Il Dischiudersi di un Fiore

di Piccolo Fiore del Deserto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo Capitolo ***
Capitolo 3: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 5: *** Quarto Capitolo ***
Capitolo 6: *** Quinto Capitolo ***
Capitolo 7: *** Sesto Capitolo ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Citazione scelta: 3. Il dolore penetra nell'intestino.
Personaggi e Pairig: Sono tutti di mia invenzione. Il personaggio di Azumamaro era il pg di un gdr del mio ragazzo che mi ha dato il permesso di prendere. Minako e Michiko sono solo mie.
Note ed eventuali dell'autore: I personaggi come già detto sono tutti di mia invenzione, così come la storia.
L’unica cosa da aggiungere è che la frase: La freccia venne rilasciata come il dischiudersi di un fiore, è ispirata a un sito di Kyudo, ossia l’arte del tiro con l’arco giapponese: http://www.tuttocina.it/fdo/kyudo.htm




Il Dischiudersi di un Fiore
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Prologo



« Vedi Minako-chan, per eseguire un buon tiro non devi fermarti a guardare il semplice bersaglio, ma mirare oltre. Non lasciarti bloccare dalle cose terrene, o dai troppi pensieri, devi riuscire ad andare oltre a tutto questo. Solo entrando in perfetta sintonia con il tuo spirito, lo sentirai volare con la freccia. »
Queste erano le parole di mio padre, quando da bambina cercava di insegnarmi la sacra arte del tiro con l’arco. Per noi orientali non si trattava unicamente di un semplice gioco, ma era qualcosa che ci legava al “divino” e, solo entrando in perfetta armonia con il nostro spirito, si poteva realizzare un tiro perfetto.
Allora ero solo una bambina di dieci anni e non riuscivo a comprendere in modo chiaro che cosa volesse dire con quelle parole.
Avevo iniziato sin dalla prima infanzia a essere allenata da mio padre, Michio-Sama, un uomo di grande saggezza, capace di usare l’arco alla perfezione, conoscendone ogni segreto.
Il suo desiderio era di trasmettere il suo sapere al figlio maschio, ma i Kami, i nostri Dei, non furono d’accordo.
Mia madre, Matsu-san, riuscì a dare alla luce soltanto tre figlie femmine, con grande rammarico di mio padre. Non ci odiava, ma era ben visibile sul suo volto lo sconforto per non avere nessuno cui insegnare tutto ciò che sapeva.
Mia madre era afflitta quanto lui, lo amava così tanto e si struggeva nel non essere stata capace di partorire un erede maschio, ma, alla mia nascita, era già troppo in là con gli anni per provarci ancora.

E così, mentre le mie due sorelle maggiori, Asami e Ryoko, furono prese in un Okiya per diventare delle splendide Geishe, io fui designata come l’erede cui consegnare quell’immenso sapere che mio padre non voleva far disperdere nel vento come sabbia.




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Angolo "Autrice"

Questa long fic partecipa al Contest "Le Sette Barriere Psichiche", di May8Rose. I risultati non sono ancora stati espressi, ma avendo avuto il permesso, inizio a postarla, ogni qual volta che posso.

Mi sta particolarmente a cuore, perchè amo i personaggi che ritraggo, e spero che possa piacervi :)

A presto.

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Capitolo 2
*** Primo Capitolo ***


Primo Capitolo




    In un primo tempo non riuscivo a comprendere il motivo esatto per cui io dovessi essere allevata in maniera diversa dalle mie sorelle, ma man a mano che crescevo, mi sentii pervadere da una sensazione di grande orgoglio per essere stata scelta a tal fine.
Le lezioni erano dure, ma mi permettevano di rafforzare il mio carattere.
Mio padre poteva sembrare severo con me, ma ogni volta che lo guardavo in quegli immensi occhi color pece, notavo la sua gioia, il suo orgoglio e l’affetto che provava per me, la sua figlia prediletta.

    Gli anni passarono in fretta e, anch’io maturai, divenendo una bella ragazza di venticinque anni, appena più alta delle mie coetanee. I miei capelli scuri si erano allungati come i rami dei salici, ma io ero solita tenerli legati alla maniera maschile.
Potevo apparire graziosa e avvenente, se non fossi vestita sovente come un uomo e avessi avuto la grazia delle Geishe, che proprio non mi apparteneva. Questo non voleva dire che fossi una persona grezza, ma al semplice guardarmi, si poteva ben comprendere che non ero una ragazza come tutte le altre. In fondo, ero stata allevata quasi come un uomo.
La cosa più sorprendente, che aveva stupito tutti sin dalla nascita, erano i miei occhi: erano scuri come la notte, ma screziati del colore delle viole. Di certo, non passavo inosservata.
In molti mi avevano fatto proposte di matrimonio, ma l’unico uomo che riuscivo ad amare veramente era mio padre. E, inoltre, avevamo un sogno. Un sogno che io dovevo realizzare, per farlo essere ancora più orgoglioso di me.

    Incurante delle risatine di scherno che le mie sorelle, ormai divenute Geishe di rinomata importanza, mi rivolgevano, avanzavo a testa alta, sicura di me e orgogliosa del mio essere.
Ero diventata quello che sognava da sempre mio padre: una perfetta arciera, che ora si apprestava a recarsi nella città imperiale per accedere tra le fila dell’esercito, guidato dall’onorevole Shogun, Azumamaro Mushanokoji Watanabe, un uomo altero e freddo, capace di uccidere chi solo dimostrasse di andare contro i suoi ordini, o quelli dell’imperatore, o osasse profanare con male parole il nome degli Antenati, ai quali era profondamente devoto. Oltre a ciò, aveva un notevole carisma, impossibile da non notare. O almeno queste erano le voci che giungevano di lui al mio villaggio.

    « Non credere a tutte le voci che senti sul conto dello Shogun, Minako-san. È un uomo che rispetta le sacre leggi e gli antenati. Un uomo giusto, che a volte è costretto a essere un po’ duro, ma se non dimostrasse di avere carattere, carisma e autorità, sarebbe difficile poter mantenere così a lungo quel ruolo di notevole importanza, da essere al pari con l’Imperatore stesso.
Lui lo sa bene ed è per tal guisa che a volte può usare metodi un po’ duri e apparentemente incomprensibili. Servono a rafforzare i suoi soldati, che spesso devono mettere da parte le proprie paure per affrontare i tanti pericoli che infestano il regno, al fine di difendere sia la popolazione sia il divino imperatore. Se ti dico questo, è perché io… l’ho conosciuto. » di fronte a quell’ultima frase, nei suoi occhi scuri comparve una luce intensa, mentre io rimasi di sasso, completamente sorpresa da una rivelazione simile.
Lui, mio padre, conosceva l’onorevole Shogun?
Avrei voluto chiedergli di più sul loro incontro, ma lui m’impedì di far domandare, riprendendo parola.
« Va da lui, figlia mia, ma non lasciare che il tuo cuore sia soggiogato dalla paura. Rispetta le leggi, gli ordini, i nostri sacri antenati e vedrai che la vita militare non sarà poi tanto dura. Io ti ho insegnato molto, ma lui potrà renderti migliore. Segui le sue parole, è un uomo ancor più saggio di me. » fece una piccola pausa, prendendo poi tra le mani una scatola di legno, dalla quale ne estrasse una pergamena.
« Consegna questa mia lettera all’onorevole Shogun e ricorda sempre tutto ciò che ti ho insegnato, mio splendido orgoglio. Va, e che i Kami veglino su di te e ti sappiano sempre guidare in questo nuovo cammino che ti troverai a percorrere. »
Dopo avermi consegnato la pergamena, mi baciò sulla fronte. Sentii affiorare delle lacrime, ma prontamente le ricacciai indietro, per non apparire fragile.
Salutai anche mia madre, che aggiunse la sua benedizione a quella di mio padre, e poi iniziai il mio viaggio, diretta al mio nuovo destino.
Mi voltai per un solo istante, osservando la scena che mi si presentava davanti: mia madre con gli occhi colmi di lacrime, affondava il viso nel petto di mio padre, che la cingeva a sé, come per rincuorarla, ma il suo sguardo era rivolto a me. Non avrei potuto mai dimenticarlo: in quell’oscurità risplendeva una strana luce. Lui era orgoglioso di me ed io avrei fatto di tutto per dimostrargli quanto avevo appreso e qual era il mio valore, non volendo deluderlo.
Tornai a girarmi e, sistemando meglio l’arco e la faretra sulle spalle, ripresi il cammino, lungo la strada che mi avrebbe condotto di fronte allo Shogun in persona.










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Ecco qui il primo capitolo. Ancora non c'è molto, anche se alla fine non sarà una storia troppo movimentata, bensì più profonda, basata sulle emozioni. Ma non dico altro, per non lasciar trasparire troppo. I prossimi saranno un pò più lunghi :)
Questa storia nasce su ispirazione di giocate effettuate da me e il mio fidanzato su un gdr, ed io l'ho "romanzata" un poco, per aderirla meglio alla citazione presa.
Buona lettura



kuasta: Grazie per la recensione, e sono contenta che dall'introduzione e dal prologo la mia storia ti abbia colpita. Non so come pensi che debba andare, ma spero di non deluderti. :)

Ayumi Yoshida: Grazie per la recensione e crepi il lupo. Spero che continuando a leggere possa continuare a piacerti. :) un bacio!
In Bocca al Lupo anche a te per il contest!


Grazie a chi la legge, chi l'ha inserita tra le seguite e tra le ricordate!

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Capitolo 3
*** Secondo Capitolo ***


Secondo Capitolo



    Dopo giorni di cammino, arrivai infine alla città imperiale, che in un primo tempo mi lasciò notevolmente spaesata. Una giovane ragazza di un piccolo paese non era avvezza a passeggiare con tranquillità lungo le strade di quell’immensa città. Scrutavo tutto con pura curiosità, restando affascinata dalla vitalità delle persone, dal cibo squisito che s’intravedeva nei vari chioschi lungo le strade, e splendide Geishe con vari kimoni dai colori sgargianti, che sorridevano divertite o forse imbarazzate quando gli uomini le guardavano con interesse. Tuttavia, era la presenza dei soldati, nelle loro particolari armature, che mi lasciava più affascinata: un giorno, forse quel giorno stesso, sarei diventata una di loro.
Non potevo nascondere l’ansia che mi pervadeva l’animo nel dover trovarmi al cospetto dello Shogun in persona, ma ricordando le parole di mio padre, fui spronata a continuare, arrivando al Castello e recandomi, infine, laddove alloggiava l’esercito imperiale.
Notai la presenza di numerosi giovani, tutti armati, altri con vere e proprie katane al fianco, segno tangibile del loro grado. Erano sicuramente dei Samurai. Restai per qualche istante imbambolata a guardarli, con la più completa ammirazione. Un gruppo di esploratori, dedussi osservandoli con meticolosa attenzione, stavano marciando diretti chissà dove, mentre un altro gruppo tentava di rientrare. Scossi il capo, dopo qualche attimo, per poi addentrarmi nel luogo, fermandomi al cospetto di due Bushi armati che vigilavano l’ingresso.
Prima di poter parlare, notai i due battere un colpo secco alla porta chiusa con le loro spade, forse per richiamare qualcuno; e, infatti, poco dopo spuntò fuori una recluta, almeno da quanto potei dedurre, che per poco non fu travolta dal gruppo di esploratori che stavano facendo il loro ingresso. Cercai di non sorridere, per non sembrare sgarbata, ma anche perché m’immaginai al suo posto: se lo Shogun mi avesse presa, avrei potuto fare quella fine.
Dopo essere riuscito a “liberarsi”, mi si avvicinò, incrociò le braccia al petto prima di chinarsi, poi mi rivolse parola:
« Benvenuta, il Generale è nella sala di addestramento a sovrintendere di persona, ma è sempre disponibile a ricevere le persone che lo contattino. »
Senza aspettare una mia risposta, iniziò a camminare invitandomi a seguirlo. I due piantoni all’entrata mi lasciarono passare, e così, silenziosa seguii la mia “guida” verso la sala d’addestramento, mentre tentavo di dominare ancora quell’agitazione crescente per l’incontro con lo Shogun.
Già prima di accedere alla sala, sentii una voce autoritaria e decisa impartire ordini precisi ai vari soldati, ciò nonostante frenai l’agitazione, respirando un poco per rilassarmi, e oltrepassai la porta, donando una prima panoramica al luogo. Era un’ampia sala, con tutti gli armamenti e strumenti utili ad apprendere le tecniche del combattimento con ogni genere di arma. Lungo le pareti erano affisse armi di ogni genere, ma in particolare soffermai lo sguardo sui lunghi e splendidi archi e, per un attimo, una forte emozione al pensiero di poterne usare uno, un giorno, s’impossessò di me.
« Venerabile Shogun, è appena arrivata l’aspirante Minako. »
Le parole della recluta distolsero la mia attenzione dall’arma che più prediligevo e mi spinse a soffermare lo sguardo sulla figura dello Shogun: era un uomo di media statura, completamente pelato, con dei baffi scuri. Gli occhi erano profondamente scuri e seri, e di fronte a quell’aura importante che mostrava, io mi sentii piccola, piccola, e una parte di me sarebbe voluta scappare via, ma le parole di mio padre riecheggiarono nella mia mente, e mi spronarono a farmi coraggio. Mi avvicinai ancora di qualche passo, per poi inchinarmi profondamente al suo cospetto.
« Konbanwa Venerabile Shogun. » proferii in tono abbastanza sicuro, ma rispettoso. Rimasi chinata, finché lui non mi disse di alzarmi, sebbene cercassi di non guardarlo dritto negli occhi, per una questione di puro rispetto e reverenza.
Lui congedò la recluta e poi mi diede appena uno sguardo, prima di rivolgermi saluto.
« Konbanwa »
Tornò poi a dare attenzione ai suoi soldati, mentre io rimasi silenziosa al mio posto, senza interferire in alcun modo. Dopo qualche minuto, tornò a ridarmi la più completa attenzione.
« Così vuoi entrare nell'Esercito. Posso insegnarti un mondo dove chiunque ti trovi per strada, saprà che sei persona da rispettare e da temere allo stesso tempo...» sentii i suoi occhi fissarmi e mi ritrovai ad alzare lo sguardo per incrociarli. Mi sentivo un poco in soggezione, seppure lo ammirassi.
« Sì, è mio desiderio entrare nell'esercito, per mettermi al tuo servizio e a quello nel nostro Venerabile Imperatore. » cercai di mantenere un tono sicuro, senza la minima esitazione, per non mostrarmi fragile. « Sarebbe per me un onore e un gran piacere trarre insegnamenti da te, sempre se mi reputerai una persona idonea ad entrare tra le fila dell’esercito imperiale. » tornai a tacere, per non sembrare una di troppe parole. Mio padre mi aveva insegnato a rispondere in modo chiaro e non troppo logorroico.
Lui non mostrò alcuna emozione particolare, ma prese a camminare, invitandomi poi a seguirlo, cosa che prontamente eseguii.
« Hai mai usato un’arma prima di oggi? » mi domandò.
« Sì. Mio padre mi ha insegnato a usare l'Arco, sin da bambina. Ed è proprio questo il mio sogno, entrare nell'esercito, magari per diventare Arciera... Non sarebbe solo il mio desiderio, ma anche quello di mio padre. E non voglio deluderlo. » risposi.
« Arco. Eccellente arma! Più di una volta in guerra, gli arcieri hanno permesso di vincere una battaglia! » esclamò austero, per poi mutare espressione di colpo e fissarmi in maniera quasi insistente. Tuttavia cercai di non scompormi, e attesi la sua seguente domanda.
« Sei pronta a dare la vita per il tuo Imperatore? Prenditi il tempo che occorrerà per questa risposta, poiché da essa dipenderà il tuo futuro... » mi sorrise, ma emanava una crudeltà che per un attimo mi scoraggiò. Tuttavia continuai a fissarlo, per dargli modo di capire che non mi lasciavo abbattere da un semplice sorriso crudele, o parole pericolose.
« Sì, sono pronta a farlo. Sono pronta a fare del mio meglio, per proteggere il nostro Imperatore e queste terre che mi hanno dato la vita. Anche a costo di perderla. E' questo che mi è stato insegnato, questo che voglio fare. » nessun tentennamento nel mio tono di voce, sicurissima di ciò che avevo appena proferito, poiché sin da bambina tale era stata la mia educazione e ero cresciuta con pensieri e credi ben precisi, che non potevo mutare con un semplice soffio di vento.
Mi guardò per diversi istanti in silenzio, come se volesse scrutarmi sin nelle profondità del mio animo. Probabilmente voleva capire la mia sincerità e, quando ne fu convinto, riprese a dire:
« Bene Minako-san... da oggi, sei ufficialmente Recluta dell'Esercito Imperiale! » fiero, deciso.
A quelle parole, non riuscii a trattenere un sorriso. Ero orgogliosa di me e desiderosa di apprendere quanto più possibile da un uomo con un tale carisma, per il quale provavo anche una forte ammirazione.
« Ti ringrazio di avermi dato questa possibilità e farò del mio meglio per non deluderti mai. » proferii, per poi chinarmi di nuovo profondamente. La gioia era grande, ma volevo trattenerla per quando lo avrei detto a mio padre.
« Non mi devi ringraziare ancora. Adesso, viene la parte più difficile: l'addestramento. Avrai un istruttore, ma di tanto in tanto sarò io di persona a controllare la tua abilità. » a quelle parole mi limitai ad annuire, mentre continuavo a camminare al suo fianco. Lui di tanto in tanto osservava l’operato dei suoi soldati, intervenendo quando poteva.
« Domani stesso inizierai il tuo addestramento. Dovrai imparare a usare ogni arma, anche se ho intuito la tua particolare predilezione per l’arco. Per questo ti chiedo, vorrai iniziare subito a mostrarmi la tua abilità con l’arco, o preferisci iniziare il vero e proprio addestramento con la spada? » tornò a fissare i suoi occhi nei miei, ed io prontamente risposi:
« Preferirei l'arco, cosi magari potrai aiutarmi a migliorare quel che so e ho imparato. Se per te va bene. »
« Così sia, partiremo con l’arco. Fatti trovare qui, domani, e, se dimostrerai di saper apprendere al meglio le lezioni e far tesoro di ogni minimo insegnamento, vedrai che la promozione arriverà presto. »
Annuii di nuovo, lasciando affiorare un lieve sorriso sulle labbra.
« Mi impegnerò al massimo, Venerabile Shogun, poiché non voglio deludere né te, né mio padre. » chinai appena il capo, prima di estrarre la lettera di mio padre da una tasca del lungo kimono blu che indossavo. « Mio padre mi chiede di consegnarti questa. » aggiunsi, prima di tenderla verso di lui. Lui la prese tra le sue mani e, dopo averla srotolata, iniziò a leggerla con interesse. Notai l’accenno di un sorriso sul suo volto, non appena lesse il nome di mio padre.
« Michio-san. Tuo padre. » mormorò appena, tornando a rivolgermi lo sguardo e per un attimo notai che la sua espressione si era un poco distesa. « Lo conosco bene. » aggiunse e riprese a camminare. « Fu anni fa, quando ancora ero Sottufficiale, durante una spedizione, fummo vittime di un'imboscata. Ci salvò l'arrivo di alcuni contadini, capitanati da Michio. Ci aiutarono a vincere quella battaglia e da allora, tuo padre è l'unica persona ancora in vita che possa usare il mio nome Azumamaro. »
Di fronte a quella storia fui pervasa da un profondo senso di orgoglio e ammirazione verso l’uomo che per lunghi anni mi aveva insegnato tutto ciò che conoscevo. Mio padre, un uomo meraviglioso, capace di salvare lo Shogun stesso. Un suo amico. Mi ritrovai a sorridere, mentre i miei occhi s’illuminarono di colpo.
« Mio padre è un uomo meraviglioso, sempre pronto a lottare per aiutare l'imperatore e le persone che vivono qui. Sono orgogliosa di sapere di avere un padre amico del Grande Shogun » osai proferire, ma in risposta, notai un altro sorriso illuminare il volto di quell’uomo apparentemente austero e temibile.
« Tuo padre è forse il solo vero amico che io abbia ancora... » chinò appena il capo, per poi continuare « Non ti preoccupare, se vali solo la metà di tuo padre, hai la stoffa per fare carriera!»
Le mie gote si accesero lievemente a tali parole. Lo Shogun credeva molto nelle mie capacità ed io non potevo deluderlo assolutamente. Nell’osservarlo meglio, provai una strana sensazione, forse dovuta alla mia completa ammirazione nei suoi riguardi.
« Avrò modo di dimostrarti quello che valgo. Voglio farlo, per dimostrare a mio padre che può contare sull'unica figlia che ha scelto questa strada, il suo sogno.» ribattei. Lui si fermò di nuovo, osservando per qualche istante l’esterno da una finestra. Gocce di pioggia battevano sul vetro e per qualche istante restammo in silenzio, come ad ascoltare quel suono.
« Bene. Riposati ora Minako-san, puoi dormire qui o dove alloggiavi prima, se hai piacere. Domani stesso inizieremo il tuo addestramento. » concluse così il suo dire, mentre io mi chinavo ancora una volta profondamente dinnanzi a lui, per poi avanzare verso l’uscita della sala grande, osservando per un’ultima volta il luogo dove da quel giorno in avanti avrei vissuto.

Quella sera stessa scrissi a mio padre per renderlo partecipe del buon esito del colloquio. Mi sentivo orgogliosa di me e volevo lottare con tutta me stessa per dimostrare agli altri, ma soprattutto a me stessa, quel che valevo realmente e diventare, forse un giorno, un’arciera importante.




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Capitolo 4
*** Terzo Capitolo ***


Terzo Capitolo



    Essere una recluta dell’esercito imperiale non significava rimanere a poltrire a lungo, anzi, ben presto dovetti svegliarmi e, dopo essermi preparata – indossando un kimono molto semplice e scuro, sopra delle braghe anch’esse scure - mi diressi verso la sala comune, dove si sarebbe tenuta la mia prima vera lezione.
Per essere la prima volta, non ero molto agitata. Dovevo dimostrare ciò di cui ero capace con l’arco e, essendo ormai diventato quasi il prolungamento del mio braccio, mi sentivo sicura.
Ciò che forse mi turbava un poco era lo Shogun, la potente aurea che aleggiava intorno a lui. Lo temevo ma allo stesso tempo ne ero fortemente attratta. Lo rispettavo profondamente e per lui avevo una totale ammirazione.
Giunta alla grande sala d’addestramento notai la presenza di molti soldati già nel pieno dell’allenamento: chi combatteva a colpi di spada o di lancia, altri che provavano a tirar con l’arco. In un’area vi erano degli esploratori esperti che si curavano di insegnare agli aspiranti tutte le varie tecniche per conoscere le strade, le trappole, i veleni e quant’altro ancora potesse servire per la loro corretta formazione.
Non sapevo bene come muovermi, fino a quando un soldato, dall’aria piuttosto austera, mi rivolse parola:
« Il Venerabile Shogun ti attende. Ti prego di seguirmi. » freddo, distaccato, come un soldato doveva essere.
M’invitò dunque a seguirlo e, senza attendere un solo attimo, raggiunsi il punto esatto in cui si trovava il Generale.
« Konnichiwa, Venerabile Shogun. » proferii, incrociando poi le braccia al petto, chinando il busto in un perfetto inchino.
« Konnichiwa, Minako-san. » replicò, guardandomi con sguardo neutro. « Se sei pronta, possiamo iniziare subito con la lezione ».
Annuii, sfilando l’arco che tenevo sulla spalla destra.
« Sono pronta, Venerabile Shogun. »
Sul suo viso non comparve nessun sorriso, ormai aveva visto quella scena fin troppe volte e non poteva concedersi a grandi emozioni.
« Bene. Dimostrami ciò che sai fare. » si fermò per un attimo, rivolgendo lo sguardo verso un manichino vicino a un muro, a pochi metri dal punti in cui ci trovavamo.
« Cerca di colpirlo al cuore. Immagina che sia un tuo nemico e ricorda tutte le regole che Michio-san ti ha insegnato. »
Il nome di mio padre mi diede un’ulteriore spinta a fare del mio meglio. Non risposi nulla, limitandomi a chinare appena il capo in segno di assenso. Poi, cercai di trovare la corretta concentrazione. I consigli di mio padre riaffiorarono nella mia mente per qualche istante, poi tacquero di colpo per lasciare il posto al silenzio più totale.
Immaginai di essere sola, con il mio arco, dinanzi al mio nemico. Intorno a me il rumore provocato dal cozzare del ferro e dell’acciaio delle armi, le voci autoritarie dei samurai, e le urla di altri soldati, si disciolsero nell’aria e da essa furono portate via, lontano, molto lontano, così da non deconcentrarmi minimamente. Sentivo addosso lo sguardo penetrante dello Shogun, tuttavia cercavo di non pensarci, consapevole di non dover lasciarmi distrarre assolutamente dal benché minimo sentimento, altrimenti il tiro non sarebbe stato perfetto.
Iniziai a cercare la corretta posizione: gambe distanziate, piede destro poco davanti al sinistro. Con le mani sfiorai l’arco, per poi stringerlo con la dovuta decisione, non troppo piano per non farlo scivolare, ma neanche troppo forte.
Trassi profondi respiri, cercando di chetare ogni singola parte del mio corpo.
Lo Shogun rimase per lo più silenzioso, perfettamente immobile al mio fianco. Si limitò di tanto in tanto a dettar qualche piccolo consiglio, che io prontamente adottai.
Non appena raggiunsi la corretta posizione del corpo e la perfetta concentrazione, estrassi una freccia ponendola poi sull’arco, in modo da far combaciare la punta con la parte in legno, tenuta con la mano sinistra e la “coda” con la corda, tenuta con la mano destra.
Tesi la corda quel tanto che bastava e cercai di focalizzare il mio bersaglio; ma poi ricordai le parole di mio padre:
bisogna mirare oltre il bersaglio…
…e mi concentrai sul mio spirito. Il mio viso era completamente rilassato, non una smorfia e neanche una leggera tensione sembrava esserci in me. Quando mi sentii finalmente pronta, trattenni il respiro e lasciai partire la freccia che, dopo una breve tratto nell’aria, sibilante si conficcò nell’addome del manichino. Non avevo colpito il cuore, ma era lo stesso un buon tiro, no? Allo Shogun, ovviamente, spettava la decisione.
Mi voltai verso di lui, e vidi il suo viso illuminarsi. Non compresi bene il motivo, ma il mio cuore iniziò a martellare violentemente nel petto.
Lui si voltò verso di me, dopo aver osservato attentamente il procedere della mia prestazione, e disse:
« Complimenti! Non hai preso il cuore, ma hai un’ottima tecnica. Hai davvero preso da tuo padre. »
Le sue parole fecero pulsare con più foga il mio orgoglio. Avere un buon giudizio dallo Shogun e migliorare per raggiungere la perfezione, era sempre stato il mio scopo di vita. Mio e di mio padre, naturalmente.
Tornai a rilassarmi e a riacquistare una posizione più normale, riportando l’arco basso.
« Ti ringrazio Shogun-sama. » chinai appena il capo. « sono felice di sentire queste parole. »
« L’arco non è mai stata la mia arma prediletta, difatti è quella in cui forse pecco di più. » ammise, lasciandomi un poco spaesata. « io combatto con lei. » aggiunse, per poi sfiorare sia con la mano destra sia con lo sguardo la Katana che teneva stretta alla vita. La osservai con attenzione. Quelle armi erano di una bellezza estasiante, eppure io amavo profondamente il mio arco. Semplice, silenzioso ma letale, se saputo usare correttamente.
« E’ una bellissima arma, la più nobile. Sfortunatamente però, io non sono capace di usare spade… e tantomeno un’arma così superba. » ammisi, abbassando lo sguardo scuro con quelle particolari sfumature viola.
Mi sorrise lievemente, tornando poi ad interessarsi del bersaglio.
« Osserva adesso come si usa una Katana allora. » detto ciò, estrasse con agilità la katana dalla fodera, roteandola più volte tra le mani. Si pose in posizione di guardia, proprio di fronte al suo “avversario”, l’arma ben salda tra le mani. Lo sguardo vigile. Il piede destro era posto più indietro rispetto al sinistro, flesse le ginocchia, e strinse ancor più forte quell’arma superba. Uno strano spirito lo avvolse, e mi sembrò di scorgere la forza e l’attacco di un leone, quando, nel momento più opportuno balzò sulla sua “preda”, alzando l’arma e facendola poi scivolare rapidamente dall’alto in basso, tagliando il manichino dalla spalla sinistra all’anca, al fianco destro.
Osservai il tutto, mantenendo il più assoluto silenzio. Mi ritrovai quasi a trattenere il respiro, notando con quale agilità lui riuscì a mettere fuori gioco il suo avversario, seppure immobile, e provai ad immaginarlo in un campo di battaglia. Lo Shogun era formidabile. Il mio cuore prese di nuovo a battere con più forza.
Preso da una foga, iniziò a combattere contro un altro manichino, scalfendolo sulle gambe, poi tornò ad avvicinarsi a me, seppure il suo sguardo si perdesse ad ammirare la lama della sua katana. Un sorriso trionfante e pieno di orgoglio sul volto. Poi, i suoi occhi scuri, si soffermarono sui miei.
« Ora facciamo una prova. » aggiunse, rinfoderando la katana, per poi prendere due spade di legno, usate per le reclute, e donarne una a me. Prontamente lasciai con cura l’arco a terra, afferrando la spada. La osservai con attenzione, prima di stringere l’impugnatura saldamente, con entrambe le mani. Ma qui, la paura e l’insicurezza mi avvolsero. Ero in un ambito diverso dal mio. Non avevo mai usato una spada.
« Mettiti dinanzi a me, distanziata di alcuni passi. E poi osserva attentamente i movimenti che faccio io, ed esegui » aggiunse.
Mi sentivo un po’ impacciata, tuttavia, osservai con assoluta meticolosità i suoi movimenti e feci altrettanto: piede destro dietro al sinistro e più aperto, ginocchia flesse, spada ben salda tenuta con entrambe le mani e rivolta verso l’avversario.
Mi guardò, annuendo nel vedere che avevo eseguito, seppure con un po’ di incertezza, quanto detto, e poi aggiunse:
« Colpiscimi. » freddo. Tagliente. Spalancai occhi e bocca di fronte a quell’ordine. Dovevo davvero colpirlo? Ma come dovevo fare? E poi, proprio contro di lui? Sentivo la paura avvolgermi, ma poi lui continuò:
« Non verrai valutata per questo, è solo per saggiare da che punto dobbiamo partire. »
Non potevo ritirarmi. Se volevo diventare un perfetto soldato, dovevo iniziare da qualche parte, ed imparare ad usare tutte le armi, pur prediligendo il mio caro amato arco. Annuii, e cercai di studiare per bene il mio avversario. Sentii il mio cuore battere più forte, e trassi dei profondi respiri come per chetarlo. Dovevo rilassarmi. Nel momento in cui mi sentivo più calma, avanzai di un passo, cercando di colpirlo con il primo colpo che mi venisse in mente: un affondo, un colpo dritto sullo Shogun, davanti a me.
Lui sembrò sorridere, come capendo perfettamente ciò che volessi fare. Ruotò sul piede destro, e alzò la spada, in modo tale da frenare il mio colpo e deviarlo, con mio avvilimento.
« A quanto pare dovrò insegnarti molte cose. Ma, so che ce la faremo insieme. Tu vuoi imparare? » domanda retorica la sua. Ero perfettamente consapevole che la risposta era solo una. Tornai ben dritta, e risposi:
« Voglio imparare, ovviamente. Voglio saper usare tutte le armi, e trarre ogni genere d’insegnamento da te, Venerabile Shogun. » proferii sicura.
« Bene, ora posa pure la spada, e vieni con me. » mi ordinò, ed io prontamente eseguii il tutto.
Si diresse in un angolo della gran sala, laddove erano posti vari generi di armi.
« Ti consegno il Tanto imperiale, l’arma delle reclute, e quindi la tua arma. Non appena sarai promossa, potrò consegnarti la Naginata, e quando sarai una perfetta arciera, avrai uno degli archi imperiali, tutto per te. »
Spostai lo sguardo da lui, alla nuova arma, che presi tra le mani, osservandola con attenzione. Non sapevo bene che dire e quindi preferii rimanere in silenzio per alcuni attimi.
« Ti ringrazio Shogun Sama. »
« Ora puoi riposarti, domani continueremo l’addestramento. Sono sicuro che riuscirò a farti diventare un’ottima combattente. »
« Mi impegnerò molto per diventarlo. » Chinai il capo, stringendo nella mano destra il tanto, come una nuova reliquia, oltre al mio arco. « Grazie per la lezione. »
Subito dopo prendemmo strade diverse. La prima lezione era stata fatta e, nonostante la stanchezza e il primo esito negativo con la spada, mi sentivo soddisfatta.
Un senso di spossatezza mi colse e, non appena mi sdraiai sul mio futon, sprofondai in un sonno profondo.




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Ringrazio tutti coloro che leggono, e quei pochi che l'hanno inserita tra le seguite e le ricordate :)

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Capitolo 5
*** Quarto Capitolo ***


Quarto Capitolo



Quella notte sognai molto.
In un primo momento erano sogni confusi, immagini, colori, sfumature diverse si amalgamavano e scioglievano continuamente. Mi agitai nel sonno, tuttavia cercai di fare un profondo respiro, per ritrovare un poco di quiete.
Quelle macchie di colore, dapprima insignificanti, iniziarono a fondersi insieme, rappresentando in quell’immensa oscurità che il sonno ti lascia, delle forme… che solo dopo qualche momento, capii essere umane.
C’ero io in un lungo corridoio del castello, proprio nel lato in cui alloggiavano i soldati. Ero vestita come il giorno prima – un semplice kimono scuro – e avevo con me l’arco e la faretra a tracolla. I miei lunghi capelli color dell’onice erano raccolti alla maniera maschile, con un semplice bastoncino a tenerli fermi in una sorta di toppa alta; neanche un sottile filo scuro sfuggiva a quell’acconciatura. Perfetta. O meglio, un perfetto soldato.
Camminavo lentamente, diretta non sapevo neanche io bene dove, fino a quando non notai la me del sogno ferma dinanzi alla porta della stanza del Venerabile Shogun.
Non sapevo perché ero lì, probabilmente perché lui mi aveva semplicemente chiamata. Non vi erano samurai a guardia della porta, lasciandomi un poco perplessa. Forse era l’unica differenza con la realtà, il resto era fin troppo nitido, così perfetto nei dettagli, che mi stupì.
Vedevo le mie labbra muoversi: « Sono qui, Venerabile Shogun. » e, ben presto, arrivava l’alta voce del mio generale, che mi invitava a farmi avanti.
Non aspettai neanche il minimo istante, e, lasciata scorrere la porta di lato, mi intrufolai all’interno – naturalmente indossavo solo dei tabi bianchi – e subito mi inginocchiai di fronte alla sua presenza, senza ancora rivolgergli lo sguardo.
Lui sedeva con le gambe incrociate sopra il suo futon ancora spiegato e non riuscendo a scorgerlo, sentii solo la sua voce pacata rivolgermi ancora parola.
« Benvenuta Minako-san. Ti stavo aspettando. Puoi alzare il tuo sguardo ora. »
Annuii con il capo, per poi fare un altro piccolo inchino semplicemente con il busto, essendomi inginocchiata a terra, e sollevai lo sguardo, non accennando ad alzarmi o sedermi meglio.
« Sono al tuo servizio, Shogun-sama » proferii, gentilmente e sottomessa a lui. Soffermai il mio particolare sguardo scuro, dalle sfumature violacee su di lui, e per un attimo fu il silenzio. Potevo sentire solo il mio cuore battere all’impazzata, come a causa di una paura improvvisa.
Ma non stava succedendo assolutamente nulla di grave, anzi, lui mi sorrideva. Sentii le labbra secche, la gola che ardeva come infiammata, il cuore palpitante, e una sensazione particolare, indescrivibile e mai provata prima all’intestino: come se tanti piccoli esseri volessero volteggiare all’interno del mio corpo, e io non riuscissi a trattenere il battito incessante delle loro piccole ali colorate. Farfalle. Sì, sembravano essere come farfalle.
Un sogno insolito, di certo.
Non riuscivo a spiccicare parola, nonostante ci provassi più volte, ma alla fine desistetti. Lui continuava a sorridermi, come mai fatto prima. Le sue labbra, sotto quella leggera peluria, erano rivolte verso l’alto, come una piccola mezza luna. I suoi occhi scuri sembravano riflettere una luce particolare, che mi rapiva e mi faceva provare qualcosa che mai il mio cuore aveva provato.
Sapevo nel profondo che era meglio distogliere subito lo sguardo, non era opportuno fissarlo in maniera così sconsiderata, era lo Shogun, ed io una semplice recluta che doveva solo seguire le sue parole, i suoi ordini, e chinare il capo. Devota.
Ma ecco… io non ci riuscivo.
Era come se una forza invisibile mi spingesse a guardarlo; in un primo momento pensavo che la mia fosse solo una sana, tranquilla, ammirazione per un uomo tanto importante e saggio, ma poi…
… pian piano la consapevolezza si faceva strada, rivelando al mio cuore e a me stessa, che quello che provavo non era solo ammirazione. Sin dal primo momento che lo avevo visto, il mio cuore aveva preso a pulsare in maniera strana. Pensavo che fosse per la paura e l’emozione di trovarmi dinanzi a un uomo simile, che tante volte in tutti questi anni, mio padre aveva decantato, per le sue gesta, per il suo potere, per la sua saggezza.
Ma io, o forse è meglio dire la Minako del sogno, non vedeva più lo Shogun, bensì l’uomo. Un uomo molto più grande di me, il cui viso, segnato dagli anni e dalle tante vicende tristi o meno tristi che lo avevano colpito, ora era disteso in un sorriso amorevole, che mi punse dentro.
Quello che provavo era molto di più di una semplice ammirazione.
Io lo … amavo.

    Di fronte a quella sensazione mi risvegliai di colpo. Probabilmente non potevo lasciare andare avanti un sogno simile. No. Era già un grande peccato provare qualcosa di simile. Era lo Shogun, il mio Generale, il pari dell’imperatore, ed io ero solo un’umile recluta che aspirava a divenire un’importante arciera, come era nel volere di mio padre e nel mio.
Portai le mani al viso, coprendomi gli occhi. Sentivo ancora il cuore battere troppo forte. Avrei voluto premere come un pulsante invisibile per chetarlo, ma non era ovviamente possibile.
Allontanai poi le mani e mi alzai, seduta. Iniziai a trarre profondi respiri, che potevano permettermi di ritrovare un poco di quella tranquillità perduta, a causa del sogno.
Dovevo calmarmi. Era solo un semplice sogno, nulla di più.
Per Azumamaro Mushanokoji Watanabe io provavo solo una profondissima stima e rispetto. E basta.
Quando mi sentii sufficientemente calma, presi una bacinella d’acqua per sciacquarmi il viso. Mi aspettava un’altra giornata di allenamento, per dimostrare il mio valore, e comprendere nuove tecniche.
Mi vestii rapidamente, con il solito kimono semplice, nero; una volta legati con cura i capelli, affinché neanche una ciocca mi ricadesse sul viso, presi l’arco e la faretra, e, lasciata scivolare la porta di lato, mi addentrai nel corridoio che portava alla sala d’addestramento.
Cercai di scacciar via quei malsani pensieri e concentrarmi unicamente sul mio “lavoro”, sul mio obiettivo. Volevo diventare una vera arciera e avrei fatto di tutto per dimostrare di esserne capace.
Quando entrai nella sala, diversi soldati si stavano già allenando e, vagando con lo sguardo, notai che lui era lì.
Bastò un semplice sguardo per far affiorare di nuovo tutte quelle emozioni che credevo assopite. Sentivo il mio cuore pulsare di nuovo con più foga, mentre speravo intensamente di non arrossire, non in sua presenza. Non volevo apparire sciocca. Non volevo che lui sapesse di questa debolezza, che non dovevo provare. Io, che nella mia vita avevo amato un solo uomo – mio padre -, ora mi ero innamorata proprio di una persona che non avrei mai potuto avere.
Proprio in quel momento, di fronte a quella consapevolezza, sentii come una fitta allo stomaco, anzi, più in profondità, verso l’intestino. Sentivo affiorare un dolore molto forte, che per un attimo mi spinse a posare una mano, con la mera speranza di alleviarlo.
Che pensiero sciocco. Cosa mi stava succedendo?
Lottai contro quelle sensazioni, cercando di cacciarle indietro. No. Dovevo apparire seria, risoluta, tranquilla, pronta per un altro allenamento. Ero un soldato, non una fragile donna, che corre dietro all’amore.
Adottai la stessa tecnica di poco prima e trovai un poco di sollievo nel respirare più volte. Infine, avanzai di qualche passo e, quando ritrovai il suo sguardo su di me, per un attimo l’immagine di lui sorridente nel sogno, comparì al posto del suo viso austero e serio.
Deglutii a vuoto, e poi, allo scopo di cacciare una tale visione, chinai il busto, guardando così il pavimento, e non lui.
« Konnichiwa, Venerabile Shogun » proferii, sebbene sentissi la mia voce troppo fievole, e la cosa mi irritava. Non dovevo lasciarmi andare dai sentimenti.
« Minako–San, infine sei giunta. Leggo in te un tale nervosismo che non riesco a comprendere. Ti faccio forse così paura, come a tutti coloro che quasi tremano dinnanzi a me? O forse hai ripensamenti sul tuo scopo qui? » la sua voce aveva un tono neutro. Non si sbilanciava mai troppo nelle emozioni, cosa che dovevo assolutamente imparare anch’io.
« Mio Shogun-sama, io ho una profonda ammirazione per te, e non è la paura che scorgi nei miei occhi. » mi fermai un attimo, alzando appena il busto, ma tenendo lo sguardo ancor basso. « No, non ho ripensamenti… voglio diventare quello per cui sono nata: un’arciera. » il mio tono però non riuscì a convincere neanche me.
Lui rimase silenzioso per alcuni istanti, portando una mano ad accarezzarsi la lieve peluria sopra le labbra, pensieroso.
Capii che naturalmente non era un uomo così sciocco da credere alle mie parole; parole cui io stessa non sentivo totalmente veritiere. Che cosa mi stava succedendo?
Tuttavia, dopo qualche istante di assoluto silenzio – durante il quale il suo sguardo non si allontanò da me, mettendomi a disagio – riprese a parlare, riportando le braccia lungo i fianchi.
« Io posso aprire una porta, ma sei tu a doverla varcare. » disse, con un tono enigmatico, e poi tra noi fu di nuovo il silenzio. Prese a camminare, voltando lo sguardo verso gli altri soldati che si allenavano. Io sollevai il mio, scrutandolo, e ancora una volta, al sol guardarlo, una fitta all’intestino mi colse, lasciandomi senza fiato e senza parole. Avrei voluto reagire, ma qualcosa mi frenava. Mi sentivo così sciocca, così misera.
Ma i miei pensieri furono bloccati di nuovo dalle sue parole.
« Prendi il tuo arco, Minako-san. Voglio allenarti ora, in modo da perfezionare il tuo stile, se è davvero tuo desiderio diventare una vera arciera, forte, tenace e utile in battaglia. Potrai così aiutare egualmente l'Imperatore e la tua terra qualunque sia il futuro che ti è stato creato » il suo tono era come al solito austero. Un ordine chiaro e tondo.
Quelle parole. Lui cosa aveva capito? Era riuscito a scorgere dentro il mio animo? Era riuscito a capire cosa provavo, meglio di me?
L’unica cosa che potei fare in quel momento era chinar il capo e assecondare il suo ordine. Si diresse verso il terrazzo senza più guardarmi neanche una volta. Io prontamente lo seguii, senza dire una parola. Mi sentivo confusa. Non avevo mai provato qualcosa di simile e non sapevo come gestire quella situazione per me nuova. Avevo paura che parlando avrei potuto mostrare qualcosa. Restai zitta e, quando lui si fermò, anch’io feci altrettanto.
Una volta sul terrazzo, protese il suo braccio ad indicare un albero del giardino sotto di noi, io seguii la traiettoria indicatami e osservai con attenzione l’albero, inarcando tuttavia le sopracciglia non capendo.
« Osserva. Vedrai che al suo fianco c’è un sasso. »
Cercai di affinare meglio la vista, e una volta individuato il mio obiettivo, annuii.
« Colpiscilo. » mi ordinò, rapido, secco.
Io deglutii, non comprendendo come potesse vedere in me questa perfetta arciera. Forse riservava troppo fiducia in me e, se da un lato la cosa mi rendeva colma di orgoglio, dall’altra avevo paura di fallire. Il fallimento era forse la cosa che più temevo. Ciò nonostante, ancora una volta, non dissi neanche una parola, bensì impugnai l’arco con la mano destra, assumendo la posizione più adatta: piedi distanziati, il destro più avanti del sinistro, peso del corpo distribuito egualmente su entrambi. Cercai di rilassare tutto il mio corpo, allontanando ogni pensiero dalla mia testa: e, dopo un poco, ci riuscii. O almeno così sembrava. Restai seria, fissando il mio obiettivo e,  nel momento in cui mi sentivo più rilassata, sfilai una freccia che posi sull’arco. Con la mano sinistra impugnai la parte in legno, con la destra la freccia e la corda. Trassi un profondo respiro e chiusi gli occhi per qualche istante. Cercai di concentrarmi unicamente su di me, il prolungamento del mio braccio – ossia l’arco e la freccia -, e il mio obiettivo – il sasso -. Dovevo raggiungere un rapporto completo con il mio spirito.
Quando mi sentii abbastanza pronta, riaprii gli occhi, e scagliai la freccia: ma proprio un attimo prima che partisse, il dolore all’intestino si fece più prepotente. Un’unica grande fitta, che mi distolse dall’obiettivo. Involontariamente spostai all’ultimo l’arco, e la freccia, sibilante, ricadde proprio nel punto accanto al sasso. Un colpo molto buono, ma non avevo fatto centro.
In quell’attimo tutte le mie convinzioni vennero meno. L’immagine di mio padre si palesò dinanzi ai miei occhi: il suo viso appariva ancora più solcato da rughe e i suoi occhi erano colmi di delusione. Mi fissava ed io sentii come una fitta sbriciolarmi il cuore. Avrei voluto gridare, avrei voluto implorargli di perdonarmi. Avrei voluto promettere ancora ed ancora che sarei migliorata. Per lui, per non deluderlo. Ma non riuscii a fare nulla e in brevi istanti la sua immagine venne meno, spazzata via da una fievole aria, ingannatrice.
Lottai per reprimere le lacrime, sebbene sentissi i miei occhi bruciare. Mi morsi il labbro inferiore, lasciando scivolare il braccio sinistro inerte lungo il fianco, stringendo tuttavia, con poca forza l’arco. Abbassai lo sguardo ed attesi la punizione che mi avrebbe forse inflitto lo Shogun.
« La tua mente non deve pensare al sasso che devi colpire, ma alla freccia che è parte di te e del tuo braccio. Vedila come un prolungamento naturale, una parte della tua mano che può saltare e spiccare il volo fino al bersaglio che vuoi colpire. » le sue parole mi entrarono dentro, ma erano frasi  che avevo più volte sentito da mio padre, e fino a quel momento avevo fatto mie. Non avevo mai sbagliato un tiro, se non le prime volte. E il pensiero di sbagliare ora mi uccideva. Forse avrei dovuto rispondere, ma non ci riuscivo, e così lui aggiunse altro.
« Esistono sette barriere psichiche che possono influenzare negativamente il tiro. Devi comprendere quale di queste ti blocca, Minako-san, ed abbatterla. » sollevai lo sguardo ed incontrai il suo. Quegli occhi color pece mi fissavano e mi analizzavano. Eppure non sembrava furioso come temevo. Sembravano gli occhi di mio padre quando da piccola m’insegnava tutto. Un padre, già. Solo questo poteva essere per me lo Shogun. « E’ l’ansia che ti ha impedito di fare un tiro ottimale? O forse la felicità? O la paura? O la rabbia? O il… dolore? »
Il dolore. All’udire quella parola, provai un’altra fitta intensa all’intestino. Con la mano libera sfiorai appena nel punto esatto in cui avvertivo dolore, e spalancai gli occhi quando la realtà, che avevo voluto tacere fino a quel momento, si affacciò prepotentemente dinanzi ai miei occhi.
Io provavo dolore.
Era questo a bloccarmi, ad impedirmi di congiungermi completamente con il mio spirito. Io provavo dolore perché ero innamorata dello Shogun, e non provavo per lui soltanto pura ammirazione.
Io provavo amore.
Un sentimento che fino ad ora non avevo mai conosciuto per un uomo, che non fosse mio padre. Ma era un amore che non poteva esistere. Io non ero nulla, lui era lo Shogun. Io ai suoi occhi apparivo solo come una figlia e una recluta. Nulla di più. E ciò mi provocava un dolore enorme che non riuscivo a gestire.
La consapevolezza che non sarei più riuscita a realizzare il sogno mio e di mio padre si fece presente ed io mi sforzai ancora di non piangere.
« Io… » sentii la mia voce quasi spezzata e cercai di schiarirmela per poi riprendere a parlare « credo che ho bisogno un po’ di tempo per analizzare il mio spirito e… capire. Poi ti potrò dare una risposta. Se è possibile, Venerabile Shogun, chiedo il permesso di ritirarmi, per iniziare da subito a comprendere ciò che mi accade. » chinai il capo, cercando di resistere ancora un poco per non dar mostra di una visione straziante e debole proprio dinanzi a lui. Attesi, ma l’attesa fu breve.
« Vai pure, Minako-san. Vedrai che saprai trovare la forza in te, e la risposta alle tue domande. » mi disse, e accennò un sorriso: quello di un padre che dimostra un piccolo cenno di affetto per una figlia. Prima che la fitta di dolore potesse di nuovo colpirmi ed annientarmi, chinai il busto per effettuare un corretto inchino e, velocemente, mi allontanai diretta alla mia stanza.
Avevo bisogno di restare sola per pensare e… piangere, finalmente.

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Capitolo 6
*** Quinto Capitolo ***


Quinto Capitolo



    Passai gran parte della giornata nella mia stanza. Lo Shogun, probabilmente, mi aveva compresa e voleva lasciarmi un po’ da sola, per riflettere.
Essere un soldato dell’esercito imperiale era un ruolo molto importante, da non sottovalutare e la scelta di rimanere doveva essere chiara e decisa. Sapevo perfettamente che non mi avrebbe concesso altre possibilità.
Forse si comportava così con me, perché ero la figlia del suo migliore amico, o magari perché somigliavo molto a sua figlia, in fin dei conti avevo quasi la medesima età.
Atsuko, questo il suo nome, aveva deciso di seguire le orme del padre, ma diventando un perfetto bushi, amando lei in particolare le spade.
Io l’arciera, lei la spadaccina.
Se non fossi stata bloccata da quella nuova consapevolezza che mi lacerava dentro, probabilmente avrei potuto diventarle amica e, sostenendoci insieme, avremmo contribuito ad apportare valore all’esercito.
Ma ora, quei pensieri mi sembravano così irreali, così confusi.
Era veramente quello il mio vero desiderio? Oppure volevo unicamente dimostrare qualcosa a mio padre ed essere quel figlio maschio che i Kami non gli avevano riservato?
Era sinceramente triste farsi domande simili, ma dovevo. Io dovevo realmente capire cosa mi stava succedendo e fare la mia scelta, entro un giorno. Ero conscia che lo Shogun mi stava dimostrando molto, ma che la sua pazienza non sarebbe durata a lungo.
Dopo aver consumato le mie lacrime, mi alzai dal cuscino sul quale ero sprofondata, e cercai di ricompormi un poco. Sistemai meglio i capelli, legandoli con cura sulla nuca, e mi asciugai il viso. Decisi di dirigermi un poco fuori; probabilmente una passeggiata mi avrebbe aiutata a schiarirmi le idee. Forse sarei potuto andare a trovare i miei zii, che gestivano una taverna, nei dintorni, ma no, sentivo il bisogno di rimanere completamente sola, per non permettere a nessuno di sviare i miei pensieri. Dovevo farmi domande e trovare le dovute risposte.
Iniziai a camminare, con calma, lungo un sentiero che portava a un piccolo laghetto, con orchidee e alberi di ciliegi tutt’intorno. Era la primavera, e quei dolci petali delle tonalità del rosa e del bianco ricadevano sul manto erboso, e uno di essi scivolò sulla mia spalla destra. Fermai il mio incedere e presi quel petalo tra le mani, delicata, e mi fermai ad osservarlo un poco.
Era così bello. Così soffice al tatto. Così delicato e fragile. Sarebbe bastato stringerlo più forte tra le dita, per rovinarlo.
Così mi sentivo: come un fragile petalo di ciliegio, continuamente colpito dal vento, sul culmine di frantumarsi del tutto.
Fino a quel momento mi sentivo forte, sicura, certa delle mie decisioni. Ed ora?
Ora io non sapevo più nulla. Se non che amavo Azumamaro Mushanokoji Watanabe, ma che dovevo dimenticare ben presto quel sentimento, perché tra noi non era possibile nessun rapporto, al di fuori di quello tra una recluta e il suo capo.
Sospirai e lasciai scivolare a terra quel petalo e di nuovo ripresi ad avanzare, fermandomi proprio nei pressi del piccolo laghetto, al cui centro spiccava un bellissimo fior di loto dalle sfumature del rosa e del viola. Rimasi per qualche istante ad osservarlo, e mi concentrai unicamente su cotanta bellezza, simbolo della vita stessa.
Mi abbassai, poi, per sfiorare appena l’acqua con due dita della mano destra. Guardai le piccole linee che andavano ad increspare quella superficie prima piatta.
In quel momento mi sentii davvero sola.
Volevo parlare con mia madre, o comunque con un’amica. Ma, mi accorsi solo in quel momento che io, effettivamente, non avevo amiche.
Avevo passato tutta la mia vita a seguire lezioni su lezioni, per affinare la mia tecnica con l’arco ed ora non riuscivo neanche a fare un tiro perfetto. Ero un vero disastro.
Sentii affiorare, come se la memoria volesse farsi beffe di me, le risate derisorie delle mie sorelle. Loro erano state inviate presso un’okiya, ed ora avevano raggiunto il loro scopo: erano entrambe delle perfette Geishe, delicate e perfette nelle movenze, raffinate, educate, brave in ogni genere di arte, anche se ovviamente, entrambe risaltavano per qualche arte in particolare: Asami era un’ottima danzatrice, molti uomini restavano incantati dai suoi movimenti e dall’armonia che riusciva a creare semplicemente muovendo i ventagli. Ryoko, invece, amava il canto e sapeva suonare perfettamente diversi strumenti, in modo particolare lo shamisen; con la sua abilità riusciva ad attrarre, anche lei, l’attenzione di tutti gli uomini su di lei.
Loro erano perfette, avevano raggiunto la loro massima aspirazione, ciò che sin da bambine erano state chiamate ad essere. Ed io?
Io non ero nulla.
Mi sentivo un involucro vuoto, senza sostanza.
L’aria mi sferzò sul viso. Le lacrime ripresero a scendere.
Non riuscii a trattenerle ancora. Mi sentivo così triste.
Soffermai lo sguardo su quell’acqua cristallina sotto di me e, nel momento in cui vi si riflesse la mia figura, non riuscii quasi a riconoscere quel viso stravolto e solcato da lacrime copiose, che quasi mai avevo versato fino a quel momento.
Dovevo essere un uomo. Eppure il mio lato femminile e fragile aveva preso il soppravvento e non riuscivo più a gestirlo.
« Padre… padre mio. Perdonami se puoi, ma io non riesco a diventare una vera arciera dell’esercito imperiale, come tu hai sempre sognato per me. Mi dispiace. Ci ho provato, ci ho creduto, lo volevo. Ma non riesco ad abbattere questa barriera. Ogni volta che lo vedo, avverto delle fitte, qui, al basso ventre. Lo amo, ma non lo posso avere. E questa consapevolezza mi dilania, mi distrugge, mi abbatte. Non riesco a raggiungere il corretto contatto con il mio spirito e, così facendo, non riuscirò mai a fare il tiro perfetto. Io lo amo. E provo dolore. Un dolore indescrivibile a parole. Perché sacri Kami avete deciso questo per me? Miei antenati è questa la mia strada? Soffrire, non raggiungere i miei scopi, deludere mio padre… » il discorso era completamente sussurrato. Ero sola, ma non potevo permettere che i miei pensieri sussurrati al vento potessero raggiungere orecchie indiscrete. No. Avrei causato solo altri scandali più vergognosi.
Portai una manica del kimono scuro a detergere le lacrime e mi rialzai ben dritta. Il sole stava quasi per tramontare ormai ed era giunto il momento di tornare nella mia stanza.
Avanzai lenta, guardandomi intorno con uno sguardo spento, vuoto, vacuo, senza vivo interesse per ciò che vedevo, fino a raggiungere infine la meta finale: la mia stanza.
Posai e dispiegai sul pavimento il futon, e mi distesi sopra. Per molto tempo non riuscii a prendere minimamente sonno. Troppi i pensieri che si arrovellarono nella mia testa. Troppe le preoccupazioni. Troppa la voglia di lottare contro quel sentimento che mi aveva arrecato dolore e portata a star così male.
Dopo non so quanto tempo per l’esattezza, finalmente riuscii ad addormentarmi. Ma il mio sonno fu invaso da una serie di sogni confusi, che aumentarono ulteriormente il mio disagio. Una serie di immagini scorrevano una dietro l’altra, per poi ripetersi continuamente.
Vedevo la delusione sul volto di mio padre. Lo sguardo serio di mia madre, forse l’unica a capirmi. Le risate derisorie delle mie sorelle. La me stessa che provava in continuazione a scagliare la freccia, ma sempre con cattivo esito.
E infine il suo viso.
Lo Shogun che mi sorrideva.
Il mio cuore che batteva.
Il dolore che m’invadeva l’intestino, per poi riversarsi sul cuore.
Al mio risveglio, presi la mia decisione.

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Capitolo 7
*** Sesto Capitolo ***


Sesto Capitolo


    Quel nuovo mattino, nonostante i raggi di un tiepido sole filtrassero attraverso la finestra della mia stanza, io non ci vedevo nulla di buono.
Avevo preso la mia decisione, eppure era complicato attuarla. Ma dovevo.
Non potevo più ingannare lo Shogun, mio padre, ma soprattutto me stessa.
Mi vestii lentamente, sistemando meglio il kimono di un marrone scuro con semplici rifiniture sul giallo, come una serie di ghirigori senza senso che sfioravano la schiena. Legai un obi dorato alla vita, e vi fissai all’interno il Tanto imperiale che mi era stato consegnato dopo la mia prima lezione. Raccolsi i miei lunghissimi capelli d’ebano con una coda alta, in una maniera forse più femminile.
Una volta pronta, mi soffermai qualche istante davanti allo specchio e quello che vidi era una donna con uno sguardo fermo e deciso, i cui tratti apparivano severi, rigidi, ma i suoi profondo occhi scuri dalle sfumature violacee erano spenti, vuoti, annegati in un mare di profonda tristezza e delusione.
Scossi il capo, non permettendomi di piangere ancora, e afferrai l’arco e la faretra, amati compagni, che fissai sulla spalla. Feci scivolare di lato la porta e mi accinsi a percorrere tutto il corridoio che conduceva alla sala d’addestramento. E’ lì che avrei incontrato lo Shogun, ne ero certa.
Una volta giunta a destinazione, iniziai a guardarmi intorno. Lasciai spaziare il mio sguardo lungo tutto il perimetro dell’area, osservando i soldati che si allenavano continuamente, desiderosi di dimostrare il loro valore e rispettare il loro giuramento, cosa che io non avevo, infine, fatto.
Sospirai al pensiero e ripresi a guardarmi in giro. Mi soffermai in particolare su una parete sulla quale erano affissi gli archi imperiali, in dotazione a coloro che, una volta superato il periodo da recluta, decidevano di diventare dei veri e propri arcieri. Erano lunghi e di un legno chiaro e pregiato, e provai una fitta al cuore al solo pensare che uno di quelli potesse essere mio.
Avanzai di qualche passo, fino a raggiungere il terrazzo, dove non sarei stata d’intralcio ai vari addestramenti che si stavano svolgendo. Respirai un poco d’aria e, quando tornai a voltarmi, subito il mio sguardo incrociò il suo.
Il mio cuore prese immediatamente a battere più forte nel petto, temevo che potesse essere udito da tutti, ma soprattutto da lui, e sarebbe stato terribile! Non doveva accadere, quindi cercai di fare un altro profondo respiro, ma non si può comandare al cuore, purtroppo.
Non appena lui mi vide, si avvicinò con fare stanco verso di me. Al battere incessante del mio cuore, si aggiunse una fitta tremenda al basso ventre, all’intestino, che mi spinse a posarvi sopra una mano con la mera speranza di alleviare tanto dolore.
Nell’osservarlo meglio, restai allibita: appariva più vecchio e più stanco, quasi fragile, seppure potesse sembrare una cosa priva di senso. Il grande Shogun, austero e imperioso, capace di uccidere con pochi colpi, ora sembrava un uomo troppo stremato, come se il peso del suo ruolo e delle sue decisioni lo avessero abbattuto di colpo e non riuscisse più a sostenerlo con le sue sole spalle.
Mi faceva male vederlo così, in quel momento avvertivo il bisogno di aiutarlo, di abbracciarlo come per alleviare un poco quella sofferenza che sembrava provare e alleggerire un poco il carico che portava.
Ma, trattenni immediatamente l’impulso, sapevo bene, infatti, che ciò non era possibile.
Lui si fermò a pochi passi da me, mi guardò serio e allo stesso tempo stanco e poi mi rivolse parola:
« Konnichiwa Minako-san. » un semplice saluto, prima di sedersi a terra, ignorando tutto e tutti. « Sono troppo vecchio ormai, ho fatto il mio tempo…» non mi guardò minimamente, ma si limitò ad osservare dinanzi a sé, un punto non ben decifrato nella stanza.
Le sue parole mi apparvero incomprensibili: cosa voleva dire? Lui troppo vecchio? Perché si sentiva così? Mi fece cenno di sedermi accanto a lui e subito obbedii, pur rimanendo un poco discostata da lui, per non sfiorarlo minimamente.
« Cosa vuoi dire, mio Shogun? » proferii a bassa voce, assecondando il suo tono usato, e non smisi mai di guardarlo, ignorando il dolore che avvertivo, troppo preoccupata per lui.
« Un mese fa ho condannato a morte un uomo senza prove; dovevo trovare un colpevole di omicidio, e lui era perfetto. Poco fa ho interrogato un uomo che ha cercato di uccidermi e l'ho lasciato andare, perché non ho più voglia di uccidere... » si fermò qualche istante, soffermando poi i suoi occhi pece su di me ed io non distolsi il mio sguardo. Sentivo che aveva bisogno di sfogarsi e, pur non capendo perché avesse scelto proprio me, mi sentii lusingata e felice, ma allo stesso tempo provavo una tal sofferenza nel vederlo così e mi sentivo incapace di aiutarlo. « Per troppo tempo sono stato Shogun, troppo a lungo ho dovuto prendere decisioni, stabilire chi doveva vivere e chi morire, ucciso in battaglia, difeso questi luoghi e il divino imperatore, ma ora sono stanco. » sorrise tristemente e poi il suo sguardo oltrepassò la mia stessa figura, facendosi lontano, come se sognasse ad occhi aperti « vorrei avere qualche amico, vedere mio figlio un uomo che cavalca, e mia figlia una perfetta Geisha. ».
Non riuscii a parlare. Avrei voluto stringere le sue mani alle mie e fargli forza, fargli capire che io c’ero per lui e, se avesse voluto, ci sarei sempre stata. Ma per lui ero solo la figlia del suo migliore amico no? Probabilmente solo una bambina ai suoi occhi.
« E’… è così triste vederti così. Sentire che lo Shogun, l’uomo che ammiro di più al mondo…  » e che amo – avrei voluto aggiungere « … dica tali parole. Forse è solo un momento, forse, se mi è concesso dirlo, hai soltanto bisogno di riposare, per poi tornare ad essere lo Shogun che eri e che sei ancora nel profondo. » non sapevo se potevo rivolgermi così a lui, ma volevo dire qualcosa, giacché a gesti non era possibile far nulla.
Lui scosse il capo e poi posò una mano sulla mia spalla, ed io mi trovai a sussultare un attimo. Una miriade di sensazioni mi avvolse a quel semplice contatto. L’amore ed il dolore si fondevano insieme e non sapevo se sentirmi male o bene.
« Sai cosa penso di questo posto, Minako? Credo che sia ora di rinnovarlo, forse è venuto il momento di lasciare il mio posto a un altro venerabile Shogun. » allontanò la mano dalla mia spalla, nonostante una voce dentro di me gridasse per sentire ancora quel semplice, innocente, tocco, e poi sembrò di nuovo perdersi nei suoi sogni.
« L'ho sognata... la Cascata di Gelsomini, il fiore perfetto finalmente trovato. » la sua voce sembrò un semplice sussurro, come la voce del vento. « mia figlia che lo riceve e viene mandata al Castello per la cena ed io che sorrido e mi addormento per sempre... »
Quelle parole erano terribili. Perché mi parlava così? Perché si rivolgeva in questo modo proprio a me? Perché pensava così presto alla morte?
Non riuscii più a trattenermi: i miei occhi si fecero lucidi e lacrime vi si addensarono. Lo guardai ancora e, incurante di tutto e tutti, pur mantenendo un tono basso, presi parola:
« Perché parlare di rinnovamento ora? Ci sei tu, un grande Shogun. Colui che mi ha accolta qui e mi ha insegnato tanto. Colui per il quale sin da bambina ho provato una profonda ammirazione. Colui che tutti lo venerano e di cui tutti parlano. Guarda quei soldati, guarda come si allenano. Loro vogliono seguire le tue orme, diventare dei perfetti uomini d’arme come te, pieni di onore, lealtà, rispetto, orgoglio. Lottano per diventare uomini. Lottano per amore della propria terra, del proprio imperatore, ma anche di te, dello Shogun che insegna loro a vivere, oltre che combattere. » le lacrime iniziarono a scorrere dai miei occhi, non riuscendo più a trattenerle. « Ti prego Shogun-sama non parlare della tua morte. Come starà tua figlia? Credi che tua moglie e tuo figlio sarebbero felici di sentirti parlare così, se fossero ancora qui? Come faranno qui senza una persona valida come te al comando del glorioso esercito imperiale? » e come starò io senza di te? Altro pensiero da tenere nascosto. « E’ triste vederti così, davvero tanto. E mi risulta ancora più difficile dirti la mia decisione. »
Sembrò non ascoltarmi, seppure mi guardasse intensamente. Non smisi di piangere, anche se mi sentivo fragile e sciocca, ma le sue parole mi avevano notevolmente turbata e non potevo rimanere in silenzio a guardare. Dopo qualche secondo di silenzio, interrotto solo dal rumore delle spade, dalle urla dei soldati e dalle mie lacrime capricciose, disse:
« Cosa devi dirmi Minako-san? Sei arrivata dunque alla tua decisione? »
Annuii, asciugando poi le lacrime con la manica destra del kimono.
« La decisione è stata presa. Ci ho pensato a lungo, per un intero giorno, valutando i pro e i contro e, alla fine, ho capito che non posso più ingannare né te, né mio padre, né me stessa. Mi sento triste nel doverti dire ciò, ma ho deciso di non restare qui. Non è questa la mia strada ed io non sarò mai un vero soldato. » abbassai per un attimo lo sguardo, poi ripresi. « mi dispiace dirti ciò, so che ti deluderò, come ho deluso profondamente me stessa e come deluderò mio padre vedendomi tornare tanto presto. Ma qui non mi trovo bene, non è questo il mio posto. E’ venuto per me il tempo di partire: tornare da mio padre o forse andare altrove, chissà. Amo l’arco, è ormai parte di me stessa, e continuerò sempre ad usarlo, ma non posso divenire arciera dell’esercito imperiale. » nonostante la tristezza, la delusione, il dolore e le lacrime, il mio tono era deciso e il mio sguardo tornò a soffermarsi su Azumamaro che mi fissava a sua volta.
« Non posso dire di essere felice di questa tua decisione, però se questa è la tua strada che gli antenati ti proteggano sempre. » mi disse, sfiorando con lo sguardo il mio viso, per poi lasciarlo ricadere sul tanto che spuntava dall’obi stretto alla mia vita.
« Ti ringrazio mio Shogun. » non so perché continuavo a rivolgermi così a lui, mio. Lui non sarebbe mai stato mio. Poi sfilai il Tanto che avevo all’obi e glielo porsi. « quindi devo ridarti questo. Non sono meritevole di portarlo ancora con me ».
Lui lo prese tra le sua mani, senza dire una parola. Temevo che mi cacciasse in malo modo e invece…
Rimasi ad osservarlo in silenzio, attendendo una sua parola, il suo congedo. Non potevo alzarmi e andarmene di mio libero arbitrio.
Lui osservò con cura il Tanto, muovendolo tra le sue mani, poi lo sentii sussurrare.
« I fiori… »
Inarcai le sopracciglia non capendo che volesse dire, ma poco dopo riprese:
« Ho visto il fiore perfetto venticinque anni fa e lo sposai. Dicono che nel nostro Impero, non ci si può sposare per amore, ma io lo feci… » quelle parole mi trafiggevano l’anima ed il dolore aumentò, ma rimasi di sasso nel vedere ciò che stava per fare: puntò il Tanto al suo stomaco, con la parte affilata e tagliente, e iniziò a dare una leggera pressione, non così esagerata da trafiggersi, ma delle piccole gocce di sangue uscirono dalla lacerazione.
Allarmata quasi mi ritrovai a gridare un « NO! », mentre, incurante di tutte le etichette da rispettare, allungai le mie mani nel tentativo di allontanare quell’arma da lui. No, non potevo sopportare di perderlo così. Già non potevo averlo, ma vederlo morire sarebbe stato ancora più doloroso. « No, ti prego Shogun-sama. Non fare così, non devi… ti scongiuro. » sembravo una bambina, mentre lasciavo scorrere di nuovo quella dannate lacrime e mi sforzavo di impedirgli di uccidersi.
Lui, a differenza del mio dolore, mi sorrise ed annuì di fronte al mio fare. Mi lasciò allontanare quell’arma da lui e poi, fissandomi, replicò:
« L’ultima lezione è fatta. » sembrava quasi commosso nell’osservarmi. « non morirò così, non temere. » non si curò affatto della piccola ferita che si era inflitto. Sarebbe guarita in breve tempo. Si alzò da terra, e si guardò intorno, prima di rivolgermi ancora sguardo e parola.
« Saresti stata un’ottima arciera, ti avrei già promossa. Ma hai preso la tua decisione, ed io non posso far altro che accettarla. » fece una piccola pausa, e poi concluse « puoi andare Minako, stasera potrai dormire qui, nel tuo alloggio. Ma… guarda la strada, un giorno potrai vedere lo Shogun dietro di te.»
Le sue parole mi apparvero ancora una volta incomprensibili. Mi avrebbe seguita? E perché mai? Allontanai ogni pensiero, riservandolo per dopo, quando sarei stata di nuovo sola ed annuii. Mi alzai da terra e gli riservai un perfetto inchino. Lui accennò un altro lieve sorriso, denso di stanchezza forse, e poi si allontanò scomparendo nei corridoi.
Quella sera sistemai tutte le mie cose e dormii ancora un’ultima volta nel mio alloggio.
L’indomani, con unicamente l’arco, la faretra, e una semplice sacca con cui ero arrivata, ripresi il cammino verso casa, dove avrei trovato sicuramente delusione, ma almeno sarei riuscita ad allontanare da me quel dolore e quel sentimento troppo grande che non potevo provare per lui.



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Il prossimo capitolo sarà l'epilogo.
Spero che finora vi sia piaciuta. :)

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Epilogo


I giorni divennero mesi.
La primavera lasciò il posto alla calda estate, l’estate al malinconico autunno, e l’autunno al freddo inverno.
Ero tornata a casa in un giorno di primavera, arco e faretra a tracolla, e una sacca nella mano sinistra.
Così ero partita, così tornai.
Come nei miei più tristi sogni, la mia vista provocò un senso di profonda delusione negli occhi di mio padre. Vidi il suo sorriso scemare e farsi improvvisamente più vecchio. Mi guardò solo per qualche istante, uno sguardo che mi penetrò fin dentro l’anima e non avrei mai potuto dimenticare.
Avevo fallito, miseramente.
Mi fermai a pochi passi da casa e abbassai lo sguardo, mentre mio padre si allontanò, sgusciando all’interno e chiudendosi nella sua stanza.
Mia madre, invece, mi venne incontro e prese le mie mani tra le sue. Sollevò la mano destra a carezzarmi il viso e mi spinse a guardarla. In quel preciso momento in cui i nostri occhi, così simili e particolari, s’incontrarono, mi rivolse un caldo sorriso. Lei mi capiva, lo aveva sempre fatto.
Non occorsero parole, spesso gli sguardi dicono tutto.
Trattenni le lacrime a forza e deglutii. Lei mi strinse a sé. Una donnina piccola, in confronto alla mia altezza, che però emanava un calore profondo.
Solo in quel momento, accolta in un simile abbraccio, lasciai scivolare qualche lacrima, per sfogarmi con l’unica persona che non mi disprezzava, derideva, o altro.
« Forse è meglio non tornare a casa… non voglio fargli altro male. Posso trovare un posto dove vivere da sola… » proposi poco dopo, asciugandomi il viso, e guardandola negli occhi.
Lei scosse subito il capo e si accigliò.
« Sei mia figlia e non ti permetto di andare a vivere da sola, rischiando di essere beffeggiata da tutti. Lui capirà. Dagli solo un po’ di tempo. »
Seppur riluttante, acconsentii e scivolai all’interno della casa, dietro di lei.
Nei primi tempi mio padre mi guardava e parlava a malapena. Percepivo la sua sofferenza, oltre che la delusione. Ero la figlia che più amava e, non riuscire a parlarmi per puro orgoglio, gli faceva male.
Anch’io soffrivo.
Amavo mio padre e vederlo così, mi faceva male.
Il non aver realizzato il mio sogno, mi faceva male.
E soprattutto, nonostante la distanza che ora c’era tra me e la città imperiale, non smettevo di sognare lui. Lo Shogun che era entrato nel mio cuore. Ciò mi faceva male.
I giorni passarono ed io tornai ad aiutare i miei genitori nelle faccende più quotidiane.
Le mie sorelle, appreso il mio esito fallito, risero di me, ma non m’importava. Non avevo mai considerato le loro parole, e non lo avrei di certo fatto ora.
Nei pochi momenti di libertà, non restavo ad oziare, ma mi recavo in una piccolo boschetto ad esercitarmi con l’arco. Non aver realizzato il mio sogno non m’impediva di tenermi allenata e dimenticare ciò che avevo appreso sin da bambina.
Eppure, nonostante tutti i miei sforzi di concentrazione, nonostante tentassi con tutta me stessa di abbattere tutte quelle barriere psichiche e di entrare in perfetta sintonia con il mio spirito interiore, c’era sempre qualcosa che m’impediva di compiere il tiro perfetto.
Sentivo la sua voce nell’aria, imperiosa, seria… calda.
Vedevo il suo viso davanti a me. Vedevo il suo sorriso. Vedevo l’ultima immagine triste di lui, quell’uomo fragile che avrei voluto stringere tra le mie braccia.
No. Mi era impossibile dimenticarlo.
Quando l’amore ti pulsa dentro, scorre in tutto il tuo essere come un fiume e t’invade completamente, non riesci più a ragionare, ad opporti, a dire no.
E’ una forza troppo grande di fronte alla quale il più delle volte, se non sempre, sei costretto ad arrenderti.
Ma, quando l’amore che provi non può essere ricambiato e sei costretto a dimenticare, allora lì viene il difficile. E l’amore si confonde col dolore. Il calore con il gelo. L’abbraccio con la lama.
Una lama che colpisce in profondità, che ti ferisce più e più volte.



    Le stagioni cambiarono, ma la mia vita scorreva monotona. Il rapporto con mio padre rimaneva sempre freddo, sebbene a volte riuscisse a parlarmi un poco di più.
Io non mi permettevo di spingerlo a fare di più. Rimasi la figlia sottomessa e pronta ad aiutare e rispettare i suoi ordini. Lo amavo e avrei fatto tutto per lui, dopo ciò che gli avevo crudelmente – anche se involontariamente – arrecato.



    Fino a che non giunse l’inverno.
Era molto rigido, forse uno dei più rigidi che potessi ricordare.
Bianca neve ricopriva la terra, dove fino a poche settimane prima, vi era un bel manto erboso.
Mi trovavo sul retro della casa a prendere della legna, al fine di riscaldare un poco la casa, quando sentii delle grida di esultanza provenire dal paese. Mi fermai ad osservare lungo la strada che dalla mia casa portava al centro, curiosa di capire chi fosse arrivato di così importante da gettare tanto scompiglio.
Vedevo uomini ricomporsi per bene e uscire di fretta di casa, donne che, tenendo i propri pargoli tra le braccia, bisbigliavano sui nuovi arrivati.
Non riuscivo a percepire bene le loro parole: parlavano di diversi uomini armati e di una piccola bambina. Ma di più non potei comprendere. Anche se, avanzando di qualche passo, sentivo diversi sguardi rivolti verso di me e, subito dopo, altri bisbigli.
Storsi le mie labbra in una smorfia e lanciai loro un’occhiataccia. Ero arcistufa di sentire parlare male di me, dopo mesi e mesi.
Pensai di tornare a casa e lasciare quelle donne alle loro chiacchiere, ma, proprio nel momento in cui stavo per voltarmi, vidi… i nuovi arrivati.
Erano cinque uomini, armati di tutto punto, e tutti avevano almeno una katana, sintomo del loro essere Samurai. Ma l’uomo al centro, che teneva per mano una deliziosa bambina – che poteva dimostrare al massimo dieci anni – aveva un qualcosa di diverso.
Al suo avanzare, molti paesani s’inchinarono profondamente, come se fosse una persona di tutto rispetto.
Ero ancora distante e non potevo vedere con esattezza, ma il mio cuore iniziò a battere, nel momento esatto in cui quel pomposo gruppo si avvicinava a … me.
Il mio cuore lo aveva riconosciuto prima dei miei occhi.
Azumamaro Mushanokoji Watanabe, lo Shogun, era proprio lì. Ormai davanti a me.
Presa dall’emozione e dalla sorpresa lasciai cadere i pezzi di legna a terra, provocando uno strano trambusto.
Spalancai le labbra e mi vergognai della mia disattenzione e di come mi presentavo a lui:
il freddo difatti aveva reso la mia pelle un poco più screpolata, così come le labbra, rosate, rovinate su più punti. I miei lunghi capelli scuri erano scompigliati e lasciati sciolti. Il kimono che indossavo era di un verde scuro, ma molto semplice. Un abito quotidiano, in fin dei conti.
Dopo diversi minuti, riuscii a riprendermi da quella visione e mi chinai profondamente.
« Ve- venerabile Shogun… » riuscii appena a mormorare, con voce spezzata, mentre lacrime impertinenti affiorarono ben presto nei miei occhi, pungendomi a causa del freddo.
« Alzati Minako-san, non prostrarti a me, in tal maniera. » la sua voce era sempre austera, ma allo stesso tempo molto calda. Risposi subito al suo ordine e sollevai il busto, soffermando poi lo sguardo su di lui. Ma non riuscii a guardarlo troppo a lungo negli occhi.
« Lo Shogun infine è giunto. Come puoi vedere ha mantenuto la sua parola. » a quelle parole ne seguirono altre nella mia mente. Ricordi… guarda la strada, un giorno potrai vedere lo Shogun dietro di te.
Era giunto, sì. Ma cosa ci faceva lì? E soprattutto con quella bimba mai vista prima?
Non riuscii a dire una parola, ma spostai lo sguardo sulla piccola che mi mostrò subito un delizioso sorriso, con tanto di fossette sulle gote.
Era piccina, il viso paffutello, sul quale spuntavano due grandi occhi castani, che mostravano nel profondo una malinconia che non potevo comprendere; un nasino piccino all’insù, e due labbra a forma di bocciolo di rosa. I suoi lunghi capelli scuri erano raccolti in due codine, che la facevano sembrare forse più piccola. Indossava un elegante kimono giallo, con deliziosi fiorellini rossi, e un Obi arancione alla vita.
Era adorabile.
Lei continuò a sorridermi e poi disse.
« Così tu sei Minako. Sono tanto felice di conoscerti. » chinò appena la testolina, poiché con la manina sinistra ancora stringeva quella dello Shogun. « mio padre mi ha a lungo parlato di te, come l’arciera più eccelsa del suo esercito. Mi dispiace non averti mai vista prima, ma sono curiosa di vedere la tua abilità, tanto apprezzata e decantata dallo Shogun stesso. »
Il suo modo di parlare dimostrava una maturità insolita in una bambina così piccola, eppure la sua voce mostrava una tale dolcezza, che mi portava quasi a commuovermi ma anche ad arrossire a simili complimenti.
Le persone del paese erano tutte lì, ad interessarsi della situazione. Le donne che prima avevano bisbigliato qualcosa contro di me, ora spalancarono gli occhi di fronte a un simile discorso ed io mi sentii orgogliosa.
Prima che potessi rispondere, fu la volta, ancora una volta, di Azumamaro di parlare:
« Esatto Michiko-chan. Lei è Minako-san, l’arciera più promettente dell’esercito imperiale. » arrossii ancor di più « e lei è la mia bambina. Non siamo legati dal sangue, ma non deve essere per forza questo a legare due anime affini. » lo guardai notevolmente sorpresa di fronte al nuovo uomo che avevo dinanzi a me. Lui sorrise alla piccola e lei ricambiò. Erano profondamente legati e quel rapporto che si era creato, da un lato mi faceva tenerezza, dall’altro mi faceva provare una sorta di leggera gelosia.
Lo fissai ancora qualche istante e mi accorsi che il mio amore per lui non si era minimamente affievolito, anzi, di fronte a una scena del genere, il sentimento provato si rafforzò ancora di più e con sé anche il dolore tornò a torturarmi.
« Sono lieta di conoscerti piccola Michiko, e sono onorata anche di vedere te, Venerabile Shogun, proprio nel mio paese. Mio padre sarà felice di vederti, se ovviamente avrai tempo di rimanere. » mi rivolsi a loro con gentilezza e sottomissione. Rivolsi un sorriso delicato prima alla piccola, poi a lui.
Lui mi guardò intensamente e poi mostrò un altro sorriso che mi fece smorzare il fiato.
« Credo che resterò più di una semplice visita. » non riuscii a decifrare per bene le sue parole, o forse non volevo. Poi, aggiunse: « Sarò felice di vedere il mio caro amico Michio e sua moglie. Prego, facci pure strada, Minako-san. » chinai appena il capo e poi feci per prendere la legna, ma prima che potessi effettivamente farlo, lui diede ordine a uno dei samurai al suo servizio di prendere il tutto al mio posto. Non osai oppormi al suo volere e d'altronde ero anche contenta di non dover riprendere quel peso. Li condussi, infine, verso la mia casa, dietro gli sguardi sorpresi ed invidiosi dei membri del villaggio.
« Padre, madre, c’è una visita importante per voi. » i miei genitori si trovavano nella cucina: mia madre stava preparando un tè, mio padre era seduto semplicemente vicino a un basso tavolino di legno. Quando notarono la presenza di Azumamaro, della piccola e dei samurai si chinarono profondamente.
Io mi spostai di lato, permettendo agli “ospiti” di passare. Ancora una volta, lo shogun parlò:
« Michio-san, amico mio. Non devi inchinarti a me. Alza il tuo sguardo e mostrami il tuo volto. Abbiamo molto da dirci, molto da confidarci. »
Mio padre alzò lo sguardo e quasi piansi per la commozione nel vederlo con una tale gioia ed orgoglio sul suo viso, come non vedevo da mesi.
La delusione, la tristezza e il dolore erano come sfumati, lasciando il posto a un sorriso tale da illuminargli il viso.
Io rivolsi lo sguardo a mia madre e lei a me. Un sorriso increspò le nostre labbra, mentre guardavamo i due amici ritrovati che si abbracciavano, cosa che non avevo mai visto fare soprattutto dallo Shogun. La piccola Michiko guardò suo padre e sorrise contenta, per poi avvicinarsi a me. Mi sfiorò appena la mano e mi guardò intensamente. Non compresi subito il motivo di un tale atteggiamento nei miei riguardi, ma da quel momento quel leggero senso di gelosia nei suo confronti scomparve, e mi ritrovai incantata da una tale bambina.



* * *



    Dopo l’inverno una nuova primavera arrivò: gli alberi di ciliegio si riempirono di una moltitudine di fiori bianchi e rosa che incantavano i sensi. Tornarono gli uccellini a cinguettare, mentre la bianca neve lasciò di nuovo il posto a uno splendido manto erboso. I bambini tornarono a correre per le strade, le donne a cantare, gli uomini a fare altre attività all’aperto.
Raggiunsi il piccolo bosco vicino alla mia casa, fino al punto dove sin da bambina ero solita andare per le lezioni con l’arco.
Ovviamente lo portavo con me, insieme a un’unica freccia.
Il mio scopo era riuscire a realizzare il tiro perfetto, ci sarei davvero riuscita?
Mi fermai a diversi metri di distanza da un albero e lo osservai con la più completa attenzione. Al centro del busto c’era una piccola crepa, dove la corteccia era stata tolta, lasciando il posto a una superficie più liscia e chiara di legno. Era poco lo spazio. Era difficile riuscirci, ma volevo dimostrare a me stessa di riuscire ad essere realmente un’arciera perfetta, e quello era il punto giusto.
Sfilai l’arco dalla spalla e distanziai i piedi, portando il destro un poco più avanti rispetto al sinistro e distribuendo il peso del mio corpo su entrambi.
Feci un profondo respiro, per poi espirare fuori tutta l’aria e continuai altre volte, al fine di trovare la più perfetta concentrazione. I miei occhi non smettevano di guardare il punto da colpire.
Con la mano sinistra presi l’impugnatura di legno dell’arco e con la destra posizionai la freccia, e la tenni fissa sulla corda.
Alzai l’arco quel che bastava per avere una corretta direzione.
Tesi la corda senza alcuno sforzo. Non dovevo metterci forza, non dovevo metterci ardore. Era come una recita teatrale, un ballo: dovevo seguire i perfetti movimenti e rilassarmi il più possibile. Svuotai la mia testa da ogni pensiero che potesse influenzare il mio tiro: non c’era gioia, non c’era dolore, non c’era ansia, non c’era paura. Nulla.
Entrai il più possibile in comunione con il mio spirito interiore: scrutai dentro di me, fino a trovare quella luce dapprima pallida e via via più intensa, e mi lasciai avvolgere completamente.
Solo a quel punto, scagliai la freccia.
La freccia venne rilasciata come il dischiudersi di un fiore. *
Sentii il suo sibilare, un suono acuto che tuttavia non destava fastidio. Seguii, immobile, la sua traiettoria, il mio spirito che accompagnava la freccia, fino al suo obiettivo: si fermò al centro esatto di quella piccola porzione liscia e chiara di legno.
Non c’era più dolore che potesse fermarmi.
Non mi colpiva più con sferzate violente.
Sorrisi, ritornando infine alla posizione iniziale e abbassando l’arco.
Il tiro perfetto, quello che a lungo avevo tanto cercato di compiere, infine era giunto.
« Mamma, ce l’hai fatta! Sei l’arciera più brava di tutti! » una vocina acuta, ma incredibilmente dolce mi fece tornare alla realtà. Mi voltai e, lasciato l’arco a terra, presi la mia piccola tra le braccia, la strinsi a me, e mi lasciai inondare dai suoi adorabili baci.
« Sì, piccola mia. Ma non ci sarei mai riuscita se non ci fossi tu, e… il tuo splendido papà. »
Un uomo si avvicinò a noi e posò una mano sulla mia spalla, mi rivolse un sorriso che come sempre mi fece sciogliere il cuore ed io sprofondai il capo sul suo petto, mentre la piccola ci sorrideva, felice.
Felice come lo ero io, ora che Michiko ed Azumamaro erano entrati a far parte della mia vita, divenendo mia figlia e mio marito.




________________________________________________
Ecco quindi la conclusione di questa storia.
Sfortunatamente non c'è stata ancora alcuna classifica nel contest, anche se spero che la giudice si faccia viva presto, visto che ho una gran voglia di sapere cosa ne pensa a riguardo.
Spero di aver scaturito in voi delle emozioni, che questa storia vi possa piacere. Da parte mia, mi sono divertita a scriverla, e ci tengo parecchio, giacché i personaggi delineati sono parte di me.

La frase seguita dal simbolo * è stata più o meno ripresa dal sito di tiro con l'arco giapponese di cui parlavo all'inizio della storia.

Per il resto, ringrazio tutti coloro che l'hanno letta, che hanno commentato e che l'hanno inserita tra le...


Ricordate:

1 - Human_  

Seguite:

1 - Ayumi Yoshida  
2 - ELPOTTER 
3 - kalaea 
4 - kuasta 
5 - SuxFrago1212



A presto :)


Ayumi Yoshida: Ti ho già scritto via mail, ma dopo aver visto i tuoi commenti non posso non aggiungere qualcosa anche qui. Come hai detto anche tu, le recensioni delle persone che leggono fanno davvero bene allo scrittore. E tu non sai quanto le tue parole mi abbiano scaldato il cuore. Sono una persona molto sensibile, che si commuove per poco, e ci sei riuscita anche tu. Ti ringrazio di cuore. Mi ha fatto piacere notare le frasi che più ti hanno emozionata, e che hai inserito la storia tra le preferite.
Grazie, grazie e ancora grazie di cuore.
In bocca al lupo anche a te per il contest, sono curiosa di leggere la tua :)







Risultati Contest, Giudicata da Bimba_Chic_Aiko

Correttezza Grammaticale: 9/10

Essenzialmente la grammatica è buona, ma non eccezionale.
Alcuni errori, qua e là, per quanto concerne la punteggiatura e soprattutto l'uso delle virgole.
Altri, poi, si presentano in alcuni periodi che si articolano in maniera complicata e rendono difficile la comprensione al lettore.

Stile e Lessico: 9.5/10
Lo stile è semplice, pulito, sobrio.
Nessuna pomposità che non farebbe altro che rallentare la lettura.
Anzi, lo stile rende ancora più immediata la comprensione, se così vogliamo chiamarla, già molto accentuata dall'uso della prima persona.
Entrambe sono caratteristiche che “immettono” il lettore all'interno del racconto.

Caratterizzazione Personaggi: 9/10
Come avevo detto per la storia di CoryCory, dare un voto alla caratterizzazione dei personaggi non è mai facile. E' sempre molto difficile valutare il carattere dei personaggi che create e quindi devo limitarmi a farlo in base alle mie percezioni.
Devo ammettere che la figura di Minako mi ha affascinata, molto più di quella di chiunque altro.
Forse più che lei stessa, mi ha incantata l'aura di rispetto e reverenza, di orgoglio e dignità che Minako emana tra queste pagine anche nei piccoli gesti e nelle parole.
All'inizio forse è un po' “statica”, nel senso che sembra che si susseguano unicamente i soliti sentimenti: orgoglio, fierezza, coraggio che sono sì i tratti principali del suo carattere, ma che non sono comunque intervallati da nessun'altra emozione.
O meglio, è così fino a quando non se ne rende conto, fino a quando in sogno tutto le è chiaro: non è solo ammirazione, la sua.
Per il suo Shogun lei prova molto di più. Ed ecco che il personaggio di Minako si completa e oltre a quello di una guerriera diventa anche quello di una donna.
E' forse questo che rende davvero innovativa e migliore questa figura.

Originalità: 8.5/10
Come ho già accennato prima, la vera originalità di questa storia sta nella figura di Minako che è sia guerriera forte che donna.
Probabilmente il voto sarebbe stato più alto se Minako avesse accettato fin da subito i suoi sentiementi, senza le remore che le provacano la sua educazione e il suo desiderio di diventare una grande arciera.
Ecco, altro fattore positivo: l'idea di un arciere donna in una massa di soldati uomini. Non una cosa unica, ma all'interno della fic risulta comunque al di fuori dei normali canoni, soprattutto se si paragona questa scelta con quella delle sorelle Geishe.

Attinenza: 9/10
Si inizia a parlare di dolore e di intestino verso la 15esima pagina. Il che va benissimo per una long che, ovviamente, non può incentrarsi unicamente su questo argomento per tutta la durata del racconto, a meno di diventare ripetitiva.
E' stato bello vedere l'uso che hai fatto della barriera, usandola per unire la donna che c'è in Minako al soldato.
E proprio questa barriera crea come un conflitto interiore tra queste due parti, in un'espediente narrativo di grande intensità.

Voto personale: 4/5
Poi: voto personale.
Se c'è una cosa che mi ha profondamente colpita fin dall'inizio è la minuziosità delle descrizioni, la grande capacità e sapienza con cui hai indugiato su minimi particolari che dipingono lo scenario con sapienti tocchi.
Soprattutto mi ha colpita la descrizione delle “pose” assunte da Minako e della sua concentrazione assoluta di fronte al bersaglio.
C'è solo lei, il silenzio e quel manichino: il resto non è che vuoto.
Una cosa assolutamente fantastica che mi ha dato i brividi, tanto era intensa la scena.
Se devo essere sincera, la parte che ho preferito in assoluta è stata l'epilogo, forse perchè è la parte in cui Minako mette a nudo sé stessa e l'immenso mondo interiore che si nasconde dietro i suoi occhi così particolari.
Ed è forse in quest'ultima parte che il titolo assume il suo pieno significato e sembra modellarsi alla perfezione sulla storia.
Inoltre questo fantomatico epilogo è un susseguirsi di emozioni diverse che vanno dall'orgoglio paterno all'amore.
E devo dire che, a dispetto di tutto, sono perfettamente bilanciati.
Peccato solo per gli errori di punteggiatura che hanno rallentato un pochino la lettura, ma brava comunque.
Totale: 49 punti




Il Banner ovviamente sta nel Prologo. :)

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