Blue Rose

di Nicolessa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Il buon giorno si vede dal… No, non si vede affatto! ***
Capitolo 3: *** Bastano 20 minuti ***
Capitolo 4: *** Il risveglio ***
Capitolo 5: *** Sorpresa! ***
Capitolo 6: *** Maledetta scatola palpitante! ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


prefazione

Ciao a tutti sono una nuova e non so come muovermi XD quindi chiedo perdono per eventuali errori di qualsiasi natura! Detto questo spero che questo mio racconto vi piaccia e per favore lasciate una recensione =) basta muovere un ditino no?!?!? BUONA LETTURAAAAAAAAAAA

La vita dà certezze... e dandotele, ti confonde le idee più di quando non ne avevi neanche una.

Questo l’ ho imparato dalle mie esperienze di vita, a molti potranno apparire impossibili, ad altri stupide e prive di ogni consapevolezza delle azioni svolte ma la verità è un’ altra: scappando non si risolve nulla, ma ancora nessuno cercava di capire il motivo per cui un individuo è costretto a scappare. Fuggire da quel problema è inutile perché riuscirà comunque a portare via con se tutto quello che questo individuo è riuscito a racimolare in una vita di sacrifici e difficoltà, superate grazie alla forza di volontà che, quando lo abbandonava, lasciava solo la scia di ciò che aveva precedentemente placato ma non eliminato.

Questa può essere una storia come le altre o la storia di molti, costretti ad allontanarsi da quello che amano e che ameranno sempre nonostante la lontananza e se c’è qualcosa a questo mondo che la lontananza non può cancellare è l’amore vero verso qualcuno e me ne infischio del detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” perché non sempre questo è vero. Conosco molte persone che nonostante la distanza si amano, forse possono non essere molto entusiasti di quei maledetti chilometri che li dividono ma trovano sempre e comunque un modo per tenersi vicini con il cuore.

Dopo ciò, ognuno può scegliere le strade da percorrere nella sua vita senza essere condizionati in alcun modo da niente e nessuno perché tutti sono liberi di amare qualcuno e di decidere di non dimenticare quando questo legame finisce senza alcuna speranza di ritorno. Nessuno può rinnegare i propri ricordi e poi, chi ha mai detto che dovessero essere sempre dei bei ricordi? A volte può far bene ricordare qualcuno o qualcosa che suscita emozioni tristi e che a volte riaprono una vecchia voragine nel petto ma in realtà è così che capisci di aver vissuto per davvero.

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Capitolo 2
*** Il buon giorno si vede dal… No, non si vede affatto! ***


Il buon giorno si vede dal… No, non si vede affatto!
Era una giornata di metà Dicembre fredda ed umida a Seattle, la nebbia fitta offuscava la strada rendendola misteriosa e macabra.

Mio padre mi accompagnò alla stazione con l’auto che usava per recarsi al lavoro, avevamo i finestrini chiusi ed il riscaldamento acceso.

Avevo comunque freddo perché, testarda com’ero, non accontentai mia madre che per tutta la mattina mi aveva ripetuto di indossare il maglione verde  regalatomi da zia Lane per Natale che, secondo me, era davvero orrendo.

Preferii quindi mettere una maglietta di un blu scuro, come il colore del mare in tempesta, poi una semplice sciarpa a righe bianche e nere comprata anni prima in una piccola boutique di Parigi abbinata ad un classico e comodo jeans che calzava a pennello con le mie Converse in pelliccia bianca.

Vestire semplice e non attirare l’attenzione: questa ero io. Ero una ragazza discreta: non troppo magra e non troppo grassa, non troppo pallida e non troppo scura, insomma cose così… avevo solo tre punti a mio sfavore: l’altezza stratosferica degna del mio cognome, le meches blu alle punte dei miei capelli neri che toccavano i gomiti e… mio fratello.

Tutte le sue “sostenitrici” mi chiedevano di lui o cercavano di diventare mie amiche per vederlo.

Axel era il ragazzo più affascinante di tutta Seattle, questo dicevano tutte la ragazze del posto, i suoi capelli rosso fuoco davano un tocco peccaminoso al viso ma i suoi occhi compensavano con un bel celeste angelico, come se non bastasse giocava a Basket… ecco spiegato il perché di tutti i sold-out di ogni sua partita.

Le altre ragazze ignoravano il suo carattere, quello che io vedevo e condividevo ogni giorno in casa, era unico e anche un po’ lunatico: un giorno era disponibile con tutti e quello dopo era insopportabile, un vero rompiscatole colossale.

Spesso cercavo il perché delle cose riflettendo e scrutando ogni minimo dettaglio utile al mio resoconto, facevo così per tutto: per mio fratello, per gli sconosciuti, per i miei amici e a volte anche per gli oggetti inanimati. Come dal mio solito quella mattina, in macchina, osservavo con attenzione tutto ciò che la nebbia non copriva, cercando di capire come ci riuscisse… Come riusciva a coprire tutto quello che incontrava? Come riusciva ad annebbiare tutto e tutti senza alcuna difficoltà?

Volevo essere proprio come lei, fregarmene di tutto e di tutti con la stessa facilità ma… come potevo?

Mentre pensavo ad una soluzione, molto probabilmente impossibile, mio padre mi chiamò per nome ma io, assente mentalmente, non risposi.

-         “ Ellen… Ellen!” gridò infine.

 Era lo stesso tono di quando veniva a svegliarmi la mattina per mandarmi a scuola... Era dura svegliarmi, molto dura.

-         “ Sì? Cosa c’è?” risposi assente continuando a fissare il vuoto.

-         “Siamo arrivati… Allora… Sei triste? Nervosa? Incomincerai a dirgli di quella cosa oppure lo farai un altro giorno? Se non te la senti puoi farlo domani… o il mese prossimo… entro il mese prossimo almeno… sempre se vuoi dirglielo… non è così? Perché… sai, pensavo che dire tutto è impor…”

-         “Papà...” lo interruppi.

-         “ Non preoccuparti, è tutto ok… lo dirò… in tempo…” dissi esitando un po’…

Ero agitata per le parole di mio padre, infondo, aveva ragione.

Già, mio padre… un uomo onesto, fedele, sincero e molto logorroico, quando ero piccola mia madre lo chiamava “ il grillo superparlante”, ma Antony aveva un cuore d’oro. Era difficile farlo arrabbiare ma quando veniva deluso o era triste, usava la tecnica del muso lungo, tecnica che avevo ereditato e, fortunatamente, molto efficace su di lui.

Ricordo ancora quando a sei anni, ruppi la sua boccetta di profumo sulla sua giacca… l’odore di muschio bianco si espanse per tutta la casa lasciando una profumata scia che solleticava il naso. Quando se ne accorse, rimase con il suo muso lungo per una settimana intera e tornò allegro solo quando gli chiesi scusa e gli portai la sua giacca che, nonostante tutti i lavaggi subiti, profumava ancora di muschio.

Dopo questo breve ma intenso ricordo, uscii dal tunnel dei miei pensieri e mi concentrai sul suo viso, cercando di analizzarlo.

Era preoccupato per me, lo li si leggeva chiaro in faccia anche se cercava di nasconderlo e così, di scatto, risposi che stavo bene e di non essere preoccupato per me. Sarebbe andato tutto bene… o almeno era quello che speravo. Sarebbe stato difficile ma ce l’avrei fatta… dovevo farcela. Bastava trovare le parole giuste e il momento giusto.

L’ansia iniziava a mangiare il mio stomaco e a quanto parte ci provava anche gusto. Non potevo deprimermi ora.

Dovevo godermi tutto di Seattle, i miei amici, la mia scuola, i miei luoghi preferiti…

Ero pronta a lasciare tutto questo?

Mia madre diceva di non preoccuparmi (esattamente come papà) e che ci avremmo pensato a fine mese, prima della nostra partenza…

Esatto, partivamo… Io e la mia famiglia dovevamo trasferirci a Goderich, in Ontario, ancora più precisamente in Canada, per motivi di lavoro che riguardavano mia madre, Amanda Brown, una famosa disegnatrice di abiti. La causa della partenza non era la scarsa opportunità di lavoro, anzi era l’esatto contrario… Ci trasferivamo perché ne aveva troppo! Purtroppo la vera causa della nostra partenza era un’ offerta di lavoro proposta a mio padre, che in quanto biologo, aveva ricevuto una promozione che comprendeva anche un trasferimento e, secondo la sua modesta opinione, sarebbe stato impossibile non accettare.

Forse era la cosa giusta per me, dopotutto ero la prima a dire che non ero così felice a Seattle…

Ripensandoci, Seattle era rumorosa, caotica, frenetica, stressante e inquinata. Ma è pur vero che era la mia casa, meravigliosa e, a volte, anche sorprendentemente silenziosa.

Per questo dovevo osservare tutto quello che potevo finchè ne avevo la possibilità, ecco perché non volevo andare via, sapevo che Seattle mi sarebbe mancata.

Ecco che ritornava l’ansia. Non mi era possibile vivere quei giorni in santa pace? Non poteva evitarmi per un po’? Giusto il tempo di raccontare tutto e vivere felicemente quei giorni nient’altro... Dovevo trovare un modo per tranquillizzarmi.

Scesi dall’auto in tutta fretta, congedando mio padre con un fugace bacio sulla sua guancia e mi allontanai, illudendomi di poter lasciare lì dentro tutti i miei pensieri che non mi avrebbero dato pace per tutta la mattina e poi: l’illuminazione… La musica! Finalmente la mia mente iniziava a funzionare, si era finalmente svegliata e ne ero contenta. Gli angoli della mia bocca si alzarono leggermente, avevo un’espressione più allegra… Finalmente…

Attraversai il sottopassaggio con passo svelto e le cuffie nelle orecchie. Ascoltavo la playlist che aveva creato Axel nel mio I Pod: Green Day, Good Charlotte, Goo  Goo Dolls, The Last Goodnight, Cascada, Santana e altri. Fortunatamente la mia idea funzionò ed arrivai dall’altra parte senza accorgermene.

Lì trovai un sacco di gente nervosa ed impaziente per l’arrivo del treno che annunciava un ritardo di 25 minuti…

 La giornata inizia benissimo... sarà contenta la prof di matematica! Pensai dentro di me.

Magari riesco a fermare Antony e a chiedergli di accompagnarmi a scuola in macchina! Continuai.

Mio padre però, andò via prima che potessi fermarlo per chiedergli quello strappo fino a scuola quindi, fui costretta ad aspettare, consapevole che, prima o poi in quei minuti d’attesa, avrei pensato a come poter dare la notizia ai miei amici, così creando sconforto in me stessa.

In quel momento invece non pensavo a niente, per qualche secondo credetti davvero che i miei pensieri fossero rimasti lì, nella mia BMW nera dove, secondo le previsioni di Antony, avrei trascorso ben trentanove stressanti e lunghe ore di viaggio, sorpassando così Washington, il Montana, il North Dakota, il Minnesota, il Wisconsin e il Michigan per poi infine arrivare in Ontario.

I minuti scorrevano lenti e inesorabili, l’attesa era estenuante e i ricordi lottavano con la mia testa cercando di riaffiorare come spine pungenti che laceravano tutto ciò che incontravano senza guardare in faccia niente e nessuno. Cercavo di non farci caso, ascoltavo la musica e cercavo di mantenere la mente vuota.

Quella canzone era bellissima, melodiosa, mi infondeva una sensazione strana… Solo dopo mi resi conto che era tristezza, in effetti la canzone era malinconica… Avrei avuto bisogno di più rock. Passai ai Green Day.

Mi guardai intorno.

Il treno non si vedeva ancora, quando Sharon mi vide e mi venne incontro con un sorriso brillante e pieno di vita.

Automaticamente mi liberai le orecchie per iniziare la conversazione, pensai che sarebbe stato meglio parlare.

-         “Ehilà Ell! Come stai? È da tanto tempo che non ci vediamo vero?” disse con aria ironica.

Sharon era una ragazza alta ed esile, aveva dei lucentissimi e bellissimi capelli biondi, raccolti in un fermaglietto azzurro che intonava perfettamente con i suoi grandi occhi spendenti come diamanti, le guance erano perennemente rosate, le labbra sottili e le mani all’apparenza molto fragili ma in grado di resistere a tutte le temperature senza screpolarsi mai. Il suo carattere era magnifico, direi quasi… perfetto… aveva un equilibrio tutto suo e funzionava alla grande. Eravamo amiche dalla 1° elementare. Era una persona unica, non potevi non amarla, ma non so quale legame, ci rese inseparabili, eravamo sempre insieme e non ci separavamo mai, lei mi consolava con il suo smagliante sorriso e io le davo consigli su qualsiasi cosa.

Che stupida che ero…le avevo sempre dato dei buoni consigli e ora, codarda com’ero, non riuscivo a metterne in atto nemmeno uno…

Ma per non farla insospettire, le risposi con altrettanta ironia:

-         “Certo, è da ieri sera che non ci vediamo, hai ragione… non so proprio come ho fatto senza di te per tutto questo tempo!” esclamai con un sorriso che non era esattamente uno dei migliori in repertorio.

Le mie parole mi colpirono come un boomerang tagliente, era come se mi fossi punita da sola.

 Ero sincera, mi era mancata, come potevo lasciarla il mese successivo? Come avremmo affrontato quella maledetta partenza? Come avremmo fatto a stare lontane? Ci dividevano ben 2.483 miglia!!! Ma non volevo pensarci, mi ero severamente imposta di non farlo e non dovevo per nessun motivo.

Volevo solo scappare lontano da quel problema, ma il vero problema era che non volevo scappare… Non volevo lasciare una vita per prenderne un’altra, anche se fosse stata migliore della precedente, avevo tutto quello che mi serviva a Seattle. Non volevo abbandonare tutto, non volevo abbandonare Sharon, la mia amica di sempre.

Pensavo solo a ciò che desideravo io senza pensare agli altri… ero egoista… una parte di me lo sapeva e alimentava questo lato di me, ma l’altro lato non voleva ammetterlo e cercava delle scuse per giustificarsi anche se inutilmente.

Sharon mi parlava con una certa sicurezza, la sicurezza che la stessi ascoltando e invece ascoltavo solo me stessa, che gridavo disperatamente aiuto dentro di me ma senza ricevere alcuna risposta.

Non si accorse di nulla e proseguì nel suo racconto che, molto probabilmente, riguardava il sogno che la scosse quella notte, o almeno, la routine giornaliera prevedeva questo.

-         “Allora, in fondo alla strada, vidi un estraneo che si avvicinava e me con aria minacciosa così poi iniziai a scappare per la paura e gridavo, gridavo come le matte! Giustamente mi voltai per cercare di capire chi fosse e, con un rapido scatto… ehi!! Ma mi stai ascoltando o no?!?” disse un po’ scocciata come per farmi notare che le sue parole erano preziose e non poteva sprecarle per parlare al vuoto.

-         “Ahahah, bella questa Sharon, lei non può ascoltarti perché cerca di capire da dove venga quel rumore di vento… se vuoi ti aiuto io a capire... è il vuoto nella sua testa!!!”esclamò una voce snob e sicura di sé.

Era lei, Tasha, la persona che più di qualsiasi altra mi era indifferente anche se, per qualche motivo a me sconosciuto, io non ero così indifferente a lei.

Non che mi importasse più di tanto capire il perché mi odiasse ma cercare una risposta sembrava un ottimo svago per la mente. Non ricordavo nessun evento in particolare, era sempre stata lei a rivolgermi la parola, o meglio, l’insulto, anche la prima volta che la vidi.

A scuola, lì la vidi per la prima volta… Questo era alquanto strano in quanto mia “concittadina”.

La sua prima presentazione fu molto chiara.

-         “Hey tu, ascoltami bene: Tu. Non. Sei. Nessuno. Chiaro? Se mi darai          fastidio sappi che la pagherai cara” disse.

Lo ammetto, ci rimasi un po’ male. Credo che il motivo del mio sconforto sia stato proprio il fatto di non aver fatto niente per essermi meritata una conversazione del genere.

Ovviamente Sharon era con me ed è esattamente da quel giorno che non la sopporta.

Non era ancora iniziata la giornata e avevo già incontrato delle difficoltà, perché mi odiava tanto?

Cercai di sforzarmi ma nada de nada, niente, il vuoto totale.

-         “Smettila di fare l’idiota! Sei solo gelosa!” disse Sharon in mia difesa ma soprattutto per sua soddisfazione.

Aveva alzato la voce per la rabbia ma non se ne accorse nessuno lì in stazione. Ognuno parlava per conto proprio creando così un grande mormorio generale.

-         “Gelosa io?!? Di cosa? Del vostro stupido gruppo e di quelle ridicole rose blu tatuate sul vostro corpo malriuscito? Ma per favore!” disse con aria strafottente.

Mentre Sharon stava per metterle le mani addosso, una manona fredda e resistente si poggiò sulla sua spalla, fermandola nel suo intento di fare Tasha a pezzi.

-         “Litigate anche l’ultimo giorno di scuola? Finiremo l’anno in bellezza allora...”

Quella voce... così familiare e così calda… La conoscevo da così tanto tempo che avevo quasi dimenticato la sua particolarità, forse me ne rendevo conto ora che sapevo che tra qualche giorno non l’avrei più sentita se non da un freddo e distaccato cellulare.

-         “Ha iniziato lei! Non la difendere solo perché ti piace darmi torto! Uffa...” sbuffò Sharon.

Si comportavano come dei bambini mentre io, quella che si era beccata l’insulto, non battevo ciglio, non mi interessava di cosa stessero discutendo ma mi interessava l’arrivo di Felix a fermare in tempo una lotta che, secondo Sharon, sarebbe finita con un cadavere… e certo non parlava del suo.

Il mormorio continuava ad aumentare ed io fissavo Felix, il mio amico del cuore.

Amico del cuore… Questa parola la usavamo dalla scuola elementare, ci eravamo sempre reputati tali nonostante i nostri 2 anni di differenza. Già… Ora io e Sharon abbiamo 17 anni e lui 19, esattamente come mio fratello Axel, suo compagno di comitiva. Uscivano la sera e tornavano la sera del giorno dopo, potevi vederli solo in 3 condizioni dopo il rientro: sbronzi, con delle borse sotto gli occhi oppure, l’ opzione più tranquillizzante, era vederli lucidi ma con la pancia piena di  cibo cinese o tailandese.

-         “Ellen, perché mi fissi? Ho qualcosa in faccia? Mi trovi diverso per caso?” disse all’improvviso inarcando le sopracciglia in modo strano, sembrava quasi un cartone animato.

 Avevo visto quel volto migliaia di volte ed ogni volta qualcosa cambiava rendendolo sempre più affascinante e amichevole.

Sharon mi diceva spesso che parlavo di lui come le persone normali parlano del loro fidanzato ma Felix non lo era, era un amico ed era questo quello che volevo.

Non mi preoccupavo di apparire stupida o goffa con loro, noi tre eravamo una famiglia: io, Sharon e Felix.

La mia mente era piena di pensieri che non facevano male, Fel era il mio antidolorifico migliore e lo adoravo per questo, o meglio, anche per questo.

Mi accorsi che stavo pensando troppo e il tempo che era passato per rispondere era troppo così, cercai di affrettarmi nella risposta.

-          “No no, niente di strano... Stavo solo… pensando” dissi sbuffando… Non volevo dare l’impressione di essere preoccupata ma, infondo, lo ero eccome, non avevo ancora pensato a nessun modo per avvertirli della mia partenza improvvisa.

-         “Tu che formuli un pensiero? Attenta Ellen, non sforzarti troppo altrimenti ti esploderà la testa!”.

Arroganza, questo odiavo di più in lei, ma era il minore dei miei problemi, quasi insignificante direi, ma non potevo pensare con lei che mi ronzava attorno come una mosca fastidiosa. Il mormorio si trasformò in un enorme baccano nella mia testa, ogni minimo rumore mi perforava i timpani e alla fine, stremata, scoppiai in un urlo quasi disumano:

-         “Ascolta, non mi importa se ti reputi la persona più bella e intelligente del mondo, ora mi importa solo riflettere e non riesco con te che mi insulti continuamente e con questa gente che urla come se fossero tutti sordi quindi, non hai proprio nient’altro da fare che darmi fastidio e starnazzare nel mio orecchio? Perché non vai a fare l’oca da qualche altra parte di questa stupida stazione?”.

 Tutti si voltarono verso di noi. Avevo la piena visione di tanti tipi di espressione umana. C’era chi era incuriosito da quelle urla, chi era rimasto offeso dalle mie parole, chi aveva chiaramente stampato sul viso l’espressione “questa è pazza” e chi era sconvolto dal mio modo di rivolgermi a Tasha, la più popolare ragazza che, secondo lei, “aveva più chance di resistere in questo posto di sfigati”. Purtroppo me ne resi conto troppo tardi, forse, avevo urlato troppo, ma le mie urla da pazza psicopatica diedero i loro frutti, infatti Tasha si allontanò senza fiatare, mostrando solo il suo disdegno alle sue compagne che la seguivano ovunque come dei cagnolini.

Accanto a lei sembravano delle sagome senza volto e senza nome che non godevano del diritto di vivere per paura di oscurare la loro ape regina anche se, a Tasha non importava granché di loro. Eppure erano delle belle ragazze, non sapevo come si chiamassero e non mi interessava perché mi davano fastidio, mi dava fastidio il fatto che la venerassero così senza un motivo.

Erano patetiche e non se ne rendevano conto. La popolarità può dare alla testa ma forse a loro non importava, bhè, peggio per loro.

Pensavo, pensavo e ripensavo ai loro comportamenti non capacitandomi del fatto che avevo urlato attirando l’attenzione. Quando me ne resi conto era tardi, tutti mi stavano fissando. No, no, NO! Odio essere al centro dell’attenzione! Trasalii, avevo gli occhi spalancati, respiravo con cautela come per non fare rumore e mi guardavo attorno con la testa bassa come se volessi coprirmi. Volevo sparire, andate dall’altra parte della Terra, teletrasportarmi, diventare invisibile, tutto ma non rimanere lì.

Sharon e Felix rimasero a bocca aperta non capendo da dove arrivasse tutta quella rabbia che mi aveva fatto esplodere in quel modo anomalo. Non mi era mai capitata una cosa del genere, mi ero sentita come la dinamite, esplosiva e senza controllo.

Il silenzio che si sentì subito dopo il mio sfogo era quasi agghiacciante ma, fortunatamente per me,  non durò molto, pochi secondi e tutti si voltarono, ricominciando a parlare in un tono accettabile come se avessero afferrato il mio “rimprovero” ma, molto probabilmente, parlavano a bassa voce per non farsi sentire da me: la pazza che, per precisare aveva un nome, il mio: Ellen Fox, un nome che si sarebbe sentito molto nominare in giro in quei giorni.

Finalmente il treno arrivò, lo attesi come un bambino attende il giorno di Natale, lo attendevo perché volevo solo andare lontano da quel posto, dimenticai solo un piccolo dettaglio: tutta quella gente che mi aveva sentito urlare doveva salire sul mio stesso treno e quindi mi era impossibile scappare, a meno che non fossi salita sul treno ma dopo tutta quell’ attesa e quella scenata da oscar non ne valeva la pena, dovevo affrontare quella folla di persone pronte solo a parlare di me alle mie spalle.




Voi che ne pensate? Ne vale la pena continuare? Bhè sappiate che sto già lavorando al secondo quindi mo ve lo beccate!!! =P alla prossima!

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Capitolo 3
*** Bastano 20 minuti ***


Bastano 20 minuti

«Treno in arrivo sul secondo binario, allontanarsi dal secondo binario» annunciarono dagl’altoparlanti.

Andai incontro al treno sperando di poter diminuire  la durata del viaggio il più possibile anche se di poco, un portello si aprì proprio di fronte a me ed io, senza esitare un attimo, mi ci fiondai dentro. Occupai un’intera cabina sapendo che Sharon e Felix avrebbero voluto parlarmi, o meglio, analizzarmi.

Mi sedetti vicino al finestrino con lo scopo di osservare la meta avvicinarsi e la partenza allontanarsi secondo per secondo, loro invece si appollaiarono silenziosamente sul sedile guardandomi con compassione.

Non sapevo perché mi squadrassero in quel modo, infondo non era possibile che conoscessero il motivo di tanta frustrazione così, incuriosita da quelle occhiate, chiesi loro:

-         “ Perché mi fissate in quel modo? Ho qualcosa in faccia per caso?”

dissi ironicamente alzando lo sguardo su Felix come per fargli notare che avessi ripetuto di proposito le sue identiche parole solo con un falso tono interrogativo.

Mi scrutarono da cima a fondo a caccia di ogni mio minimo movimento per esaminarlo e, purtroppo per loro, senza ricavarne nulla: non battevo ciglio, non trovavo neanche un errore nella mia espressione, una svista che potesse tradirmi, niente.

Immediatamente mi meravigliai della mia sconosciuta dote di attrice che in quel momento mi aveva salvata.
Si voltarono l’uno verso l’altro e decisero che a parlare sarebbe stata Sharon.

Cosa speravano di fare? Gli sembravo per caso il loro paziente da visitare? Ero una malattia tutta da diagnosticare? Credevano di poter ottenere qualcosa dalla mia mente contorta?

I nervi cominciarono a farsi sentire, li ignorai e continuavo a contemplare fuori dal finestrino, dove tutto sembrava non avere limiti e nemmeno distanza.

    -   “ C’è una causa particolare a scatenare la tua rabbia oppure è semplicemente un giorno con la luna storta?” chiese cauta temendo ogni mia possibile reazione.

    -   “ Ho dormito male tutto qui, niente di particolare o preoccupante.  Tranquilli, non si ripeterà questa scenata a scuola se è questo che temete, non attirerò l’attenzione...”.

Quest’ ultima frase uscì dalla mia bocca quasi come un ringhio soffocato tra i denti, eccolo lì, il segno che aspettavano, la scintilla che avrebbe fatto scatenare un putiferio nel mio stomaco, un putiferio chiamato terrore.

Avrei risposto con aggressività lo sapevo, ci sarebbero rimasti malissimo e non mi andava giù.

Dovevo rimanere calma, afferrare le redini di quella assurda situazione e tirarle con forza verso di me, rallentare per poi fermarmi.

Volsero i loro occhi verso i piedi cercando una risposta nel silenzio che era calato tra di noi come un velo di           quasi trasparente ma robustissimo, quella che non comportasse alcun responso negativo, avevo capito: non volevano farmi agitare ancora di più, ormai era finita, avevano percepito un’ aria diversa, avrebbero fatto domande, avrebbero preteso delle risposte e la mia giornata si sarebbe conclusa ancora prima di cominciare… Non me la sentivo… Non era il momento adatto, non l’ultimo giorno di scuola e non in quel modo. Sviare il discorso era inutile, tacere era ancora peggio, l’unica mia speranza era mentire ma sapevo cosa avrebbe comportato in futuro quel sacco di bugie che ero pronta a svuotargli addosso: dolore. Solo più dolore del solito, più di tutte quelle lacrime previste, più di ogni addio che avrei dovuto patire quel giorno.

Perchè avrei dovuto provocare tutto questo solo per qualche giorno di vantaggio in più? Non aveva senso!

Ero combattuta tra me stessa: dire la verità in quel momento e sperare in una comprensione compassionevole oppure aspettare e scatenare più dolore? Non avevo molto tempo, dovevo pensare in fretta.

-   “ Non volevo dire… “ mi fermai per sospirare, respirai profondamente e ripresi. Non era poi così tremendo dopotutto, sentivo ancora la Terra sotto i piedi.

-   “ Non so. Sul serio ragazzi, non so neanche io quello che volevo dire solo che oggi sono facilmente irascibile… scusatemi” dissi pronunciando le mie scuse con la testa bassa.

-   “ Non devi preoccuparti, abbiamo capito. È come se avessi affitto sulla fronte «Allontanarsi, pericolo di esplosione» aggiunse Felix allegramente come se non fosse successo nulla.

Mi sentii sollevata, avevo i miei amici dalla mia parte in qualche modo, non mi avrebbero disturbata quel giorno, ormai gli era chiaro: sarebbe stato meglio per chiunque non avvicinarsi a me quella mattina.

Mi conoscevano fin troppo bene, più di quanto io conoscessi me stessa. Da un certo punto di vista questo era inquietante ma anch’io conoscevo loro e sapevo che non mi avrebbero perdonata. No, non avrebbero perdonato qualcuno che gli avesse mentito per più di due mesi. Forse avrei potuto  avere qualche speranza se gli avessi detto che i miei mi stavano minacciando ma purtroppo per me, conoscevano anche loro, non avrebbero mai fatto una cosa del genere, una bassezza di quel livello. No, non avrebbero mai potuto.

L’unica soluzione: dirgli tutto dalla A alla Z e senza bugie, in quell’istante: niente lacrime, niente rimpianti, niente suppliche, il più totale niente.

Avevo già riferito loro che stavo bene, sganciare una bomba del genere mi sembrava incoerente, andava contro il mio essere ma dopotutto gli avevo già mentito…

Questo invece non era contro il mio io? Mi era del tutto normale mentire? Quel talento di attrice cominciava a spaventarmi. Sarebbe diventato normale per me recitare la mia vita invece di viverla come solitamente si dovrebbe? Il mio oscuro e misterioso destino sarebbe diventato solo un mucchio di pagine con delle battute da seguire alla lettera?

-   “ Capita anche a me qualche volta” proferì Sharon

-   “ In realtà capita a tutti ma c’è chi lo nasconde meglio rispetto agli altri” concluse velocemente come per correggersi.

-   “ Si lo so, ma io non so recitare, non posso tenermi dentro quello che sento”.

No, non ci credo… sto mentendo… ancora! Sono capace eccome! Devo fermarmi, basta! Basta, basta, basta!! Tappati quella dannata bocca, non devi più parlare!

Usai l’imperativo su me stessa, dovevo tacere ad ogni costo.

Con sorpresa mi accorsi che la mia mano si era affiancata alla mia bocca impedendo alla voce di uscire inutilmente dalla mia gola che in quel momento sembrava stesse bramando contro di me.

Il gesto fu veloce, il palmo premette contro le labbra con forza.

Preoccupati, azzardarono uno scatto verso di me in preda al panico.

-   “ Stai bene? Devi vomitare?” chiese ansiosa Sharon

-   “ Hai la febbre? Hai mangiato niente di strano a colazione?” continuò Felix come per completare la frase precedente

-   “ Hai visto la data di scadenza dei biscotti? Oppure hai controllato la pressione sanguigna?” domandò la testina bionda guardandosi intorno e posando la  mano tremolante sulla mia fronte.

Non capivo più niente, mi avevano fatto agitare e non ero a conoscenza dell’esatto motivo, poi infine ci arrivai e all’improvviso risposi interrompendoli:

-   “ No no, fermi sto bene, sto benissimo, ho solo… il singhiozz…”

non mi fece finire di parlare, ritrovai il mio corpo a stretto contatto con quello di Felix, mi guardai tra le sue possenti e atletiche braccia come quando lo sposo prende in braccio la sposa prima di entrare per la prima volta nella casa in cui avrebbero passato tutta la loro vita .

Trasalii alla visione di quella scena che vagava nella mia mente, cercai di guardarmi intorno ma improvvisamente percepii una fitta allo stomaco o forse un po’ più in su e lasciai cadere la testa sul suo petto.

Era sicuro: non capivo più nulla.

Mi vide mentre mi accasciavo e decise di intervenire:

-   “ Chiama Antony, avvisalo che la porto in ospedale poi cerca Axel, avvertilo, rimani con lui e andate a scuola, vi chiamo io più tardi”

sentii la sua voce rimbombare nell’orecchio posato all’altezza del suo cuore.

-   “ Ok” rispose velocemente, incamminandosi alla ricerca di mio fratello.

-   “Tranquilla, alla prima fermata scendiamo e ti porto in ospedale, con qualsiasi mezzo” mi riferì togliendomi i capelli dal viso.

Mi contemplava preoccupato, era impaziente, voleva portarmi in ospedale il più presto possibile ma il treno non si fermava.

Lo conoscevo, in quel momento stava seriamente pensando di saltare fuori dal finestrino ma sapeva benissimo che ci avrebbe ammazzati tutti e due così, iniziò a borbottare tra sé e sé alzando gli occhi al cielo.

«Bip Bip» squillò il suo cellulare.

Lo estrasse dalla tasca destra e lesse il messaggio: era Sharon.

«Ho avvertito Antony, gli ho spiegato tutto e quando ho detto che era con te credo che si sia tranquillizzato almeno un po’, ho trovato Axel e dice che vedendomi così ho bisogno di lui più io che lei.

Ti raggiungo dopo la scuola. Lascio il cellulare acceso, chiamami se ci sono novità» concluse.

Fel finì di leggere e ripose l’oggetto in tasca tenendomi stretta con un braccio solo: quanta forza aveva.

Il treno finalmente si fermò e prima che aprissero tutti i portelloni, mi sussurrò all’orecchio:

-   “ Scusami in anticipo Ell, so che non ami essere al centro del palcoscenico ma lo faccio per te”.

Lo fissavo dritto nei suoi occhini verdi smeraldo. Volevo fermarlo, picchiarlo e ringraziarlo tutto contemporaneamente ma la mia gola emetteva solo grugniti, niente di più e niente di meno.

Si aprirono i portelloni e si scagliò verso l’uscita e chiamò con la mano un taxi.

Chiusi le palpebre e riaprendole vidi me e Felix nel veicolo. La mia testa era poggiata sulle sua gambe e lui era chino su di me sussurrandomi parole incoraggianti:

-   “ Dai, sei solo un po’ pallidoccia, hai le labbra secche, le mani congelate, le ginocchia tremolanti e poi… da quando hai anche le occhiaie?!?”.

Ogni parola che pronunciava era carica di tensione, stavo male ma non riuscivo a ricordare l’inizio di tutto, da quale esatto momento ho iniziato a non avere neanche la forza di alzare la testa?

Non mi accorsi di niente, ero in quelle condizioni e non ne sapevo nulla. Cercai di tirarlo un po’ su parlandogli:

-   “ Grazie mille Fel, mi hai descritta peggio di una zombie. Tu sì che sai fare bei bellissimi complimenti alle donne”.

Emisi un lamento non previsto che rovinò la mia battuta me mi riscattai ostentando un sorrisetto.

-   “ Beh mi conosci, la sincerità prima di tutto” sogghignò.

-   “ Si… si vero, sei proprio così”.

Alzò lo sguardo verso l’autista e chiese provocandolo:

-   “ Potrebbe andare più veloce? Sa com’ è, vorrei arrivare prima di quella tartaruga laggiù”.

Gli diedi un colpetto sulla gamba come per rimproverarlo ma, viste le mie forze, non ero convinta che lo avesse percepito: ma che diavolo di situazione!

-   “ Siamo arrivati Mr Simpatia” sputò il signore basso e pelato.

-   “ Grazie al cielo! Le lascio i soldi qui dietro e tenga la mancia anche se non la merita!” esclamò seccato.

Non aspettò neanche una sua risposta, mi riprese tra le braccia e incominciò a correre verso l’entrata del tanto atteso ospedale.

Decise di non aspettare l’ascensore e così arrivammo al pronto soccorso in un attimo. Si guardava intorno esasperato, non sapeva cosa fare, con chi parlare, a chi chiedere cosa poteva fare o con chi parlare.

Era vicino all’esaurimento nervoso.

-   “ Domanda a quell’infermiera laggiù” suggerii tentando di aiutarlo.

-   “ Scusi, dove posso portarla?”

-   “ La può posare sulla barella, faremo tutto noi. Lei deve solo compilare questi moduli” gli disse porgendogli dei fogli di carta.

Mi posò sul lettino, mi stampò un bacio sulla fronte e prese i fogli in mano sforzandosi di capire quello che ci fosse scritto sopra. Anche lui era agitato come me anzi, forse anche di più.

-   “ Lei è un parente?” chiese mentre poneva una mascherina sulla mia bocca.

-   “ No, ehm… si, diciamo si e no, no no, credo di no” balbettò incerto.

-   “ Ok si calmi ora, chiami un parente e si accomodi in sala d’attesa, prende un caffé o una camomilla e si rilassi, non vorrà far preoccupare ancora di più la fidanzata vero?” disse rivolgendosi a Felix come se fosse un bambino.

Aspetta un momento… NO! Fidanzata? Io? Con lui? No! C’è un errore! Che casino! No, non posso agitarmi ancora, non importa, che pensi ciò che vuole!

-   “ Si, ha perfettamente ragione, vado subito” la accontentò.

-   “ Io sono qui se ti servo ok? Lancia un urlo e sarò lì da te in un attimo, anche di meno se sarò veloce. Promesso”.

-   “ Ok” risposi con un sorriso compiaciuto.

Mi portarono via, Felix sparì dietro una porta di vetro ed io pensavo a tutto, come 20 minuti fa fossi ancora nel treno a pensare al mio futuro, alla catastrofe, a come i miei amici tenessero a me e, francamente, pensai anche a come sarebbe stato essere davvero la sua fidanzata.

Trasalii… sarebbe esattamente la stessa cosa. Mi avrebbe portata all’ospedale nello stesso modo, l’unico dettaglio che sarebbe cambiato era il bacio sulla fronte che si sarebbe spostato solo di qualche centimetro più in giù.

Arrossii ma anche in quel modo ero pallida. Non dovevo pensarci, anche se ero stupita dal fatto che fosse ancora single nonostante il suo carattere dolcissimo e affettuoso, il suo fisico degno di una statua di marmo perfetta e indistruttibile, la sua voce che risuonava come la canzone più soave del mondo… Smettila! Mi rimproverai. È così punto e a capo, non sono affari miei!

Per svagarmi osservavo tutti i dottori che passavano da una stanza all’altra.

Trasportavano siringhe, bende, flebo, cerotti, garze e tutto l’arsenale; ogni volta che vedevo qualcuno speravo con tutto il cuore che non stesse per avvicinarsi a me con qualche strana macchina che emetteva rumori altrettanto strani.

Dove diavolo mi trovo? Che ci faccio io qui?

Continuavo a respirare ossigeno puro e finalmente un’infermiera mi trasportò in una stanza, puntò la luce sul mio volto, estrasse la siringa dalla tasca dal camice e la conficcò nel mio braccio.

Vidi tutto a puntini colorati, il viso della donna si contorceva come un quadro astratto e perdevo sensibilità alle dita poi, il buio.

No dai non si può lasciare una ragazza in questa condizioni! giuro di farvi avere sue notizie al più presto =) lasciate recensioni grazie mille! =)

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Capitolo 4
*** Il risveglio ***


il risveglio

CAPITOLO 3       Il risveglio


Ero convinta di essere cosciente, avevo immaginato tutto: la siringa che estraeva il sangue dalle vene, lo sguardo attento della donna, le mie ginocchia stese sul lettino e persino il dolore.

Sembrava così reale, tanto da convincermi che non fossi mai svenuta e che non avessi mai chiuso gli occhi; era la più forte illusione che avessi mai provato, non credevo che una cosa del genere potesse addirittura creare una falsa realtà, insomma, era possibile che una vita potesse essere basata solo su un mucchio di perfette illusioni?

Mi accorsi di aver perso i sensi solo quando ebbi la certezza che i mie occhi fossero aperti anche se temevo fosse un’altra illusione.

Cercai allora di “mettere alla prova” i miei cinque sensi: avevo gli occhi spalancati e vedevo il soffitto bianco che incontrava qualche crepatura nell’angolo destro della stanza, le veneziane che al contatto con la luce irradiavano l’aria di fantastiche forme colorate… Era certo, vedevo.

Punto numero 2: l’olfatto. Respiravo, ma non quell’aria che emanava la mascherina ma bensì quella umida e degna di un freddo giorno di Dicembre; tra gli odori mi sembrava di aver percepito anche un profumo di fiori. Probabilmente sono quelli che servono per abbellire postacci come questo. Pensai.

Per testare l’udito mi bastava starmene in silenzio ed ascoltare il battito del mio cuore o il ritmo del mio respiro. Non percepivo altri rumori nella bianca stanza e non mi sembrava di aver sentito nulla che arrivasse da fuori la porta o dalla finestra.

Il silenzio più totale, quello che avresti desiderato dopo una mattinata passata nel traffico di Seattle, quello che bastava a far scatenare la bufera dei pensieri che non avresti mai immaginati di avere accantonati in un angolo della testa, quello che, a dire il vero, un po’ mi spaventava.

Decisi allora di accendere la tv per eliminare quel fastidioso rumore, nonché il silenzio, buttai una mano sul comodino e iniziai a tastare cosa ci fosse sopra, alla ricerca del telecomando.

Da quello che avevo capito c’erano una lampada, dei centrini, un cellulare, un vaso con dei fiori ed il mio ricercato telecomando. Spostai lo sguardo sul comodino per accertarmi che tutto quello che avessi ipotizzato,fosse quello che realmente c’era, in effetti fu così.

Premetti un tasto e la televisione si accese su un canale culinario; avevo tanta fame e quel programma non faceva che stuzzicare il mio appetito, di lì a poco mi ritrovai a pensare che ore fossero, dopo tutto i miei sensi erano apposto, quella che provavo era reale, avevo solo l’ultima cosa da fare: collaudare il mio gusto.

Non avevo la più pallida idea di dove poter trovare del cibo, pensandoci bene non avevo neanche realizzata in che posto fossi.

Alzai la testa dal cuscino e mi misi seduta sul letto cercando di aver la miglio prospettiva possibile. Dove diavolo sono? Mi ripetevo costantemente,  cosa? Una flebo attaccata al mio braccio?Ma che schifo! Pensai con un’espressione nauseata. Odiavo gli aghi, dovevano proprio ficcarsi dentro di me? No,mi faceva troppa impressione, così decisi di strapparmi il cerotto che teneva saldato il mio braccio a quel liquido infernale. Sentii l’ago uscire dalla mia vena che grondava sangue da quel minuscolo buchetto. Tamponai con un po’ d’ovatta  e misi le pantofole, pronta ad esplorare un nuovo luogo in cerca di cibo.

Pensai bene di portare con me il cellulare:

-        “ Non si sa mai, potrebbe sempre servire” sussurrai infilandomi la vestaglia.

Mi alzai dal letto cercando il mio equilibrio che, grazie al cielo, ritrovai prima di cadere per terra come un sacco di patate.

Passo dopo passo mi avvicinavo alla porta lentamente non sapendo cosa mi aspettasse o meglio chi mi aspettasse.

Non sono mica capitata in un film horror! Ci sarà pur qualcuno qui! Anche se la faccenda degli aghi mi fa paura…

Afferrai la maniglia, oltrepassai la soglia e mi chiusi la porta alle spalle.

Il rumore dei fornelli provenienti dalla televisione in camere si percepiva a malapena mentre il corridoio era rumoroso, sentivo delle voci, il suono delle rotelle che slittavano sul pavimento piastrellato, delle urla, qualcuno che piangeva e perfino il ticchettare di qualche stramba macchina ospedaliera… eppure non vedevo nessuno, non ero ancora del tutto convinta che fosse stato tutto strano o se fossi io quella che non stesse bene. D'altronde ero finita all’ospedale, qualcosa che non andasse bene doveva esserci per forza!

Più che camminare sembrava che fluttuassi, i miei piedi erano coperti dalla lunga vestaglia di nylon e il mio aspetto faceva subito pensare ad un fantasma in cerca di vendetta. Io non cercavo vendetta ma solo un volto amico, anzi mi sarebbe bastato un volto qualsiasi, infondo, dovevo solo domandargli se fosse tutto vero e se quel reparto fosse effettivamente occupato solo da me. In quel caso sarei etichettata proprio come una squilibrata.

Vagavo per il corridoio guardando ad intervalli regolari prima il pavimento e poi davanti a me.

Persi la cognizione del tempo e la mia testa si era appesantita ogni minuto sempre di più da quando non avevo quella cosa attaccata al mio braccio.

Fortunatamente scorsi  una sagoma non più lontana da me di cinque o sei metri. La fissai, mi era famigliare, era un uomo ma non era né Felix né tantomeno mio padre.

E ora chi diavolo è questo?Perfetto, sono morta, me lo sento: morirò! Ma cosa sto dicendo? Sono impazzita? Che pensieri stupidi! Riflettei accantonando l’idea della morte.

-        “Hey tu, stai bene? Sembri tanto un fantasma sai? Ti consiglio di andare a dormire” urlò la sagoma che ormai era pericolosamente vicina.

-        “ Ascolta, se vuoi chiamo qualcuno che possa aiut… Ellen? Sei proprio tu?” esclamò sorpreso.

Non riuscivo proprio a distinguere le forme del viso.

-        “ Sei davvero orrenda, complimenti! Mancavi solo tu a rendere questo posto ancora più macabro. Sinceramente spero solo di andare a casa a spupaz… ehm… a parlare con Sharon per molto tempo. Sai come sono fatto, ho bisogno di tante attenzioni” rivelò l’ombra.

Un momento, cosa ha detto? Spupazzarmi Sharon? Sai come sono fatto? Magari potevo non vedere bene ma 2 + 2 ero ancora in grado di farlo. Nonostante la facilità del calcolo potevo sempre sbagliarmi così, decisi di rispondergli con una domanda:

-        “ Axel? Sei davvero tu?”

-        “ E chi sennò, un sexy e fashion Babbo Natale un po’ in anticipo? Certo che sono io! Ma per caso ti ho già detto che sei inguardabile?” rispose ironicamente ma anche con una punta di presunzione.

-        “ Almeno io non sto bene! Tu sei stomachevole anche in perfetta salute!” gli feci una linguaccia.

-        “ Tutto apposto, stai bene. Ti sei ripresa solo perché ti mancava insultarmi?” sorrise.

-        “ Non lo so, so solo che ora ho una fame da lupi. Potresti accompagnarmi a mangiare qualcosa caro Babbo Natale?” sogghignai.

-        “ Ma certo! Muoio di fame anche io! E credo che possiamo anche tenercelo il nostro appetito…” sbuffò sconsolato.

-        “ Come mai?” chiesi insospettita.

-        “ È da tre giorni che cucinano sempre le stesse schifezze qui… Ammetto di aver assaggiato il pollo e credo che sia stata l’unica cosa commestibile in questo posto. Forse se proviamo a mischiarlo con qualche salsa riusciamo a …”

-        “ Scusa come hai detto?” spalancai gli occhi.

-        “ Che penso di riuscire a salvare il pollo”.

-        “ No prima. Da quanto giorni?” alzai il tono.

-        “ Esattamente tre giorni e sei ore. Perché me lo chiedi?”.

-        “ Che ora è? Che giorno?” aumentavo sempre di più il volume.

-         “ Non hai fatto un viaggio nel futuro, sono sempre le 11:30 del 18 Dicembre 2010. Mi spiace deluderti” fece spallucce.

-        “ Vuoi dirmi che ho dormito per tre giorni filati senza alzarmi nemmeno per cinque minuti? Urlavo…

-        “Calmati sorellina! Si, è così. Tu si che sai recuperare le ore perse. De dovessi recuperare io tutte quelle perse con Shay mi sveglierei nel 2100!”

-        “ Che presuntuoso! Pensare che Sharon venga a letto con te mi dà i brividi. Poveretta! Ho sempre dedotto che avesse qualche serio problema alla vista!” lo stuzzicai.

 

Rispose semplicemente alzando un sopracciglio come se volesse dirmi «Ah, Ah, Ah, ma quanto sei simpatica!».

Parlando con Axel il tempo passava e aveva ripreso ogni sua forma e consistenza. Avevo solo dimenticato che in quel momento la testa era pesante come un’incudine da 1000 Kg e le gambe mi reggevano per miracolo.

-        “Reggimi” gli dissi con tono impercettibile ma lui, non so come mi sentì comunque.

 

Mi lasciai andare, sapendo o sperando che mi avesse sorretto, lui posò il suo braccio sul mio fianco e mi riportò in camera si accorse che la flebo continuava a scorrere a vuoto.

-        “Hai autonomamente deciso di lasciarti morire oppure c’è una spiegazione valida per questa flebo che dovrebbe, e dico dovrebbe, essere attaccata al tuo braccio?” mi sgridò incazzato nero.

-        “Sai quanto mi danno fastidio, non le sopporto! Preferirei bere quella cosa tutto d’un fiato piuttosto che farmi bucherellare come un colapasta”.

-        “Non puoi non tenerla! Vuoi capire che è per il tuo bene?”.

-        “Ah si? Se è così importante allora dimmi almeno che cos’è!” berciai.

-        “Sei furba sai? Tu sai perfettamente che non ne capisco nulla di queste cose! Se l’hanno messa lì ci sarà un motivo! E poi non centra nulla sapere che cosa sia, se serve a farti sentire meglio basta ed avanza!”

-        “Ti preoccupi per me adesso? E da quando?” sbraitai offensivamente.

-        “Da sempre! Mi sono preoccupato quando ti è venuto il morbillo a tre anni, mi sono preoccupato quando ti sei rotta il naso a sette e quando ti hanno ingessata il braccio a dodici… E mi sono preoccupato tre giorni fa, quando Sharon in preda al terrore mi ha avvertito che Fel ti stava portando in ospedale. Ti basta? In realtà ho sempre voluto proteggerti e, per quanto sia inutile negarlo agli altri e a me stesso, è una cosa che mi porterò dietro per tutta la vita. Sei pur sempre mia sorella Ellen. Ti voglio bene…”

 

Il suo tono era decisamente più alto del mio anche se nell’ultima parte si sentì un leggero tremolio nella voce, come se volesse piangere.

Mi sentivo… non lo so… ero…

Sono una stronza! Una stronza che parla solo per fare qualcosa! Vorrei tanto picchiarmi da sola. Ti preoccupi per me adesso? Ma che cavolo di esclamazione è? Ha sempre pensato a me e io lo rimprovero per una cosa che non è assolutamente vera? Ho proprio bisogno di una T.A.C. al cervello!

Cosa potevo fare per salvare la situazione? Dare le mie scuse era assolutamente dovuto e poi? Cos’altro?

-        “Scusa Axel, hai regione tu, sono una totale cretina… con la storia del trasferimento sono andata in tilt. Non so  che fare, che pensare, o peggio ancora cosa dire” avevo gli occhi lucidi, non era un bene.

Se avrei iniziato a piangere, molto probabilmente, avrei risucchiato Axel in quel baratro con me. Dopotutto anche lui doveva abbandonare tutti i suoi amici, la sua squadra di basket e anche la sua ragazza. Sarebbe stata più dura per lui che per me. Incominciai a pensare a quanto forte dovesse essere mio fratello, a quanto fosse più forte di me nell’affrontare le situazioni.

-        “Non importa, lascia stare. Siamo un po’ tutti frastornati. Ora stenditi e, per favore, flebati”.

-        “Flebati? Ma che temine è?” chiesi sogghignando.

-        “Uno nuovo, dicono sempre che arricchire il vocabolario fa bene al cervello” sorrise indicando la tempia.

-        “Si vero, ma con parole esistenti, non devi inventarle tu!” scoppiai in una risatina piacevole.

 

Riusciva sempre a farmi ridere, lo consideravo ormai un suo superpotere.

 

-        “Su, dai, dettagli!” esclamò divertito.

-        “Comunque non scherzo, sbrigati!” continuò cambiando bruscamente espressione.

-        “Ok, altri cinque minuti va bene?” cercai di patteggiare.

-        “Te ne concedo due”.

 

Si voltò e uscì dalla stanza. Non c’era bisogno che mi dicesse dove stesse andando, lo sapevo già.

Sarebbe tornato con due piatti di pollo in mano, seguito da mamma e papà.

Non aspettavo altro che rivedere la mia famiglia al completo, in effetti, non li vedevo da tre giorni.

E così si conclude il terzo capitolo, mamma mia come passa il tempo ^.^  Comunque spero che vi sia piaciuto e per farmelo sapere commentateeeeeeeeeeeee!! grazie mille =)

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Capitolo 5
*** Sorpresa! ***


Sorpresa!

CAPITOLO 4    Sorpresa!

 

 

Guardavo la flebo con disprezzo. Avevo solo due minuti e poi Axel sarebbe tornato in camera e, sicuramente, avrebbe controllato il mio braccio.

Afferrai l’ago e lo fissai a lungo, sprecando così i miei preziosi minuti di tregua.

Prima che potessi conficcarlo nella vena, bussarono alla porta. Fui immediatamente grata di avere delle visite, speravo solo che non fosse mio fratello.

-         “Posso entrare?” chiese una voce stridula.

-         “S-Si, avanti” balbettai non sapendo chi fosse.

La porta si aprì e, cautamente, un’infermiera entrò, trasportando un piccolo carrello. Si chiuse la porta alle spalle e mi guardò imbarazzata.

-         “Sono venuta per…” si decise a parlare ma la fermai.

-         “Si, lo so, a sostituirmi la flebo o per controllare che la abbia al braccio” dissi sicura di me porgendogli l’arto.

Osservavo le sue guance che attimo dopo attimo si arrossivano sempre di più.

Iniziavo ad insospettirmi. Perché era tanto impacciata? Era forse il suo primo giorno e non aveva preso confidenza o, semplicemente, lo era già per fatti suoi?

-         “No, veramente no. Mi scusi se sono arrossita ma suo fratello Axel…”

-         “Ha fatto il cretino con lei? Appena torna  gliene dico quattro!”.

-         “No, no, assolutamente. Ha solo fatto una richiesta ma, scusi la sincerità, è davvero molto, molto carino”.

Adesso si che era davvero rossa dalla vergogna. Era un’altra ragazza castana nel suo fascino da giocatore di basket.

-         “ Oh bene, scusami tu allora… comunque… se non è per la flebo, che richiesta le ha fatto?” domandai incuriosita alla giovane donna con il camice bianco.

-         “Mi ha solo chiesto di portarle questi”.

Sollevò il telo che ricopriva il carrello, prese due piatti e mi porse: pollo e pancakes.

-         “Oh, grazie mille, in effetti morivo di fame!”

-         “Di nulla, si figuri”.

Strava per voltarsi ed uscire dalla stanza ma, avendo un dubbio chiesi:

-         “Mi scusi!” feci per chiamarla.

-         “Si? Mi dica” rispose disponibile voltandosi verso di me.

-         “ Per caso, qui in ospedale, cucinano i pancakes? Francamente, non sembra affatto un dolce preparato qui”.

-         “No, credo che quei pancakes siano un regalo da una certa S-Shay… almeno credo si chiamasse così: una ragazza biondina, occhi azzurri e magrolina”.

Parlava di Sharon così tristemente che in quel momento capì che questa giovane dai capelli raccolti in una retina, aveva afferrato che Axel fosse fidanzato.

-         “Grazie mille!” risposi semplicemente aprendomi in un sorriso splendente.

Abbandonò la sala guardandosi i piedi, trascinandosi il carrello sconsolatamente.

Sharon sei il mio mito! La mia salvezza!

I pancakes con cioccolato, noccioline e tanta, tanta panna, proprio come piacevano a me. Mi conosceva proprio bene.

Aspetta un attimo! Shay è qui! Perché non viene a trovarmi? Potevamo mangiare insieme, parlare, passare il tempo… forse… è passata quando dormivo o peggio non è entrata perché non voleva vedermi così! No, non è da lei.

-         “Non azzardati a mangiare quelle delizie da sola! Stiamo morendo tutti di fame qui! Abbi pietà e dividiamo!”

-         “Shay, Fel! Che bello vedervi! Fatevi abbracciare!”

Si avvicinarono e ci stringemmo in un caloroso abbraccio collettivo.

-         “Che fai Fel, mi sbavi addosso? Non preoccuparti, mangeremo presto!” sorrisi allegramente seguita dai due.

-         “Come stai adesso?”.

Stavo per risponderle ma mi interruppe appena aprii bocca.

-         “No zitta, lo so già. Si mia adorata amica, mi sono informata e vuoi sapere una buona notizia?”

-         “Domani torni a casa!” canticchiò Felix gioioso come non mai.

Gli saltai addosso per la ferità, abbracciandolo forte. Con coda dell’occhio vidi Sharon mentre alzava gli occhi al cielo e scuoteva la testa mostrando il suo disaccordo.

Mi staccai da Felix e mi voltai verso di lei che mi guardava scherzosamente offesa:

-         “Non è che per caso ora sono seconda nella tua graduatoria vero? Se è così, sappi che sarò costretta ad uccidere il qui presente usurpatore”.

-         “Dai Shay, non rivolgerti così a questo poverino” dissi scompigliando i capelli di lui con la mano.

-         “Si, si, certo, passami pure in secondo piano, te ne pentirai amaramente cara mia e sappi che non ti preparerò più…”

«Drin drin» trillò il cellulare di Shay.

Io e Felix continuavamo ad insultarci facendoci il solletico.

-         “Scusate è mamma, devo proprio rispondere”.

Ridevo a crepapelle combinando un baccano tremendo.

-         “Mamma! Non ti sento! Grida! Oh ragazzi, che caos! Esco fuori a vedere se c’è linea e vado lontana da voi! Ma riprenderemo il discorso più tardi!” disse uscendo dalla porta in cerca di silenzio.

La porta sbattè e per un ci fermammo.

Io lo fissavo e lui fissava me.

Sicuramente vuole mangiare i pancakes senza Sharon e ora inizierà a supplicarmi.

Invece mi… baciò. Si, proprio così, prese il mio viso tra le mani e mi baciò sulle labbra. Non sapevo quello che facevo eppure le mia labbra si muovevano con le sue, in armonia perfetta. Gli gettai le braccia al collo e lo spinsi contro di me con una forza incredibile. Lo desideravo, lo desideravo tanto. La sua mano era sul mio viso e l’altra tracciava il percorso della spina dorsale sulla mia schiena.

Quando la sua prese mi avvolse, sentii un brivido sulla pelle, che arrivò dritto al cervello. Quel tremito mi svegliò, finalmente, mi chiesi cosa stessi facendo.

Sapevo di dovermi staccare da lui ma non volevo, non riuscivo. Felix non aveva intenzione di lasciarmi, mi feci coraggio e dolcemente allontanai il mio corpo dal suo con espressione afflitta.

Non conoscevo il dopo di quelle situazioni ma, il prima mi aveva fatto tremare il cuore.

Mi guardò con quegli occhi verdi maledettamente profondi e mi fissò come se avesse voluto dirmi “c’è qualcosa che non và?” oppure “ Tu sei d’accordo?”.

Ovviamente  non sapevo che dire. Gli presi la mano e ricambiai lo sguardo.

Non so perché lo feci ma mi venne spontaneo.

Lo guardavo e tornavo indietro con i pensieri, ricordando quel momento.

Due calamite che generavano il campo magnetico più potente che abbia mai visto. Pensavo a come poter resistere a quei due smeraldi che avevo di fronte.

-         “Scusate, mia madre è una rompiscatole! Allora diceva…?”.

Aveva visto: le sue mani nelle mie, che ci fissavamo, vide tutto.

-         “Finalmente sei tornata! Se avresti tardato anche altri due minuti, Felix avrebbe fatto fuori tutto! Gli ho bloccato le mani sperando di guadagnare tempo” improvvisai… mentendo.

Ci fissò per un po’… prima me e poi lui, tutto in religioso silenzio.

Ti prego, ti prego, ti prego… supplicavo.

-         “Felix…” lo chiamò fissando il vuoto.

Merda! Ha capito! Addio amici per sempre!

-         “Si?”  rispose guardingo.

-         “Tu sei un uomo morto! Come hai osato, anche solo pensare di mangiare i miei pancakes da solo eh? Ingordo?” urlò con voce squillante fondandosi su di lui per dargli un pugno sulla spalla.

Tirammo un sospiro di sollievo, mi aveva creduto.

-         “E comunque sei fortunato oggi, non posso vendicarmi adesso, c’è Axel che vuole dirti qualcosa. L’ho visto nella sala dei distributori automatici” sbuffò.

-         “Si grazie, ci vado subito”.

Sfilò le mani da quel groviglio e si diresse verso Axel.

-         “Non mangerete tutti i pancakes da sole vero? Mi aspetterete…” supplicò scherzosamente.

-         “Sparisci ingordo che non sei altro!” disse Sharon mostrando la lingua.

Lo vidi sparire ancora una volta dietro una porta. Ultimamente ci dividevamo così.

Rimanemmo sole, io presi il piatto con i dolci cercando di tentare Shay, del tutto ignara di ciò che stesse per accadere.

Misi il piatto proprio sotto il suo naso e lei con una mano lo scostò.

-         “Dimmi tutto Ell! Voglio la verità! Sarò anche carina, simpatica, allegra, intelligente, acuta, carismatica, elegan…”

-         “Shay!” la fermai prima che potesse elencate tutti i suoi pregi.

-         Insomma, sarò anche tutto questo ma non sono scema Ell! Cos’è successo mentre non c’ero?” mi squadrò.

Rimasi in silenzio, non sapendo come poter descrivere la scena.

Dovevo negare tutto? Non me la sentivo, aveva ragione, non era stupida.

Cercavo di riassumere tutto in modo da poter raccontare quegli attimi di pura euforia eppure non riuscivo a trovare delle parole adeguate.

-         “Avanti! La storia dei pancakes non è per niente credibile. Sai che puoi dirmi tutto no? Lo hai baciato?”

-         Cosa ti fa credere che l’abbia baciato io?” mi innervosii.

-         “Perché ti piace, perché ti ha salvata la vita, perché avevi le sue mani nelle tue, perché…” catalogò indicandosi una dopo l’altra le dita come per contare le immense ragioni per cui avrei potuto farlo.

-         “Ok ok, potrà sembrare così ma… è stato lui” bisbigliai

-         “Lui? Wow… e da quando è innamorato di te? Com’è stato? Com’è iniziato? Non ho un’idea di come tu o Felix sappiate baciare, visto che non vi ho mai beccati farlo con nessuno. Ciò vuol dire che devi dirmi tutto.” Saltellava sul letto.

-         “Vuoi dirmi che non sei arrabbiata?” domandai sorpresa.

-         “No”.

-         “Neanche un po’?”.

Scosse la testa.

-         “Il pensiero di arrabbiarti neanche ti sfiora?”

-         “Assolutamente no”.

-         “Ma che vuol dire? Non capisci che questo potrebbe comportare dei cambiamenti enormi? Ammettiamo che io decidessi di fare coppia fissa con Felix e poi, dopo un po’, decidessi di lasciarlo? Non saremmo più amici… e io non voglio! Non ti dispiacerebbe affatto?” dissi agitandomi con le lacrime agli occhi.

-         “So che non accadrà. Vi volete bene, ci vogliamo bene. Non può separarci una cosa del genere, è troppo poco. Lui non può far a meno di te e tu lo stesso, è praticamente impossibile”.

Anche lei… mi guardava negli occhi e mi calmava. Era una parte di me, quella che adoravo di più.

Rimasi in silenzio, sperando che le sue parole fossero una sorta di premonizione.

-         “Ora, risolte queste questioni… vuoi dirmi tutto o no?” chiese con la voce di chi pretende qualcosa.

Aveva un sorrisetto malizioso sulla bocca e al vederlo iniziai a ridere, dimenticando le lacrime.

Le raccontai tutto senza molti giri di parole: le nostre labbra, il mio desiderio, il brivido, tutto.

-         “Ora si che sono realizzata!” sospirò raggiante.

-         “Posso chiederle come mai donzella?” dissi imitando la voce di un lord e accostando una ciocca di capelli sul labbro per creare dei baffi.

-         “Perché avevo ragione, perché avevo ragione…” cantilenò come una bambina.

Mi tappai le orecchie e iniziai a cantare per non ascoltarla.

Eravamo proprio due bambine.

Mentre continuavamo a giocare, arrivarono Axel e Felix.

-         “Siamo ancora in tempo?” curiosò Axel sbirciando sul piatto.

-         “Siete davvero baciati dalla fortuna oggi!” esclamò Sharon.

-         “Shay, avevi detto che Axel doveva dirmi qualcosa e invece…”

-         “Si scusa, mi sono confusa. Volevo fermarti ma eri già lontano”.

-         “Se non avete mangiato, che avete fatto?”

-         “Niente, fratellaccio ficcanaso! Non sono affari tuoi!” lo stuzzicai.

Felix mi lanciò un’occhiata interrogativa ed io, non so come, lo rassicurai non dicendo una parola.

Forse avevo anche io una specie di superpotere.

Non ero convinta di aver mandato il segnale giusto ma, in quel momento, mi sembrava la cosa migliore da fare.

Sapere che lo avevo rassicurato mi faceva sentire in un certo senso utile.

Smisi di pensare, il mio stomaco reclamava il suo pranzo.

Decidemmo finalmente di mangiare il tanto atteso pollo seguito dai pancakes.

Guardandomi intorno vedevo la mia felicità. Mi sentivo amata dalla mia famiglia, dai miei amici e da quel giorno anche da un altro punto di vista: mi sentivo amata dal mio amico… speciale.

Non ero pronta a chiamarlo ragazzo… tantomeno il mio ragazzo. 

Alzai lo sguardo su di lui e contemporaneamente lui su di me.

Possibile che avesse pensato la stessa cosa che avevo pensato io? Lui mi avrebbe mai chiamato la sua ragazza?

Tornava la sensazione: lo volevo, lo volevo accanto, lo volevo mio.

Quando tutti sarebbero andati via l’avrei fermato.

Avevo bisogno di lui, avevo bisogno di noi.

Grazie a tutti i lettori e anche qualche commento non sarebbe male! A prestooo!!!

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Capitolo 6
*** Maledetta scatola palpitante! ***


Maledetta scatola palpitante!

CAPITOLO 5     Maledetta scatola palpitante!

 

 

Axel si leccava i baffi  nella speranza di assaporare meglio il gusto dei pancakes che si era divorato in meno di due minuti, Felix raccoglieva con un dito le briciole rimaste sul piatto e Sharon mi guardava mentre avevo ancora tra le mani il mio ultimo pezzo traboccante di panna.

-         “Guardami quanto vuoi ma non ti cederò mai il mio ultimo pezzo, l’ho tenuto per ultimo apposta!” le dissi scuotendo la testa.

Mi guardavano tutti e tre o meglio,  guardavano il mio ultimo boccone con ingordigia.

-         “R-Ragazzi, non penserete davvero di privarmi del mio ultimo brandello di felicità?” recitai ironicamente.

-         “No, non preoccuparti. Non sentirai nulla se stai ferma!”

-         “Fratello famelico! Allontanati da me!”.

Misi una mano tra di noi come per poterlo fermare nel suo intento.

Con un balzo mi saltò addosso tentando di divorarmi anche l’intera mano se fosse stato necessario.

-         “Axel lascia in pace tua sorella!”.

-         “Mamma! Papà!” esultai dalla gioia lanciando in aria il dolce.

Axel lo riprese con la bocca.

-         “Può andarti di traverso, cretino!” esclamò preoccupata Shay che con la mano salutava i miei genitori.

Si guardava compiaciuto, era riuscito nel suo intento.

Felix accennò un movimento con testa e sorrise, era perfettamente a suo agio.

-         “Tesoro, non stringerci così forte! Abbiamo le ossa fragili!” tossì.

-         “Si , scusa papà ma non vi vedevo da molto tempo”.

-         “Siamo venuti a prendere la tua roba, come avrai saputo domani ti dimettono” mi disse mia madre con un sorrisone.

-         “Certo! Non vedo l’ora! Ma… cosa avevo? O cosa ho… non so ancora il motivo del mio ricovero, ti sembra normale?” chiesi preoccupata a mia madre.

-          “Avevi la pressione sanguigna alle stelle e non si stabilizzava, i medici temevano che avessi avuto un infarto cardiaco, avevi il cuore che stava per balzarti fuori dal petto. Poi hanno pensato all’ipertensione essenziale quando hanno notato che non ti svegliavi ma si sono tranquillizzati quando ti hanno vista cosciente… più o meno…”

Non risposi.

Capivo perfettamente cosa volessero dire tutte quelle parolone da dottori.

Io e mamma capivamo qualcosa di medicina mentre Axel e Antony, possiamo dire che se non ci fosse stata mamma mi avrebbero dato per morta solo per aver sentito nominare: ipertensione, infarto e cuore.

-         “Quindi il suo cuore non è apposto adesso?” domandò impaurita Sharon.

-         “No, è tutto ok, si è ripresa benissimo… per questo la lasciano andare già da domani” la tranquillizzò.

-         “Bene, io… voglio bene al mio cuore! Ogni tanto impazzisce ma è del tutto normale, tutti diamo i numeri  ogni tanto”.

-         “No, non è per niente normale!” berciò Felix aggrottando la fronte.

Ci teneva a me, lo faceva vedere tranquillamente a tutti, non ne aveva paura né vergogna.

Lo vidi così spaventato, nervoso, si sentiva impotente.

Non mi importò niente, dovevo tranquillizzarlo ma temevo che il mio superpotere non sarebbe bastato.

Mi diressi verso di lui abbracciandolo forte, le lacrime mi rigarono il volto.

Avrei voluto dirgli che io e il mio cuore non saremmo andati da nessuna parte ma non potevo. Saremo andati via, in Canada, dove avremo sofferto tutti e due: io e la mia imprevedibile scatola di metallo che mi batteva nel petto, incapaci di poterci opporre a quella sensazione.

Tutti nella stanza mi guardavano con tenerezza. La mia famiglia sapeva perfettamente il motivo del mio malessere.

-         “Dimmi che non permetterai al tuo stupido cuore di andare via…” supplicò Fel.

No, non te lo dirò. Non posso… cerca di capirmi ti prego…

-         “Felix, possiamo parlare?” lo invitò Axel con le mani in tasca e con  l’espressione più seria che abbia mai visto sul suo viso.

Mi voltai verso di lui, fulminandolo con lo sguardo.

-         “Ora o mai più” mi rispose rassegnato avendo notato la mia faccia.

Cosa? Sta per dirgli tutto? È impazzito? Non può farmi questo…

-         “Non lo fare, c’è ancora tempo. Lo prometto, lo farò io! Ti prego!” lo implorai.

-         “Capisci che non può continuare così? La vuoi smettere di fare del male a tutti?” sbraitò contro di me.

-         “Neanche tu hai detto niente alla tua ragazza e al tuo amico, anche tu fai del male a tutti! Sei codardo quanto me!” lo aggredii.

-         “È da tre settimane che prometti di dirlo, io non posso aspettare ancora: o lo dici adesso tu oppure lo faccio io”.

Né Shay né Fel riuscivano a trovare una logica nella nostra discussione, ascoltavano stupiti quella lite, non sapendo cosa pensare.

Percepii una fitta allo stomaco, esattamente come quella che ebbi sul treno.

Non posso svenire o dirà tutto! Non adesso, maledetta scatola palpitante! Aveva ragione Felix, ho un cuore stupido!

-         “Axel esci subito da qui!” ordinò mio padre.

-         “Cosa?” sbottò.

-         “ Hai sentito tuo padre? Muoviti!” lo spalleggiò mamma.

Uscì dalla stanza sbattendo la porta.

Mi sdraiai sul letto, cercai di regolare il battito cardiaco e chiusi gli occhi per concentrarmi.

Antony seguì mio fratello nel corridoio, i miei amici si guardavano l’un l’altro e mia madre mi mise al braccio la flebo che avevo dimenticato.

Sapevo di non averne bisogno, ormai il pericolo era passato.

Axel non poteva dire niente: lo avevano allontanato.

Alla prima occasione che gli fosse capitata gli avrebbe riferito tutto.

Devo farlo io. Magari quando starò meglio…

Stavo rimandando ancora una volta.

Gli dirò tutto quando starò meglio… lo prometto a me stessa.

-         “Non voglio riposare ancora, ho dormito abbastanza” sussurrai.

-         “Ok, ma rimani stesa intesi?” mise in chiaro Amanda.

Acconsentii facilmente, non avevo nessuna intenzione di alzarmi e nemmeno nessuna forza.

Si poteva perdere le forze in così poco tempo? Il corpo umano è una bomba ad orologeria, può esplodere da un momento all’altro per qualsiasi motivo, anche per il più superficiale.

-         “Tesoro, prendo la tua roba e corro a casa. Deve essere tutto pronto al tuo ritorno”.

Aprì l’armadio che si trovava di fronte al mio letto, afferrò un sacco di lenzuola, vestiti e asciugamani con un braccio solo mentre l’altro era occupato a ghermire due cuscini dall’altra anta.

La osservavo in tutta la sua agilità.

Non l’avevo mai vista fare le pulizie,noi avevamo Sofie, la nostra domestica che si occupava di tutto.

I miei genitori erano troppo occupati con il loro lavoro e noi con la scuola e le partite, ci serviva una mano: la casa era grande, aveva anche il giardino, la stanza da lavoro della mamma era sempre piena di stoffe e  nastrini buttati per terra, doveva cucinare, lavare, stirare, spolverare e poi… la stanza di Axel era una discarica monumentale.

Nonostante la sua età, se la cavava benissimo. Portava i suoi 54 anni con meravigliosa allegria.

Anche lei era parte della famiglia.

Ricordo che al suo dodicesimo mese di servizio, le arredammo una stanza tutta per lei in modo che potesse rimanere a dormire invece di guidare di notte fino a casa sua... dopotutto anche lei aveva una sua famiglia: un bellissimo bambino di tre anni e una sorella, Linda, che badava a lui quando lei lavorava, praticamente era la sua seconda mamma.

Geof era un pupo dagli occhi particolari: ne aveva uno verde ed uno castano.

In effetti Sofie aveva gli occhi verdi mentre il suo marito gli aveva castani, «una rara situazione genetica» dicevano i medici.

Purtroppo il signor Oliver non fece in tempo a vedere suo figlio nascere: perse la vita a causa di un tumore ai polmoni.

A metterci al corrente di tutto fu la sorella… da quel giorno la famiglia Fox e la famiglia Mills condivisero il tetto.

Lo spazio non mancava e sarebbe stato più comodo per Sofie così, decidemmo di unire le due famiglie.

Ne era entusiasta: si sentiva proprio a casa sua.

Aveva solo la famiglia un po’ più grande: io e Axel facevamo i babysitter a Geof, la mamma cuciva vestiti per tutti e papà… beh… portava lo stipendio.

In fin dei conti, ero dubbiosa… non vedevo Sofie nei paraggi… forse era rimasta a casa.

Il cigolio della porta mi distrasse, facendomi ritornare con i piedi per terra.

Sono sola adesso! Mi chiederanno della scenata fatta poco fa davanti ai loro occhi. Cosa cavolo dico? Non mi sono ripresa del tutto! No, stronzate! Mi sono ripresa eccome! Non mi nasconderò più ora, se chiederanno risponderò.

Silenzio totale.

Mi mangiavo le unghie per il nervoso.

Aspettavo che qualcuno parlasse, forse avevano paura del mio cuore.

-         “Vado a vedere come sta Axel” ruppe il silenzio Sharon.

-         “No! Non andare!” la fermai cercando di distrarla dalle sue intenzioni.

-         “Perché?” chiese dubbiosa.

-         “Dovresti farmi un favore” temporeggiai cercando una scusa giusta per fermarla senza dire nessuna bugia.

-         “E quello che sto cercando di fare, scemotta!” mi fece l’occhiolino senza farsi vedere da Felix.

Cosa? Non voleva davvero parlare con Axel? Era una scusa per lasciarci soli? Non voleva sapere nulla sulla lite? Non potevo azzardare una mossa del genere, dovevo assicurarmi in qualche modo che non sarebbe andata da mio fratello che rischiava di spifferarle tutto.

-         “Beh grazie, ma dovresti farmene un altro oltre a questo” dissi imbarazzata.

-         “E sarebbe?” chiese falsamente scocciata.

-         “Non parlare con Axel se lo vedi e se ti vuole parlare, tu non lo ascoltare… per favore, ti spiego tutto dopo, promesso”.

-         “Va bene… anche se mi stai chiedendo di non parlare al mio ragazzo. Lo posso almeno baciare? Giuro che non mi farò dire niente” domandò supplicandomi.

-         “Ma certo, quello che fate non mi riguarda. L’importante e non parlargli e non lasciare che ti parli. Puoi baciarlo ad oltranza per non fargli aprire bocca, per me va benissimo”.

-         “Ok, perfetto… allora… vado, a dopo”.

Fece una piroetta facendo svolazzare tutti i capelli e se ne andò.

Felix non diceva nulla, non alzava lo sguardo: se non lo conoscessi, avrei detto che fosse una statua di cera.

Pensava a qualcosa, probabilmente alla discussione con Axel.

Anche in quel momento speravo che non mi chiedesse nulla, avrei dato la notizia a tutti e due nello stesso modo e nello stesso momento.

Dalla sedia si spostò accanto a me sul letto.

-         “Devi dirmi qualcosa?” chiese freddamente senza alzare lo sguardo dal pavimento.

-         “Qualcosa a proposito di che?”.

-         “A proposito della lite con Axel”.

Presi fiato per rispondere in qualche modo vago ma mi pose un’altra domanda non appena aprii bocca.

-         “E Sharon sa di noi?”.

Finalmente alzò lo sguardo.

Come potevo nascondere quel problema ai suoi occhi?

Decisi di rispondere solo alla sua seconda domanda e sperando che si fosse aperto da lì a poco un nuovo discorso che non riguardava Axel e me.

-         “Si, Shay non è stupida. Ha capito tutto da sola non appena mi ha vista in faccia” gli sorrisi piegando leggermente la testa.

-         “Ah… ok. Ha detto qualcosa che esprimesse il suo dissenso? O disgusto, o disapprovazione, insomma hai capito”.

-         “No anzi, è contentissima per… noi”.

-         “Bene” mi rispose, solo un bene.

Rivolse ancora una volta lo sguardo sulle piastrelle della stanza.

Stava pensando troppo, si avvicinava il momento della verità ed io ero pronta a ritardarlo in qualsiasi modo.

-         “Non riesco a non pensarci, te lo devo chiedere…”

No, no, no, no, ti supplico, ti supplico…

-         “Cosa voleva dirci Axe…”

-         “Baciami!” lo interruppi avvicinando il mio viso al suo.

-         “Come? Hai per caso detto…”

-         “Ho detto baciami Felix” ripetei con voce tremolante.

Mi fissò per un po’… almeno… così mi sembrò.

Aveva capito che evitavo il discorso ma non controbatté, mi afferrò per i fianchi e mi tirò verso di sé.

Avrei voluto che quel momento non finisse mai.

Per me il sipario poteva benissimo calare in quel momento.

Continuavo a baciarlo e ad accarezzargli i capelli.

Il mio respiro gli appannò gli occhiali, li afferrai e li lanciai non so dove.

Si sentì il rumore provocato dalla caduta non molto lontano dal lettino che ormai, non ospitava solo un corpo ma due.

Lo avevo trascinato con me sulla branda, continuavo a baciarlo con passione, cominciò a baciarmi sul collo mentre io odoravo il suo profumo.

Io non mi sarei fermata, ero troppo coinvolta per farlo, non gli davo un attimo di libertà, neanche il tempo necessario per respirare.

Era inutile respirare, dopotutto il quel momento lui era il mio ossigeno ed io ero il suo.

-         “Dovrei farti questa domanda ogni volta per ottenere questo?” sorrise in quel piccolo istante di tregua.

-         “Non contarci troppo” gli sussurrai nell’orecchio sarcasticamente.

-         “La speranza è l’ultima a morire”

-         “Si certo”.

Continuavo a baciarlo, volevo solo sentire il suo sapore unirsi al mio, se avessi continuato così mia avrebbe scambiata per una maniaca.

-          “Sai, il tuo stupido cuore mi piace da impazzire. Mi dispiace averlo insultato prima”.

-         “Stai parlando troppo, zitto e baciami”.

Ero senza controllo.

-         “Dico sul serio” si fermò all’improvviso.

-         “Lo so, ma stai tranquillo… il mio cuore non potrebbe stare meglio di così”. Lo rassicurai.

Poi pensai che, in realtà, la mia scatola metallica sarebbe potuta stare meglio di come stesse in quel momento.

Sapendo che avrei dovuto allontanarmi da loro, era come se mi prendessero il cuore tra le mani e iniziassero a stritolarlo per poi farlo esplodere.

Faceva male, faceva male per davvero.

Rallentai il ritmo dei baci per recuperare un po’ di regolarità cardiaca ma non cambiò nulla: faceva ancora male.

Mi fermai del tutto e fermai anche lui.

Capì al volo che non stavo bene.

-         “Fermiamoci qui, basta per oggi, posseduta!” scherzò poggiandomi la testa sul cuscino.

-         “E pensa che la flebo mi è stata d’intralcio” confessai ironicamente.

-         “Oh mamma mia, incominci a farmi paura! Comunque vado a cercare Shay”.

-         “Potresti trovarla attaccata ad Axel come un polipo” scoppiai a ridere.

-         “Per questo vado a cercarla, non voglio un’altra ricoverata!”

-         “Si giusto…Felix…” lo fermai prima che potesse varcare la soglia.

-         “Dimmi”.

-         “Non sparire dietro quella porta. Troppe volte ti ho visto farlo”.

-         “Mmm… vediamo.. si, si può fare” pensò tra sé e sé.

-         “Si può fare cosa?” mi incuriosii.

-         “Non mi vedrai sparire da una porta… la finestra va bene?”

-         “Cosa? Sei impazzito? Siamo al primo piano! Ti farai male, io non intendevo…”

-         “Tu non preoccuparti, ci vediamo presto Ell!”

Si catapultò fuori dalla finestra e poi udii un tonfo.

Oh mio Dio! Si è ammazzato!

Mi alzai dal letto in preda al panico, mi lanciai verso la finestra e guardai per terra sperando di non trovarlo in preda al dolore.

Ero terrorizzata da quello che avrei potuto vedere quella mattina, non avrei potuto assistere ad una scena di quel calibro.

Se così fosse stato, non avrei neanche perso tempo a scendere le scale.

Mi sarei buttata anch’io, senza dubbio.

Probabilmente mi sarei fatta male, ma non mi importava, potevo  insabbiare quello spasimo, non potevo pensare a me.

-         “Ell tranquilla, sto benissimo. Sei contenta?” mi urlò dal pianoterra, soddisfatto di avermi accontentata.

Tirai un sospiro di sollievo.

-         “Non farlo mai più! Potevi rimanerci secco. Hai rischiato di farmi morire d’infarto! Tu sei pazzo!”  ribattei con rabbia.

-         “Non è la pazzia la ragione per il quale qualcuno agisce follemente, ma è il motivo per cui è tentato di farlo, nel mio caso tu” sorrise.

-         “No nel tuo caso è la pazzia, credimi!” arrossii.

Abbozzò un sorriso e si diresse verso l’entrata dell’ospedale.

Ha fatto un gesto del genere solo per farmi contenta, è proprio pazzo!

Se devo dirla tutta, oltre ad essere blandita, ero anche molto appagata.

Sapere che si sarebbe lanciato dalla finestra per me, oltre che a farmi paura, mi faceva sentire, in un certo senso, al centro della mia vita.

Sentivo che aveva uno scopo, quello che molti ignorano o che rigettano: l’amore.

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