Piccole mani di Briseide (/viewuser.php?uid=1240)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PRIMA PARTE ***
Capitolo 2: *** SECONDA PARTE ***
Capitolo 3: *** TERZA PARTE ***
Capitolo 1 *** PRIMA PARTE ***
DISCLAIMER: Fatti e persone
citati sono puramente casuali. Qualsiasi somiglianza o coincidenza
è altrettanto casuale. Tranne il traffico
sull’Aurelia.
Note:
1.
Il racconto è correlato al precedente Cliché ma solo in quanto ad
un personaggio comune (Andrea) e ad altri citati solamente (Chiara,
Amanda). Piccolemani è a se
stante e può essere letto tranquillamente senza aver letto
prima Cliché (benché se
voi voleste, è sempre lì XD), e temporalmente
è successivo di pochi mesi.
2.
Sono tre parti già terminate (chi mi segue da The way we
were non crederà che a parlare sia io XD) quindi
l’aggiornamento è prestabilibile e
cadrà di sabato in giornata!
3.
Nel corso della storia compaiono tematiche letterarie etiche o
teologiche che siano, sentitivi liberi di dissertare, credo nel dialogo
e nella sofferta e indispensabile arte della dialettica (e forse per
questo a breve mi verrà tolto il diritto di voto,
chissà.) Citando Hillman: “Vi
prego, non siamo a scuola e io non sono il vostro istruttore: lasciate
parlare le idee.” =)
4.
Roma compare molto perché sono vent’anni che ho a
che fare con lei e per quanto controverso sia il mio sentimento nei
suoi confronti e per quanto la trovi mefitica e per quanto i romani a
volte suscitino in me sommo fastidio – solo alcuni
–, credo di esserne un po’ innamorata. Citerei
Majakovskij ma poi diventerebbe troppo sentimentale il tutto (e poi
Roma ha un clima mite XD)
Credit: Titolo e
“sottotitoli” sono parole di E.E. Cummings, la
poesia è
Piccole mani.
In fondo alla pagina il testo integrale.
Piccole mani
PRIMA
PARTE
Il tuo più
tenue sguardo.
Quando la
radio rese noto il blocco al chilometro trecento sull’Aurelia
per Davide era già troppo tardi. Lo aveva scoperto venti
chilometri prima, quando la Panda davanti a lui aveva rallentato
sinistramente, di colpo.
Grazie
tante… pensò
spegnendo la radio con astio legittimo.
Il trittico
Luglio – traffico – Aurelia era rinomato per essere
fatale, e lui era appena caduto nella sua rete.
Se solo non
avesse accettato quell’invito per il finesettimana al mare,
avrebbe evitato quel martirio.
Le dita
composero con un mesto automatismo il numero del suo socio.
“Salvatore?
Faccio tardi.”
“Che
vuol dire? Quantifica tardi.”
“Vuol
dire che sono sull’Aurelia e non si muove niente.”
Ci fu un
silenzio considerevole dall’altra parte.
“Ho
capito. Cederò le tue quote di partecipazione ad Andrea.
È stato bello averti come socio.”
Poi il suo
accento siculo si spense, insieme alla telefonata.
*
“Ma
che succede, si può sapere?”
“Un
incidente?”
“Ma
no, è il tagliaerba del Comune…”
“Senta
scusi, ma alla radio non dicono niente?”
“Lucilla,
avvisa tu in reparto che faccio tardi—“
Davide
pensò di insonorizzarsi passando all’aria
condizionata, quando notò con lampante tempismo di essere
quasi in riserva.
Rifletté
sul fatto che certe giornate non andrebbero vissute, per non correre il
rischio che siano le ultime, a dire dal numero di segnali negativi
incontrati lungo il percorso in sole tre ore dal risveglio.
Del resto
neanche sarebbe potuto tornare indietro, intrappolato tra una Panda
viola dove una donna approfittava del blocco per finire di truccarsi a
dovere al fine di sembrare una persona diversa da quella che il suo
capo si era scopato senza troppe remore la sera prima nel villino al
mare, e una moto cavalcata da un uomo sulla quarantina che non si era
rassegnato né alla fine dei suoi anni di gloria
né all’intelligenza del parlare allo sfortunato
guidatore al suo fianco abbassando la visiera del casco. Davide non
capì una sola parola di quello che gli chiese e
annuì con aria affabile, prima di voltare la testa
dall’altra parte.
Che poi, tutto
sommato, neanche si sarebbe dovuto dispiacere più di tanto,
per quel contrattempo. Non aveva comunque voglia di andare a lavoro. I
soliti venti minuti alla ricerca di un parcheggio,
l’ascensore con la luce ballerina, lo sguardo torvo della
portiera al mancato buongiorno, e l’odore del sigaro che
Salvatore aveva di certo già acceso e appoggiato al
posacenere, in attesa del suo arrivo, al solo scopo di infastidirlo di
prima mattina. “Quando sei incazzato rendi meglio in
tribunale, lo faccio per lo studio” gli avrebbe detto, con
quell’accento siciliano e i baffetti tremolanti sotto il suo
sorriso furbo, ma buono.
Alla fine si
era affezionato a Salvatore, a dispetto di ogni logica e probabilmente
contro ogni buonsenso.
Andrea aveva
insistito perché lavorasse con loro, con il chiaro intento
di designarlo al diritto di famiglia. A causa della sua aria
bendisposta avrebbe ammorbidito qualsiasi assistente sociale e giudice
minorile, a detta del suo socio.
Davide invece
credeva che bisognasse essere squali nella vita, perché la
delicatezza pacifica dei pesci piccoli finiva con altrettanta
semplicità nello stomaco dei pesci grandi.
“Fidati
di qualcuno diverso da te, per una volta. L’ho
assunto.” gli fece sapere
Andrea, lasciandogli un post-it sulla sua scrivania.
Davide si era
fidato, più per costrizione che per scelta, e alla fine pur
continuando a dubitare delle attitudini professionali di Salvatore, si
era affezionato, come uno scemo.
Colpa del suo
accento, dei suoi occhi marroni, grandi e buoni, delle mani grandi che
offrivano sempre un caffè dopo una causa, di quei baffetti
che lo facevano sembrare un anarchico anni venti… insomma,
si era affezionato e basta.
“Parli
di Salvo come se fosse un cane” gli disse una volta Andrea,
sornione “… ma ho capito che ti piace. Allora, ce
lo teniamo, papà?”
Se
l’erano tenuti.
Nonostante la
sinergia trovata con i suoi colleghi, però, Davide non aveva
ugualmente voglia di chiudersi in studio, ricevere telefonate da
clienti preoccupati che l’avvocato avesse dimenticato i loro
guai, fumare sigarette con la finestra aperta alle proprie spalle e
fogli pieni di vicende giuridiche che in qualche modo avrebbe dovuto
dipanare.
Si era
laureato con l’obiettivo – Davide non faceva mai
niente senza uno scopo preciso – di raggiungere la
Cassazione, e da lì di potersi esprimere in
legittimità lasciando giudizi di merito ai suoi colleghi
delle corti d’Appello e dei Tribunali di Regione. Al di
sopra. L’ultimo grado. Sentenza definitiva.
Invece si era
trovato a dividere lo studio con un siciliano dal cuore tenero e un
civilista esterofilo con una contraddittoria passione per il common law
degli spocchiosi cugini d’oltre manica.
Dove avesse
inciampato, non lo ricordava neanche più.
Si era
presentata un’occasione di lavoro, poco dopo la laurea, un
buon apprendistato presso uno studio legale di Milano, e lì
aveva incontrato Andrea, appena laureato anche lui e già
pubblicista per diversi giornali nazionali. Dopo qualche anno e un
concorso aveva ottenuto una cattedra ordinaria a Roma, e
così si erano salutati, fino a quando trascorsi si e no tre
anni Andrea si era fatto di nuovo vivo, piombando tra capo e collo a
Milano. Gli aveva chiesto un appuntamento per un caffè,
assicurando di essere solo in visita, ma sul tavolino del bar gli aveva
sbattuto con il suo solito piglio sicuro un po’ di
scartoffie, che Davide aveva scoperto essere il progetto di aprire uno
studio civilistico.
“Dentro
o fuori?” gli chiese Andrea.
E Davide
rispose: “Dentro”, perché di Milano non
ne poteva più e di essere sottoposto di qualcuno, lui che
sognava l’ultimo grado, neanche.
*
Il telefono
aveva iniziato a squillare da diversi secondi quando Davide, riuscendo
a strappare se stesso dal gorgo di quei pensieri, si affannò
a cercarlo.
“Sì”
disse, portandoselo all’orecchio e riuscendo addirittura ad
inserire la seconda marcia. Forse c’era la concreta
possibilità che riuscisse a lasciare l’Aurelia
prima dell’età pensionabile.
“Ho
appena acquistato le tue quote” gli giunse voce
dall’altro capo.
“Professorino
da quattro soldi” – le labbra sottili tese in un
sorriso di goliardia maschile – “Perché
non sei a mettere sotto torchio qualche studente?”
“Amanda”
fu la risposta, a cui non bisognava aggiungere altro. Amanda tendeva a
compierne una delle sue con una cadenza piuttosto regolare, e la gamma
di possibilità era tanto vasta che ormai chiunque avesse a
che fare indirettamente con lei si riservava di immaginare quale fosse
la fattispecie del giorno.
“Da
quando la frequenti la tua vita è diventata un romanzo
picaresco” osservò allentando il nodo della
cravatta per non soffocare. Nel compiere il gesto fu obbligato a
voltare leggermente la testa, e fu allora che incontrò lo
sguardo di una ragazza, nella macchina accanto.
Lo guardava da
un po’, a dire dalla fissità della sua posizione.
“Smettila
di fare il letterato e presentati in studio, mi ha detto
Salvo—”
Gli sorrise,
scrollando le spalle, a voler sottolineare che non ci fosse niente da
fare ormai se non scrollare le spalle e sorridere,
sull’Aurelia bloccata dal traffico in pieno Luglio.
Davide non
seppe cosa replicare alla spontaneità di quel gesto.
Sentì le labbra ammorbidirsi in quello che in ogni caso non
riuscì ad essere un sorriso. Più per riflesso che
per reale intenzione.
“—
della causa. Capito?”
Lei rimase a
guardarlo ancora, come se il loro scambio non si fosse concluso.
E Davide
rimase a guardarla ancora, chiedendosi cosa volesse. Era una domanda
tuttavia priva di astio o di fastidio, giunti a quel punto, solo piena
di perplessità.
Lei dovette
percepire la sua confusione, e come se avesse registrato in quel
momento che fosse anche al telefono, deviò lo sguardo da
lui. Fu rapida, ma senza alcuna timidezza. Con una certa riservatezza,
anzi. Come se lo avesse lasciato solo nella stanza, alla sua
telefonata, rimanendo seduta in salotto a leggere un libro, nel
frattempo.
“Davide?
Mi senti? Cos’è, un ictus?”
“Sì
ho capito” mentì prontamente. “Poi mi
faccio spiegare da Salvatore.” disse, concludendo la
telefonata.
*
Si
sentì piuttosto idiota quando, allontanando il telefono
dall’orecchio, sorprese se stesso a voltarsi verso la
macchina a fianco. Lo fece come se si trovasse in altro da
sé, e non fosse proprio lui a compiere quel gesto
così infantile. In ogni caso, non trovò la
ragazza. Sparita alla sua vista.
Il che gli
diede modo di tornare a guardare dritto davanti a sé, con
uno scatto brusco come lo è l’imbarazzo.
Che
cazzo fai? Ebbe
il tempo di chiedersi. Nelle circostanze di sommo fastidio verso di
sé si rivolgeva a se stesso allo stesso modo e con lo stesso
tono aspro con cui suo padre lo rimproverava da piccolo.
Niente, fermo
di nuovo. Seconda, prima. In folle.
Di nuovo la
tentazione di voltarsi. Tanto che gli sembrava scomodo guardare davanti
a sé. Come se la naturalezza del corpo lo volesse girato a
guardare nella macchina accanto.
In ogni caso
fu costretto, quando vide qualcosa agitarsi proprio lì
dentro.
Era la
ragazza, riemersa dai meandri in cui era sprofondata poco prima
– per forza è riemersa, ci siamo mossi,
pensò ancora con lo stesso tono appuntito Davide –
che gli faceva cenni con la mano perché si accorgesse del
suo richiamo.
Quando si
voltò la trovò allungata verso il sedile del
passeggero, il corpo teso nello sforzo di premere un foglio a quadretti
contro il finestrino. Nonostante fosse chiaro che quel gesto le stesse
chiedendo uno sforzo di contorsionismo, Davide si prese tempo di
leggere due volte quel foglietto.
Infine
sconfisse la propria incredulità. C’era proprio
scritto così.
Caffè
– autogrill?
*
Che
cazzo fai?
Continuò a ripetersi di nuovo, per tutto il tratto che lo
separò dall’autogrill.
Sempre
trovandosi in altro da sé aveva annuito, ottenendo in cambio
un sorriso compiaciuto dalla ragazza.
Che era
visibilmente giovane e preda di pericolose abitudini autostradali.
Era in
ritardo, ricordò a se stesso, ma aveva anche pensato che in
effetti non aveva fatto colazione.
Salvatore
aveva una pratica da esaminare con lui, una causa piuttosto spinosa a
quanto pareva, ma del resto che fretta c’era, il loro cliente
avrebbe come minimo dovuto pagare gli alimenti, il resto della
separazione dei beni poteva aspettare.
Non gli aveva
di certo consigliato lui di sposarsi.
Quei capelli
erano davvero biondi in quel modo o erano tinti?
E la pelle?
Sole o lampada?
E quanti altri
uomini aveva abbordato in quel modo, in mezzo al traffico?
Aveva un senso
quello che stava facendo?
E se anche non
lo avesse avuto? In ogni caso doveva fare benzina.
Ecco, trovato
il senso.
Quindi, alla
fine, inserì la freccia a destra ed entrò per
primo nel parcheggio dell’Autogrill.
*
Davide era
sempre stato a suo agio nell’arte della parola.
Aveva perso
delle cause, ma anche in quei casi era sempre stato impeccabile
nell’eloquio.
Gli esami ai
tempi dell’università, i colloqui, i
patteggiamenti con l’avvocato avverso e i dibattimenti in
aula, così come gli annunci alle cene di famiglia, i
messaggi di corteggiamento a qualche donna e i discorsi con cui
decideva di recedere dal “nostro rapporto”, le
discussioni di politica e diritto con Andrea, le conversazioni
telefoniche a parenti lontani chiamati confondendo il loro numero con
quello di altri e via di seguito.
Una vita spesa
nella più attenta cura della forma, al punto da esasperare
persino la pignoleria di Andrea.
A Davide
capitava ancora più che al collega di foderare ogni
contenuto con un tessuto di parole in perfetta armonia sintattica tra
loro; il pathos di un discorso con le sue vette aspre e i suoi
dislivelli tonali era tenuto sotto controllo da una melodia di
assonanze. “Sei disgustosamente d’annunziano. E
alla Corte piace.” borbottava Andrea, che prediligeva la
sintassi stringata e sincopata, come i suoi gesti e i suoi rigidi
dogmatismi giurisprudenziali.
Restava il
fatto che nel parcheggio di quell’autogrill Davide non sapeva
assolutamente che cosa dire.
“Scusa
se mi sono permessa” disse infine lei, rompendo il ghiaccio.
“Ma la situazione era comunque tragica,
quindi…” lasciò incompiuta la frase, in
quello che Davide aveva sempre ritenuto un vizio da analfabeta o nel
caso migliore da indeciso. Eppure quei puntini di sospensione,
abitualmente tanto accondiscendenti e vili, usati in quel contesto e
accompagnati da quel sorriso e quel modo di gesticolare, ebbero quasi
un senso.
“Viola”
aggiunse, senza prendersi la briga di costruire una frase intorno ad
un’informazione, valutò ancora Davide.
Si
presentò a sua volta, porgendole la mano, come era sua
abitudine. Gli era utile porre una certa distanza tra sé e
il prossimo, ché poteva essere un prossimo amico o un
prossimo avversario o una prossima sventura, un prossimo
rimorso… e via di seguito.
Viola
ricambiò la stretta, ma decise anche di sporgersi verso di
lui e dargli due baci sulla guancia.
Le era
piaciuta da subito, quella barba rada, un po’ incolta
– che Davide aveva in mente di eliminare appena arrivato allo
studio – e aveva voluto conoscerne la consistenza. Ma questo
non lo disse subito, preferendo lasciare a lui lo sgomento e a se
stessa un briciolo di timidezza a riguardo.
“Ciao”
la sentì approcciare il barista.
Inutile dire
che lui avrebbe scelto un convenevole appena più distaccato.
Vedendola accanto a sé si chiese che effetto facessero
vicini. Cosa potesse pensare la gente del loro modo di ordinare una
colazione in un autogrill. Si chiese se la cassiera alle loro spalle li
avesse ritenuti due amici in viaggio, o se il barista li avesse
scambiati invece per una giovane coppia prossima ad un figlio magari, o
se ancora quel turista dalla pelle bianca e l’abbronzatura
aragosta si stesse chiedendo che ci facessero l’acqua e il
fuoco fianco a fianco in un bar di passaggio autostradale.
O forse a
nessuno frega niente vociò esasperato il se
stesso–padre nella sua testa.
“Un
succo d’arancia e quei pasticcini lì”
ordinò lei.
“Un
caffè” la seguì Davide guardandola
vagamente interdetto senza accorgersi di averlo fatto.
“Perché
mi guardi così?” chiese infatti Viola, per un
momento perdendo la spigliatezza con cui si era presentata. Davide
scosse la testa, ma infine non riuscì a non dirlo.
“No,
è che… sembra la colazione di un
bambino.” Non intendeva esprimere giudizi di valore,
benché si rese conto ascoltando le proprie parole che fosse
difficile non credere il contrario.
Tuttavia Viola
scrollò le spalle, cercando di tenere a freno
l’offesa.
“La
tua sembra quella di un amministratore delegato”
replicò bevendo il suo succo d’arancia.
“Avvocato”
la corresse, sentendo l’ars oratoria tornare in carreggiata.
Un lampo di
curiosità le accese lo sguardo, e si sentì nudo,
senza capirne esattamente il motivo.
“Andavi
in tribunale?”
“No,
stavo raggiungendo un collega. Abbiamo uno studio privato.” Perché
dai tutte queste informazioni? Questa volta era la
voce di sua madre, in quel suo solito allarmismo ereditato da una vita
di paese trapiantata in città.
“Penalista.”
“No,
civilista.”
“Non
ne indovino una” commentò Viola – Viola,
che nome insolito – ridendo di sé. Sembrava
felice, però, di sbagliare ogni pronostico.
“Tu
che ci facevi sull’Aurelia?”
“Tornavo
dal mare.”
“Troppo
facile.”
Si
meravigliò di sé scoprendosi interessato ad una
risposta che fosse esaustiva. Si disse che anche quella era una
deformazione professionale, come il pensiero di fare ricorso a priori
ad ogni multa ricevuta o quello di leggere dettagliatamente tutta la
posta condominiale con la certezza di trovarvi un tranello di bassa
lega ordito da quella mente poco vivace dell’amministratore
– oppure si trattava solo della legittima rassicurante
pretesa di avere tante informazioni quanto quelle fornite a sua volta.
Oppure, Viola
aveva un modo di sorridere accattivante, e lui non aveva mai incontrato
qualcuno che proponesse una colazione ad uno sconosciuto adocchiato nel
traffico.
Adocchiato,
pensò, rimproverandosi la supponenza.
Magari era
solo una giovane annoiata in cerca di avvenimenti insoliti da
raccontare ad una cena tra amiche su una terrazza del Gianicolo.
Se
la smettessi di pensare per luoghi comuni? Proprio tu, che metti il
naso nelle più sordide attività illecite di
cittadini al di sopra di ogni sospetto si
rimproverò ancora.
“Faccio
la traduttrice” gli concesse Viola, addentando un biscotto.
Gli offrì l’altro rimasto, ma Davide
declinò cortesemente. Prima delle dieci il suo stomaco era
ermeticamente chiuso. Anche dopo le dieci, in realtà. Stress
e mancanza di tempo per mangiare, a quanto pareva.
“Dall’aramaico?”
la prese in giro cedendo infine al suo bisogno di controllo.
Viola
socchiuse gli occhi sorniona.
“Dall’ebraico
e dall’arabo.”
“Sei
seria?”
“No,
era per smontare il tuo altezzoso scetticismo” eppure
continuava a sorridergli, più in alto di lui.
Davide lo
aveva sempre saputo che l’ironia è più
forte di ogni sarcasmo.
Anche del suo.
“Quindi
traduci dal sumero.”
“Occasionalmente
anche dal sanscrito.”
Il barista li
guardava come se stesse assistendo ad una scena del teatro
dell’assurdo.
Davide si
sentiva in ogni caso calato nella parte, per quanto non riuscisse ad
uscire da quella condizione di leggera idiozia.
“Mi
arrendo” disse, sollevando le mani.
Viola lo
guardò e fece un cenno con la testa: la abbassò
appena, le ciglia ad ombreggiare lo sguardo.
“Ebraico
e arabo.”
“Va
bene, ci credo.”
*
“Adesso
te ne torni in studio?”
Avevano ormai
raggiunto le rispettive macchine.
Erano
parcheggiate una accanto all’altra, e la macchina lunga e
grigia di Davide aveva un’aria imponente al fianco della
scatoletta colorata di Viola. Sembrava le facesse la guardia,
pensò lei, facendo di nuovo quel cenno con la testa, per
nascondere un sorriso.
“Traffico
permettendo, è quello che mi tocca. Tu se non altro puoi
lavorare per prati.”
Tirando fuori
le chiavi della macchina prese atto di avere ancora meno voglia di
prima di tornare a Roma.
Avrebbe voluto
chiedere a Viola perché avesse scelto proprio ebraico e
arabo tra tante altre lingue europee e di narrativa contemporanea. Ma
forse lavorava per qualche ambasciata, e allora era stata una scelta
logica e guidata.
Viola non
rispose, come se non avesse ascoltato. Rimase in silenzio, facendo
ciondolare le chiavi tra le dita, avanti e indietro, a lui
ricordò le altalene del parco in cui lo portava sua madre da
piccolo. Che pensieri assurdi. Adesso non avrebbe neanche saputo
riconoscerla, un’altalena.
“Dov’è
il tuo studio?” chiese di improvviso Viola, dopo lungo
pensare.
Sembrava
essere venuta a patti con se stessa, e non lo guardava più
in volto come poco prima, al bar, tra succo d’arancia
caffè e pasticcini, di colpo schiva, lunare.
Davide si
sentì sputare fuori l’indirizzo corredato anche di
numero civico.
Non aggiunse
altro, sapendo che nella palazzina il loro fosse l’unico
studio legale.
E in ogni caso
era ancora troppo frastornato dalla situazione per poter compiere
scelte avvedute e ripartite secondo logica.
“Ho
capito.” disse soltanto, Viola, rimanendo in silenzio di
nuovo per qualche secondo. Davide sperò – con la
parte che era in altro da sé – che stesse
sfruttando quel tempo per memorizzare l’indirizzo. Se fosse
stato meno dignitoso forse avrebbe aperto la propria macchina,
spalancato il cruscotto e le avrebbe dato il suo biglietto da visita.
Ma gli parve in qualche modo volgare e troppo compromettente.
“Buon
viaggio, allora” si congedò dopo averla
ringraziata per l’idea della colazione.
Viola
annuì, riacquistando il sorriso di poco prima. Davide ebbe
l’impressione che fosse un sorriso ironico diretto
personalmente a lui e al suo modo di fare. Sembrava lo trovasse buffo.
Seppe da subito che non avrebbe potuto fare niente, in merito.
“Anche
a te. È stato un piacere.”
Lo
baciò di nuovo sulle guance, per sentire ancora la sua barba
ispida
Non sapeva,
Viola, se avrebbe davvero trovato il coraggio di cercare il suo studio.
Quindi tanto
valeva accomiatarsi da ciò che per primo di lui
l’aveva conquistata dal finestrino assolato della sua
macchina.
--
Piccole
mani
Il
tuo più tenue sguardo
facilmente
mi aprirà
benché
abbia chiuso me stesso
come
dita
sempre
mi apri petalo per petalo
come
la primavera fa
toccando
accortamente
misteriosamente
la sua
prima
rosa
e
io non so quello che c’è
in
te che chiude e apre
solo
qualcosa in me
comprende
che è più
profonda
la luce dei tuoi
occhi
di tutte le rose.
Nessuno
neanche
la
pioggia ha
così
piccole mani.
A sabato
prossimo!
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Capitolo 2 *** SECONDA PARTE ***
SECONDA
PARTE
Come dita sempre mi apri petalo per
petalo.
Dal
pianerottolo sembrava che nel suo studio si stesse svolgendo la seconda
parte
della battaglia di Al Alamein, pensò Davide appena uscito
dall’ascensore.
Eppure
una volta all’interno prese atto che ci fosse solo Salvatore,
e che il più
stesse avvenendo per telefono tra lui e certamente Andrea, a dire da
come
fremevano i suoi baffetti anarchici.
“E’
fuori da ogni logica!” urlò mentre Davide si
impossessava della sua stanza
chiudendosi la porta alle spalle.
Aveva
un discreto mal di testa, il lascito della cena a casa di suo fratello
la sera
prima. Vieni anche tu, siamo i soliti, una cenetta tranquilla, non fare
l’orso.
E alla fine era tornato a casa alle tre di notte, con vino rosso
primitivo a scorrergli
nelle vene al posto del sangue e in macchina una certa Irene da dover
riaccompagnare.
Non
aveva nessuna intenzione di occuparsi dei drammi dei suoi soci.
Come
se avesse origliato i suoi pensieri, Salvatore aprì la porta
della stanza,
furente, brandendo il telefono come un’arma di distruzione di
massa.
“Parlaci
tu” disse esasperato con forte accento siculo –
succedeva ogni qualvolta la sua
pacatezza soccombesse ad Andrea e i suoi dispotici capricci –
“Io non voglio
saperne dei vostri inciuci contrattuali” e con quello
sbatté il cellulare nelle
mani di Davide e si accasciò sulla poltrona ben deciso a non
perdersi la
conclusione.
“Andrea.
Qual è il problema.”
Salvatore
accavallò le gambe e si accese un sigaro, ignorando lo
sguardo omicida del
collega. Era qualcosa che esulava dalle sue facoltà di
comprendonio il modo di
stare al mondo che avevano quei due.
Uno preda di un forsennato amor proprio, la sindrome da Dio del Foro la
chiamava lui, e l’altro placido e distaccato, lontano da
qualsiasi giudizio di
valore e di merito, come se niente lo riguardasse al di fuori di quanto
dovesse
portare a termine per puro perfezionismo, prima ancora che convinzione.
Adesso
se ne stavano al telefono, Andrea a lamentarsi
dell’eticità del socio che per
primo aveva insistito per assumere, e Davide a raccogliere informazioni
esulando dalle urla e dai lamenti le notizie veramente necessarie alla
soluzione del conflitto.
“Mh.
Mi sembra un mutuo più che un corrispettivo di
prezzo.” disse, aprendo la
finestra perché l’odore di sigaro uscisse dalla
stanza. Salvatore alzò gli
occhi al soffitto, sprofondando ulteriormente nella poltrona.
Valutò l’ordine
geometrico con cui ogni cosa era disposta nella stanza di Davide: la
scrivania
sgombra di qualsiasi suppellettile, gli spazi sfruttati in una economia
perfettamente misurata. Lui aveva cassetti pieni di fogli e post it
ovunque,
anche sul porta sigari, e le sedie le sfruttava per poggiarci altra
roba, non
di certo per ricevere un cliente, che preferiva accogliere nel bar
sotto l’ufficio
o comodamente seduti nella stanza di Andrea, sempre assente dietro i
suoi
impegni universitari.
“E
allora? Il divieto di patti commissori dove lo lasci?”
sentiva dire Davide, che
aveva iniziato a giocare con una penna a scatti. I baffi di Salvatore
vibrarono
compiaciuti: era esattamente quello che aveva cercato di far capire ad
Andrea,
prima di sentirsi definire avvocaticchio
e di ricevere l’invito a giocare al marito e moglie come gli
era più congeniale
fare.
“Mh.”
mormorò Davide, tornando seduto e guardando Salvatore dritto
negli occhi. Per
un momento l’altro si chiese se non stessero parlando di lui,
in effetti.
“Patteggiamo: fumati il solito pacchetto di sigarette, boccia
qualche studente
e richiamami quando avrai ridimensionato il tuo ego.”
Ciò detto chiuse lo
sportello del cellulare e lo restituì al proprietario con un
gesto fluido e
deciso. “Tu e il tuo sigaro fuori dalla mia stanza. E se mai
vi capitasse anche
fuori dalla mia vita.”
“Che
ne è venuto fuori?” si informò
Salvatore, senza assecondare nessuna delle due
richieste.
“Tu
sei troppo accudente, Salvatore, e per primo accudisci il suo fanatismo
isterico” commentò l’altro tirando fuori
le sue pratiche personali.
“La
sua illogicità mi manda in bestia” ammise
passandosi una mano tra i baffi.
Davide sorrise lupesco, senza alzare la testa.
“Lo
so. Ma così lo assecondi, invece di ridimensionarlo. E
comunque ha ragione: è
meglio che ti dedichi a vedovanze e figliolanza non
riconosciuta”. Poi pensò di
controllare di non averlo offeso, e soggiunse con una inflessione
più tenue “Ti
donano di più”.
Salvatore
lo guardava in cagnesco, scuotendo la testa. Si era rassegnato
all’idea di
dividere l’attività lavorativa con due devoti al
Libro Quarto
come
fosse una Bibbia o un Corano, e tutto sommato riconosceva la loro
dimestichezza
nell’aggirare ostacoli e rendere un cavillo il tema portante
in un contesto
probatorio.
Si
chiedeva solo se questa continua opera di attorniamento, questa eterna
partita
a scacchi fatta di salti laterali e avviluppamento di pedine, non li
facesse
mai sentire lontani e a disagio quando poi si trattava di camminare
dritti e
non mangiare pedine, in tutto il resto.
“Quello
è un patto commissorio” volle aggiungere ancora,
per pura ripicca.
“Certo
che lo è, lo sappiamo tutti, Andrea compreso”
osservò placido Davide,
sorridendogli in quel suo modo sincero e scanzonato che lo rendeva
eterno
ragazzino nei momenti di pausa dal lavoro, come quello.
Poi
il citofono suonò.
*
“C’è
una donna che ti cerca.”
Davide
tracciò un segno inconsulto con la penna, sulla notifica che
stava scrivendo.
Gli
occhi di Salvatore lo guardavano ridenti.
“C’è
della figliolanza di cui vuoi che mi occupi?”
domandò irrisorio, chiudendosi
nella stanza di Andrea per prepararsi a ricevere il cliente delle
undici. Sua
Devozione, l’aveva chiamata Davide la prima volta che
l’aveva vista uscire dal
loro studio, con a seguito il suo giovane amante spacciato per un
cugino di
terzo grado e una lista di beni immobiliari che aveva reso noto avrebbe
avuto
piacere di cui disporre, alla faccia del marito.
Non
rispose a Salvatore, ricoprì la penna del suo cappuccio,
inserì il foglio nel
cassetto delle pratiche da terminare e si decise a raggiungere il
citofono. Non
che gli fosse venuta in mente Irene, al primo pensiero.
In
quei giorni aveva finto di dimenticarsi di Viola. Ad Andrea non aveva
detto
niente, certo che avrebbe demolito il tutto con quel cinismo che gli
era
proprio, e del resto forse Davide avrebbe fatto lo stesso, con identico
scetticismo con cui accolse la notizia della promozione di Amanda da
assistente
ad accompagnatrice ufficiale.
“Sì?”
chiese cercando di recuperare il tono pratico dell’uomo
impegnato. Il che lo
fece sentire doppiamente idiota, ancora una volta, come se avesse di
nuovo
sedici anni e dovesse fare appello a trucchi di bassa lega per
sopperire alla
mancanza di autostima, o di muscoli o di sorrisi alla Clark Gable.
“Ciao”
disse Viola, dalla cornetta. La voce era metallica ma decisamente sua.
Davide
sentì qualcosa attraversarlo da parte a parte.
Cercò
di suonare naturale nel restituirle il saluto, ma in realtà
avrebbe voluto
chiederle quante volte avesse fatto il giro del palazzo prima di
decidersi a
premere quel tasto sul citofono, o quanto avesse dovuto pensarci e che
scuse
avesse fabbricato per darsi la chance dell’ennesima azione
sconsiderata… O un
caffè. Magari avrebbe solo voluto chiederle se le andava un
caffè, da adulti.
Avrebbe storto le labbra, come
quando non aveva creduto al suo lavoro.
“Hai
da fare?”
Forse
gli piaceva quel suo modo di arrivare dritta al punto, tagliando di
netto ogni
imbarazzo, senza impelagarsi in convenevoli e accordi preliminari
riguardo a
compostezze e convenienze.
Aveva
da fare? C’era quell’attico da liberare, per il suo
assistito, la diffida di
pagamento da inoltrare al conduttore inadempiente.
“Dammi
dieci minuti” rispose invece. Iniziava a vivere un
po’ troppo spesso nel altro da
sé. Questi metafisici pretesti
rendevano ancora meno decoroso il suo atteggiamento, ma non riusciva a
farne a
meno. Qualsiasi cosa gli avesse mai procurato un piacere gratuito,
nella vita,
ai suoi occhi aveva avuto bisogno di una giustificazione. Come gli era
servita
una giusta causa diversa dalla sua attrazione seducente per la Legge,
quando
aveva chiesto ai genitori un codice civile e non una laurea in
ingegneria. “Mi
occuperò io di tutto” aveva assicurato, agli inizi
della sua carriera
universitaria, anche se di fare l’avvocato di famiglia non
aveva alcuna
intenzione e già allora anelasse alla Cassazione e al
supremo giudizio.
“Salvatore,
devo assentarmi” annunciò, scegliendo un falso
imperativo categorico
dimostrandosi fedele a se stesso. Doveva perché in
realtà aveva atteso quella
visita per diversi giorni, al punto che vederla concretizzata era quasi
divenuta una necessità.
Salvatore
urlò qualcosa dalla stanza di Andrea, in fondo al corridoio,
che Davide non
sentì.
Fuori
dall’ascensore c’era già Sua Devozione.
“Buongiorno”
salutò in fretta, sbattendo contro il falso cugino di terzo
grado.
*
Viola
lo aspettava fuori dal portone, il sole attraversava di sbieco il
vestito di
tessuto leggero che aveva addosso. Se anche non avesse voluto
– e in ogni caso
aveva voluto – avvicinandosi a lei Davide poté
quasi vedere oltre il cotone
bianco.
Non
sapeva se si ricordasse fedelmente il suo viso, l’aveva vista
per poco tempo.
Ebbe
anche l’impressione che Salvatore affacciato alla finestra
non si stesse
perdendo la scena, ma allontanò subito il pensiero,
etichettandolo come
paranoia da coda di paglia.
In
fondo non stava facendo niente di male.
“Scusa,
dovevo sbrigare delle cose”.
A
parte lesinare sul lavoro e comportarsi da adolescente anni cinquanta.
“Una
dura vita spesa in onore della legge” lo prese in giro lei,
accogliendolo con
un sorriso.
Era
leggermente diversa da qualche giorno prima, sembrava meno giovane di
quanto
avesse stimato allora, o forse la consapevolezza con cui soppesava ogni
gesto
la gravava del peso degli adulti.
“Passavi
di qui?” le chiese, con un sorriso da rivista
pensò Viola, trovandolo
affascinante e cretino come solo un uomo sa essere allo stesso tempo.
“Divertente”
e con quello gli confermò di essere passata al suo studio
con l’intento più o
meno preciso di vederlo di nuovo. Come se quella cravatta che aveva al
collo
potesse renderlo più interessante ai suoi occhi, che si
erano riempiti dei
colori e degli odori della terra di Israele e non avevano
più niente a che
fare, quasi, con gli europeismi di un avvocato giovane e in carriera.
Eppure,
lo aveva visto in macchina, colta da un momento di pigra distrazione
nel
traffico, e forse era la luce del sole alle otto di mattina, o il modo
in cui
aveva appoggiato il braccio sul finestrino, e la presa ferma e ferrea
con cui
si teneva il cellulare all’orecchio, o la linea serrata della
mascella, e la
barba sfatta in contrasto con la cura della cravatta e della camicia, o
il modo
in cui teneva una sola mano sul volante come se stesse guidando con la
forza
del pensiero, o il tono in cui aveva ordinato un caffè
bevuto in due sorsi
decisi, o il gesto automatico ma presente a se stesso
dell’estrarre le chiavi
della macchina e fare strada uscendo
dall’autogrill… quel suo essere così
maschile. Al diavolo, non ci aveva dormito quella notte.
E
probabilmente si trattava di sublimazione, aveva reso una tela bianca
un quadro
impressionista e incontrarlo di nuovo l’avrebbe solo
costretta a stracciare la
tela e chiuderla nello scantinato insieme a tutti gli altri cadaveri
delle
delusioni passate.
Una
più, una meno… si era detta, consapevole che non
si trattasse del
numero raggiunto ma della intensità con cui voleva
incontrare ancora la
ruvidità della sua guancia, e della sensazione sicura
dell’averlo accanto ad un
bar o per la strada.
“Avevi
in mente qualcosa, passando di qui?”
Persino
quel suo modo di essere ironico, di scivolare nel sarcasmo e spegnerne
l’asprezza con un sorriso brillante e divertito, le piaceva.
Lei che detestava
tutto ciò che fosse tagliente e amaro, a partire dal
caffè senza zucchero per
arrivare alla più sferzante delle derisioni, era rimasta con
le spalle al muro
di fronte a quella specie di tirannia che emanavano i gesti e le parole
di
quell’uomo. A dispetto dei suoi silenzi, che sembravano pieni
di ombre e
timidezze.
Quel
contrasto, ecco cos’era.
*
“Perché
ebraico e arabo?” ebbe finalmente modo di chiederle,
attraversando la strada.
Viola
si appoggiò al muretto, affacciandosi sul Tevere. Il pregio
di avere uno studio
in Prati si limitava alla vicinanza con il Tribunale e la Cassazione e
con il
Lungotevere lì a qualche passo.
“Questione
di suono” disse sorridendo e scrollando le spalle. Sembrava
che non potesse
fare una cosa senza l’altra: sorridere e non alzare le
spalle, alzare le spalle
e non sorridere.
Disse
qualcosa di cui Davide non distinse neanche una sillaba, ma della quale
riuscì
a sentire il tracciato melodico.
“Meglio
della secchezza inglese, dei suoni duri del tedesco…”
lasciò sospeso il resto delle sue valutazioni, e Davide
compì l’ennesimo sforzo
di non trovarvi un riempitivo.
Del
resto lui dell’arte della composizione linguistica aveva
fatto una specie di filosofia.
“Dimmi
cosa c’è dietro un articolo di codice civile, per
me sono una lunga serie di
numeri” disse poi, guardandolo con un sorriso furbo.
“Il
senso della società” rispose Davide, arrotolando
le maniche della camicia.
Il
caldo estivo aveva imperlato la sua fronte di sudore, la camicia
aderiva più
del dovuto su di lui, e Viola non riusciva a non guardarlo, combattuta
tra la
tentazione di cedere al naturale percorso del suo sguardo o il chiudere
un po’
di sé nelle costrizioni a volte necessarie di una parte.
Almeno per un po’.
“Ad
eterna e salvifica memoria che la mia libertà finisce dove
inizia la tua.”
Guardava
lontano nel dirlo, come se i suoi occhi cercassero naturalmente il
profilo del
Palazzaccio,
sapendolo dietro
quell’angolo, poco più giù. Quel modo
di appellarlo proprio degli occhi scettici
del tempo, per lui si ammantava di una tenerezza tutta sua, modulava la
lingua
come se pronunciasse il nome della via della sua casa, lui che non lo
trovava
affatto brutto né sgraziato, troppo pesante a detta di fior
fiori di critici ed
esperti in materia. Davide lo trovava piantato al suolo, imponente e
ricco come
lo è la Giustizia, che poco si adatta a frivolezze
rococò o a barocchismi di
sorta. Duro e pesante, come la Legge.
“Non
ti capita mai di discutere con i tuoi colleghi? Tra voi non siete mai
d’accordo
su niente.”
Sorrise,
tornando a guardare Viola.
“Certo.
Giorni fa Andrea ha dovuto sospendere il ring tra me e
Salvatore.”
“Riguardo?”
“Regime
patrimoniale tra coniugi. La legge vuole la comunione dei beni come
prima
scelta, ma così facendo un matrimonio di breve durata dove
una parte produce
ricchezza e acquista beni e l’altra no, destinato a
concludersi dopo poco, si
profila come un arricchimento indebito per chi non ha prodotto
né incrementato
il patrimonio familiare.” Si fermò un momento.
“Mi segui?”
Viola
alzò le spalle.
“Credo
di essermi persa qualche puntata, ma ho capito il senso.”
Tacquero
per un po’, il Tevere a scorrere lento sotto di loro, in
mezzo all’inquinamento
e alle chiatte ormeggiate.
Viola
cercava di immaginare Davide in un’aula di tribunale, nel suo
ambiente, con la
toga da avvocato e lo sguardo fermo di chi sa di dover avere ragione.
Lo
immaginò teso nella battaglia, e poi lo immaginò
anche studente, con il naso
tra articoli del codice e letture giuridiche, severo e fiero come la
legge
quando non è violentata dall’uomo.
Si
chiese quanto di sé avesse sacrificato alla dirittura della
Legge, quanto di sé
avesse dovuto immolare alla implacabilità di una
convinzione, alla fermezza della
parola: quanto ardore stritolato nella morsa di un decisionismo
intrepido ma
non veemente, per serbare l’equilibrio del giusto
sottomettendo l’affanno del
colpevole che scivola sullo specchio.
“Ti
togli mai la toga?” finì con il chiedergli,
riemergendo da quei pensieri.
Davide
la guardò senza capire, o forse prese tempo per cercare una
risposta ad una
domanda irrisolta anche per lui.
“Fare
l’avvocato è il tuo lavoro o la tua
vocazione?”
Soppesò
quella domanda, volgendo lo sguardo altrove.
Era
arrivato un giorno in cui se l’era chiesto, se ci fosse altro
di sé o se
l’avvocatura avesse assorbito tutto. Se ci fosse mai stato
dell’altro o se come
Dio chiama i suoi sacerdoti ad essere solo suoi ministri e mai
più uomini, allo
stesso modo la Legge lo avesse chiamato a sé imponendogli di
essere suo
dipendente e nient’altro che una toga intorno alle spalle di
un uomo.
Aveva
perso i contorni tra chi era in aula e chi fuori, gli sembrava di
essere sempre
la stessa persona, di precludere a se stesso uomo gli stessi inciampi
che si
vietava di compiere in aula.
Amava
il suo lavoro, per quanto non fosse in Cassazione, amava il suo lavoro
al punto
di chiedersi se amasse anche se stesso, o solo quello, il suo lavoro.
La fredda
precisione della legge. La sua capacità di creare e di
reinventarsi, di seguire
il percorso di una società in evoluzione, accogliendo le
asprezze di ogni
cambiamento per levigarle; accogliendo in sé quelle
geometrie appuntite –
ingoiandole negli accesi dibattiti dottrinali, nella sofferta e
controversa
prassi giurisprudenziale – solo per restituire al di fuori la
superficie liscia
di una norma.
Allo
stesso modo Davide sentiva di contenere in sé ogni
contraddizione, ogni scusa
imperdonabile, ogni passo falso e ginocchio sbucciato, per restituire
la serafica
superficie di un atteggiamento fermo e inscalfibile.
“Non
lo so più” disse a Viola, con
un’espressione simile a quella dei suoi silenzi:
pieni di ombre e timidezze.
*
Vittoria
aveva ascoltato il fiume di parole che Viola le aveva riversato addosso
come si
ascolta il discorso di una demente.
Erano
secoli che non le capitava di parlare così a lungo, in
effetti, di dire così
tante cose. Come se in qualche modo fosse uscita dal suo ermetismo, e
di colpo.
Vittoria
l’aveva accompagnata in aeroporto quando si era trattato di
partire per
Israele, chiedendole di mandarle qualche cartolina, di connettersi al
computer,
di lanciare segni di vita da laggiù. Non che volesse essere
aggiornata sui suoi
approfondimenti culturali.
“Non
sparire” le disse prima di salutarla al check-in.
“Ma
guarda che torno” l’aveva rassicurata Viola, come
vinta dalla tenerezza negli
occhi dell’amica. Era l’unica persona che lasciava
con rammarico a terra, del
resto, l’unica che avesse mai conosciuto in grado di
sopravvivere alla irrequietezza
delle sue relazioni. Giocavano nel parco dietro casa da bambine, V and
V le
chiamavano i genitori più moderni, l’Ambo gli
anziani che prendevano l’ombra
sotto i pini.
Da
Israele non si era più fatta sentire, assorbita da un mondo
diverso.
“Da
quant’è che vi conoscete?”
domandò Vittoria, versando mezza zuccheriera nel suo
tè freddo.
Era
sempre stata piuttosto scettica in merito agli entusiasmi di Viola, i
soliti
con cui si lanciava a capofitto in qualsiasi esperienza per uscirne con
qualche
osso fratturato e il sorriso mesto di chi assicura di stare bene e poi
si
chiude in casa in fase convalescente per un mese di silenzi e un anno
di viaggi
in Israele. A perfezionare la lingua.
“Il
tempo è relativo” le rispose infatti.
“Adesso
possiamo parlare di Marco quindi?” – il tono
volutamente tagliente.
Viola
persa a raggruppare fogli pieni di fonemi e ghirigori che Vittoria non
riusciva
a decifrare, inframmezzati da sporadici foglietti gialli di carta
sottile pieni
della sua grafia italiana piccola e nervosa, non le diede ascolto, non
volutamente questa volta. Aveva impiegato settimane a convincere
l’altra V. che
il suo viaggio non fosse una fuga da Marco e la schizofrenia del loro
rapporto,
sapendo di non essere riuscita nell’intento.
“Mi
daresti ragione se avessi visto il modo che ha di fare qualsiasi
cosa” continuò
per la sua strada, chiudendo i fogli in un cassetto colmo che ne
lasciò
sporgere i contorni accartocciati. “Qualsiasi. O la sua voce.
Non ho mai
incontrato nessuno così.”
“Nel
traffico dell’Aurelia? Strano, avrei detto che è
piuttosto frequente come cosa”
borbottò l’altra, bevendo il suo tè.
Vittoria era una delle poche persone,
rigorosamente dopo Woody Allen, a cui Viola perdonava
l’inflessione sarcastica
in ogni commento.
“Rilassati”
le giunse in risposta, dal fondo di un cassetto.
“E’ solo una cena”.
Vittoria
considerò quelle parole.
“Appunto”
concluse, eloquente. “E’ solo una cena.”
Qualche
giorno dopo la partenza di Viola aveva incontrato Marco in palestra. In quel luogo alienante come lo definiva
Viola, che si era sempre rifiutata di metterci piede a costo di andare
a
correre nello smog di Roma in pieno traffico mattutino. Si erano
salutati con
aria mesta, entrambi malinconici per la
partenza di Viola, ognuno per i propri motivi.
“Pensi che abbia
intenzione di tornare?” aveva domandato Marco, tamponandosi
la fronte con un
asciugamano zuppo. “Ce lo chiediamo tutti, direi che
è indicativo, no?” aveva
risposto lei sospirosa.
Poi
Viola era tornata, Vittoria era andata a prenderla in aeroporto e
l’aveva
trovata chiusa in un mutismo piuttosto deciso. Protratto per un
discreto numero
di mesi, in cui si era rintanata sul terrazzo di casa sua presa in una
fervente
opera di traduzione di articoli da quotidiani israeliani. Aveva accolto
le visite
di Vittoria con sorrisi spenti che si sforzavano di essere ospitali, e
dopo un
tè l’amica aveva sempre preferito lasciarla sola,
sentendosi di troppo tra
Viola e la sua solitudine.
Marco
aveva chiamato due o tre volte, per tastare il terreno e capire se ci
fosse un
modo per rimanere in contatto, per conservare rapporti civili. Viola
aveva riso
delle sue preoccupazioni “Sono io che ti ho lasciato, devi
dirmelo tu se vuoi
sentirmi ancora” gli fece notare, lontana nella voce.
Decisero di mettere una
toppa e salvare ciò che di buono c’era stato ma
lei non si era più fatta
sentire dopo quella telefonata e Marco non l’aveva
più cercata, sapendola
distratta e indifferente, o solo triste per chissà quale
spleen.
Infine,
qualche settimana prima, Vittoria aveva ricevuto una sua chiamata: la
avvertiva
che sarebbe andata al mare, per un paio di giorni, le chiedeva se
volesse
raggiungerla, starsene un po’ a mollo, rosolarsi sotto il
sole.
Sembrava
tranquilla e serena, la sua voce era distesa, per telefono la sentiva
sorridere.
“Non
sono più abituata ad una città senza
mare” disse con la pelle bagnata
dall’acqua e gli zigomi arrossati dal sole. Vittoria aveva
sorriso, sentendola
di nuovo Viola. Non sapeva dove se ne andasse quando cadeva nella
stagione dei
silenzi. Nessuno lo sapeva. Sembrava un quadro di Hopper, carico di una
malinconia immensa e devastante, ma inspiegata e inspiegabile, nessun
punto di
luce o di fuga nella scena ad indicarne la fonte.
Ma
poi, in fondo, l’importante era che da quella solitudine
tornasse da loro.
*
Riconobbe
il muso da squalo della sua macchina grigia con la coda
dell’occhio, chiudendo
il portone.
Lui
guardava in sua direzione, con un sorriso sulle labbra diretto poco a
lei e
molto a se stesso. Sembrava ridesse di sé. La
divertì.
Comprese
di aver desiderato salire in quella macchina, nel posto passeggero,
dalla prima
volta in cui aveva visto Davide guidarla per quei pochi chilometri
sull’Aurelia. Un pensiero infantile forse, poco adulto,
quella piacevolezza nel
sentirsi a fianco di un uomo dalla guida salda e sicura, maschile, come
quella
di una pubblicità.
“Destinazione?”
chiese lasciando perdere la cintura di sicurezza.
Destinazione
ristorante del vecchio ghetto, il compiacimento del saperlo attento ai
dettagli, la sorpresa dello scoprirlo conoscitore del posto. Caddero a
Campo
de’ Fiori, un saluto al buon Giordano,
che
vegliava taciturno adocchiando da lontano la Cupola nemica.
Turisti
ubriachi, romani a passeggio serale con i cani e qualche amico,
camerieri
affacciati davanti all’insegna dei loro ristoranti in cerca
di qualcuno che
volesse fare quattro chiacchiere con loro più che mangiare,
qualche bancarella
agli angoli della strada, pattuglie di polizia fuori luogo a piazza
Trilussa.
Camminavano
tra la gente, a volte parlando piano, altre contemplando in silenzio il
proprio
trovarsi al fianco dell’altro.
Di
nuovo Davide si era perso dietro quel gioco stupido del Indovina
cosa pensa la gente. Incolpava la sua abitudine di fissare
le persone per carpirne qualche segreto, era così con ogni
collega avversario
in aula, con ogni cliente, con ogni convenuto in giudizio che gli
toccasse
interrogare. Ma in quel caso non cercava tranelli né
smottamenti del terreno
dove poter agevolmente impiantare il seme della vittoria. In quel caso
sapeva
di cercare la compiacenza di quegli sconosciuti, sapeva di chiedere
loro con
aria fintamente distratta un nulla osta. Al solo scopo di non dare
importanza a
quei pareri, dal momento che l’unico giudice oltre la Legge
per lui era sempre
stato solo se stesso.
Viola
gli camminava vicino, leggermente scostata, con il naso
all’insù a cogliere
odori e le orecchie tese ad impicciarsi di stralci di conversazione.
“Non
hai mai pensato di scrivere qualcosa di tuo, oltre a
tradurre?” le chiese
Davide, riemergendo da qualche pensiero. Viola fece di nuovo quel gesto
con la
testa, ad avvolgere la timidezza del sorriso in un’ombra
riservata.
“Qualche
volta, ma non ho il dono della compiutezza. Non finisco mai quello che
inizio”
spiegò, alzando le spalle. Davide poggiò le
proprie mani sulle sue spalle
esili, lo fece senza pensare, sorridente, e Viola sentì le
sue mani grandi e
calde, le dita accolsero perfettamente la curva delle spalle, e
sentì che in
quel modo avrebbe potuto guidarla ovunque, lei si sarebbe fatta
trasportare
anche verso il dirupo, sotto la presa di mani simili. E forse quello
era il suo
problema. Questi assolutismi irriducibili che le impedivano di
respirare l’aria
del sobrio raziocinio.
“Potresti
svelarmi tu qualche trucco” gli disse, alzando la testa
stavolta, a cercare il
suo sguardo. “Le tue arringhe hanno sempre una conclusione
stringata, no?”
Davide
rise.
“Il
non liquet è dalla mia
parte.” Lo
disse quasi scusandosi. “Un giudice non può non
decidere. La storia deve finire
per forza, condanna o assoluzione, vincitore o soccombente.”
Viola
pensò che quelle parole, e la toga, corrispondessero
perfettamente alle sue
mani.
Lei
aveva dita sottili e lunghe, nervose, sempre fredde. Nella loro
frenesia spesso
lasciavano cadere oggetti.
“Che
strano. Nella vita non funziona così.”
Le
venne in mente Guccini che nella sua macchina cantava della
ambiguità di
vivere.
“Tu
sei un ossimoro vivente” disse poi, sorridendo. Davide la
guardò serio, a
dispetto del tono scherzoso con cui aveva parlato Viola.
“In
che senso?”
“Governi
la legge, ma vivi una vita regolata dal caso.”
Poi
sembrò ripensarci, per un momento.
“A
meno che tu e Dio non siate in rapporti stretti” aggiunse
sottotono.
“Non
faccio mai niente senza avere uno scopo” rispose lui
“ma solo perché so benissimo
che uno scopo non c’è, in tutto il resto che mi
accade.”
Non
lo aveva mai detto a nessuno. Non che qualcuno glielo avesse mai
chiesto. Sua
madre lo aveva sempre osservato affannarsi nel suo lavoro e nei suoi
doveri con
aria preoccupata e il timore che non prendesse abbastanza aria, non
mangiasse a
sufficienza, non trovasse una donna con cui regalarle un nipote. Non si
era mai
chiesta dove fosse il fondamento della profonda dedizione di suo figlio
a tutto
ciò che fosse volto a dare conferma, che fosse negativa o
positiva, a tutto ciò
che potesse eliminare l’incertezza in una situazione.
Esattamente
per questo: perché aveva scoperto, al telegiornale che suo
padre ascoltava a
pranzo, che non ci saranno di certo buoni e cattivi ma giusti e
ingiusti e che i
giusti spesso muoiono senza una giusta causa che renda merito al loro
vivere
secondo giustizia. Che una mattina un padre si mette in macchina con la
propria
figlia, e in autostrada verso il mare vengono travolti da una macchina
uscita
di strada per un guardrail mal sistemato, e che tutto per loro finisce
lì, a
quaranta e dodici anni, eterno padre di una bambina, eterna bambina mai
donna,
figlia per sempre senza mai essere madre. Aveva capito che nessuna
giustizia –
neanche e soprattutto divina
–
avrebbe mai potuto chiedere un prezzo così alto per potersi
definire tale.
Aveva capito che solo un caso senza intenzioni può essere
artefice di simili
disfatte. Che nel suo srotolare eventi ed accidenti lungo la vita degli
uomini
non c’è giustizia né ingiustizia,
ché sono connotati umani che il caso non
conosce.
Da
allora, nello sforzo di limitare il suo potere, il potere comunque
invincibile
del caso, aveva cercato gli ultimi giudizi, aveva cercato di mettere
certezze
fin dove fosse possibile averle. Nella consapevolezza che fosse minima
cosa di
fronte alla vastità del caso, ma pur sempre grande nel
piccolo mondo degli
uomini, che vivono di esperienza e cercano di non sbagliare mai due
volte.
Non
lo aveva mai detto a nessuno.
*
La
baciò con delicata circospezione. Come a voler ricevere
conferma che fosse
vero: l’Aurelia, l’autogrill, il citofono, il
Lungotevere, il Caso, il ghetto,
le traduzioni dall’arabo e la toga. Dal giorno alla notte, il
caso in azione,
nessun destino. Il colpo di fortuna, che domani potrebbe essere il
colpo di
grazia.
Quando
Andrea si era presentato in quel bar a Milano gli aveva chiesto di
assumere un
rischio. Sapeva che la grandezza non distingue tra successo e
insuccesso, sa
essere se stessa in entrambi i casi. Aveva accettato.
Come
in quel bacio.
Non
che contasse la macchina o l’essere sotto casa, o il ripetere
una scena già
conosciuta in gradi e tempi diversi: con i jeans, in costume da bagno,
con i
pantaloni da lavoro, con la cravatta, senza cravatta, bionda, mora, la
donna
della vita sbagliata, un’amica di suo fratello, una compagna
di università,
l’ex di Andrea – in totale malafede con annessa
confessione e minaccia di
scioglimento della società e pericolo sventato.
Non
che contasse quello né
i diciotto anni,
i venticinque o i trentadue; la musica o il silenzio, profumo o sudore.
Contava
più che altro la sua bocca, quello che la sua lingua stava
facendo, dove e
come.
I
capelli tra le dita, il collo a disposizione dei suoi denti o della sua
bocca,
che fossero, il peso caldo del suo corpo addosso, il profumo nel
cervello, la
sensazione dilagante senza che neanche lo avesse toccato, o forse
sì, il freddo
delle sue dita fatte di ossa premute contro la nuca, come se non
volesse che si
allontanasse, come se fosse meglio soffocare in un bacio piuttosto che
prendere
aria da soli.
Che
ne sapeva se quell’ardore fosse disperato o dedicato, se
avesse voglia proprio
di lui o desiderasse soltanto qualcuno, che ne sapeva degli uomini con
cui era
stata, di quanti avevano avuto la sua lingua nella propria bocca, e che
ne
sapeva di cosa volesse lui, di quanta disperazione ci stesse mettendo,
se fosse
stato in grado di fare l’amore con lei, se ne avesse
l’intenzione, o se sarebbe
stato solo sesso fatto bene, con la leggerezza con cui da grandi si
scopre che
il sesso e l’amore sono perfettamente in grado di
sopravvivere l’un l’altro
senza necessità di conoscersi diventando intimità.
Se
ne’era scopate tante in quella macchina, per dispetto a sua
madre che attendeva
un seggiolino nel sedile posteriore, per compiacenza di sé,
per mettere alla
prova le proprie capacità amatorie, per noia o solitudine,
perché ubriaco o
perché innamorato (forse, abbastanza, sì, per
poco).
Viola
aveva il nome di un fiore e la malinconia negli occhi, poi di colpo era
sfacciata o terribilmente ironica, viveva nella melodia di una lingua
straniera, forse era in quella che gli stava parlando in quel momento,
o forse
non stava prestando dovuta attenzione, era sbagliato chiedersi se la
toga
potesse conciliarsi ad altro?, era pericoloso valutare l’idea
di chiudere il
codice civile ed aprire un romanzo, di mangiare fuori e tornare nella
stessa
casa, avere due macchine parcheggiate, essere gelosi e non dirlo
all’altro ma
almeno a se stessi, ridere senza per forza dover dire
perché, fare colazione
all’autogrill senza voler leggere negli occhi della cassiera
e del barista e
del turista con la pelle color aragosta, perdere una causa per aver
dato
fiducia ad un collega, non concludere una frase e accettare i puntini
di
sospensione… e respirare nella pausa tra loro e
l’inizio del resto.
E
respirare.
--
Ringraziamenti:
MyBlindedEyes:
Grazie
per il commento e il suo contenuto =) spero che il proseguo non deluda
le
aspettative, al fascino di Davide io purtroppo ho ceduto alla terza
riga del
racconto, vediamo quanto resisti tu! XD
|
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Capitolo 3 *** TERZA PARTE ***
Doverosa premessa:
scusate per la pubblicazione in orrido a-html (l'alfa consideratelo
privativo) non mi ero accorta che NVU avesse più o meno
deliberatamente ignorato i miei comandi ^^
TERZA
PARTE
Nessuno, neanche la pioggia, ha
così
piccole mani.
La sera era
tornata a casa con un
languore di cui non si era liberata. Era tornato a lambirla di notte,
fatto di
immagini e di pensieri. Le tremavano le mani, come se sul suo collo ci
fossero
ancora le labbra di Davide. Lo aveva portato a letto, con
sé, ma non era riuscita
a tenerselo sul cuore o nei pensieri, lo aveva voluto nella carne, lo
aveva
voluto sotto le lenzuola, chino su di lei, lo aveva voluto, voluto e
basta, e
nessuna fantasia riusciva ad appagarla.
Voleva fare
proprie le sue
contraddizioni, stringerle tra le dita, vincerle o perdercisi dentro,
dipanarle, sbaragliarle o esserne travolta.
Lo voleva e
basta, e sapeva che la
volta che lo avesse avuto sarebbe stata per lei un eterno presente,
sarebbe
tornato tale ogni qual volta l’avesse riportata alla mente.
Come se dopo quella
volta, Davide non le avesse mai tolto le mani di dosso.
Partì
per il solito fine settimana al
mare, cercando di trovare pace da quel gorgo di desiderio e di
impazienza.
Pensò
di chiedere a Vittoria di
raggiungerla.
A pieni nudi sul
pavimento infuocato
del terrazzo, compose un altro numero.
“Ti
raggiungo nel pomeriggio” le
disse. La sua voce era bassa, non poteva parlarle, c’erano
delle voci intorno a
lui. L’idea che non la stesse condividendo con altri, con
l’atrio del
Tribunale, con i discorsi dei colleghi, la compiacque.
“Sono
a casa. Ti scrivo dov’è.”
Avrebbe voluto
sentire ancora la sua
voce, ma lo lasciò andare alle durezze della legge.
*
Aurelia in
direzione contraria, in
andare. Questo un senso ce l’aveva? Lasciare il Tribunale,
subito dopo la
sentenza di accertamento. Via la toga, il codice e gli appunti
processuali
sbattuti nel sedile posteriore della macchina.
Via
dei Tulipani come se lei e i
fiori non potessero fare a meno di avere a che fare
l’una con l’altro.
Un parcheggio
entro le strisce, anche
se le manovre erano state secche e impazienti.
Il sole gli
batteva sulle spalle.
Viola abitava
all’ultimo piano, era a
piedi nudi, i capelli legati per il caldo, niente trucco, gli occhi
luminosi,
la casa bianca sgombra di qualsiasi oggettistica ma piena di fogli e di
libri,
un terrazzo grande ad intravedersi dietro il profilo delle sue spalle
esili, il
vestito di cotone bianco, un’accoglienza silenziosa, spazio
rarefatto e troppo
vasto finché fossero stati lontani, pieno di spigoli
invisibili, lei che si
muoveva leggera e fresca, gli aveva tolto la cravatta, lui aveva
pensato al
resto, gesti sicuri e finiti, la camicia e la cintura, compiuti ad ogni
rientro
a casa dopo la mattinata in tribunale o in studio, ma questa volta
c’erano delle
mani ad interrompere i suoi gesti, mani che non aspettavano altro che
avere
campo libero.
*
È
grande e piccolo. Esperto e timido.
Muove le dita dentro di lei e trema forte sollevato sulle braccia e
contro il
suo seno.
La fa impazzire,
sa come farlo, ma
solo se tiene gli occhi chiusi.
Padrone del suo
corpo, ogni volta che
lei gli chiede permesso con la bocca e con le mani, lui dice
sì.
Viola ha dita
fredde che scivolano
sul sudore della sua schiena. Lui ha spalle forti e presenti a cui
cerca di
aggrapparsi. Sprofondato tra le sue gambe la piega senza guardarla
negli occhi,
è con quella stessa lingua che parla alla Corte?
Lo accoglie, lui
si prende spazio.
Spinge e affonda come se sapesse che nel fondo c’è
un senso. Qualcosa da
raccogliere. Da dove è partito, da dove ripartire. Un posto
dove lasciare parte
di sé.
Lei gli respira
nell’orecchio. Tira
contro di sé il peso del suo corpo, è umido,
stanco ma non sfinito.
Fuori
l’aria è immobile, c’è
silenzio, ogni cosa ascolta loro: lei che non sa più
respirare, accoglie l’aria
nella gola volendo bere altro, lui che geme come se fosse un grande
dolore aver
trovato quel piacere.
*
Dopo erano
rimasti lì. Le lenzuola
attorcigliate tra loro nudi, immersi nei loro odori, placati, silenti.
Le dita di Viola
erano già tornate
fredde. Davide steso sullo stomaco nascondeva il suo sé a
riposo, la testa
reclinata, l’orecchio sul cuscino, il respiro dei bambini.
Viola gli aveva
posato le sue dita di
ossa e gelo sulla nuca. Come se avesse dovuto farlo. Non
c’era altrimenti da
fare. Fu colta dallo stesso brivido che lo attraversò lungo
la schiena, fino in
fondo, dove le dediche d’amore non arrivano. Irrefrenabile.
Lei potente e
materna nel disporre in
quel modo del suo corpo. Colma di desiderio e tenerezza fino
all’orlo, fino a
piangerne o a chiuderlo in un abbraccio che li dissolvesse.
Non sapeva se
dormisse.
Guardava il suo
corpo nudo, il sudore
che lento si asciugava sulla sua pelle scura.
Re
Davide
pensava trovando in lui quel miscuglio biblico di sfrontatezza e
potenza, di
mani grandi che sanno fare la guerra e suonare una lira. Quella grande
magnificenza umana, umanamente erodibile. Una cosa e il suo contrario.
Tempesta
e accettazione di tempesta.
Innamorati
di me
pensò. Adesso, quando ti alzi e mi
guardi.
Dito indice
puntato alla sbarra dei
colpevoli, e poi carezzevole sul seno di una donna.
Innamorati
di me, o non avrà senso sentirsi in questo modo.
*
Viola
finì con il trasferirsi in
pianta stabile nella casa al mare. Week end dopo week end portava con
sé un po’
dei suoi libri e articoli da tradurre, e li lasciava lì.
Viveva di
traduzioni, del vento sul
terrazzo, di succo d’arancia e insalate. Vittoria la
raggiungeva nelle pause
dal suo lavoro in palestra, e passavano interi pomeriggi a mollo
nell’acqua. In
rare occasioni Viola parlava di Israele. Quasi sempre di Davide.
Che veniva quasi
tutti i fine
settimana parcheggiando sulla solita strada. Quando pensava a lei, in
studio,
la vedeva sempre con il vestito di cotone bianco. La sua casa non aveva
l’ascensore, abitava all’ultimo piano, i suoi passi
per le scale erano quelli
del desiderio.
“Le
sudate carte?”
gli
chiedeva, curiosa. “In macchina”.
Le piaceva il
pensiero di quei viaggi
verso di lei. Lo immaginava in macchina, con del blues. Aveva deciso
che gli si
addicesse il blues.
Vittoria
iniziò a comparire nei loro
discorsi, in qualche racconto di Viola. Timidamente cercava di
presentargli la
sua vita, e le persone che la popolavano. Davide rispondeva a qualche
telefonata quando era con lei: lo ascoltava parlare la lingua
giuridica,
sbirciando verso di lui in terrazzo. Nel condire l’insalata,
mischiarvi le
olive nere affettare pomodori e carote a strisce sottili versare un
filo d’olio
o spruzzare veloce un po’ di limone, guardava il profilo di
Davide, gli occhi socchiusi
contro il sole, una sigaretta accesa e dimenticata sul posacenere o
stretta
nervosa tra le dita, le labbra sottili che parlavano poco e brevemente,
come se
quello che c’era da dire fosse presto e ben detto.
Si chiedeva che
volti avessero i suoi
clienti, e che storie. E i suoi colleghi. Salvatore e Andrea. Avrebbe
voluto
dare un volto anche a loro, conoscerne la voce, il modo di stare seduti
intorno
ad un tavolo, ciò che volevano nei loro bicchieri. Ma poi
Davide le accarezzava
la schiena con il palmo della mano aperto e caldo, le dita a premerle
sulle
scapole, nascondendo la sua riservatezza in un sorriso vago, e poi si
chinava
su di lei o attendeva che fosse lei a porgergli le labbra, il collo, se
stessa.
Quando faceva
l’amore con lei la
domenica, prima di ripartire, re Davide suonava la lira. Quando suonava
il
campanello, con la cravatta ancora al collo, il venerdì
pomeriggio
nell’arrivare, le sue mani e la sua bocca avevano
l’ardimento di un re
guerriero, l’urgenza del corpo prima dello scontro, del seme
prima del sangue.
Le piaceva in ogni caso. Le piaceva cercarlo la notte, di colpo sveglia
e
risvegliare anche lui.
Rispettava
ciò di cui non voleva
parlare, perché era un amante generoso, tanto quanto geloso
del resto di sé.
Viola percepiva
languire nei nervi
tesi sotto la sua pelle il ruggito di quanto in lui non era stato
domato, il
tormento di quanto era ancora irrisolto. Attendeva il momento in cui
avrebbe
trovato voce. In cui non sarebbe stato amore ma guerra. In cui non
avrebbe
cercato il piacere, ma un violento stordimento di una angoscia o di un
dolore.
Che Davide non avrebbe voluto condividere, eppure—
Eppure gli
avrebbe strappato
risposte, lo avrebbe piegato alla condivisione come lui
l’aveva piegata
all’arrendevolezza intrufolandosi in lei in quel modo che
sapeva lui. Perché
non disponesse di lei, ma condividesse con lei.
Lo aspettava,
quel momento. Con
timore e impazienza. Non sarebbe stato bello, ma vedeva se stessa con
la lira e
con la lancia, di fronte a lui. Sorridente
lacrime
come la gran donna
bambina madre e amante, che era stata Andromaca dalle torri di Ilio,
sotto
l’elmo di Ettore.
A volte in mezzo
alla giornata le
arrivava un suo messaggio. Nella laconicità delle parole non
mancava mai un
accenno di sentimento. L’azzardo ironico,
l’impudenza vagamente narcisistica,
l’eco di un sospiro stanco.
“Andrea
rompe. Lo metto sottovuoto e me ne vado.”
“Sì,
sono proprio lì. Sotto il tuo vestito.”
Poi un
venerdì mattina le scrisse
solo: “Cavilli legali. Arrivo
venerdì
prossimo.”
Nel resto della
settimana non
giunsero altri messaggi. Viola cercò di resistere a quel
silenzio, decidendo di
non chiamarlo, ché quelli erano i suoi spazi e la mancanza
che sentiva di lui,
come una bambina, forse non era un pretesto sufficiente. Ad
eterna memoria che la mia libertà finisce dove inizia la tua,
aveva detto. Scoprì cosa volesse dire essere schiacciati da
una sentenza.
Il
venerdì pomeriggio successivo il
cellulare di Viola si illuminò. “Sabato
sera sono lì.”
Fingere di non
essere delusa né
risentita era una sforzo che non volle sostenere.
Ma quando venne
il sabato, Davide
giunse senza cravatta e scuro in volto. Sotto il braccio stringeva un
fascio di
fogli e cartelle, e le sue labbra erano tese ed ermetiche.
“Problemi
allo studio?” gli chiese,
mettendo in tavola pasta fredda e vino bianco. Lui era seduto con la
schiena
contro la scomoda sedia di plastica del terrazzo, gli occhi chiusi, in
naufragi
solitari.
“Andrea
ci ha impelagato nei suoi
deliri di onnipotenza”.
Avrebbe potuto
aggiungere altro, come
causa invincibile, patto commissorio, società apparente,
liquidazione coatta,
ma lasciò stare, perché era ad un passo dal
perdere una causa importante nel
modo più inaccettabile: secondo giustizia. Il che
presupponeva che fosse nel
torto e che stesse andando contro natura.
“Se lo
dici ad alta voce poi lo
ridimensioni.”
“Davvero?
Anche a Hitler è servito?”
Non voleva
essere tanto tagliente,
sapeva che sarebbe successo. Che non sarebbe dovuto andare da Viola
prima di
aver perso la causa e aver divorato i fascicoli.
Lo guardava
ferita senza essere
sorpresa.
“Se
relativizzassi un po’, ogni
tanto…” .
Di nuovo la
frase sospesa,
incompiuta, mozza.
Era solo stanco,
in fondo.
“L’oggettività
dei fatti a volte
risolve ogni speculazione.”
“Ah,
certo”. Viola sbatté senza
controllarsi il bicchiere sul tavolo. “Ognuno sceglie di che
morte morire.”
Davide
alzò lentamente lo sguardo su
di lei, pronto a compatire o a disprezzare senza menzogne
ciò che non
rispondeva a compostezza. Sempre così al suo posto.
Così certo della
irrimediabilità, come della soluzione.
“Suggerimenti?”
Se anche
c’era dell’ironia, lei
percepì solo il sarcasmo.
“Di
solitudine. O di suicidio stoico,
fai un po’ tu. Tanto l’importante è non
cedere di un passo, no?”
In fondo, era
solo offesa per i colleghi
che non voleva presentarle.
“Avrai
di sicuro già deciso, che me
lo chiedi a fare? Hai il tuo non liquet,
tu. La scelta potrebbe essere tra la morte sul graticolo o per
dissolvimento,
tu sceglieresti comunque una delle due. Sbaglio? L’importante
è essere certi, aut aut.
Terza via, questa sconosciuta.
Dialogo, roba da farisei. Sicuro di essere ateo? Anche Abramo aveva
avuto un
aut aut e avrebbe ucciso suo figlio.”
La guardava
ancora, stavolta
indecifrabile. Non il fastidio né il sarcasmo, non il
pentimento né la
perplessità. Assorbito in un vortice in cui lei non
c’era. Viola scostò una
sedia, dal tavolo, si lasciò cadere. Aveva spezzato la lira
tra le dita. Forse
aveva gettato ciò che avevano dalla torre di Ilio.
“Voi e
la vostra legge.”
Mormorò,
guardando anche lei altrove.
Davide
registrò le ultime parole come
in eco. Ma in fondo cosa ne sapeva, lei? Non le aveva mai veramente
spiegato,
in ogni caso. Cosa ci fosse davvero, tra lui e la legge. Quale incesto,
quale
farmaco velenoso.
Novello
Saint-Just negli anni del
fervore innocente, dei vagheggi ascetici di una Legge immancabilmente
giusta,
in una Repubblica virtuosa perché secondo legge. Legge
specchio di concordia
universale, di verità.
E poi, cosa era
successo?
Si vergognava,
si era vergognato per
Saint-Just e aveva custodito i suoi testi nel ripiano interno della
propria
libreria. Non per ipocrita rinnegazione, ma per custodire il grande
segreto a
cui lui per primo non aveva voluto credere: che l’equilibrio
umano è labile.
Come era potuto succedere, perché d’un tratto
quella assolutezza mortifera, perché quei toni
convinti divenuti
idolatria? “Fuori dalla legge tutto
è
sterile e morto.”
Aveva chiuso
Saint-Just per paura di
sé. Quando la sua logicità lo avrebbe portato in
quello stesso baratro? Quando
l’imperio della legge, il controllo della forma, la pretesa
di certezze lo
avrebbe reso cieco e freddo? Quando lui stesso avrebbe ghigliottinato
la Legge,
violentandola dietro una maschera di amore implacabile?
Aveva paura dei
punti che trovava
alla fine delle proprie frasi. Terrore di diventare aberrante quanto
ciò che
aberrava.
Viola aveva la
voce fragile del
compromesso. Un po’ di questo e un po’ di quello.
Davide conosceva tutto o
niente. L’amore o il sesso. La certezza o
l’assurdo. La guerra o la lira, mai
insieme. Vincere o perdere, ma non patteggiare. “Compromesso
non vuol dire
patteggiare” diceva Viola. Lei conosceva più
lingue: sapeva leggere da sinistra
a destra, e da destra a sinistra. “Conosci solo il linguaggio
del tuo codice.
Guarda fuori, c’è la guerra e non riesce ad essere
vinta. Ma se dimezzi
equamente pretese e diritti…”
La legge
è il senso della società, è
la madre e la figlia dell’uomo, non può ucciderlo.
Vero? si era chiesto.
Saint-Just taceva nel ripiano interno della sua libreria.
*
Quando
sollevò lo sguardo il vino era
ancora fermo nel bicchiere, Viola voltata di tre quarti, con il mento
poggiato
su una mano e i capelli a dibattersi furiosi quanto lei, sulle spalle,
sotto il
vento.
“Sei
ancora arrabbiata?” azzardò,
prendendo un sorso di vino, senza guardarla. Viola non si mosse, ma
c’era
quella inflessione incerta nella sua voce, che la spinse per un attimo
a
lasciar perdere e prendergli una mano.
“Discretamente”
gli fece sapere, se
non altro smettendo di dargli le spalle.
La
verità è che non riusciva a
guardarlo. Si sentiva piuttosto stupida per aver reagito in quel modo,
chissà
se gli sarebbe piaciuta ancora, o lo stesso, anche così
emotiva e poco incline
a pensieri apodittici. O se non la credesse pazza. Con Marco era lei
quella
normale, in grado di resistere agli urti di una gelosia iperbolica. Ma Davide era una storia
diversa.
Lui era lo
scoglio, e lei la bambina
che a piedi nudi si arrampicava cercando di rimanervi aggrappata il
più a lungo
possibile, e che in altri momenti, da lì sopra, cercava di
difenderlo dalla
violenza dei flutti che gli sbattevano contro. Che lotta impari. Lei,
che a
malapena sapeva prendersi cura dei propri cupi esistenzialismi.
“Tu?”
mormorò allora, tra le dita
ancora chiuse in un pugno, sotto il suo mento.
Non le giunse
risposta, e quando fu
costretta a cercare lo sguardo di Davide, scoprì che la
stava guardando, con un
sorriso ironico ma leggero sulle labbra, non sarcastico,
solo… chissà. Sembrava
ridesse di loro, con tenerezza. Sembrava che la trovasse carina. La
guardava
come chi conosce un sottotesto. O come chi conosce se stesso, cosa su
cui lei
proprio non poteva fare appello.
“Io
sono stanco” disse soltanto, per
un attimo arrendevole.
“Va
bene, mangiamo” rispose Viola,
distribuendo le porzioni nei piatti, e tornando seduta.
“Ma
sei offesa.”
Sentiva i suoi
occhi addosso, forse
era arrossita. Voleva solo baciarlo, e chiedergli di parlarle di
Andrea, e di
invitarla ad un aperitivo con lui e Salvatore. Di aprirle qualche
porta, di
accendere una luce sul soffitto della stanza che stavano dividendo.
Sospirò
fissando il piatto, meditabonda.
Quando era
piccola sua madre le aveva
messo in testa che il suo fisico fosse adatto alla ginnastica
artistica. Sulla
trave però, quando si trattava di arrotolarsi su se stessa e
tornare in piedi
in perfetto equilibrio, lei avvertiva sempre quella morsa feroce allo
stomaco,
e le mani sudate, e il cuore in gola, ma in gola davvero, prima di
slanciarsi
indietro sapendo che se avesse posizionato male le mani… in
quel momento si
sentiva in quel modo.
Lui si sporse,
trascinò verso di sé
la sedia su cui era seduta Viola.
“E’
un concetto che si può esprimere
verbalmente?”
“Non
che in questi giorni ti sia
sprecato in comunicazione verbale.”
Davide la
guardò interdetto. Le
ricordò il modo in cui aveva fissato il foglietto che gli
aveva appiccicato sul
vetro, in mezzo al traffico.
Sembrava stesse
riavvolgendo il
nastro, ripercorrendo le ore trascorse, alla ricerca del dettaglio
rilevante.
Come se non fosse abituato a considerare l’idea che qualcuno
potesse sentire la
sua mancanza. O che esistesse al mondo un sentimento come
l’affezione, o che la
quotidianità forse logora ma in fondo non uccide per forza.
Viola
ingoiò a fatica il pensiero che
in quei giorni effettivamente avesse pensato a tutto tranne che a lei,
che
invece lo ritrovava sempre tra le righe del romanzo che stava leggendo,
o sotto
il cappello che si poggiava sul viso per prendere il sole, o forse
sì, lo aveva
detto lui, no?, sotto il suo vestito.
“Ti ho
avvertita che non avrei fatto
in tempo” le disse e forse quello, quel tono, era il suo modo
di chiedere
scusa.
“Beh,
non sono la tua segreteria
telefonica. Potevi anche parlare, lo fai tutti i giorni, no?”
Sarebbe sempre
successo, in fondo,
era la storia più vecchia del mondo. Che ci si innamora, e
uno è più preso
dell’altro, uno pensa di più, sospira di
più, cerca di più, fino a che l’altro
non raggiunge la stessa lunghezza di pensieri, sospiri, ricerche.
Se solo lei non
avesse avuto il
complesso dell’ultimo animale da circo nei suoi confronti, se
non si fosse
sentita costantemente minacciata dai sospiri che le strappava dalla
gola, o dal
desiderio che provava di lui, o dalla necessità di avere le
sue labbra addosso,
o la sua voce nell’orecchio. Se solo non fosse stata una
guerra a chi si
innamorasse per primo. Se solo fosse stata sicura che fosse possibile
innamorarsi di lei.
“D’accordo.
Avrei potuto chiamare,
non ci ho pensato. Non è il mio stile, fare telefonate.
Quelle sono di lavoro.”
“A
titolo informativo, c’è qualcosa
che non sia lavoro per te? Visto
che
gli hai dedicato tutto ciò che si fa nella normale vita di
relazione, mi faccio
due domande…”
Neanche si era
accorta di aver
giocato tanto sporco. Fu solo lo squarcio che vide passargli nello
sguardo a suggerirle
che fosse facile tirare fuori quella carta. E forse dietro i suoi
silenzi e le
sue timidezze, che tanto l’avevano incuriosita, era nascosto
quel segreto: il
recondito pensiero che quanto di sé si riveli
all’altro finisce sempre per
conficcarsi nella propria carne.
In tribunale
è una battaglia ad armi
pari, sono fatti e nessuno va oltre
la toga. Qualsiasi scorrettezza è finalizzata ad un successo
proprio, a tal
punto che la sconfitta dell’altro è solo una
conseguenza logica, ma accessoria.
Non
c’è niente da perdere oltre la
causa: gli occhi dell’avvocato della controparte ti hanno
incontrato solo
davanti ad un giudice, non sono gli occhi di Viola, che ti hanno
guardato
mentre faceva l’amore con te, né quelli di Andrea
la volta che ti ha raccolto da
sotto la moto sull’Olimpica in mezzo alla pioggia.
“Non
volevo dire…”
“Le
parole non sono mai a caso, certo
che volevi dirlo.”
Le
sembrò in quell’istante, per la
prima volta, di averlo guardato negli occhi inciampando nel bagliore di
un
sentimento che non fosse solo desiderio. Volle prendergli di nuovo la
mano. Per
dirgli che in fondo si sentiva nello stesso modo, anche se riempiva di
parole
quello che lui ammantava di silenzio.
“Fare
avanti e indietro sull’Aurelia
tutti i finesettimana non è abbastanza? Mi sono fatto tre
ore di traffico,
l’altra volta, e tutto perché mi andava di
vederti. Ti sei presentata di punto
in bianco sotto lo studio e ho lasciato perdere la diffida di pagamento
di un
cliente, forse non è materiale da romanzo né da
raccolta scelta di poesia, ma
tant’è. Se vuoi chiedere conferma
all’oracolo di Delfi della sincerità dei miei
sentimenti—”
“Va
bene, va bene! Rinfodera il
sarcasmo” lo interruppe Viola. “Ho
capito” soggiunse, più morbida.
Gli occhi di
Davide si fecero
guardinghi, come se non le credesse del tutto. Come se fosse troppo
semplice,
dopo anni spesi a fare i conti con se stesso e i propri ritmi, venire a
patti
con qualcuno che chiede tanto spazio per sé.
Viola fissava un
punto indistinto tra
la sua mano e il bordo del piatto, riflessiva.
Davide non era
certo di volere che
giungesse ad una conclusione. Fino a quel momento era andata bene
così, in quel
modo, quel frequentarsi blando, era prassi, niente di nuovo. Ascesa e
declino,
niente che non fosse successo ad altri, niente che non fosse successo
anche a
lui. Se non fosse che tanti chilometri in macchina non ne aveva mai
fatti in
vita sua.
Ma poi, gli
altri (sua madre e le sue
domande puntuali per telefono sempre nello stesso ordine, Salvatore con
la foto
di sua moglie circondata di carte sulle scrivania) cosa volevano da
lui? Come
se avesse inneggiato al cinismo o avesse propagandato il culto
dell’anafettività.
La sua era una
equazione personale,
una convinzione modellata su di sé, una scelta di vita che
non avrebbe comunque
imposto ad altri. Lui aveva scelto di fare dell’indipendenza
affettiva lo
strumento di preservazione. La solitudine non la trovava
così corrosiva, era in
pace nei suoi spazi, e l’amore sì, va bene, ma
perché non a distanza, perché
non amarsi ognuno da casa propria?
Stava bene nelle
proprie misure,
sapeva muoversi agilmente nei propri spazi.
Quando Chiara lo
aveva chiamato
singhiozzando di porta-aceti e macchine familiari dopo la definitiva
discussione con Andrea, avrebbe voluto mettere un tappo, silenziare
quei
gemiti, riappropriarsi del suo migliore amico per ciò che
era, senza dover
rivestire i panni di consulente matrimoniale o amico di famiglia.
“Me
ne torno a casa da mia moglie” annunciava
sempre Salvatore, fuori dallo studio,
guardandoli con quel sorriso bonario e paterno. “Se
non ci fossi io, a prendermi cura dei vostri esasperati
individualismi…” borbottava altre volte,
quando Andrea declinava senza
troppe cerimonie proposte di vacanze insieme o di cene a casa di
Salvatore. “Cip e Ciop, vi lascio a
dividervi le
ghiande”.
Davide e Andrea
sorridevano sempre di
rimando, a volte vagamente imbarazzati, si confessarono una sera, alla
seconda
birra. Davanti alle macchine, Andrea aveva aggiunto che lui e la sua
assistente
avevano concluso i loro rapporti lavorativi per iniziarne di diversi. “Capito cosa intendo, no?”
aveva chiesto
poi, innervosito dal proprio impaccio. Davide gli aveva battuto una
mano sulla
spalla, annuendo, un commento del caso, la solita ironia corrosiva che
li aveva
resi amici a Milano. Non che si fosse sentito menomato. Si era solo
fatto
venire dei dubbi. E lui, con i dubbi, aveva pessimi rapporti.
*
Ho
capito
aveva detto Viola.
Poi si era
alzata, per sparecchiare.
Lui era rimasto
seduto, a fumare al
buio in terrazzo.
I rumori dei
movimenti veloci di
Viola all’interno della casa giungevano attutiti. Immaginava
per ogni suono la
figura di Viola intenta a compiere il gesto corrispettivo. I piatti nel
lavandino, lo sportello chiuso con un colpo secco, passi in camera da
letto—a
prendere il libro, la luce spenta, passi in salone, la luce accesa, il
divano,
i sandali scalzati dai piedi e lasciati cadere in terra. Aveva di
sicuro
raccolto le gambe per poggiarvi il libro, gli occhiali appoggiati sul
naso,
timidi, come se fossero lì per caso e non perché
lei ci vedesse poco da vicino.
Il fumo della
sigaretta si confondeva
con quello dello zampirone che Viola aveva acceso a cena, per tenere
lontani
gli insetti. Odore agre e dolciastro insieme, in un miscuglio
improbabile. Lì
in mezzo Davide pensava all’altra donna, a come era finita,
al prima e al dopo.
Forse di Elena
era stato innamorato.
A lei aveva addirittura riservato un posto nella memoria. Aveva
sopportato il
rischio che i ricordi riemergessero a tradimento, indipendentemente
dalla sua
volontà. A volte, dopo aver accompagnato a casa una Irene,
gli tornava in mente
il profumo di Elena. Nei suoi ricordi non c’era mai
l’espressione del suo
volto. Solo dettagli di lei. Il profumo, un paio di orecchini che le
aveva
visto spesso ai lobi. Oppure ricordava il suo sorriso sofisticato, che
la
faceva sembrare una donna d’altri tempi. O la curva delle sue
sopracciglia, in
tribunale, quando qualcosa non andava come previsto. Ricordava alcuni
posti in
cui avevano fatto l’amore. Erano tutti pensieri nebulosi.
Raramente poteva
chiamarli nostalgici. Ma era piuttosto certo di averla amata. Andrea
del resto
non la nominava mai.
Da quando aveva
incontrato Viola i
frammenti di Elena non erano più apparsi, se non una volta.
Qualche
settimana prima Viola lo
aveva svegliato, di notte. Capitava che lo facesse, lui non si ritirava
mai nel
sonno. Nel silenzio della stanza era scivolata sopra di lui, spostando
le
lenzuola. A luce spenta si era scoperto a cercare il suo sguardo. Lo
aveva
trovato. Viola si muoveva sopra di lui, e sentiva i suoi occhi addosso,
anche
al buio, come se fosse pieno giorno e lei lo stesse fissando, con la
stessa
intensità con cui lo aveva guardato in macchina, mentre
parlava al telefono in
mezzo all’Aurelia, come se ci fosse qualcosa da scoprire,
qualcosa da trovare,
quella notte nel buio lo stava guardando proprio in quel modo. Elena
aveva
occhi così sfuggenti, aveva pensato.
E a quel punto
Viola, come se avesse
letto nei suoi pensieri, lo aveva baciato, i suoi denti a stringergli
le
labbra, la leonessa che si riappropria di ciò che le spetta,
era andata a
riprenderselo.
Davide non
sapeva se avesse inteso
strapparlo dal baluginare fioco dell’altra donna, o dal
baratro in cui lui per
primo si era sentito sprofondare, perso nei suoi vuoti
d’anima.
Lei era comunque
andata a
riprenderlo.
Si
alzò, lasciando lo zampirone a
bruciare se stesso.
*
La
trovò raggomitolata sul divano
nella posizione in cui l’aveva immaginata. Le gambe raccolte,
il libro poggiato
lì sopra, gli occhiali sul naso, l’espressione
concentrata ma di certo non
sulla storia del romanzo. Aveva sostituito se stessa ai protagonisti
della
storia, riempito i loro dialoghi delle parole volate tra lei e Davide
poco
prima.
La raggiunse,
sedendosi accanto ai
suoi piedi. Portò con sé l’odore di
fumo.
Viola
alzò lentamente lo sguardo dal
libro, incerta.
“Facciamo
quattro passi fino al
porto?” le propose. In realtà aveva la voce
stanca. Viola chiuse il libro,
tenendo il segno con due dita. Era quello che voleva? Si chiese. Quel
tono
conciliante, che lui andasse a cercarla, che le facesse capire di
essere
dispiaciuto, che le dicesse di volerla ancora al fianco per una
passeggiata al
porto?
Re Davide suona
la lira dopo aver
fatto una guerra.
“Mi
racconti che ha combinato
Andrea?” chiese a bassa voce. Lo vide chiudere gli occhi,
reclinare la testa
indietro, sorridere o forse sospirare, non riuscì a
distinguere.
“Sì.
Te lo racconto.”
Quando Davide
riaprì gli occhi, Viola
era in piedi di fronte all’armadio, in cerca di una giacca
con cui coprirsi le
spalle dal vento fresco della sera, giù al porto.
La
guardò portare a termine i
preparativi, seguendo i movimenti con lo sguardo, senza distrarsi un
attimo.
Nel tempo in cui scelse la giacca spazzolò i capelli
sistemò il vestito infilò
i sandali ai piedi cambiò giacca e ripescò le
chiavi di casa dal vaso sul
tavolino basso nell’ingresso, Davide sentì le
proprie spalle rilassarsi, come
se avesse ricevuto un anticipo e l’odore di mare del porto lo
avesse in parte
già raggiunto, entrandogli nei polmoni,
e le luci dei ristoranti e il vociare delle persone intorno alle
bancarelle
allestite lungo la banchina lo chiamassero già.
“Sono
pronta” disse Viola, al termine
delle operazioni. Lo aspettava vicino alla porta, la chiave rossa
– quella più
lunga, aveva imparato Davide – già inserita nella
toppa, perché la corrente
d’aria delle scale non facesse sbattere la porta.
Davide si
alzò, abbassò la serranda
del terrazzo spense la luce lasciò lo zampirone
lì dov’era e la raggiunse.
“Anche
io” disse, riferendosi ad altro.
FINE
Tanks to
momo_ :
Sulle storie
romantiche sono stata sempre scettica anche io, anche perché
la
filmografia non ha fatto mai niente per vincere lo scetticismo
(Serendipity è stato solo l’esempio più
smaccato a conferma dei
sospetti XD) quindi mi solleva sapere che questo papocchio di tre parti
non è banale né scontato! Riguardo la frase
sull’affascinante idiozia
di certi uomini… si è scritta da sola, non la
trovo smentibile in alcun
modo XD Insomma, grazie per la recensione e per i complimenti,
è una
domanda che mi pongo spesso anche io (ovviamente su altri scrittori di
EFP, non su di me XD) ma il fatto è che l’editoria
in sé quando non mi
avvilisce per i suoi meccanismi mi inibisce per altri, quindi credo che
sia un cane che si morde la coda e che forse ha ragione davvero Erri De
Luca a consigliare tutti di tenersene alla larga quanto più
possibile
^^ Consiglio che a quanto pare Moccia ha seguito alla lettera, a quanto
pare! (sarcasmo mode: on)
Anyway, grazie ancora per esserti dedicata alla lettura di Piccole mani
=) [1] Cit. Giacomo Leopardi
[2] Cit. Omero, Iliade.
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