Angel

di Atris
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio ***
Capitolo 2: *** Io sono Dio ***



Capitolo 1
*** Preludio ***


Preludio

Capitolo 0:

"Preludio"

Aveva fatto a botte, di nuovo. Quegli schifosi volevano vendicarsi di chissá quale torto, lo avevano assalito all'improvviso dopo la scuola: mentre tornava a casa passava sempre per una serie di vicoletti che sbucavano su di un ampia piazza, piazza dei caduti, non gli era mai piaciuta, - che schifo di nome, alla maggior parte di quei caduti non gliene frega niente della patria, dei valori di libertá e giustizia che la guerra si porta sempre dietro come un cane al guinzaglio, sono morti maledicendo tutto quello che li aveva condotti lì a soffrire e a cercare di sopravvivere nell'odio del nemico e nella paura della morte… giá la morte, morire in una battaglia che non si sente propria, chi se ne va cosí non ha senso che abbia vissuto.

Sanguinava - fottuti bastardi, erano in quattro – pensó, poi sorrise beffardo, tre li aveva lasciati lì, svenuti, tumefatti e sanguinanti, stesi a terra. L'altro arrancava con una gamba rotta piangendo e chiamando la madre, come un pupo in fasce: non c'era nulla di piú divertente di questa immagine.

Grondava di sudore, aveva il labbro inferiore rotto ma usciva piú sangue da una ferita da coltello sul petto: nulla di grave, quanto basta per macchiare i vestiti neri oramai strappati e rovinati – cazzo l'avevo appena comprata. I suoi jeans militari erano rimasti miracolosamente intatti ed i neri anfibi avevano sangue non suo sulla punta in ferro luccicante al sole del meriggio.

Anche oggi aveva sfogato la sua rabbia, con tutto se stesso, sul corpo di giovani ansiosi di scolpirsi una fama sulla sua carne, come solo un pazzo violento poteva fare. Sorrise a questo pensiero - meglio loro che me -.

I suoi capelli erano evasi dalla stretta coda e quindi si apprestó a rifarla. Si tolse i tre elastici e se li mise a mo’ di bracciale sul polso, si levó la fascia nera e lasció per un po’ i suoi capelli al vento. Per molti i suoi capelli angelici erano bellissimi, del colore dell'oro e lisci come la seta, lunghi fino al fondoschiena; a lui peró non piacevano, erano vistosi, delicati, dolci e splendenti, caratteristiche che erano per lui sintomo di debolezza.

Si fece il primo nodo, stretto alla nuca, poi il secondo, alla fine della lunga coda con molti giri di elastico, e poi il terzo in mezzo ai primi due, non tanto stretto, e infine mise la larga fascia nera, per coprire il candore dei capelli.

Si pulí le mani sui vestiti, e con la manica si asciugó il sangue dalle labbra, poi avanzò per entrare nella piazza. All’uscita del vicolo un forte raggio di sole lo colpí: non gli piaceva il sole. Aggrottó la fronte e l'azzurro ghiaccio dei suoi occhi venne celato dalle palpebre.

Aveva un po’ di lividi qua e là e camminava lento e dolorante per arrivare a casa, ma non aveva fretta. Viveva solo, nessuno lo aspettava.

Non aveva amici, solo una banda di teppisti esaltati della zona, solita a partecipare a tornei di combattimento clandestino. Lui poteva sfogarsi e la gente lo acclamava per questo, poi si andava a festeggiare in un bar, e a volte scoppiava una rissa, spesso per le scommesse perse.

Fu in una di queste risse che gli diedero il suo soprannome. Lui finì fuori dalla finestra del locale e mentre la rissa si consumava all'interno, dieci membri del clan rivale lo assalirono, armati di coltelli-le altre armi erano considrate disonorevoli tra bande. In quello scontro si ruppe il braccio in due punti, la sua milza si perforó e due coppie di costole andarono a farsi fottere, ma gli aggressori furono ridotti molto peggio, e così il numero dieci divenne il modo con cui la gente lo chiamava: Ten. In realtà si chiamava Marcus, ma Ten gli andava bene: nel suo ambiente la fama era tutto.

Erano passati 3 anni dalla rissa in quel bar, Angel's Way. Aveva raggiunto la maggior etá da pochi mesi, e ancora una volta si ritrovava ad arrancare per tornare a casa: nulla era cambiato.

Ora era fermo ad un semaforo. Dall'altra parte della strada c'era una madre con la sua piccola: quest'ultima era tutta intenta ad inseguire una farfalla che girava intorno alla mamma. Sembravano felici.

Come mai a lui non era stata concessa tale felicitá, cosí semplice da esaudire, cosí brutalmente vietata?

Sua madre morí quando aveva due anni, stuprata e gettata in un cassonetto dell'immondizia, sgozzata come un animale troppo vecchio per essere mangiato e troppo giovane per essere lasciato morire dignitosamente.

Suo padre impazzí per la morte di sua madre, si gettó dal tetto della casa di cura in cui lo avevano internato. Lui era andato a fargli visita, lo vide cadere come un sacco di patate al suolo, inerte, senza un urlo o un gemito, lo raccolse che ancora respirava.

Perché quel piccolo angolo di mondo in cui viveva doveva essere cosí marcio da contaminare e corrodere completamente ogni sua speranza, ogni sua emozione?

Negli occhi di quella bambina felice c'era tutto quello che aveva perso e che non avrebbe mai piú riavuto.

Mentre la madre rispondeva al cellulare, la farfalla continuava a volteggiare e la bambina non vedeva altro che quella splendida creatura. Marcus controlló il semaforo, era ancora rosso, ma era stanco di aspettare. La farfalla andó verso la strada e la bambina la seguí mentre la madre era girata a parlare al telefono. Marcus guardó se c'erano o meno macchine, cosí da poter attraversare: c'era una macchina di lusso che stava arrivando, le altre erano troppo lontane. Il tizio alla guida era uno in giacca e cravatta, era distratto, stava cercando qualcosa nel bauletto, forse. Marcus giró la testa, la bambina era in mezzo alla strada... e in quel momento fece qualcosa che non avrebbe mai fatto in vita sua. I suoi muscoli si mossero da soli: una strana forza dava moto al suo corpo.

Il tempo sembró dilatarsi: la macchina era vicina, la bambina era lì in piedi e lo guardava negli occhi mentre lui correva più velocemente possibile nella sua direzione. Ogni passo era lungo come una vita terrena. Quegli occhi verdi smeraldo continuavano a fissarlo, quella macchina non arrestava il suo corso, veloce ed inesorabile, si avvicinava… Protese le mani, la macchina era a pochi metri ormai. Marcus la spinse con quanta forza aveva in corpo, sentì l'urlo della madre e poi il freddo metallo sul suo fianco, gli occhi verdi della bambina si allontanavano da lui, la sua spalla contro il vetro, poi tanti spilli sul suo corpo, un volteggio confuso e fugace e poi lo schianto sull'asfalto.

Non sentiva nulla, la sua vista era offuscata. Qualcuno lo mise supino: era un signore distinto con una folta barba, urlava qualcosa ma lui non sentiva nulla, poi si giró e vide la farfalla, poggiata affianco a lui sull'asfalto, sbatteva le ali e muoveva le antenne calma ed aggraziata. Non aveva mai visto una farfalla cosí, aveva lo stesso colore dei suoi capelli: una piccola farfalla d'oro.

Le palpebre erano pesanti, ora non sentiva piú fatica nè dolore. Era forse guarito da ogni affanno? Forse ora era davvero finita per Marcus l'inarrestabile.

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Capitolo 2
*** Io sono Dio ***


Io sono Dio

Capitolo 1:

"Io sono Dio"


Aprí gli occhi.
Era sicuro di averli aperti ma non vedeva nulla, non riusciva a muoversi, ma non sentiva nulla, gli sembrava che il suo corpo fosse diventato di pietra, immobile, ma la sua mente fosse rimasta intatta.
Piano piano i suoi occhi cominciarono a vedere, o almeno cosí gli sembrava, tutto si tinse di grigio intorno a lui, anche il suolo su cui giaceva, non riusciva a distinguerlo dal resto.
Era come se in quel luogo, esistesse solo quel colore.
Provó a fare un movimento semplice, provó a muovere l'indice.
Il dito si mosse, a quanto pare c'era ancora vita in quel corpo.
Un formicolio si stava espandendo dalla nuca fino alla punta dei suoi piedi e come fiamme senza calore divampava nelle sue carni sempre piú forte e poi, scomparve, senza lasciare traccia,.
Mosse le braccia, e appoggió i palmi su quello strano suolo grigio, una stranissima sensazione lo scosse, era come se non stesse toccando nulla, non era freddo ne caldo, non era ruvido ne liscio, non era niente.
Si alzó in piedi di scatto, la cosa lo fece barcollare e per un attimo gli si appanó la vista, eppure é una nozione elementare non alzarsi di scatto.
Si guardó attorno atterrito, nulla fin dove occhio poteva guardare, solo un grigio soffocante da sotto i suoi piedi fino a sopra la sua testa, le distanze perdevano valore, tutto sembrava distante ed inarrivabile ma allo stesso tempo vicino e soffocante, poi si voltó, e lo vide.


"Oh mio dio".

Un grande occhio, senza ciglia ne palpebre.
Nubi grige attorno lo celavano come un velo di seta.
L'iride, nera come nulla al mondo puó comparare, profonda ed impenetrabile, il resto era di un bianco perfetto, talmente immacolato.
Questo grandissimo occhio umano stava immobile con lo sguardo puntato su di lui.
Impietrito di fronte a questa imponente apparizione, non mosse nemmeno un muscolo.
Le labbra peró erano impazienti di muoversi, lui doveva sapere, non poteva resistere, doveva chiedere.
Le parole uscirono come l'acqua di un ruscello quasi senza fretta.

"Chi sei?"

Una sensazione mai provata lo pervase in tutto il suo essere, immagini, parole ed emozioni volteggiavano nella sua testa dirompenti, distruggendo ogni suo sforzo di mantenere il controllo, lui urló con quanto fiato aveva in corpo premendosi forte le tempie, (Basta!) tutte quelle informazioni tutte insieme in un turbinio frenetico cominciarono a delinearsi, sembravano cantare in coro la soluzione e tutto gli sembró piú chiaro, (Basta! Basta! Basta!) sul finale della canzone dove tutto arriva all'apice dell'emozioni il senso di tutto ció, la sua risposta eruppe tra la luce e le fiamme.
(BASTA!!!)

"Io sono Dio"

Crolló sulle sue ginocchia, socchiuse gli occhi.
La sofferenza era passata e lasciava il passo ad una quiete forzata dalla stanchezza che quelle visioni erano costate.
Cos'era capitato? Dov'era? Perché Dio era davanti a lui? Tutto ció non aveva alcun senso.
La risposta non tardó ad arrivare.
Un altro flusso, questa volta delicato, cosí impercettibile da non infastidirlo nemmeno, era ancora in ginocchio e le sensazioni e le immagini arrivavano lente di modo che avesse il tempo di elaborarle.
Capí che era in quello che qualcuno avrebbe chiamato paradiso.
Gli venne spiegato che le parole in quel luogo erano prive di significato, come potevano le semplici parole essere il mezzo di comunicazione per l'Assoluto?
Esse potevano essere fraintese o raggirate, esse erano il mezzo degli esseri umani, creati da essi perché funzionassero solo e soltanto tra di loro, Dio invece comunicava con tutto quello che si comprende, con i sensi, con le emozioni e con percezioni di ogni sorta.
Ogni suono, ogni immagine, ogni sensazione per quanto piccola, antica, traumatizzante o mai provata, trovava il suo scopo per trasmettere il suo verbo.
Comprese che era morto, questa informazione gli sembró cosí esigua e trascurabile rispetto al resto che non ci diede molto peso.
Il dolore crebbe, la morsa che lo attanagliava accentuó la sua invisibile presa.
La sua morte aveva segnato una svolta che l'Occhio definí nelle sue visioni indotte, difficilmente traducibili in semplici parole, come "imprevista".
Poi venne invogliato a guardare in alto, lui mosse il capo, ancora scosso per tutto quello che aveva appreso.
La sottile coltre grigia si dissipó piano piano, e tutto si trasformó...

Il Destino, davanti a lui.

Un tappeto infinito di fili intricati in maniera imprecisa e casuale, ogni filo aveva un colore ed uno spessore che variava continuamente.
Questo manto milticolore copriva tutto quello che poteva considerarsi il cielo fin dove si perdeva l'orizzonte.
Una ad una sensazioni ed immagini bussarono alla sua mente con promesse di chiarezza e veritá; gli venne mostrato che in alcuni punti questo tappeto si stava sfilacciando, e velocemente i fili si liberavano della morsa e scivolavano via come serpenti in quell'abisso grigio.
Ora era in grado di vedere il quadro completo, non c'erano errori ne obbiezioni era tutto chiaro e limpido, la sua morte non era prevista, lui era reo di aver compiuto un azione che il Destino non contemplava.
Ora la terra sprofondava nel caos.
Vide che quella macchina doveva arrivare senza intoppi a casa, quell'uomo passando avrebbe influenzato, se pur in maniera estremamente esigua, piú di mille vite e arrivando a casa avrebbe preso un biglietto d'aereo ed avrebbe fatto un viaggio che avrebbe toccato un numero incalcolabile di esistenze.
Quel uomo che lo ha soccorso non doveva cercare di medicare un ragazzo investito ad un incrocio, doveva tornare a casa e parlare con sua figlia che era stata molestata a scuola e doveva usare parole e gesti ed espressioni giá calcolate.
Niente era lasciato al caso, le "parole" di Dio mostrarono ancora tantissime altre vite influenzate da un semplice gesto da lui commesso.
Piano piano le visioni si dispersero, allentando il peso sulla sua mente oramai fiaccata dallo sforzo di comprensione.
Era madido di sudore, le sue pupille erano dilatate ed i suoi occhi sgranati fissavano il vuoto.
Come aveva fatto a fare un azione non contemplata?
Se era tutto cosí perfetto perché proprio lui una persona come tante, era stato in grado di rompere le vicissitudini del fato con tanta facilitá, in questa specie di super-programma infinito e dettagliatissimo non c'era spazio d'errore.
Perché? Com'é stato possibile?

Nessuna risposta.

Marcus si alzó piano piano, i muscoli sembravano fatti di burro fuso, barcollante e confuso cercó di mantenere una posizione eretta.
l'Occhio leggeva nella sua mente ma lui voleva parlare, forse non ci sarebbe stata risposta ma voleva solo, dirlo ad alta voce, giá forse voleva sentila ancora, la sua voce.
- Cosa succederá adesso? Cosa ne sará della terra? -

Ancora Visioni.

Non era la prima volta che il Destino commetteva un errore, ogni 10.000 anni circa succede qualcosa di devastante per gli abitanti della terra, era in questo modo che il Destino reagiva all'errore, in questo modo conteneva i danni e rielaborava tutto.
Non gli venne detto perché.
Quell'occhio fisso su di lui, Marcus temeva quella cosa sconosciuta, quella potente entitá, si scopri ad odiarla.
Perché tutto questo?
La sua vita non faceva giá abbastanza schifo?
E se la sua vita faceva cosí schifo non era forse colpa del Destino?
Quante domande, non avrebbe sopportato le risposte, forse é per questo che non gli vennero date.
Rabbia.
Invece di pensare si espresse forte e vigoroso, la sua collera era sul punto di esplodere

Cosa vuoi da me? Se ho peccato allora SIGILLAMI ALL'INFERNO! Non voglio avere niente a che fare con tutto questo, per quanto mi riguarda il mondo puó bruciare insieme a tutti i suoi abitanti! -.

Nessuna risposta, solo silenzio, un silenzio inarrivabile in un mondo terreno.

Piano piano nella sua mente fecero capolino altre sensazioni ed immagini, voleva respingerle ma non ci riuscí.
La sua mente non arrivava ad erigere barriere in grado di arginare il lento scorrere di un gigantesco fiume.
E ancora una volta la veritá assoluta uscí fuori da un vortice di emozioni, l'Occhio voleva rimandarlo sulla terra.
Mentre i fili sfuggivano dalla rete e il celo mutava in un covo di variegati serpenti intenti ad agitarsi piú possibile, l'Occhio lasciava fluire il suo sapere comunicandogli che il Destino aveva necessitava della sua presenza sulla terra.
Volevano farlo diventare un angelo, giá... un angelo dell'apocalisse.
Tutto questo era imposto, non era richiesto il suo consenso ne la sua devozione, il suo scopo era semplice.
Esistere, in quel inferno.
Vide guerra, vide funghi atomici, epidemie, esperimenti orribili su soldati e civili, vide i governi cadere uno ad uno, inghiottiti dalle fiamme delle guerre civili e degli eserciti nemici.
Ora il mondo era pressoché un deserto di cenere sabbia e fango ed erano poche le oasi intatte.

Poi tutto si infiammó, sofferenza rabbia PAURA vorticavano con frenesia nella sua testa, il suo urlo straziante si espanse nell'aria mentre le sue mani tra i capelli avrebbero voluto bucare il cranio per far fuoriuscire tutto quel dolore, buttó il capo indietro e cadde a terra.
In un attimo fú il buio e finalmente ebbe pace... poi i suoi occhi si aprirono di scatto, e tornarono a vedere luce.

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