Night in the night

di Jan Wilde
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo capitolo - Una Cole alla Sweet Company ***
Capitolo 2: *** Secondo capitolo - Miss Godman ***
Capitolo 3: *** Terzo capitolo - Sirio ***



Capitolo 1
*** Primo capitolo - Una Cole alla Sweet Company ***


Night in the Night

 

La bestia si innamorò della ragazza
Senza ritegno, senza sapere cosa fosse l'amore
Lo fece e basta, costringendola ad aprire il suo cuore
E lei, lei si fece sua senza non temer la sua razza.


E in silenzio questo amore andò avanti
Come l'aquila guarda fissa il sole
La ragazza affrontò la bestia e la sua mole
Giocando senza pedine, cavalieri né fanti.

 

Ma la ragazza dette l’anima per quell’amore

Perché in fondo allo sguardo severo

Dietro alla pelle chiara e all’occhio nero

Davvero in silenzio palpitava un cuore.

 

L’amore vissuto fu dai due

Fra speranze, bugie, notti di intenso amore

Non violento non fu, né mancò furore

Ma mai smisero di amarsi quei due.

 

 

La prima cosa che notai fu il colore della sua pelle. Era chiara, quasi sembrava brillare alla luce lunare. Su di essa pareva che si alternassero sfumature argentee e color dell’avorio. Brillava in mezzo alla semioscurità della notte, in quel giardino fatto di cespugli incolti che non vedevano cura da chissà quanto tempo. Era bellissima. I suoi occhi scuri erano esaltati dalla pelle diafana, così come le labbra rosee. La sua espressione era un misto di paura e smarrimento. Sembrava una regina estirpata al proprio regno. La curva dolce del suo collo proseguiva lungo le spalle delicate e per tutto il suo corpo. Sembrava di cristallo, una sensazione di fragilità la circondava come circonda una rosa in pieno inverno. Qualunque uomo avrebbe voluto farla sua, baciare quelle labbra così perfette, seguire i lineamenti del suo viso con una carezza, scendere fino a stringerla con una passione che superava ogni immaginazione. Ma io, in quel momento, volevo solo ucciderla.

Si mosse lentamente, come un cerbiatto impaurito dopo la morte della madre. Io mi sentivo il cacciatore. La osservavo mentre mille immagini si susseguivano nella mia mente. Mai una volta desiderai privarla di quel soffice vestito di seta, mai una volta desiderai assaggiare il sapore delle sue labbra, mai una volta desiderai avere le sue tenerezze. Mi mossi lentamente lungo la parete dell’edifico sotto al quale mi ero acquattato. I miei passi silenziosi mi portavano sempre più vicino a lei, ogni centimetro che facevo sembrava essere una condanna a morte in più per la ragazza. Sfilai silenziosamente lungo una serie di arbusti, mai lei mi sentì, mai lei, quella notte, si accorse completamente della mia presenza. Mi ritrovai a spiarla da un piccolo boschetto di ulivi. Un tempo quel giardino aveva contenuto un fiorente orto: ortaggi e alberi da frutto lo animavano di mille colori insieme ai fiori primaverili. Adesso sembrava che la morte fosse sopraggiunta dovunque. La morte. Il suo sguardo si era posato anche su di lei. Così ignara di ciò che poteva succederle da un momento all’altro. Ero pronto a farlo. I miei muscoli erano tesi nello sforzo di rimanere silenzioso. Non avrebbe provato dolore, non si sarebbe neppure accorta di quel che le stava accadendo. Mi mossi all’interno del mio rifugio, ma qualcosa andò storto. Un volatile notturno si librò nell’oscurità della notte, proprio sopra al mio nascondiglio. E fu lì che lei rivolse il suo sguardo. Lessi qualcosa nei suoi occhi. Non solo terrore, come se fosse consapevole del destino che la aspettava. Insieme al terrore vi lessi la forza di affrontare la propria esistenza. I suoi occhi incrociarono i miei e un brivido, dopo anni di estenuante insensibilità di fronte alla vita, corse lungo la mia schiena. Sembrò non accorgersi del tutto della mia presenza, ma sul suo volto si dipinse un’espressione di profondo sconcerto. Ogni desiderio mortale nei suoi confronti sparì in un istante. Ero incuriosito e affascinato da quella ragazza. Una folata di vento si levò leggera portando alle mie narici il dolce profumo della sua pelle. Mi sentii ingenuo, stupido, come un bambino che si ritrova a desiderare l’impossibile, finendo poi per accorgersi di quanto il suo desiderio fosse irrealizzabile. Non potevo ucciderla, fu questo che pensai in quel momento. Ma dentro di me ero consapevole che quel desiderio che tanto mi aveva attanagliato poco prima sarebbe tornato, improvviso, a torturarmi. Mi odiai per quel che ero. Mi odiai perché non potevo cambiare. Mi odiai perché mai prima di allora non ero riuscito ad assecondare la mia natura.  Lentamente mi ritirai e, silenzioso, ritornai al mio nascondiglio iniziale. La ragazza sembrò tranquillizzarsi e una semiserenità alleggerì la sua espressione. Un’altra folata di vento, scompigliando i suoi capelli scuri, riportò l’aroma della sua pelle verso di me. Lo stomaco mi si contrasse. E il desiderio tornò. In quel momento capii che mai avrei potuto fare a meno di lei, il desiderio di ucciderla era così dolce da deliziarmi, ma contemporaneamente non mi sarei mai voluto privare della sua bellezza. Decisi che l’unica soluzione era andarsene. Qualcosa mi bloccava dal prendermi la sua vita. Ma se volevo cancellare ogni rischio dovevo andarmene. Fuggire da quel desiderio e non tentarlo mai più. Mi allontanai dalla mia tentazione. Mi ripromisi di non tornare a stuzzicarla la notte seguente. Ma sapevo già che  avrei fallito. Ogni volta mi ripromettevo di fuggire da questa tortura, da questa maledetta indecisione. Ogni volta il desiderio di vederla e di impossessarmi della sua essenza mi riportava da lei. Non sapevo a cosa mi avrebbero portato queste sensazioni. Ma finii per abbandonarmi a questa mia nuova droga, senza però mai assaggiarla.

 

 

“Ho sempre pensato che vivere fosse solo un modo come un altro per passare il proprio tempo. L’ho sempre pensato fino a quel giorno, fino a quando, trovandomi di fronte alla scelta più difficile della mia vita, dovetti scegliere la strada più impervia. Da quel momento incominciai realmente a vivere, a soffrire forse, a trovare un ostacolo dietro l’altro, ma a vivere.”

 

Entrare in quella scuola la terrorizzava. Una settimana prima, quando i suoi genitori le avevano dato la notizia, Ginevra si era sentita sprofondare. La sua vita aveva toccato il fondo con quella notizia. Da quell’estate le cose avevano iniziato a precipitare, una discesa che non accennava a finire e la ragazza tremava al pensiero di cosa sarebbe potuto accadere là dentro. Sospirò sistemandosi lo zaino sulla spalla. La Sweet Company, dello stato di New York, la stava aspettando. I suoi genitori l’avevano lasciata all’entrata senza neppure avere il coraggio di salutarla come si deve. Era sempre stata di troppo per loro, ecco perché l’avevano spedita in quel collegio. Ma almeno non avrebbe più dovuto sopportare i loro sguardi accusatori, come se lei fosse la causa di ogni loro problema. Loro che prima del suo arrivo avevano vissuto fra nebbia e locali, fino a quando sua madre non era rimasta incinta. Avevano sempre programmato una vita fatta di viaggi e frivolezze, lei aveva rovinato tutto. Senza contare che la ritenevano pure pazza. Per anni l’avevano portata da un psicologo a causa di ciò che riusciva a vedere.

Neppure ricordava quando aveva visto le ombre per la prima volta. Creature contorte che sembravano fatte di semplice e terrificante oscurità. Ogni volta che apparivano un brivido freddo le correva sotto la pelle, la testa le martellava e si sentiva come se ogni briciolo di felicità venisse divorato da quelle creature. Quell’estate le ombre l’avevano portata vicino alla morte. In campeggio i capo-scout le avevano affidato il compito di andare a raccogliere la legna per il fuoco. La notte era scesa improvvisa, senza che lei se ne accorgesse. Le ombre erano strisciate fuori dal loro nascondiglio, circondandola. Le era sembrato di impazzire. In quel momento, pur di mettere fine a quella sofferenza, aveva desiderato solo morire. C’era andata vicina. Se non fosse stato per Robert Turner il mattino seguente l’avrebbero ritrovata in un burrone. Lui era andato a cercarla, l’aveva trovata e l’aveva portata al sicuro nella sua tenda.

 Ripensando al ragazzo la sua malinconia aumentò. Gli sarebbero mancati i suoi occhi azzurri, la battuta sempre pronta e i capelli color dell’oro.

Sospirò nuovamente, soffermandosi sulla soglia dell’edificio. Era una tipica struttura ottocentesca. Sin da bambino ogni ragazzo, ad ogni malefatta, era stato minacciato dai genitori di essere spedito in quel luogo. La disciplina e la severità di quel luogo erano tristemente famose. C’era chi era impazzito, c’era chi aveva preferito privarsi della vita pur di rimanere un solo giorno in più in quella prigione. “E’ successo molti anni fa…” pensò la ragazza cercando di tranquillizzarsi da sola. Ma non era facile, per niente.

-Ragazzina hai intenzione di rimanere lì impalata a lungo?-

Ginevra sussultò nel sentire quella voce, così aspra che in confronto un limone acerbo non era nulla. Si voltò per vedere chi le avesse parlato e ciò che si trovò davanti fu nn ometto tutto secco e rugoso, vestito di tutto punto, con pantaloni scuri, giacca, cravatta e tanto di foulard blu scuro. Sembrava uscito da un romanzo dell’ottocento. Anzi a dirla tutta sembrava uno di quei personaggi che un autore creava e poi scartava per quanto era venuto male. La ragazza lo osservò ancora, prendendosi qualche secondo in più per ripensare per l’ennesima volta a una possibile fuga. Ma non poteva.

 Si sentiva in trappola, sull’orlo di una crisi di nervi. Ripensò a come aveva litigato con sua madre, l’unica più comprensiva fra i due genitori. La donna aveva sostenuto che quel collegio le avrebbe fatto bene, che sarebbe entrata in quel posto come una ragazza uscendone come una donna. Parlava lei. Tutto era fuor che una donna. “Questa è la mia vita! Tieniteli tu i tuoi consigli, se ho bisogno te lo dico! Sono io che guido, io che vado fuori strada, sempre io che pago! Pago un vostro stupido errore! Mi avete consegnato ad una vita orribile!” le aveva urlato prima di uscire a grandi falcate di casa per andarsene da suo nonno. Questo era l’unico parente che in diciassette anni di vita le aveva voluto realmente bene. Lui le aveva detto che doveva essere forte, che sarebbe uscita da quella situazione, che presto avrebbe potuto vivere la sua vita come una persona normale.

-Si, scusi.- Disse all’uomo mentre si avviava verso la segreteria. Doveva ritirare la chiave della sua stanza e prendere l’orario delle lezioni. Queste sarebbero iniziate quella mattina stessa, senza neppure dare ai ragazzi il tempo di ambientarsi. “Ma cosa mi aspetto, sono in un carcere”. Pensò tristemente.

La segreteria si trovava lungo il corridoio Ovest, la prima stanza a sinistra. Ginevra trovò al suo interno altre tre persone, un ragazzo dai capelli unticci e l’aria apatica, una ragazza dai capelli rosso fuoco, con due occhi verdi estremamente svegli, e un giovane che sembrava preso dal terrore al solo pensiero di passare un intero anno in quella scuola. A Ginevra venne da sorridere. La confortava il fatto che non fosse l’unica a desiderare di trovarsi in un altro posto.

La segretaria era una donna grassoccia, il cui mento sembrava non avere mai fine. Portava due occhiali spessi sugli occhi porcini e i vestiti scuri, troppo stretti, sembravano stare per esplodere da un momento all’altro. –Su, su, svelti!- Sbraitò la donna chiamandoli uno ad uno. Quando fu il suo turno, consegnò a Ginevra l’orario delle lezioni, una mappa della scuola e la chiave della sua stanza, la numero diciannove.

-Ei, ciao, piacere, Serena, Serena Stonebiss- Si presentò la ragazza dai capelli rossi, una volta che furono usciti dalla stanza. –E’ il primo anno anche per te? Quattro ragazzi nuovi che non siano del primo, è quasi un record da quel che ho sentito.-

-Oh…- fece Ginevra rimanendo spiazzata,-Piacere mio, Ginevra Cole… Record?- Chiese guardandola stupita.

-Si, di solito i nuovi iscritti non superano una persona. Sono in pochi i genitori abbastanza pazzi da mandare i propri figli qua dentro… tra questi c’è mio padre purtroppo…

“Parla tanto”. Pensò Ginevra sorridendo fra se e se. – Pensi che davvero sia così terribile questo posto?- Chiese alla sua nuova conoscenza.

-Mmmh… a giudicare dal custode rugoso e dalla balena cicciona… si direi di si-. Rispose Serena con una mezza risata. –Che stanza hai?- chiese poi guardando la chiave che aveva in mano.

-La diciannove… dovrebbe dare con la finestra sul cortile interno più piccolo-. Disse osservando la mappa che la segretaria le aveva dato insieme agli orari. “Molto meglio che avere la stanza davanti al cimitero…” pensò studiando la mappa. Questo si trovava sul lato nord della scuola, occupando una parte del più grande cortile interno. Ma cosa ci faceva un cimitero in una scuola?

-Oh, quell’ala della scuola è in disuso ormai da anni-. La infornò Serena, che aveva seguito il suo sguardo. –Mio padre mi ha detto che da quasi quarant’anni tutta l’ala Nord della scuola non viene utilizzata. Gli iscritti sono andati diminuendo di anno in anno e col tempo si sono resi sufficienti i tre piani dell’ala sud. Ci saranno si e no novanta studenti. Comunque, Io ho la ventuno, siamo vicine!

Ginevra sorrise sovrappensiero. Novanta iscritti erano pochissimi. Continuò ad osservare la propria cartina. La scuola era divisa in due sezioni da un grande cortile interno: la sud e la nord. Entrambe erano costituite da tre piani e sulla sua cartina era riportata solo quella ancora in uso. Il primo piano contava quasi quarantacinque dormitori, ospitava la grande biblioteca, la segreteria, i bagni pubblici e un piccolo cortile interno. Le aule delle lezioni erano quasi esclusivamente al secondo piano, dove erano presenti un’altra ventina di stanze per gli studenti; al terzo piano invece si trovava la mensa e il resto dei dormitori.

-Già…- Disse con un sorriso, tornando alla realtà. Si chiese cosa ci fosse nella parte inutilizzata della scuola, ma qualcosa dentro di lei le disse che sarebbe stato meglio non scoprirlo.

-Tra mezz’ora c’è la prima lezione, biologia, sarà meglio sbrigarsi-. Affermò poi Serena guardando l’orologio. Ginevra annuì e insieme si avviarono verso le proprie stanze.

-Troviamoci qui fra dieci minuti…- le disse una volta che furono arrivate davanti alla diciannove. Le annuì e dopo che la nuova amica fu sparita dietro l’angolo del corridoio entrò in quella che sarebbe stata la sua stanza per i prossimi due anni. Rimase allibita nello scoprire che non era poi tanto male. Le pareti erano di un intenso blu elettrico, la scrivania era posta sotto la finestra che dava sul cortiletto interno, sulla parete di sinistra un piccolo armadio color mogano avrebbe ospitato i suoi vestiti e affianco alla parete di destra un letto col materasso spoglio aspettava di essere avvolto da soffici coperte. Avrebbe voluto soffermarsi a dare un’identità a quella stanza, ma arrivare tardi alla sua prima lezione non sarebbe stato proprio il massimo. Posò la borsa con la propria roba sul letto, andò nel piccolo bagno per sciacquarsi il viso e si cambiò di abiti, mettendosi la divisa scolastica, composta da una gonna blu scuro, una camicetta a righe verticali bianca e blu, calze del medesimo colore della gonna e cravatta.  Dopo di che uscì dalla stanza giusto in tempo per vedere Serena che spuntava da dietro un angolo e si dirigeva verso di lei.

 

L’aula di biologia era sovraffollata da barattoli in cui esseri contorti levitavano in un liquido viscido e giallastro. I banchi erano suddivisi a due a due, in quattro file da cinque gruppi. Ginevra e Serena si sedettero nella terza, vicino ad uno dei grandi finestroni che dava sul cortile e sul cimitero.

-Bella vista.- Commentò ironicamente Serena.

Ginevra si perse ad osservare il cortile: era enorme, così tanto che non riusciva a vederne la fine. Sembrava un parco più che un semplice giardino e si chiese come facessero un tempo gli alunni a passare velocemente dall’ala Nord all’ala Sud.

Gli studenti fluirono nella classe a gruppi di due o tre. Fra di essi Ginevra riconobbe anche il ragazzo dall’aria apatica. Si sedette nella fila dietro di lei e prese subito a scarabocchiare su un foglio bianco. I suoi occhi grigi non si alzarono dal banco neppure quando il professore entrò in classe, ma quest’ultimo non sembrò neppure accorgersene.

-Bene-. Esordì l’uomo osservando gli studenti con due occhi grandi, di un marrone apatico,-Non starò a fare tante cerimonie, tre di voi sono nuovi, adattatevi alle mie lezioni o sarete bocciati. Non mi interessa delle difficoltà che troverete, affari vostri, badate solo a tenere il passo. Se i cinquemila dollari annui che i vostri genitori spendono per tenervi qua saranno sprecati, sarà solo colpa vostra, non di certo mia.

“Si inizia bene”, pensò Ginevra guardandolo perplessa. “Non che bocciare sia troppo un problema per i miei… si venderebbero l’anima pur di avermi fuori dai piedi…”

Il professore continuò a parlare per un’altra mezz’ora poi, improvvisamente, consegnò loro un test d’ingresso. La ragazza conosceva a malapena la metà delle risposte. Certi termini non li aveva neppure mai sentiti nominare.  Il tempo sembrava non scorrere mai, l’orologio batteva i secondi in modo lento e snervante mentre il foglio della ragazza rimaneva in bianco. Quando le due ore furono passate la situazione non era migliorata per nulla.

-Terribile, non trovi? Quell’uomo è odioso!- Esclamò Serena dopo che furono uscite dalla classe. La rossa aveva sbuffato spesso durante il compito, segno che anche lei doveva averlo trovato ostico.

-Era solo il primo giorno, magari migliora…- provò a dire Ginevra, senza neppure credere nelle proprie parole. Serena sbuffò alzando gli occhi al cielo. –Certo… speriamo solo che quello di storia della letteratura non sia peggio!

L’aula di letteratura si trovava a circa quaranta metri da quella di biologia. Quando entrarono Ginevra si sentì spaesata. Libri su libri erano ammassati dovunque, i banchi non erano predisposti come nell’aula precedente, ma a semicerchio intorno alla cattedra. Alla lavagna era segnato un nome, Tomas Melton, evidentemente scritto dall’insegnante che si teneva, pronto ad accoglierli, in piedi vicino alla porta. Nonostante i capelli brizzolati e le rughe che apparivano sotto i suoi occhi, l’uomo aveva un’aria giovanile. Era vestito in modo semplice con un paio di jeans e una camicia a scacchi sbottonata, sotto la quale appariva una maglietta bianca. Gli occhi erano di un azzurro intenso e emanavano un senso di cordialità e serenità. Ginevra lo salutò con un sorriso, chiedendosi se ci fosse la seppur remota possibilità che in quella scuola esistesse un professore con un minimo di umanità.

Si andò a sedere vicino alla finestra, seguita da Serena. Avere un esterno da osservare la faceva sentire meno prigioniera di quello che in realtà era.

Fu allora che lo vide per la prima volta. Si chiese come avesse fatto a non vederlo a biologia, si chiese come una persona del genere potesse passare inosservata agli occhi di qualcuno. La sua pelle era lievemente abbronzata, il suo viso, incorniciato da dei capelli castani, simili alla seta, era leggermente schiacciato, il naso perfetto portava lo sguardo dell’osservatore sulla morbida linea delle labbra, gli occhi verdi erano così profondi che Ginevra ebbe la sensazione di sprofondarci dentro.

-Ei! Non lo consumare!- le sussurrò Serena con una mezza risata. Il ragazzo sembrò accorgersi del suo sguardo e la osservò a sua volta.  Il cuore della giovane perse un colpo.  Lui le sorrise mestamente e poi tornò a concentrarsi sul professore che aveva appena iniziato a parlare.

-Buon giorno, ragazzi-.

Disse quest’ultimo dopo che l’ultimo studente si fu seduto. -Sono il professor Melton, il vecchio insegnante, il Signor Cullen è andato finalmente in pensione e io ho ottenuto la cattedra. Spero solo di non risultarvi palloso come era solito fare lui-. disse con una mezza risata seguita a ruota da quella degli studenti. –So di andare contro la tradizione di questa scuola ma sono convinto che uno studente vada coinvolto e non spaventato a morte.-

Si avvicinò alla cattedra per sedersi su di essa. Prese in mano il manuale di letteratura, “Roddy Rogers, volume 1”, recitava il titolo.

-Vedete questo?- chiese ai ragazzi indicando il libro. Potete anche gettarlo nel fuoco. Pieno di inutili e noiosissimi saggi critici. La letteratura va vissuta, bisogna capire che ha un’anima, non basta imparare a memoria ciò che dice qualcun altro per affermare di fare letteratura! Cosa che ormai in pochi capiscono!

-Penso mi piacerà quest’uomo…- bisbiglio Serena all’orecchio di Ginevra. La ragazza annuì. Piaceva anche a lei. Mai si sarebbe aspettata di trovare un insegnante così in quella scuola. Ma la sua attenzione era ancora attirata dal ragazzo seduto all’altro lato della stanza. Si voltò ancora una volta ad osservarlo, finche il signor Melton non tornò a parlare, costringendola a seguire ciò che stava dicendo.

-Per iniziare-, disse sfogliando le prime pagine del manuale,- strappate tutto il capitolo introduttivo. Ciò che serve sapere verrà fuori discutendo i testi.

E così dicendo strappò le prime sette pagine, le accartocciò e le buttò nel cestino. I ragazzi lo osservarono sconcertati. Immobili, finchè non si sentì risuonare uno strappo nella stanza. Il ragazzo che Ginevra aveva fissato sino a quel momento si alzò accartocciando le proprie pagine e le gettò nel cestino.

-Ottimo lavoro, Signor?-

-Parker, Jaren Parker, professore.- Rispose il ragazzo con un sorriso accattivante mentre tornava al suo posto. Il professore annuì compiaciuto. Dopo quell’episodio la classe si riempì di strappi e di fogli che si accartocciavano. Ginevra strappò le pagine dal proprio libro, confusa dalla presenza del ragazzo nella stanza e da quello strano metodo messo in atto dall’insegnante.

-Bene! Benissimo direi! Ora si che possiamo iniziare! Pagina otto, William Wordsworth. Trovo che “I narcisi” sia una delle poesie più belle che siano mai state scritte, almeno se non ci limitiamo a leggerla superficialmente. Signor Parker, premiando il suo spirito di iniziativa la invito a leggere la poesia.

Jaren annuì col medesimo sorriso e, senza neppure alzarsi iniziò a leggere. La sua voce suonò calda e avvolgente nel silenzio che improvvisamente era calato dentro l’aula.

 

Ho vagato solitario come una nuvola
Che galleggia in alto sovra valli e colline,
Quando a un tratto vidi una folla,
Una moltitudine, di narcisi dorati;
Accanto al lago, sotto gli alberi,
Svolazzando e danzando nella brezza.

Continui come le stelle che brillano
E scintillano sulla via lattea,
Si stendevano in una linea senza fine
Lungo il margine della baia:
Diecimila ho visto a colpo d'occhio,
Scuotendo le loro teste in un vivace ballo.

Le onde accanto a loro danzavano, ma essi
Fuori le scintillanti onde in allegria
Un poeta non poteva che essere gay,
In una tale società giocondo
Guardavo - e guardavo - ma poco pensiero
Che ricchezza lo spettacolo mi aveva portato:

Per spesso, quando sul mio divano mi sdraio
In vacanti o di umore pensieroso,
Essi balenano su quell'occhio interiore
Che è la beatitudine della solitudine;
E poi il mio cuore si riempie di piacere,
E balla con i narcisi.

 

Quando Jaren smise di leggere un leggero silenzio rimase nell’aria per qualche secondo. Ginevra si era ritrovata con gli occhi umidi. Non capiva il perché. Quella voce così profonda, unita a quelle parole avevano avvolto la sua anima di una soffice dolcezza. Osservò Jaren che aveva ancora lo sguardo fisso sulla poesia. Si chiese come fosse possibile che qualcuno riuscisse a coinvolgerla così tanto con il semplice suono della sua voce. Jaren sembrò avvertire nuovamente il suo sguardo e si voltò per sorriderle ancora.

-Bene. Bella interpretazione Parker-. Esclamò il professore Melton interrompendo quel silenzio. –Qualcuno adesso saprebbe dirmi cosa voleva dire il nostro Wordsworth con queste parole?

-Che si portava a letto gli uomini?- sghignazzò un ragazzo seduto a pochi posti da Jaren. Delle deboli risate seguirono alla sua battuta. Il professore si avvicinò studiandolo con uno sguardo ironico.

-Signor?- chiese serio.

 –Stones-. Affermò il ragazzo con aria di sfida. Il professore sorrise divertito. –Se ha dei dubbi sulla propria identità sessuale, Signor Stones, non se la rifaccia col nostro povero Wordsworth.

La classe scoppiò a ridere e il ragazzo sembrò sprofondare dietro il proprio banco.

-Qualcuno ha un’idea diversa?

Ginevra alzò timidamente la mano. aveva già studiato quell’autore nella sua vecchia scuola e, anche se non era certa della sua idea, provò a rispondere. Non aveva mai preso l’iniziativa ad una discussione in classe. Erano sempre stati i professori a porle delle domande per farle spiccicare almeno qualche parola. Ma adesso era diverso. Jaren era lì e lei non poteva passare da ragazza anonima.

-Sono Ginevra Cole, signore. – Disse la ragazza anticipando la domanda del professore che annuì con un sorriso di incoraggiamento dipinto sul volto. E Ginevra si fece coraggio.

-Bè, credo che il tema della poesia 'narcisi' sia una raccolta di emozioni umane ispirate dalla natura che possiamo avere trascurato a causa della nostra vita attiva. The daffodils imply rebirth, a new beginning for human beings, blessed with the grace of nature. I narcisi forse implicano rinascita, un nuovo inizio per gli esseri umani.

Il professore annuì soddisfatto. -Ottima interpretazione signorina Cole!

Ginevra sorrise compiaciuta e questa volta non fu lei a farsi scoprire a guardare Jaren. Infatti fu l’attenzione del ragazzo ad essere attirata. Ma non le sorrise come nelle altre due occasioni. La osservò come se lei gli apparisse in quel momento sotto una nuova luce. Il suo sguardo era dubbioso e interrogativo, poi una sfumatura di comprensione apparve sul suo volto.

“Ma che diamine… che ho detto di strano”, si chiese Ginevra distogliendo lo sguardo. Aveva solo risposto ad una domanda e non si spiegava quella reazione da parte del giovane. Provò a guardarlo nuovamente ma ormai l’attenzione di lui era nuovamente rivolta verso l’insegnante. Non si voltò più verso di lei e per tutta la lezione la giovane cercò di trovare il perché di quell’atteggiamento. Alla fine delle due ore Jaren uscì dall’aula senza degnarla di una minima attenzione. Ma Ginevra non ebbe il tempo di rimanere a pensare al ragazzo per un secondo di più. Serena la tirò per il braccio e con un sorriso la obbligò a seguirla lungo le scale che portavano al piano di sopra. Ginevra si lasciò trascinare, sperando di vedere il ragazzo a pranzo, ma non fu così.

 

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Capitolo 2
*** Secondo capitolo - Miss Godman ***


Non lo vide per tutto il resto del pranzo e della lezione che seguì. La speranza di intravedere la sua figura, dietro ad ogni angolo della scuola stava divenendo quasi un’ossessione. Sospirò quando, entrando all’ultima lezione della giornata, scoprì che probabilmente non l’avrebbe visto neppure in quell’occasione.

-Smettila di struggerti! Non si scappa da qui ed è solo il primo giorno, lo rivedrai.

Le disse Serena come se le avesse letto nel pensiero.

–Rivedere chi?- chiese lei con finta indifferenza. La nuova amica sospirò alzando gli occhi al cielo e si andò a sedere in uno dei banchi in fondo all’aula. Ginevra la seguì e cercò di non pensare a Jaren.

Girava voce che la professoressa di fisica fosse la più tosta dell’istituto, cosa che le sembrava assurda dopo aver partecipato alla lezione di storia della filosofia: insostenibile. L’untuoso Signor Tompson si era rivelato un individuo insopportabile, crudele e sempre pronto ad assegnare punizioni su punizioni.

Quando la professoressa di fisica entrò la ragazza rimase senza fiato. Era una donna bellissima. Pelle leggermente abbronzata, labbra così perfette da essere oggetto del desiderio di ogni uomo, due occhi di un dolce color nocciola e capelli castano chiaro che le scendevano, sciolti, sino alla vita. Sembrava un angelo. E a rendere quella visone ancora più paradisiaca fu Jaren che, con un sorriso accattivante, entrò nell’aula scusandosi per il ritardo. Le sue guancie si erano fatte più rosee e i suoi capelli sembravano scompigliati dal vento. La signorina Godman, così si chiamava l’insegnante, non lo degnò neppure di uno sguardo e Jaren, senza troppe cerimonie, andò a sedersi nell’unico banco rimasto libero: accanto a Ginevra.

La giovane si ritrovò a trattenere il respiro per l’agitazione. Serena quasi scoppiò a ridere nel vedere la faccia della sua nuova compagna: questa passava dal pallore assoluto a un rosso intenso che le tingeva dolcemente il volto imbarazzato.

-Respira o ci rimani.- le disse con una mezza risata.

-Non sei d’aiuto-. Rispose lei acidamente.

-Chi ha detto che voglio essere d’aiuto?

Ginevra sbuffò; prese un quaderno e iniziò a scarabocchiare facendo finta di prendere appunti. Almeno non avrebbe corso il rischio di incrociare lo sguardo di Jaren, ma per sua sfortuna la spiegazione della Signorina Godman non era ancora iniziata e non era ancora tempo di prendere appunti, il suo gesto passò come un puro menefreghismo nei confronti della Godman.

-Ancora non ho iniziato e già si fa gli affari sua, signorina Cole?

Ginevra, terrorizzata, alzò lo sguardo verso l’insegnante che, con passi leggeri e silenziosi, si era avvicinata al suo banco.

-No è che…- balbettò cercando una scusa plausibile. Lanciò un’occhiata a Serena, in cerca di aiuto, ma la ragazza aveva lo sguardo fisso sul proprio libro di fisica.

-Punizione, Signorina Cole. Stasera, alle otto, nel mio ufficio. Non ammetto ritardi.

Ginevra annuì, senza trovare il coraggio di dire nulla. Era così ingiusto.

L’insegnante, dopo averla umiliata davanti a tutti come solo un diavolo di donna poteva fare, tornò alla cattedrà.

-Auguri-. Le disse Jaren con un sorriso da perdere il fiato, dopo che la Godman ebbe iniziato a spiegare. Lei lo guardò interrogativa.

-Ti sei appena guadagnata un viaggio di sola andata per l’inferno-. Spiegò lui con sarcasmo. Sembrava che la cosa lo divertisse molto e ciò servì solo a far aumentare la frustrazione della ragazza.

-Ti diverti?- le chiese aprendo di scatto il libro di fisica, quasi come valvola di sfogo.

 –Moltissimo-. Sentenziò lui con l’ennesimo sorriso.

-Signorina Cole-, li interruppe la Godman con la sua voce bellissima,- Vogliamo estendere la punizione a tutta la settimana?- Chiese in tono acido. Ginevra alzò gli occhi al cielo e fece per protestare ma la donna la interruppe subito.

-Bene, dato che ha anche il coraggio di contestarmi facciamo che, per le prossime due settimane, tutte le sere, alle otto, la voglio nel mio ufficio. E con questo la questione è chiusa. Almeno che lei non voglia passare l’intero semestre in punizione.

“Non è giusto!” pensò la ragazza mentre la frustrazione aumentava a dismisura, ma non osò controbattere e rimase con lo sguardo perso nel vuoto davanti a se, trattenendo a stento le lacrime per l’umiliazione e la rabbia.

Jaren, dal canto suo sembrava spassarsela. Improvvisamente le apparve così infimo e odioso che avrebbe voluto presentargli con forza il palmo aperto della sua mano.

La lezione proseguì senza altre interruzioni. Di tanto in tanto qualche studente azzardava uno sguardo verso Ginevra, facendo aumentare ancora di più l’umiliazione che provava. La rabbia la avvolgeva come una coperta di spine, dolorosa e tagliente, come un fuoco che la divorava gridando vendetta.

-Sei soddisfatto!?- Sbottò quando la lezione fu finita. Jaren lasciò andare la risata che aveva trattenuto per tutta la lezione e il suono magnifico e così terribilmente musicale della sua voce attirò molti sguardi. La osservò con un’espressione divertita dipinta sul volto. –Su via! Qualche ora di punizione! Cosa vuoi che sia?

-Va al diavolo! Sei… sei…

- Ginevra, calmati…- intervenne Serena prendendola dolcemente per un braccio. Li stavano guardando tutti e Ginevra si sentì sprofondare ancora di più per l’umiliazione.

-Certo tanto è toccato a me!- scattò lei arraffando con le cose che aveva sul banco, rinfilandole di fretta e furia dentro la borsa.

Senza degnare di un altro sguardo Jaren si diresse verso l’uscita dell’aula, con le lacrime che a tutti i costi volevano rigarle il viso.

-Potevi evitare, Jaren-. Sentenziò Serena, prima di seguire l’amica fuori dalla classe.  Il ragazzo scoppiò nell’ennesima risata che risuonò per tutto il corridoio, fino a che le due ragazze non svoltarono l’angolo, pronte a scendere le scale verso i loro dormitori.

 

 

 

Il cuore le batteva a mille mentre studiava la porta di noce dell’ufficio della Godman. Era stata costretta a saltare la cena per arrivare in tempo all’appuntamento e così sarebbe stato per le prossime due settimane. Dopo l’ennesimo sospiro trovò finalmente il coraggio di bussare.

-Entra…- Le disse una voce melodiosa da dietro la porta. La ragazza, timorosa, ruotò la maniglia, immaginando di trovarsi di fronte l’insegnate pronta a torturarla in ogni modo possibile, con un aria di pura cattiveria stampata sul volto.

 Rimase stupita invece, quando la trovò adagiata su un lungo divano color lilla, avvolta da un bellissimo kimono di seta argentea. Gli occhiali le ricadevano leggermente sul naso fine sul quale, alla luce di numerose candele, risaltavano delle efelidi appena sbiadite.

Ginevra si guardò intorno imbarazzata: quello studio sembrava non aver nulla a che fare con l’aspetto rigido della scuola. Le pareti erano di un soffice color pesca, addobbate con quadri colorati in cui spiccavano fiori e tramonti di ogni genere. Un armadio di noce prendeva metà della parete di destra e un’anta aperta lasciava intravedere dei bellissimi abiti da sera. Le tende ricadevano lungo i vetri di un’ampia finestra, con pizzi colorati di azzurro, sino al pavimento, il quale era coperto da un morbido tappeto dove erano dipinti arabeschi di mille colori. Sulle varie mensole, eleganti porcellane mostravano il buon gusto della donna che in quel momento la stava osservando.

-Siedi.

Le disse indicando una sedia posta sotto l’ampia finestra, alla sinistra del divano. Ginevra obbedì senza neppure alzare lo sguardo, notando però che quello era sembrato più un invito che un ordine. La Godman rimase a guardarla ancora per qualche minuto, in silenzio. La ragazza avvertiva il suo sguardo indagatore che la studiava, come se fosse stata un interessante esperimento di fisica.

-Avevo sentito parlare bene di te…- Continuò con la sua voce calda dandole del tu, quasi in tono confidenziale, a differenza di come aveva fatto nel pomeriggio.

Quella donna aveva sentito parlare di lei? da chi? Quando? Alzò per la prima volta lo sguardo, incuriosita e intimorita allo stesso tempo, senza sapere cosa aspettarsi.

- E pensare che… no, niente, non importa-. Disse estraniandosi dalla realtà, con lo sguardo perso nel vuoto che però un attimo dopo era nuovamente rivolto verso di lei.

 Si passò una mano nei capelli castani, spostandosi una ciocca dietro un orecchio. Un atto semplice, ma che in lei sembrava sfiorare la perfezione. Quasi si ritrovò ad invidiarla per la sua bellezza e la sua eleganza. Quasi, fino a quando non si ricordò di come l’aveva umiliata quella mattina.

-Così imparerai a non mancarmi di rispetto…- Le disse, come se le avesse letto nel pensiero. Ginevra si chiese sbalordita se la sua espressione avesse reso espliciti i suoi pensieri o se semplicemente la donna li avesse indovinati.

-Oh, sei come un libro aperto…

Rimase a bocca aperta. La guardò ancora più stupita, domandandosi come diamine avesse fatto. La Godman si alzò avvicinandosi alla scrivania. La vestaglia le ricadeva perfettamente lungo il corpo sinuoso, i passi leggeri sembravano toccare a malapena il pavimento, silenziosi, come il suo respiro. Le mani ben affusolate si mossero, delicate, tra i fogli posti sulla scrivania. Ne prese uno e si avvicinò alla ragazza.

-In realtà non ho molto tempo per la tua punizione, stasera… sei un impiccio, non credere che sia un fastidio solo per te.

-Allora mi lasci in pace!- Lo disse senza neanche accorgersene.

La donna la guardò con sguardo severo mentre le sue labbra si riducevano ad una linea sottile e autoritaria. Ginevra si pentì immediatamente di quella uscita. Sembrava che non riuscisse a stare fuori dai guai in presenza di quella donna.

-Fidati ragazza, se non me lo imponessero i piani alti, farei volentieri a meno di averti tra i piedi.

Piani alti? Davvero voleva darle a d’intendere che le aveva assegnato quella punizione solo perché così volevano le regole della scuola? Per una cosa così da poco? No, non era di certo così. Doveva capire per quale oscuro motivo ce l’avesse con lei. Che fosse semplicemente una vittima casuale di una qualche frustrazione privata? Sempre che una donna del genere avesse almeno un  motivo per essere frustrata.

-Ma così non è…- Continuò in tutta tranquillità, porgendole un foglio. Su di esso vi erano riportate solamente poche righe che la lasciarono nuovamente a bocca aperta. Un tema di dieci pagine sulla termodinamica, con ricerca allegata.

-Ma è un tema di dieci pagine! Per domani! Non ce la farò mai! Dovrò passarci tutta la notte!- protestò, sapendo già che avrebbe perso in partenza..

-Sono quel che ti meriti per la tua arroganza…- Rispose Miss Cole in tono acido, -Imparerai a portar rispetto a chi di dovere. E ora ho di meglio da fare che stare a discutere con una viziatella come te, su, su, vattene…

Si morse le labbra per non peggiorare la situazione. Non solo era tutto il giorno che la umiliava, ma l’aveva anche definita viziata: lei che dai genitori non aveva avuto null’altro che la vita, un tetto sotto il quale stare e lo stretto indispensabile per vivere. Annuì alzandosi dalla sedia e si avviò verso la porta.

-Aspetta un attimo…- Ginevra si arrestò col cuore che tornava a battere a mille. Che altro voleva ancora?

-Consegnamelo dopo domani…- Alla ragazza sembrò di scorgere una venatura di dolcezza sul volto della donna. Ma non fece in tempo a capire se fosse stato solo il frutto della sua immaginazione che il volto della Godman tornò subito severo.

–Ma ti voglio comunque domani sera, qui. E non la passerai liscia come questa volta.

Ginevra annuì: se quella era passarla liscia che le avrebbe fatto per punirla seriamente? Uscì dalla stanza, trattenendo a stento la frustrazione che però esplose quando si scontrò contro un ragazzo.

-Ma che diavolo fai!?!?

Non fece in tempo ad alzare lo sguardo per vedere chi fosse che Jaren gli porse i fogli che le erano caduti. Un sorriso dolcissimo la abbagliò frantumando in mille pezzi ogni rancore.

-Come è andata?- Le chiese mantenendo quel sorriso.

-E’ andata…

-Terrificante?

-Meno del previsto… anche se…- Indicò i fogli che le aveva appena restituito. Jaren li riprese e lesse velocemente.

-Si, ti è andata bene-. Sentenziò restituendole nuovamente il tutto.

-Quanto meno mi dovresti dare una mano. Se sono finita in punizione è soprattutto per colpa tua-.  Jaren rise di gusto, quella stessa risata che quella mattina aveva riempito i corridoi. Ginevra sentì un brivido correrle lungo la schiena. Alzò lo sguardo incrociando i suoi occhi verdi e la mente le si annebbiò, ogni parola perse senso e il mondo sembrò girare al contrario. Si sentì un’idiota per ciò che aveva detto e, ripensandoci, le sembrò quasi che la sua voce fosse suonata supplichevole.

- Mi spiace, è per domani e io stanotte ho da fare-. le disse, senza cercare di celare la sua ironia. Ma che diamine poteva avere da fare un ragazzo così, di notte, in una scuola come quella? Poi la risposta sembrò talmente ovvia.

-Oh già, ne cambi una ogni sera?- Le chiese sfrontatamente.

-Ogni sera? La cambio ogni mezza giornata-. Le rispose con uno sguardo malizioso negli occhi. Ginevra alzò gli occhi al cielo, sbuffando. Si avviò per le scale senza aggiungere altro.

-E’ dura perdere la testa per qualcuno che non ti ricambia, vero?- le fu accanto senza che Ginevra se ne accorgesse neppure. Sembrava camminare nello stesso modo silenzioso ed elegante della Godman.

-Sei un cretino-. Sentenziò lei senza troppe cerimonie. Jaren la superò, sbarrandole la strada, col medesimo sorriso dipinto sul volto.

-Sei odioso, sai?

-Strano, non sono in tante a crederlo, e pensavo neppure tu.

-Oh, così sicuro di te… buffone-. Jaren scoppiò nuovamente a ridere e le tese la mano per aiutarla a scendere le ultime scale della rampa che nel frattempo avevano sceso. Ginevra lo superò senza degnare di uno sguardo la sua mano.

-Senti… non posso… sono… molto stanco, ti aiuterei ma…

-Trova un’altra scusa. È per domani l’altro, troverò un modo per farlo.

Mentre scendevano la seconda rampa di scale che portava al pian terreno fu Jaren a sospirare. Si riavviò i capelli spettinati e per la prima volta, sotto la luce di una lanterna, Ginevra scorse i segni di una sottile stanchezza dipinti sul volto del ragazzo. Due occhiaie violacee gli circondavano gli occhi, era più pallido di come lo aveva visto durante la giornata, come se quest’ultima lo avesse provato più del normale.  Attraversarono il corridoio del primo piano immersi nel silenzio. Jaren non aveva aggiunto altro e si era limitato a seguirla, silenzioso come un’ombra. Sembrava immerso nei propri pensieri sino ad essersi completamente estraniato dal mondo che lo circondava. Si stava torturando il labbro inferiore con fare pensieroso, gli occhi verdi vagavano distratti da un angolo all’altro del loro percorso. Non indossava la divisa, a differenza di Ginevra. Un leggero pullover marrone gli aderiva perfettamente al corpo snello, così come facevano i jeans neri con le cosce. Le sue converse sbiadite sembravano muoversi su un silenzioso tappeto di piume.

Quando arrivarono alla porta della sua stanza, Ginevra si fermò, iniziando a giocherellare con la chiave che aveva in tasca.

-E’ la tua stanza-, le disse lui distratto, osservando il numero diciannove inciso sulla porta.

-Non ti ci mettere ora a fare quel tema… domani sarà ancora più dura di oggi ma troverai il tempo. Io devo proprio andare, scusami.

E senza aggiungere altro svoltò l’angolo del corridoio, sparendo dalla vista della ragazza. Certo che era strano. Cosa ci faceva proprio lì, davanti alla porta dell’ufficio della Signorina Godman? Come mai l’aveva accompagnata sino alla sua stanza. Scosse istintivamente la testa decidendo che, almeno per il momento, era meglio non porsi troppe domande futili.

Guardò l’orologio che portava al polso. Erano le undici di sera, la sua punizione e la sua passeggiata in compagnia di Jaren, lungo i corridoi della scuola, erano durate più di quanto si fosse aspettata e la stanchezza la stava lentamente assalendo. Aprì la porta della sua stanze e rimase per qualche secondo ad osservarla. Non vi aveva dato ancora un minimo di arredamento, eccezion fatta per le soffici coperte bianche che ricoprivano il letto. Si ritrovò a scoprire che quel morbido rettangolo, in quel momento, era l’unico desiderio presente nei suoi pensieri. Si spogliò della divisa, lasciò ricadere i capelli, che fino a quel momento erano stati raccolti in una coda, in una cascata di ciuffi neri che, provocandole un leggero brivido di piacere lungo la schiena, le accarezzarono le spalle.

Avviò l’acqua della doccia si fece ben presto calda e Ginevra si godette quel torpore, dimenticando per un attimo dove si trovasse e gli avvenimenti di quella giornata. Poche ore prima gli erano sembrati terribili ma in quel momento, in quell’attimo di beatitudine, sotto il getto caldo della doccia, le sembrarono tutti risolvibili.

Dopo essersi infilata un soffice pigiama di cotone rosa, si mise sotto le coperte, con i capelli ancora bagnati. Le gocce che le scendevano lungo il collo la fecero rabbrividire nuovamente e, fu durante uno di quei brividi, che si addormentò, sprofondando in un sonno privo di sogni.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Terzo capitolo - Sirio ***


 

“Pioggia”.

Fu il primo pensiero che la mente di Jaren formulò quando il ragazzo aprì gli occhi. L’acqua leggera, che batteva contro il vetro della finestra e contro il soffitto, fu la prima cosa che sentì una volta sveglio. Amava la pioggia, l’inverno che si avvicinava, la luce che lasciava sempre più spazio all’oscurità, al mistero, a segreti che la notte avrebbe mantenuto tali per sempre. Si alzò dal letto, lottando contro le vertigini che improvvisamente lo assalirono. Fame. Lo aggredì con un morso allo stomaco, intenso, che diffuse il senso del bisogno lungo i suoi arti, le sue giunture, le sue vene. Cercò di ignorare quella mancanza e si diresse verso il bagno. Lo specchio rimandò la sua immagine: il ragazzo che vi aveva visto specchiato il giorno prima era del tutto scomparso. La carnagione del viso, del collo liscio e levigato e del torace nudo aveva assunto il solito pallore di sempre. L’abbronzatura tipica delle tintarelle di fine estate si era completamente estinta dalla sua pelle e non sarebbe più tornata finché…

“Non accadrà mai più”.

Al solo pensiero rabbrividì e si augurò di mantenere per sempre quel pallore. Odiava quella situazione, quel bisogno crescente che lo assaliva ogni volta, come se vivere con tutti quei ricordi orribili, che quella necessità gli aveva provocato, non fosse sufficiente. Si sciacquò il viso con l’acqua fredda del rubinetto. Quando si voltò nuovamente verso lo specchio una goccia  stava scendendo da un sopracciglio, lungo le ombre, di un leggero color violaceo, che gli circondavano le palpebre. Aveva bisogno di nutrirsi.

“Colazione, devo mettere qualcosa sotto i denti”, pensò freneticamente mentre finiva di lavarsi. Si vestì coi soliti abiti della divisa scolastica. Camicia blu scuro, pantaloni neri e cardigan nero senza maniche. Guardò la cravatta che penzolava lungo lo schienale di una sedia. I professori gli avrebbero di sicuro perdonato quella mancanza. Mentre usciva dalla stanza lanciò uno sguardo all’orologio appeso alla parete. Erano le sei e mezzo, mancava ancora un’ora alla prima dell’istituto e le cucine dovevano essere senz’altro aperte.  La sua stanza era situata lungo il corridoio più a nord dell’ala sud, dalla camera riusciva a vedere il grande cortile della scuola, compreso il rallegrante spettacolo del cimitero.

 Attraversò il corridoio senza far rumore, sperando di non incrociare nessuno, non che la cosa avrebbe fato differenza: nessuno mai aveva da ridire sulle sue abitudini, i professori lo veneravano, pendevano tutti dalle sue labbra grazie ai suoi modi così garbati, eccentrici e geniali. Ma c’era sempre l’eccezione alla regola e la sua si chiamava Honoria Godman.

“Maledizione!”. Pensò mentre la incontrava alla base della rampa di scale che portava al secondo piano.

-Già in giro a quest’ora, Parker?

-Oh Dio, lasciami in pace Honoria…

-Ti ricordo che siamo nella scuola e…

-E che tutti quanti, eccetto noi due, dormono.

La guardò con uno sguardo malizioso, avvicinandola a se di qualche  passo con un gesto fluido ed elegante.

-Dovremmo approfittarne-. Le disse con galanteria, incatenando il proprio sguardo al suo. La donna si sottrasse dalla sua presa con un gesto altrettanto fluido e con il movimento che seguì lo fece cadere a terra.

-Non ti conviene scherzare tanto… non fare troppo affidamento sul fatto che è molto che mi conosci-. Gli disse tirandosi su gli occhiali con un dito. Jaren conosceva Honoria Godman da quando era piccolo. I suoi genitori erano stati vicini di casa della donna quando lei ancora non era neppure un’insegnante.

Si alzò, fissandola con aria di sfida. –Tremo, mi boccerai?- Le chiese sarcastico.

-Non mi tentare, Jaren… perderesti di vista tu sai chi.

-Non puoi farlo-. La sua espressione si fece improvvisamente seria. –Nessuno può obbligarmi a rimanere in questa scuola se non lo voglio. Lo sai meglio di me.

Honoria Godman rise di gusto. – Certo, nessuno tranne me…

-Non lo faresti mai.

-Tu non mi mettere alla prova-. Quella frase non ammetteva repliche, Jaren lo capì benissimo. Non poteva molto contro Honoria Godman, la donna stava pur sempre più in alto di lui. Annuì rassegnato mentre il bisogno di prima si faceva sempre più forte.

-Scusa ma adesso ho altro da fare-. Le disse oltrepassandola per dirigersi verso le cucine. Lei non accennò risposta, solo un sorriso di trionfo si dipinse sul suo volto e Jaren provò un leggero senso di frustrazione ribollirgli nelle vene. Non l’avrebbe avuta vinta per sempre. Honoria sembrava inattaccabile, il potere che aveva le dava la possibilità di riuscire in ogni cosa, di fare delle persone ciò che voleva e queste, più per istinto di sopravvivenza che per altro, raramente si ribellavano a quell’atteggiamento. Ma Jaren, varcando la porta delle cucine, si ripromise che non sarebbe stato per sempre così.

 

La morbidezza della fodera fresca del cuscino, le lenzuola che le avvolgevano dolcemente il corpo, coperto solamente da un pigiama leggero, altrettanto soffice, il tenue torpore che le avviluppava la mente: dolci sensazioni che ogni mattina la accompagnavano portandole in dono il triste ricordo che un altro giorno andava affrontato.  Amava quel momento, quell’attimo di limbo che la divideva tra i sogni appena fatti e la realtà imminente. Amava ricordare i pensieri che l’avevano accompagnata durante la notte, li gustava con la mente, cercando di ricordare ogni minimo particolare. Spesso e volentieri però quel momento coincideva anche con una nostalgica malinconia, con la consapevolezza che quei sogni erano destinati a rimanere tali e che la realtà esigeva prepotente la sua partecipazione alla vita.

Fu quando aprì gli occhi e vide il blu elettrico delle pareti della propria stanza che la realtà quasi la soffocò. Si mise a sedere circondandosi le ginocchia con le braccia, i capelli scuri le ricaddero lungo il braccio sul quale appoggiò il viso. Non aveva voglia di alzarsi, di uscire da quella stanza, di vedere volti semi-sconosciuti e volti sgraditi, di seguire ore lunghe e noiose di lezioni che altro non facevano che assopire il suo interesse per lo studio. Sarebbe voluta restare lì, in silenzio, persa nei propri pensieri, apparentemente lontana da tutto e da tutti. Ma ciò non era possibile.

Sbadigliando si alzò dal letto, si trascinò verso il bagno e infilò la testa sotto l’acqua ghiaccia del rubinetto. Lasciò che il freddo la avvolgesse svegliandola completamente. Quando si tirò su gocce d’acqua scesero lungo tutto il suo corpo, bagnando il pigiama e facendola rabbrividire ancora di più per il freddo.

Una volta che ebbe finito di lavarsi, avvolta in un asciugamano bianco, si diresse verso la finestra, con fare distratto, attratta da qualcosa che neppure lei sapeva. Fuori pioveva intensamente. Dalla finestra che dava sul piccolo cortile interno si intravedevano lembi di cielo grigio; lampi solitari illuminavano quella semioscurità mettendo in mostra il proprio spettacolo per chiunque avesse avuto lo sguardo rivolto verso di loro.

La pioggia le fece venire ancora più freddo e la voglia di tornare sotto le coperte fu quasi irresistibile, ma con una scrollata di spalle scacciò quella tentazione, lasciò cadere a terra l’asciugamano e indossò i panni caldi e stranamente confortevoli della divisa. Erano fatti di un’ottima stoffa, notò. Nonostante la comodità però, la facevano sentire ancora più imprigionata nella sua condizione.

 Sbuffò mentre tornava a guardare fuori dalla finestra, irritata dai suoi continui sbalzi d’umore: serenità e agitazione si alternavano senza sosta nel suo stato d’animo.

Quella mattina si sarebbe dovuta svegliare prima per affrontare il compito della Godman. Il tempo scorreva veloce, non dava tregua e sembrava volatilizzarsi nel nulla.

Si appoggiò con la fronte al vetro freddo della finestra e il suo respirò formò una leggera condensa su di esso. Chiuse gli occhi, respirando lentamente. Era passato solo un giorno dal suo ingresso alla Sweet company e già si trovava indietro con lo studio. Se solo avesse potuto affrontare quella scuola senza ulteriori impicci… se solo non ci fosse stata quella punizione di mezzo…

 Non era giusto, non aveva fatto nulla di che; nulla da meritare, in qualsiasi altra scuola, di più di un semplice richiamo.

Premeditò per l’ennesima volta la fuga, ma con quel tempo e considerando che la Sweet Company si trovava in prossimità del lago Erie, troppo a Nord-Ovest rispetto alla sua città natale, New York, scartò quell’ipotesi. Come sarebbe tornata a casa? Con quali soldi? Senza contare che i suoi l’avrebbero rispedita in quel posto senza neanche stare ad ascoltare le sue motivazioni.

I suoi pensieri stavano prendendo sentieri sempre più tortuosi quando qualcosa, fuori dalla finestra, attirò la sua attenzione. Durò pochissimo, il tempo di un respiro, di un attimo fuggente. Un’ombra scura attraversò velocissima il cortile interno, silenziosa, fugace, quasi invisibile. Il cuore di Ginevra perse un corpo. Gli era sempre capitato di vedere le ombre quando nessuno era in grado di vederla o sentirla; ogni volta l’avevano torturata, levandole ogni briciolo di felicità che aveva in corpo. L’ultima volta l’avevano quasi uccisa. Fino a un anno prima capitava di rado di vederle.. Le apparizioni si limitavano a due o tre l’anno e la ragazza riusciva a far finta di vivere una vita normale, come quella di ogni comune ragazzo della sua età; ma nel corso dell’ultimo le cose erano cambiate: non passava mese senza che le ombre si facessero vive.

Iniziò a tremare, non più per il freddo, ma per la paura. Non era neppure sicura di aver visto una delle “sue” ombre, ma il ricordo di cosa era successo l’ultima volta la terrorizzava. Istintivamente iniziò ad allontanarsi dalla finestra e senza neppure rendersene conto si ritrovò con una mano posata sulla maniglia della porta di camera sua. La aprì di scatto e iniziò a vagare lungo il corridoio senza sapere bene dove andare. Non potevano aggredirla nella scuola, specialmente non quando la vita in quest’ultima era pronta a ripartire per un nuovo giorno di interminabili ore di lezione. Chiunque avrebbe potuta sentirla o peggio ancora vederla. Le Ombre non erano mai state così audaci. Continuò a camminare guardandosi attorno col cuore che batteva a mille. Dove stava andando? Svoltò un angolo e le si mozzò il respiro quando si accorse di essersi diretta verso la porta che dava sul cortile interno, dove le era parso di scorgere la creatura.. Iniziò nuovamente ad indietreggiare. La confusione che aveva in testa le impediva di ragionare: era terrorizzata. La porta iniziò improvvisamente ad aprirsi, cigolando, lenta e snervante. Ginevra arretrò ancora, sul punto di urlare…

-Sappi che se ti senti male ti lascio lì a morire.

Una voce piacevole, con un leggero accento che lei non riuscì ad identificare, uscì dalle labbra di un ragazzo i cui occhi erano grigi e freddi come la neve. Si mosse lentamente verso di lei, con un passo così aggraziato che le ricordò quello della Godman. I capelli neri e lisci incorniciavano un viso pallido e estremamente bello nel crepuscolo artificiale, dal mento spigoloso e la fronte ampia. Le labbra rosee contrastavano con quel biancore e con quegl’occhi da… “Predatore”.

Vestiva di nero: stivali neri morbidi, maglione nero e giacca di cuoio. “Quasi apposta per confondersi con l’oscurità”, pensò ancora di riflesso. Lo osservò incuriosita ed intimorita allo stesso tempo. Chi era questo individuo? Cosa ci faceva là fuori, nel bel mezzo di un temporale?

-Chi sei?- Gli chiese con voce tremante.

-Potrei essere la cosa migliore che ti sia capitata…- rispose lui con voce suadente, avvicinandosi ancora di qualche passo. –O la peggiore…- Aggiunse con un ghigno, arrivando a pochi centimetri dal suo viso. Ginevra si ritrovò a domandarsi se fosse stato meglio trovarsi di fronte una delle Ombre.. Non sapeva cosa aspettarsi da quell’individuo, come reagire. Ma una cosa era certa: un profondo terrore le rodeva l’anima.

-Che… che cosa vuoi?

-Un sacco di cose…

Ginevra era terrorizzata. Avrebbe urlato ma la gola le si era fatta improvvisamente secca. La paura che provava era del tutto insensata ma quel ragazzo, la cui bellezza così esagerata aveva un che di eterno, la terrorizzava sino a farle rallentare il battito del cuore. Studiò la sua espressione, allo stesso tempo così accattivante e stranamente pericolosa, il ghigno della sua bocca, sensuale e spaventoso, quella pelle così liscia e vellutata… Il profumo di rose fresche che emanava. Quel ragazzo sarebbe potuto essere il predatore perfetto: eternamente bello e pericoloso.

“Ma che mi viene in mente. È solo uno stupido che se ne stava sotto la pioggia!”

Ma non era facile auto convincersi della cosa. Come se ci fosse stato dell’altro, come se tanta bellezza fosse una semplice maschera.

Il tempo sembrò dilatarsi senza confini. Ginevra non aveva idea di quanto ne fosse passato da quando erano rimasti fermi, così vicini, in un silenzio irreale interrotto solamente da qualche tuono lontano. La ragazza si accorse di sudare, un sudore freddo, fastidiosamente freddo. Sospirò cercando di trovare un briciolo di coraggio, dicendosi per l’ennesima volta che lui voleva solo impressionarla ma che in realtà era realmente solo un ragazzo che il giorno prima, per puro caso, non aveva notato.

-Non credo di poterti aiutare-. Provò a dire con voce tremante.

-Io credo proprio di si invece-. Sussurrò lui in risposta. Il suo volto era sempre più vicino a quello di lei. Ginevra poteva sentire il suo alito fresco sulla propria pelle, un respiro freddo, un accentuarsi di quel profumo di rose che la pelle del ragazzo sembrava emanare. Rimase immobile, incapace di reagire.

-Sei terrorizzata-. Non era un’affermazione ma una semplice costatazione di fatto.

-Ne… ne ho davvero motivo?- chiese lei deglutendo, con voce tremante. Ma prima che il ragazzo potesse rispondere, una voce interruppe  quell’attimo cristallizzatosi nel tempo e nello spazio.

-Sirio, lasciala in pace!- Tuonò Jaren da dietro le spalle di Ginevra.

-Altrimenti?- Il tono del ragazzo era sfrontato e irritato. La ragazza si voltò di scatto verso Jaren. Senza nessun particolare motivo si sentì eternamente grata nei suoi confronti.

-Fossi in te non cercherei di scoprirlo-. Ringhiò l’altro. Si fece sempre più vicino a Sirio che, nel frattempo, si era allontanato da Ginevra per andare incontro al nuovo arrivato.

-Nessuno ti ha invitato, Jaren. Anzi, la tua presenza è più sgradita del solito.

-Lei non deve pensarla così-. Rispose lui indicando Ginevra. Sul volto della ragazza il terrore interpretava ancora il ruolo di protagonista. Sirio scoppiò a ridere. La ragazza si ritrovò a pensare alla risata di Jaren, così limpida e cristallina, più simile ad una musica che ad un suono umano. Quella di Sirio, d’altro canto, era tagliente e fredda come l’acciaio.

-Dovevi darle il tempo di provare…

-Taci, pezzo di imbecille!- Urlò Jaren, interrompendolo. Lo prese per la collottola e lo scaraventò contro la porta attigua al cortile interno. Sirio andò a sbattere con forza contro di essa ma non si scompose. Dopo pochi attimi si rialzò, con l’ennesimo ghigno dipinto sul volto, si strusciò via la polvere dal giacchetto e si incamminò nuovamente verso Jaren. Quando furono ancora faccia a faccia fu il suo turno a colpire. Rapido, silenzioso ed elegante come solo quei due sembravano essere. Sferrò un pugnò dritto sullo stomaco di Jaren il quale, con un gemito, si accasciò su di lui.

-Non ci provare mai più-.  Gli ringhiò all’orecchio. –La prossima volta ti ammazzo-. Aggiunse, abbassando la propria voce, in modo che la ragazza non lo sentisse.

-Ti è andata bene, ragazzina-. Le disse poi, voltandosi a guardarla con quel sorriso malevolo.  –E’ arrivato l’eroe-. La sua voce suonò ancora una volta sarcastica. Aggrottò le sopracciglia, fissandola in modo intenso. –Non ti andrà sempre così bene.

Ginevra non rispose. Era combattuta tra la paura che provava e la voglia di aiutare Jaren. Non sapeva cosa avrebbe potuto fare Sirio. Ma il ragazzo non perse altro tempo e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata al ragazzo  se ne andò, sparendo oltre il corridoio.

Ginevra corse incontro a Jaren che, nel frattempo, si era accasciato a terra. Il colpo doveva avergli fatto male sul serio. Era ripiegato su se stesso e con fatica cercava di alzarsi.

-Jaren!-

Cercò di circondargli le spalle con un braccio, di aiutarlo ad alzarsi o almeno cercò di farlo mettere a sedere come si deve, ma lui la allontanò con una scrollata di spalle.

-Lasciami stare-. Soffiò con un retrogusto amaro nella voce. La ragazza rimase ad osservalo senza capire quella reazione. Solo allora si accorse che il ragazzo era molto più pallido rispetto al giorno precedente. Sembrava stanco, consumato da qualcosa di troppo arduo da sopportare.

-Jaren…

Tentò ancora di avvicinarsi ma lui fu più lesto ad alzarsi e a mettere altra distanza tra di loro.

-Stammi lontana.

-Ma…- Non ci capiva più nulla. Non capiva perché Sirio le suscitasse tanta paura, non capiva cosa volesse da lei, non capiva perché aveva ridotto così Jaren, non capiva perché lui si comportasse in quel modo.

Il ragazzo la guardò alzando leggermente un sopracciglio, la bocca semiaperta in una smorfia di sofferenza che però sparì appena si accorse che lei lo stava fissando.

-Ti farebbe bene mangiare qualcosa…- Le disse. Gnevra sbuffò sonoramente.

-Non accetto consigli da chi è troppo superbo per farsi aiutare.

-Ma per favore-. Il ragazzo scosse leggermente la testa.- Tu non capisci…

-E questo ti sembra un motivo plausibile per trattarmi così? Ma in che posto sono finita!? Siete tutti uguali? Tutti che mi danno contro, quella maledetta donna, quel pazzo, tu! Tutti così…E chi è quel…

- Ginevra…

Il modo in cui pronunciò il suo nome la fece bloccare all’istante. Ogni voglia di protestare si sgretolò appena lei incontrò i suoi occhi: un rifugio caldo e confortevole rispetto alla freddezza che aveva letto in quelli di Sirio.

-Andiamo a colazione…

Lei questa volta annuì. Non riusciva più a trovare una parola per protestare, più un motivo per prendersela con Jaren. Dopo tutto lui era venuto a tirarla fuori da una situazione sgradevole. Senza aggiungere altro lo seguì avviandosi con lui lungo il corridoio. Pensandoci si accorse di avere realmente fame. La sera prima non aveva cenato a causa della punizione della Godman e il suo stomaco stava brontolando brutalmente per quella mancanza.

Osservò Jaren mentre salivano la rampa di scale che portava al secondo piano. Si chiese ancora cosa gli fosse successo, chi fosse quel Sirio. Il desiderio di sapere si fece sentire più forte che mai, ma qualcosa la indusse a tacere ogni domanda che si affollava nella sua mente. Ci sarebbe stato il tempo e il modo per sapere. Sospirò mentre facevano il loro ingresso nella mensa. Era trascorso solo un giorno e poche ore da quando Ginevra aveva messo piede alla Sweet Company, ma la sua vita passata sembrava già appartenere ad un’altra epoca.

 

 

 

 

 

 

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