Piccole mani

di Briseide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PRIMA PARTE ***
Capitolo 2: *** SECONDA PARTE ***
Capitolo 3: *** TERZA PARTE ***



Capitolo 1
*** PRIMA PARTE ***


DISCLAIMER: Fatti e persone citati sono puramente casuali. Qualsiasi somiglianza o coincidenza è altrettanto casuale. Tranne il traffico sull’Aurelia.

Note:
1.    Il racconto è correlato al precedente Cliché ma solo in quanto ad un personaggio comune (Andrea) e ad altri citati solamente (Chiara, Amanda). Piccolemani è a se stante e può essere letto tranquillamente senza aver letto prima Cliché (benché se voi voleste, è sempre lì XD), e temporalmente è successivo di pochi mesi.
2.    Sono tre parti già terminate (chi mi segue da The way we were non crederà che a parlare sia io XD) quindi l’aggiornamento è prestabilibile e cadrà di sabato in giornata!
3.    Nel corso della storia compaiono tematiche letterarie etiche o teologiche che siano, sentitivi liberi di dissertare, credo nel dialogo e nella sofferta e indispensabile arte della dialettica (e forse per questo a breve mi verrà tolto il diritto di voto, chissà.) Citando Hillman: “Vi prego, non siamo a scuola e io non sono il vostro istruttore: lasciate parlare le idee.” =)
4.    Roma compare molto perché sono vent’anni che ho a che fare con lei e per quanto controverso sia il mio sentimento nei suoi confronti e per quanto la trovi mefitica e per quanto i romani a volte suscitino in me sommo fastidio – solo alcuni –, credo di esserne un po’ innamorata. Citerei Majakovskij ma poi diventerebbe troppo sentimentale il tutto (e poi Roma ha un clima mite XD)

Credit: Titolo e “sottotitoli” sono parole di E.E. Cummings, la poesia è Piccole mani. In fondo alla pagina il testo integrale.


Piccole mani

PRIMA PARTE
Il tuo più tenue sguardo.


Quando la radio rese noto il blocco al chilometro trecento sull’Aurelia per Davide era già troppo tardi. Lo aveva scoperto venti chilometri prima, quando la Panda davanti a lui aveva rallentato sinistramente, di colpo.
Grazie tante… pensò spegnendo la radio con astio legittimo.
Il trittico Luglio – traffico – Aurelia era rinomato per essere fatale, e lui era appena caduto nella sua rete.
Se solo non avesse accettato quell’invito per il finesettimana al mare, avrebbe evitato quel martirio.
Le dita composero con un mesto automatismo il numero del suo socio.
“Salvatore? Faccio tardi.”
“Che vuol dire? Quantifica tardi.”
“Vuol dire che sono sull’Aurelia e non si muove niente.”
Ci fu un silenzio considerevole dall’altra parte.
“Ho capito. Cederò le tue quote di partecipazione ad Andrea. È stato bello averti come socio.”
Poi il suo accento siculo si spense, insieme alla telefonata.

*

“Ma che succede, si può sapere?”
“Un incidente?”
“Ma no, è il tagliaerba del Comune…”
“Senta scusi, ma alla radio non dicono niente?”
“Lucilla, avvisa tu in reparto che faccio tardi—“
Davide pensò di insonorizzarsi passando all’aria condizionata, quando notò con lampante tempismo di essere quasi in riserva.
Rifletté sul fatto che certe giornate non andrebbero vissute, per non correre il rischio che siano le ultime, a dire dal numero di segnali negativi incontrati lungo il percorso in sole tre ore dal risveglio.
Del resto neanche sarebbe potuto tornare indietro, intrappolato tra una Panda viola dove una donna approfittava del blocco per finire di truccarsi a dovere al fine di sembrare una persona diversa da quella che il suo capo si era scopato senza troppe remore la sera prima nel villino al mare, e una moto cavalcata da un uomo sulla quarantina che non si era rassegnato né alla fine dei suoi anni di gloria né all’intelligenza del parlare allo sfortunato guidatore al suo fianco abbassando la visiera del casco. Davide non capì una sola parola di quello che gli chiese e annuì con aria affabile, prima di voltare la testa dall’altra parte.

Che poi, tutto sommato, neanche si sarebbe dovuto dispiacere più di tanto, per quel contrattempo. Non aveva comunque voglia di andare a lavoro. I soliti venti minuti alla ricerca di un parcheggio, l’ascensore con la luce ballerina, lo sguardo torvo della portiera al mancato buongiorno, e l’odore del sigaro che Salvatore aveva di certo già acceso e appoggiato al posacenere, in attesa del suo arrivo, al solo scopo di infastidirlo di prima mattina. “Quando sei incazzato rendi meglio in tribunale, lo faccio per lo studio” gli avrebbe detto, con quell’accento siciliano e i baffetti tremolanti sotto il suo sorriso furbo, ma buono.
Alla fine si era affezionato a Salvatore, a dispetto di ogni logica e probabilmente contro ogni buonsenso.
Andrea aveva insistito perché lavorasse con loro, con il chiaro intento di designarlo al diritto di famiglia. A causa della sua aria bendisposta avrebbe ammorbidito qualsiasi assistente sociale e giudice minorile, a detta del suo socio.
Davide invece credeva che bisognasse essere squali nella vita, perché la delicatezza pacifica dei pesci piccoli finiva con altrettanta semplicità nello stomaco dei pesci grandi.
“Fidati di qualcuno diverso da te, per una volta. L’ho assunto.” gli fece sapere Andrea, lasciandogli un post-it sulla sua scrivania.
Davide si era fidato, più per costrizione che per scelta, e alla fine pur continuando a dubitare delle attitudini professionali di Salvatore, si era affezionato, come uno scemo.
Colpa del suo accento, dei suoi occhi marroni, grandi e buoni, delle mani grandi che offrivano sempre un caffè dopo una causa, di quei baffetti che lo facevano sembrare un anarchico anni venti… insomma, si era affezionato e basta.
“Parli di Salvo come se fosse un cane” gli disse una volta Andrea, sornione “… ma ho capito che ti piace. Allora, ce lo teniamo, papà?”
Se l’erano tenuti.

Nonostante la sinergia trovata con i suoi colleghi, però, Davide non aveva ugualmente voglia di chiudersi in studio, ricevere telefonate da clienti preoccupati che l’avvocato avesse dimenticato i loro guai, fumare sigarette con la finestra aperta alle proprie spalle e fogli pieni di vicende giuridiche che in qualche modo avrebbe dovuto dipanare.
Si era laureato con l’obiettivo – Davide non faceva mai niente senza uno scopo preciso – di raggiungere la Cassazione, e da lì di potersi esprimere in legittimità lasciando giudizi di merito ai suoi colleghi delle corti d’Appello e dei Tribunali di Regione. Al di sopra. L’ultimo grado. Sentenza definitiva.
Invece si era trovato a dividere lo studio con un siciliano dal cuore tenero e un civilista esterofilo con una contraddittoria passione per il common law degli spocchiosi cugini d’oltre manica.
Dove avesse inciampato, non lo ricordava neanche più.
Si era presentata un’occasione di lavoro, poco dopo la laurea, un buon apprendistato presso uno studio legale di Milano, e lì aveva incontrato Andrea, appena laureato anche lui e già pubblicista per diversi giornali nazionali. Dopo qualche anno e un concorso aveva ottenuto una cattedra ordinaria a Roma, e così si erano salutati, fino a quando trascorsi si e no tre anni Andrea si era fatto di nuovo vivo, piombando tra capo e collo a Milano. Gli aveva chiesto un appuntamento per un caffè, assicurando di essere solo in visita, ma sul tavolino del bar gli aveva sbattuto con il suo solito piglio sicuro un po’ di scartoffie, che Davide aveva scoperto essere il progetto di aprire uno studio civilistico.
“Dentro o fuori?” gli chiese Andrea.
E Davide rispose: “Dentro”, perché di Milano non ne poteva più e di essere sottoposto di qualcuno, lui che sognava l’ultimo grado, neanche.

*

Il telefono aveva iniziato a squillare da diversi secondi quando Davide, riuscendo a strappare se stesso dal gorgo di quei pensieri, si affannò a cercarlo.
“Sì” disse, portandoselo all’orecchio e riuscendo addirittura ad inserire la seconda marcia. Forse c’era la concreta possibilità che riuscisse a lasciare l’Aurelia prima dell’età pensionabile.
“Ho appena acquistato le tue quote” gli giunse voce dall’altro capo.
“Professorino da quattro soldi” – le labbra sottili tese in un sorriso di goliardia maschile – “Perché non sei a mettere sotto torchio qualche studente?”
“Amanda” fu la risposta, a cui non bisognava aggiungere altro. Amanda tendeva a compierne una delle sue con una cadenza piuttosto regolare, e la gamma di possibilità era tanto vasta che ormai chiunque avesse a che fare indirettamente con lei si riservava di immaginare quale fosse la fattispecie del giorno.
“Da quando la frequenti la tua vita è diventata un romanzo picaresco” osservò allentando il nodo della cravatta per non soffocare. Nel compiere il gesto fu obbligato a voltare leggermente la testa, e fu allora che incontrò lo sguardo di una ragazza, nella macchina accanto.
Lo guardava da un po’, a dire dalla fissità della sua posizione.
“Smettila di fare il letterato e presentati in studio, mi ha detto Salvo—”
Gli sorrise, scrollando le spalle, a voler sottolineare che non ci fosse niente da fare ormai se non scrollare le spalle e sorridere, sull’Aurelia bloccata dal traffico in pieno Luglio.
Davide non seppe cosa replicare alla spontaneità di quel gesto. Sentì le labbra ammorbidirsi in quello che in ogni caso non riuscì ad essere un sorriso. Più per riflesso che per reale intenzione.
“— della causa. Capito?”
Lei rimase a guardarlo ancora, come se il loro scambio non si fosse concluso.
E Davide rimase a guardarla ancora, chiedendosi cosa volesse. Era una domanda tuttavia priva di astio o di fastidio, giunti a quel punto, solo piena di perplessità.
Lei dovette percepire la sua confusione, e come se avesse registrato in quel momento che fosse anche al telefono, deviò lo sguardo da lui. Fu rapida, ma senza alcuna timidezza. Con una certa riservatezza, anzi. Come se lo avesse lasciato solo nella stanza, alla sua telefonata, rimanendo seduta in salotto a leggere un libro, nel frattempo.
“Davide? Mi senti? Cos’è, un ictus?”
“Sì ho capito” mentì prontamente. “Poi mi faccio spiegare da Salvatore.” disse, concludendo la telefonata.

*

Si sentì piuttosto idiota quando, allontanando il telefono dall’orecchio, sorprese se stesso a voltarsi verso la macchina a fianco. Lo fece come se si trovasse in altro da sé, e non fosse proprio lui a compiere quel gesto così infantile. In ogni caso, non trovò la ragazza. Sparita alla sua vista.
Il che gli diede modo di tornare a guardare dritto davanti a sé, con uno scatto brusco come lo è l’imbarazzo.
Che cazzo fai? Ebbe il tempo di chiedersi. Nelle circostanze di sommo fastidio verso di sé si rivolgeva a se stesso allo stesso modo e con lo stesso tono aspro con cui suo padre lo rimproverava da piccolo.
Niente, fermo di nuovo. Seconda, prima. In folle.
Di nuovo la tentazione di voltarsi. Tanto che gli sembrava scomodo guardare davanti a sé. Come se la naturalezza del corpo lo volesse girato a guardare nella macchina accanto.
In ogni caso fu costretto, quando vide qualcosa agitarsi proprio lì dentro.
Era la ragazza, riemersa dai meandri in cui era sprofondata poco prima – per forza è riemersa, ci siamo mossi, pensò ancora con lo stesso tono appuntito Davide – che gli faceva cenni con la mano perché si accorgesse del suo richiamo.
Quando si voltò la trovò allungata verso il sedile del passeggero, il corpo teso nello sforzo di premere un foglio a quadretti contro il finestrino. Nonostante fosse chiaro che quel gesto le stesse chiedendo uno sforzo di contorsionismo, Davide si prese tempo di leggere due volte quel foglietto.
Infine sconfisse la propria incredulità. C’era proprio scritto così.
Caffè – autogrill?


*

Che cazzo fai? Continuò a ripetersi di nuovo, per tutto il tratto che lo separò dall’autogrill.
Sempre trovandosi in altro da sé aveva annuito, ottenendo in cambio un sorriso compiaciuto dalla ragazza.
Che era visibilmente giovane e preda di pericolose abitudini autostradali.
Era in ritardo, ricordò a se stesso, ma aveva anche pensato che in effetti non aveva fatto colazione.
Salvatore aveva una pratica da esaminare con lui, una causa piuttosto spinosa a quanto pareva, ma del resto che fretta c’era, il loro cliente avrebbe come minimo dovuto pagare gli alimenti, il resto della separazione dei beni poteva aspettare.
Non gli aveva di certo consigliato lui di sposarsi.
Quei capelli erano davvero biondi in quel modo o erano tinti?
E la pelle? Sole o lampada?
E quanti altri uomini aveva abbordato in quel modo, in mezzo al traffico?
Aveva un senso quello che stava facendo?
E se anche non lo avesse avuto? In ogni caso doveva fare benzina.
Ecco, trovato il senso.
Quindi, alla fine, inserì la freccia a destra ed entrò per primo nel parcheggio dell’Autogrill.

*

Davide era sempre stato a suo agio nell’arte della parola.
Aveva perso delle cause, ma anche in quei casi era sempre stato impeccabile nell’eloquio.
Gli esami ai tempi dell’università, i colloqui, i patteggiamenti con l’avvocato avverso e i dibattimenti in aula, così come gli annunci alle cene di famiglia, i messaggi di corteggiamento a qualche donna e i discorsi con cui decideva di recedere dal “nostro rapporto”, le discussioni di politica e diritto con Andrea, le conversazioni telefoniche a parenti lontani chiamati confondendo il loro numero con quello di altri e via di seguito.
Una vita spesa nella più attenta cura della forma, al punto da esasperare persino la pignoleria di Andrea.
A Davide capitava ancora più che al collega di foderare ogni contenuto con un tessuto di parole in perfetta armonia sintattica tra loro; il pathos di un discorso con le sue vette aspre e i suoi dislivelli tonali era tenuto sotto controllo da una melodia di assonanze. “Sei disgustosamente d’annunziano. E alla Corte piace.” borbottava Andrea, che prediligeva la sintassi stringata e sincopata, come i suoi gesti e i suoi rigidi dogmatismi giurisprudenziali.
Restava il fatto che nel parcheggio di quell’autogrill Davide non sapeva assolutamente che cosa dire.

“Scusa se mi sono permessa” disse infine lei, rompendo il ghiaccio. “Ma la situazione era comunque tragica, quindi…” lasciò incompiuta la frase, in quello che Davide aveva sempre ritenuto un vizio da analfabeta o nel caso migliore da indeciso. Eppure quei puntini di sospensione, abitualmente tanto accondiscendenti e vili, usati in quel contesto e accompagnati da quel sorriso e quel modo di gesticolare, ebbero quasi un senso.
“Viola” aggiunse, senza prendersi la briga di costruire una frase intorno ad un’informazione, valutò ancora Davide.
Si presentò a sua volta, porgendole la mano, come era sua abitudine. Gli era utile porre una certa distanza tra sé e il prossimo, ché poteva essere un prossimo amico o un prossimo avversario o una prossima sventura, un prossimo rimorso… e via di seguito.
Viola ricambiò la stretta, ma decise anche di sporgersi verso di lui e dargli due baci sulla guancia.
Le era piaciuta da subito, quella barba rada, un po’ incolta – che Davide aveva in mente di eliminare appena arrivato allo studio – e aveva voluto conoscerne la consistenza. Ma questo non lo disse subito, preferendo lasciare a lui lo sgomento e a se stessa un briciolo di timidezza a riguardo.

“Ciao” la sentì approcciare il barista.
Inutile dire che lui avrebbe scelto un convenevole appena più distaccato. Vedendola accanto a sé si chiese che effetto facessero vicini. Cosa potesse pensare la gente del loro modo di ordinare una colazione in un autogrill. Si chiese se la cassiera alle loro spalle li avesse ritenuti due amici in viaggio, o se il barista li avesse scambiati invece per una giovane coppia prossima ad un figlio magari, o se ancora quel turista dalla pelle bianca e l’abbronzatura aragosta si stesse chiedendo che ci facessero l’acqua e il fuoco fianco a fianco in un bar di passaggio autostradale.
O forse a nessuno frega niente vociò esasperato il se stesso–padre nella sua testa.
“Un succo d’arancia e quei pasticcini lì” ordinò lei.
“Un caffè” la seguì Davide guardandola vagamente interdetto senza accorgersi di averlo fatto.
“Perché mi guardi così?” chiese infatti Viola, per un momento perdendo la spigliatezza con cui si era presentata. Davide scosse la testa, ma infine non riuscì a non dirlo.
“No, è che… sembra la colazione di un bambino.” Non intendeva esprimere giudizi di valore, benché si rese conto ascoltando le proprie parole che fosse difficile non credere il contrario.
Tuttavia Viola scrollò le spalle, cercando di tenere a freno l’offesa.
“La tua sembra quella di un amministratore delegato” replicò bevendo il suo succo d’arancia.
“Avvocato” la corresse, sentendo l’ars oratoria tornare in carreggiata.
Un lampo di curiosità le accese lo sguardo, e si sentì nudo, senza capirne esattamente il motivo.
“Andavi in tribunale?”
“No, stavo raggiungendo un collega. Abbiamo uno studio privato.” Perché dai tutte queste informazioni? Questa volta era la voce di sua madre, in quel suo solito allarmismo ereditato da una vita di paese trapiantata in città.
“Penalista.”
“No, civilista.”
“Non ne indovino una” commentò Viola – Viola, che nome insolito – ridendo di sé. Sembrava felice, però, di sbagliare ogni pronostico.
“Tu che ci facevi sull’Aurelia?”
“Tornavo dal mare.”
“Troppo facile.”
Si meravigliò di sé scoprendosi interessato ad una risposta che fosse esaustiva. Si disse che anche quella era una deformazione professionale, come il pensiero di fare ricorso a priori ad ogni multa ricevuta o quello di leggere dettagliatamente tutta la posta condominiale con la certezza di trovarvi un tranello di bassa lega ordito da quella mente poco vivace dell’amministratore – oppure si trattava solo della legittima rassicurante pretesa di avere tante informazioni quanto quelle fornite a sua volta.
Oppure, Viola aveva un modo di sorridere accattivante, e lui non aveva mai incontrato qualcuno che proponesse una colazione ad uno sconosciuto adocchiato nel traffico.
Adocchiato, pensò, rimproverandosi la supponenza.
Magari era solo una giovane annoiata in cerca di avvenimenti insoliti da raccontare ad una cena tra amiche su una terrazza del Gianicolo.
Se la smettessi di pensare per luoghi comuni? Proprio tu, che metti il naso nelle più sordide attività illecite di cittadini al di sopra di ogni sospetto si rimproverò ancora.
“Faccio la traduttrice” gli concesse Viola, addentando un biscotto. Gli offrì l’altro rimasto, ma Davide declinò cortesemente. Prima delle dieci il suo stomaco era ermeticamente chiuso. Anche dopo le dieci, in realtà. Stress e mancanza di tempo per mangiare, a quanto pareva.
“Dall’aramaico?” la prese in giro cedendo infine al suo bisogno di controllo.
Viola socchiuse gli occhi sorniona.
“Dall’ebraico e dall’arabo.”
“Sei seria?”
“No, era per smontare il tuo altezzoso scetticismo” eppure continuava a sorridergli, più in alto di lui.
Davide lo aveva sempre saputo che l’ironia è più forte di ogni sarcasmo.
Anche del suo.
“Quindi traduci dal sumero.”
“Occasionalmente anche dal sanscrito.”
Il barista li guardava come se stesse assistendo ad una scena del teatro dell’assurdo.
Davide si sentiva in ogni caso calato nella parte, per quanto non riuscisse ad uscire da quella condizione di leggera idiozia.
“Mi arrendo” disse, sollevando le mani.
Viola lo guardò e fece un cenno con la testa: la abbassò appena, le ciglia ad ombreggiare lo sguardo.
“Ebraico e arabo.”
“Va bene, ci credo.”

*

“Adesso te ne torni in studio?”
Avevano ormai raggiunto le rispettive macchine.
Erano parcheggiate una accanto all’altra, e la macchina lunga e grigia di Davide aveva un’aria imponente al fianco della scatoletta colorata di Viola. Sembrava le facesse la guardia, pensò lei, facendo di nuovo quel cenno con la testa, per nascondere un sorriso.
“Traffico permettendo, è quello che mi tocca. Tu se non altro puoi lavorare per prati.”
Tirando fuori le chiavi della macchina prese atto di avere ancora meno voglia di prima di tornare a Roma.
Avrebbe voluto chiedere a Viola perché avesse scelto proprio ebraico e arabo tra tante altre lingue europee e di narrativa contemporanea. Ma forse lavorava per qualche ambasciata, e allora era stata una scelta logica e guidata.
Viola non rispose, come se non avesse ascoltato. Rimase in silenzio, facendo ciondolare le chiavi tra le dita, avanti e indietro, a lui ricordò le altalene del parco in cui lo portava sua madre da piccolo. Che pensieri assurdi. Adesso non avrebbe neanche saputo riconoscerla, un’altalena.
“Dov’è il tuo studio?” chiese di improvviso Viola, dopo lungo pensare.
Sembrava essere venuta a patti con se stessa, e non lo guardava più in volto come poco prima, al bar, tra succo d’arancia caffè e pasticcini, di colpo schiva, lunare.
Davide si sentì sputare fuori l’indirizzo corredato anche di numero civico.
Non aggiunse altro, sapendo che nella palazzina il loro fosse l’unico studio legale.
E in ogni caso era ancora troppo frastornato dalla situazione per poter compiere scelte avvedute e ripartite secondo logica.
“Ho capito.” disse soltanto, Viola, rimanendo in silenzio di nuovo per qualche secondo. Davide sperò – con la parte che era in altro da sé – che stesse sfruttando quel tempo per memorizzare l’indirizzo. Se fosse stato meno dignitoso forse avrebbe aperto la propria macchina, spalancato il cruscotto e le avrebbe dato il suo biglietto da visita. Ma gli parve in qualche modo volgare e troppo compromettente.
“Buon viaggio, allora” si congedò dopo averla ringraziata per l’idea della colazione.
Viola annuì, riacquistando il sorriso di poco prima. Davide ebbe l’impressione che fosse un sorriso ironico diretto personalmente a lui e al suo modo di fare. Sembrava lo trovasse buffo. Seppe da subito che non avrebbe potuto fare niente, in merito.
“Anche a te. È stato un piacere.”
Lo baciò di nuovo sulle guance, per sentire ancora la sua barba ispida
Non sapeva, Viola, se avrebbe davvero trovato il coraggio di cercare il suo studio.
Quindi tanto valeva accomiatarsi da ciò che per primo di lui l’aveva conquistata dal finestrino assolato della sua macchina.

--

Piccole mani
Il tuo più tenue sguardo
facilmente mi aprirà
benché abbia chiuso me stesso
come dita
sempre mi apri petalo per petalo
come la primavera fa
toccando accortamente
misteriosamente la sua
prima rosa
e io non so quello che c’è
in te che chiude e apre
solo qualcosa in me
comprende che è più
profonda la luce dei tuoi
occhi di tutte le rose.
Nessuno neanche
la pioggia ha
così piccole mani.


A sabato prossimo!

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Capitolo 2
*** SECONDA PARTE ***


 

 

SECONDA PARTE

Come dita sempre mi apri petalo per petalo.

 

 

Dal pianerottolo sembrava che nel suo studio si stesse svolgendo la seconda parte della battaglia di Al Alamein, pensò Davide appena uscito dall’ascensore.

Eppure una volta all’interno prese atto che ci fosse solo Salvatore, e che il più stesse avvenendo per telefono tra lui e certamente Andrea, a dire da come fremevano i suoi baffetti anarchici.

“E’ fuori da ogni logica!” urlò mentre Davide si impossessava della sua stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Aveva un discreto mal di testa, il lascito della cena a casa di suo fratello la sera prima. Vieni anche tu, siamo i soliti, una cenetta tranquilla, non fare l’orso. E alla fine era tornato a casa alle tre di notte, con vino rosso primitivo a scorrergli nelle vene al posto del sangue e in macchina una certa Irene da dover riaccompagnare.

Non aveva nessuna intenzione di occuparsi dei drammi dei suoi soci.

Come se avesse origliato i suoi pensieri, Salvatore aprì la porta della stanza, furente, brandendo il telefono come un’arma di distruzione di massa.

“Parlaci tu” disse esasperato con forte accento siculo – succedeva ogni qualvolta la sua pacatezza soccombesse ad Andrea e i suoi dispotici capricci – “Io non voglio saperne dei vostri inciuci contrattuali” e con quello sbatté il cellulare nelle mani di Davide e si accasciò sulla poltrona ben deciso a non perdersi la conclusione.

“Andrea. Qual è il problema.”

Salvatore accavallò le gambe e si accese un sigaro, ignorando lo sguardo omicida del collega. Era qualcosa che esulava dalle sue facoltà di comprendonio il modo di stare al mondo che avevano quei due. Uno preda di un forsennato amor proprio, la sindrome da Dio del Foro la chiamava lui, e l’altro placido e distaccato, lontano da qualsiasi giudizio di valore e di merito, come se niente lo riguardasse al di fuori di quanto dovesse portare a termine per puro perfezionismo, prima ancora che convinzione.

Adesso se ne stavano al telefono, Andrea a lamentarsi dell’eticità del socio che per primo aveva insistito per assumere, e Davide a raccogliere informazioni esulando dalle urla e dai lamenti le notizie veramente necessarie alla soluzione del conflitto.

“Mh. Mi sembra un mutuo più che un corrispettivo di prezzo.” disse, aprendo la finestra perché l’odore di sigaro uscisse dalla stanza. Salvatore alzò gli occhi al soffitto, sprofondando ulteriormente nella poltrona. Valutò l’ordine geometrico con cui ogni cosa era disposta nella stanza di Davide: la scrivania sgombra di qualsiasi suppellettile, gli spazi sfruttati in una economia perfettamente misurata. Lui aveva cassetti pieni di fogli e post it ovunque, anche sul porta sigari, e le sedie le sfruttava per poggiarci altra roba, non di certo per ricevere un cliente, che preferiva accogliere nel bar sotto l’ufficio o comodamente seduti nella stanza di Andrea, sempre assente dietro i suoi impegni universitari.

“E allora? Il divieto di patti commissori dove lo lasci?” sentiva dire Davide, che aveva iniziato a giocare con una penna a scatti. I baffi di Salvatore vibrarono compiaciuti: era esattamente quello che aveva cercato di far capire ad Andrea, prima di sentirsi definire avvocaticchio e di ricevere l’invito a giocare al marito e moglie come gli era più congeniale fare.

“Mh.” mormorò Davide, tornando seduto e guardando Salvatore dritto negli occhi. Per un momento l’altro si chiese se non stessero parlando di lui, in effetti. “Patteggiamo: fumati il solito pacchetto di sigarette, boccia qualche studente e richiamami quando avrai ridimensionato il tuo ego.” Ciò detto chiuse lo sportello del cellulare e lo restituì al proprietario con un gesto fluido e deciso. “Tu e il tuo sigaro fuori dalla mia stanza. E se mai vi capitasse anche fuori dalla mia vita.”

“Che ne è venuto fuori?” si informò Salvatore, senza assecondare nessuna delle due richieste.

“Tu sei troppo accudente, Salvatore, e per primo accudisci il suo fanatismo isterico” commentò l’altro tirando fuori le sue pratiche personali.

“La sua illogicità mi manda in bestia” ammise passandosi una mano tra i baffi. Davide sorrise lupesco, senza alzare la testa.

“Lo so. Ma così lo assecondi, invece di ridimensionarlo. E comunque ha ragione: è meglio che ti dedichi a vedovanze e figliolanza non riconosciuta”. Poi pensò di controllare di non averlo offeso, e soggiunse con una inflessione più tenue “Ti donano di più”.

Salvatore lo guardava in cagnesco, scuotendo la testa. Si era rassegnato all’idea di dividere l’attività lavorativa con due devoti al Libro Quarto[1] come fosse una Bibbia o un Corano, e tutto sommato riconosceva la loro dimestichezza nell’aggirare ostacoli e rendere un cavillo il tema portante in un contesto probatorio.

Si chiedeva solo se questa continua opera di attorniamento, questa eterna partita a scacchi fatta di salti laterali e avviluppamento di pedine, non li facesse mai sentire lontani e a disagio quando poi si trattava di camminare dritti e non mangiare pedine, in tutto il resto.

“Quello è un patto commissorio” volle aggiungere ancora, per pura ripicca.

“Certo che lo è, lo sappiamo tutti, Andrea compreso” osservò placido Davide, sorridendogli in quel suo modo sincero e scanzonato che lo rendeva eterno ragazzino nei momenti di pausa dal lavoro, come quello.

Poi il citofono suonò.

 

*

 

“C’è una donna che ti cerca.”

Davide tracciò un segno inconsulto con la penna, sulla notifica che stava scrivendo.

Gli occhi di Salvatore lo guardavano ridenti.

“C’è della figliolanza di cui vuoi che mi occupi?” domandò irrisorio, chiudendosi nella stanza di Andrea per prepararsi a ricevere il cliente delle undici. Sua Devozione, l’aveva chiamata Davide la prima volta che l’aveva vista uscire dal loro studio, con a seguito il suo giovane amante spacciato per un cugino di terzo grado e una lista di beni immobiliari che aveva reso noto avrebbe avuto piacere di cui disporre, alla faccia del marito.

Non rispose a Salvatore, ricoprì la penna del suo cappuccio, inserì il foglio nel cassetto delle pratiche da terminare e si decise a raggiungere il citofono. Non che gli fosse venuta in mente Irene, al primo pensiero.

In quei giorni aveva finto di dimenticarsi di Viola. Ad Andrea non aveva detto niente, certo che avrebbe demolito il tutto con quel cinismo che gli era proprio, e del resto forse Davide avrebbe fatto lo stesso, con identico scetticismo con cui accolse la notizia della promozione di Amanda da assistente ad accompagnatrice ufficiale.

“Sì?” chiese cercando di recuperare il tono pratico dell’uomo impegnato. Il che lo fece sentire doppiamente idiota, ancora una volta, come se avesse di nuovo sedici anni e dovesse fare appello a trucchi di bassa lega per sopperire alla mancanza di autostima, o di muscoli o di sorrisi alla Clark Gable.

“Ciao” disse Viola, dalla cornetta. La voce era metallica ma decisamente sua.

Davide sentì qualcosa attraversarlo da parte a parte.

Cercò di suonare naturale nel restituirle il saluto, ma in realtà avrebbe voluto chiederle quante volte avesse fatto il giro del palazzo prima di decidersi a premere quel tasto sul citofono, o quanto avesse dovuto pensarci e che scuse avesse fabbricato per darsi la chance dell’ennesima azione sconsiderata… O un caffè. Magari avrebbe solo voluto chiederle se le andava un caffè, da adulti. Avrebbe storto le labbra, come quando non aveva creduto al suo lavoro.

“Hai da fare?”

Forse gli piaceva quel suo modo di arrivare dritta al punto, tagliando di netto ogni imbarazzo, senza impelagarsi in convenevoli e accordi preliminari riguardo a compostezze e convenienze.

Aveva da fare? C’era quell’attico da liberare, per il suo assistito, la diffida di pagamento da inoltrare al conduttore inadempiente.

“Dammi dieci minuti” rispose invece. Iniziava a vivere un po’ troppo spesso nel altro da sé. Questi metafisici pretesti rendevano ancora meno decoroso il suo atteggiamento, ma non riusciva a farne a meno. Qualsiasi cosa gli avesse mai procurato un piacere gratuito, nella vita, ai suoi occhi aveva avuto bisogno di una giustificazione. Come gli era servita una giusta causa diversa dalla sua attrazione seducente per la Legge, quando aveva chiesto ai genitori un codice civile e non una laurea in ingegneria. “Mi occuperò io di tutto” aveva assicurato, agli inizi della sua carriera universitaria, anche se di fare l’avvocato di famiglia non aveva alcuna intenzione e già allora anelasse alla Cassazione e al supremo giudizio.

“Salvatore, devo assentarmi” annunciò, scegliendo un falso imperativo categorico dimostrandosi fedele a se stesso. Doveva perché in realtà aveva atteso quella visita per diversi giorni, al punto che vederla concretizzata era quasi divenuta una necessità.

Salvatore urlò qualcosa dalla stanza di Andrea, in fondo al corridoio, che Davide non sentì.

Fuori dall’ascensore c’era già Sua Devozione.

“Buongiorno” salutò in fretta, sbattendo contro il falso cugino di terzo grado.

 

*

 

 

Viola lo aspettava fuori dal portone, il sole attraversava di sbieco il vestito di tessuto leggero che aveva addosso. Se anche non avesse voluto – e in ogni caso aveva voluto – avvicinandosi a lei Davide poté quasi vedere oltre il cotone bianco.

Non sapeva se si ricordasse fedelmente il suo viso, l’aveva vista per poco tempo.

Ebbe anche l’impressione che Salvatore affacciato alla finestra non si stesse perdendo la scena, ma allontanò subito il pensiero, etichettandolo come paranoia da coda di paglia.

In fondo non stava facendo niente di male.

“Scusa, dovevo sbrigare delle cose”.

A parte lesinare sul lavoro e comportarsi da adolescente anni cinquanta.

“Una dura vita spesa in onore della legge” lo prese in giro lei, accogliendolo con un sorriso.

Era leggermente diversa da qualche giorno prima, sembrava meno giovane di quanto avesse stimato allora, o forse la consapevolezza con cui soppesava ogni gesto la gravava del peso degli adulti.

“Passavi di qui?” le chiese, con un sorriso da rivista pensò Viola, trovandolo affascinante e cretino come solo un uomo sa essere allo stesso tempo.

“Divertente” e con quello gli confermò di essere passata al suo studio con l’intento più o meno preciso di vederlo di nuovo. Come se quella cravatta che aveva al collo potesse renderlo più interessante ai suoi occhi, che si erano riempiti dei colori e degli odori della terra di Israele e non avevano più niente a che fare, quasi, con gli europeismi di un avvocato giovane e in carriera.

Eppure, lo aveva visto in macchina, colta da un momento di pigra distrazione nel traffico, e forse era la luce del sole alle otto di mattina, o il modo in cui aveva appoggiato il braccio sul finestrino, e la presa ferma e ferrea con cui si teneva il cellulare all’orecchio, o la linea serrata della mascella, e la barba sfatta in contrasto con la cura della cravatta e della camicia, o il modo in cui teneva una sola mano sul volante come se stesse guidando con la forza del pensiero, o il tono in cui aveva ordinato un caffè bevuto in due sorsi decisi, o il gesto automatico ma presente a se stesso dell’estrarre le chiavi della macchina e fare strada uscendo dall’autogrill… quel suo essere così maschile. Al diavolo, non ci aveva dormito quella notte.

E probabilmente si trattava di sublimazione, aveva reso una tela bianca un quadro impressionista e incontrarlo di nuovo l’avrebbe solo costretta a stracciare la tela e chiuderla nello scantinato insieme a tutti gli altri cadaveri delle delusioni passate.

Una più, una meno… si era detta, consapevole che non si trattasse del numero raggiunto ma della intensità con cui voleva incontrare ancora la ruvidità della sua guancia, e della sensazione sicura dell’averlo accanto ad un bar o per la strada.

“Avevi in mente qualcosa, passando di qui?”

Persino quel suo modo di essere ironico, di scivolare nel sarcasmo e spegnerne l’asprezza con un sorriso brillante e divertito, le piaceva. Lei che detestava tutto ciò che fosse tagliente e amaro, a partire dal caffè senza zucchero per arrivare alla più sferzante delle derisioni, era rimasta con le spalle al muro di fronte a quella specie di tirannia che emanavano i gesti e le parole di quell’uomo. A dispetto dei suoi silenzi, che sembravano pieni di ombre e timidezze.

Quel contrasto, ecco cos’era.

 

*

 

“Perché ebraico e arabo?” ebbe finalmente modo di chiederle, attraversando la strada.

Viola si appoggiò al muretto, affacciandosi sul Tevere. Il pregio di avere uno studio in Prati si limitava alla vicinanza con il Tribunale e la Cassazione e con il Lungotevere lì a qualche passo.

“Questione di suono” disse sorridendo e scrollando le spalle. Sembrava che non potesse fare una cosa senza l’altra: sorridere e non alzare le spalle, alzare le spalle e non sorridere.

Disse qualcosa di cui Davide non distinse neanche una sillaba, ma della quale riuscì a sentire il tracciato melodico.

“Meglio della secchezza inglese, dei suoni duri del tedesco[2]…” lasciò sospeso il resto delle sue valutazioni, e Davide compì l’ennesimo sforzo di non trovarvi un riempitivo.

Del resto lui dell’arte della composizione linguistica aveva fatto una specie di filosofia.

“Dimmi cosa c’è dietro un articolo di codice civile, per me sono una lunga serie di numeri” disse poi, guardandolo con un sorriso furbo.

“Il senso della società” rispose Davide, arrotolando le maniche della camicia.

Il caldo estivo aveva imperlato la sua fronte di sudore, la camicia aderiva più del dovuto su di lui, e Viola non riusciva a non guardarlo, combattuta tra la tentazione di cedere al naturale percorso del suo sguardo o il chiudere un po’ di sé nelle costrizioni a volte necessarie di una parte. Almeno per un po’.

“Ad eterna e salvifica memoria che la mia libertà finisce dove inizia la tua.”

Guardava lontano nel dirlo, come se i suoi occhi cercassero naturalmente il profilo del Palazzaccio[3], sapendolo dietro quell’angolo, poco più giù. Quel modo di appellarlo proprio degli occhi scettici del tempo, per lui si ammantava di una tenerezza tutta sua, modulava la lingua come se pronunciasse il nome della via della sua casa, lui che non lo trovava affatto brutto né sgraziato, troppo pesante a detta di fior fiori di critici ed esperti in materia. Davide lo trovava piantato al suolo, imponente e ricco come lo è la Giustizia, che poco si adatta a frivolezze rococò o a barocchismi di sorta. Duro e pesante, come la Legge.

“Non ti capita mai di discutere con i tuoi colleghi? Tra voi non siete mai d’accordo su niente.”

Sorrise, tornando a guardare Viola.

“Certo. Giorni fa Andrea ha dovuto sospendere il ring tra me e Salvatore.”

“Riguardo?”

“Regime patrimoniale tra coniugi. La legge vuole la comunione dei beni come prima scelta, ma così facendo un matrimonio di breve durata dove una parte produce ricchezza e acquista beni e l’altra no, destinato a concludersi dopo poco, si profila come un arricchimento indebito per chi non ha prodotto né incrementato il patrimonio familiare.” Si fermò un momento. “Mi segui?”

Viola alzò le spalle.

“Credo di essermi persa qualche puntata, ma ho capito il senso.”

Tacquero per un po’, il Tevere a scorrere lento sotto di loro, in mezzo all’inquinamento e alle chiatte ormeggiate.

Viola cercava di immaginare Davide in un’aula di tribunale, nel suo ambiente, con la toga da avvocato e lo sguardo fermo di chi sa di dover avere ragione. Lo immaginò teso nella battaglia, e poi lo immaginò anche studente, con il naso tra articoli del codice e letture giuridiche, severo e fiero come la legge quando non è violentata dall’uomo.

Si chiese quanto di sé avesse sacrificato alla dirittura della Legge, quanto di sé avesse dovuto immolare alla implacabilità di una convinzione, alla fermezza della parola: quanto ardore stritolato nella morsa di un decisionismo intrepido ma non veemente, per serbare l’equilibrio del giusto sottomettendo l’affanno del colpevole che scivola sullo specchio.

“Ti togli mai la toga?” finì con il chiedergli, riemergendo da quei pensieri.

Davide la guardò senza capire, o forse prese tempo per cercare una risposta ad una domanda irrisolta anche per lui.

“Fare l’avvocato è il tuo lavoro o la tua vocazione?”

Soppesò quella domanda, volgendo lo sguardo altrove.

Era arrivato un giorno in cui se l’era chiesto, se ci fosse altro di sé o se l’avvocatura avesse assorbito tutto. Se ci fosse mai stato dell’altro o se come Dio chiama i suoi sacerdoti ad essere solo suoi ministri e mai più uomini, allo stesso modo la Legge lo avesse chiamato a sé imponendogli di essere suo dipendente e nient’altro che una toga intorno alle spalle di un uomo.

Aveva perso i contorni tra chi era in aula e chi fuori, gli sembrava di essere sempre la stessa persona, di precludere a se stesso uomo gli stessi inciampi che si vietava di compiere in aula.

Amava il suo lavoro, per quanto non fosse in Cassazione, amava il suo lavoro al punto di chiedersi se amasse anche se stesso, o solo quello, il suo lavoro. La fredda precisione della legge. La sua capacità di creare e di reinventarsi, di seguire il percorso di una società in evoluzione, accogliendo le asprezze di ogni cambiamento per levigarle; accogliendo in sé quelle geometrie appuntite – ingoiandole negli accesi dibattiti dottrinali, nella sofferta e controversa prassi giurisprudenziale – solo per restituire al di fuori la superficie liscia di una norma.

Allo stesso modo Davide sentiva di contenere in sé ogni contraddizione, ogni scusa imperdonabile, ogni passo falso e ginocchio sbucciato, per restituire la serafica superficie di un atteggiamento fermo e inscalfibile.

“Non lo so più” disse a Viola, con un’espressione simile a quella dei suoi silenzi: pieni di ombre e timidezze.

 

*

 

Vittoria aveva ascoltato il fiume di parole che Viola le aveva riversato addosso come si ascolta il discorso di una demente.

Erano secoli che non le capitava di parlare così a lungo, in effetti, di dire così tante cose. Come se in qualche modo fosse uscita dal suo ermetismo, e di colpo.

Vittoria l’aveva accompagnata in aeroporto quando si era trattato di partire per Israele, chiedendole di mandarle qualche cartolina, di connettersi al computer, di lanciare segni di vita da laggiù. Non che volesse essere aggiornata sui suoi approfondimenti culturali.

“Non sparire” le disse prima di salutarla al check-in.

“Ma guarda che torno” l’aveva rassicurata Viola, come vinta dalla tenerezza negli occhi dell’amica. Era l’unica persona che lasciava con rammarico a terra, del resto, l’unica che avesse mai conosciuto in grado di sopravvivere alla irrequietezza delle sue relazioni. Giocavano nel parco dietro casa da bambine, V and V le chiamavano i genitori più moderni, l’Ambo gli anziani che prendevano l’ombra sotto i pini.

Da Israele non si era più fatta sentire, assorbita da un mondo diverso.

“Da quant’è che vi conoscete?” domandò Vittoria, versando mezza zuccheriera nel suo tè freddo.

Era sempre stata piuttosto scettica in merito agli entusiasmi di Viola, i soliti con cui si lanciava a capofitto in qualsiasi esperienza per uscirne con qualche osso fratturato e il sorriso mesto di chi assicura di stare bene e poi si chiude in casa in fase convalescente per un mese di silenzi e un anno di viaggi in Israele. A perfezionare la lingua.

“Il tempo è relativo” le rispose infatti.

“Adesso possiamo parlare di Marco quindi?” – il tono volutamente tagliente.

Viola persa a raggruppare fogli pieni di fonemi e ghirigori che Vittoria non riusciva a decifrare, inframmezzati da sporadici foglietti gialli di carta sottile pieni della sua grafia italiana piccola e nervosa, non le diede ascolto, non volutamente questa volta. Aveva impiegato settimane a convincere l’altra V. che il suo viaggio non fosse una fuga da Marco e la schizofrenia del loro rapporto, sapendo di non essere riuscita nell’intento.

“Mi daresti ragione se avessi visto il modo che ha di fare qualsiasi cosa” continuò per la sua strada, chiudendo i fogli in un cassetto colmo che ne lasciò sporgere i contorni accartocciati. “Qualsiasi. O la sua voce. Non ho mai incontrato nessuno così.”

“Nel traffico dell’Aurelia? Strano, avrei detto che è piuttosto frequente come cosa” borbottò l’altra, bevendo il suo tè. Vittoria era una delle poche persone, rigorosamente dopo Woody Allen, a cui Viola perdonava l’inflessione sarcastica in ogni commento.

“Rilassati” le giunse in risposta, dal fondo di un cassetto. “E’ solo una cena”.

Vittoria considerò quelle parole.

“Appunto” concluse, eloquente. “E’ solo una cena.”

Qualche giorno dopo la partenza di Viola aveva incontrato Marco in palestra. In quel luogo alienante come lo definiva Viola, che si era sempre rifiutata di metterci piede a costo di andare a correre nello smog di Roma in pieno traffico mattutino. Si erano salutati con aria mesta, entrambi malinconici per la  partenza di Viola, ognuno per i propri motivi. “Pensi che abbia intenzione di tornare?” aveva domandato Marco, tamponandosi la fronte con un asciugamano zuppo. “Ce lo chiediamo tutti, direi che è indicativo, no?” aveva risposto lei sospirosa.

 

Poi Viola era tornata, Vittoria era andata a prenderla in aeroporto e l’aveva trovata chiusa in un mutismo piuttosto deciso. Protratto per un discreto numero di mesi, in cui si era rintanata sul terrazzo di casa sua presa in una fervente opera di traduzione di articoli da quotidiani israeliani. Aveva accolto le visite di Vittoria con sorrisi spenti che si sforzavano di essere ospitali, e dopo un tè l’amica aveva sempre preferito lasciarla sola, sentendosi di troppo tra Viola e la sua solitudine.

Marco aveva chiamato due o tre volte, per tastare il terreno e capire se ci fosse un modo per rimanere in contatto, per conservare rapporti civili. Viola aveva riso delle sue preoccupazioni “Sono io che ti ho lasciato, devi dirmelo tu se vuoi sentirmi ancora” gli fece notare, lontana nella voce. Decisero di mettere una toppa e salvare ciò che di buono c’era stato ma lei non si era più fatta sentire dopo quella telefonata e Marco non l’aveva più cercata, sapendola distratta e indifferente, o solo triste per chissà quale spleen.

Infine, qualche settimana prima, Vittoria aveva ricevuto una sua chiamata: la avvertiva che sarebbe andata al mare, per un paio di giorni, le chiedeva se volesse raggiungerla, starsene un po’ a mollo, rosolarsi sotto il sole.

Sembrava tranquilla e serena, la sua voce era distesa, per telefono la sentiva sorridere.

“Non sono più abituata ad una città senza mare” disse con la pelle bagnata dall’acqua e gli zigomi arrossati dal sole. Vittoria aveva sorriso, sentendola di nuovo Viola. Non sapeva dove se ne andasse quando cadeva nella stagione dei silenzi. Nessuno lo sapeva. Sembrava un quadro di Hopper, carico di una malinconia immensa e devastante, ma inspiegata e inspiegabile, nessun punto di luce o di fuga nella scena ad indicarne la fonte.

Ma poi, in fondo, l’importante era che da quella solitudine tornasse da loro.

 

*

 

Riconobbe il muso da squalo della sua macchina grigia con la coda dell’occhio, chiudendo il portone.

Lui guardava in sua direzione, con un sorriso sulle labbra diretto poco a lei e molto a se stesso. Sembrava ridesse di sé. La divertì.

Comprese di aver desiderato salire in quella macchina, nel posto passeggero, dalla prima volta in cui aveva visto Davide guidarla per quei pochi chilometri sull’Aurelia. Un pensiero infantile forse, poco adulto, quella piacevolezza nel sentirsi a fianco di un uomo dalla guida salda e sicura, maschile, come quella di una pubblicità.

“Destinazione?” chiese lasciando perdere la cintura di sicurezza.

 

Destinazione ristorante del vecchio ghetto, il compiacimento del saperlo attento ai dettagli, la sorpresa dello scoprirlo conoscitore del posto. Caddero a Campo de’ Fiori, un saluto al buon Giordano[4], che vegliava taciturno adocchiando da lontano la Cupola nemica.

Turisti ubriachi, romani a passeggio serale con i cani e qualche amico, camerieri affacciati davanti all’insegna dei loro ristoranti in cerca di qualcuno che volesse fare quattro chiacchiere con loro più che mangiare, qualche bancarella agli angoli della strada, pattuglie di polizia fuori luogo a piazza Trilussa.

Camminavano tra la gente, a volte parlando piano, altre contemplando in silenzio il proprio trovarsi al fianco dell’altro.

Di nuovo Davide si era perso dietro quel gioco stupido del Indovina cosa pensa la gente. Incolpava la sua abitudine di fissare le persone per carpirne qualche segreto, era così con ogni collega avversario in aula, con ogni cliente, con ogni convenuto in giudizio che gli toccasse interrogare. Ma in quel caso non cercava tranelli né smottamenti del terreno dove poter agevolmente impiantare il seme della vittoria. In quel caso sapeva di cercare la compiacenza di quegli sconosciuti, sapeva di chiedere loro con aria fintamente distratta un nulla osta. Al solo scopo di non dare importanza a quei pareri, dal momento che l’unico giudice oltre la Legge per lui era sempre stato solo se stesso.

Viola gli camminava vicino, leggermente scostata, con il naso all’insù a cogliere odori e le orecchie tese ad impicciarsi di stralci di conversazione.

“Non hai mai pensato di scrivere qualcosa di tuo, oltre a tradurre?” le chiese Davide, riemergendo da qualche pensiero. Viola fece di nuovo quel gesto con la testa, ad avvolgere la timidezza del sorriso in un’ombra riservata.

“Qualche volta, ma non ho il dono della compiutezza. Non finisco mai quello che inizio” spiegò, alzando le spalle. Davide poggiò le proprie mani sulle sue spalle esili, lo fece senza pensare, sorridente, e Viola sentì le sue mani grandi e calde, le dita accolsero perfettamente la curva delle spalle, e sentì che in quel modo avrebbe potuto guidarla ovunque, lei si sarebbe fatta trasportare anche verso il dirupo, sotto la presa di mani simili. E forse quello era il suo problema. Questi assolutismi irriducibili che le impedivano di respirare l’aria del sobrio raziocinio.

“Potresti svelarmi tu qualche trucco” gli disse, alzando la testa stavolta, a cercare il suo sguardo. “Le tue arringhe hanno sempre una conclusione stringata, no?”

Davide rise.

“Il non liquet è dalla mia parte.” Lo disse quasi scusandosi. “Un giudice non può non decidere. La storia deve finire per forza, condanna o assoluzione, vincitore o soccombente.”

Viola pensò che quelle parole, e la toga, corrispondessero perfettamente alle sue mani.

Lei aveva dita sottili e lunghe, nervose, sempre fredde. Nella loro frenesia spesso lasciavano cadere oggetti.

“Che strano. Nella vita non funziona così.”

Le venne in mente Guccini che nella sua macchina cantava della ambiguità di vivere.

“Tu sei un ossimoro vivente” disse poi, sorridendo. Davide la guardò serio, a dispetto del tono scherzoso con cui aveva parlato Viola.

“In che senso?”

“Governi la legge, ma vivi una vita regolata dal caso.”

Poi sembrò ripensarci, per un momento.

“A meno che tu e Dio non siate in rapporti stretti” aggiunse sottotono.

“Non faccio mai niente senza avere uno scopo” rispose lui “ma solo perché so benissimo che uno scopo non c’è, in tutto il resto che mi accade.”

Non lo aveva mai detto a nessuno. Non che qualcuno glielo avesse mai chiesto. Sua madre lo aveva sempre osservato affannarsi nel suo lavoro e nei suoi doveri con aria preoccupata e il timore che non prendesse abbastanza aria, non mangiasse a sufficienza, non trovasse una donna con cui regalarle un nipote. Non si era mai chiesta dove fosse il fondamento della profonda dedizione di suo figlio a tutto ciò che fosse volto a dare conferma, che fosse negativa o positiva, a tutto ciò che potesse eliminare l’incertezza in una situazione.

Esattamente per questo: perché aveva scoperto, al telegiornale che suo padre ascoltava a pranzo, che non ci saranno di certo buoni e cattivi ma giusti e ingiusti e che i giusti spesso muoiono senza una giusta causa che renda merito al loro vivere secondo giustizia. Che una mattina un padre si mette in macchina con la propria figlia, e in autostrada verso il mare vengono travolti da una macchina uscita di strada per un guardrail mal sistemato, e che tutto per loro finisce lì, a quaranta e dodici anni, eterno padre di una bambina, eterna bambina mai donna, figlia per sempre senza mai essere madre. Aveva capito che nessuna giustizia – neanche e soprattutto divina – avrebbe mai potuto chiedere un prezzo così alto per potersi definire tale. Aveva capito che solo un caso senza intenzioni può essere artefice di simili disfatte. Che nel suo srotolare eventi ed accidenti lungo la vita degli uomini non c’è giustizia né ingiustizia, ché sono connotati umani che il caso non conosce.

Da allora, nello sforzo di limitare il suo potere, il potere comunque invincibile del caso, aveva cercato gli ultimi giudizi, aveva cercato di mettere certezze fin dove fosse possibile averle. Nella consapevolezza che fosse minima cosa di fronte alla vastità del caso, ma pur sempre grande nel piccolo mondo degli uomini, che vivono di esperienza e cercano di non sbagliare mai due volte.

Non lo aveva mai detto a nessuno.

 

*

 

 

La baciò con delicata circospezione. Come a voler ricevere conferma che fosse vero: l’Aurelia, l’autogrill, il citofono, il Lungotevere, il Caso, il ghetto, le traduzioni dall’arabo e la toga. Dal giorno alla notte, il caso in azione, nessun destino. Il colpo di fortuna, che domani potrebbe essere il colpo di grazia.

Quando Andrea si era presentato in quel bar a Milano gli aveva chiesto di assumere un rischio. Sapeva che la grandezza non distingue tra successo e insuccesso, sa essere se stessa in entrambi i casi. Aveva accettato.

Come in quel bacio.

 

Non che contasse la macchina o l’essere sotto casa, o il ripetere una scena già conosciuta in gradi e tempi diversi: con i jeans, in costume da bagno, con i pantaloni da lavoro, con la cravatta, senza cravatta, bionda, mora, la donna della vita sbagliata, un’amica di suo fratello, una compagna di università, l’ex di Andrea – in totale malafede con annessa confessione e minaccia di scioglimento della società e pericolo sventato.

Non che contasse quello né  i diciotto anni, i venticinque o i trentadue; la musica o il silenzio, profumo o sudore.

Contava più che altro la sua bocca, quello che la sua lingua stava facendo, dove e come.

I capelli tra le dita, il collo a disposizione dei suoi denti o della sua bocca, che fossero, il peso caldo del suo corpo addosso, il profumo nel cervello, la sensazione dilagante senza che neanche lo avesse toccato, o forse sì, il freddo delle sue dita fatte di ossa premute contro la nuca, come se non volesse che si allontanasse, come se fosse meglio soffocare in un bacio piuttosto che prendere aria da soli.

Che ne sapeva se quell’ardore fosse disperato o dedicato, se avesse voglia proprio di lui o desiderasse soltanto qualcuno, che ne sapeva degli uomini con cui era stata, di quanti avevano avuto la sua lingua nella propria bocca, e che ne sapeva di cosa volesse lui, di quanta disperazione ci stesse mettendo, se fosse stato in grado di fare l’amore con lei, se ne avesse l’intenzione, o se sarebbe stato solo sesso fatto bene, con la leggerezza con cui da grandi si scopre che il sesso e l’amore sono perfettamente in grado di sopravvivere l’un l’altro senza necessità di conoscersi diventando intimità.

 

Se ne’era scopate tante in quella macchina, per dispetto a sua madre che attendeva un seggiolino nel sedile posteriore, per compiacenza di sé, per mettere alla prova le proprie capacità amatorie, per noia o solitudine, perché ubriaco o perché innamorato (forse, abbastanza, sì, per poco).

Viola aveva il nome di un fiore e la malinconia negli occhi, poi di colpo era sfacciata o terribilmente ironica, viveva nella melodia di una lingua straniera, forse era in quella che gli stava parlando in quel momento, o forse non stava prestando dovuta attenzione, era sbagliato chiedersi se la toga potesse conciliarsi ad altro?, era pericoloso valutare l’idea di chiudere il codice civile ed aprire un romanzo, di mangiare fuori e tornare nella stessa casa, avere due macchine parcheggiate, essere gelosi e non dirlo all’altro ma almeno a se stessi, ridere senza per forza dover dire perché, fare colazione all’autogrill senza voler leggere negli occhi della cassiera e del barista e del turista con la pelle color aragosta, perdere una causa per aver dato fiducia ad un collega, non concludere una frase e accettare i puntini di sospensione… e respirare nella pausa tra loro e l’inizio del resto.

E respirare.

--

 

Ringraziamenti:

 

MyBlindedEyes: Grazie per il commento e il suo contenuto =) spero che il proseguo non deluda le aspettative, al fascino di Davide io purtroppo ho ceduto alla terza riga del racconto, vediamo quanto resisti tu! XD

 

 

 

 



[1] E’ il Libro del codice civile che si occupa Delle Obbligazioni, quindi anche della materia contrattuale.

[2] Mi dissocio da Viola, trovando melodico il tedesco e apprezzando la laconicità inglese. (che ci frega? Direte voi. Così, tanto per dire XD)

[3] E’ il modo in cui è chiamato il palazzo che ospita il tribunale di Cassazione. La sua edificazione ha una storia alquanto tormentata e in fin dei conti, anche dopo la definitiva costruzione nel 1910, non è mai stato apprezzato con sincera convinzione ^^ Io concordo con Davide, per quel che conta XD

[4] La statua di Giordano Bruno, a Campo de’ Fiori.

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Capitolo 3
*** TERZA PARTE ***


Doverosa premessa: scusate per la pubblicazione in orrido a-html (l'alfa consideratelo privativo) non mi ero accorta che NVU avesse più o meno deliberatamente ignorato i miei comandi ^^

TERZA PARTE

Nessuno, neanche la pioggia, ha così piccole mani.

 

 

La sera era tornata a casa con un languore di cui non si era liberata. Era tornato a lambirla di notte, fatto di immagini e di pensieri. Le tremavano le mani, come se sul suo collo ci fossero ancora le labbra di Davide. Lo aveva portato a letto, con sé, ma non era riuscita a tenerselo sul cuore o nei pensieri, lo aveva voluto nella carne, lo aveva voluto sotto le lenzuola, chino su di lei, lo aveva voluto, voluto e basta, e nessuna fantasia riusciva ad appagarla.

Voleva fare proprie le sue contraddizioni, stringerle tra le dita, vincerle o perdercisi dentro, dipanarle, sbaragliarle o esserne travolta.

Lo voleva e basta, e sapeva che la volta che lo avesse avuto sarebbe stata per lei un eterno presente, sarebbe tornato tale ogni qual volta l’avesse riportata alla mente. Come se dopo quella volta, Davide non le avesse mai tolto le mani di dosso.

Partì per il solito fine settimana al mare, cercando di trovare pace da quel gorgo di desiderio e di impazienza.

Pensò di chiedere a Vittoria di raggiungerla.

A pieni nudi sul pavimento infuocato del terrazzo, compose un altro numero.

“Ti raggiungo nel pomeriggio” le disse. La sua voce era bassa, non poteva parlarle, c’erano delle voci intorno a lui. L’idea che non la stesse condividendo con altri, con l’atrio del Tribunale, con i discorsi dei colleghi, la compiacque.

“Sono a casa. Ti scrivo dov’è.”

Avrebbe voluto sentire ancora la sua voce, ma lo lasciò andare alle durezze della legge.

 

*

 

Aurelia in direzione contraria, in andare. Questo un senso ce l’aveva? Lasciare il Tribunale, subito dopo la sentenza di accertamento. Via la toga, il codice e gli appunti processuali sbattuti nel sedile posteriore della macchina.

Via dei Tulipani come se lei e i fiori non potessero fare a meno di avere a che fare l’una con l’altro.

Un parcheggio entro le strisce, anche se le manovre erano state secche e impazienti.

Il sole gli batteva sulle spalle.

Viola abitava all’ultimo piano, era a piedi nudi, i capelli legati per il caldo, niente trucco, gli occhi luminosi, la casa bianca sgombra di qualsiasi oggettistica ma piena di fogli e di libri, un terrazzo grande ad intravedersi dietro il profilo delle sue spalle esili, il vestito di cotone bianco, un’accoglienza silenziosa, spazio rarefatto e troppo vasto finché fossero stati lontani, pieno di spigoli invisibili, lei che si muoveva leggera e fresca, gli aveva tolto la cravatta, lui aveva pensato al resto, gesti sicuri e finiti, la camicia e la cintura, compiuti ad ogni rientro a casa dopo la mattinata in tribunale o in studio, ma questa volta c’erano delle mani ad interrompere i suoi gesti, mani che non aspettavano altro che avere campo libero.

 

*

 

È grande e piccolo. Esperto e timido. Muove le dita dentro di lei e trema forte sollevato sulle braccia e contro il suo seno.

La fa impazzire, sa come farlo, ma solo se tiene gli occhi chiusi.

Padrone del suo corpo, ogni volta che lei gli chiede permesso con la bocca e con le mani, lui dice sì.

Viola ha dita fredde che scivolano sul sudore della sua schiena. Lui ha spalle forti e presenti a cui cerca di aggrapparsi. Sprofondato tra le sue gambe la piega senza guardarla negli occhi, è con quella stessa lingua che parla alla Corte?

Lo accoglie, lui si prende spazio. Spinge e affonda come se sapesse che nel fondo c’è un senso. Qualcosa da raccogliere. Da dove è partito, da dove ripartire. Un posto dove lasciare parte di sé.

Lei gli respira nell’orecchio. Tira contro di sé il peso del suo corpo, è umido, stanco ma non sfinito.

Fuori l’aria è immobile, c’è silenzio, ogni cosa ascolta loro: lei che non sa più respirare, accoglie l’aria nella gola volendo bere altro, lui che geme come se fosse un grande dolore aver trovato quel piacere.

 

*

 

Dopo erano rimasti lì. Le lenzuola attorcigliate tra loro nudi, immersi nei loro odori, placati, silenti.

Le dita di Viola erano già tornate fredde. Davide steso sullo stomaco nascondeva il suo sé a riposo, la testa reclinata, l’orecchio sul cuscino, il respiro dei bambini.

Viola gli aveva posato le sue dita di ossa e gelo sulla nuca. Come se avesse dovuto farlo. Non c’era altrimenti da fare. Fu colta dallo stesso brivido che lo attraversò lungo la schiena, fino in fondo, dove le dediche d’amore non arrivano. Irrefrenabile.

Lei potente e materna nel disporre in quel modo del suo corpo. Colma di desiderio e tenerezza fino all’orlo, fino a piangerne o a chiuderlo in un abbraccio che li dissolvesse.

Non sapeva se dormisse.

Guardava il suo corpo nudo, il sudore che lento si asciugava sulla sua pelle scura.

Re Davide pensava trovando in lui quel miscuglio biblico di sfrontatezza e potenza, di mani grandi che sanno fare la guerra e suonare una lira. Quella grande magnificenza umana, umanamente erodibile. Una cosa e il suo contrario. Tempesta e accettazione di tempesta.

Innamorati di me pensò. Adesso, quando ti alzi e mi guardi.

Dito indice puntato alla sbarra dei colpevoli, e poi carezzevole sul seno di una donna.

Innamorati di me, o non avrà senso sentirsi in questo modo.

 

*

 

Viola finì con il trasferirsi in pianta stabile nella casa al mare. Week end dopo week end portava con sé un po’ dei suoi libri e articoli da tradurre, e li lasciava lì.

Viveva di traduzioni, del vento sul terrazzo, di succo d’arancia e insalate. Vittoria la raggiungeva nelle pause dal suo lavoro in palestra, e passavano interi pomeriggi a mollo nell’acqua. In rare occasioni Viola parlava di Israele. Quasi sempre di Davide.

 

Che veniva quasi tutti i fine settimana parcheggiando sulla solita strada. Quando pensava a lei, in studio, la vedeva sempre con il vestito di cotone bianco. La sua casa non aveva l’ascensore, abitava all’ultimo piano, i suoi passi per le scale erano quelli del desiderio.

“Le sudate carte[1]?” gli chiedeva, curiosa. “In macchina”.

Le piaceva il pensiero di quei viaggi verso di lei. Lo immaginava in macchina, con del blues. Aveva deciso che gli si addicesse il blues.

Vittoria iniziò a comparire nei loro discorsi, in qualche racconto di Viola. Timidamente cercava di presentargli la sua vita, e le persone che la popolavano. Davide rispondeva a qualche telefonata quando era con lei: lo ascoltava parlare la lingua giuridica, sbirciando verso di lui in terrazzo. Nel condire l’insalata, mischiarvi le olive nere affettare pomodori e carote a strisce sottili versare un filo d’olio o spruzzare veloce un po’ di limone, guardava il profilo di Davide, gli occhi socchiusi contro il sole, una sigaretta accesa e dimenticata sul posacenere o stretta nervosa tra le dita, le labbra sottili che parlavano poco e brevemente, come se quello che c’era da dire fosse presto e ben detto.

Si chiedeva che volti avessero i suoi clienti, e che storie. E i suoi colleghi. Salvatore e Andrea. Avrebbe voluto dare un volto anche a loro, conoscerne la voce, il modo di stare seduti intorno ad un tavolo, ciò che volevano nei loro bicchieri. Ma poi Davide le accarezzava la schiena con il palmo della mano aperto e caldo, le dita a premerle sulle scapole, nascondendo la sua riservatezza in un sorriso vago, e poi si chinava su di lei o attendeva che fosse lei a porgergli le labbra, il collo, se stessa.

 

Quando faceva l’amore con lei la domenica, prima di ripartire, re Davide suonava la lira. Quando suonava il campanello, con la cravatta ancora al collo, il venerdì pomeriggio nell’arrivare, le sue mani e la sua bocca avevano l’ardimento di un re guerriero, l’urgenza del corpo prima dello scontro, del seme prima del sangue. Le piaceva in ogni caso. Le piaceva cercarlo la notte, di colpo sveglia e risvegliare anche lui.

Rispettava ciò di cui non voleva parlare, perché era un amante generoso, tanto quanto geloso del resto di sé.

Viola percepiva languire nei nervi tesi sotto la sua pelle il ruggito di quanto in lui non era stato domato, il tormento di quanto era ancora irrisolto. Attendeva il momento in cui avrebbe trovato voce. In cui non sarebbe stato amore ma guerra. In cui non avrebbe cercato il piacere, ma un violento stordimento di una angoscia o di un dolore. Che Davide non avrebbe voluto condividere, eppure—

Eppure gli avrebbe strappato risposte, lo avrebbe piegato alla condivisione come lui l’aveva piegata all’arrendevolezza intrufolandosi in lei in quel modo che sapeva lui. Perché non disponesse di lei, ma condividesse con lei.

Lo aspettava, quel momento. Con timore e impazienza. Non sarebbe stato bello, ma vedeva se stessa con la lira e con la lancia, di fronte a lui. Sorridente lacrime[2] come la gran donna bambina madre e amante, che era stata Andromaca dalle torri di Ilio, sotto l’elmo di Ettore.

 

A volte in mezzo alla giornata le arrivava un suo messaggio. Nella laconicità delle parole non mancava mai un accenno di sentimento. L’azzardo ironico, l’impudenza vagamente narcisistica, l’eco di un sospiro stanco.

“Andrea rompe. Lo metto sottovuoto e me ne vado.”

“Sì, sono proprio lì. Sotto il tuo vestito.”

 

Poi un venerdì mattina le scrisse solo: “Cavilli legali. Arrivo venerdì prossimo.”

Nel resto della settimana non giunsero altri messaggi. Viola cercò di resistere a quel silenzio, decidendo di non chiamarlo, ché quelli erano i suoi spazi e la mancanza che sentiva di lui, come una bambina, forse non era un pretesto sufficiente. Ad eterna memoria che la mia libertà finisce dove inizia la tua, aveva detto. Scoprì cosa volesse dire essere schiacciati da una sentenza.

 

Il venerdì pomeriggio successivo il cellulare di Viola si illuminò. “Sabato sera sono lì.”

Fingere di non essere delusa né risentita era una sforzo che non volle sostenere.

Ma quando venne il sabato, Davide giunse senza cravatta e scuro in volto. Sotto il braccio stringeva un fascio di fogli e cartelle, e le sue labbra erano tese ed ermetiche.

“Problemi allo studio?” gli chiese, mettendo in tavola pasta fredda e vino bianco. Lui era seduto con la schiena contro la scomoda sedia di plastica del terrazzo, gli occhi chiusi, in naufragi solitari.

“Andrea ci ha impelagato nei suoi deliri di onnipotenza”.

Avrebbe potuto aggiungere altro, come causa invincibile, patto commissorio, società apparente, liquidazione coatta, ma lasciò stare, perché era ad un passo dal perdere una causa importante nel modo più inaccettabile: secondo giustizia. Il che presupponeva che fosse nel torto e che stesse andando contro natura.

“Se lo dici ad alta voce poi lo ridimensioni.”

“Davvero? Anche a Hitler è servito?”

Non voleva essere tanto tagliente, sapeva che sarebbe successo. Che non sarebbe dovuto andare da Viola prima di aver perso la causa e aver divorato i fascicoli.

Lo guardava ferita senza essere sorpresa.

“Se relativizzassi un po’, ogni tanto…” .

Di nuovo la frase sospesa, incompiuta, mozza.

Era solo stanco, in fondo.

“L’oggettività dei fatti a volte risolve ogni speculazione.”

“Ah, certo”. Viola sbatté senza controllarsi il bicchiere sul tavolo. “Ognuno sceglie di che morte morire.”

Davide alzò lentamente lo sguardo su di lei, pronto a compatire o a disprezzare senza menzogne ciò che non rispondeva a compostezza. Sempre così al suo posto. Così certo della irrimediabilità, come della soluzione.

“Suggerimenti?”

Se anche c’era dell’ironia, lei percepì solo il sarcasmo.

“Di solitudine. O di suicidio stoico, fai un po’ tu. Tanto l’importante è non cedere di un passo, no?”

In fondo, era solo offesa per i colleghi che non voleva presentarle.

“Avrai di sicuro già deciso, che me lo chiedi a fare? Hai il tuo non liquet, tu. La scelta potrebbe essere tra la morte sul graticolo o per dissolvimento, tu sceglieresti comunque una delle due. Sbaglio? L’importante è essere certi, aut aut. Terza via, questa sconosciuta. Dialogo, roba da farisei. Sicuro di essere ateo? Anche Abramo aveva avuto un aut aut e avrebbe ucciso suo figlio.”

La guardava ancora, stavolta indecifrabile. Non il fastidio né il sarcasmo, non il pentimento né la perplessità. Assorbito in un vortice in cui lei non c’era. Viola scostò una sedia, dal tavolo, si lasciò cadere. Aveva spezzato la lira tra le dita. Forse aveva gettato ciò che avevano dalla torre di Ilio.

“Voi e la vostra legge.”

Mormorò, guardando anche lei altrove.

 

Davide registrò le ultime parole come in eco. Ma in fondo cosa ne sapeva, lei? Non le aveva mai veramente spiegato, in ogni caso. Cosa ci fosse davvero, tra lui e la legge. Quale incesto, quale farmaco velenoso.

Novello Saint-Just negli anni del fervore innocente, dei vagheggi ascetici di una Legge immancabilmente giusta, in una Repubblica virtuosa perché secondo legge. Legge specchio di concordia universale, di verità.

E poi, cosa era successo?

Si vergognava, si era vergognato per Saint-Just e aveva custodito i suoi testi nel ripiano interno della propria libreria. Non per ipocrita rinnegazione, ma per custodire il grande segreto a cui lui per primo non aveva voluto credere: che l’equilibrio umano è labile. Come era potuto succedere, perché d’un tratto  quella assolutezza mortifera, perché quei toni convinti divenuti idolatria? “Fuori dalla legge tutto è sterile e morto.”

Aveva chiuso Saint-Just per paura di sé. Quando la sua logicità lo avrebbe portato in quello stesso baratro? Quando l’imperio della legge, il controllo della forma, la pretesa di certezze lo avrebbe reso cieco e freddo? Quando lui stesso avrebbe ghigliottinato la Legge, violentandola dietro una maschera di amore implacabile?

Aveva paura dei punti che trovava alla fine delle proprie frasi. Terrore di diventare aberrante quanto ciò che aberrava.

Viola aveva la voce fragile del compromesso. Un po’ di questo e un po’ di quello. Davide conosceva tutto o niente. L’amore o il sesso. La certezza o l’assurdo. La guerra o la lira, mai insieme. Vincere o perdere, ma non patteggiare. “Compromesso non vuol dire patteggiare” diceva Viola. Lei conosceva più lingue: sapeva leggere da sinistra a destra, e da destra a sinistra. “Conosci solo il linguaggio del tuo codice. Guarda fuori, c’è la guerra e non riesce ad essere vinta. Ma se dimezzi equamente pretese e diritti…”

La legge è il senso della società, è la madre e la figlia dell’uomo, non può ucciderlo. Vero? si era chiesto. Saint-Just taceva nel ripiano interno della sua libreria.

 

*

 

Quando sollevò lo sguardo il vino era ancora fermo nel bicchiere, Viola voltata di tre quarti, con il mento poggiato su una mano e i capelli a dibattersi furiosi quanto lei, sulle spalle, sotto il vento.

“Sei ancora arrabbiata?” azzardò, prendendo un sorso di vino, senza guardarla. Viola non si mosse, ma c’era quella inflessione incerta nella sua voce, che la spinse per un attimo a lasciar perdere e prendergli una mano.

“Discretamente” gli fece sapere, se non altro smettendo di dargli le spalle.

La verità è che non riusciva a guardarlo. Si sentiva piuttosto stupida per aver reagito in quel modo, chissà se gli sarebbe piaciuta ancora, o lo stesso, anche così emotiva e poco incline a pensieri apodittici. O se non la credesse pazza. Con Marco era lei quella normale, in grado di resistere agli urti di una gelosia iperbolica.  Ma Davide era una storia diversa.

Lui era lo scoglio, e lei la bambina che a piedi nudi si arrampicava cercando di rimanervi aggrappata il più a lungo possibile, e che in altri momenti, da lì sopra, cercava di difenderlo dalla violenza dei flutti che gli sbattevano contro. Che lotta impari. Lei, che a malapena sapeva prendersi cura dei propri cupi esistenzialismi.

“Tu?” mormorò allora, tra le dita ancora chiuse in un pugno, sotto il suo mento.

Non le giunse risposta, e quando fu costretta a cercare lo sguardo di Davide, scoprì che la stava guardando, con un sorriso ironico ma leggero sulle labbra, non sarcastico, solo… chissà. Sembrava ridesse di loro, con tenerezza. Sembrava che la trovasse carina. La guardava come chi conosce un sottotesto. O come chi conosce se stesso, cosa su cui lei proprio non poteva fare appello.

“Io sono stanco” disse soltanto, per un attimo arrendevole.

“Va bene, mangiamo” rispose Viola, distribuendo le porzioni nei piatti, e tornando seduta.

“Ma sei offesa.”

Sentiva i suoi occhi addosso, forse era arrossita. Voleva solo baciarlo, e chiedergli di parlarle di Andrea, e di invitarla ad un aperitivo con lui e Salvatore. Di aprirle qualche porta, di accendere una luce sul soffitto della stanza che stavano dividendo. Sospirò fissando il piatto, meditabonda.

Quando era piccola sua madre le aveva messo in testa che il suo fisico fosse adatto alla ginnastica artistica. Sulla trave però, quando si trattava di arrotolarsi su se stessa e tornare in piedi in perfetto equilibrio, lei avvertiva sempre quella morsa feroce allo stomaco, e le mani sudate, e il cuore in gola, ma in gola davvero, prima di slanciarsi indietro sapendo che se avesse posizionato male le mani… in quel momento si sentiva in quel modo.

Lui si sporse, trascinò verso di sé la sedia su cui era seduta Viola.

“E’ un concetto che si può esprimere verbalmente?”

“Non che in questi giorni ti sia sprecato in comunicazione verbale.”

Davide la guardò interdetto. Le ricordò il modo in cui aveva fissato il foglietto che gli aveva appiccicato sul vetro, in mezzo al traffico.

Sembrava stesse riavvolgendo il nastro, ripercorrendo le ore trascorse, alla ricerca del dettaglio rilevante. Come se non fosse abituato a considerare l’idea che qualcuno potesse sentire la sua mancanza. O che esistesse al mondo un sentimento come l’affezione, o che la quotidianità forse logora ma in fondo non uccide per forza.

Viola ingoiò a fatica il pensiero che in quei giorni effettivamente avesse pensato a tutto tranne che a lei, che invece lo ritrovava sempre tra le righe del romanzo che stava leggendo, o sotto il cappello che si poggiava sul viso per prendere il sole, o forse sì, lo aveva detto lui, no?, sotto il suo vestito.

“Ti ho avvertita che non avrei fatto in tempo” le disse e forse quello, quel tono, era il suo modo di chiedere scusa.

“Beh, non sono la tua segreteria telefonica. Potevi anche parlare, lo fai tutti i giorni, no?”

Sarebbe sempre successo, in fondo, era la storia più vecchia del mondo. Che ci si innamora, e uno è più preso dell’altro, uno pensa di più, sospira di più, cerca di più, fino a che l’altro non raggiunge la stessa lunghezza di pensieri, sospiri, ricerche.

Se solo lei non avesse avuto il complesso dell’ultimo animale da circo nei suoi confronti, se non si fosse sentita costantemente minacciata dai sospiri che le strappava dalla gola, o dal desiderio che provava di lui, o dalla necessità di avere le sue labbra addosso, o la sua voce nell’orecchio. Se solo non fosse stata una guerra a chi si innamorasse per primo. Se solo fosse stata sicura che fosse possibile innamorarsi di lei.

“D’accordo. Avrei potuto chiamare, non ci ho pensato. Non è il mio stile, fare telefonate. Quelle sono di lavoro.”

“A titolo informativo, c’è qualcosa che non sia lavoro per te? Visto che gli hai dedicato tutto ciò che si fa nella normale vita di relazione, mi faccio due domande…”

Neanche si era accorta di aver giocato tanto sporco. Fu solo lo squarcio che vide passargli nello sguardo a suggerirle che fosse facile tirare fuori quella carta. E forse dietro i suoi silenzi e le sue timidezze, che tanto l’avevano incuriosita, era nascosto quel segreto: il recondito pensiero che quanto di sé si riveli all’altro finisce sempre per conficcarsi nella propria carne.

In tribunale è una battaglia ad armi pari, sono fatti e nessuno va oltre la toga. Qualsiasi scorrettezza è finalizzata ad un successo proprio, a tal punto che la sconfitta dell’altro è solo una conseguenza logica, ma accessoria.

Non c’è niente da perdere oltre la causa: gli occhi dell’avvocato della controparte ti hanno incontrato solo davanti ad un giudice, non sono gli occhi di Viola, che ti hanno guardato mentre faceva l’amore con te, né quelli di Andrea la volta che ti ha raccolto da sotto la moto sull’Olimpica in mezzo alla pioggia.

“Non volevo dire…”

“Le parole non sono mai a caso, certo che volevi dirlo.”

Le sembrò in quell’istante, per la prima volta, di averlo guardato negli occhi inciampando nel bagliore di un sentimento che non fosse solo desiderio. Volle prendergli di nuovo la mano. Per dirgli che in fondo si sentiva nello stesso modo, anche se riempiva di parole quello che lui ammantava di silenzio.

“Fare avanti e indietro sull’Aurelia tutti i finesettimana non è abbastanza? Mi sono fatto tre ore di traffico, l’altra volta, e tutto perché mi andava di vederti. Ti sei presentata di punto in bianco sotto lo studio e ho lasciato perdere la diffida di pagamento di un cliente, forse non è materiale da romanzo né da raccolta scelta di poesia, ma tant’è. Se vuoi chiedere conferma all’oracolo di Delfi della sincerità dei miei sentimenti—”

“Va bene, va bene! Rinfodera il sarcasmo” lo interruppe Viola. “Ho capito” soggiunse, più morbida.

Gli occhi di Davide si fecero guardinghi, come se non le credesse del tutto. Come se fosse troppo semplice, dopo anni spesi a fare i conti con se stesso e i propri ritmi, venire a patti con qualcuno che chiede tanto spazio per sé.

Viola fissava un punto indistinto tra la sua mano e il bordo del piatto, riflessiva.

Davide non era certo di volere che giungesse ad una conclusione. Fino a quel momento era andata bene così, in quel modo, quel frequentarsi blando, era prassi, niente di nuovo. Ascesa e declino, niente che non fosse successo ad altri, niente che non fosse successo anche a lui. Se non fosse che tanti chilometri in macchina non ne aveva mai fatti in vita sua.

Ma poi, gli altri (sua madre e le sue domande puntuali per telefono sempre nello stesso ordine, Salvatore con la foto di sua moglie circondata di carte sulle scrivania) cosa volevano da lui? Come se avesse inneggiato al cinismo o avesse propagandato il culto dell’anafettività.

La sua era una equazione personale, una convinzione modellata su di sé, una scelta di vita che non avrebbe comunque imposto ad altri. Lui aveva scelto di fare dell’indipendenza affettiva lo strumento di preservazione. La solitudine non la trovava così corrosiva, era in pace nei suoi spazi, e l’amore sì, va bene, ma perché non a distanza, perché non amarsi ognuno da casa propria?

Stava bene nelle proprie misure, sapeva muoversi agilmente nei propri spazi.

Quando Chiara lo aveva chiamato singhiozzando di porta-aceti e macchine familiari dopo la definitiva discussione con Andrea, avrebbe voluto mettere un tappo, silenziare quei gemiti, riappropriarsi del suo migliore amico per ciò che era, senza dover rivestire i panni di consulente matrimoniale o amico di famiglia.

“Me ne torno a casa da mia moglie” annunciava sempre Salvatore, fuori dallo studio, guardandoli con quel sorriso bonario e paterno. “Se non ci fossi io, a prendermi cura dei vostri esasperati individualismi…” borbottava altre volte, quando Andrea declinava senza troppe cerimonie proposte di vacanze insieme o di cene a casa di Salvatore. “Cip e Ciop, vi lascio a dividervi le ghiande”.

Davide e Andrea sorridevano sempre di rimando, a volte vagamente imbarazzati, si confessarono una sera, alla seconda birra. Davanti alle macchine, Andrea aveva aggiunto che lui e la sua assistente avevano concluso i loro rapporti lavorativi per iniziarne di diversi. “Capito cosa intendo, no?” aveva chiesto poi, innervosito dal proprio impaccio. Davide gli aveva battuto una mano sulla spalla, annuendo, un commento del caso, la solita ironia corrosiva che li aveva resi amici a Milano. Non che si fosse sentito menomato. Si era solo fatto venire dei dubbi. E lui, con i dubbi, aveva pessimi rapporti.

 

*

 

Ho capito aveva detto Viola.

Poi si era alzata, per sparecchiare.

Lui era rimasto seduto, a fumare al buio in terrazzo.

I rumori dei movimenti veloci di Viola all’interno della casa giungevano attutiti. Immaginava per ogni suono la figura di Viola intenta a compiere il gesto corrispettivo. I piatti nel lavandino, lo sportello chiuso con un colpo secco, passi in camera da letto—a prendere il libro, la luce spenta, passi in salone, la luce accesa, il divano, i sandali scalzati dai piedi e lasciati cadere in terra. Aveva di sicuro raccolto le gambe per poggiarvi il libro, gli occhiali appoggiati sul naso, timidi, come se fossero lì per caso e non perché lei ci vedesse poco da vicino.

Il fumo della sigaretta si confondeva con quello dello zampirone che Viola aveva acceso a cena, per tenere lontani gli insetti. Odore agre e dolciastro insieme, in un miscuglio improbabile. Lì in mezzo Davide pensava all’altra donna, a come era finita, al prima e al dopo.

Forse di Elena era stato innamorato. A lei aveva addirittura riservato un posto nella memoria. Aveva sopportato il rischio che i ricordi riemergessero a tradimento, indipendentemente dalla sua volontà. A volte, dopo aver accompagnato a casa una Irene, gli tornava in mente il profumo di Elena. Nei suoi ricordi non c’era mai l’espressione del suo volto. Solo dettagli di lei. Il profumo, un paio di orecchini che le aveva visto spesso ai lobi. Oppure ricordava il suo sorriso sofisticato, che la faceva sembrare una donna d’altri tempi. O la curva delle sue sopracciglia, in tribunale, quando qualcosa non andava come previsto. Ricordava alcuni posti in cui avevano fatto l’amore. Erano tutti pensieri nebulosi. Raramente poteva chiamarli nostalgici. Ma era piuttosto certo di averla amata. Andrea del resto non la nominava mai.

Da quando aveva incontrato Viola i frammenti di Elena non erano più apparsi, se non una volta.

Qualche settimana prima Viola lo aveva svegliato, di notte. Capitava che lo facesse, lui non si ritirava mai nel sonno. Nel silenzio della stanza era scivolata sopra di lui, spostando le lenzuola. A luce spenta si era scoperto a cercare il suo sguardo. Lo aveva trovato. Viola si muoveva sopra di lui, e sentiva i suoi occhi addosso, anche al buio, come se fosse pieno giorno e lei lo stesse fissando, con la stessa intensità con cui lo aveva guardato in macchina, mentre parlava al telefono in mezzo all’Aurelia, come se ci fosse qualcosa da scoprire, qualcosa da trovare, quella notte nel buio lo stava guardando proprio in quel modo. Elena aveva occhi così sfuggenti, aveva pensato.

E a quel punto Viola, come se avesse letto nei suoi pensieri, lo aveva baciato, i suoi denti a stringergli le labbra, la leonessa che si riappropria di ciò che le spetta, era andata a riprenderselo.

Davide non sapeva se avesse inteso strapparlo dal baluginare fioco dell’altra donna, o dal baratro in cui lui per primo si era sentito sprofondare, perso nei suoi vuoti d’anima.

Lei era comunque andata a riprenderlo.

Si alzò, lasciando lo zampirone a bruciare se stesso.

 

*

 

La trovò raggomitolata sul divano nella posizione in cui l’aveva immaginata. Le gambe raccolte, il libro poggiato lì sopra, gli occhiali sul naso, l’espressione concentrata ma di certo non sulla storia del romanzo. Aveva sostituito se stessa ai protagonisti della storia, riempito i loro dialoghi delle parole volate tra lei e Davide poco prima.

La raggiunse, sedendosi accanto ai suoi piedi. Portò con sé l’odore di fumo.

Viola alzò lentamente lo sguardo dal libro, incerta.

“Facciamo quattro passi fino al porto?” le propose. In realtà aveva la voce stanca. Viola chiuse il libro, tenendo il segno con due dita. Era quello che voleva? Si chiese. Quel tono conciliante, che lui andasse a cercarla, che le facesse capire di essere dispiaciuto, che le dicesse di volerla ancora al fianco per una passeggiata al porto?

Re Davide suona la lira dopo aver fatto una guerra.

“Mi racconti che ha combinato Andrea?” chiese a bassa voce. Lo vide chiudere gli occhi, reclinare la testa indietro, sorridere o forse sospirare, non riuscì a distinguere.

“Sì. Te lo racconto.”

Quando Davide riaprì gli occhi, Viola era in piedi di fronte all’armadio, in cerca di una giacca con cui coprirsi le spalle dal vento fresco della sera, giù al porto.

La guardò portare a termine i preparativi, seguendo i movimenti con lo sguardo, senza distrarsi un attimo. Nel tempo in cui scelse la giacca spazzolò i capelli sistemò il vestito infilò i sandali ai piedi cambiò giacca e ripescò le chiavi di casa dal vaso sul tavolino basso nell’ingresso, Davide sentì le proprie spalle rilassarsi, come se avesse ricevuto un anticipo e l’odore di mare del porto lo avesse in  parte già raggiunto, entrandogli nei polmoni, e le luci dei ristoranti e il vociare delle persone intorno alle bancarelle allestite lungo la banchina lo chiamassero già.

“Sono pronta” disse Viola, al termine delle operazioni. Lo aspettava vicino alla porta, la chiave rossa – quella più lunga, aveva imparato Davide – già inserita nella toppa, perché la corrente d’aria delle scale non facesse sbattere la porta.

Davide si alzò, abbassò la serranda del terrazzo spense la luce lasciò lo zampirone lì dov’era e la raggiunse.

“Anche io” disse, riferendosi ad altro.

 

FINE



[1] Cit. Giacomo Leopardi

[2] Cit. Omero, Iliade.





Tanks to
 momo_ : Sulle storie romantiche sono stata sempre scettica anche io, anche perché la filmografia non ha fatto mai niente per vincere lo scetticismo (Serendipity è stato solo l’esempio più smaccato a conferma dei sospetti XD) quindi mi solleva sapere che questo papocchio di tre parti non è banale né scontato! Riguardo la frase sull’affascinante idiozia di certi uomini… si è scritta da sola, non la trovo smentibile in alcun modo XD Insomma, grazie per la recensione e per i complimenti, è una domanda che mi pongo spesso anche io (ovviamente su altri scrittori di EFP, non su di me XD) ma il fatto è che l’editoria in sé quando non mi avvilisce per i suoi meccanismi mi inibisce per altri, quindi credo che sia un cane che si morde la coda e che forse ha ragione davvero Erri De Luca a consigliare tutti di tenersene alla larga quanto più possibile ^^ Consiglio che a quanto pare Moccia ha seguito alla lettera, a quanto pare! (sarcasmo mode: on) Anyway, grazie ancora per esserti dedicata alla lettura di Piccole mani =) [1] Cit. Giacomo Leopardi [2] Cit. Omero, Iliade.

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