a
vivere come una bambola, ma non poteva pretendere che Subaru gli suggerisse
altre soluzioni oltre questa. E proprio perché lo sapeva fin dall’inizio, si
sentiva ancora più stupido per il fatto di aver sperato che lui non lo
condannasse a quella tortura chiamata ‘normalità’. All’improvviso si sentì
triste. Per cosa stava vivendo, allora? Sapeva che non avrebbe potuto
continuare a lungo con la sua commedia, che nonostante il motivo per cui
respirasse fosse Fuuma, sarebbe impazzito un giorno, se avesse dovuto
continuare così. Si sentì lo stomaco sottosopra: no, non doveva pensare a
quelle cose, perché ogni volta che lo faceva, finiva col sentirsi male, col
sentirsi soffocare, al pensiero della propria miseria, della propria debolezza.
Forse Fuuma aveva chiesto di vivere ad una persona a quel punto troppo lesa nel
profondo per poter pensare di vivere per due.
Crack.
Un rumore
interruppe i suoi pensieri, costringendolo a girarsi; quello che vide gli
alleviò il cuore, ma si trattò solo di una sensazione passeggera. Quella che
gli apparve davanti era un’Arashi algida, orgogliosa, e… trascurata. I capelli
le si erano allungati oltremisura, quindi sotto la pioggia apparivano impari,
arruffati; la frangia le era sparita e gli occhi, vuoti, non aggiungevano certo
valore a quella bellezza un po’ appannata. Anche i vestiti sembravano essere
stati scelti a caso. Kamui non poté evitare di rivedere se stesso riflesso in
lei; forse perdere tutto rende gli esseri umani simili, in qualche modo, così
come un tempo la solitudine aveva dipinto lo stesso sguardo negli occhi suoi e
di Subaru.
“Cosa vuoi da
me, Kamui?” Il tono, freddo. Kamui si era preparato a quest’evenienza, ma mai
come in quel momento si sentì nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le sue
certezze vacillarono per un attimo, ma era deciso a non tirarsi indietro;
sapeva che finché non ci avesse parlato, non avrebbe saputo se cercarla era
stato un errore oppure no.
“Ti cercavo.”
“Perché?”
“È vero che hai
attaccato delle persone?”
“E tu come fai
a saperlo?” Allora era vero. Kamui decise di ignorare la domanda.
“In che guai ti
sei cacciata, Arashi?”
“… Sei venuto
forse per farmi la ramanzina?”
Lo sguardo di
Kamui si indurì. Se aveva voglia di fare del sarcasmo, aveva decisamente
sbagliato giornata.
“Io ringrazio
solo di averti trovato per primo.”
“Che intendi
dire con ‘per primo’? E poi non hai ancora risposto.” Si stava arrabbiando.
Piombava lì dal nulla con informazioni che non avrebbe dovuto possedere, e
farneticava di cose senza senso. Forse tutto quel dolore gli aveva dato al
cervello. Il che, per quanto le dispiacesse, non erano decisamente fatti suoi.
“Cosa hai fatto
per metterti contro la yakuza?” insistette. Non aveva intenzione di cedere. Non
le avrebbe mai permesso di cambiare discorso spingendolo a parlare di sé. Non se
prima non capiva se lei si trovasse in reale pericolo.
Arashi tacque
per un attimo, tanto che per qualche istante risuonò nell’aria solo il rumore
dell’acqua scrosciante; ma ad un certo punto, arrendendosi, sospirò profondamente.
“Non sono cose
di cui vado fiera. Anzi, non credo nemmeno che tu debba stare qui, Kamui. Non
capisco il motivo per cui tu ti stia ostinando così con me, al punto da
accumulare quelle informazioni, ma ti assicuro che so prendermi cura di me.”
A queste
parole, il petto di Kamui prese a dolere. Perché non voleva capire?
“È importante,
dannazione! Forse sei in grave pericolo!” quindi apriti con me. Credi in me,
parlami di te, delle tue paure, delle tue preoccupazioni. Ti prego.
/Non lasciarmi
da solo./
Arashi per un
attimo parve scossa abbastanza da non sapere cosa dire. Forse c’era un motivo
dietro la reazione esagerata di Kamui; dopotutto se era riuscito a sapere così
tanto di lei, non vedeva perché non potesse essere a conoscenza di qualcosa che
lei non sapeva. Decise quindi di dargli corda e ascoltare ciò che lui aveva da
dirle.
“Dimmi
esattamente qual è il problema. C’è qualcuno che vuole la mia vita? Qualcuno
che non sono in grado di battere?”
Capendo di
avere una chance di salvarla, cercò di calmarsi il più possibile, di mettere
ordine nei suoi pensieri.
“Si, esiste
questa possibilità. Per questo ho bisogno di sapere una cosa, da te. Hai usato
la yakuza per opporti al governo?”
“Perché mi
chiedi questo…?”
“Perché se è
così, c’è qualcosa di cui forse non sei a conoscenza.”
Arashi non
rispose subito; assunse un’espressione pensierosa e Kamui le diede il tempo di
riflettere. Non aveva motivo di metterle fretta, dacché l’aveva trovata lui per
primo. Sicuramente nessun Sakurazukamori si sarebbe mostrato quella notte, dato
che lui era lì con lei.
“Qualcosa che
non so…?” Il sorrisetto con cui Arashi pronunciò queste parole, gli piacque
poco: decisamente era cambiata in questi anni, come se la dolcezza che Sorata
le aveva donato, le fosse stata strappata via a morsi.
Kamui annuì.
Poi, per dare sostanza a quella che diceva, aggiunse i particolari.
“Hinoto è
morta, Arashi; l’ho uccisa io.” E qui il sorrisetto di Arashi divenne un
ghigno.
“E allora?”
Kamui rimase
interdetto. Cos’era quell’espressione? Come poteva non importarle nulla? Ma
allora per cosa aveva vissuto Arashi per tutto questo tempo? Evitando anche di
presentarsi al funerale di Sorata, come se non ne fosse abbastanza degna…
Non poteva
essere.
Tornò di colpo
alla realtà. Il fetore della pioggia, gli abiti resi pesanti dall’acqua, la
desolazione del luogo in cui si trovavano, all’improvviso divennero pesanti. Il
cervello prese a fargli male. Doveva andarsene il più in fretta possibile.
“Sei uno
stupido, Kamui. Sempre ad agire senza voler capire come sono andate davvero le
cose. Non era questo di te che feriva il tuo Fuuma?”
Un dolore
intenso lo colpì al cuore. Lo ricordava ancora bene l’istante in cui aveva
compreso il suo vero desiderio, in cui aveva capito che tutto il suo eroico
tentativo di riportarlo indietro non era che ipocrisia, che in realtà non gli
aveva fatto che del male per tutto quel tempo, pretendendo di volerlo accanto a
sé quando l’unica cosa che lui desiderava era morire. Lui, Kamui… non aveva mai
guardato a Fuuma sul serio. Pur volendogli bene, non si era mai curato di lui
per davvero, nemmeno una volta.
“Cosa pensi di
essere, una sottospecie di paladino dei più deboli? Fammi indovinare: e
l’avresti uccisa per vendicare Sorata? Come se fosse davvero questo quello che
poteva farmi star meglio.”
“No, io…!” ma
non riuscì a trovare le parole per continuare a parlare. Dove aveva sbagliato,
con lei? Che dirle? Sapeva che da qualche parte esisteva una risposta, ma
piuttosto che ammettere quello che aveva pensato, avrebbe preferito morire.
Davvero non aveva capito nulla di lei, fin dall’inizio?
Vedendo che
Kamui si era bloccato, Arashi riprese a parlare. Era una strana sensazione, era
da tempo che non teneva una conversazione decente, ed erano cinque anni che si
portava addosso quella maledizione senza permettere a se stessa di rivelarne ad
alcuno la vera natura. Ma ora… non aveva più senso tacere. A quel punto avrebbe
preferito distruggere ogni cosa, fosse stata anche se stessa, piuttosto che
fermarsi. E così scoppiò a ridere, come se non le rimanesse altro.
“Non ho nessuna
intenzione di mettermi il governo contro. Semplicemente ogni tanto sono di
malumore e mi ‘sfogo’ su varia gente. Anche questo aiuta, sai?” …a dimenticare.
“Cosa stai
dicendo …?” Era sconvolto. Aiutare? E a far cosa? A raggiungere il creatore,
forse? Che significato avevano quelle parole sulla bocca di Arashi? Cosa stava
dicendo?
Arashi prese a
guardarlo con odio. C’era anche bisogno che glielo dicesse?
“Ho ucciso io
Sorata, Kamui.”
Fu come se il
mondo gli crollasse addosso. La testa, già dolorante per la pioggia, per la
confusione, peggiorò all’istante. Si sentì morire, ma era importante non cedere;
doveva sapere, per quanto orribile fosse quella verità a cui lui non aveva
voluto guardare. Per questo combatté contro l’istinto di crollare e fissò lo
sguardo su Arashi, che lo guardava neutra, come se la cosa poco le importasse.
“Non puoi aver
ucciso Sorata.” Tu lo amavi.
“Senti un po’
chi parla! Perché, tu non hai ucciso il tuo Fuuma?”
E di nuovo fu
come se Arashi gli avesse tirato un calcio nello stomaco: il dolore prese a
torturarlo lentamente, mentre il ricordo di ciò che aveva fatto gli martoriava
la mente, e gli impediva di parlare. Eppure erano tante le cose che avrebbe
voluto chiederle: perché fosse avvenuta una cosa del genere, se lui aveva
ucciso Hinoto per nulla, se per loro ci fosse ancora speranza, semplicemente.
‘Rimani con me’. Una frase del genere poteva ancora avere senso? Loro erano
colpevoli, entrambi. Allora non rimaneva loro che morire per la colpa e il
dolore? ‘Il tempo allevia le ferite’. Ma allora perché dopo quasi cinque anni
si sentiva ancora così male?
/Hai il cuore
malato/
Chi era stato a
dire una cosa del genere?
Arashi intanto
lo osservava, affranta. Glielo aveva detto. Quelle parole che aveva nascosto per
tanto tempo nel profondo, erano venute a galla, e con esse la sua crudeltà, il
suo bisogno di ferire le persone che le erano accanto. Ma come evitarlo? Era per
questo che aveva desiderato essere sola, non essere inseguita più da nessuno,
perché se non fosse stato così, sarebbe stata costretta a far del male a quelle
persone che Sorata voleva difendere a tutti i costi.
Dei primi tempi
non ricordava molto. Ma era certa di una cosa: all’epoca la solitudine l’aveva
quasi uccisa. Perché vivere? Allora si era data un anno di tempo per decidere
se continuare a mangiare oppure no. Un conto sarebbe stato continuare a vivere
dopo che Sorata aveva dato la vita per proteggerla: certo, avrebbe sofferto
comunque, ma a farle forza ci sarebbe stato il pensiero di aver amato un uomo
eccezionale che desiderava che lei vivesse. Ma… ucciderlo con le proprie mani:
con quale diritto permetteva a se stessa di respirare ancora?
Voleva morire,
ma i giorni passavano, e la Terra andava avanti lo stesso. Il giorno e la notte
si susseguivano , mentre gli esseri umani riprendevano la loro vita, i loro
traffici, leciti o illeciti che fossero; e le persone continuavano a morire,
distruggendosi tra loro. Nessuno aveva imparato nulla dal loro sacrificio, dal
loro dolore. Sorata era morto per sostenere la loro causa, e loro erano ignari
anche che lui fosse mai esistito. E lei che aveva creduto in loro, era ridotta
in quello stato, ai margini di una società che ora rinnegava la sua esistenza,
come se il ricordo di lei fosse ritenuto scomodo, da chiunque. ‘Loro’ volevano
che lei morisse, che con lei defungesse anche l’idea di un’ipotetica fine del
mondo. Era stata messa da parte.
Per cosa
avevano sofferto? Per niente. Per salvare una razza giustamente destinata
all’estinzione, a tornare polvere assieme ai suoi peccati. Cos’avevano fatto,
salvando la Terra? Quel pensiero la fece quasi impazzire, facendole man mano
perdere la voglia di morire. Doveva dare loro soddisfazione? Non voleva. Non
perlomeno a ‘quelli’ che la volevano morta, a quei politici corrotti che
dicevano di ‘pensare al bene del paese’. Che schifo. Allora aveva pensato di
fare a pezzi il governo giapponese, con le sue mani, ma vi aveva rinunciato,
perché se anche lo avesse fatto, non sarebbe cambiato nulla. Non esisteva
vendetta che potesse portarle indietro il suo Sorata, che fosse in grado di
cancellare ciò che aveva fatto. Non c’era speranza, per lei. Dunque non era
nemmeno giusto che Kamui venisse a chiederlo a lei, se esisteva un modo per vivere
anche senza essere felice. Perché, semplicemente, senza le proprie illusioni,
un essere umano non può essere felice; e vivere senza illusioni, per un essere
vivente, è la cosa più simile alla morte.
A quel punto, Kamui
sembrò riprendersi abbastanza da poter continuare a parlare. Non demordeva, e
questo irritò Arashi oltre ogni dire, anche se in effetti non poteva pretendere
che tacesse dopo quello che gli aveva detto.
“Io ho ucciso
Fuuma, è vero; ma se l’ho fatto, è solo perché questo era il suo desiderio.”
Perciò non fare a pezzi il mio mondo a quel modo. Non dirmi che ho sbagliato,
non distruggere le certezze che ho tanto faticosamente costruito per continuare
a vivere, ti prego.
“Si, ma tu non
volevi ucciderlo, no?” come io non avrei mai voluto uccidere Sorata.
Kamui sentì la
pioggia bloccarsi. Come avrebbe mai potuto dimenticare? Aveva ucciso Fuuma, ma
la realtà era che pur di non fargli del male, avrebbe preferito essere ucciso
da lui. Non era questo, il suo vero desiderio?
Fu un attimo.
Il corpo di Fuuma, il suo cadavere, riverso a terra. Le sue labbra, piegate in
un tenue sorriso.
/Sei colpevole/
Chi gli aveva
rivolto quelle parole? Quel ghigno deformante che risaltava tra le tenebre, a
chi apparteneva?
E poi il nulla.
Di quello che
seguì, Kamui, anche a distanza di tempo, conservò pochissimi ricordi, perlopiù
sensazioni. La sensazione di aver urlato finché aveva fiato in corpo, la
sensazione di essere fuggito via pur di non sentire Arashi ridere al suo
dolore, alla sua miserevole esistenza, costruita sul filo di una stupida
illusione. L’aveva cercata per salvarsi, ma lei con una parola, aveva distrutto
tutto. Forse non era davvero in grado di vivere alla luce del sole. L’ultimo
desiderio di Fuuma, non poteva realizzarlo. Non ne sarebbe mai stato in grado.
E tutto ciò che
faceva, era correre via da lei. Non sentiva nulla, né la pioggia che gli
appannava gli occhi -o erano lacrime?-, né alcun suono. Sapeva che era
pericoloso ‘volare’ conciato così, che doveva fermarsi, ma non ce la faceva; il
rumore del proprio cuore che batteva, era ancora troppo forte. E così, senza
più forze cadde, e l’impatto col terreno gli fece finalmente perdere i sensi.
Aside
In ritardo di
un giorno, sorry.
Scrivere questo
capitolo è stata per me in primo luogo una pena. Mi rendo conto dell’assurdità
della vicenda, ma è tutto funzionale all’intreccio; spero solo che Arashi non
suoni troppo OOC, ma vedrete che andrà a posto nei capitoli a venire.^^’’’
Kamui nel
prossimo capitolo farà un passo importante, che segnerà l’entrata nel vivo
della vicenda. Diciamo che con questo capitolo è come se si fosse conclusa la
parentesi iniziale; dal quinto capitolo tutto prenderà una direzione nuova^^’’’
Prossimo
aggiornamento: 6 novembre(la data è
così dilazionata perché in mezzo cade proprio la Lucca Comics, e gli impegni
universitari non sono meno importanti, purtroppo ç_____ç. Grazie per i
commenti, che fanno sempre un grandissimo piacere!)
Si sentì stringere una
spada, le lacrime rigargli il volto, lentamente. Era ancora lì, lo sapeva, nel
luogo dove la ‘luce’ non poteva arrivare. Per questo tenne gli occhi chiusi,
dolcemente, solo un po’ più a lungo di un istante, quasi per non permettere al
dolore di scavargli dentro eccessivamente. Sapeva quello che sarebbe successo
di lì a poco, quando sarebbe stato costretto ad aprirli: avrebbe ucciso lui,
Fuuma, ancora una volta. Avrebbe sofferto di nuovo quel dolore profondo sette
solitudini, fino ad impazzire per il senso di colpa. Ne aveva terrore, ma era
anche quello che desiderava: dunque, ora doveva solo anestetizzarsi la mente.
Aprì gli occhi, convinto
di trovarselo davanti, ma fu stupito di vedere che attorno a sé non c’era
niente: era stato il Nulla ad accoglierlo, in una follia di bianco senza dimensioni.
Disorientato, si guardò la mano laddove credeva di star stringendo la Shinken:
era vuota. Si guardò attorno: dov’era capitato questa volta? Non capiva. Era
diverso dalle altre volte. Non avrebbe saputo dire come, ma quel sogno aveva
un’atmosfera particolare. Anzitutto la tipologia: non gli sembrava poi tanto
normale sognare di essere sospeso nel Nulla. Senza contare che di solito non
aveva modo di accorgersi di star sognando. Non sapendo che fare, si mise a
gironzolare con l’intento di verificare se potesse arrivare da qualche parte,
ma vedendo che pur camminando era come se non si muovesse, gli venne a noia
anche quello. Possibile che quel mondo fosse tutto uguale? Come preso da una leggera
ansia, si mise a chiamare “C’è nessuno?!”, ma il vuoto gli restituì solo l’eco
della propria voce. Un mondo vacuo. Gli calzava a pennello, dopotutto: era come
guardare se stesso.
Era frustrante notare
come quel luogo gli ricordasse drammaticamente la sua attuale vita, priva di
affetti e di dolore. Si poteva dire che fosse stanco. Era stufo di comportarsi
rettamente, di fingere che stare tra le persone gli interessasse, quando quella
del ragazzo modello era solo una maschera che indossava davanti agli altri per
rispondere alle loro aspettative. Perché non poteva vivere una vita normale?
Perché non poteva essere solo se stesso? Ma per quanto la ricusasse, la
risposta la conosceva perfettamente: non poteva realizzare il desiderio di
Fuuma di vivere nella luce, perché il suo io ormai non riusciva più ad
accettare di appartenere a quel mondo.
L’aveva appena pensato,
che una violenta raffica di vento scosse violentemente quel posto, mentre il
vuoto candore che lo circondava prese ad appassire assumendo i colori delle
tenebre. Non fece neanche in tempo a chiedersi perché, che fu investito da una
sfilza di petali di camelia, rossi come il sangue, che andarono a coprire il
pavimento, che come uno specchio, sembrava riflettere il nero della volta del
cielo.
/Il rosso & il
nero/
Avrebbe voluto urlare,
reagire, ribellarsi in qualche modo, ma non ci riusciva: quello spettacolo gli
aveva avvelenato il cuore, inevitabilmente. Sentì le lacrime rigargli il volto,
mentre veniva accarezzato dalla dolce ma crudele sensazione di star toccando un
punto di non ritorno. Era diverso dal sogno che lo aveva sommerso quando era
caduto in coma tempo prima: non sentiva disperazione, non rischiava da un
momento all’altro di vedersi l’animo fatto a pezzi e ingoiato dagli abissi
della propria coscienza; assomigliava più ad una profonda consapevolezza,
all’impressione che mai più avrebbe potuto rivedere la luce del sole pensando
che tutto sarebbe andato per il meglio. Le persone che avevano creduto in lui,
le avrebbe deluse tutte, perché finora non aveva permesso che a quel mondo, lo
stesso che lo torturava nel sonno con quegli incubi, di penetrare nel suo
cuore.
A disagio, si chinò su
quella che sembrava essere una pozza d’acqua, e vi si specchiò: l’immagine che
gli venne restituita era la sua, indubbiamente. Sorrise: l’altro se stesso si
limitò a guardarlo dolcemente. Era tutto a posto: quell’ombra non rifletteva le
espressioni del viso, ma quelle del cuore. Ciò significava che non poteva
mentire là dentro, che qualunque cosa gli fosse successa, quel mondo gli
avrebbe sempre svelato la vanità di qualunque illusione. Sollevato, prese a
giocare con i petali lì attorno, inodori, come quelli delle vere camelie; e
scoprì che il cuore aveva smesso di dolergli, perché in fondo qui poteva vivere,
pur così devastato. Era così che era essere sereni, allora?
Ma purtroppo la ‘pace’
durò poco. Sentì ad un tratto montarsi dentro un indicibile orrore, mentre,
terrorizzato, sentiva il cuore esplodere per l’angoscia e il petto sanguinare.
Perché quel terrore improvviso? Sconvolto, incapace di capire cosa diamine stesse
succedendo, cercò di alzarsi in piedi, ma vanamente, perché le gambe,
improvvisamente deboli, lo tradirono, facendolo tornare in ginocchio. Solo
allora notò che per terra tutto attorno a lui, si era formata una pozza
scarlatta. Era sangue suo? Non faceva male, solo era paralizzato dalla paura.
Che stava succedendo? Iniziò a sudare freddo, mentre l’istinto gli suggeriva
che dietro le sue spalle c’era un’altra presenza oltre a lui. Con il cuore a
mille, usando la massima prudenza possibile, si voltò, ma niente. Non c’era
niente. Si voltò dall’altra parte: ne era sicuro, era osservato; non era solo
in quell’oscurità, qualcun altro si nascondeva dentro quelle tenebre. Qualcuno
o ‘qualcosa’ di spaventoso. Ma quella orribile sensazione, veloce com’era
giunta, svanì nel nulla nel giro di pochi secondi: poteva sentire ancora il
proprio cuore battere forte, ma non avvertiva più alcun pericolo.
Ancora leggermente
allarmato, tirò un piccolo sospiro di sollievo: qualunque cosa fosse ‘quella’,
ne era uscito vivo, anche se non era così sicuro di volerci ancora avere a che
fare. Aveva la vaga impressione che non sarebbe riuscito a sfuggirle così la prossima
volta, ed essere ingoiati dalle tenebre di quel mondo significava morire, lo
sapeva bene. Ma di una cosa almeno era sicuro: qualunque cosa fosse successa
non si sarebbe tirato indietro, non sarebbe fuggito. A costo di andare avanti
combattendo anche contro se stesso, mai avrebbe permesso a se stesso di perdere
ancora contro la propria debolezza. Mai più.
Aprì gli occhi e /la
luce/ lo inondò, accecandolo. Era tornato. O meglio, si era ‘svegliato’.
Istintivamente mosse una mano verso il viso per stropicciarsi gli occhi, ma nel
muoverla si rese conto che gli doleva. Per la precisione, tutto il corpo gli
doleva. Dove si trovava? Mise a fuoco la stanza, ma non la riconobbe. Era in un
letto ampio, a una piazza e mezza; le pareti, bianche, sembravano accentuare la
luminosità della stanza, eliminando le tenebre che ancora si annidavano nel suo
cuore, nel mondo in rosso & nero. Si guardò la mano e la vide bendata. Dove
si era ferito? E possibile che ora si trovasse all’ospedale? Solo quando cercò
di sforzarsi con la memoria di tornare al giorno prima, gli sovvenne di Arashi.
L’aveva lasciata
da sola. Era fuggito via lasciandola sprofondare nella sua follia. Quella
risata… Kamui rabbrividì al ricordo. Quella non era l’Arashi che conosceva.
Cos’avrebbe dovuto fare? Era chiaro: doveva tornare indietro e strapparla da
tutto quello. Però - e si maledì ancora e ancora per quell’indecisione, perché
aveva terrore di lei, lo stesso stramaledetto terrore che aveva provato nel
sogno della scorsa notte, quel terrore che provano solo coloro che hanno paura
di morire. Si sentì stupido. L’istinto gli aveva detto di scappare. Ma da cosa?
“Da cosa sto
fuggendo? Dannazione!” Perché non mi è dato di capirlo?
Il tormento gli
impedì di sentire un lieve suono di passi avvicinarsi alla porta.
“Buongiorno.”
Quella voce.
Kamui si voltò
verso la porta, e appoggiato allo stipite, trovò lui, Subaru. La sorpresa gli
sfigurò la voce.
“Cosa ci fai
qui?” Avevo promesso che non ti avrei più rivisto.
“Questa è casa
mia.”
Casa sua. Ecco
dov’era. Altro che ospedale.
“Perché sono
qui?”
“Non ricordi
nulla?”
Vedendo che Kamui
esitava, Subaru si risolse a spiegargli il motivo.
“Di là, a
collegare i due corridoi che si intravedono dalla sala, c’è un terrazzo
abbastanza ampio, in parte all’aperto. Ti ho trovato lì, svenuto e bagnato
fradicio. Avevi anche battuto violentemente la testa, e dato che non mi
sembrava una buona idea lasciarti là fuori…” E tacque.
Dunque era così
che era andata. Solo una cosa non gli era chiara.
“Come ho fatto a tornare
qui?” Non avevo dimenticato tutto? Il tono di voce, esitante.
Subaru piegò
leggermente la testa, e per un attimo il suo sguardo si perse nel vuoto. Cosa
stava pensando? Kamui capì di non riuscire a fidarsi di lui. Perché era un
assassino? Non solo; era sicuro che se non si fidava di lui, era perché lui non
era un normale assassino, ma il Sakurazukamori. Nient’altro. All’inizio,
durante i giorni della fine del mondo, pensava che questo non avesse alcuna
importanza, ma si era dovuto ricredere; tutte quelle persone morte in modo
orrendo, non erano un’illusione: lui le aveva uccise a sangue freddo. ‘Subaru’
non sarebbe mai stato capace di una cosa simile. Dunque chi era la persona che
gli era davanti? Ma non era sicuro di voler davvero una risposta, perché
l’eventualità che quella persona in cui tanto aveva creduto non esistesse, lo rendeva
troppo triste. Semplicemente.
“Dimmelo tu come
hai fatto a tornare qui.” Raccontami quello che è successo.
“Non voglio.” Chi
sei?
Subaru sorrise.
Un sorriso neutro, ma non senza un’ombra di malizia persa sul fondo dei propri
occhi.
/Perché sono il
Sakurazukamori, vero?/
Kamui,
rabbrividendo, distolse lo sguardo. La scarica elettrica che aveva avvertito
lungo la schiena, la sensazione che quell’uomo fosse pericoloso, anche se altri
non era che il suo Subaru, lo avvolgeva, stritolandolo.
“Mi scuso per il
disturbo e ti ringrazio per quello che hai fatto per me, ma penso che farei
meglio ad andarmene il più in fretta possibile.” E così dicendo, fece per
scostare le coperte, ma Subaru, che gli era vicino, lo fermò bloccandogli la
mano a mezz’aria.
“Dove pensi di
andare, conciato a quel modo?” L’espressione, preoccupata. Chi sei?
Effettivamente si
sentiva il corpo pesante, esausto. Anche prima, quando aveva cercato di muoversi,
aveva sentito i muscoli doloranti. Perché?
“Hai avuto la
febbre alta, sai? Deliravi anche, nel sonno.” O buon Dio. Si è anche
preoccupato per me. Kamui sentì l’impulso di rimettere, mentre un ghigno gli
sfigurava il volto.
“Ti sei preso
cura di me, eh?”
Peccato che ‘ora’ io non
me ne faccia proprio nulla della tua bontà d’animo, o perlomeno non più. Se ti
stavo a cuore avresti potuto soccorrermi quel giorno, no? Quando ne avrei avuto
un reale bisogno. Perché ti preoccupi per me quando è troppo tardi?Ma non disse nulla, nonostante la
tentazione fosse forte, e lasciò che a parlare per lui fosse quel suo sarcasmo
maledettamente fuori luogo.Subaru
semplicemente assunse un’aria leggermente infastidita mentre lo guardava.
“Se non vuoi
dirmi nulla, è tuo diritto tacere. Lo sai, vero?” Non posso pretendere che tu
ti fidi ancora di me.
Kamui abbassò lo
sguardo. Certo che lo sapeva. Non c’era modo che Subaru potesse costringerlo a
parlare.
“… Però se non mi
dici almeno parte della verità, non posso rispondere alle tue domande.”
Che infido. Si
erano incontrati e tutto quello che aveva saputo dirgli era ‘mi vuoi uccidere?’
oppure ‘questo non posso dirtelo’, e ora se ne usciva fuori in quel modo.
Voleva andarsene, ma il corpo, debole, lo tradiva, ancora. Dannazione.
“Va bene,
diamine! E cosa vorresti sapere?” Era esasperato, ed era bene che Subaru lo
sapesse. Ma Subaru lo ignorò, limitandosi a fare le sue domande.
“Ti sei trovato
per caso in uno stato di profonda confusione, nelle ventiquattr’ore precedenti
all’incidente?”
Un pensiero
improvviso attraversò la mente di Kamui.
“Scusa, ma quanto
tempo è passato dalla notte in cui mi hai trovato?”
“Diciamo… Tre
giorni?” e sorrise.
Tre giorni.
Cristo. Aveva passato tre giorni nel mondo in rosso & nero. E nonostante
tutto quel tempo, era stato breve per i suoi canoni di ‘sogno’. Era decisamente
anormale. Ma avrebbe fatto meglio a tacergli quel particolare: in fondo per
quanto strano, quell’incubo era pur sempre stato solo una conseguenza dello
shock. Non c’era bisogno che lo mettesse al corrente di faccende tanto
personali. E anche per quanto riguardava Arashi, avrebbe fatto meglio ad
autocensurarsi.
“Ebbene?”
interloquì, quasi spazientito. Ora si metteva anche a esortarlo?
“Ho incontrato Arashi.”
“Ah.” Il tono con
cui Subaru pronunciò quel monosillabo, a Kamui non piacque. Secco, come se
volesse dirgli ‘perché l’hai cercata a tutti i costi, come hai fatto con me?
Non vedi che è inutile?’, distogliendo lo sguardo con aria addolorata. Come se
fosse a conoscenza delle condizioni in cui lei versava. E gli venne un orribile
dubbio.
“Un momento. Tu. Tu sapevi. Sapevi cosa lei stesse combinando, come
si fosse ridotta a causa delle colpe che si è addossata. E sapevi anche che io
l’avrei cercata. Ma allora perché non mi hai detto niente?”
Subaru si limitò
a guardare da parte mantenendo un’aria indifferente.
“Allora è come
pensavo?” il tono, amaro.
“Si. Sapevo di
Arashi perché mi hanno chiesto di tenerla d’occhio.”
“Il ‘governo’ ti
ha chiesto di tenerla d’occhio.” Puntualizzai. I soggetti non si omettono,
Subaru.
“Vedila come
vuoi. Fatto sta che è ancora viva, no?” Non sei contento?
Kamui gli tirò un
ceffone. Ma vedendo che l’espressione su quel volto non era cambiata, se ne
pentì immediatamente. La candida pelle si era arrossata sotto la pressione
dello schiaffo che lo aveva centrato in pieno volto, ma Subaru non fece una
piega; non aveva neanche cercato di evitare la sua mano. Eppure ora che aveva
ereditato i poteri di quell’uomo, avrebbe dovuto esserne capace. Perché si era
lasciato colpire?
“Bel colpo. Non
pensavo avresti avuto il coraggio di farlo.” Di alzare le mani su di ‘me’.
Con il dorso
della mano si asciugò le labbra; Kamui allora, tornato in sé e pentito del
gesto, con una mano gli sfiorò la parte offesa.
“Scusami.” Non
avrebbe dovuto rispondergli in quei termini. Non era in diritto giudicare le sue
azioni, né come la pensasse, dunque, cosa gli era preso per comportarsi in quel
modo?
Subaru sorrise
appena. Se l’era meritato e lo sapeva. Ma era importante che sapesse come
ipoteticamente Kamui avrebbe reagito davanti ad un’evenienza del genere; era
importante per quello che sarebbe stato. E ora ne aveva la certezza: qualora lo
avesse ancora ‘tradito’, lui non lo avrebbe più perdonato.
“Scusami tu. Ma
ora torniamo al discorso di prima, c’è ancora qualche domanda che desidererei
rivolgerti.”
Kamui annuì,
senza neanche troppa convinzione. Come temeva, non riusciva a mantenere nei
confronti di quell’uomo la sua freddezza usuale: Subaru pian piano erodeva le
sue difese piegandolo alle proprie esigenze, e per questo Kamui si disprezzava
profondamente. Perché gli risultava così difficile contraddirlo? E lo odiava,
perché nonostante tutto, per il suo cuore osava essere ancora così importante.
“Cosa vuoi
sapere?”
“È stato subito
dopo l’incontro con Arashi, che presumibilmente ti sei ritrovato sul mio
terrazzo, o è accaduto qualcos’altro, prima?”
“Non è accaduto
altro, né prima, né dopo.” Non saprai nulla più di questo, né su quel sogno, né
su di me. Quindi lasciami andare. Non farmi altre domande.
Ma Subaru non
proseguì oltre. Si chiuse dentro un sordo mutismo, mentre ponderava su cosa
fare. Non era necessario che gli ponesse altre domande; poteva immaginare da sé
cosa fosse successo, quella notte: Arashi doveva aver scaricato tutto il dolore
e il risentimento di quei quattro anni su di lui, per sconvolgerlo al punto da
metterlo in condizione di tornare lì. Con le spalle al muro, che cosa avrà
pensato? Ovviamente a Fuuma; l’universo di Kamui iniziava e finiva con lui,
dopotutto, no? Era sempre stato così, ed era per quello che aveva permesso al
suo cuore di provare affetto nei confronti di quel ragazzo. Perché sapeva che
anche nel suo animo ci sarebbe sempre stato qualcuno più importante di lui,
fino alla fine.
“Non continui
l’interrogatorio?” Lo scherno velava le sue parole. Ecco una cosa che gli dava
fastidio del Kamui attuale: non capendo la propria posizione, usava quel
sarcasmo come autodifesa, come se davvero quel comportamento potesse portarlo
da qualche parte. Non poteva certo pretendere che lo trattasse come in passato;
solo avrebbe preferito che Kamui smettesse di ritenerlo colpevole di tutte le
disgrazie che gli erano capitate.
“Non è più
necessario.” Solo, c’era quella
questione.
Subaru vide Kamui
annuire in modo visibilmente sollevato. Era stato un peso così grande, per lui,
rispondere a quelle domande? Era chiaro, preferiva non parlare di quello che
era avvenuto. Però doveva capire un’ultima cosa. Poteva essere un particolare
irrilevante come fondamentale, ma proprio per questo, perché non chiedere? Ancora
una volta, avrebbe permesso a Kamui di essere giudice del suo destino. Era
giusto, così? …Hokuto.
“Kamui …”
“Si?” La bocca si
era mossa meccanicamente. Si maledì mentalmente per questo.
“Non hai sognato
nulla di strano, vero? Ultimamente, intendo.”
Il rosso & il nero. Subaru sapeva? E che dirgli? Non era
una cosa importante, quindi perché tacere? Però –
/Tu non puoi vivere alla luce del sole. Non con quel dolore
nel cuore./
Una cosa del
genere, avrebbe voluto che non la sapesse nessuno; men che meno lui.
La sua stessa
miseria lo travolse, trascinandolo via lontano, nel profondo del suo animo. Il
desiderio di Fuuma; quel desiderio così importante, per realizzare il quale non
era abbastanza forte. Cos’aveva fatto? Aveva preferito vedere se stesso in quel
mondo piuttosto che vivere quella vita che Fuuma aveva voluto che conducesse?
Si. Tutto ciò che voleva desiderare, era essere in grado di vivere per un
morto, ma il suo cuore perché non gli concedeva almeno questo? L’istinto alla
preservazione, perché ne possedeva ancora? Nonostante
meritasse di morire, aveva paura di farlo.
Ma non era ancora
troppo tardi. Poteva tornare indietro. Poteva fuggire. Sarebbe bastato mentire
a tutti, negare la verità in quel momento, davanti a ‘lui’. Avrebbe scelto
Fuuma, avrebbe scelto la luce. Mai più lo avrebbe tradito, anche a costo di
negare la verità.
“No. Non ho
sognato nulla di strano.” L’espressione si era ricomposta, quasi magicamente.
Cosa gli era saltato in mente, per accettare quel sogno? Lui non aveva alcun
diritto di dimenticare, di permettere a se stesso di condurre una vita il meno
dolorosa possibile. Si meritava quel dolore.
Va bene così …
vero, Fuuma?
Ma la sua
decisione si incrinò quando vide l’espressione di Subaru cambiare. Lo sguardo,
serio, era fisso su di lui. Era una sua impressione o lo stava accusando?
“Non mentirmi.”
E tutto tornò in
pezzi.
“Che cosa?”
sussurrò debolmente.
“Ti ridurrai a
pezzi, se continui così.”
“Dannazione, lasciami
in pace! Mi distruggerò? Che sia, allora! Cosa vuoi che mi importi?!”
Sulla stanza
scese il silenzio. Kamui aveva urlato così forte che Subaru ritenne opportuno
aspettare che si calmasse un attimo, prima di riprendere a parlare.
“Non dire cose
che potrebbero essere fraintese.” Tu non desideri morire, giusto?
Kamui si morse un
labbro. Non desiderava morire. Doveva vivere. Almeno di questo poteva essere
sicuro. Ma allora, cosa doveva fare? La frustrazione prese lentamente il posto
della rabbia, mentre affondava il viso tra le ginocchia. Si sentiva uno
stupido.
“Cosa dovrei
fare, allora? Non ne posso più, Subaru. Basta.” Non voglio più soffrire.
/Il destino non è
sempre inevitabile./ Lo sapeva: era questo che la fine del mondo aveva
insegnato loro. Avrebbe voluto dirglielo, ma quella era una risposta che Kamui
si sarebbe dovuto trovare da solo. Perciò mentalmente pregò che un ipotetico
Kamui del futuro lo perdonasse per quello che invece stava per dirgli.
“Vieni ad abitare
qui.” Con me.
Lo shock fu tanto
forte che Kamui all’inizio pensò di aver sbagliato a capire. Ma quando, alzando
la testa, si rese conto che Subaru lo guardava seduto sul letto come se si
aspettasse una risposta, si sentì estremamente confuso.
“Perché?” osò
chiedere. Subaru gli sorrise.
“Non vuoi?”
“Onestamente no.”
Ma esitò. Ci pensò su due secondi, poi riprese la parola.
“Ma non penso di
aver scelta, vero?”
“No, infatti.”
Kamui non
replicò. Era ovvio. Se uno come Subaru, che lo aveva evitato come la peste fino
a quel momento, arrivava a proporgli una cosa del genere, significava che era
inevitabile. Ma quale poteva essere il motivo? Per caso, era a causa di quel mondo?
E Subaru sapeva? E se sapeva, così facendo stava magari cercando di
proteggerlo? Non era commovente, quel pensiero? O era solo patetico? Kamui non
era in grado di capirlo, né di pensare lucidamente a delle risposte plausibili,
ma sapeva che la sua era solo una folle speranza, che non era possibile che uno
come il Sakurazukamori potesse nutrire il desiderio di aiutarlo a convivere con
quelle tenebre.
Ma di una cosa
era ben certo: nell’istante in cui aveva avuto quel sogno, aveva capito che non
sarebbe più potuto tornare al CLAMP campus, perché era un segno che il suo
cuore non si sarebbe più piegato a compromessi. Era arrivato al limite, e il
solo pensiero della solitudine che avrebbe sofferto, lo faceva impazzire. Ma
Subaru gli aveva chiesto di stare con lui; e come uno stupido, se ne sentiva
felice. Solo, perché? Perché solo ora tutto quell’interessamento? Ma tacque, perché
sapeva che anche qualora avesse chiesto, nessuna risposta gli sarebbe mai
arrivata da quell’uomo.
“Non mi hai
ancora detto come ho potuto ritrovare questo luogo nonostante quei sigilli.”
Almeno questo puoi dirmelo, non pensi?
Subaru per un
lungo momento, studiò il volto di Kamui, attentamente. Dunque aveva accettato?
Di vivere lì, in quella casa maledetta, con il Sakurazukamori. A quanto pareva,
si. Ma per accettare così facilmente, doveva essere pazzo. Cosa pensi?
“C’è qualcosa che
non va?” Solo allora Subaru si rese conto che lo stava fissando; dunque si
scusò con aria vagamente imbarazzata, e si affrettò a spiegargli.
“Quei sigilli
sono frutto di incantesimi davvero potenti, ma esiste un modo, uno solo, per svincolarsi
da essi. L’incantesimo può colpire la coscienza vigile, ma non c’è modo che
possa vincolare l’inconscio. Se in stato confusionale ci si affida ad esso, è
possibile tornare anche in quei luoghi sigillati alla memoria, dato che il
cervello nel suo inconscio, conserva comunque memoria di essi.”
Quei discorsi
erano gli stessi che durante la sua infanzia gli aveva fatto sua madre
istruendolo sui fondamenti della magia operata dai Magami. Era stupefacente per
lui poterne ascoltare ancora, dopo la morte di lei, e ancora di più dalle
labbra di Subaru, un uomo che era convinto di aver perso per sempre.
“È stata una
buona risposta.” Grazie per non avermi lasciato da solo in quell’oscurità.
E sorrise
dolcemente, mentre sentiva la testa farsi pesante per il sonno, probabilmente
indotto dalla febbre.
Subaru vedendo la
sua testa ciondolare, gli sistemò i cuscini e lo coprì con le lenzuola,
sforzandosi di mantenere un’espressione tenera sul viso.
“Era un ‘grazie’,
vero…? Kamui.” Ma il ragazzo, addormentatosi, non venne raggiunto dalle sue
parole.
Aside
Ringrazio tutti
coloro che hanno commentato! È un vero piacere leggere cosa ne pensate di
*LtN*, anche perché è la prima volta che scrivo basandomi su commenti di
persone che obbiettivamente non conosco (se è per questo, è anche la mia prima
long-fic^^’’’). Mi siete di grande sostegno, davvero.
Shannara_810:
Mi dispiace per il ritardo, farò in modo che non accada più; in fondo quando si
mette una data, bisogna rispettarla, per non peccare in professionalità, no?
Comunque ci hai preso; era ora che tornasse Subaru, era mancato per troppi
capitoli, decisamente.XD
Costance:
è vero, il fandom intorno alle SubaruKamui è molto buono all’estero, infatti è
stato così che ho scoperto questa coppia (eh, le fanfic di Alison Koh…XDDD).
Anche da prima in realtà ci pensavo (il 14esimo volume di X1999 era
inequivocabile), ma dato che tra i miei amici nessuno aveva notato il pairing,
ne facevo una questione più evanescente. Il tempo ha fatto il resto.^____^ Io
ho iniziato a seguire X solo per Subaru, invece; dovevo assolutamente sapere
come andasse a finire TB XDDD Grazie per il commento!
LadyKokatorimon:
Il problema della mancanza di lettori può effettivamente essere spiegato col
fatto che è già un po’ che X è stato pubblicato, e forse l’entusiasmo si è un
po’ spento. Aggiungi l’irritazione per il fatto che non è mai finito, e diventa
comprensibile come i fan abbiano preferito orientarsi verso fandom più vivi,
come Tsubasa ad esempio. Non avevo idea del fatto che il problema riguardasse
anche le SeishiroSubaru (sarà perché in giro ne trovo a caterve); è anche
probabile che parte dei fan pensi anche che da X non possa essere tratto più
nulla di originale, cosa con cui non sono molto d’accordo (altrimenti non sarei
qui ora, no?XD). Mai sottovalutare l’originalità della mente umana!XD La
questione dei commenti, poi, è tristemente annosa: sconfiggere la noia e
l’inerzia è così difficile, dico io? Si vede di si. Non si lamentino però
quando la fanfic che adoravano viene interrotta per mancanza di pubblico,
almeno. Passiamo allo stile: diciamo che il mio intento era filtrare quanto c’è
di gotico nei disegni di X attraverso la scrittura, quindi attraverso il breve
periodare delle frasi, frequenti domande retoriche, dislocazioni a sinistra, e
altro. Mi rendo conto che effettivamente il tutto risulta molto pesante ad una
lettura svagata, e credimi, sto facendo di tutto per snellire il più possibile
il testo, per epurarlo da elementi inutili o riflessioni fuori luogo, ma è
difficile farlo quando ti trovi alle prese con capitoli come quello che vi ho
presentato oggi. Inoltre la mia visione di X è quella di una storia in cui
l’angst ha un peso più che preponderante, e l’unico modo che ho trovato per
proporvelo attraverso un testo scritto, è questo. Poi da questo capitolo si
apre la seconda fase, che durerà fino al decimo capitolo; e purtroppo sarà
tutta all’insegna dell’indecisione e del timore. Dopo tutto andrà un po’ più a
posto. Cercherò comunque di affinare la tecnica e di non rendere più la fic
così pesante.^^ Grazie per avermi dato il pretesto per scrivere di una cosa che
mi premeva da un po’!XD
Il prossimo
capitolo è di assestamento; Kamui chiuderà i conti con due personaggi per
iniziare una nuova vita.
La prima cosa
che Kamui si preoccupò di fare una volta rimessosi, fu recarsi al CLAMP campus.
C’erano delle questioni che doveva chiudere prima di lasciarsi tutto alle
spalle: prima di tutto era necessario rassicurare Nokoru; era svanito per
cinque giorni, e non voleva che si preoccupasse più di così. Poi era necessario
rifilargli una scusa per il fatto che avrebbe smesso di frequentare le lezioni
e che si sarebbe trasferito altrove; non voleva che sapesse del fatto che
avrebbe alloggiato presso il Sakurazukamori, né che l’attuale detentore della
carica era Subaru: non l’avrebbe sopportato. Ultimo problema, doveva dirgli di
Arashi: non poteva sopportare il pensiero di lasciarla in quelle condizioni;
doveva assolutamente rincontrarla perlomeno per scusarsi per il suo
comportamento.
In quei giorni
ci aveva pensato, ed era arrivato alla conclusione che si era comportato come
uno sciocco. Per rivolgergli quelle parole, doveva essere lei la più ferita, indubbiamente.
Si era fatto prendere dal panico e aveva reagito male, troppo per uno che
doveva essere ben consapevole di quello che si prova a far fuori la propria
persona più importante. Aveva deciso di aiutarla, ma non ne era stato capace;
anzi, nel momento del bisogno era fuggito via, lontano da lei, per non essere
costretto a ricordare il suo dolore. E per questo si disprezzava profondamente.
L’aveva ferita sicuramente, mostrandosi così volubile alle sue parole; avrebbe
dovuto resisterle e in questo modo, mostrandosi più forte di lei, strapparla a
quel dolore cieco in cui aveva permesso a se stessa di precipitare. Sarebbe
andato bene, così? Ma che garanzie aveva che, come anche nel suo caso, lei non
avrebbe sofferto nello sforzo di comportarsi come se mai nulla fosse accaduto?
Ma quando lo aveva chiesto a Subaru, lui gli aveva semplicemente sorriso.
“Non hai
bisogno di preoccuparti di questo, Kamui. Lei ce la può fare. Esistono persone
che non sono fatte per vivere nelle tenebre.” Per quanto grande sia la loro
disperazione, torneranno sempre nella luce.
Allora era
quella, la verità. Lui e Subaru, pur essendosi macchiati della stessa colpa di
Arashi, erano diversi da lei. Radicalmente. Non necessariamente più deboli, ma
incapaci di convivere col proprio senso di colpa, e per questo costretti a
fondersi con esso, per poterlo superare. Fuuma gli aveva chiesto di vivere, ma
se aveva pensato che Kamui potesse andare avanti senza di lui, si era
sbagliato. Ma forse quello era solo il triste desiderio di un individuo che non
potendo che trovare la felicità nella morte, sperava che coloro che avrebbe
lasciato indietro, sarebbero lo stesso riusciti ad andare avanti senza di lui.
Anche per
Subaru doveva essere stato lo stesso; anche lui doveva rispettare il desiderio di
quell’uomo di rimanere in vita, a tutti i costi. Durante quei quattro anni
aveva raccolto abbastanza informazioni sul Sakurazukamori da sapere tutto sul
loro metodo di successione e sui suoi mandanti: sapeva che se Subaru era il
Sakurazukamori, era perché aveva ucciso Seishiro, il suo predecessore. Ma non
capiva perché continuasse a uccidere. Era forse costretto a farlo? Non gli
risultava. Uccidere allora era una semplice valvola di sfogo? Ma questo era un
pensiero tremendo. Se era così, preferiva non sapere. Inoltre, il fatto che ora
convivessero non significava che avesse il diritto di farsi i fatti suoi, né di
impedirgli alcunché. Sotto quel punto di vista, la loro riunione non aveva
proprio alcun significato.
Arashi gli
aveva detto cose orribili, ma anche lei doveva aver passato quattro anni
orrendi. Non aveva raggiunto ancora alcun equilibrio, e questo era in certo
senso positivo: significava che non si era rassegnata, che non si era arresa al
suo nuovo stile di vita, che non le andava bene come stessero le cose in quel
momento. In una parola, poteva essere ancora riportata indietro. E anche lui,
se ora non era ancora abbastanza forte da riuscirci, crescendo avrebbe potuto
farcela. Avrebbe potuto tornare con lei nel mondo che avevano protetto insieme.
Non era un pensiero meraviglioso, questo? Anche se ora l’aveva solo ferita,
sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe potuto affermare davanti alla tomba
di Sorata che lei stava meglio, che sorrideva, ancora. Forse era solo
un’illusione, l’ennesima, ma se non vi avesse creduto, non avrebbe più avuto
alcun motivo per vivere.
E come pensava,
non era capace di vivere in solitudine; sotto questo punto di vista, non era
cambiato per niente. Non era come Subaru, che era stato capace di buttarsi
tutto alle spalle diventando addirittura un assassino. Lui, senza credere in
qualcosa, non riusciva proprio a vivere, a costo di apparire ipocrita.
Giunse
all’entrata del campus, e qui esibì la tessera studente per avere il diritto di
accedervi. Appena dentro, si diresse verso l’ufficio principale; qui si fece
annunciare dalla segretaria personale di Nokoru, e nel frattempo rimase in sala
d’aspetto. Quando ottenne il permesso d’entrare, trovò un Nokoru preoccupatissimo.
“Kamui! Ma dove
sei stato?!” esclamò venendogli incontro. Quella reazione non era esagerata: da
quando aveva trovato Subaru, non aveva più saltato una lezione e aveva fatto sì
di essere sempre reperibile. Che ora fosse svanito senza neanche lasciare messaggi,
doveva averlo scosso; forse aveva addirittura pensato di averlo perso di nuovo.
Non che questo fosse totalmente sbagliato, in effetti.
“Scusami. Non
era mia intenzione farti stare in pensiero per me.”
“Non importa!
Solo, è tutto a posto?” perché sei scomparso?
Kamui annuì.
Poi assunse un’aria grave.
“Ho incontrato
Arashi.” Che caso. Le stesse parole che aveva detto a Subaru due giorni prima.
“Cosa?!
Quando?”
“Cinque giorni
fa. Come mi avevi detto, era qui a Tokyo.”
“Cinque giorni
fa … Capisco.” E qui, l’espressione di Nokoru si spense un attimo, passando dai
toni della vivace preoccupazione, a quelli di chi realizza un’amara
consapevolezza. Kamui guardandolo, non riuscì a togliersi l’impressione che ci
fosse qualcosa di sbagliato; qualcosa, nel modo di disporre le parole, di
reagire, lo metteva in guardia.
“Che intendi
…?”
“Cosa intendo?
Anch’io l’ho trovata. Cinque giorni fa.”
“E dov’è? L’hai
lasciata andar via?” Dimmi di no, ti prego. Devo parlarle.
Nokoru in
condizioni normali avrebbe riso vedendo Kamui scaldarsi tanto. In condizioni
normali, appunto; per questo, parlando, si concesse solo un sorriso amaro.
“È in clinica,
se desideri vederla.”
“In clinica?! È
stata male?”
“Kamui …” Come
dirglielo?
Ma Kamui lo
interruppe. Con la mente impossibilitata a pensare coerentemente, le domande
che inondarono la sua testa, divennero miliardi. Quella dannata confusione,
data da quell’assurdo terrore di rimanere da solo… Si sentiva male.
“Chi l’ha
attaccata? Non è niente di grave, vero? Hai detto che l’hai trovata cinque
giorni fa, no? Allora è stato poco dopo che io …” e qui si bloccò.
Era colpa sua. Se
lei era in quell’ospedale, era a causa sua. Per quello che l’aveva costretta ad
ammettere, per quelle cose che era stata costretta a ricordare.
“È colpa mia,
vero?” Abbassò la testa, mentre Nokoru gli appoggiava una mano sulla spalla, come
per fargli coraggio. Avrebbe voluto piangere almeno per espellere il dolore, ma
gli occhi rimasero testardamente asciutti. Come già era avvenuto in passato, il
suo corpo non era capace di far fronte ad un dolore del genere. Al posto di
mitigarlo sfogandosi, il senso di colpa gli permetteva di arrivare fino al
cuore, riducendolo in pezzi.
“Io non so cosa
sia accaduto tra voi due quel giorno, ma sono sicuro che non sia solo colpa
tua.” Anche tu, per essere svanito così per quattro giorni, devi aver subito un
grande shock, no?
Kamui non
rispose; non sapeva che dirgli. Non aveva intenzione di raccontare a Nokoru i
particolari di quell’incontro, così lasciò che credesse quello che gli pareva:
tanto non avrebbe cambiato la sostanza di quello che era stato.
“Posso vederla
ora?”
“Certo. Anzi,
ti accompagno direttamente io.”
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
La clinica
dell’istituto CLAMP gli riportò alla memoria tanti momenti della sua esistenza,
sia legati alla fine del mondo, sia al periodo appena posteriore. Era il luogo
in cui erano stati ricoverati i suoi compagni, un luogo che per lungo tempo era
stato per lui sinonimo di angoscia. E anche se ora non aveva più alcun motivo per
considerarlo tale, poteva ancora sentire quella leggera agitazione percorrergli
la spina dorsale. Entrò nella stanza di Arashi dopo aver chiesto a Nokoru di
lasciarli un po’ da soli, e qui chiuse la porta.
“Kamui…”
“Desideravo
chiederti scusa.”
Arashi lo guardò
stupita.
“E di cosa? Se
qui c’è qualcuno che deve scusarsi, quella sono io. Ti ho ferito gratuitamente…”
Ma Kamui la
interruppe con l’espressione contrita dal dolore.
“L’hai fatto a
causa della mia cecità! Se solo non avessi reagito a quel modo…” …ora non
saresti qui.
Arashi sorrise
mantenendo un velo di malinconia negli occhi, come se l’affermazione di Kamui in
qualche modo, l’avesse liberata d’un peso. Tutti quegli anni passati nell’odio,
a cosa le erano valsi? Lo sapeva. Era inutile pensare di poter distruggere ogni
cosa, dopo aver fatto di tutto per proteggere la Terra. Ma allora perché non
aveva potuto evitare di spezzarsi? Perché era caduta lo stesso in quella
trappola? Perché lui aveva dovuto morire? Non c’erano risposte, non c’erano
speranze… Non aveva potuto dare la colpa a niente, per questo se l’era presa
col mondo intero. Ma non era giusto. Non avrebbe dovuto perdere di vista il
fatto che esistono persone che meritano di essere salvate, proprio in virtù del
fatto che non siamo tutti uguali.
Quindi fece
segno a Kamui di avvicinarsi.
“Vuoi sapere
com’è andata?”
Kamui trattenne
il fiato, mentre prendeva una sedia e la sistemava accanto al suo letto. Voleva
sapere. Ma non voleva essere sconveniente. Quale delle due? Perciò rimase in
silenzio, aspettando che Arashi continuasse.
“Era destino
che Sorata morisse per me. Ciò che all’epoca non sapevo, è che sarebbe stato
per colpa mia. Per mano mia.” Le mani di Arashi, tremanti, si serrarono sulle
coperte, quasi a non voler lasciare trapelare la propria debolezza. Mai come in
quel momento, Kamui sentì di volerle così bene. Perciò le poggiò una mano sul
braccio, come un invito a farsi forza. Arashi sorrise lievemente, per poi
continuare a raccontare.
“Non ero in me,
ma non ho saputo fermarmi. E lui non voleva usare alcun incantesimo che potesse
ferirmi. Ricordo che una parte di me era cosciente, e per tutto il tempo ha
urlato, urlato e urlato che mi fermassi… ma alla fine non è successo. Mi è
morto tra le braccia.”
“Non eri in
te?” Che significa?
“Esiste uno
spirito tra gli yumemi, in grado di ingoiare quanti, facendosi prendere dalla
disperazione, cercano di cambiare il futuro. È come un loro secondo io, che
divora la loro anima lentamente, fino a distruggerli. Hinoto si era fatta
ingoiare dal suo. Si era convinta di voler distruggere la Terra, e pensava che
un mio tradimento potesse cambiare le cose. Ma dopo quel che ho fatto, sono
tornata in me e sono scomparsa. Non hai trovato nessuno a proteggerla, vero? Avrei
dovuto farlo io. E forse sarei dovuta rimanere, per far sì che si salvasse
almeno lei.”
“Per Hinoto era
troppo tardi.” Lo so perché l’ho uccisa.
Arashi non
rispose. Solo la sua espressione, intristitasi ulteriormente, gli dette sentore
di aver udito e compreso le sue parole. Non poteva dirle che non era colpa sua.
Certo, era una bugia sostenere il contrario, ma Kamui ebbe l’impressione che
Arashi non avrebbe gradito. Perché questo pensiero? Non avrebbe saputo
spiegarlo. Ma forse era perché anche lui non avrebbe voluto sentire quelle
parole. Per quanto potesse essere doloroso il peso di quella colpa, ‘quello’ era
un dolore solo suo, senza il quale sarebbe probabilmente già morto. Se Fuuma
voleva morire, avrebbe potuto ucciderlo solo lui. Dato che gli era così caro,
solo lui avrebbe potuto privarlo della vita. Chissà se anche Fuuma aveva
pensato anche lui a cose del genere?
“Ti ringrazio
per avermene parlato.”
“Non curartene.
Forse dopo tanto tempo, sentivo davvero il bisogno di parlarne con qualcuno. E
ora mi sento più leggera.”
Il suo sguardo
si schiarì, mentre guardava fuori dalla finestra. Kamui poteva guardarla solo
parzialmente in volto ora, ma gli sembrò che tutti quei sentimenti pesanti
/l’odio, l’ira, la devastazione/ si fossero d’un tratto alleviati, quasi come
purificati dal cielo blu. Ed era bellissima. Kamui ringraziò il cielo, per
quella visione. Forse era solo un’illusione, ma se era vero quello che gli
aveva detto Subaru, ora credeva davvero possibile che Arashi potesse tornare a
vivere nella luce. Era reale. Aveva potuto fare qualcosa per lei.
E rimasero
così, in silenzio entrambi, a guardare quello squarcio di vita che si
intravedeva fuori attraverso le finestre dell’ospedale, non senza che Kamui si
sentisse leggermente in colpa per il fatto di non riuscire a vivere
accontentandosi di questo.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Kamui rimase
nella stanza di Arashi per un’ora, prima di decidersi ad andarsene. Aveva il
presentimento che per come si stavano mettendo le cose, sarebbe passato un bel
po’ di tempo prima di essere in grado di vederla di nuovo. Non le chiese nulla
sul suo futuro. Aveva il terrore che una domanda del genere potesse toglierle
quella serenità, per questo si era risolto a parlarle di argomenti assai
frivoli, in fin dei conti. Arashi avrebbe potuto anche arrabbiarsi per quello,
e invece lo aveva assecondato per tutto il tempo. E alla fine gli aveva detto
“Grazie”. “E di cosa?”, le aveva risposto lui. “Di tutto”. Aveva sorriso. E
questo era il più bel regalo che avesse potuto fargli. La certezza che non
aveva sbagliato pretendendo di cercarla.
Uscendo dalla
stanza, trovò Nokoru ancora seduto ad aspettarlo.
“Sei rimasto
qui?” Nonostante tu sia così impegnato, perché sei ancora qui?
“Avevi bisogno
ancora di parlarmi, vero?”
Kamui annuì.
Non sapeva come Nokoru lo avesse capito, ma era la verità: doveva ancora dirgli
la cosa più difficile.
“Ho trovato un
posto dove stare, quindi non stare a preoccuparti per me. Oggi stesso sgombrerò
l’appartamento qui al campus. E grazie, per tutto quello che hai fatto per me
finora.” Tutto quello suonava ingrato, ma non poté farci nulla: era quello che
doveva fare. E, anche se lo terrorizzava, in un angolo del suo cuore sapeva che
era quello che voleva.
“Un posto dove
stare?”
“Si. Con i
soldi lasciatimi da mia madre e con quelli del negozio, ho trovato un
appartamento che fa al caso mio.”
Nokoru rimase
in silenzio, in dubbio tra ciò che poteva e quello che voleva dire. Sapeva che
per il bene di Kamui sarebbe stato meglio tacere, ma lo attraversava l’orribile
sensazione che questo fosse un altro di quegli avvenimenti inevitabili, di quei
fili inestricabili che il destino tesse per prendersi gioco degli esseri umani.
Se questo fosse stato il caso, allora sarebbe stato inutile anche solo aprire
bocca. Ma se con una parola poteva trattenerlo, addirittura salvarlo, allora
perché non provarci? Anche se si fosse rivelato inutile… Quindi parlò.
“È la casa del
Sakurazukamori, vero?”
“Che …?” Che stai
dicendo?
“Kamui, ho
sempre saputo che l’attuale Sakurazukamori è Subaru. Anche se per quattro anni
hai tentato di nascondermelo.” Anche se questo non significa nulla, perché il
motivo per cui me lo tenevi nascosto, era per nascondere la verità al ‘mondo’,
non a ‘me’.
Kamui si sentì
all’improvviso assalito dall’ira. Tutti quegli sforzi, quelle bugie, e tutti
già sapevano. Quanto si era reso ridicolo, pretendendo che nessuno sapesse che
ciò che ogni notte faceva, era andare alla ricerca dei cadaveri che lui,
Subaru, si era lasciato dietro? Probabilmente oltre ogni dire. Era stato
stupido pensare che Nokoru, con la sua rete di informazioni, non sarebbe venuto
a saperlo, prima o poi. Non capiva nemmeno perché si accanisse così tanto a
nasconderlo. In fondo che male ci sarebbe stato, anche se lo avesse saputo?
Fece per
voltarsi, ma Nokoru lo prese per un braccio, costringendolo a guardarlo negli
occhi.
“Non andare.”
Lo sai, te ne pentirai.
Kamui capiva
che Nokoru non poteva arrendersi. Da inguaribile ottimista, sperava che ancora
ci fosse qualcosa che lui poteva fare. Ma proprio per questo, Kamui si
irrigidì. Che senso avrebbe avuto tornare indietro?
“Mi dispiace.
Mi dispiace tantissimo, ma non ce la faccio. Non senza Fuuma. Perdonami.” Non
tornerò indietro, non ad una vita che non saprei vivere senza crollare
quotidianamente nella disperazione. Per andare avanti, devo cambiare se stesso,
e per essere in grado di fare questo, devo fare una scelta, per quanto
discutibile essa sia.
Era
inevitabile, e lo sapeva, per questo non poteva permettere ad altri di metterlo
in crisi dubitando di lui, facendosi magari indicare una strada tracciata che
però non aveva alcuna voglia né alcuna possibilità di percorrere. Quella che
aveva vissuto fino ad allora, non era vera vita. Il motivo per cui era stato
capace di rialzarsi ogni volta, non era perché sapeva che ci sarebbe sempre stato
qualcuno al suo fianco? Si disprezzava, per il fatto di non riuscire più a
mettere insieme i pezzi, ma forse aveva raggiunto il suo punto limite. Forse
quel giorno sarebbe dovuto davvero morire con Fuuma. Ma non ne aveva avuto il
coraggio. Non aveva potuto lasciarsi morire. Per questo aveva rivolto il suo
sguardo verso Subaru. Senza rendersene conto, forse gli aveva chiesto di
‘salvarlo’, invece che di ucciderlo. E lui gli aveva dato un motivo per
rimanere in vita: gli aveva chiesto di ‘perdonarlo’.
Quello era il
‘suo’ Subaru. Quella persona che non sarebbe mai stato capace di rendere felice
con le proprie mani.
Nokoru si
ritrovò a fissare il volto di Kamui quasi con astio. Perché non voleva capire?
Aveva promesso a Tokiko che lo avrebbe sostenuto. Che lo avrebbe protetto. Lui
e la spada divina. Per il futuro di quel pianeta. E sicuramente le cose non
erano cambiate, ora che la Terra era stata salvata. Allora, perché dopo tanto
tempo non aveva il potere ancora di fare nulla?
Kamui, notando
la sua espressione, si permise solo un ultimo atto di debolezza, sapendo che
questo era anche quello che Nokoru stesso si aspettava e voleva.
“Se potessi non
andrei. Se qualcosa dentro di me non mi chiedesse di andare, io rimarrei qui,
per sempre. Ma perdonami.” Addio.
E gli voltò le
spalle, sapendo che molto probabilmente questa sarebbe stata l’ultima volta in
cui lo avrebbe visto.
Aside
Ho voluto
trovare una soluzione al problema di Arashi, e cercando di renderla il più IC
possibile, è venuta così. Mi dava fastidio vederla in quello stato, soprattutto
perché se Sorata le ha permesso di ucciderlo, era 1)probabilmente per
svegliarla da quel "coma", 2)per permetterle di vivere anche per lui.
Perciò 4 anni di lutto sono più che sufficienti; ora bisogna ricominciare.
Ammetto che uno dei motivi per cui con lei ci sono andata giù pesante, era
perché non mi era sembrato verosimile che nell'anime prima uccidesse Sorata, e
che poi, il massimo che potesse fare fosse andare al monte Koya per vedere il
luogo in cui era cresciuto. Non mi era piaciuto proprio quel pezzo; è vero, le
persone reagiscono in modo diverso, ma così mi era parso esagerato. Anche se
forse Fuuma e Subaru sono casi ancora più patologici del suo, nell'anime.XD
L'altra
questione è la distinzione che viene fatta tra luce e tenebre, in questo
capitolo. Non mi piace tanto, perché rischia di essere fuorviante; la sfumatura
che volevo dare è diversa da quella cristiana: occorre prescindere dalla
relazione luce=bene e tenebre=male. Ma anche così, non mi piace granché: per
come la penso io, ognuno, vivendo, si costruisce il proprio mondo, ed ognuno di
questi è l'uno diverso dall'altro, perché riflette il modo in cui vediamo la
realtà, che non è né negativa, né positiva. In questa accezione laica, Luce e
Tenebre sono due dei diversissimi modi di vedere la realtà e il loro uso è
assolutamente neutro, non morale. Non esiste un metro morale per misurare la
visione che abbiamo delle cose. Subaru e Kamui hanno un modo peculiare di
guardare il mondo, diverso tra di loro, ma simile, e assolutamente diverso da
quello di Arashi. Forse questa differenza è tanto più ampia perché lei è una
donna, e le donne (secondo quanto dicono le CLAMP stesse in Combination) sono
in grado di andare avanti serbando nel cuore il ricordo di coloro che hanno
perso. Gli uomini no, hanno bisogno o di dimenticare, o di qualcuno che riempia
quel vuoto. Comunque il senso di questo delirio è che Subaru e Kamui non hanno
la forza per tornare a vivere come prima; mentre Arashi si. Chiarimenti su
questo punto, verranno anche più avanti.
Silvermoon: Eh, le coppie anticanon! Ci sono delle
eccezioni, ma anch’io adoro tutto ciò che fa a pezzi il canon. Come fangirl, è
il mio modo di dire che una storia mi è piaciuta (e ti assicuro, per ispirare
la sottoscritta a scrivere, ci vogliono altro che i miracoli!), e che l’ho
assimilata così bene, che addirittura mi metto a immaginare come quei
personaggi si comporterebbero in quella determinata situazione (per questo
generalmente odio l’OOC). Certo, non scelgo le coppie a caso, ci mancherebbe,
però ammetto che così è molto divertente.XD Grazie per l’apprezzamento!
Shannara_810: Il groviglio che ho messo su con
Subaru verrà sbrogliato col tempo, e ti assicuro che tutto troverà una
risposta. (Quando rispondo ai tuoi commenti, mi viene sempre da fare degli
spoiler, accidenti!XD) Diciamo che Kamui sta cercando di affrancarsi dal suo
destino, ma il destino non sembra essere d’accordo con lui. Il fatto di
preoccuparsi per Arashi e prendersi sempre la colpa di tutto, è un tratto purtroppo
distintivo del suo carattere, non ne può fare a meno. Forse, senza rendersene
conto, pensa che questo sia un modo per risolvere i problemi. *me si riduce a
fare la psicologa di Kamui*XDD Grazie per i complimenti! Mi hanno reso contenta.^^
Prossimo
aggiornamento: 30 novembre (prendetevela con l’uni. Io voglio scrivere!)
Kamui non si
aspettava certo che la convivenza con Subaru fosse cosa semplice, ma neanche
immaginava che si sarebbe rivelato così complicato venirgli incontro. Gli era
sembrato ovvio rispettare i suoi spazi personali, non disturbarlo quando si
chiudeva nella sua stanza per lavorare ai vari casi, se non per avvertirlo che
era ora di pranzo o cena; cercava di evitare argomenti troppo personali,
parlandogli perlopiù a tavola, ma solo dopo essersi assicurato che non
apprezzasse piuttosto consumare i pasti in silenzio. Il motivo di tutti questi
sforzi, risiedeva nel fatto che anche se Subaru si era accorto di questo suo
comportamento, non gli aveva detto nulla per indurlo a smettere: Kamui ne aveva
dunque tratto la conclusione che gli andasse bene così, e che anzi, forse proprio
questo fosse quello che si aspettava da lui.
Inoltre gli
aveva assegnato una stanza, la stessa in cui si era svegliato quel giorno, e
gli aveva detto di arredarla pure come desiderava. E in effetti quella camera era
davvero vuota: oltre al letto e un armadio, non c’era nient’altro; in
corrispondenza della porta si affacciava una porta-finestra che dava su un
balconcino piccolo ma grazioso, da cui poteva avere una buona visuale di Tokyo.
Dopotutto poteva anche essere abbastanza; nulla a che vedere ovviamente con la
sua stanza al CLAMP campus, che Nokoru aveva riempito di roba assurdamente
inutile. Sorrise al pensiero: la stravaganza di quell’uomo a volte raggiungeva
picchi a dir poco favolosi, ma aveva la capacità di fargli sentire davvero il
calore di una casa.
Tendenzialmente
Subaru stava fuori tutta notte; rientrava poco prima dell’alba, e dopo essersi
fatto una doccia, andava a letto. Si svegliava per mezzogiorno e un’ora dopo
già mangiava con Kamui, saltando la colazione. Il pomeriggio, in una stanza che
usava come studio, si occupava della parte burocratica del suo lavoro; la sera
mangiavano ancora insieme, dopodiché usciva di nuovo. Ogni giorno sempre la stessa
storia. E Kamui ci mise ben poco a capire che, anche se all’alba si svegliava
sentendolo tornare, era meglio far finta di dormire, di non sapere che lui ogni
mattina passava in bagno quasi un’ora per togliere l’odore del sangue dal
proprio corpo. Un’igiene quasi perfetta per cancellare le prove della proprie
azioni: non era questo il senso di ciò che gli aveva detto tempo prima?
L’unica cosa di
cui era sicuro, era che la vita che Subaru conduceva, risultava assurdamente
schizofrenica. Durante il giorno faceva di tutto per apparire affabile,
gentile: non rideva, ma sorrideva spesso; sembrava pronto ad ascoltare tutto ciò
che Kamui volesse dire, pur non esponendosi mai troppo. In una parola, poteva essere
perfetta, come convivenza, se solo Kamui avesse potuto evitare di sentire quel
leggero disagio, quell’impercettibile tensione che paralizzandolo, talvolta gli
impediva di comportarsi come se tutto fosse a posto. Lo sapeva, in realtà
Subaru stava facendo di tutto per tenere la conversazione su binari ‘innocui’;
era come una sottile tortura psicologica, come una guerra di logoramento. Così,
se desiderava sapere qualcosa di lui, si ritrovava improvvisamente in mezzo ad
una discussione di tutt’altro genere; a volte lo trovava insopportabilmente
esasperante, altre volte invece lasciava stare, semplicemente. In fondo non è
che gli importasse granché, o almeno non al punto di rischiare di rompere
quell’equilibrio pur di saperlo.
Ma la cosa più
strana era che stante ciò, aveva l’impressione che a modo suo Subaru avesse
davvero l’intenzione di fare qualcosa per lui. Certamente non era un sentimento
spontaneo, però, anche se gli costava fatica, lo faceva lo stesso. E Kamui, anche
se non riusciva a capire il motivo di tanti sforzi, gliene era immensamente grato,
perché lo aiutava a non sentire più di tanto la solitudine. Subaru infatti
riusciva a capire ciò di cui aveva bisogno, come ogni sua più piccola
espressione, perfettamente. E poi sapeva tutto, conosceva ogni sua piccola
colpa, e per questo non gli permetteva di nascondere nulla. Perciò in un certo
senso era come se lo stesse curando, nonostante la ferita fosse una di quelle
che non si rimarginano mai; e questo suo sentimento di gratitudine, talvolta lo
spingeva quasi meccanicamente a dimenticarsi di quell’altro Subaru, quello che
spuntava fuori con l’emergere delle tenebre. Sbagliava, ma non riusciva a farci
nulla.
Soprattutto
poi, avrebbe voluto capire cosa fossero quei sogni da cui non riusciva a
liberarsi. Subaru gli aveva detto che se avesse continuato ad ignorarli senza
risolvere il problema alla radice, ne sarebbe stato distrutto. E dato che gli
aveva detto: ‘Non ce la faccio più’, l’aveva invitato lì. Era a causa di queste
parole, se aveva pensato che Subaru volesse cercare in quel modo di dargli la
forza per andare avanti, ma ammetteva che forse era stato un pensiero troppo
leggero, il suo. Un Sakurazukamori che cercava di proteggerlo era come una
barzelletta; doveva avere sicuramente qualcosa in mente, qualcosa di cui Subaru
temeva che lui chiedesse. O forse era esagerato pensarla così, vedere complotti
dietro ogni suo sorriso; quel presentimento, lo faceva solo diventare
paranoico. Ma anche se avrebbe voluto davvero credere in lui, fidarsi di lui,
non poteva davvero ignorare che c’era una parte di quell’uomo che uccideva
persone innocenti. Non dopo aver sacrificato tutto per salvare la Terra.
Dunque, l’unica
cosa che gli rimaneva da fare era tacere ed accettare quello stato di cose,
almeno fin quando non gli sarebbe stato dato di sapere. Se davvero un onore del
genere gli sarebbe stato concesso prima o poi, perché talvolta aveva la
sensazione che Subaru, certi segreti, avesse intenzione di trascinarseli nella
tomba.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
“Voglio
cercarmi un nuovo lavoro.”
Era passata a
malapena una settimana, e già Kamui gli chiedeva questo. Pensava avrebbe
resistito un po’ di più. Subaru posò le bacchette accanto al piatto, prima di
rispondere.
“Non ce n’è
bisogno. Posso pure continuare a mantenerti senza problemi.”
“Sono io ad
averne bisogno.”
Era vero: si
era reso conto che quella casa, la notte, gli metteva i brividi. Sarà stato a
causa degli incubi ai quali ormai l’associava, ma sapeva che non poteva
continuare così. Per questo aveva pensato che trovare un lavoretto che gli
permettesse di lavorare la notte, potesse aiutarlo. Magari la stanchezza gli
avrebbe offuscato la mente quel poco che bastava per impedire alla sua
coscienza di ricordare quei sogni. Ciò che lo spingeva in quella direzione, era
il fatto che ultimamente la situazione era diventata insostenibile, tanto che
erano sempre di più le ore che passava in bianco. Non sempre, ma c’erano notti
in cui le tenebre si facevano più profonde, notti che più di altre erano
animate da episodi strani, da singolari creature che gli intimavano di fuggire,
per tutto il tempo. E provava paura. Non era terrore del nulla, quello; come la
prima volta, sentiva che c’era qualcosa di fisico che lo cercava, lì dentro,
una presenza per cui il suo corpo sentiva istintivamente repulsione. Voleva
affrontare il problema, capire il perché di quell’angoscia, di quella paura che
gli stringeva lo stomaco; voleva sapere in seguito a quale trauma avesse
permesso a se stesso di creare quella creatura spaventosa che lo cercava senza
sosta. Ma non ci riusciva ancora. Quello di cui aveva bisogno ora, era il tempo
di pensare razionalmente senza preoccuparsi di nulla; doveva prima raggiungere
almeno apparentemente un equilibrio, poi si sarebbe preoccupato del proprio
inconscio. Affrontare ora tutto quello, sarebbe equivalso ad un suicidio.
Ma c’era anche
un’altra motivazione. Possibile che la solitudine fosse diventata per lui un
problema tale da non riuscire più a fare finta di niente? Perché altrimenti non
sarebbe riuscito a spiegarsi come mai negli ultimi tempi quei sogni sparivano
ogni qualvolta sentiva la serratura della porta di casa scattare. ‘È tornato’,
pensava, e la confusione svaniva dalla sua mente, lasciandolo a sonni più
tranquilli. Era quasi imbarazzante. Non aveva mai sofferto di problemi del
genere, e non gli sembrava quello il momento giusto per iniziare, ma era
l’unica spiegazione che fosse riuscito a trovare al problema. Perciò, aveva
pensato, tutto quello che occorreva fare, era semplicemente occupare quel tempo
che Subaru passava fuori casa, adeguando i suoi orari ai propri. Non che morisse
dalla voglia, infatti Subaru la notte usciva per uccidere e il fatto di rimanere
in quella casa finora gli era tornato comodo, perché era come tracciare una
linea di confine tra loro due; ma almeno ammetteva che saperlo accanto a sé gli
trasmetteva una vaga sensazione di benessere.
Subaru invece
abbassò lo sguardo con l’aria di chi non approvava, ma sapeva di non poter
impedire nulla alla persona che gli era davanti. In realtà non desiderava che
proprio lui si facesse vedere troppo in giro, e il motivo era chiaro. Lui era
il Sakurazukamori. Esporsi così avrebbe significato solo una cosa: farsi prendere
di mira e finire ucciso. Kamui era forte, ma non immortale, e là fuori era
pieno di gente che desiderava vendicarsi di lui come assassino. Era vero che uno
dei suoi compiti avrebbe dovuto essere quello di celare del tutto la propria
esistenza agli occhi delle persone normali, ma era diventato difficile farlo,
da quando aveva iniziato ad uccidere con quel ritmo. Alla fine si era dovuto
accontentare del fatto che non conoscessero la sua identità, per capire chi,
tra quelli che sapevano della sua esistenza, doveva essere ucciso e chi no. Ma
come avrebbe potuto spiegare a Kamui tutto questo? Entrare in argomento avrebbe
significato dargli l’opportunità di fare domande che desiderava rimanessero
senza risposta. Non voleva mentirgli. Voleva solo che Kamui capisse che
esistevano cose che era meglio non sapere. Per il suo bene.
“E che tipo di
lavoro vorresti?”
“Volevo provare
a cercare qualcosa come cameriere in qualche locale. Anche se l’ideale sarebbe
un part-time che mi desse la possibilità di lavorare di sera e di notte.”
La sera? Di
notte? Subaru non poté fare a meno di chiedersi perché proprio quell’orario.
Però, almeno questo gli avrebbe dato la possibilità di proteggerlo, qualora
fosse avvenuto qualcosa. Attraversare la città con i sensi di un Sakurazukamori,
era un po’ come vegliarla, in fondo. Poteva percepire tutto il marciume del
mondo, in quelle ore. Quindi decise di arrendersi.
“Non hai
bisogno di chiedermi il permesso, sai?”
Kamui lo guardò
torvo. Anche se diceva così, in realtà sapeva benissimo che Subaru desiderava
essere a conoscenza di ogni suo piccolo spostamento; lo aveva capito subito,
sin da quando aveva preteso di sapere cosa avesse fatto il giorno in cui si era
recato da Nokoru. Non avrebbe avuto senso che tutto quell’interessamento fosse
solo curiosità. Per comportarsi così, significava solo che un pericolo
esisteva, ed era reale. Bisognava solo capire di cosa si trattasse.
“Ovviamente.” E
fece per andarsene. Aveva finito di mangiare; i piatti li avrebbe fatti in un
secondo momento.
“Kamui.”
Kamui si girò.
Cos’altro voleva?
“Fai
attenzione.”
Lasciò la
stanza con l’insopportabile sensazione che ci fosse ben poco da cui guardarsi
le spalle, quando la persona più pericolosa che ci fosse in giro, si trovava
proprio sotto i suoi occhi.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Tirò un sospiro
di sollievo, quando gli venne recapitata la lettera di assunzione. Aveva
passato l’intera settimana facendo colloqui di lavoro, ma l’unico posto che lo
aveva convinto abbastanza era un locale underground, perché era un ambiente il
più lontano possibile dai gusti di qualunque persona di sua conoscenza. Non
voleva essere costretto a incontrarle, o a dare spiegazioni per la sua
sparizione, non quando queste si sarebbero rivelate inutili: non sarebbero
riusciti a riportarlo indietro, dunque era vano qualunque sforzo in questa
direzione.
Inoltre era un
ambiente che non gli era nuovo: ne aveva visitati molti di posti del genere,
quando gli servivano informazioni per prevedere quale avrebbe potuto essere il
prossimo obiettivo del Sakurazukamori. All’inizio lo avevano urtato e basta,
con la loro musicaccia troppo forte e la clientela di giovani allo sbando, ma
poi ci aveva fatto l’abitudine: non era tanto male, se metteva da parte quello
stupido perbenismo. Avrebbe dovuto servire dietro il bancone, perché il compito
di servire ai tavoli era affidato alla componente femminile, e questo gli stava
più che bene. Lo preoccupava un po’ il pensiero di non farcela, ma trovava le
sue motivazioni forti abbastanza da non scoraggiarlo eccessivamente.
Avrebbe
iniziato la sera stessa, dunque si preoccupò di usare i soldi della
liquidazione che il proprietario del negozio di fiori gli aveva versato sul
conto, per comprare abiti più adatti allo stile di quel posto: il direttore si
era raccomandato più volte di rispettare quel punto, tanto che Kamui fu
costretto a concludere che evidentemente quell’uomo considerava quel look
trasandato un po’ lo charm point del locale. Il che era desolante, perché lo
costringeva a vestire abiti a cui decisamente non era abituato. Diede
un’occhiata alla lista: abiti rigorosamente neri, anfibi, accessori di pelle …
e borchie. Diamine. Ce n’era abbastanza per far venire un infarto a chiunque.
Dato che doveva
uscire, decise di approfittare del fatto che essendo mattina, Subaru dormisse.
Almeno così non avrebbe dovuto fornirgli spiegazioni imbarazzanti prima del
tempo; e tornò in tempo per preparare qualcosa da mangiare. Aveva dovuto
imparare a forza a cucinare, dato che Subaru pareva vivere d’aria, a quanto
aveva potuto constatare aprendo il frigo per la prima volta; ma la cosa non gli
dispiaceva, perché questo gli permetteva di rendersi utile almeno in qualcosa.
Subaru arrivò in cucina già vestito di tutto punto, come al solito, e notando
le borse sul divano, gli chiese se fosse andato a fare compere.
“Ho trovato un
lavoro.”
Subaru non poté
evitare di chiedersi come fossero correlate le due cose, ma non domandò oltre.
Si sarebbe preoccupato di capire più tardi, quando il suo umore, ora
evidentemente nero, fosse migliorato.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Subaru capì
tutto solo nell’istante in cui Kamui gli apparì davanti vestito di tutto punto.
Il ragazzo temette per un lungo attimo di averlo ucciso, dato che Subaru lo
fissava come se avesse appena visto un fantasma, ma non fece in tempo a dirgli
nulla che l’altro sembrò riprendersi dallo shock, per recuperare la sua
naturale compostezza.
“Ti sta… bene.”
“Non dire
cavolate.”
Subaru sbuffò.
“Stai bene. Solo è inusuale vederti indossare
qualcosa che non sia la tua divisa scolastica.”
“Non è certo
colpa mia, se non posso più frequentare.” Sbottò queste parole girandosi, per
nascondere il rossore che gli stava salendo sulle guancie. Che imbarazzo.
Presentarsi al locale vestito così, per lui era un’autentica prova di coraggio.
E Subaru non gli era certo d’aiuto; avrebbe potuto sforzarsi di nascondere il
proprio disappunto, almeno.
L’altro,
d’altro canto, di tutto avrebbe potuto aspettarsi, meno che quello: Kamui
indossava un pantalone nero abbinato ad una maglietta senza maniche dello stesso
colore; portava una cintura con due giri di borchie piatte e vari braccialetti
in metallo ad un polso, mentre al collo aveva legato in più giri un nastro di
stoffa nera. Era bello. Non c’era molto altro da dire.
“Li hai scelti
tu?”
Kamui scosse la
testa.
“Mi sono fatto
aiutare.” Lo ammise con tono sconsolato. Aveva chiesto qualcosa di semplice, ma
non appena lo aveva visto, la
commessa, felice per il
fatto di star vestendo ‘un ragazzo così carino’, a sua detta, aveva iniziato a
dare i numeri, facendogli indossare di tutto e di più. Per fortuna era riuscito
a lasciare giù le cose che a suo avviso parevano troppo esagerate, ma per il
resto non c’era stato molto da fare, purtroppo. Aveva pagato ed si era
dileguato giurando di non rimettere più piede là dentro, anche se era
improbabile, dato che prima o poi sarebbe dovuto tornare per rinnovare il
guardaroba e quello era uno dei posti migliori sulla piazza.
“Ora devo andare.
Il mio turno inizia alle undici.”
A giudicare dal
tono con cui aveva pronunciato quelle parole, non doveva esserne
particolarmente entusiasta, notò Subaru, prima di lasciarlo alle sue cose con
un sorrisetto divertito dipinto sul volto.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Kamui non aveva
alcun dubbio sul fatto che quella serata potesse essere classificata come una
delle più strambe della sua vita. Fu introdotto dal direttore all’intero corpo
di camerieri, per la maggior parte formato da ragazze che si dimostrarono più
che disponibili nell’aiutarlo in caso di difficoltà. Con somma angoscia, gli
parve di cogliere anche qualche sguardo strano da parte di alcune di loro, ma
cercò di non pensarci. Doveva concentrarsi sul lavoro, se non voleva essere
licenziato dopo la prima sera.
E, stranamente,
si divertì. Servire tutta quella gente, essere in grado di dimenticare tutto
anche solo per un breve istante, amare la vita. Amarla per il fatto di non
sapere mai cosa ti riservi, a prescindere dal bene e dal male. E anche se era
una sensazione che non avrebbe mai pensato di poter provare, gli piacque, anche
troppo, forse. Ma non ebbe il tempo di dispiacersi di questo. Solo una domanda gli
aleggiava nella mente: perché lì si sentiva a suo agio, ma nel negozio di fiori
no? Non era sicuro di saperne la risposta, ma poteva darsi che la differenza risiedesse
nel fatto di essersi messo nella condizione di fare delle scelte proprie.
Essere Kamui: perché gli risultava così difficile? Forse perché esserlo,
avrebbe presupposto salvare Fuuma e distruggere quel mondo? Ma questo pensiero,
per la prima volta dopo tanto tempo, non gli fece alcun male. Non lì. Non in
quel momento.
Tornato a casa
verso le cinque, si accorse di ricordare a malapena i volti delle persone che
lo avevano circondato. Sapere senza per forza conoscere: perché ne era così
felice? Quella era solo una vuota sensazione. Una felicità illusoria. Ma allora
perché si sentiva ‘così’? Senza alcun peso… come volare. Lo sapeva. Aveva
sbagliato, quando all’età di dieci anni aveva permesso al suo cuore di
chiudersi al mondo esterno. Per quanto il dolore della separazione dai suoi due
amici d’infanzia fosse forte, per quanto fosse sicuro che nessuno sarebbe stato
come loro, avrebbe dovuto ugualmente aprirsi per essere ferito dagli ‘altri’.
Per maturare, per permettere al suo mondo interiore di crescere, non facendosi
più gettare nella disperazione. Per diventare forte. Forse, così, sarebbe
cambiato qualcosa? Poteva anche darsi di no; dopotutto quel destino crudele non
se l’era scelto lui, quella non era colpa sua. Per questo, ora doveva
combattere: per non essere più costretto a fare qualcosa di cui si sarebbe
pentito. Per non macchiarsi più di colpe. Per essere in grado, la prossima
volta, di salvare chi amava senza alcun sacrificio. Per vivere. Per essere
felice.
Anche senza più
il suo Fuuma.
Aside
Vi starete
chiedendo da dove è uscita fuori l’idea di un Kamui che veste borchie,
immagino. Da Tsubasa, penso^^; trovo che il look che
sfoggia lì sia di gran lunga migliore della noiosissima divisa scolastica che
si è praticamente tatuato addosso in X. Inoltre ho un debole per i vestiti
di quel genere!XD Comunque non glieli vedo male, addosso. Ma forse sono
l’unica a pensarla così… speriamo di no.^^
Ho risposto ai
commenti tramite il comando “Contatta”. È la prima volta che posto qualcosa su
questo sito, quindi se questa procedura è un problema o è più comoda, fatemelo
sapere in qualche modo.^____^
Subaru quella notte tornò a casa col timore di trovare
Kamui ancora sveglio a causa del cambio di abitudini che la scelta di quel
lavoro aveva comportato. Piano fece scattare la serratura ed attraversò la sala
cercando di fare il minor rumore possibile, ma quando giunse davanti alla porta
della sua stanza, con sollievo, lo trovò profondamente addormentato; e, cosa
importante, non stava fingendo di farlo. Si era accorto che generalmente Kamui
doveva incontrare qualche difficoltà ad addormentarsi, perché da quando si era
trasferito lì, era sempre stato sveglio quando lui tornava all’alba. Aveva
fatto finta di nulla, e aveva tirato un sospiro di sollievo quando Kamui, non
venendogli incontro pur essendo sveglio, aveva dato mostra di possedere il
tatto necessario per comprendere che umanamente parlando, in quei momenti lui non
desiderava la compagnia di nessuno. Gli occorreva del tempo, infatti, per
essere in grado di tornare ad affrontare a testa alta la presenza di qualcuno
che avvertiva come puro in confronto a sé; per poter tornare ad essere
‘Subaru’.
Gettò uno sguardo agli abiti che erano stati posati alla
rinfusa sulla sedia accanto al comodino, e alle scarpe che giacevano
abbandonate in mezzo alla camera: quel disordine non rientrava nella natura di
Kamui; era chiaro che doveva essere esausto, per riuscire a rendere anche una
camera così vuota un campo di battaglia. Però gli piaceva, quella sensazione di
vissuto; era come non essere più soli. La mente gli tornò naturalmente al
periodo in cui si era preso cura di lui mentre delirava in preda alla febbre, e
ricordò che lo aveva sentito mormorare nel sonno di creature strane, a tratti
spaventose, che popolavano ossessivamente i suoi sogni. Si era spaventato. Quegli
incubi, l’espressione tormentata di Kamui, i muscoli rigidi nello sforzo
inconscio di allontanare la sua mente da lì, lo avevano allarmato. E quelle
parole, appena appena sussurrate nel sonno: “il bianco… Tutto è rosso e nero, ora”. Aveva
continuato a ripeterle sottovoce fino allo sfinimento. Aveva cercato di
svegliarlo, ma niente, i suoi occhi erano rimasti ostinatamente chiusi, fino
alla mattina dopo. E intanto, apriva la bocca, ma non usciva alcun suono; i
vestiti fradici per il sudore gli si attaccavano al corpo, e si agitava. Era
come se avesse paura di qualcosa. Ma cosa poteva mai temere, uno come lui? Non
aveva alcun senso. Ma aveva avuto paura che non si svegliasse più. Che non
riuscisse più a condurre una vita normale.
Era per questo motivo se gli aveva chiesto di rimanere lì
con lui, ma forse aveva sbagliato. Certo, capiva perfettamente il desiderio che
lo aveva spinto a fargli una proposta del genere, ma probabilmente era uno
sbaglio permettere che Kamui gli si avvicinasse tanto. Anzi, conoscendo quel
futuro, era sicuramente uno sbaglio. Sconsolato scosse la testa. Ma che altro
avrebbe mai potuto fare? Era stato uno stupido a non sospettare che le cose
avrebbero potuto anche andare così; avrebbe dovuto pensarci sin dalla prima
volta in cui aveva parlato con quel dannato yumemi. Solo ora infatti, riusciva
a capire certe sue espressioni che la prima volta che aveva visto non lo
avevano convinto.
Girò lo sguardo verso il letto di Kamui e rimase sulla
porta della stanza a guardarlo dormire. Sorrise, pensando che il motivo per cui
aveva tanto insistito per trovarsi un lavoro, forse era proprio per potersi
permettere qualche sonno tranquillo dettato dalla stanchezza. Anche lui in
fondo aveva fatto proprio così, no? I primi tempi… non era per quello, se aveva
iniziato a stare fuori tutta la notte? Alla fine si era trasformata in
abitudine, e aveva continuato a passare la notte fuori, nonostante non ce ne
fosse praticamente più bisogno.
Realizzando la propria stanchezza, percorse il corridoio
fino alla propria stanza. Comunque era pericoloso permettere che le cose
andassero troppo bene tra loro due. Già Kamui doveva aver realizzato che
c’erano cose che era meglio non chiedere per facilitare la loro convivenza; doveva
far sì che il loro rimanesse un rapporto se non proprio sterile, perlomeno ‘a
distanza’. Il motivo risiedeva anche nel fatto che una volta, a dividerli,
c’era da una parte Seishiro, dall’altra parte Fuuma; in virtù di questo,
avevano potuto anche permettersi di stare l’uno accanto all’altro in quel modo,
quasi come vecchi amici, perché il loro risultava essere solo un semplice e
mero leccarsi le ferite a vicenda. Non che ora temesse un coinvolgimento di
qualche tipo con Kamui, solo la prudenza non era mai troppa. Non poteva
permettergli di avvicinarsi più di tanto. Una volta non uccideva. Ma ora, era
troppo pericoloso anche solo fargli intravedere l’ombra di quello che era
veramente. Non era più una questione di debolezza.
Gettò uno sguardo distratto alle carte che giacevano
sulla scrivania: ne prese in mano una a cui il giorno prima non aveva prestato
molta attenzione, e si mise a leggerla. Diamine. Era una questione grave. Di
sicuro queste cose non accadevano, quando c’era Hokuto a gestirgli il lavoro. E
avrebbe anche dovuto assentarsi per più giorni. Sbuffò a causa della seccatura
imminente. Avrebbe dovuto lasciare la casa in mano a Kamui per un po’, dato che
a portarlo con sé non se ne parlava neanche. Ma forse sarebbe servito a mettere
un po’ di quella famosa distanza tra loro due, a definire il confine tra ciò
che potevano o non potevano permettersi. Decise dunque di parlargliene quando
si sarebbe svegliato.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Quando Kamui aprì gli occhi, era più o meno mezzogiorno. Non
realizzando l’ora, per alcuni secondi fissò la sveglia instupidito e
imbambolato chiedendosi per caso se si trattasse di uno scherzo di cattivo
gusto, prima diricordarsi degli eventi
della sera prima. Le immagini di quella notte gli scivolarono davanti agli
occhi, confondendolo, anzi no, mettendolo in una strana condizione di
leggerezza: era da tanto tempo che non si sentiva così, e per questo permise a
quella vaga sensazione di impadronirsi di lui totalmente. E fu di buon umore
che si alzò: alla fine forse aveva davvero trovato il modo per ‘andare avanti’,
per quanto doloroso fosse.
Una volta vestitosi, si recò in cucina; occorreva
preparare il pranzo, e anche in fretta, a giudicare dall’ora. Subaru dormiva
ancora, ma stando alle sue abitudini, si sarebbe svegliato tra poco; dunque mise
a cuocere del riso, mentre controllava che il forno facesse il suo dovere
evitando di carbonizzare tutto, come, con suo immenso dispiacere, era già
avvenuto nei giorni scorsi. Sapeva di non essere un genio in cucina, ma il motivo
per cui si era accollato quel compito nonostante fosse un tale disastro, era
solo perché Subaru aveva dimostrato di essere peggio di lui. Era rimasto
sconvolto dal constatare come l’intera sua alimentazione dipendesse dalla
varietà di cibiprecotti che le
multinazionali potevano lanciare sul mercato. Senza contare i giorni in cui
saltava i pasti. Kamui aveva presto concluso che se avesse lasciato fare a lui,
sarebbe morto di fame, quindi si era ingegnato a fare pratica tra i fornelli,
anche se con tristi risultati. Ma Subaru non sembrava urtato dal fatto di
consumare i suoi truci ‘esperimenti’, né gli aveva mai chiesto di smettere.
Chissà, forse aveva perso il senso del gusto. Però ammetteva che la cosa gli
aveva dato fiducia. Aveva anche iniziato a fare dei progressi, anche se minimi.
Certo, si ritrovava spesso a rimpiangere la cucina di Sorata, ma si consolava
pensando che anche se si trattava solo di cibi bruciacchiati, almeno aveva dato
modo a Subaru di variare la sua dieta. Arricchendola, si spera.
Era passato un quarto d’ora, quando sentì dei passi
dietro di lui. Si girò celere.
“Buongiorno, Subaru.”
“ ‘Giorno. È il pranzo, quello?”
Kamui annuì, anche se per un attimo ebbe l’irrefrenabile
e soprattutto irrazionale desiderio di negare la cosa. No, decisamente non
aveva la stoffa per fare il cuoco. E Subaru che continuava a farlo fare, doveva
essere solo un folle masochista.
“Allora mangiamo?” aggiunse ignaro dei pensieri
dell’altro, sorridendo. Kamui allora apparecchiò la tavola, mentre Subaru leggeva
il giornale seduto sul divano. Era un’altra delle sue abitudini, quella.
/Come se un Sakurazukamori avesse bisogno di conoscere i
perché del mondo./
Ma mise da parte quel pensiero con forza. Era inutile
pensare ad una cosa del genere, non quando era stato lui a decidere di rimanere
lì; rendeva solo le cose più difficili. Dunque lo chiamò a tavola mentre
sistemava il cibo nei piatti. Avevano appena iniziato a mangiare, quando Subaru
si arrischiò a rompere il silenzio.
“Temo che starò via un po’ di giorni a partire da oggi.
Per lavoro, ovviamente.”
“Quanto?”
“Quanto cosa, scusa?”
“Quanto tempo.”
“Anche una settimana, se è necessario. Non saprei.”
Kamui non disse più nulla, dopo quello. Consumò
pensieroso il suo pasto, con lo sguardo perso nelle profondità della stanza,
quasi come se stesse pranzando da solo; poi si alzò, e dopo aver sparecchiato
alla meglio, si ritirò nella propria stanza. Subaru trovò il tutto a tratti
inquietante, ma evitando di fare commenti, lasciò che Kamui si comportasse come
più desiderava. Non era mai accaduto che non tentasse nemmeno di iniziare un
discorso. Subaru non era certo un tipo logorroico, quindi spesso era accaduto
che Kamui parlasse per due, in un certo senso. Doveva essere stato anche
mortificante per lui farlo, talvolta, ma non si era mai lamentato; sorridendo,
aveva sempre nascosto ogni timore, ogni preoccupazione, come se lasciar
trasparire qualche problema davanti a lui fosse un atto di cui non si sarebbe
mai perdonato. Chissà se quel deciso cambiamento di rotta rispetto a qualche
anno prima era dovuto al fatto che non si fidava più di lui, oppure al fatto
che era cambiato, maturato, cresciuto.
Scosse la testa. In fondo non aveva alcuna importanza.
L’unica cosa che contasse, era che Kamui sapesse che lui era in grado di capire
cosa ci fosse nascosto dietro i suoi silenzi, i suoi sorrisi; come poi
decidesse di reagire, erano fatti suoi. Sapeva che era grazie a questa
consapevolezza, se Kamui poteva mantenere ancora un equilibrio, nonostante
tutto. Ma tutto per cosa, poi? Perché Kamui potesse continuare a sorridere? Chiuse
gli occhi, trovando il tutto intriso di un’ironia tremenda; perché il pensiero
che Kamui continuasse a sorridergli in quel modo, come se tutto andasse bene,
quando invece nulla era a posto, a volte gli faceva desiderare di tornare nella
solitudine della sua stanza pur di non guardarlo.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Subaru lasciò la casa che erano le quattro, giusto il
tempo di preparare una borsa in cui mettere il necessario per sopravvivere per
più giorni fuori di lì. Prima di chiudere la porta, si girò verso Kamui, che lo
salutò con un sorriso. Chissà, forse quella strana sensazione era stata solo
un’illusione: forse Kamui tutto sommato, sarebbe stato benone anche senza di
lui. Lo guardò meglio, sperando di non trovare che il viola dei suoi occhi in
quello sguardo, ma vi scorse anche un’ombra leggera che ne guastava l’armonia.
“Che c’è?” chiese il ragazzo a disagio, sentendosi
osservato. Nell’imbarazzo, aveva anche abbassato gli occhi.
Subaru scosse la testa, delicatamente, mantenendo un
lieve sorriso sulle labbra.
“Niente.”
Aveva indovinato: sapeva che se Kamui aveva distolto lo
sguardo, era perché c’era qualcosa che non andava. Peccato non ci fosse nulla
che attualmente lui potesse fare. Per questo, dopo avergli sorriso per
un’ultima volta, si chiuse la porta dietro le spalle. Che avrebbe potuto
dirgli? Doveva andare. Non poteva rimanere lì e Kamui non aveva il potere di
fermarlo. Ma esitò. Non capiva perché Kamui desiderasse così tanto la sua
compagnia: non era in grado di capirlo. Ciò di cui era certo, era solo che ora
era meglio mettere più chilometri possibili tra lui e quel ragazzo. Per
proteggersi da lui? Probabile. Dopotutto quello era anche il motivo per cui gli
aveva permesso di stargli accanto. Per questo finse di non sentire il leggero
colpo dietro le sue spalle, segno inconfondibile che Kamui era ancora dietro la
porta e si tormentava per qualcosa –forse per il fatto di non essere riuscito a
fermarlo?- e se ne andò, quasi sperando che per quando sarebbe tornato, il
tempo avrebbe sistemato per lui tutta quella serie di problemi.
Kamui, seduto per terra con la schiena appoggiata alla
porta, sentì i suoi passi allontanarsi, veloci. Che uomo freddo era diventato:
se n’era andato fingendo di non sentire quel colpetto secco contro la porta, il
rumore della sua schiena che scivolava giù verso il suolo. Stava forse vivendo
con una persona che non si curava per nulla di lui? Ma fare un pensiero del
genere era egoista. Sperare che dopo averlo sentito reagire così non lo
lasciasse lì in solitudine, era egoista.
Per cui si alzò, per dirigersi sul balconcino situato
dall’altra parte della casa. Attraversando il corridoio deserto, venne colpito
dal profondo silenzio che impregnava quelle mura, tanto che sentì il vago
desiderio che queste non fossero così bianche, quasi come se tingerle di un
colore caldo fosse abbastanza per donare loro la vita, o il calore di un
abbraccio. Aprì la serratura della porta a finestra, e l’aria fresca lo colpì
violentemente, provocandogli i brividi. Si sporse sulla ringhiera e guardò giù:
era altissimo. Non soffriva di vertigini, ma rimase colpito dal baratro che si
stendeva sotto i suoi piedi: era quasi sconcertante. Venne distratto da quel
panorama dai rumori della città circostante; Tokyo riusciva a far sentire la
propria presenza anche da quell’altezza. E poi c’era il vento a coprire il suono
del silenzio.
Come se un po’ di rumore potesse servire a risolvere
qualcosa.
Di mal umore, rientrò, e chiuse la porta. Attraversò di
nuovo il corridoio, questa volta fermandosi sulla porta della stanza di Subaru,
perfettamente in ordine, come se lì non vi avesse mai abitato nessuno. Che
disdetta. Abitava con un uomo freddo che non solo non si curava per nulla di
lui, ma che lo teneva lì con sé senza nemmeno degnarsi di dirgli il perché.
Uccideva, non lo ascoltava, e non gli permetteva di parlare delle cose
importanti. E tuttavia era ancora lì, accanto a lui. Con quel sorriso
avvelenante dipinto sul viso, a ricordargli l’ombra di una persona che
chiaramente non esisteva più.
“Allora è possibile perdere le persone anche se sono
ancora in vita.”
Chiuse anche la porta di quella stanza. Non voleva più
essere in grado di vedere nulla. Vivere lì, che senso aveva, se non aveva il potere
di fare o di cambiare niente? E lui lo sapeva. Subaru lo sapeva perfettamente
che stare lì non avrebbe portato a nulla di buono, e non lo lasciava andare. O
meglio, Kamui non aveva fatto proprio niente per sfuggirgli.
Perché?
Un brivido gli scivolò lungo la schiena. E nella ricerca
febbrile di una risposta a quella domanda, ricordò. ‘La preda del Sakurazukamori.’
Ne aveva sentito parlare: ognuno di quegli assassini ne aveva avuta una,
secondo ciò che si diceva in giro; gli avevano detto molte volte di fare attenzione,
negli scorsi quattro anni, e lui aveva giurato a se stesso che non sarebbe
caduto in quella trappola, che non avrebbe commesso l’errore di diventare un
passibile obiettivo per lui. Non si sarebbe trasformato da cacciatore in preda.
Mai.
Eppure, aveva accettato di rimanere lì. Cosa voleva
realmente? Cosa poteva dargli Subaru, che lui non avesse già? Vita, forse?
Amaramente rise, e captò l’eco del suo stesso suono nelle orecchie, mentre
rimbombava lievemente contro i muri nudi della casa. Aveva pensato a molte
passibili risposte, negli scorsi giorni, ma non era riuscito a credere fino in
fondo a nessuna di quelle eventualità. A che pro negare quella che sapeva
essere la verità, allora? Per poter proteggere forse quel suo miserabile
orgoglio, quella sua pretesa integrità? Erano poi davvero qualcosa di così
necessario? No. Dunque perché non ammetterlo? Se aveva permesso a tutto questo
di tradursi in realtà, era solo perché una parte di lui desiderava
rimanere lì. Accanto all’unica persona che potesse capirlo.
/Che potesse ferirlo./
Imprecò. Come aveva potuto concedergli così tanto potere
su di sé? Perché assecondava ancora quel suo folle comportamento, perché
seguiva le regole di quel gioco?
Perché quello era un gioco. Il Sakurazukamori stava giocando
con lui. E Subaru? Anche Subaru stava giocando con lui? E per vedere cosa? Fin
quando avrebbe retto, per caso? Doveva andarsene, e in fretta anche. Aveva ben
visto quali potevano essere le conseguenze psicologiche di tutto quello; Subaru
ne era un esempio più che evidente. Non poteva permettersi di ridursi così, o
perlomeno non per mano sua. Era innegabile che Subaru esercitasse su di lui
un’influenza potente, ma era diverso che dal permettergli una cosa del genere.
Non era un ingenuo. Sapeva bene che era pericoloso, che
qualora lui lo avesse già puntato quale eventuale ‘preda’, c’era ben poco che
potesse fare. Fuggire non sarebbe mai stato abbastanza, a quel punto. E
nonostante sapesse tutto questo, una parte di lui, quella che vedendo il
sorriso di quell’uomo ci vedeva ancora il suo Subaru, non voleva stare in
guardia. Non voleva dubitare di lui, voleva credere in lui; voleva stare con
lui, alleviare la sua solitudine, la sua sofferenza, a costo di sacrificare
quella altrui. Chi era ‘quella persona’? Chi era quell’individuo che da dentro
gli urlava di fare questo? Di credere in questo.
Ciò lo spaventava. Non poteva fuggire e parte di lui non
desiderava farlo. Sapeva che probabilmente quello in cui era coinvolto era un
gioco crudele di cui Subaru era a malapena cosciente, ma la cosa lo irritava.
Che senso aveva stare lì? Affezionarsi a lui sarebbe stato un errore. Se Subaru
avesse voluto interpretare la parte del Sakurazukamori fino in fondo, la sua
vita avrebbe preso una piega a dir poco spiacevole. Sarebbe bastato anche un
solo momento di disattenzione per mettersi in guai seri. E non poteva garantire
che prima o poi non si sarebbe immischiato nelle faccende di Subaru, né che non
gli avrebbe fatto alcun discorsetto in preda alla rabbia. Non avrebbe più
potuto rimanere lì, e nella peggiore delle ipotesi, sarebbe diventato la sua
preda.
In un improvviso impeto di rabbia, colpì il muro con un
pugno. Dannazione, e allora cosa avrebbe mai potuto fare? Fuori non riusciva a
trovare un equilibrio. Qui, non poteva rimanere. Non poteva morire, e neanche
fare nulla per nessuno.
Puoi
semplicemente vivere, no?
Ci
aveva provato. Studiare, trovare un lavoro, realizzarsi, in modo tale da poter
morire soddisfatto, col sorriso sulle labbra. Avrebbe voluto ottenere la forza
per fare tutto ciò, ma non ora, non in quel momento. Ora, era intrappolato lì,
in un’intricata tela di ragno, in un delicato equilibrio psicologico. Ciò che
gli poteva fare, era solo crederein ciò
che stringeva tra le braccia, per quanta rabbia gli facesse il fatto di non
essere padrone della propria esistenza.
E capì anche
che in realtà il pensiero di Subaru lo rendeva furente. Una persona che non
aveva voluto permettere al proprio cuore di trovare mai alcuna pace fino ad
arrivare a ridursi in quello stato, perché avrebbe dovuto salvarlo da un
baratro, per gettarlo in un altro? E soprattutto, perché lui era ancora così
importante per il suo cuore? Un debole che aveva scelto di non vivere, come
poteva ancora procurargli certi problemi? In passato si era preoccupato
profondamente per lui, gli aveva permesso di arrivare laddove a nessun altro
era permesso, e tutto questo solo perché desiderava alleviarne le ferite. Lo
sentiva simile a sé, e gli piaceva sentire la sua presenza accanto alla
propria. Ma a dove aveva portato tutto questo? A niente. Lo aveva perso, come
tutti gli altri. Anche lui lo aveva lasciato indietro, chiedendogli addirittura
di perdonarlo. Che cosa imperdonabile, aveva pensato in ospedale, sotto
osservazione. Sarebbe stato meglio che mi uccidesse. Sarebbe stato meglio che
fosse svanito senza dire nulla, come fanno i morti. E invece, così gli aveva
dimostrato di essere ancora in vita; per questo, lo aveva inseguito. E lui,
osava coinvolgerlo in quel gioco psicologico.
Poteva
non esserne cosciente. Data la sua nuova natura, non suonerebbe strano se lo
facesse senza rendersene conto. Magari desiderava davvero solo aiutarlo, e lui
si stava facendo un sacco di paranoie per niente, dubitando così di lui. Però,
quello sguardo e certi suoi sorrisi, erano vuoti.
Kamui
ne era certo. Una parte di sé poteva anche amarlo, ma l’altra parte lo odiava.
Indissolubilmente, inevitabilmente.
“Desideri
uccidermi?” No. Desidero cambiarti.
Avrebbe
voluto piangere. Avrebbe voluto essere in grado di sussurrargli quelle parole,
di riavere indietro la persona che era come se non fosse successo mai niente,
come se quell’uomo e Fuuma non fossero mai morti. Ma non era possibile. Una
cosa del genere, era anche la più insperabile.
Passò
quelle ore guardando il nulla, incapace di fare alcunché, di trovare alcun
rimedio. Solo quando cominciò a sentire il corpo dolorante per l’immobilità
forzata, guardò l’ora: era tardi, doveva iniziare a prepararsi per andare al
lavoro. Aveva perso il senso del tempo, in quelle ore? Ancora con la testa tra
le nuvole, si vestì e si lavò, per essere fuori di casa mezz’ora dopo.
Raggiunse il locale, mentre un mal di testa assurdamente potente lo assaliva
togliendogli ogni fair play. Aveva solo voglia di prendere a calci il mondo. Era
irritato oltre ogni dire: voleva sapere, voleva dire, voleva… non lo sapeva
nemmeno lui, cosa volesse davvero. Ma comunque, tutto quello gli era proibito.
In condizioni normali, non ci avrebbe pensato; l’avrebbe presa normalmente, era
solo una delle stupide regole che quell’uomo aveva creato per tutelarsi,
dopotutto. Ma non ora, non quel giorno. Divenne furioso. Fortunatamente, le
cameriere del locale furono comprensive abbastanza da non avvicinarsi troppo,
delicate al punto da non chiedere il motivo di quella rabbia. Tutte tranne una.
Era una di quelle più fastidiose, che gli aveva fatto il filo sin dall’inizio,
quasi senza tregua.
“Vuoi
farmi il piacere di lasciarmi lavorare?” Sibilò.
“Oh-oh,
come siamo velenosi, oggi.” E poi avvicinandosi pericolosamente “Sfoghiamo
questa rabbia da qualche parte, ti va?”
Kamui
non disse più nulla, cosa che fu interpretata probabilmente come un assenso,
perché la ragazza gli si staccò di dosso facendogli l’occhiolino. Cosa stava
combinando? Quello non era certo qualcosa con cui scherzare.
Però qualcosa
dentro di lui mise a tacere anche quella voce. Non voleva più essere in grado
di pensare, per questo, quando alla fine del turno trovò la ragazza ad aspettarlo
fuori, non si curò del fatto di fare la strada con lei, di condurla fino a
quella ‘casa’, di farla entrare con sé, di sentirla lanciare gridolini di
eccitazione perché aveva a disposizione un appartamento tutto per sé. Ne aveva
abbastanza, di tutto. La vide lanciargli un’occhiata maliziosa mentre gli
indicava il divano, quel divano su cui ‘lui’ aveva l’abitudine di sedersi a
leggere il giornale, da cui ‘lui’ gli sorrideva, quando lo chiamava perché il
pranzo era pronto.
Con quei sorrisi vuoti.
Ebbe l’impulso improvviso di distruggere ogni cosa, il
divano come il suo sorriso, di ridurli, per sempre, a pezzi.
Ma tornò in sé. Cosa stava facendo?Aveva forse portato lì
quella donna per ripicca? E nei confronti di cosa? Solo perché Subaru lo aveva
lasciato lì? Il suo era un comportamento assurdo.
“Vai via, per piacere.” Sussurrò.
“Che dici?!”
“Svanisci.” Vedendo l’espressione di
Kamui, la ragazza se ne andò senza dire una parola, chiudendo la porta dietro
di sé, lasciandolo da solo con la propria vergogna, il proprio orgoglio fatto
anch’esso a pezzi, insieme a tutto il resto. Kamui si sedette sul divano, non
permettendo però al suo corpo di rilassarsi; non poteva, non voleva, /non
doveva/.
“Sei un grandissimo idiota, e anche un emerito stronzo,
Kamui.” Da quella posizione si lasciò scivolare finché non si ritrovò steso sul
quel divano e si addormentò, mentre il mondo in rosso & nero lo accoglieva
tra le sue braccia.
Aside
Dal punto di vista della storia, finalmente qualcosa
inizia a muoversi all’orizzonte, dai. (Non ci speravo più ormaiXD) Vedremo
andando avanti.^^
Dolenti notizie all’orizzonte, per quanto riguarda gli
aggiornamenti: inizia il periodo degli esami, e devo studiare, quindi non so
quando posterò il prossimo capitolo, anche perché è mia intenzione portarmi un
po’ avanti con la storia, prima. Comunque, se posterò, sarà di domenica sera,
non prima di due o tre settimane. Per darvi un’idea, attualmente ho finito
quasi di scrivere l’undicesimo capitolo, e il fatto di avere solo tre capitoli
di scarto, mi manda in paranoia.^^’’’ *me è ansiosa*
Per
Kamui fu come trovarsi nell’acqua, come essere immersi nell’utero materno. Non
era in grado di vedere nulla, ma provava una sensazione strana, simile a quella
che si prova quando si è travolti da una corrente di aria calda. Dove si
trovava? Appena lo sentì possibile, aprì gli occhi: abbagliato, l’unica cosa
che riuscì a distinguere fu uno spazio di cui non riusciva a definire i limiti,
permeato da una molle impressione di luce. Era un sogno? Ancora? Era da quando
aveva iniziato a lavorare al locale che aveva ‘smesso’ si sognare, o meglio,
tutto ciò che ricordava di quelle notti la mattina dopo, era solo una sequenza
di immagini confuse, senza senso. Ma quello… Non poteva sbagliarsi.
Gli
bastò un’occhiata per riconoscere il luogo in cui si trovava: era a casa, in
cucina, più precisamente. Era seduto in modo da dare la faccia alla finestra;
davanti a lui c’era il tavolo su cui usavano consumare i pasti, e oltre era
seduto lui, Subaru. Nonostante non riuscisse a vedergli chiaramente il volto, il
modo in cui stringeva tra le dita la tazzina di caffè nero, la compostezza con
cui era seduto, la silhouette tutto sommato esile per un uomo di quell’età:
tutto gli parlava di lui. Avrebbe voluto alzare un po’ più lo sguardo per
riceverne conferma, ma scoprì che il suo corpo non gli obbediva: quando si
mosse, peraltro contro la sua volontà, fu solo per bere la tazza di tè che gli
era davanti. Era come se fosse solo pensiero.
Per
capire il significato di quel sogno così atipico, cercò di fare mente locale
sugli avvenimenti del giorno prima nel ‘mondo reale’ ma un ronzio di fondo nel
suo cervello gli impediva di concentrarsi; dunque lasciò stare e si mise
istintivamente a scrutare la figura avanti a sé, chiedendosi perché mai non gli
fosse permesso vedere il suo volto. E subito si diede dello stupido; se c’era una
cosa da desiderare ora, era svegliarsi: non voleva vederlo anche nei sogni, non
quando il sonno era l’unica occasione per dare spessore e profondità al ricordo
di Fuuma. Tentò di chiudere gli occhi, di impedirsi di guardarlo, ma le
palpebre non si mossero di un millimetro; il focus dello sguardo era puntato su
di lui. O meglio, notò, il motivo per cui non riusciva a vedergli il volto, era
perché ciò che fissava, in realtà, era un punto imprecisato tra il petto e il
collo. Comunque, abbastanza per vederne la linea delle labbra, fredde, composte.
Che senso aveva fissare un volto che non gli avrebbe mai sorriso? L’angoscia si
abbatté su di lui. Era così senza speranza, desiderare di non capire quando il
suo sorriso era falso? Quando, se sorrideva, era solo per nascondere un vuoto
che nessuno più poteva riempire?
Quando
lo aveva conosciuto, aveva capito all’istante di avere davanti una persona
devastata. Spesso si era chiesto come sarebbe stato avere accanto un Subaru che
ancora credeva in tutte quelle meravigliose illusioni che la vita offre: era
sicuro che avrebbe cercato di proteggerlo, fino alla fine, come aveva fatto con
Segawa. Ma le buone intenzioni, come la felicità, sono pretese egoistiche. Un
Subaru del genere, era probabile che non gli avrebbe mai consigliato di essere
felice a costo di mandare a morte un’umanità intera. Non sarebbe stato in grado
di capirlo così profondamente, e lui, Kamui, avrebbe finito col tracciare una
linea di confine anche con lui; non gli avrebbe permesso di avvicinarglisi
tanto da arrivare quasi a fondersi con lui.
Ma
nonostante ciò, Subaru si era allontanato lo stesso. Aveva scelto di realizzare
il desiderio di quell’uomo, anche se questo avrebbe significato lasciarsi dietro
Kamui. E lui lo aveva lasciato andare: come Subaru aveva fatto la sua scelta,
anche lui doveva fare la sua e non poteva permettere che il pensiero di Subaru
gli fosse d’impiccio, perché non era lui la persona dalla quale poteva ottenere
la felicità. Quindi era inutile rimanergli così attaccato, desiderare di
vederlo sorridere, e tutte quelle ridicole sviolinate. Tuttora, se era
arrabbiato con se stesso, era perché il suo corpo lo ricordava e non voleva
separarsi da lui.
Si
maledì con la mente. Sembrava che fosse capace, ogni volta, di imboccare sempre
la strada più difficile e dolorosa. Sarebbe bastato andarsene, allontanarsi da
lui, e invece era ancora lì, legato ad un uomo che non aveva altra pretesa se
non vivere per uccidere. Era inutile farsi illusioni: sapeva che se lo aveva
preso con sé, era solo perché il Subaru che conosceva aveva voluto dargli una
speranza, per quanto esile questa fosse. Ma lui, Kamui, gli voleva bene proprio
per questo e per questo desiderava vederlo sorridere. E la verità era proprio
il contrario di ciò che si era augurato prima: attualmente era terrorizzato dall’eventualità
di non essere in grado di capire se il suo sorriso fosse vero o no.
Angosciato
dalla possibilità di non poter più dimostrare a se stesso di ‘essere speciale’
per lui.
Il
cuore gli divenne pesante, mentre tutta una serie di sentimenti confusi presero
a rodergli il petto. Non era stato capace di dirglielo, ma il fatto che
desiderasse restargli accanto era davvero per poterlo cambiare e nient’altro.
Per non perdere anche lui, si potrebbe dire. L’averlo cercato si sarebbe
rivelato un errore solo nell’istante in cui avesse compreso che era davvero
impossibile cambiarlo. Non voleva nient’altro. Non voleva vivere per quello, ma
questo poteva essere un buon punto di partenza, no?
Aspettò
qualche secondo, ma vedendo che il sogno non accennava a svanire, cominciò a
sentirsi a disagio. Era forse intrappolato là dentro? Ma prima che iniziasse ad
andare in panico, udì se stesso parlare.
“Subaru,
la nostra vita è davvero reale? O sono gli altri a vivere in semplici illusioni?
…Talvolta ho il sentore di star quasi vivendo un sogno dentro un altro sogno. Magari
sono io ad essere ancora in coma, ed effettivamente questo è davvero un sogno.
Quest’incubo… sento che un giorno di questi mi ingoierà.”
Cosa
stava dicendo? Perché quelle parole? Perché ora? Mentre pensava queste cose, lo
vide posare delicatamente sul piattino la tazzina di caffè che stava
sorseggiando, e appoggiare compostamente le mani sul tavolo. Per un attimo,
Kamui ebbe paura di tanta freddezza.
“Kamui,
se sei solo un sogno, allora svanisci.”
L’illusione si
dissolse. Sentendo la guancia premuta sulla pelle del divano, ricordò dove si
era addormentato la sera prima e rimase immobile, con gli occhi chiusi, con le
guancie bagnate. Quando aveva pianto? Durante il sogno? Il cuore gli faceva
male: quelle non erano lacrime liberatorie, erano lacrime di dolore. Erano
lacrime che facevano male. Aveva appena realizzato da cosa dipendesse la sua
debolezza, e Subaru gli aveva chiesto di ‘svanire’. Proprio come egli stesso
aveva detto di fare, senza tanti complimenti, a quella ragazza. Questo era
stato solo un sogno, ma l’episodio della sera prima no, era la realtà. Aveva
ferito qualcuno per colpa di quell’uomo. E questa era una cosa che non sarebbe
dovuta accadere, assolutamente. Stanco dei propri pensieri, si concentrò sul
silenzio circostante, che però non riuscì a restituirgli la calma di cui aveva
bisogno.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Passò un altro
giorno. La solitudine continuava sempre identica a se stessa, mentre durante la
notte gli incubi si fecero più oscuri, più inquietanti, più deformanti. Erano
diversi dal sogno che aveva avuto la prima notte: qui non c’era alcuna luce, e
la sensazione di terrore era notevole; essenzialmente non faceva che scappare,
ma per quanto la cosa lo seccasse (e lo seccava molto), sentiva che andava bene
così. Solo non capiva perché i suoi sogni fossero diventati tutti così simili,
devastati e coronati di terrore.
Era
come se il suo mondo in rosso&nero volesse ucciderlo.
Se tempo prima
avrebbe considerato questa possibilità assurda, ora non la riteneva più così
improbabile. Semplicemente i sogni erano notevolmente peggiorati. Si sentiva
braccato, disperato. Nonostante razionalmente non ci fosse nulla da temere,
provava puro e semplice terrore. Neanche più andare al lavoro lo stancava
abbastanza da poterli cancellare dalla sua mente, e il motivo era che
l’illusione sembrava essersi fatta più forte. Più potente. Era innegabile che
da quando Subaru se ne era andato, la situazione era peggiorata. Avrebbe voluto
che tornasse anche solo per poter trovare un po’ di pace. Certo, non poteva
essere sicuro che se lui fosse tornato, le cose sarebbero andate a posto, ma
come speranza, bastava a dargli la forza di resistere, anche se lo infastidiva
il pensiero di dover dipendere così da lui.
Quella sera si
recò al lavoro particolarmente stanco. Non era riuscito a dormire bene, e il
sonno non gli era venuto nemmeno durante quel pomeriggio. Eppure riuscì a
mimetizzare così bene la cosa, che solo una delle cameriere, una certa Kurenai-san,
se accorse.
“Ehi, tutto
bene? Non è da te sbagliare la miscela dei cocktail!”
Gli piaceva
come ragazza. Era una buona osservatrice, e andava sempre dritta al punto. E
soprattutto, non lo guardava come se si aspettasse sempre qualcosa da lui.
“Non
preoccuparti. Ho cambiato materasso, e non sono riuscito a chiudere occhio. Ma
vedrai che domani andrà meglio.”
Vedendola in
difficoltà, si offrì quindi di aiutarla a buttare i sacchi della spazzatura, ma
quando arrivarono accanto ai bidoni nel vicoletto dietro al locale, trovarono
tre ragazzi intenti a scambiarsi qualcosa la cui natura Kamui non capì in
fretta come la ragazza, che dunque li scacciò arrabbiata come si potrebbe fare
con i gatti randagi, mentre quelli la guardavano con l’aria di che viene preso
con le mani nel sacco.
“Ma cosa
stavano…?” chiese Kamui, dopo che quei ragazzi si furono dati alla fuga.
“Si stavano
drogando.”
Kamui rimase in
silenzio, troppo basito per dire qualunque cosa.
“Ma non è
quello il problema.” Continuò lei. Kamui la guardò stranito: che intendeva?
“Molti ragazzi
che vengono da noi assumono droghe. Io non sono d’accordo, ma comunque liberissimi
di farlo, ognuno deve decidere per sé. Ma bisogna saperlo fare: bisogna avere
coscienza del limite e del tipo di droga che si va assumendo. E ultimamente nei
locali come il nostro, se ne sta diffondendo una che chiamano Forsaken. È una
droga sintetica, ma i cui effetti non sono stati ancora appurati. Non tutti lo
sanno e ci cadono.”
“E tu come lo
sai?”
“Ho un parente
che lavora in polizia, che sapendo dove lavoro, mi avvisa sempre di queste
cose. Sai, come misura preventiva.” E gli sorrise.
Kamui ricambiò
il sorriso. Per un attimo aveva temuto che ne sapesse tanto perché ne aveva
avuto a che fare direttamente, ma era stato un pensiero sciocco: una come lei
non ci sarebbe mai caduta. Nascose il sollievo dietro il sorriso, e per quella
sera si dimenticò delle angosce che lo perseguitavano senza tregua. La seguì
dentro, ma vedendole il viso ancora pensieroso, le chiese se fosse tutto a
posto. Lei rimase un po’ in silenzio, poi si decise a parlarne.
“È che sono
preoccupata. Non ho ancora rivisto nemmeno uno dei ragazzi che ne facevano uso.
Non erano molti nel nostro locale, per fortuna, ma… ancora nulla.”
Kamui, non
sapendo che dire, rimase in silenzio finché non tornarono dentro. Quella non
era una questione da prendere sotto gamba, e immischiarsi poteva essere
pericoloso. Ma non riusciva a togliersi l’impressione che ci fosse qualcosa di strano.
Persone che sparivano? E dopo aver assunto droghe di cui non si conoscevano le
origini? Di sprovveduti ce n’erano molti in giro, senz’ombra di dubbio, ma
quando la voce si fosse sparsa abbastanza, una droga del genere non avrebbe
avuto più mercato. Che senso avrebbe avuto metterla in circolazione, se anche
gli spacciatori, per non perdere il loro giro, tra un po’ avrebbero smesso di
venderla?
/A meno che non
fosse un altro lo scopo di chi l’ha creata./
Rabbrividì. Non
erano affari suoi, comunque. Aveva smesso di preoccuparsi di cose simili. Sentì
una voce che dal bancone lo richiamava ai suoi doveri, quindi mise da parte
tutto e si concentrò su altro.
Tornato a casa,
la trovò ancora deserta e desolata. Nonostante tutto, era abituato a vivere da
solo, e quell’assenza non avrebbe dovuto turbarlo più di tanto, se non fosse
stato che ancora accarezzava il sospetto che Subaru volesse in qualche modo
scappare da lui. Non aveva alcun senso, dato che era stato lui a chiedergli di
rimanere, ma l’impressione era quello che era. Il resto della giornata seguì
sempre lo stesso pattern. Come se fosse ricaduto nella solita routine, le ore
in qualche modo passarono e tornò la sera. Doveva tornare al lavoro.
Il personale
del locale aveva un’entrata secondaria situata dietro al locale; Kamui vi
passò, fermandosi però pensieroso davanti ai bidoni del giorno prima. Poi,
sempre senza pensare a niente di particolare, entrò dentro. Non poteva farlo.
Non poteva farci proprio niente, anzi. Non poteva mettersi a controllare la
situazione, perché sentiva che se lo avesse fatto, si sarebbe messo nei guai.
Scacciò quel pensiero classificandolo come ridicolo e iniziò a lavorare, ma
come un pensiero fisso, ogni tanto tornava sui suoi passi e dava un’occhiata
fuori, per vedere se i ragazzi del giorno prima erano tornati. Sapeva che era
male, ma aveva voglia di fare qualcosa, e gli sarebbe andata bene qualunque
cosa, anche giocare a fare la squadra anti-droga. Voleva impegnare la mente in
modo che non ci fosse più spazio per null’altro.
Il turno finì
in fretta. Mise via le sue cose, aspettò che tutte le colleghe uscissero, e poi
chiuse le saracinesche. Salutò tutte, ma prima di andarsene decise di fare un
altro salto nel vicoletto. Per tutta sera non aveva visto nessuno e la cosa non
lo meravigliava più di tanto: la sortita di Kurenai-san del giorno prima,
doveva essere stata abbastanza efficace. Si affacciò: completamente deserto.
Tirò un sospiro di sollievo. Per un attimo era stato quasi sicuro che lì ci
fosse qualcuno: ne aveva avvertito la presenza, ma a produrre quel rumore di
foglie schiacciate, doveva essere stato quel gatto che vedeva ora laggiù. Si
fermò ad osservarlo: era nero maculato in bianco. Lo raggiunse e si chinò su di
lui, rimanendo sorpreso quando vide che non era scappato, ma che giocava con le
mani che Kamui gli poneva avanti al muso. Gli piacevano gli animali, molto.
Ma quello fu un
errore. Abbassò la guardia e questo gli impedì di evitare in tempo il colpo che
forte gli si abbatté sulla nuca. Crollò a terra, mentre poteva sentire il
sangue che colava lento dalla ferita. Maledizione. Nel tentativo disperato di
non perdere i sensi, si morse il labbro, a sangue, mentre due individui lo
alzarono di forza da terra con l’intento di caricarselo in spalla.
“Ehi, ma questo
è ancora cosciente!”
“Che dici? È
impossibile! Non dopo un colpo del genere, perlomeno.”
Ma dovette
ricredersi. Kamui non era in grado di fingere di essere svenuto; il dolore che
sentiva gli faceva vedere doppio, e nello sforzo di rimanere cosciente, teneva
l’intera mascella contratta.
“Che facciamo,
gliene tiro un altro?”
“E se lo
uccidi, poi che facciamo? Meglio non fare nulla senza il consenso del capo.”
“Portiamolo da
lui, allora. Dopotutto è perché questo tizio ha fatto la ronda tutta sera, se non
siamo riusciti ad avvicinare nessuno, stasera.”
“Buona idea.
Così se la prende con lui.”
Presero Kamui
indebolito sotto braccio, e lo portarono con sé. Era questa ‘l’avventura’ che
voleva? Bene, come desiderava, era finito nei guai. E alla faccia del ‘non
erano affari suoi’. Ora lo erano, eccome.
I due scagnozzi
lo trascinarono fino ad un deposito relativamente vicino, e suonarono la
campanella fuori. Mentre aspettavano che qualcuno rispondesse per farsi aprire,poggiarono Kamui per terra, ma dato che dopo
5 minuti buoni non era ancora venuto nessuno, iniziarono a preoccuparsi.
“Ma secondo te
è normale?”
“Riprova, no?
Magari sono nel laboratorio sotterraneo.”
“Si, ma tutti?
È impossibile che non ci sia nessuno di guardia. C’è sempre qualcuno, lo sai!”
L’altro, in un cenno d’impazienza, riprovò a suonare.
Kamui seguiva ogni passaggio con la maggiore attenzione possibile, per quanto
glielo permettesse il gran mal di testa che gli ottundeva il cervello. Quella
era una commozione cerebrale, come minimo; si andava in ospedale, e di corsa,
per una cosa del genere, e lui invece era steso lì per terra, come un cretino.
Passarono altri
10 minuti, e ancora, niente.
“Inizio ad
avere freddo, porca. E con questo tra le palle non possiamo neppure andarcene.”
“E cosa vorresti
fare, buttare giù la porta?”
“Io ci provo.”
Senza tanta
pietà nei confronti del mal di testa di Kamui, lo spacciatore iniziò a prendere
a calci la porta, furiosamente. L’altro decise di unirsi all’esempio del
compagno, e insieme con una spallata, riuscirono a buttare giù la fragile porta
d’ingresso. Kamui era appoggiato al muro poco fuori, quindi non riuscì a
guardare dentro, ma poté sentire. Quelle che arrivarono al suo orecchio furono
autentiche urla d’orrore.
Le
urla di chi ha appena visto un cadavere.
Con un enorme
sforzo, cercò di spostarsi in direzione della porta, in modo da poter vedere
cosa avesse suscitato quelle grida, ma il dolore gli attraversò la spina
dorsale come una scarica elettrica. Intanto i due continuavano a gridare, a
gridare. Poté distinguere solo in parte quello che le loro voci, quasi mischiate
in un’unica, urlarono e non gli piacque: “Chi ha fatto questo?!” , “un demone!”
e “è ancora qui!”.
Allarmato,
finalmente riuscì ad affacciarsi, ma quello che vide gli gelò l’anima.
I due malcapitati
erano inginocchiati, anche se sicuramente ancora in vita. Tra loro due si
stagliava la figura di un uomo nero, senza volto. Si concentrò, e capì che era
senza volto solo perché lo vedeva di spalle. Teneva le braccia alzate, puntate
verso le teste dei due, incapaci di muoversi, chissà per quale motivo. Lo
fissavano, e urlavano, semplicemente. Accanto a loro, un mare di cadaveri. Non
tutto ciò che vide giacere per terra, aveva aspetto umano, ma sicuramente,
qualunque cosa fossero quelle ‘bestie’, non respiravano più. Chi le aveva
uccise? Spostò lo sguardo sull’uomo di spalle, appena in tempo per vederlo
trapassare le gole dei due uomini di prima.
E vedendo il
sangue, urlò. Urlò così forte che era impossibile che quell’uomo non lo
sentisse, avvolto com’era dal silenzio della morte. E infatti si girò.
Era Subaru, con
il volto macchiato di sangue.
Se Kamui non
fosse stato minimamente preparato a quell’eventualità, probabilmente avrebbe
perso la ragione, completamente. Ma non poté impedirsi comunque di subire lo
shock di vederlo, così, per la prima volta. Le urla di poco prima si spensero a
causa dell’affanno, mentre il dolore alla nuca svaniva, per far spazio al
tormento ben più potente che prese a divorarlo. Vedendo la sua figura
avvicinarglisi, fu preso dal vago ma vano istinto di scappare. E sogno e realtà
nella mente di Kamui si mescolarono. Sovrappose il volto ghignante
nell’oscurità del mondo in rosso&nero, a quello di Subaru. Rantolò che non
doveva avvicinarsi, che quello era solo un sogno, e che in quanto tale, non
poteva ucciderlo, mentre la figura rossa e nera, bella come Biancaneve, gli si
inchinava accanto.
“Perché? Perché
sei qui?”
Subaru era
scosso. Kamui sentì le sue dita accarezzargli i capelli, mentre con il palmo
della mano gli asciugava le lacrime.
“Mi ucciderai…?”
sussurrò, senza fiato, tremando.
L’uomo non
rispose subito. Con le sopracciglia aggrottate, prese a scuotere ripetutamente
la testa, non riuscendo a trovare subito le parole. E sì che era suo diritto
chiederglielo, dato che ‘quella’ era la regola.
“No, Kamui, no.
No.” Disse, e continuò a ripeterle come una ninna nanna, come un incantesimo
che scaccia la paura e la morte dal cuore.
Se Kamui non
fosse stato sicuro che non avrebbe ottenuto risposta, gli avrebbe chiesto
perché. Perché vuoi che io viva? Ma rimase in silenzio. Non disse una parola
nemmeno quando Subaru lo abbracciò e caricandoselo in spalla, gli disse di
addormentarsi, che tutto sarebbe andato bene, dolcemente. Kamui si rilassò, lasciando
andare tutta la tensione che il suo corpo aveva accumulato fino a quel momento.
E per una volta si addormentò non temendo gli incubi che lo avrebbero
tormentato quella notte.
Aside
A chiunque non
abbia capito la questione della droga, non si preoccupi: arriveranno
delucidazioni in merito nel corso stesso della storia.^^
Aggiornamenti:
dato che devo dare ancora due esami (di cui l’ultimo il 9 febbraio), ho paura
che sarò impegnata fino a quella data. Dopo, mi impegnerò affinché gli
aggiornamenti tornino regolari come una volta, prometto. Le condizioni per
postare rimangono dunque le stesse, la domenica sera, non prima di due o tre
settimane (se non un mese, come è successo per questo capitolo, purtroppo)
Ciò
che vide quando aprì gli occhi era Tokyo. L’ennesimo sogno, pensò, mentre
muovendo qualche passo, notava come curiosamente da qualunque angolazione
guardasse la città, la ‘luce’ non cambiasse: i palazzi, alti come grattacieli,
anche avvicinandosi rimanevano neri, e il cielo, irraggiungibile, era colorato
di rosso. Avanti a sé, i vicoli che si snodavano perdendosi nell’oscurità
risultavano fiocamente illuminati da un bagliore che gli permetteva a malapena
di distinguerli, ma nonostante ciò era in grado di vedersi perfettamente, come
se brillasse. Era come essere in un disegno, in cui la chiarezza non dipende
dalla luce del sole, ma dalla precisione con cui la matita abbozza lo sfondo,
l’ambiente circostante: anche lì, tutto aveva l’aria di essere alquanto irreale,
come se fosse fatto di cartone.
E ‘lo’
sentiva. Ancora, c’era quella cosa che lo cercava, lì; da qualche parte
riusciva ad avvertirla, mentre si muoveva, si agitava, in sua attesa. Ma si
riscoprì stanco; avrebbe voluto mettere subito fine a quello strazio, per
quella notte ne aveva avuto abbastanza di scenari da incubo. Ma più cercava di
aprire gli occhi, più il mondo in rosso&nero lo teneva stretto a sé. Si
arrese, mentre meccanicamente si dirigeva in un posto più riparato, più sicuro:
non aveva voglia di fronteggiare quella creatura, o perlomeno non quella notte.
Avrebbe aspettato la prossima occasione. Si infilò in un vicolo più stretto
degli altri, mentre il terrore di ‘lei’ si faceva più potente. Era come un
fetore di morte, che inalava a fatica desiderando di sfuggirgli.
Imboccando
il primo vicolo, si ricordò di quando, cercando Arashi, si era quasi perso tra
gli stretti vicoli dei bassifondi di Tokyo, mentre il suo istinto gli diceva di
andarsene. Testardo era rimasto, e cosa aveva ottenuto? Entrare in quel mondo,
non era forse stato come fare un passo indietro? Continuava tuttora a fuggire,
senza sapere perché, senza neanche uno scopo. Non era cambiato nulla rispetto
ai quattro anni passati inseguendo Subaru, ciò che sapeva fare era solo
scappare, sfuggire alla ‘vita’. Se non si cambia, anche tornare nel mondo della
luce è inutile: in quel modo non aveva fatto che sottolineare la sua profonda
miseria, la sua enorme paura di sbagliare tutto di nuovo, ed era ripiombato
nelle tenebre. Ma era ora di crescere, anche per lui, e il modo migliore per
iniziare era uscire da lì. Raccogliendo tutta la risoluzione di cui era capace,
si guardò attorno cercando di costruire mentalmente una mappa del posto, ma lasciò
perdere quando notò che le strade sembravano apparire e svanire a seconda della
‘luce’, come in un caleidoscopio. Avrebbe dovuto andare a istinto e stare attento
a vagliare tutte i sentieri che gli si presentavano avanti.
E il
pensiero, fastidiosamente, tornava sempre lì, a Subaru. Sapeva già che
quell’uomo era un assassino, no? Allora perché gli dava così fastidio? Che
uccidesse altre persone. Erano criminali, in fondo. Persone pericolose per il
governo. Ma non erano vite umane anche quelle? Non era dignità anche questa? Non
riusciva a capire. O forse capiva, ma non voleva ammettere a se stesso che non
era quello il punto, che se Subaru uccideva, era solo perché era un
Sakurazukamori, non perché costruisse assurde gerarchie nella sua mente. Con
quel volto, uccideva. Con quel volto, gli sorrideva. Due persone nello stesso
corpo, come uno strano caso di schizofrenia. Se non fosse stato sicuro che non
era possibile, avrebbe quasi creduto che Subaru ne fosse affetto.
Ma per
quanto la negasse, ormai aveva compreso la cruda verità, era il suo Subaru a
non esistere. Anche il suo sorriso era una menzogna. Era solo lui, Kamui, a
pretendere di scorgervi anche dell’altro oltre al Sakurazukamori, anche se era
chiaro che era inutile. E gli avvenimenti di quella notte ne erano stati la
prova.
Si
perse. Immerso in quei cupi pensieri, non aveva fatto la minima attenzione a
dove girava, dunque si ritrovò in un piazzale su cui affacciavano due archi
ricoperti d’edera che non aveva mai visto prima. Non che avesse mai saputo dove
si trovasse fin dall’inizio, ma aveva notato che le strade che apparivano e
sparivano erano più o meno sempre le stesse. Irritato, prese l’arco di
sinistra, ma fatti alcuni passi, sentì il dolore, il terrore, l’ansia,
l’aspettativa, tutti i sentimenti che provava, farsi più forti, all’improvviso.
La creatura era vicina. Incerto, provò a guardarsi indietro, ma non vide che il
nulla: il sentiero si era trasformato in un vicolo cieco.
Scattò
in avanti, nel tentativo di raggiungere l’uscita prima che quella ‘cosa’ la
bloccasse, mentre il cuore gli martellava nel petto. Sarebbe cresciuto un’altra
volta, sarebbe maturato in un’altra occasione, ora doveva scappare, o sarebbe
morto per il terrore. Non voleva vederla. Non doveva vederla. Non quel giorno.
Non quella notte.
Raggiunse
l’inizio del vicolo in fretta; velocemente decise di svoltare a destra, mentre
con la mente cercava di avvertire da dove sentisse provenire più forte la
tensione per lei, ma fu costretto a procedere alla cieca, dato che non riusciva
a distinguere quasi nulla, nella semioscurità del sogno. Era come se ‘lei’
fosse in più parti lungo il percorso. Svoltò ancora a sinistra, questa volta
camminando cautamente, sentendo di non star facendo altro che avvicinarsi,
nonostante i suoi sforzi. Proseguì diritto, mentre con sollievo sentiva la sua
presenza svanire. Il respiro, mozzo fino a quel momento, riprese a farsi più
regolare, mentre il cuore si calmava. Salvo, per un pelo.
Che
stolto. Pensavi di esserti liberato così di me?
Il
terrore tornò all’improvviso, fortissimo, inevitabile; sentiva che se avesse
svoltato, se la sarebbe trovata davanti quella cosa, quindi si fermò,
appoggiando la schiena alla parete. Che fare? Scappare fino al risveglio? E
come, se non poteva svegliarsi prima del compiersi dell’incubo? Anche nel sogno
precedente aveva desiderato svegliarsi da subito, ma inutilmente. Per caso a
lui che aveva cambiato il destino del mondo, ora non era nemmeno più permesso
di cambiare il corso di un misero sogno? Scosse la testa: si sarebbe lambiccato
su questa questione un altro giorno. Ora, per uscire di lì, cosa era necessario
che capisse? Doveva svanire, e in fretta. Ma come?
All’improvviso
il muro contro cui era appoggiato svanì, rivelando un altro vicolo buio: lo
imboccò, deciso a usarlo per guadagnare tempo per pensare, ma poi si fermò. Che
senso aveva? Più andava avanti e più lei si avvicinava. Era solo un sogno
dopotutto. Qualunque cosa gli fosse successa, anche la più orribile, sarebbe
svanita al risveglio. Era solo illusione, no? Che senso aveva scappare a quel
modo, dunque? Nessuno. Proprio nessuno.
Si
girò. Questa volta il pezzo si corridoio dietro le sue spalle non era svanito,
segno che aveva visto giusto: se non avesse fatto qualcosa, quella si sarebbe
trasformata in una tremenda caccia al topo, altroché. La creatura sarebbe
arrivata da lì, lo sentiva. E sentendo dei passi avvicinarsi, seppur preda
dell’aspettativa, fece inconsciamente un passo indietro. E un altro, e un altro
ancora, finché si sentì mancare la terra sotto i piedi. Si aspettava di sentire
l’impatto col suolo, cosa che invece non avvenne. Stava precipitando in un
baratro buio, ma non riuscì a emettere nemmeno un suono; l’unica cosa di cui si
avvide prima di essere ingoiato dalle tenebre, fu la trista figura di Subaru
che lo fissava dalla cima del precipizio.
Riaprendo gli
occhi, si mise a sedere di scatto. Il cuore, ancora prigioniero del terrore che
aveva provato nel sogno, gli batteva forte; la mente, vuota. La creatura era
Subaru? Non aveva alcun senso. Perché mai quella ‘cosa’ che aveva infestato i
suoi sogni sin dall’incontro con Arashi, e di cui inspiegabilmente aveva
terrore, avrebbe dovuto essere Subaru? A meno che non si trattasse di lui, e
che quella creatura di cui aveva terrore non fosse invece il Sakurazukamori. Ma
rabbrividì; non poteva essere. Perché mai avrebbe dovuto aver paura di lui?
Solo in quel momento ricordò gli avvenimenti di quella notte, come un incubo
che pian piano riaffiora alla mente. Il mare di cadaveri. Il sangue sul suo
volto pallido. La sensazione che quell’uomo fosse qualcuno da cui non si poteva
fuggire. Non poteva essere, eppure non riusciva a smettere di pensarci: aveva
paura del Sakurazukamori e per questo scappava da lui.
Scacciò quel
pensiero in malo modo, costringendosi a svegliarsi dall’avvelenante maleficio
che quelle parole avevano gettato su di lui. Quel sogno probabilmente era stato
ispirato da quanto aveva visto quella notte; ne era rimasto suggestionato e
doveva aver sovrapposto la figura di quella cosa a Subaru. Quella creatura, che
sembrava un denominatore comune a tutti i suoi sogni, non poteva essere lui;
era impossibile e anche troppo semplice da credere. Prima di tutto non poteva
dire di provare terrore per il Sakurazukamori, dato che anche l’averlo
inseguito per tanto tempo non gli aveva mai procurato problemi del genere. In
secondo luogo, la sensazione che provava in presenza di quella creatura era
nuova; era sicuro di non aver mai provato qualcosa di simile in tutta la sua
vita. Era come se fosse disumana, come se non fosse in grado di provare amore.
Pensare che si trattasse di Subaru era assurdo.
Anche se Subaru
aveva appena compiuto una strage sotto i suoi occhi.
Premette il
volto contro il cuscino nel tentativo di soffocare lo shock, mentre nella sua
testa continuavano a girare le scene di poche ore prima. Erano tutti morti. Una
ventina di persone, accatastate l’una sull’altra, che non erano più tali, pur
recando ancora sul viso l’espressione di chi vive, di chi scopre all’improvviso
di voler esistere ma di non poterlo più fare. E poi c’era un’altra questione:
non tutti quelli che erano morti quel giorno erano esseri umani. Non ne aveva
un chiaro ricordo, ma gli era sembrato che alcuni avessero una strana
conformazione scheletrica; ed erano grossi, pelosi. Bestie, appunto. Poteva
essere colpa della droga? Aveva sentito parlare di laboratori sotterranei: per
caso si trattava di un farmaco che stavano ancora testando? Scosse a testa;
immaginare una cosa del genere era roba da film, fantascienza pura.
Piuttosto, il
governo avrebbe mandato il suo sicario personale ad occuparsi di un caso per
cui un blitz della polizia sarebbe stato più indicato? Era probabile che
avessero mandato il Sakurazukamori perché c’era qualcosa che aveva a che vedere
con l’occulto; un segreto che probabilmente non volevano cadesse nelle mani
della polizia. In effetti, come avrebbero potuto dare l’ordine a degli agenti
di operare un massacro per cancellare le prove, senza alzare un polverone tra i
giornalisti? E quei criminali costituivano davvero una minaccia per il Giappone
odierno?
Almeno era
chiaro che l’assenza prolungata di Subaru era legata a quel caso. Ma se doveva
rimanere a Tokyo, perché avrebbe dovuto comportarsi come se avesse dovuto
andarsene più lontano? Non poteva condurre le indagini da casa, come al solito?
Era forse a causa sua? Ma cosa avrebbe potuto esserci di tanto importante o
pericoloso da nascondere, da preferire d’andarsene? Sapeva che accettando di
abitare con lui, ci sarebbero state cose che non avrebbe più potuto cercare di
scoprire; ma allora perché faceva così dannatamente male? Aveva pensato che non
avrebbe avuto importanza, che anche vedendolo uccidere non sarebbe cambiato
nulla, eppure il cuore gli faceva male come se fosse stato appena pugnalato. Non
riusciva nemmeno ad odiarlo; il dolore, in quel momento come il giorno prima,
era rimasto immutato, non si era lasciato alterare da altri sentimenti. Forse perché
aveva capito che la persona che aveva incontrato quella notte non era il suo
Subaru, ma l’uomo che glielo aveva portato via.
In preda allo
sconforto, ebbe di nuovo l’impulso di abbandonare quella casa. Di nuovo avrebbe
voluto essere in grado di arrabbiarsi, di urlare, di guardarlo negli occhi
mentre gli esprimeva il suo disprezzo; eppure anche ora non riusciva ad
odiarlo. Se era un Sakurazukamori, lo era per scelta; dunque, perché doveva soffrire
per qualcosa contro cui non poteva nulla? Non era meglio andarsene, smettendola
coi sogni e con quell’insulsa speranza di volerlo cambiare? Perché doveva
ancora credere in cose del genere? Se voleva maturare, diventare più forte,
poteva farlo ovunque, no? Dato che doveva soffrire comunque, non era la stessa
cosa, lì o da un’altra parte? Come animato da questo nuovo pensiero, guardò la
porta: poteva davvero andarsene. A giudicare dal silenzio che regnava, non
c’era nessuno in casa, nessuno che gli impedisse di rompere l’accordo svanendo.
Ma la sensazione che questo fosse esattamente ciò che Subaru voleva, lo bloccò.
Se scappassi,
lui mi lascerebbe andare?
Kamui si alzò
in piedi. Proprio perché la risposta era si, prima di andarsene doveva vederlo.
A tutti i costi doveva chiedergli spiegazioni; non importava se lui poi,
sorridendo, non gli avesse risposto; doveva parlargli. Vivere al suo fianco
quanto bastava per raggiungere un equilibrio, e poi lasciarselo dietro, per
sempre: non era forse questo, quello che Subaru aveva voluto fare, invitandolo
lì? E lui invece si era lasciato trascinare da lui, da problemi che non
dovevano competergli, dal desiderio di cambiarlo per poterlo avere ancora per
sé, come una volta. Anche se sapeva che attualmente era impossibile.
E qui si ricordò
di quello che gli aveva detto la prima volta che si erano rivisti:
“È
casa tua…?”
“Si.
Una delle tante.”
E se ora stesse
alloggiando in un’altra casa, che magari era diventata la sua dimora fissa, e
non fosse più tornato? In ansia si diresse verso la stanza di Subaru. Con
sollievo notò che tutte le sue cose erano ancora lì; probabilmente quel brutto
presentimento era stato solo una sua paranoia. Forse era solo uscito
momentaneamente, come faceva spesso. Ma allora perché sentiva che se non avesse
fatto qualcosa, non lo avrebbe più visto? Era forse colpa del fatto che ormai
non lo vedeva da po’? Era per quello che aveva così paura? E poi, quel timore:
da cosa derivava? Troppe domande e nessuna di quelle aveva una risposta
precisa.
Decise di
calmarsi, di mangiare qualcosa e di distrarsi; avrebbe pensato in seguito a
cosa sarebbe stato meglio fare, ora era necessario che si schiarisse un po’ le
idee, cercando di non sforzarsi eccessivamente a causa del colpo che aveva
ricevuto il giorno prima, e che gli doleva ancora abbastanza. Solo allora notò
che stretta attorno al proprio collo, c’era una fasciatura maldestra che prima
non aveva notato, fattagli probabilmente la sera prima dallo stesso Subaru, e
sorrise un po’ nell’immaginarselo mentre si sobbarcava in imprese di cui non
era minimamente pratico solo perché era preoccupato per lui. Erano il genere di
gentilezze che di lui aveva tanto amato in passato, ma che ora gli facevano
male.
Lo squillo del
telefono lo distrasse da quei pensieri; chiedendosi se non potesse essere lui,
si precipitò in sala e alzò la cornetta, per scoprire che si trattava solo di
un suo collega di lavoro.
“Oh, sei tu.
Che c’è?”
“Ehi, cos’è quel
tono deluso? Qui c’è una baraonda che nemmeno ti immagini. Stattene a casa, ti
conviene.”
Si riferiva ai
fatti di ieri, era evidente. Con tutti quei cadaveri, doveva esserci una certa
agitazione lì intorno. Doveva far finta di nulla? Ma l’altro, sentendolo
tacere, lo tolse dall’impiccio di rispondere.
“Lascia stare,
te lo dico io. C’è un cordone di polizia che non finisce più, e tra ambulanze
che vanno e vengono, è un manicomio.”
“La… polizia ha detto qualcosa?”
“Mah, alcuni
dicono che ci sia stato uno scontro tra bande finito in tragedia, altri invece,
che si trattava di una di quelle sette strane, in cui alla fine ci si suicida
tutti in gruppo per incontrare Dio. Cose da pazzi, non trovi?”
“E sono tutti
morti…?” Nessun sopravvissuto?
“A quanto pare
si. Devo andare; comunque non venire oggi, capito?”
Kamui sospirò.
Ora sapeva esattamente cosa fare.
“Di’ al
proprietario che mancherò per l’intera settimana, per favore.”
“Cosa? E come
faccio? Non mettermi nei guai con …”
“Ti prego!”
Ci fu un lungo
secondo di silenzio.
“E va bene. Ma
gli dico che ti è morta la nonna e devi tornare a casuccia
per organizzare i funerali.”
Ci pensò su due
secondi: non era carino nei confronti della sua ipotetica nonna, ma dato che
non aveva idea di chi fosse, né se fosse effettivamente ancora in vita, optò
per quella scelta, riservandosi, qualora l’avesse mai incontrata, di chiederle
scusa per la mancanza di rispetto.
“Grazie.”
Attaccò. Si
sentiva come uno che aveva appena fatto la mossa più azzardata della sua vita,
nonché la più stupida. Avere la prova da un esterno che quella tragedia c’era
stata davvero, gli aveva schiarito le idee. Era inutile continuare a
tormentarsi inutilmente, fin dall’inizio la domanda a cui rispondere era stata
una sola: doveva rimanere o
andarsene?
Non aveva senso
rimanere, se il suo Subaru non esisteva, come non aveva alcun senso cercare di
cambiarlo se si era sacrificato per diventare Seishiro. Per andarsene però,
doveva parlargli, anche a costo di farsi licenziare a causa dell’assenza. Aveva
chiesto una settimana nella malaugurata ipotesi che Subaru avesse manifestato
l’intenzione di non tornare a breve; pensandoci meglio, non aveva nemmeno la
certezza che sarebbe tornato davvero, ma al lavoro non poteva chiedere più
giorni di così. A dargli fiducia, c’era il fatto che tutta la sua roba fosse
ancora nella sua stanza; che se avesse voluto andarsene davvero, avrebbe
sgombrato prima che lui si svegliasse. Ma a dargli la sicurezza che lui non
sarebbe tornato, c’era il fatto che ogni volta che si era preso cura di lui,
era rimasto al suo fianco fino al risveglio. Aveva fatto così persino quando
era svenuto per la faccenda di Arashi, ed erano quattro anni che non si
vedevano. Se non se n’era dimenticato, perché ora non era qui?
Scosse la testa
sconsolato, mentre si dirigeva in cucina per mangiare qualcosa.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Era ormai
passata una settimana, e Subaru iniziava a chiedersi per quanto tempo potesse
ancora continuare ad evitarlo. Era indubbio che fosse stato beccato in un
momento in cui non avrebbe mai voluto essere visto, ma comportarsi in quel modo
non contribuiva certo a migliorare le cose. Doveva tornare. Ma per dirgli cosa,
poi? Era folle da parte sua pretendere ancora qualcosa. Senza contare che la
reazione di Kamui avrebbe potuto essere imprevedibile. Era infantile rifiutarsi
di tornare, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito a reggere il suo sguardo,
non dopo aver desiderato per tutto questo tempo di celare ai suoi occhi il suo
io Sakurazukamori. E anche se in qualche modo tutto fosse andato a posto,
quanto era successo equivaleva a dare a Kamui il permesso di fargli delle
domande a cui non voleva ancora rispondere.
Non c’era altra
soluzione: avrebbe lasciato che se ne andasse, avrebbe rinunciato al folle
proposito che lo aveva spinto a chiedergli di convivere con lui. Era
necessario, per lui e per Kamui; non per essere felici, ma per non rendere le
cose più complicate di così. Avrebbe vissuto nella speranza che quel futuro non
si avverasse, pur non facendo nulla per cambiarlo. Era pericoloso, ma era
sicuramente meglio che tenersi accanto una persona che, contrariamente alle
proprie intenzioni, non avrebbe fatto altro che ferire.
Guardò
l’orologio: secondo le informazioni di uno dei Sakurazuka che lavorava per lui,
Kamui si era recato al lavoro quel giorno, dopo essere mancato per l’intera
settimana. A quanto pare aveva usato la scusa di un funerale per ottenere il
permesso, ma se fosse mancato anche oggi, sarebbe stato licenziato, dunque era
stato obbligato ad andare. Dunque questo era il momento ideale per andare a
prendere la propria roba e scomparire senza ferire più di tanto nessuno. Quindi,
risoluto, si diresse verso casa; per non essere visto dalla reception, come al
solito, dopo aver temporaneamente disinserito l’allarme con un incantesimo, entrò
in uno dei corridoi secondari del palazzo tramite una delle finestre, e salì
fino al proprio appartamento. Qui, non sentendo alcun rumore provenire da
dentro e mantenendosi il più silenzioso possibile, aprì la porta con le proprie
chiavi, ed entrò, sempre controllando che da fuori non lo vedesse nessuno.
“Sapevo che
saresti tornato solo a patto che io non fossi qui ad aspettarti.”
Subaru, nel
girarsi e vedere Kamui dietro di lui, si sentì un immenso idiota. Che diamine
di informazioni gli aveva passato, quello? Ora, a causa di quell’incontro,
tutto sarebbe diventato infinitamente doloroso.
Vedendo che Subaru
gli aveva dato la schiena per andarsene, Kamui scattò in avanti e lo fermò
prendendolo per un braccio.
“Che fai,
scappi? Ancora, scappi? Codardo…”
Subaru sapeva
che se si fosse girato verso di lui, se avesse visto quel volto addolorato
guardarlo implorandolo di rimanere lì, non ce l’avrebbe fatta ad andarsene. Lo
sapeva, eppure, si voltò lo stesso. Chissà perché Kamui mostrava proprio a lui
una faccia del genere. A lui che non era più degno di soddisfare le aspettative
altrui.
“Perché vuoi
che io resti?”
Quello era il
suo Subaru.
Indubbiamente,
sicuramente, era lui; non avrebbe potuto essere nessun altro, con
quell’espressione affranta, quegli occhi languidi. Il Sakurazukamori non
sarebbe mai riuscito a fingere un dolore del genere. Doveva rimanere, allora?
Poteva farlo? Non era senza speranza il fatto di volerlo cambiare poco a poco? Eppure
era innegabile: fuori era buio e Subaru era così; era il suo Subaru, anche se
era notte fonda e avrebbe dovuto essere il Sakurazukamori. Questa era una
realtà che non poteva essere cambiata, e che suo malgrado lo rendeva
immensamente felice, perché gli dava la certezza che il Subaru in cui aveva
creduto, non era solo una maschera, ma esisteva realmente.
Quella notte,
si era dato un ultimatum: se Subaru non fosse tornato, avrebbe deciso di rinunciare
a lui. Avrebbe dovuto andare al lavoro, è vero, ed era sceso anche di casa per
andarci, ma all’ultimo non aveva potuto resistere alla tentazione di tornare
indietro e chiamare il direttore per chiedergli un’ultima giornata di permesso.
Questi, conciliante, gliela aveva permessa, nonostante a quell’ora avesse già
dovuto essere lì; e gli aveva detto di prendersi tutto il tempo necessario per
ricordarsi quali fossero le cose davvero importanti. Probabilmente si riferiva
alla perdita dell’ipotetica nonna, ma quelle parole tuttora lo sostenevano.
Quella casa, era importante. Stare lì era importante, con Subaru, il suo
Subaru, il Subaru che conosceva. Quel tempo era prezioso; per questo lo avrebbe
aspettato ancora nonostante non lo meritasse. Ma lui era tornato. Ed era se
stesso.
“Non lo so,
davvero. Ma se adesso te ne andrai, ti odierò per il resto della mia vita.”
Il viso di
Subaru sbiancò. Kamui non seppe ben identificare il sentimento che per un
attimo sconvolse il viso di quell’uomo, ma doveva essere qualcosa di
estremamente simile alla paura, al terrore. Non avrebbe saputo dire perché
avesse reagito in quel modo, ma si permise di non farci troppo caso. Voleva
fidarsi di lui, almeno in quel momento, almeno per quella notte.
Subaru, dopo
quell’attimo di smarrimento, chiuse gli occhi, cercando di ricomporre l’espressione
del viso, di riacquistare la calma.
“È così,
dunque?” È il destino.
“Cosa?” Chiese
incerto Kamui, ma Subaru si limitò a sorridergli. Era un sorriso tormentato, ma
vero; un’espressione che gli impedì di insistere con altre domande. Doveva
fidarsi di lui. Voleva farlo. Per questo non gli avrebbe chiesto nulla.
“Sono tornato.”
Non se ne
sarebbe più andato. E questo pensiero gli fece venire le lacrime agli occhi.
“Allora, bentornato.”
Sussurrò, mentre si copriva il volto con le mani, per impedire a quell’uomo di
vedere le lacrime che gli solcavano il viso.
Aside
Con questo
capitolo si è conclusa la seconda fase della storia. Kamui ha definitivamente
deciso di rimanere a prescindere da ciò che sarà e il fatto di aver visto
Subaru uccidere è stato un fattore determinante. Vedremo come se la caverà (uh,
uh). Il prossimo capitolo invece, è di transizione e interverrà un nuovo (per
così dire^^’’’) personaggio.^^
Shannara_810: Eh, il seguito! Solo mi dispiace per
la lentezza degli aggiornamenti. Ma mi velocizzerò, lo giuro (anche con le
cattive, se necessario!XD). Approfitterò ampliamente del periodo post-esami^^
Francesca Akira89: Sul finale ho la bocca cucita, ma
posso dirti che sarà perfettamente IC, per come le cose si evolveranno (e anche
in base al carattere dei personaggi^^’’). Grazie per la recensione!
Aggiornamenti:
tornerò tra due settimane, o al massimo tra tre (qualora qualcosa dovesse
andare storto, per imprevisti o impegni vari). Oggi ho postato con un giorno di
ritardo, ma lascerei la domenica sera come data ideale.
Quella
era una mattina bellissima. Il
sole, gelido, illuminava ogni cosa lo circondasse; il cielo, terso, era
uno
spettacolo che da Tokyo non era mai riuscito a scorgere. Solo quella
dannata
sensazione di instabilità non era per niente piacevole,
pensò Kamui, cercando,
per l’ennesima volta, di sistemarsi meglio sul sedile ma con
la massima
lentezza possibile, per non creare ulteriori squilibri. Rinunciandoci,
si
limitò ad affondare il mento dentro la giacca a vento blu
che Subaru gli aveva
dato quella mattina dopo che svegliatolo, gli aveva chiesto di venire
con lui.
“E
dove?”
“Lo
scoprirai quando saremo arrivati. O
non ti va?”
“Non
ho detto questo.” Aveva sbiascicato
Kamui mentre le guancie gli si imporporavano leggermente.
Quella
reazione aveva fatto sorridere
teneramente l’uomo, che alzatosi dal letto su cui era seduto,
gli aveva dunque
intimato di sbrigarsi a prepararsi, per poter partire il prima
possibile. E
così, in meno di venti minuti erano già pronti
per uscire; Subaru gli aveva
dato la giacca blu (tenendo per sé quella nera), per
prendere poi l’ascensore,
che li aveva portati ai box sotterranei. Era la prima volta che
scendeva lì
sotto: aveva immaginato vagamente che dovesse esserci qualcosa del
genere ma
non aveva mai pensato per davvero a ciò che concretamente
avrebbe comportato il
fatto che uno di quei box gli appartenesse. Eppure, non è
che non gli
interessasse sapere che modello di auto potesse guidare una persona
come lui e
da solo non riusciva proprio a figurarselo. Un Mercedes nero, forse. O
una
decappottabile grigio metallizzato o fumo, al minimo. Nulla di troppo
sportivo;
l’immagine che si era fatto di Subaru era elegante e
silenziosa e su una roba
tipo jeep non ce lo vedeva proprio. Poi, mentre camminavano, lo sguardo
gli
cadde sulla giacca: chissà perché gli aveva
chiesto di indossarla. Capì il
motivo solo quando, spalancata la porta del garage, vide
all’interno una
elegante moto da corsa nera. Era bellissima e si sposava perfettamente
con la
sua figura sottile e aggraziata. In effetti auto del genere le avrebbe
viste
meglio su un tipo come il precedente Sakurazukamori; Subaru era
decisamente un
tipo più pratico e giovanile di lui. Fu distratto da questi
pensieri da Subaru
stesso, che gli stava allungando un casco: lo prese, lo
agganciò sotto la testa
e, non appena ebbe messo in moto, salì dietro di lui.
Peccato
che il minimo che avesse
sperimentato fino ad allora, fosse solo lo scooter mezzo scassato di un
suo
compagno di classe alle medie: se ne ricordò solo quando
Subaru, per fare un
rettilineo, toccò i 90 km/h in circa 2 secondi su strada
cittadina. Per la
prima volta nella sua vita, sperò che in quel momento
passasse un’auto della
polizia a fermarli, cosa che sfortunatamente non avvenne. In autostrada
poi,
l’incubo si rinnovò più spaventoso che
mai: 170 km/h. Ecco la prova definitiva
che Subaru era un criminale. E senza rendersene conto, si strinse a
lui, forte.
Si sentiva le gambe molli come il budino, e quando lui curvava o
sorpassava un
camion, stava ancora peggio, perché aveva sempre la
sensazione orribile di star
per cadere dal mezzo. Con gli occhi chiusi, si accorse di star
stringendo la
sua schiena solo quando Subaru girando appena la testa, gli
urlò in mezzo al
frastuono del vento di non essere così teso e di provare a
rilassare i muscoli.
Kamui allora, rendendosi conto di cosa stesse facendo, lo
mollò all’istante
chiedendogli scusa, mentre si sentiva la faccia andare in fiamme. Che
vergogna:
tra un po’ sapeva volare, e non reggeva quella
velocità su una moto. Subaru
allora gli disse di tenersi pure se ne sentiva il bisogno, ma perlomeno
di non
soffocarlo.
“Non
subire il vento. Sentilo.”
Questa
frase, lanciatagli quasi per caso,
ebbe stranamente l’effetto di tranquillizzarlo. Aggrappandosi
alle maniglie
poste sotto il sedile, tirò un profondo sospiro ad occhi
chiusi. E divenne
vento.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Erano
ancora per strada, quando di fianco
a loro si aprì il mare. Kamui rimase per un attimo estasiato
a guardarlo; poi
fu colto da un profondo senso di smarrimento: il passato, il presente,
il
futuro, si fusero in quell’unica emozione, violenta, tenace,
mentre il pensiero
gli tornava ancora una volta sugli avvenimenti di qualche giorno prima.
Il
ritorno di Subaru, quelle parole di cui aveva l’impressione
di non riuscire a
cogliere il vero significato, e soprattutto il tono straziante della
propria
voce mentre lo implorava di non andarsene: che senso aveva tutto
quello? Perché
era rimasto? Più il tempo passava, più aveva la
sensazione che nulla più
sarebbe stato come prima. Come se qualcosa quella notte si fosse
spezzato. Il
‘cambiamento’ era ormai inarrestabile? Subaru,
d’altro canto, sembrava essere
decisamente più calmo e sereno; ora non si sforzava
più di sorridergli, e le
sue espressioni gli risultavano tutte molto naturali. Poteva illudersi
che lo
avesse accettato? In realtà non capiva Subaru. Le
affermazioni di quella notte
avrebbero dovuto allarmarlo e di conseguenza allontanarlo da
sé, dato che erano
il chiaro sintomo di un attaccamento che era sicuro che lui volesse
evitare, e
invece… Non concluse il pensiero, confuso
dall’odore forte della salsedine:
erano arrivati nei pressi della spiaggia.
Subaru
spense il mezzo, lasciandolo nel
parcheggio del lido attiguo, deserto. Poi, invitò Kamui a
proseguire pure a
piedi nudi sulla sabbia, qualora lo desiderasse; ma notando che Subaru
stesso
non sembrava intenzionato a seguire il suo stesso consiglio,
declinò l’invito.
“Non
voglio sporcarmi i piedi.”
“Come
vuoi.”
Subaru
lo condusse attraverso quel tratto
di spiaggia senza dire una parola; arrivato al blocco di scogli che
segnavano
la fine della spiaggia, si arrampicò fino a giungere
dall’altra parte, dove
c’erano dei cespugli molto alti dalle fronde molto folte.
Aspettò che Kamui lo
raggiungesse, e poi spostando i rami, rivelò al di
là di quelli una piccola
grotta, invisibile dall’esterno. La attraversarono, e si
ritrovarono davanti ad
una piccola baia che sembrava essere rimasta incontaminata fino a quel
momento.
Incredibile che ci fossero ancora posti del genere, in Giappone; era
davvero
magnifica. Osservandola, notò in lontananza una casa sul
mare, in legno.
“Era
questo che volevi farmi vedere?”
“Aspetta.
Ciò che voglio mostrarti,
precisamente si trova in quella casa lì.” E gliela
indicò con un leggero cenno
del viso.
Mentre
camminavano, gli spiegò il resto.
“Questo
luogo l’abbiamo scoperto mia
sorella ed io quando da piccoli venivamo a giocare qui. Era la spiaggia
che lei
preferiva in assoluto, la considerava un po’ il simbolo della
sua infanzia
felice.” Come anch’io, d’altronde.
Il
tono di voce, modulato e perfettamente
calmo, combinato con quella voce bassa e vellutata, donavano alla pace
di quel
posto, pensò Kamui. Era come un incantesimo da cui non
voleva svegliarsi. Era
da tanto che non si sentiva così sereno, forse da anni,
addirittura, eppure si
trovava ad appena tre ore di viaggio dalla caotica Tokyo.
Cos’è che c’era di
diverso?
Fu
a quel punto che raggiunsero la casa.
Kamui notò che il lato sud dava su altri alberi e cespugli,
dietro cui si
ergevano altri scogli che chiudevano in una semicirconferenza quasi
perfetta
quel paradiso; sul lato ovest si affacciava il mare, sconfinato. Gli
altri due
lati invece davano sulla spiaggia; l’ingresso era davanti a
loro, sul lato
nord. Subaru bussò delicatamente sulla porta in legno, e in
pochi secondi una
donna aprì loro, facendoli accomodare all’interno.
“Il
signorino sarà qui a momenti.” E detto
questo si ritirò.
Il
salottino quadrato che si aprì davanti
ai suoi occhi aveva un’atmosfera accogliente. Sulle pareti di
legno erano
appesi molti quadri, tutti dipinti con colori molto caldi; il
divanetto,
coperto di cuscini variopinti, aveva un’aria molto comoda,
come anche le varie
poltroncine in vimini. Gli piaceva quel posto: nulla a che vedere con
la
freddezza con cui Subaru aveva arredato il suo appartamento.
Dall’altra parte
rispetto al divanetto, poi, c’era una porta da cui poteva
intravedere le altre
stanze. Seguendo l’esempio di Subaru, si sedette, aspettando
di capire cosa lui
volesse mostrargli trascinandolo lì. A chi apparteneva tutto
quello? E poi,
perché lo aveva portato lì così
all’improvviso?
La
confusione aumentò quando, vedendo
sopraggiungere il ‘signorino’, ne riconobbe il
volto: era Kakyo, l’indovino dei
draghi della terra. Era arrivato con passo leggero da una delle stanze
attigue
al salotto, avvolto in uno yukata azzurro cielo.
“Subaru,
non ti aspettavo. E… Kamui?”
Kamui, senza parole, lo vide prima gettare un’occhiata a
Subaru con aria
stranita, il quale però si limitò a sorridergli
ricambiando il saluto, e quindi
poi lasciar cadere la questione, prendendo posto su una poltrona
lì accanto.
“Tu
sei vivo?” Ero convinto fossi morto.
Kakyo
gli sorrise dolcemente, mentre con
lo sguardo gli fece capire che anche quelle erano cose che potevano
accadere:
con la vita, non si sa mai.
“Ricordi
l’ultima volta che ci siamo
visti?”
Kamui
annuì: lo ricordava bene, era stato
poco prima che la ‘tragedia’ si avverasse.
“Avevi
appena ucciso Hinoto ed io ti sono
apparso per chiederti se fossi sicuro di cosa avessi scelto. Tu mi hai
risposto…”
“…che
avrei cercato di capire a tutti i
costi perché noi esseri umani non ci curiamo davvero delle
persone che amiamo e
quale fosse il desiderio di Fuuma. Perché avevo promesso a
me stesso che non
sarei più scappato dalle cose importanti.” Anche a
costo di perdere la
felicità.
Ricordava
tutto quello come se fosse ieri,
ogni singola parola. Quando era in ospedale, aveva passato intere
settimane
pensando a dove avesse sbagliato, quale fosse il punto in cui aveva
messo il
piede in fallo, e quel fiume di parole senza senso erano state
l’unico appiglio
per non perdere la ragione. Migliaia di volte se l’era
ripetute nella testa,
scoprendo di non riuscire a pentirsene neppure una volta.
“Anche
se il tuo desiderio è quello che
è?”
“Sì.
Anche se il mio vero desiderio è
essere ucciso da lui pur di non fargli del male.”
“Allora
esiste davvero una speranza.”
“…Una
speranza?”
“Che
il futuro cambi.”
Solo
in quel momento gli tornarono in mente
le parole di Kotori: “Perché il futuro non
è stato ancora deciso”.
Kamui
gli sorrise. Avrebbe scelto lui il
suo destino, nessun altro. E sarebbe andato tutto bene, ne era sicuro.
Kakyo
riprese a parlare distogliendolo
così dai suoi pensieri, da quel dolore pungente che aveva
ripreso a scavargli
nel petto al ricordo di tutto quello che era successo.
“È
stato in quel momento che ho capito che
avresti deciso di cambiare il futuro. Sai, la verità
è che io sarei dovuto
morire, se tu avessi scelto altrimenti. Come desideravo, sarei stato
ucciso da
Fuuma. Solo lui avrebbe potuto farlo, perché era
l’unico a cui avessi aperto il
mio cuore.”
“Gli
avevi aperto il cuore…?”
Kakyo
annuì, silente. Con espressione
grave si girò a guardare Subaru, che aveva ascoltato tutto
senza fare una
piega, ma non vedendo alcun segnale provenire da lui,
continuò.
“Penso
che in realtà Fuuma non avesse mai
avuto alcuna intenzione di uccidermi, o perlomeno sicuramente non da un
certo
punto in poi. Lui credeva in te, Kamui. Lui sperava che tu lo salvassi
da
quella ‘follia’. Sperava che tu lo uccidessi.
All’inizio non ci credeva nemmeno
lui, ma poi se n’è convinto per davvero. Per
questo Subaru ha impedito che io
morissi.”
A
quelle parole corrispose una stonatura:
era stato Subaru a salvarlo?
“Subaru?”
disse piano, guardando in viso
lui piuttosto che l’indovino.
“Si.
Dopo la battaglia finale, mi ha
chiesto di venire con lui.”
Non
era sicuro di aver capito bene. Questo
significava che mentre lui giaceva piangente sul corpo freddo di Fuuma,
Subaru
si era dato pena per Kakyo, piuttosto che per lui? Questo pensiero
irrazionale
gli fece male. Sapeva perfettamente che in quel momento non avrebbe
avuto alcun
senso che Subaru si occupasse di lui, perché non
c’era nulla che lui potesse
materialmente fare. Inoltre Kakyo rischiava di star per suicidarsi,
mentre lui
era un’altra questione. Ma poi ricordò. Se Subaru
gli aveva chiesto di
perdonarlo, non era perché anche lui voleva morire? Oppure
glielo aveva detto
perché sapeva che avrebbe salvato Kakyo e non lui?
Però era grazie a
quelle parole, se era sopravvissuto. Per questo unico insignificante
motivo. In
un momento in cui il pensiero di Subaru avrebbe dovuto essere
pressoché zero,
notare che lui era lì, che esisteva ancora, gli aveva dato la
forza. La
forza di vivere. Anche nella disperazione.
Questi
pensieri lo misero a disagio. Non
voleva pensare di Subaru in questi termini, o avrebbe finito con
l’abbattere le
ultime barriere che lo dividevano da lui. In fondo esisteva una parte
di sé che
non voleva perdonarlo assolutamente per quello che aveva fatto e per
quello che
era diventato, che non voleva avvicinarglisi più di tanto;
la stessa che gli
aveva detto di scappare via quando Subaru gli aveva proposto di
rimanere. E
sentiva che era un bene mantenere le distanze, anche se a volte gli
risultava
difficile. Per questo accantonò questi pensieri e si
concentrò sull’altro
versante del discorso.
“Fuuma
è sempre stato se stesso, sin
dall’inizio. Io semplicemente non volevo rendermene conto,
perché rifiutavo che
lui, una persona così gentile, potesse togliere la vita in
quel modo ad altri.
Non potevo accettare un ordine di valori diverso dal mio, il fatto che
lui
distruggesse il presente per poter creare un futuro. Ma nonostante
questo
ideale, alla fine ha voluto ugualmente farsi uccidere da me. Non lo
capisco, è
come se qualcosa non avesse senso. Non era un folle,
eppure…”
“È
vero, non era un folle. Ma si era
innamorato di te.”
Il
dolore gli trafisse il cuore.
“Lui
non me lo ha mai detto.”
“Ma
lo pensava. Ed io, quando ci sono
arrivato, era ormai troppo tardi.” Mi dispiace.
Kamui
non rispose. Guardava a terra,
fisso, mentre con la mente cercava di capire quelle parole, senza
riuscirci.
Come poteva saperlo? Come poteva esserne così sicuro? Non
aveva alcun senso; se
lo avesse amato glielo avrebbe detto, no? Non avrebbe avuto motivo di
tacere
una cosa così importante. Inoltre, era sicuro che lui
sapesse che se glielo
avesse detto, non ci sarebbe stato modo che lui, Kamui, potesse
respingerlo:
una vita insieme a Fuuma era ciò che da sempre lo avrebbe
reso felice più di
ogni altra cosa al mondo, no? Quindi perché esitare? No,
c’era qualcosa che non
tornava e che ora non avrebbe più potuto capire.
“Kamui,
c’era una cosa che Fuuma avrebbe
voluto che tu avessi.”
Kakyo
si alzò e aprì le ante dell’armadio
nell’angolo; da qui tirò fuori un oggetto lungo e
stretto, avvolto da molte
bende, e lo porse a Kamui.
“Aprilo.”
Il
ragazzo sciolse i cordoni che
sigillavano l’oggetto, e ne trasse quella che riconobbe come
la spada divina
appartenente una volta a Fuuma.
“Perché
ce l’hai tu?” Disse senza fiato.
La
ricordava, fin troppo bene. Adagiata lì
accanto al suo corpo, linda e meravigliosamente crudele. Nel dolore
aveva
provato l’irrazionale desiderio di distruggerla, ma poi era
svenuto e
risvegliatosi in ospedale, non l’aveva più vista
accanto a sé. Non aveva
chiesto, non gli interessava: aveva la sensazione che qualora
l’avesse rivista,
il dolore sarebbe stato troppo grande per poterlo sopportare.
“Mi
aveva chiesto lui di prenderla con me.
Non ne conosco il motivo vero. Ma questo prova che fin
dall’inizio lui non ti
ha odiato neppure per un attimo; da sempre, ciò che
desiderava era che tu lo
uccidessi e poi vivessi felice. Come se ritenesse necessario
proteggerti da
lui.”
Gli
tornarono in mente le vivide immagini
della sua infanzia, i giochi, le risa, quella felicità quasi
tangibile; Kotori,
il suo volto, il suo sorriso, mentre gli correva incontro, e Fuuma, che
con
quelle sue grandi mani lo aveva sempre protetto da tutti. E quella
promessa: se
tu proteggerai Kotori, io proteggerò te.
Io
ti proteggerò. Da me.
Le
lacrime presero a scendergli lungo il
volto, copiose; come se fossero anni che stesse aspettando quel momento
e ora
non fosse più in grado di fermarsi. Era come un bambino. Si
sentiva inerme,
completamente: se in quel momento anche solo un po’ di vento
lo avesse colpito,
sentiva che sarebbe stato portato via, lontano. Non sarebbe tornato
più
indietro.
Kakyo,
vedendo quella reazione, fece per
alzarsi ma Subaru fu più veloce: senza una parola,
circondò col braccio il suo
corpo scosso dai singhiozzi e se l’attirò al
petto, stretto. E Kamui, se avesse
potuto parlare, lo avrebbe ringraziato, perché sapeva che se
in quel momento avesse
dovuto realizzare di non avere niente da stringere, il suo cuore non
avrebbe
retto al colpo: senza il calore di un abbraccio a trattenerlo,
probabilmente si
sarebbe lasciato andare al nulla, ancora una volta; e tutto ne sarebbe
andato
distrutto, compreso il desiderio di un folle che si era lasciato
uccidere per
mantenere una sciocca promessa.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Il
tramonto di cui si poteva godere da
quella spiaggia, era uno spettacolo meraviglioso; per cui su esplicita
richiesta di Subaru, verso le quattro del pomeriggio (il tempo di
prendere un
te insieme), uscirono all’aperto per poterlo ammirare. Kamui,
desiderando
rimanere da solo, si era seduto molto avanti rispetto agli altri due
sugli
scogli appena affioranti sull’acqua e da lì
fissava il mare, meraviglioso,
eterno; sul grembo teneva la spada divina, mentre la mente, assente,
viaggiava
via lontana. Subaru, preoccupato ma senza il coraggio di avvicinarsi,
lo
osservò per un po’ da dietro, dal fondo della
spiaggia dove era rimasto con
l’indovino. Solo quando si accorse che Kakyo aveva iniziato a
parlargli,
distolse lo sguardo dal ragazzo per focalizzare la sua attenzione su
quello che
l’altro gli stava dicendo.
“Perché
l’hai portato qui?”
Che
domanda inopportuna.
“Volevo
avesse la spada. Gli spetta di
diritto, no?”
Pronunciò
quelle parole con un tono
leggermente infastidito e senza guardarlo, con gli occhi rivolti verso
l’orizzonte. Kakyo ridacchiò, delicatamente. Forse
non era cosciente, ma ogni
volta che parlavano e Subaru voleva nascondergli qualcosa, distoglieva
sempre
lo sguardo. Dunque, c’era dell’altro.
“Sapevi
che non ero d’accordo, sul fatto
di portarlo qui. Soprattutto a causa delle tue intenzioni.”
Subaru
sospirò. Kakyo a modo suo sapeva
essere una persona molto testarda; quando si metteva in testa qualcosa,
era
impossibile cercare di sviare il discorso. Dunque lo
assecondò.
“Parli
come se io avessi chissà quale
scopo criminale.”
“Non
è questo il punto, no? Sai meglio di
me quanto abbiamo rischiato dicendogli quelle cose su Fuuma.
E se gli
avessimo spezzato il cuore?”
“Non
è successo.”
Kakyo
aggrottò le sopracciglia in
disaccordo. Poteva accadere, però.
Insistette. “Mi sembrava che la
scorsa volta la pensassi diversamente. Hai già dimenticato
che per evitare quel
futuro era meglio che io e lui non ci incontrassimo?”
Certo
che non lo aveva dimenticato. Come
avrebbe mai potuto? Per un lungo momento, tacque. Sapeva quello che
avrebbe
dovuto dire, ma non era sicuro di volerlo fare. Ma alla fine cedette.
“Io
non voglio che Kamui perda di vista Fuuma.”
Dato
che Kakyo faceva mostra di non
capire, gli raccontò tutto quello che era accaduto in quei
giorni, la sua
assenza, l’intenzione di non tornare più e la
frase che l’aveva trattenuto lì
accanto a lui: ‘se adesso te ne andrai, ti odierò
per il resto della mia vita.’
Era sbiancato sentendo quelle parole; aveva avuto paura che tutto
ciò che aveva
fatto gli si fosse ritorto contro. Che senso aveva avuto desiderare di
andarsene per non interferire più di così con
quel destino che voleva evitare,
se poi in quel modo se lo tirava addosso peggio di prima? Sapeva di non
avere
la forza di cambiare il fato, ma non accettava di essere ancora una
volta il
promotore inconsapevole della propria disgrazia. Se ormai era troppo
tardi per
tornare indietro, se a portare a quel futuro sarebbe stato il desiderio
di un
Kamui abbandonato di stargli accanto, allora non lo avrebbe lasciato
lì. Per
quanto questa decisione fosse un’arma a doppio taglio, gli
sarebbe stato
accanto, anche a costo di dovergli spezzare il cuore ricordandogli di
Fuuma nel
patetico tentativo di tenerlo lontano da sé; per potersi un
giorno separare da
lui senza diventare il centro del suo mondo. Perciò
l’aveva spaventato tanto
sentire quelle parole. Tutto quello che aveva pensato di fare per il
suo bene,
non aveva avuto alcun senso? Allora a quel punto sarebbe stato meglio
non fare
nulla sin dall’inizio. Non prenderlo con sé, non
impegnarsi tanto per
restituirgli almeno una parvenza di equilibrio, di
quotidianità, di routine.
Nemmeno
pronunciare quel ‘perdonami’.
Quel
pensiero lo riportò alla realtà. Si
accorse che la conversazione con Kakyo era sfumata già da un
po’, e che anche
l’altro aveva taciuto per tutto il tempo, immerso nei propri
pensieri. Nel
silenzio, la sua attenzione venne nuovamente attirata dal sibilo
leggero che il
vento produceva infrangendosi contro le onde; Kamui era ancora
lì, perso nel
suo mondo. Ad un tratto l’indovino si volse a guardarlo con
una strana
espressione sul viso, di esitazione mista ad aspettativa.
“E
se… dovessi innamorarti di lui?”
Subaru
gelò sul posto. Dato che aveva
preso a guardarlo come se l’indovino avesse appena dichiarato
che Babbo Natale
esiste, Kakyo si sbrigò a rettificare.
“Solo
per ipotesi, certo” e qui si schiarì
la voce nervosamente “però se l’hai
portato qui, non è stato solo per riguardo
nei confronti di Fuuma, vero?”
Ma
che…
Respirò profondamente per calmarsi.
“E
sentiamo, quale sarebbe l’altro
motivo?”
“Tu
volevi che Kamui smettesse di
colpevolizzarsi per aver scelto un futuro che non aveva portato che
sofferenza.
Volevi dimostrargli che esistono anche persone, come il sottoscritto,
che dalla
sua tragedia hanno tratto la forza per continuare a vivere.”
“Anche
se fosse, non mi sembra che abbia
tutta questa importanza, no?”
“Forse
si, forse no.” E sorrise. Subaru
odiava quel suo modo di fare; era un atteggiamento che non gli
permetteva di
credere di essere al comando delle proprie azioni. Comunque quella era
solo una
sua opinione; nulla gli vietava di pensarla in modo completamente
opposto al
suo.
…O
no? Rabbrividì, avvertendo d’improvviso
la necessità di difendersi da quelle parole.
“Dimentichi
chi sono.”
Kakyo
abbassò lo sguardo tristemente,
mentre il dolore travolgeva ogni singola cellula del suo corpo. Per un
attimo rivide
il cadavere di Hokuto e il suo carnefice in piedi avanti a lei che lo
guardava.
“Tu
non puoi salvarla.” Tu non puoi
salvare nessuno.
Il
Sakurazukamori.
Respinse
quel pensiero con tutta l’energia
possibile. Non doveva pensarci. Quel giorno, quando Kamui aveva
cambiato il
destino del pianeta, aveva promesso a se stesso che non si sarebbe
più fatto
abbattere da una cosa del genere; aveva deciso che si sarebbe preso
cura della
persona per cui la donna che aveva amato aveva ritenuto di dover dare
la vita. Avrebbe
protetto Subaru, dato che lei non poteva farlo più, e lo
avrebbe fatto a
prescindere dal fatto che fosse il Sakurazukamori, perché
lei così avrebbe
voluto.
Perché
quello era l’unico modo per poter
continuare a vivere.
Deciso,
alzò lo sguardo fino ad incontrare
nuovamente il suo, mentre cercava nella mente le parole adatte. Voleva
la
verità? Bene. Si vede che aveva bisogno di sbatterci contro,
per comprendere.
“Avresti
potuto ucciderlo. Eliminare alla
radice il problema. Invece non l’hai fatto. Hai desiderato
che lui vivesse.
Perché? Semplice, tu non volevi che lui morisse. Anche
quella volta, quattro
anni fa… non gli hai detto quelle parole per legarlo alla
vita? Per essere in
grado un giorno di rincontrarlo. Non volevi ingannarlo,
perciò hai tentato di
scomparire dalla sua vita. Non puoi uccidere il Sumeragi che
è in te,
dopotutto. E ora mi dici che lo condurrai alla disperazione per un tuo
desiderio? Io non ci credo. Non voglio credervi, perché ora
so che esistono
futuri che possono essere cambiati, come esistono persone che possono
essere
salvate.”
Lungo
silenzio.
“…È
tardi.”
Lo
disse piano, come se quelle due parole
fossero fatte di cristallo e avessero potuto infrangersi da un momento
all’altro. E mentre il vento le portava
all’orecchio dello yumemi, come per
mettere fine al discorso, Subaru prese a camminare verso il mare.
Era
folle.
Pensare
che fosse ancora in grado di
amare, era folle.
Soprattutto
se ora come ora, l’altra parte
era Kamui.
Il
ragazzo non si avvide dell’uomo se non
quando se lo vide accanto, in piedi sugli scogli affioranti su cui era
seduto.
Alzò la testa per guardarlo in volto e incontrò
il suo sguardo a mezz’aria. I
suoi occhi… era come se avesse pianto. Perché? Si
alzò per osservarlo meglio e
questa volta fu in grado di captare anche un’altra emozione
imprigionata nelle
sue iridi: il rimorso. Di cosa avevano parlato, lui e Kakyo? Allungando
le
braccia, gli toccò il viso con entrambe le mani, mentre
Subaru chiudeva gli
occhi, lasciando che l’altro lo toccasse. Sembrava
leggermente invecchiato,
rispetto a poche ore prima. Era un’illusione? Lo
guardò meglio.
Quel
volto…
Fu
come scottarsi, come bruciare e
diventare cenere. Solo che lui non era in grado, come le fenici, di
rinascere.
Ritrasse le mani, in fretta, mentre Subaru riapriva gli occhi,
spaesato. Kamui
distolse lo sguardo: cosa gli era preso?
Subaru
sorrise.
“È
ora. Torniamo a casa?”
Kamui
annuì, chinandosi a prendere la
spada divina. E solo mentre Subaru gli dava le spalle, ebbe il coraggio
di
ammettere in un sussurro la propria debolezza.
“Perdonami…”
Ma
il vento portò via ogni cosa.
Aside
“Love
the Nemesis” è ufficialmente
sospesa, almeno per il momento. Questo è
l’ultimo capitolo che ho scritto
e, fin quando non recupererò l’ispirazione
necessaria per continuarla, rimarrà
incompiuta.
Scusatemi
per la lunga attesa che questa
decisione ha dovuto prendere.