Black Out

di Shu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oluha ***
Capitolo 2: *** Ran ***



Capitolo 1
*** Oluha ***


“[…] Dum loquimur, fugerit invida aetas..."

 "Mentre che noi parliamo, il tempo invidioso sarà già fuggito..."

Orazio, ode I,11

 

“La verità è luce […]. Già, ma una luce accussì forte non avrebbe potuto bruciare, ardere proprio quello che doveva solamente illuminare? Meglio lasciare lo scuro del sonno e della memoria.”

A.Camilleri, Meglio lo scuro

 

 

 

Il tempo passa, e tu dormi.

Nessuna luce batte sul dolce contrasto del tuo viso sul mio cuscino, del colore della tua pelle in mezzo al bianco perfetto e immobile delle lenzuola, ma non ne ho bisogno. Perché da quando ci sei tu, per me non esiste più il buio.

Sento, morbidamente, esattamente avverto dove sono le tue labbra, il gioco delle vene in trasparenza sotto la tua pelle, potrei disegnare, cieca, nell’ombra, uno per uno i tuoi tratti, i tuoi capelli disordinati nella notte.

Sento, perennemente sento i passi dell’orologio inseguirsi tra le pareti della stanza, ma se mi concentro, posso ascoltare anche il tuo respiro, indovinare il suo ritmo nel tuo petto. E conto, conto ognuno di questi respiri, nell’infantile paura di sentirli fermarsi, per assaporare la rassicurazione della loro infinita costanza, di una canzone che sembra dover durare per sempre.

Battere, levare. La tua vita non va a ritmo dell’orologio. Il soffio della tua essenza ora si calma, ora s’infittisce, –chissà cosa stai sognando- ora s’interrompe per la sospensione di un istante, trattengo il fiato anch’io, e poi torna a fluire, e io torno ad esistere.

Ed è questa imperfezione che noi chiamiamo vita.

Il tuo respiro è un tempo nuovo, un altro tempo. Posso sentire solo questo passo?

Posso esistere solo in questo tempo?

Forse è vero che il tempo scorre solo per noi. Nostre sono le stagioni, quando gli alberi e l’erba magari non si curano di quante siano, semplicemente le attraversano con la loro esistenza. Nostri sono i giorni dell’anno, i tempi di rotazione e rivoluzione di pianeti indifferenti, le dodici, ventiquattro cifre sull’orologio, sessanta minuti in un’ora, sessanta secondi in un minuto, i numeri appuntati nell’angolo di uno spartito che non sanno dire niente del nostro appuntamento, che non sono le tue braccia, le tue mani, la tua voce, ma senza i quali non riusciremmo ad incontrarci.

Il tempo è nostro.

Il più splendido e terribile dei doni.

E noi lo abbiamo definito, numerato, con l’illusione di poterlo afferrare, di poter fermare una microscopica onda di quel fiume per guardarla in faccia prima di abbandonarla di nuovo alla sua corsa. Ma non è vero. Se osservo lo scivolare immutabile delle lancette sul quadrante, se vedo un quattro sciogliersi in un cinque nei cristalli del display, e dico “questo è un altro secondo della mia vita”… ecco, per questo pensiero, quel secondo l’ho perso, insieme al pugno di sabbia dorata degli altri suoi fratelli.

E’ solo retorica, probabilmente, parole già dette migliaia di volte, proverbi già sentiti, il tempo scorre senza pietà, eccetera, eccetera. Oh, sì, il tempo scorre. Solo che, per me, scorre al contrario.

Per ogni numero che vedo su ogni orologio della mia vita, il pensiero ha già calcolato, un riflesso ormai condizionato, quanto manca a…

Quando il tecnico del backstage dice “tocca a te”, io non vedo le dita, una, l’altra, l’altra ancora, che si chiudono inesorabili nel suo pugno; dentro, ho già un altro conto alla rovescia, altrettanto inesorabile, ma privo della sottile eccitazione, del filo di un microfono da intrecciare alle dita, di un pubblico dall’altra parte.

Ogni giorno, ogni cosa che faccio, c’è sempre il momento in cui la stanza, la città, il mondo intorno a me si cancella improvviso, e per un istante di vuoto perfetto sono sola, in un’infinita distesa di bianco, e una voce metallica dice al mio orecchio e a quella nuda immensità…

…”Mancano due anni, quattordici giorni, sette ore, trentasei minuti…”

Il tempo passa, e tu dormi.

Ma il tuo viso disteso e sgombro di espressione nel sonno non assomiglia neppure minimamente a quel deserto di bianco. Sotto i tuoi tratti addormentati posso sempre distinguere, ecco, adesso mi aiuto con la piccola luce sul mio comodino, il sorriso che mi regalerai appena aprirai gli occhi, il colore e il calore sotto la tua pelle, la vita che trema vigile in ogni centimetro di te.

E i secondi trascorsi a guardarti, che pure corrono sempre indifferenti verso la loro distruzione, non sono più passati, sprecati. Hanno un senso, il senso più alto, l’unico senso capace, se non di fermare questo fiume, di farmi tuffare ad afferrare quello che brilla sul fondo. Ogni tuo semplice, preziosissimo respiro, le tue dita nei miei capelli, il battere della luce sulle fibbie della tua divisa abbandonata sul divano, tutto questa piccolezza ha l’immenso potere di chiudere il mio pensiero, di non avere dentro, per qualche ora di paradiso, che una sola voce, la tua.

Perché sei arrivato così tardi?

Perché non sapevo che saresti arrivato?

Ho sempre, sempre saputo quanti momenti mi sarebbero restati da vivere. Potevo passare nottate intere, in silenzio, a contare i giorni, le domeniche, le ore -come un ragazzino barra di un segno rosso un altro numero sul calendario appeso al muro della classe, cancellando un altro giorno prima dell’estate… come un prigioniero sbarra un altro numero, cancella un altro giorno vuoto dalla sua condanna senza fine.

Sapevo quanti, ma non quali momenti avrei vissuto. Non potevo sedermi nella mia stanza, abbracciarmi le ginocchia, e semplicemente aspettare quel giorno, quel giorno in cui avresti spinto la porta della mia vita, facendo entrare la luce, e il profumo della tua presenza.

Se lo avessi saputo… se avessi saputo che eri tu… ti avrei detto di sì, ti avrei detto tutti i sì del mondo già da quella prima sera, al solo vedere il nero di un ombrello bordato di uno stemma argento e viola contro il nero di pioggia del cielo fuori dal locale, al solo vedere il rosso della tua rosa che subito s’imperlava di gocce…

Non avrei lasciato che il tempo si prendesse tante notti, notti che avrebbero potuto essere splendidamente nostre.

Ma il tempo è passato, e passa, e tu ancora dormi.

Non voglio svegliarti. Vorrei solo raggiungerti, stanca, nel paese del sonno. Una volta, una voce di ragazzina al telefono mi disse che dormire è il tesoro più prezioso che abbiamo; perché mentre si dorme, si dimentica di essere soli.

O di essere vivi, le rispondo adesso io.

Dormire, dimenticare.

Oppure non dormire, e dimenticare lo stesso. Nelle tue braccia, dimenticare di essere nata, e affacciarmi alla vita di nuovo ogni istante con la freschezza del primo mattino del mondo. Dimenticare di essere nel tempo, per essere solo nella tua stretta, nel ritmo traboccante e sicuro che rintocca la tua esistenza…

Dimenticare, e, per un minuto, essere solo respiro che sale, essere solo la nota che vibra in fondo alla gola, solo la folgorazione soddisfatta di aver trovato l’accordo giusto, il modo giusto per avvolgere un suono in parole...

Un pianoforte, cinque righe, e una chiave: ecco tutto quello che mi serve per essere, per un pugno di attimi, immortale.

Il metronomo batte, ha anche lui la sua lancetta che oscilla, e che batte, un altro guardiano che se ne sta sulla soglia, a contare altri secondi che se ne vanno… Ma questa è un’altra storia, un altro tempo, il tempo della musica, che non ha numeri, non ha mete a cui arrivare; viaggia per se stesso, senza tensione e senza nome, il suo viaggio senza luogo. E con un dito, posso renderlo più lento, più veloce. Accorciare le ore che ti aspetto, i giorni vuoti di te. Allungare le nostre notti, lo spazio in cui mi è data la grazia di non pensare.

Allungare la nostra ultima notte, tirare le briglie della luce perché non venga mai il mattino, e l’altra notte ancora che mi porterà via da te.

Posso?

Davvero posso?

E’ sempre, tutto solo un istante…

Perché ogni canzone finisce, ogni estasi ha il suo risveglio, da ogni bacio ogni labbro si deve staccare. E ogni cosa che faccio, so già quando tutto questo fare, tutto questo esistere arriverà al suo capolinea. Basta il bagliore minuscolo, eppure impietoso, capace di tagliare la notte, delle forme incessantemente nuove, e incessantemente uguali a loro stesse di quel display…

Black out.

E d’improvviso, quel chiarore si è spento, tutti i rumori si sono spenti, tutte e centomila le luci fuori dalla mia finestra sono cadute nel nulla, e anche la lampada sul comodino si è chiusa sotto la mano del buio.

Black out.

E non so più che ore sono, e non so più dove sono, sono solo calore che scivola nella distensione fino a confondersi nel tuo, sono solo tatto per la tua pelle, udito per il battito del tuo cuore, e respiro, per vivere…

Solo, mi stringo a te, mi stringo alla notte, e al buio che mi acceca, liberandomi da ogni male.

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Capitolo 2
*** Ran ***


“…effice ut ego mortem non fugiam, vita me non effugiat…”

“Fa’ che io non fugga la morte e intanto non mi sfugga dalle mani la vita…”

Seneca, Epistulae, 49

 

“Il tempo è un dono prezioso, datoci affinché in esso diventiamo migliori,

più saggi, più maturi, più perfetti.”

T. Mann

 

 

Qualcosa non va.

Black out.

Respirare.

Rompere lo specchio, la superficie dell’acqua.

Riemergere dal sonno, e respirare.

E’ solo un black out.

Posso sentire, nelle vene del muro, la corsa della corrente perdere sicurezza, slancio, sciogliersi e inaridirsi nel nulla. Posso vedere -non con gli occhi- nell’altra stanza, l’ultima luminescenza intorno allo schermo nero che si fa impercettibile, svanisce, fino a farti dubitare che ci sia mai stata, o se non fosse solo illusione ottica, o ricordo.

E la finestra è un immenso lago di buio.

Ci sono tante luci, ma nessuna è per me.

Forse, quando ero qui, davanti a questa stessa finestra, e ad una notte come questa, forse sarei stato contento di vedere tutte le luci spegnersi di scatto, tutte le case intrappolate nello scuro, chiuse in un’improvvisa solitudine, senza il potere di uscire dalla notte.

Così, almeno per qualche momento, quelle case avrebbero visto cosa volesse dire vivere in gabbia, vivere senza nessuna luce.

Ero solo un bambino. E anche senza l’aiuto delle cifre sullo schermo so bene quanto tempo è passato, da allora. E so bene quanto ne resta. Di giorno, di notte, lo so.

Non è il buio, che può fare dimenticare la morte. Non è più facile dimenticarsene nella luce, quando vedi, quando il sole dissipa le ombre dei fantasmi, quando tutto ti dice che sei vivo, e che tutto è vero?

Non è più facile dimenticarsene nel sole chiaro dei tuoi capelli, e dei tuoi occhi, nel colore liquido del miele la mattina nel nostro tè, non è più facile se posso vedere la linea della tua schiena addormentata accanto a me, senza doverla solo immaginare?

Eppure, non mi serve neanche la luce, per dimenticare.

Perché non mi serve dimenticare.

Che senso ha correre, scappare, cercare di annegare affannosamente in quella luce… tentare in ogni modo di dimenticare, senza accorgerci che così ci sfugge solo dalle dita la vita…

Chiudere gli occhi, e far finta di non vedere… e, in questo modo, non vedere davvero, perdere la vivida realtà di avere davanti agli occhi te…

Io voglio vedere, voglio vedere il tuo viso addormentato, la lucida pioggia dei capelli, l’arco trasparente delle tue ciglia bionde, ognuna che si assottiglia fino a terminare nel suo vertice sottile, compiuta e perfetta.

Come un cerchio, compiuto, perfetto in se stesso, come il cerchio già compiuto e già chiuso del mio tempo. Ogni tua perfezione, così completa e assoluta che non c’è nulla di più alto da desiderare, mi ricorda questo cerchio. E mi ricorda che, se è già delimitato, e serrato, adesso non resta che la parte più bella: attraversarlo, questo cerchio, in tutto lo splendore della sua finitezza.

E come in un cerchio inizio e fine sono fusi nello stesso percorso, così mi sembra ogni giorno di poter rinascere, di poter camminare nell’immortalità.

Perché io ho te, e d’improvviso non c’è niente da temere, non esiste pericolo, non esiste più tempo. E cinque anni di perfezione con te non sono forse più brevi, lo spazio di un mattino d’estate, e insieme infinitamente più lunghi di cento anni di solitudine?

Cinque anni sono tutto quello che ho.

E dunque…

Cinque anni sono la mia eternità.

E se questa eternità posso dividerla senza per questo perderne nemmeno un attimo, se la divido con te, che cos’altro potrei desiderare?

Ed è per questo che, nel buio come nella luce, posso sempre vedere il mio tempo, e non ho paura di contare i secondi, perché so che in ognuno di essi io mi innamoro di nuovo di te, ed è questo che li fa sempre, per sempre rinascere, e moltiplicare. E questo mi basta.

Se non c’è abbastanza luce per te, accendila con le tue mani.

Accarezzo il cavo che corre lungo il muro, lascio che un po’ di quella forza che batte la sua armonia nelle mie arterie scivoli, goccioli dentro ai fili. E poi, tutto riparte, lento, all’inizio, poi sempre più sicuro, più convinto. Il tempo si riaccende nel display –dentro di me, non si era spento mai.

E, per questa notte, la nostra è l’unica casa in cui abita la luce.

 

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