Blue Rose di Nicolessa (/viewuser.php?uid=105468)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Il buon giorno si vede dal… No, non si vede affatto! ***
Capitolo 3: *** Bastano 20 minuti ***
Capitolo 4: *** Il risveglio ***
Capitolo 5: *** Sorpresa! ***
Capitolo 6: *** Maledetta scatola palpitante! ***
Capitolo 1 *** Prefazione ***
prefazione
Ciao a tutti sono una nuova e non so come
muovermi XD quindi chiedo perdono per eventuali errori di qualsiasi
natura! Detto questo spero che questo mio racconto vi piaccia e per
favore lasciate una recensione =) basta muovere un ditino no?!?!? BUONA
LETTURAAAAAAAAAAA
La vita dà certezze... e
dandotele, ti confonde le idee più di quando non ne avevi neanche una.
Questo l’ ho imparato dalle
mie esperienze di vita, a molti potranno apparire impossibili, ad altri stupide
e prive di ogni consapevolezza delle azioni svolte ma la verità è un’ altra:
scappando non si risolve nulla, ma ancora nessuno cercava di capire il motivo
per cui un individuo è costretto a scappare. Fuggire da quel problema è inutile
perché riuscirà comunque a portare via con se tutto quello che questo individuo
è riuscito a racimolare in una vita di sacrifici e difficoltà, superate grazie
alla forza di volontà che, quando lo abbandonava, lasciava solo la scia di ciò
che aveva precedentemente placato ma non eliminato.
Questa può essere una storia
come le altre o la storia di molti, costretti ad allontanarsi da quello che
amano e che ameranno sempre nonostante la lontananza e se c’è qualcosa a questo
mondo che la lontananza non può cancellare è l’amore vero verso qualcuno e me
ne infischio del detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” perché non
sempre questo è vero. Conosco molte persone che nonostante la distanza si
amano, forse possono non essere molto entusiasti di quei maledetti chilometri
che li dividono ma trovano sempre e comunque un modo per tenersi vicini con il
cuore.
Dopo ciò, ognuno può
scegliere le strade da percorrere nella sua vita senza essere condizionati in
alcun modo da niente e nessuno perché tutti sono liberi di amare qualcuno e di
decidere di non dimenticare quando questo legame finisce senza alcuna speranza
di ritorno. Nessuno può rinnegare i propri ricordi e poi, chi ha mai detto che
dovessero essere sempre dei bei ricordi? A volte può far bene ricordare
qualcuno o qualcosa che suscita emozioni tristi e che a volte riaprono una
vecchia voragine nel petto ma in realtà è così che capisci di aver vissuto per
davvero.
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Capitolo 2 *** Il buon giorno si vede dal… No, non si vede affatto! ***
Il buon giorno si vede dal… No, non si vede affatto!
Era una giornata
di metà Dicembre fredda ed umida a Seattle, la nebbia fitta offuscava la strada
rendendola misteriosa e macabra.
Mio padre mi accompagnò alla
stazione con l’auto che usava per recarsi al lavoro, avevamo i finestrini
chiusi ed il riscaldamento acceso.
Avevo comunque freddo perché,
testarda com’ero, non accontentai mia madre che per tutta la mattina mi aveva
ripetuto di indossare il maglione verde regalatomi da zia Lane per Natale che, secondo
me, era davvero orrendo.
Preferii quindi mettere una
maglietta di un blu scuro, come il colore del mare in tempesta, poi una
semplice sciarpa a righe bianche e nere comprata anni prima in una piccola
boutique di Parigi abbinata ad un classico e comodo jeans che calzava a
pennello con le mie Converse in pelliccia bianca.
Vestire semplice e non attirare
l’attenzione: questa ero io. Ero una ragazza discreta: non troppo magra e non
troppo grassa, non troppo pallida e non troppo scura, insomma cose così… avevo
solo tre punti a mio sfavore: l’altezza stratosferica degna del mio cognome, le
meches blu alle punte dei miei capelli neri che toccavano i gomiti e… mio
fratello.
Tutte le sue “sostenitrici” mi
chiedevano di lui o cercavano di diventare mie amiche per vederlo.
Axel era il ragazzo più affascinante
di tutta Seattle, questo dicevano tutte la ragazze del posto, i suoi capelli
rosso fuoco davano un tocco peccaminoso al viso ma i suoi occhi compensavano
con un bel celeste angelico, come se non bastasse giocava a Basket… ecco
spiegato il perché di tutti i sold-out di ogni sua partita.
Le altre ragazze ignoravano il suo
carattere, quello che io vedevo e condividevo ogni giorno in casa, era unico e
anche un po’ lunatico: un giorno era disponibile con tutti e quello dopo era
insopportabile, un vero rompiscatole colossale.
Spesso cercavo il perché delle cose
riflettendo e scrutando ogni minimo dettaglio utile al mio resoconto, facevo
così per tutto: per mio fratello, per gli sconosciuti, per i miei amici e a
volte anche per gli oggetti inanimati. Come dal mio solito quella mattina, in
macchina, osservavo con attenzione tutto ciò che la nebbia non copriva,
cercando di capire come ci riuscisse… Come riusciva a coprire tutto quello che
incontrava? Come riusciva ad annebbiare tutto e tutti senza alcuna difficoltà?
Volevo essere proprio come lei,
fregarmene di tutto e di tutti con la stessa facilità ma… come potevo?
Mentre pensavo ad una soluzione,
molto probabilmente impossibile, mio padre mi chiamò per nome ma io, assente
mentalmente, non risposi.
-
“ Ellen… Ellen!”
gridò infine.
Era lo stesso tono di quando veniva a
svegliarmi la mattina per mandarmi a scuola... Era dura svegliarmi, molto dura.
-
“ Sì? Cosa c’è?”
risposi assente continuando a fissare il vuoto.
-
“Siamo arrivati…
Allora… Sei triste? Nervosa? Incomincerai a dirgli di quella cosa oppure lo
farai un altro giorno? Se non te la senti puoi farlo domani… o il mese
prossimo… entro il mese prossimo almeno… sempre se vuoi dirglielo… non è così?
Perché… sai, pensavo che dire tutto è impor…”
-
“Papà...” lo
interruppi.
-
“ Non
preoccuparti, è tutto ok… lo dirò… in tempo…” dissi esitando un po’…
Ero agitata per le parole di mio
padre, infondo, aveva ragione.
Già, mio padre… un uomo onesto,
fedele, sincero e molto logorroico, quando ero piccola mia madre lo chiamava “
il grillo superparlante”, ma Antony aveva un cuore d’oro. Era difficile farlo
arrabbiare ma quando veniva deluso o era triste, usava la tecnica del muso
lungo, tecnica che avevo ereditato e, fortunatamente, molto efficace su di lui.
Ricordo ancora quando a sei anni,
ruppi la sua boccetta di profumo sulla sua giacca… l’odore di muschio bianco si
espanse per tutta la casa lasciando una profumata scia che solleticava il naso.
Quando se ne accorse, rimase con il suo muso lungo per una settimana intera e
tornò allegro solo quando gli chiesi scusa e gli portai la sua giacca che,
nonostante tutti i lavaggi subiti, profumava ancora di muschio.
Dopo questo breve ma intenso
ricordo, uscii dal tunnel dei miei pensieri e mi concentrai sul suo viso,
cercando di analizzarlo.
Era preoccupato per me, lo li si
leggeva chiaro in faccia anche se cercava di nasconderlo e così, di scatto,
risposi che stavo bene e di non essere preoccupato per me. Sarebbe andato tutto
bene… o almeno era quello che speravo. Sarebbe stato difficile ma ce l’avrei
fatta… dovevo farcela. Bastava trovare le parole giuste e il momento giusto.
L’ansia iniziava a mangiare il mio
stomaco e a quanto parte ci provava anche gusto. Non potevo deprimermi ora.
Dovevo godermi tutto di Seattle, i
miei amici, la mia scuola, i miei luoghi preferiti…
Ero pronta a lasciare tutto questo?
Mia madre diceva di non preoccuparmi
(esattamente come papà) e che ci avremmo pensato a fine mese, prima della
nostra partenza…
Esatto, partivamo… Io e la mia
famiglia dovevamo trasferirci a Goderich, in Ontario, ancora più precisamente
in Canada, per motivi di lavoro che riguardavano mia madre, Amanda Brown, una
famosa disegnatrice di abiti. La causa della partenza non era la scarsa
opportunità di lavoro, anzi era l’esatto contrario… Ci trasferivamo perché ne
aveva troppo! Purtroppo la vera causa della nostra partenza era un’ offerta di
lavoro proposta a mio padre, che in quanto biologo, aveva ricevuto una
promozione che comprendeva anche un trasferimento e, secondo la sua modesta
opinione, sarebbe stato impossibile non accettare.
Forse era la cosa giusta per me,
dopotutto ero la prima a dire che non ero così felice a Seattle…
Ripensandoci, Seattle era rumorosa,
caotica, frenetica, stressante e inquinata. Ma è pur vero che era la mia casa,
meravigliosa e, a volte, anche sorprendentemente silenziosa.
Per questo dovevo osservare tutto
quello che potevo finchè ne avevo la possibilità, ecco perché non volevo andare
via, sapevo che Seattle mi sarebbe mancata.
Ecco che ritornava l’ansia. Non mi
era possibile vivere quei giorni in santa pace? Non poteva evitarmi per un po’?
Giusto il tempo di raccontare tutto e vivere felicemente quei giorni
nient’altro... Dovevo trovare un modo per tranquillizzarmi.
Scesi dall’auto in tutta fretta,
congedando mio padre con un fugace bacio sulla sua guancia e mi allontanai,
illudendomi di poter lasciare lì dentro tutti i miei pensieri che non mi
avrebbero dato pace per tutta la mattina e poi: l’illuminazione… La musica! Finalmente la mia mente
iniziava a funzionare, si era finalmente svegliata e ne ero contenta. Gli
angoli della mia bocca si alzarono leggermente, avevo un’espressione più
allegra… Finalmente…
Attraversai il sottopassaggio con
passo svelto e le cuffie nelle orecchie. Ascoltavo la playlist che aveva creato
Axel nel mio I Pod: Green Day, Good Charlotte, Goo Goo Dolls, The Last Goodnight, Cascada,
Santana e altri. Fortunatamente la mia idea funzionò ed arrivai dall’altra
parte senza accorgermene.
Lì trovai un sacco di gente nervosa
ed impaziente per l’arrivo del treno che annunciava un ritardo di 25 minuti…
La
giornata inizia benissimo... sarà contenta la prof di matematica! Pensai
dentro di me.
Magari
riesco a fermare Antony e a chiedergli di accompagnarmi a scuola in macchina! Continuai.
Mio padre però, andò via prima che
potessi fermarlo per chiedergli quello strappo fino a scuola quindi, fui
costretta ad aspettare, consapevole che, prima o poi in quei minuti d’attesa,
avrei pensato a come poter dare la notizia ai miei amici, così creando
sconforto in me stessa.
In quel momento invece non pensavo a
niente, per qualche secondo credetti davvero che i miei pensieri fossero
rimasti lì, nella mia BMW nera dove, secondo le previsioni di Antony, avrei
trascorso ben trentanove stressanti e lunghe ore di viaggio, sorpassando così
Washington, il Montana, il North Dakota, il Minnesota, il Wisconsin e il
Michigan per poi infine arrivare in Ontario.
I minuti scorrevano lenti e
inesorabili, l’attesa era estenuante e i ricordi lottavano con la mia testa
cercando di riaffiorare come spine pungenti che laceravano tutto ciò che
incontravano senza guardare in faccia niente e nessuno. Cercavo di non farci
caso, ascoltavo la musica e cercavo di mantenere la mente vuota.
Quella canzone era bellissima,
melodiosa, mi infondeva una sensazione strana… Solo dopo mi resi conto che era
tristezza, in effetti la canzone era malinconica… Avrei avuto bisogno di più
rock. Passai ai Green Day.
Mi guardai intorno.
Il treno non si vedeva ancora,
quando Sharon mi vide e mi venne incontro con un sorriso brillante e pieno di
vita.
Automaticamente mi liberai le
orecchie per iniziare la conversazione, pensai che sarebbe stato meglio
parlare.
-
“Ehilà Ell! Come
stai? È da tanto tempo che non ci vediamo vero?” disse con aria ironica.
Sharon era una ragazza alta ed
esile, aveva dei lucentissimi e bellissimi capelli biondi, raccolti in un
fermaglietto azzurro che intonava perfettamente con i suoi grandi occhi
spendenti come diamanti, le guance erano perennemente rosate, le labbra sottili
e le mani all’apparenza molto fragili ma in grado di resistere a tutte le
temperature senza screpolarsi mai. Il suo carattere era magnifico, direi quasi…
perfetto… aveva un equilibrio tutto suo e funzionava alla grande. Eravamo
amiche dalla 1° elementare. Era una persona unica, non potevi non amarla, ma
non so quale legame, ci rese inseparabili, eravamo sempre insieme e non ci
separavamo mai, lei mi consolava con il suo smagliante sorriso e io le davo
consigli su qualsiasi cosa.
Che stupida che ero…le avevo sempre
dato dei buoni consigli e ora, codarda com’ero, non riuscivo a metterne in atto
nemmeno uno…
Ma per non farla insospettire, le
risposi con altrettanta ironia:
-
“Certo, è da ieri
sera che non ci vediamo, hai ragione… non so proprio come ho fatto senza di te
per tutto questo tempo!” esclamai con un sorriso che non era esattamente uno
dei migliori in repertorio.
Le mie parole mi colpirono come un
boomerang tagliente, era come se mi fossi punita da sola.
Ero sincera, mi era mancata, come potevo
lasciarla il mese successivo? Come avremmo affrontato quella maledetta
partenza? Come avremmo fatto a stare lontane? Ci dividevano ben 2.483 miglia!!! Ma non
volevo pensarci, mi ero severamente imposta di non farlo e non dovevo per
nessun motivo.
Volevo solo scappare lontano da quel
problema, ma il vero problema era che non volevo scappare… Non volevo lasciare
una vita per prenderne un’altra, anche se fosse stata migliore della
precedente, avevo tutto quello che mi serviva a Seattle. Non volevo abbandonare
tutto, non volevo abbandonare Sharon, la mia amica di sempre.
Pensavo solo a ciò che desideravo io
senza pensare agli altri… ero egoista… una parte di me lo sapeva e alimentava
questo lato di me, ma l’altro lato non voleva ammetterlo e cercava delle scuse
per giustificarsi anche se inutilmente.
Sharon mi parlava con una certa
sicurezza, la sicurezza che la stessi ascoltando e invece ascoltavo solo me
stessa, che gridavo disperatamente aiuto dentro di me ma senza ricevere alcuna
risposta.
Non si accorse di nulla e proseguì
nel suo racconto che, molto probabilmente, riguardava il sogno che la scosse
quella notte, o almeno, la routine giornaliera prevedeva questo.
-
“Allora, in fondo
alla strada, vidi un estraneo che si avvicinava e me con aria minacciosa così
poi iniziai a scappare per la paura e gridavo, gridavo come le matte!
Giustamente mi voltai per cercare di capire chi fosse e, con un rapido scatto…
ehi!! Ma mi stai ascoltando o no?!?” disse un po’ scocciata come per farmi
notare che le sue parole erano preziose e non poteva sprecarle per parlare al
vuoto.
-
“Ahahah, bella
questa Sharon, lei non può ascoltarti perché cerca di capire da dove venga quel
rumore di vento… se vuoi ti aiuto io a capire... è il vuoto nella sua
testa!!!”esclamò una voce snob e sicura di sé.
Era lei, Tasha, la persona che più
di qualsiasi altra mi era indifferente anche se, per qualche motivo a me
sconosciuto, io non ero così indifferente a lei.
Non che mi importasse più di tanto
capire il perché mi odiasse ma cercare una risposta sembrava un ottimo svago
per la mente. Non ricordavo nessun evento in particolare, era sempre stata lei
a rivolgermi la parola, o meglio, l’insulto, anche la prima volta che la vidi.
A scuola, lì la vidi per la prima
volta… Questo era alquanto strano in quanto mia “concittadina”.
La sua prima presentazione fu molto
chiara.
-
“Hey tu,
ascoltami bene: Tu. Non. Sei. Nessuno. Chiaro? Se mi darai fastidio sappi che la pagherai cara”
disse.
Lo ammetto, ci rimasi un po’ male.
Credo che il motivo del mio sconforto sia stato proprio il fatto di non aver
fatto niente per essermi meritata una conversazione del genere.
Ovviamente Sharon era con me ed è
esattamente da quel giorno che non la sopporta.
Non era ancora iniziata la giornata
e avevo già incontrato delle difficoltà, perché mi odiava tanto?
Cercai di sforzarmi ma nada de nada,
niente, il vuoto totale.
-
“Smettila di fare
l’idiota! Sei solo gelosa!” disse Sharon in mia difesa ma soprattutto per sua
soddisfazione.
Aveva alzato la voce per la rabbia
ma non se ne accorse nessuno lì in stazione. Ognuno parlava per conto proprio
creando così un grande mormorio generale.
-
“Gelosa io?!? Di
cosa? Del vostro stupido gruppo e di quelle ridicole rose blu tatuate sul
vostro corpo malriuscito? Ma per favore!” disse con aria strafottente.
Mentre Sharon stava per metterle le
mani addosso, una manona fredda e resistente si poggiò sulla sua spalla,
fermandola nel suo intento di fare Tasha a pezzi.
-
“Litigate anche
l’ultimo giorno di scuola? Finiremo l’anno in bellezza allora...”
Quella voce... così familiare e così
calda… La conoscevo da così tanto tempo che avevo quasi dimenticato la sua
particolarità, forse me ne rendevo conto ora che sapevo che tra qualche giorno
non l’avrei più sentita se non da un freddo e distaccato cellulare.
-
“Ha iniziato lei!
Non la difendere solo perché ti piace darmi torto! Uffa...” sbuffò Sharon.
Si comportavano come dei bambini
mentre io, quella che si era beccata l’insulto, non battevo ciglio, non mi
interessava di cosa stessero discutendo ma mi interessava l’arrivo di Felix a
fermare in tempo una lotta che, secondo Sharon, sarebbe finita con un cadavere…
e certo non parlava del suo.
Il mormorio continuava ad aumentare
ed io fissavo Felix, il mio amico del cuore.
Amico del cuore… Questa parola la
usavamo dalla scuola elementare, ci eravamo sempre reputati tali nonostante i
nostri 2 anni di differenza. Già… Ora io e Sharon abbiamo 17 anni e lui 19,
esattamente come mio fratello Axel, suo compagno di comitiva. Uscivano la sera
e tornavano la sera del giorno dopo, potevi vederli solo in 3 condizioni dopo
il rientro: sbronzi, con delle borse sotto gli occhi oppure, l’ opzione più
tranquillizzante, era vederli lucidi ma con la pancia piena di cibo cinese o tailandese.
-
“Ellen, perché mi
fissi? Ho qualcosa in faccia? Mi trovi diverso per caso?” disse all’improvviso
inarcando le sopracciglia in modo strano, sembrava quasi un cartone animato.
Avevo visto quel volto migliaia di volte ed
ogni volta qualcosa cambiava rendendolo sempre più affascinante e amichevole.
Sharon mi diceva spesso che parlavo
di lui come le persone normali parlano del loro fidanzato ma Felix non lo era,
era un amico ed era questo quello che volevo.
Non mi preoccupavo di apparire
stupida o goffa con loro, noi tre eravamo una famiglia: io, Sharon e Felix.
La mia mente era piena di pensieri
che non facevano male, Fel era il mio antidolorifico migliore e lo adoravo per
questo, o meglio, anche per questo.
Mi accorsi che stavo pensando troppo
e il tempo che era passato per rispondere era troppo così, cercai di
affrettarmi nella risposta.
-
“No no, niente di strano... Stavo solo…
pensando” dissi sbuffando… Non volevo dare l’impressione di essere preoccupata
ma, infondo, lo ero eccome, non avevo ancora pensato a nessun modo per
avvertirli della mia partenza improvvisa.
-
“Tu che formuli
un pensiero? Attenta Ellen, non sforzarti troppo altrimenti ti esploderà la
testa!”.
Arroganza, questo odiavo di più in
lei, ma era il minore dei miei problemi, quasi insignificante direi, ma non
potevo pensare con lei che mi ronzava attorno come una mosca fastidiosa. Il
mormorio si trasformò in un enorme baccano nella mia testa, ogni minimo rumore
mi perforava i timpani e alla fine, stremata, scoppiai in un urlo quasi
disumano:
-
“Ascolta, non mi
importa se ti reputi la persona più bella e intelligente del mondo, ora mi
importa solo riflettere e non riesco con te che mi insulti continuamente e con
questa gente che urla come se fossero tutti sordi quindi, non hai proprio
nient’altro da fare che darmi fastidio e starnazzare nel mio orecchio? Perché
non vai a fare l’oca da qualche altra parte di questa stupida stazione?”.
Tutti si voltarono verso di noi. Avevo la
piena visione di tanti tipi di espressione umana. C’era chi era incuriosito da
quelle urla, chi era rimasto offeso dalle mie parole, chi aveva chiaramente
stampato sul viso l’espressione “questa è pazza” e chi era sconvolto dal mio
modo di rivolgermi a Tasha, la più popolare ragazza che, secondo lei, “aveva
più chance di resistere in questo posto di sfigati”. Purtroppo me ne resi conto
troppo tardi, forse, avevo urlato troppo, ma le mie urla da pazza psicopatica
diedero i loro frutti, infatti Tasha si allontanò senza fiatare, mostrando solo
il suo disdegno alle sue compagne che la seguivano ovunque come dei cagnolini.
Accanto a lei sembravano delle
sagome senza volto e senza nome che non godevano del diritto di vivere per
paura di oscurare la loro ape regina anche se, a Tasha non importava granché di
loro. Eppure erano delle belle ragazze, non sapevo come si chiamassero e non mi
interessava perché mi davano fastidio, mi dava fastidio il fatto che la
venerassero così senza un motivo.
Erano patetiche e non se ne
rendevano conto. La popolarità può dare alla testa ma forse a loro non importava,
bhè, peggio per loro.
Pensavo, pensavo e ripensavo ai loro
comportamenti non capacitandomi del fatto che avevo urlato attirando
l’attenzione. Quando me ne resi conto era tardi, tutti mi stavano fissando. No, no, NO! Odio essere al centro dell’attenzione!
Trasalii, avevo gli occhi spalancati, respiravo con cautela come per non
fare rumore e mi guardavo attorno con la testa bassa come se volessi coprirmi.
Volevo sparire, andate dall’altra parte della Terra, teletrasportarmi,
diventare invisibile, tutto ma non rimanere lì.
Sharon e Felix rimasero a bocca
aperta non capendo da dove arrivasse tutta quella rabbia che mi aveva fatto
esplodere in quel modo anomalo. Non mi era mai capitata una cosa del genere, mi
ero sentita come la dinamite, esplosiva e senza controllo.
Il silenzio che si sentì subito dopo
il mio sfogo era quasi agghiacciante ma, fortunatamente per me, non durò molto, pochi secondi e tutti si
voltarono, ricominciando a parlare in un tono accettabile come se avessero
afferrato il mio “rimprovero” ma, molto probabilmente, parlavano a bassa voce
per non farsi sentire da me: la pazza che, per precisare aveva un nome, il mio:
Ellen Fox, un nome che si sarebbe sentito molto nominare in giro in quei
giorni.
Finalmente il treno arrivò, lo
attesi come un bambino attende il giorno di Natale, lo attendevo perché volevo
solo andare lontano da quel posto, dimenticai solo un piccolo dettaglio: tutta
quella gente che mi aveva sentito urlare doveva salire sul mio stesso treno e
quindi mi era impossibile scappare, a meno che non fossi salita sul treno ma
dopo tutta quell’ attesa e quella scenata da oscar non ne valeva la pena,
dovevo affrontare quella folla di persone pronte solo a parlare di me alle mie
spalle.
Voi
che ne pensate? Ne vale la pena continuare? Bhè sappiate che sto
già lavorando al secondo quindi mo ve lo beccate!!! =P alla
prossima!
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Capitolo 3 *** Bastano 20 minuti ***
Bastano 20 minuti
«Treno in arrivo sul secondo
binario, allontanarsi dal secondo binario» annunciarono dagl’altoparlanti.
Andai incontro al treno sperando
di poter diminuire la durata del viaggio
il più possibile anche se di poco, un portello si aprì proprio di fronte a me
ed io, senza esitare un attimo, mi ci fiondai dentro. Occupai un’intera cabina
sapendo che Sharon e Felix avrebbero voluto parlarmi, o meglio, analizzarmi.
Mi sedetti vicino al
finestrino con lo scopo di osservare la meta avvicinarsi e la partenza
allontanarsi secondo per secondo, loro invece si appollaiarono silenziosamente
sul sedile guardandomi con compassione.
Non sapevo perché mi
squadrassero in quel modo, infondo non era possibile che conoscessero il motivo
di tanta frustrazione così, incuriosita da quelle occhiate, chiesi loro:
-
“ Perché mi
fissate in quel modo? Ho qualcosa in faccia per caso?”
dissi ironicamente alzando lo
sguardo su Felix come per fargli notare che avessi ripetuto di proposito le sue
identiche parole solo con un falso tono interrogativo.
Mi scrutarono da cima a fondo
a caccia di ogni mio minimo movimento per esaminarlo e, purtroppo per loro,
senza ricavarne nulla: non battevo ciglio, non trovavo neanche un errore nella
mia espressione, una svista che potesse tradirmi, niente.
Immediatamente mi meravigliai
della mia sconosciuta dote di attrice che in quel momento mi aveva salvata.
Si voltarono l’uno verso l’altro e decisero che a parlare sarebbe stata Sharon.
Cosa speravano di fare? Gli
sembravo per caso il loro paziente da visitare? Ero una malattia tutta da
diagnosticare? Credevano di poter ottenere qualcosa dalla mia mente contorta?
I nervi cominciarono a farsi
sentire, li ignorai e continuavo a contemplare fuori dal finestrino, dove tutto
sembrava non avere limiti e nemmeno distanza.
- “
C’è una causa particolare a scatenare la tua rabbia oppure è semplicemente un
giorno con la luna storta?” chiese cauta temendo ogni mia possibile reazione.
- “
Ho dormito male tutto qui, niente di particolare o preoccupante. Tranquilli, non si ripeterà questa scenata a
scuola se è questo che temete, non attirerò l’attenzione...”.
Quest’
ultima frase uscì dalla mia bocca quasi come un ringhio soffocato tra i denti,
eccolo lì, il segno che aspettavano, la scintilla che avrebbe fatto scatenare
un putiferio nel mio stomaco, un putiferio chiamato terrore.
Avrei
risposto con aggressività lo sapevo, ci sarebbero rimasti malissimo e non mi
andava giù.
Dovevo
rimanere calma, afferrare le redini di quella assurda situazione e tirarle con
forza verso di me, rallentare per poi fermarmi.
Volsero
i loro occhi verso i piedi cercando una risposta nel silenzio che era calato
tra di noi come un velo di
quasi trasparente ma robustissimo, quella che non comportasse alcun
responso negativo, avevo capito: non volevano farmi agitare ancora di più,
ormai era finita, avevano percepito un’ aria diversa, avrebbero fatto domande,
avrebbero preteso delle risposte e la mia giornata si sarebbe conclusa ancora
prima di cominciare… Non me la sentivo… Non era il momento adatto, non l’ultimo
giorno di scuola e non in quel modo. Sviare il discorso era inutile, tacere era
ancora peggio, l’unica mia speranza era mentire ma sapevo cosa avrebbe
comportato in futuro quel sacco di bugie che ero pronta a svuotargli addosso:
dolore. Solo più dolore del solito, più di tutte quelle lacrime previste, più
di ogni addio che avrei dovuto patire quel giorno.
Perchè
avrei dovuto provocare tutto questo solo per qualche giorno di vantaggio in più?
Non aveva senso!
Ero
combattuta tra me stessa: dire la verità in quel momento e sperare in una
comprensione compassionevole oppure aspettare e scatenare più dolore? Non avevo
molto tempo, dovevo pensare in fretta.
-
“ Non volevo
dire… “ mi fermai per sospirare, respirai profondamente e ripresi. Non era poi
così tremendo dopotutto, sentivo ancora la Terra sotto i piedi.
-
“ Non so. Sul
serio ragazzi, non so neanche io quello che volevo dire solo che oggi sono
facilmente irascibile… scusatemi” dissi pronunciando le mie scuse con la testa
bassa.
-
“ Non devi
preoccuparti, abbiamo capito. È come se avessi affitto sulla fronte «Allontanarsi,
pericolo di esplosione» aggiunse Felix allegramente come se non fosse successo
nulla.
Mi
sentii sollevata, avevo i miei amici dalla mia parte in qualche modo, non mi
avrebbero disturbata quel giorno, ormai gli era chiaro: sarebbe stato meglio
per chiunque non avvicinarsi a me quella mattina.
Mi
conoscevano fin troppo bene, più di quanto io conoscessi me stessa. Da un certo
punto di vista questo era inquietante ma anch’io conoscevo loro e sapevo che
non mi avrebbero perdonata. No, non avrebbero perdonato qualcuno che gli avesse
mentito per più di due mesi. Forse avrei potuto
avere qualche speranza se gli avessi detto che i miei mi stavano
minacciando ma purtroppo per me, conoscevano anche loro, non avrebbero mai
fatto una cosa del genere, una bassezza di quel livello. No, non avrebbero mai
potuto.
L’unica
soluzione: dirgli tutto dalla A alla Z e senza bugie, in quell’istante: niente
lacrime, niente rimpianti, niente suppliche, il più totale niente.
Avevo
già riferito loro che stavo bene, sganciare una bomba del genere mi sembrava
incoerente, andava contro il mio essere ma dopotutto gli avevo già mentito…
Questo
invece non era contro il mio io? Mi era del tutto normale mentire? Quel talento
di attrice cominciava a spaventarmi. Sarebbe diventato normale per me recitare
la mia vita invece di viverla come solitamente si dovrebbe? Il mio oscuro e
misterioso destino sarebbe diventato solo un mucchio di pagine con delle
battute da seguire alla lettera?
-
“ Capita anche a
me qualche volta” proferì Sharon
-
“ In realtà
capita a tutti ma c’è chi lo nasconde meglio rispetto agli altri” concluse
velocemente come per correggersi.
-
“ Si lo so, ma io
non so recitare, non posso tenermi dentro quello che sento”.
No, non ci credo… sto mentendo… ancora!
Sono capace eccome! Devo fermarmi, basta! Basta, basta, basta!! Tappati quella
dannata bocca, non devi più parlare!
Usai
l’imperativo su me stessa, dovevo tacere ad ogni costo.
Con
sorpresa mi accorsi che la mia mano si era affiancata alla mia bocca impedendo
alla voce di uscire inutilmente dalla mia gola che in quel momento sembrava
stesse bramando contro di me.
Il
gesto fu veloce, il palmo premette contro le labbra con forza.
Preoccupati,
azzardarono uno scatto verso di me in preda al panico.
-
“ Stai bene? Devi
vomitare?” chiese ansiosa Sharon
-
“ Hai la febbre?
Hai mangiato niente di strano a colazione?” continuò Felix come per completare
la frase precedente
-
“ Hai visto la
data di scadenza dei biscotti? Oppure hai controllato la pressione sanguigna?”
domandò la testina bionda guardandosi intorno e posando la mano tremolante sulla mia fronte.
Non
capivo più niente, mi avevano fatto agitare e non ero a conoscenza dell’esatto
motivo, poi infine ci arrivai e all’improvviso risposi interrompendoli:
-
“ No no, fermi
sto bene, sto benissimo, ho solo… il singhiozz…”
non
mi fece finire di parlare, ritrovai il mio corpo a stretto contatto con quello
di Felix, mi guardai tra le sue possenti e atletiche braccia come quando lo
sposo prende in braccio la sposa prima di entrare per la prima volta nella casa
in cui avrebbero passato tutta la loro vita .
Trasalii
alla visione di quella scena che vagava nella mia mente, cercai di guardarmi
intorno ma improvvisamente percepii una fitta allo stomaco o forse un po’ più
in su e lasciai cadere la testa sul suo petto.
Era
sicuro: non capivo più nulla.
Mi
vide mentre mi accasciavo e decise di intervenire:
-
“ Chiama Antony,
avvisalo che la porto in ospedale poi cerca Axel, avvertilo, rimani con lui e
andate a scuola, vi chiamo io più tardi”
sentii
la sua voce rimbombare nell’orecchio posato all’altezza del suo cuore.
-
“ Ok” rispose
velocemente, incamminandosi alla ricerca di mio fratello.
-
“Tranquilla, alla
prima fermata scendiamo e ti porto in ospedale, con qualsiasi mezzo” mi riferì
togliendomi i capelli dal viso.
Mi
contemplava preoccupato, era impaziente, voleva portarmi in ospedale il più
presto possibile ma il treno non si fermava.
Lo
conoscevo, in quel momento stava seriamente pensando di saltare fuori dal
finestrino ma sapeva benissimo che ci avrebbe ammazzati tutti e due così,
iniziò a borbottare tra sé e sé alzando gli occhi al cielo.
«Bip
Bip» squillò il suo cellulare.
Lo
estrasse dalla tasca destra e lesse il messaggio: era Sharon.
«Ho
avvertito Antony, gli ho spiegato tutto e quando ho detto che era con te credo
che si sia tranquillizzato almeno un po’, ho trovato Axel e dice che vedendomi
così ho bisogno di lui più io che lei.
Ti
raggiungo dopo la scuola. Lascio il cellulare acceso, chiamami se ci sono
novità» concluse.
Fel
finì di leggere e ripose l’oggetto in tasca tenendomi stretta con un braccio
solo: quanta forza aveva.
Il
treno finalmente si fermò e prima che aprissero tutti i portelloni, mi sussurrò
all’orecchio:
-
“ Scusami in
anticipo Ell, so che non ami essere al centro del palcoscenico ma lo faccio per
te”.
Lo
fissavo dritto nei suoi occhini verdi smeraldo. Volevo fermarlo, picchiarlo e
ringraziarlo tutto contemporaneamente ma la mia gola emetteva solo grugniti,
niente di più e niente di meno.
Si
aprirono i portelloni e si scagliò verso l’uscita e chiamò con la mano un taxi.
Chiusi
le palpebre e riaprendole vidi me e Felix nel veicolo. La mia testa era
poggiata sulle sua gambe e lui era chino su di me sussurrandomi parole
incoraggianti:
-
“ Dai, sei solo
un po’ pallidoccia, hai le labbra secche, le mani congelate, le ginocchia
tremolanti e poi… da quando hai anche le occhiaie?!?”.
Ogni
parola che pronunciava era carica di tensione, stavo male ma non riuscivo a
ricordare l’inizio di tutto, da quale esatto momento ho iniziato a non avere
neanche la forza di alzare la testa?
Non
mi accorsi di niente, ero in quelle condizioni e non ne sapevo nulla. Cercai di
tirarlo un po’ su parlandogli:
-
“ Grazie mille
Fel, mi hai descritta peggio di una zombie. Tu sì che sai fare bei bellissimi
complimenti alle donne”.
Emisi
un lamento non previsto che rovinò la mia battuta me mi riscattai ostentando un
sorrisetto.
-
“ Beh mi conosci,
la sincerità prima di tutto” sogghignò.
-
“ Si… si vero,
sei proprio così”.
Alzò
lo sguardo verso l’autista e chiese provocandolo:
-
“ Potrebbe andare
più veloce? Sa com’ è, vorrei arrivare prima di quella tartaruga laggiù”.
Gli
diedi un colpetto sulla gamba come per rimproverarlo ma, viste le mie forze,
non ero convinta che lo avesse percepito: ma
che diavolo di situazione!
-
“ Siamo arrivati
Mr Simpatia” sputò il signore basso e pelato.
-
“ Grazie al
cielo! Le lascio i soldi qui dietro e tenga la mancia anche se non la merita!”
esclamò seccato.
Non
aspettò neanche una sua risposta, mi riprese tra le braccia e incominciò a
correre verso l’entrata del tanto atteso ospedale.
Decise
di non aspettare l’ascensore e così arrivammo al pronto soccorso in un attimo.
Si guardava intorno esasperato, non sapeva cosa fare, con chi parlare, a chi
chiedere cosa poteva fare o con chi parlare.
Era
vicino all’esaurimento nervoso.
-
“ Domanda a
quell’infermiera laggiù” suggerii tentando di aiutarlo.
-
“ Scusi, dove
posso portarla?”
-
“ La può posare
sulla barella, faremo tutto noi. Lei deve solo compilare questi moduli” gli
disse porgendogli dei fogli di carta.
Mi
posò sul lettino, mi stampò un bacio sulla fronte e prese i fogli in mano
sforzandosi di capire quello che ci fosse scritto sopra. Anche lui era agitato
come me anzi, forse anche di più.
-
“ Lei è un
parente?” chiese mentre poneva una mascherina sulla mia bocca.
-
“ No, ehm… si,
diciamo si e no, no no, credo di no” balbettò incerto.
-
“ Ok si calmi
ora, chiami un parente e si accomodi in sala d’attesa, prende un caffé o una
camomilla e si rilassi, non vorrà far preoccupare ancora di più la fidanzata
vero?” disse rivolgendosi a Felix come se fosse un bambino.
Aspetta un momento… NO! Fidanzata? Io?
Con lui? No! C’è un errore! Che casino! No, non posso agitarmi ancora, non
importa, che pensi ciò che vuole!
-
“ Si, ha
perfettamente ragione, vado subito” la accontentò.
-
“ Io sono qui se
ti servo ok? Lancia un urlo e sarò lì da te in un attimo, anche di meno se sarò
veloce. Promesso”.
-
“ Ok” risposi con
un sorriso compiaciuto.
Mi
portarono via, Felix sparì dietro una porta di vetro ed io pensavo a tutto,
come 20 minuti fa fossi ancora nel treno a pensare al mio futuro, alla
catastrofe, a come i miei amici tenessero a me e, francamente, pensai anche a
come sarebbe stato essere davvero la sua fidanzata.
Trasalii…
sarebbe esattamente la stessa cosa. Mi avrebbe portata all’ospedale nello
stesso modo, l’unico dettaglio che sarebbe cambiato era il bacio sulla fronte
che si sarebbe spostato solo di qualche centimetro più in giù.
Arrossii
ma anche in quel modo ero pallida. Non dovevo pensarci, anche se ero stupita
dal fatto che fosse ancora single nonostante il suo carattere dolcissimo e
affettuoso, il suo fisico degno di una statua di marmo perfetta e
indistruttibile, la sua voce che risuonava come la canzone più soave del mondo…
Smettila! Mi rimproverai. È così punto e a capo, non sono affari miei!
Per
svagarmi osservavo tutti i dottori che passavano da una stanza all’altra.
Trasportavano
siringhe, bende, flebo, cerotti, garze e tutto l’arsenale; ogni volta che
vedevo qualcuno speravo con tutto il cuore che non stesse per avvicinarsi a me
con qualche strana macchina che emetteva rumori altrettanto strani.
Dove
diavolo mi trovo? Che ci faccio io qui?
Continuavo
a respirare ossigeno puro e finalmente un’infermiera mi trasportò in una
stanza, puntò la luce sul mio volto, estrasse la siringa dalla tasca dal camice
e la conficcò nel mio braccio.
Vidi
tutto a puntini colorati, il viso della donna si contorceva come un quadro
astratto e perdevo sensibilità alle dita poi, il buio.
No
dai non si può lasciare una ragazza in questa condizioni! giuro
di farvi avere sue notizie al più presto =) lasciate recensioni
grazie mille! =)
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Capitolo 4 *** Il risveglio ***
il risveglio
CAPITOLO
3 Il risveglio
Ero convinta di essere cosciente, avevo immaginato tutto: la
siringa che estraeva il sangue dalle vene, lo sguardo attento della donna, le
mie ginocchia stese sul lettino e persino il dolore.
Sembrava così reale, tanto da convincermi che non fossi mai
svenuta e che non avessi mai chiuso gli occhi; era la più forte illusione che
avessi mai provato, non credevo che una cosa del genere potesse addirittura
creare una falsa realtà, insomma, era possibile che una vita potesse essere
basata solo su un mucchio di perfette illusioni?
Mi accorsi di aver perso i sensi solo quando ebbi la
certezza che i mie occhi fossero aperti anche se temevo fosse un’altra illusione.
Cercai allora di “mettere alla prova” i miei cinque sensi:
avevo gli occhi spalancati e vedevo il soffitto bianco che incontrava qualche
crepatura nell’angolo destro della stanza, le veneziane che al contatto con la
luce irradiavano l’aria di fantastiche forme colorate… Era certo, vedevo.
Punto numero 2: l’olfatto. Respiravo, ma non quell’aria che
emanava la mascherina ma bensì quella umida e degna di un freddo giorno di
Dicembre; tra gli odori mi sembrava di aver percepito anche un profumo di
fiori. Probabilmente sono quelli che
servono per abbellire postacci come questo. Pensai.
Per testare l’udito mi bastava starmene in silenzio ed
ascoltare il battito del mio cuore o il ritmo del mio respiro. Non percepivo
altri rumori nella bianca stanza e non mi sembrava di aver sentito nulla che
arrivasse da fuori la porta o dalla finestra.
Il silenzio più totale, quello che avresti desiderato dopo
una mattinata passata nel traffico di Seattle, quello che bastava a far
scatenare la bufera dei pensieri che non avresti mai immaginati di avere
accantonati in un angolo della testa, quello che, a dire il vero, un po’ mi
spaventava.
Decisi allora di accendere la tv per eliminare quel
fastidioso rumore, nonché il silenzio, buttai una mano sul comodino e iniziai a
tastare cosa ci fosse sopra, alla ricerca del telecomando.
Da quello che avevo capito c’erano una lampada, dei
centrini, un cellulare, un vaso con dei fiori ed il mio ricercato telecomando.
Spostai lo sguardo sul comodino per accertarmi che tutto quello che avessi
ipotizzato,fosse quello che realmente c’era, in effetti fu così.
Premetti un tasto e la televisione si accese su un canale
culinario; avevo tanta fame e quel programma non faceva che stuzzicare il mio
appetito, di lì a poco mi ritrovai a pensare che ore fossero, dopo tutto i miei
sensi erano apposto, quella che provavo era reale, avevo solo l’ultima cosa da
fare: collaudare il mio gusto.
Non avevo la più pallida idea di dove poter trovare del
cibo, pensandoci bene non avevo neanche realizzata in che posto fossi.
Alzai la testa dal cuscino e mi misi seduta sul letto
cercando di aver la miglio prospettiva possibile. Dove diavolo sono? Mi ripetevo costantemente, cosa? Una flebo attaccata al mio
braccio?Ma che schifo! Pensai con un’espressione nauseata. Odiavo gli aghi,
dovevano proprio ficcarsi dentro di me? No,mi faceva troppa impressione, così
decisi di strapparmi il cerotto che teneva saldato il mio braccio a quel
liquido infernale. Sentii l’ago uscire dalla mia vena che grondava sangue da
quel minuscolo buchetto. Tamponai con un po’ d’ovatta e misi le pantofole, pronta ad esplorare un
nuovo luogo in cerca di cibo.
Pensai bene di portare con me il cellulare:
-
“ Non si sa mai, potrebbe sempre servire”
sussurrai infilandomi la vestaglia.
Mi alzai dal letto cercando il mio equilibrio che, grazie al
cielo, ritrovai prima di cadere per terra come un sacco di patate.
Passo dopo passo mi avvicinavo alla porta lentamente non
sapendo cosa mi aspettasse o meglio chi mi aspettasse.
Non
sono mica capitata in un film horror! Ci sarà pur qualcuno qui! Anche se la
faccenda degli aghi mi fa paura…
Afferrai la maniglia, oltrepassai la soglia e mi chiusi la
porta alle spalle.
Il rumore dei fornelli provenienti dalla televisione in
camere si percepiva a malapena mentre il corridoio era rumoroso, sentivo delle
voci, il suono delle rotelle che slittavano sul pavimento piastrellato, delle
urla, qualcuno che piangeva e perfino il ticchettare di qualche stramba
macchina ospedaliera… eppure non vedevo nessuno, non ero ancora del tutto
convinta che fosse stato tutto strano o se fossi io quella che non stesse bene.
D'altronde ero finita all’ospedale, qualcosa che non andasse bene doveva
esserci per forza!
Più che camminare sembrava che fluttuassi, i miei piedi
erano coperti dalla lunga vestaglia di nylon e il mio aspetto faceva subito
pensare ad un fantasma in cerca di vendetta. Io non cercavo vendetta ma solo un
volto amico, anzi mi sarebbe bastato un volto qualsiasi, infondo, dovevo solo
domandargli se fosse tutto vero e se quel reparto fosse effettivamente occupato
solo da me. In quel caso sarei etichettata proprio come una squilibrata.
Vagavo per il corridoio guardando ad intervalli regolari
prima il pavimento e poi davanti a me.
Persi la cognizione del tempo e la mia testa si era appesantita
ogni minuto sempre di più da quando non avevo quella cosa attaccata al mio braccio.
Fortunatamente scorsi
una sagoma non più lontana da me di cinque o sei metri. La fissai, mi
era famigliare, era un uomo ma non era né Felix né tantomeno mio padre.
E ora
chi diavolo è questo?Perfetto, sono morta, me lo sento: morirò! Ma cosa sto
dicendo? Sono impazzita? Che pensieri stupidi! Riflettei
accantonando l’idea della morte.
-
“Hey tu, stai bene? Sembri tanto un fantasma
sai? Ti consiglio di andare a dormire” urlò la sagoma che ormai era
pericolosamente vicina.
-
“ Ascolta, se vuoi chiamo qualcuno che possa
aiut… Ellen? Sei proprio tu?” esclamò sorpreso.
Non riuscivo proprio a distinguere le forme del viso.
-
“ Sei davvero orrenda, complimenti! Mancavi solo
tu a rendere questo posto ancora più macabro. Sinceramente spero solo di andare
a casa a spupaz… ehm… a parlare con Sharon per molto tempo. Sai come sono
fatto, ho bisogno di tante attenzioni” rivelò l’ombra.
Un
momento, cosa ha detto? Spupazzarmi Sharon? Sai come sono fatto? Magari
potevo non vedere bene ma 2 + 2 ero ancora in grado di farlo. Nonostante la
facilità del calcolo potevo sempre sbagliarmi così, decisi di rispondergli con
una domanda:
-
“ Axel? Sei davvero tu?”
-
“ E chi sennò, un sexy e fashion Babbo Natale un
po’ in anticipo? Certo che sono io! Ma per caso ti ho già detto che sei
inguardabile?” rispose ironicamente ma anche con una punta di presunzione.
-
“ Almeno io non sto bene! Tu sei stomachevole
anche in perfetta salute!” gli feci una linguaccia.
-
“ Tutto apposto, stai bene. Ti sei ripresa solo
perché ti mancava insultarmi?” sorrise.
-
“ Non lo so, so solo che ora ho una fame da
lupi. Potresti accompagnarmi a mangiare qualcosa caro Babbo Natale?”
sogghignai.
-
“ Ma certo! Muoio di fame anche io! E credo che
possiamo anche tenercelo il nostro appetito…” sbuffò sconsolato.
-
“ Come mai?” chiesi insospettita.
-
“ È da tre giorni che cucinano sempre le stesse
schifezze qui… Ammetto di aver assaggiato il pollo e credo che sia stata
l’unica cosa commestibile in questo posto. Forse se proviamo a mischiarlo con
qualche salsa riusciamo a …”
-
“ Scusa come hai detto?” spalancai gli occhi.
-
“ Che penso di riuscire a salvare il pollo”.
-
“ No prima. Da quanto giorni?” alzai il tono.
-
“ Esattamente tre giorni e sei ore. Perché me lo
chiedi?”.
-
“ Che ora è? Che giorno?” aumentavo sempre di
più il volume.
-
“ Non hai
fatto un viaggio nel futuro, sono sempre le 11:30 del 18 Dicembre 2010. Mi spiace deluderti”
fece spallucce.
-
“ Vuoi dirmi che ho dormito per tre giorni
filati senza alzarmi nemmeno per cinque minuti? Urlavo…
-
“Calmati sorellina! Si, è così. Tu si che sai
recuperare le ore perse. De dovessi recuperare io tutte quelle perse con Shay
mi sveglierei nel 2100!”
-
“ Che presuntuoso! Pensare che Sharon venga a
letto con te mi dà i brividi. Poveretta! Ho sempre dedotto che avesse qualche
serio problema alla vista!” lo stuzzicai.
Rispose
semplicemente alzando un sopracciglio come se volesse dirmi «Ah, Ah, Ah, ma
quanto sei simpatica!».
Parlando
con Axel il tempo passava e aveva ripreso ogni sua forma e consistenza. Avevo
solo dimenticato che in quel momento la testa era pesante come un’incudine da 1000 Kg e le gambe mi
reggevano per miracolo.
-
“Reggimi” gli dissi con tono impercettibile ma
lui, non so come mi sentì comunque.
Mi
lasciai andare, sapendo o sperando che mi avesse sorretto, lui posò il suo
braccio sul mio fianco e mi riportò in camera si accorse che la flebo
continuava a scorrere a vuoto.
-
“Hai autonomamente deciso di lasciarti morire
oppure c’è una spiegazione valida per questa flebo che dovrebbe, e dico
dovrebbe, essere attaccata al tuo braccio?” mi sgridò incazzato nero.
-
“Sai quanto mi danno fastidio, non le sopporto!
Preferirei bere quella cosa tutto d’un fiato piuttosto che farmi bucherellare
come un colapasta”.
-
“Non puoi non tenerla! Vuoi capire che è per il
tuo bene?”.
-
“Ah si? Se è così importante allora dimmi almeno
che cos’è!” berciai.
-
“Sei furba sai? Tu sai perfettamente che non ne
capisco nulla di queste cose! Se l’hanno messa lì ci sarà un motivo! E poi non
centra nulla sapere che cosa sia, se serve a farti sentire meglio basta ed
avanza!”
-
“Ti preoccupi per me adesso? E da quando?”
sbraitai offensivamente.
-
“Da sempre! Mi sono preoccupato quando ti è
venuto il morbillo a tre anni, mi sono preoccupato quando ti sei rotta il naso
a sette e quando ti hanno ingessata il braccio a dodici… E mi sono preoccupato
tre giorni fa, quando Sharon in preda al terrore mi ha avvertito che Fel ti
stava portando in ospedale. Ti basta? In realtà ho sempre voluto proteggerti e,
per quanto sia inutile negarlo agli altri e a me stesso, è una cosa che mi
porterò dietro per tutta la vita. Sei pur sempre mia sorella Ellen. Ti voglio
bene…”
Il suo
tono era decisamente più alto del mio anche se nell’ultima parte si sentì un
leggero tremolio nella voce, come se volesse piangere.
Mi
sentivo… non lo so… ero…
Sono una stronza! Una stronza che parla
solo per fare qualcosa! Vorrei tanto picchiarmi da sola. Ti preoccupi per me
adesso? Ma che cavolo di esclamazione è? Ha sempre pensato a me e io lo rimprovero
per una cosa che non è assolutamente vera? Ho proprio bisogno di una T.A.C. al
cervello!
Cosa
potevo fare per salvare la situazione? Dare le mie scuse era assolutamente
dovuto e poi? Cos’altro?
-
“Scusa Axel, hai regione tu, sono una totale
cretina… con la storia del trasferimento sono andata in tilt. Non so che fare, che pensare, o peggio ancora cosa
dire” avevo gli occhi lucidi, non era un bene.
Se
avrei iniziato a piangere, molto probabilmente, avrei risucchiato Axel in quel
baratro con me. Dopotutto anche lui doveva abbandonare tutti i suoi amici, la
sua squadra di basket e anche la sua ragazza. Sarebbe stata più dura per lui
che per me. Incominciai a pensare a quanto forte dovesse essere mio fratello, a
quanto fosse più forte di me nell’affrontare le situazioni.
-
“Non importa, lascia stare. Siamo un po’ tutti
frastornati. Ora stenditi e, per favore, flebati”.
-
“Flebati? Ma che temine è?” chiesi sogghignando.
-
“Uno nuovo, dicono sempre che arricchire il
vocabolario fa bene al cervello” sorrise indicando la tempia.
-
“Si vero, ma con parole esistenti, non devi
inventarle tu!” scoppiai in una risatina piacevole.
Riusciva
sempre a farmi ridere, lo consideravo ormai un suo superpotere.
-
“Su, dai, dettagli!” esclamò divertito.
-
“Comunque non scherzo, sbrigati!” continuò
cambiando bruscamente espressione.
-
“Ok, altri cinque minuti va bene?” cercai di
patteggiare.
-
“Te ne concedo due”.
Si
voltò e uscì dalla stanza. Non c’era bisogno che mi dicesse dove stesse
andando, lo sapevo già.
Sarebbe
tornato con due piatti di pollo in mano, seguito da mamma e papà.
Non
aspettavo altro che rivedere la mia famiglia al completo, in effetti, non li
vedevo da tre giorni.
E
così si conclude il terzo capitolo, mamma mia come passa il
tempo ^.^ Comunque spero che vi sia piaciuto e per farmelo sapere
commentateeeeeeeeeeeee!! grazie mille =)
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Capitolo 5 *** Sorpresa! ***
Sorpresa!
CAPITOLO 4 Sorpresa!
Guardavo la flebo con disprezzo.
Avevo solo due minuti e poi Axel sarebbe tornato in camera e, sicuramente,
avrebbe controllato il mio braccio.
Afferrai l’ago e lo fissai a lungo,
sprecando così i miei preziosi minuti di tregua.
Prima che potessi conficcarlo nella
vena, bussarono alla porta. Fui immediatamente grata di avere delle visite,
speravo solo che non fosse mio fratello.
-
“Posso entrare?”
chiese una voce stridula.
-
“S-Si, avanti”
balbettai non sapendo chi fosse.
La porta si aprì e, cautamente,
un’infermiera entrò, trasportando un piccolo carrello. Si chiuse la porta alle
spalle e mi guardò imbarazzata.
-
“Sono venuta
per…” si decise a parlare ma la fermai.
-
“Si, lo so, a
sostituirmi la flebo o per controllare che la abbia al braccio” dissi sicura di
me porgendogli l’arto.
Osservavo le sue guance che attimo
dopo attimo si arrossivano sempre di più.
Iniziavo ad insospettirmi. Perché era
tanto impacciata? Era forse il suo primo giorno e non aveva preso confidenza o,
semplicemente, lo era già per fatti suoi?
-
“No, veramente
no. Mi scusi se sono arrossita ma suo fratello Axel…”
-
“Ha fatto il
cretino con lei? Appena torna gliene
dico quattro!”.
-
“No, no,
assolutamente. Ha solo fatto una richiesta ma, scusi la sincerità, è davvero
molto, molto carino”.
Adesso si che era davvero rossa dalla
vergogna. Era un’altra ragazza castana nel suo fascino da giocatore di basket.
-
“ Oh bene,
scusami tu allora… comunque… se non è per la flebo, che richiesta le ha fatto?”
domandai incuriosita alla giovane donna con il camice bianco.
-
“Mi ha solo
chiesto di portarle questi”.
Sollevò il telo che ricopriva il
carrello, prese due piatti e mi porse: pollo e pancakes.
-
“Oh, grazie
mille, in effetti morivo di fame!”
-
“Di nulla, si
figuri”.
Strava per voltarsi ed uscire dalla
stanza ma, avendo un dubbio chiesi:
-
“Mi scusi!” feci
per chiamarla.
-
“Si? Mi dica”
rispose disponibile voltandosi verso di me.
-
“ Per caso, qui
in ospedale, cucinano i pancakes? Francamente, non sembra affatto un dolce
preparato qui”.
-
“No, credo che
quei pancakes siano un regalo da una certa S-Shay… almeno credo si chiamasse
così: una ragazza biondina, occhi azzurri e magrolina”.
Parlava di Sharon così tristemente
che in quel momento capì che questa giovane dai capelli raccolti in una retina,
aveva afferrato che Axel fosse fidanzato.
-
“Grazie mille!”
risposi semplicemente aprendomi in un sorriso splendente.
Abbandonò la sala guardandosi i
piedi, trascinandosi il carrello sconsolatamente.
Sharon
sei il mio mito! La mia salvezza!
I pancakes con cioccolato, noccioline
e tanta, tanta panna, proprio come piacevano a me. Mi conosceva proprio bene.
Aspetta
un attimo! Shay è qui! Perché non viene a trovarmi? Potevamo mangiare insieme,
parlare, passare il tempo… forse… è passata quando dormivo o peggio non è
entrata perché non voleva vedermi così! No, non è da lei.
-
“Non azzardati a
mangiare quelle delizie da sola! Stiamo morendo tutti di fame qui! Abbi pietà e
dividiamo!”
-
“Shay, Fel! Che
bello vedervi! Fatevi abbracciare!”
Si avvicinarono e ci stringemmo in un
caloroso abbraccio collettivo.
-
“Che fai Fel, mi
sbavi addosso? Non preoccuparti, mangeremo presto!” sorrisi allegramente
seguita dai due.
-
“Come stai
adesso?”.
Stavo per risponderle ma mi
interruppe appena aprii bocca.
-
“No zitta, lo so
già. Si mia adorata amica, mi sono informata e vuoi sapere una buona notizia?”
-
“Domani torni a
casa!” canticchiò Felix gioioso come non mai.
Gli saltai addosso per la ferità,
abbracciandolo forte. Con coda dell’occhio vidi Sharon mentre alzava gli occhi
al cielo e scuoteva la testa mostrando il suo disaccordo.
Mi staccai da Felix e mi voltai verso
di lei che mi guardava scherzosamente offesa:
-
“Non è che per
caso ora sono seconda nella tua graduatoria vero? Se è così, sappi che sarò
costretta ad uccidere il qui presente usurpatore”.
-
“Dai Shay, non
rivolgerti così a questo poverino” dissi scompigliando i capelli di lui con la
mano.
-
“Si, si, certo,
passami pure in secondo piano, te ne pentirai amaramente cara mia e sappi che
non ti preparerò più…”
«Drin drin» trillò il cellulare di
Shay.
Io e Felix continuavamo ad insultarci
facendoci il solletico.
-
“Scusate è mamma,
devo proprio rispondere”.
Ridevo a crepapelle combinando un
baccano tremendo.
-
“Mamma! Non ti
sento! Grida! Oh ragazzi, che caos! Esco fuori a vedere se c’è linea e vado
lontana da voi! Ma riprenderemo il discorso più tardi!” disse uscendo dalla
porta in cerca di silenzio.
La porta sbattè e per un ci fermammo.
Io lo fissavo e lui fissava me.
Sicuramente
vuole mangiare i pancakes senza Sharon e ora inizierà a supplicarmi.
Invece mi… baciò. Si, proprio così,
prese il mio viso tra le mani e mi baciò sulle labbra. Non sapevo quello che
facevo eppure le mia labbra si muovevano con le sue, in armonia perfetta. Gli
gettai le braccia al collo e lo spinsi contro di me con una forza incredibile.
Lo desideravo, lo desideravo tanto. La sua mano era sul mio viso e l’altra
tracciava il percorso della spina dorsale sulla mia schiena.
Quando la sua prese mi avvolse,
sentii un brivido sulla pelle, che arrivò dritto al cervello. Quel tremito mi
svegliò, finalmente, mi chiesi cosa stessi facendo.
Sapevo di dovermi staccare da lui ma
non volevo, non riuscivo. Felix non aveva intenzione di lasciarmi, mi feci
coraggio e dolcemente allontanai il mio corpo dal suo con espressione afflitta.
Non conoscevo il dopo di quelle
situazioni ma, il prima mi aveva fatto tremare il cuore.
Mi guardò con quegli occhi verdi
maledettamente profondi e mi fissò come se avesse voluto dirmi “c’è qualcosa
che non và?” oppure “ Tu sei d’accordo?”.
Ovviamente non sapevo che dire. Gli presi la mano e
ricambiai lo sguardo.
Non so perché lo feci ma mi venne
spontaneo.
Lo guardavo e tornavo indietro con i
pensieri, ricordando quel momento.
Due calamite che generavano il campo
magnetico più potente che abbia mai visto. Pensavo a come poter resistere a
quei due smeraldi che avevo di fronte.
-
“Scusate, mia
madre è una rompiscatole! Allora diceva…?”.
Aveva visto: le sue mani nelle mie,
che ci fissavamo, vide tutto.
-
“Finalmente sei
tornata! Se avresti tardato anche altri due minuti, Felix avrebbe fatto fuori
tutto! Gli ho bloccato le mani sperando di guadagnare tempo” improvvisai…
mentendo.
Ci fissò per un po’… prima me e poi
lui, tutto in religioso silenzio.
Ti
prego, ti prego, ti prego… supplicavo.
-
“Felix…” lo
chiamò fissando il vuoto.
Merda!
Ha capito! Addio amici per sempre!
-
“Si?” rispose guardingo.
-
“Tu sei un uomo
morto! Come hai osato, anche solo pensare di mangiare i miei pancakes da solo
eh? Ingordo?” urlò con voce squillante fondandosi su di lui per dargli un pugno
sulla spalla.
Tirammo un sospiro di sollievo, mi
aveva creduto.
-
“E comunque sei
fortunato oggi, non posso vendicarmi adesso, c’è Axel che vuole dirti qualcosa.
L’ho visto nella sala dei distributori automatici” sbuffò.
-
“Si grazie, ci
vado subito”.
Sfilò le mani da quel groviglio e si
diresse verso Axel.
-
“Non mangerete
tutti i pancakes da sole vero? Mi aspetterete…” supplicò scherzosamente.
-
“Sparisci ingordo
che non sei altro!” disse Sharon mostrando la lingua.
Lo vidi sparire ancora una volta
dietro una porta. Ultimamente ci dividevamo così.
Rimanemmo sole, io presi il piatto con
i dolci cercando di tentare Shay, del tutto ignara di ciò che stesse per
accadere.
Misi il piatto proprio sotto il suo
naso e lei con una mano lo scostò.
-
“Dimmi tutto Ell!
Voglio la verità! Sarò anche carina, simpatica, allegra, intelligente, acuta,
carismatica, elegan…”
-
“Shay!” la fermai
prima che potesse elencate tutti i suoi pregi.
-
Insomma, sarò
anche tutto questo ma non sono scema Ell! Cos’è successo mentre non c’ero?” mi
squadrò.
Rimasi in silenzio, non sapendo come
poter descrivere la scena.
Dovevo negare tutto? Non me la
sentivo, aveva ragione, non era stupida.
Cercavo di riassumere tutto in modo
da poter raccontare quegli attimi di pura euforia eppure non riuscivo a trovare
delle parole adeguate.
-
“Avanti! La
storia dei pancakes non è per niente credibile. Sai che puoi dirmi tutto no? Lo
hai baciato?”
-
Cosa ti fa
credere che l’abbia baciato io?” mi innervosii.
-
“Perché ti piace,
perché ti ha salvata la vita, perché avevi le sue mani nelle tue, perché…”
catalogò indicandosi una dopo l’altra le dita come per contare le immense
ragioni per cui avrei potuto farlo.
-
“Ok ok, potrà
sembrare così ma… è stato lui” bisbigliai
-
“Lui? Wow… e da
quando è innamorato di te? Com’è stato? Com’è iniziato? Non ho un’idea di come
tu o Felix sappiate baciare, visto che non vi ho mai beccati farlo con nessuno.
Ciò vuol dire che devi dirmi tutto.”
Saltellava sul letto.
-
“Vuoi dirmi che
non sei arrabbiata?” domandai sorpresa.
-
“No”.
-
“Neanche un
po’?”.
Scosse la testa.
-
“Il pensiero di
arrabbiarti neanche ti sfiora?”
-
“Assolutamente no”.
-
“Ma che vuol
dire? Non capisci che questo potrebbe comportare dei cambiamenti enormi?
Ammettiamo che io decidessi di fare coppia fissa con Felix e poi, dopo un po’,
decidessi di lasciarlo? Non saremmo più amici… e io non voglio! Non ti
dispiacerebbe affatto?” dissi agitandomi con le lacrime agli occhi.
-
“So che non
accadrà. Vi volete bene, ci vogliamo bene. Non può separarci una cosa del
genere, è troppo poco. Lui non può far a meno di te e tu lo stesso, è
praticamente impossibile”.
Anche lei… mi guardava negli occhi e
mi calmava. Era una parte di me, quella che adoravo di più.
Rimasi in silenzio, sperando che le
sue parole fossero una sorta di premonizione.
-
“Ora, risolte
queste questioni… vuoi dirmi tutto o no?” chiese con la voce di chi pretende
qualcosa.
Aveva un sorrisetto malizioso sulla
bocca e al vederlo iniziai a ridere, dimenticando le lacrime.
Le raccontai tutto senza molti giri
di parole: le nostre labbra, il mio desiderio, il brivido, tutto.
-
“Ora si che sono
realizzata!” sospirò raggiante.
-
“Posso chiederle
come mai donzella?” dissi imitando la voce di un lord e accostando una ciocca
di capelli sul labbro per creare dei baffi.
-
“Perché avevo
ragione, perché avevo ragione…” cantilenò come una bambina.
Mi tappai le orecchie e iniziai a
cantare per non ascoltarla.
Eravamo proprio due bambine.
Mentre continuavamo a giocare,
arrivarono Axel e Felix.
-
“Siamo ancora in
tempo?” curiosò Axel sbirciando sul piatto.
-
“Siete davvero
baciati dalla fortuna oggi!” esclamò Sharon.
-
“Shay, avevi
detto che Axel doveva dirmi qualcosa e invece…”
-
“Si scusa, mi
sono confusa. Volevo fermarti ma eri già lontano”.
-
“Se non avete
mangiato, che avete fatto?”
-
“Niente,
fratellaccio ficcanaso! Non sono affari tuoi!” lo stuzzicai.
Felix mi lanciò un’occhiata
interrogativa ed io, non so come, lo rassicurai non dicendo una parola.
Forse avevo anche io una specie di
superpotere.
Non ero convinta di aver mandato il
segnale giusto ma, in quel momento, mi sembrava la cosa migliore da fare.
Sapere che lo avevo rassicurato mi
faceva sentire in un certo senso utile.
Smisi di pensare, il mio stomaco
reclamava il suo pranzo.
Decidemmo finalmente di mangiare il
tanto atteso pollo seguito dai pancakes.
Guardandomi intorno vedevo la mia
felicità. Mi sentivo amata dalla mia famiglia, dai miei amici e da quel giorno
anche da un altro punto di vista: mi sentivo amata dal mio amico… speciale.
Non ero pronta a chiamarlo ragazzo… tantomeno il mio ragazzo.
Alzai lo sguardo su di lui e
contemporaneamente lui su di me.
Possibile che avesse pensato la
stessa cosa che avevo pensato io? Lui mi avrebbe mai chiamato la sua ragazza?
Tornava la sensazione: lo volevo, lo
volevo accanto, lo volevo mio.
Quando tutti sarebbero andati via
l’avrei fermato.
Avevo bisogno di lui, avevo bisogno
di noi.
Grazie a tutti i lettori e anche qualche commento non sarebbe male! A prestooo!!!
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Capitolo 6 *** Maledetta scatola palpitante! ***
Maledetta scatola palpitante!
CAPITOLO 5 Maledetta
scatola palpitante!
Axel si leccava i baffi nella speranza di assaporare meglio il gusto
dei pancakes che si era divorato in meno di due minuti, Felix raccoglieva con
un dito le briciole rimaste sul piatto e Sharon mi guardava mentre avevo ancora
tra le mani il mio ultimo pezzo traboccante di panna.
-
“Guardami quanto
vuoi ma non ti cederò mai il mio ultimo pezzo, l’ho tenuto per ultimo apposta!”
le dissi scuotendo la testa.
Mi guardavano tutti e tre o
meglio, guardavano il mio ultimo boccone
con ingordigia.
-
“R-Ragazzi, non
penserete davvero di privarmi del mio ultimo brandello di felicità?” recitai
ironicamente.
-
“No, non
preoccuparti. Non sentirai nulla se stai ferma!”
-
“Fratello
famelico! Allontanati da me!”.
Misi una mano tra di noi come
per poterlo fermare nel suo intento.
Con un balzo mi saltò addosso
tentando di divorarmi anche l’intera mano se fosse stato necessario.
-
“Axel lascia in
pace tua sorella!”.
-
“Mamma! Papà!”
esultai dalla gioia lanciando in aria il dolce.
Axel lo riprese con la bocca.
-
“Può andarti di
traverso, cretino!” esclamò preoccupata Shay che con la mano salutava i miei
genitori.
Si guardava compiaciuto, era
riuscito nel suo intento.
Felix accennò un movimento
con testa e sorrise, era perfettamente a suo agio.
-
“Tesoro, non
stringerci così forte! Abbiamo le ossa fragili!” tossì.
-
“Si , scusa papà
ma non vi vedevo da molto tempo”.
-
“Siamo venuti a
prendere la tua roba, come avrai saputo domani ti dimettono” mi disse mia madre
con un sorrisone.
-
“Certo! Non vedo
l’ora! Ma… cosa avevo? O cosa ho… non so ancora il motivo del mio ricovero, ti
sembra normale?” chiesi preoccupata a mia madre.
-
“Avevi la pressione sanguigna alle stelle e
non si stabilizzava, i medici temevano che avessi avuto un infarto cardiaco,
avevi il cuore che stava per balzarti fuori dal petto. Poi hanno pensato
all’ipertensione essenziale quando hanno notato che non ti svegliavi ma si sono
tranquillizzati quando ti hanno vista cosciente… più o meno…”
Non risposi.
Capivo perfettamente cosa
volessero dire tutte quelle parolone da dottori.
Io e mamma capivamo qualcosa
di medicina mentre Axel e Antony, possiamo dire che se non ci fosse stata mamma
mi avrebbero dato per morta solo per aver sentito nominare: ipertensione,
infarto e cuore.
-
“Quindi il suo
cuore non è apposto adesso?” domandò impaurita Sharon.
-
“No, è tutto ok,
si è ripresa benissimo… per questo la lasciano andare già da domani” la
tranquillizzò.
-
“Bene, io… voglio
bene al mio cuore! Ogni tanto impazzisce ma è del tutto normale, tutti diamo i
numeri ogni tanto”.
-
“No, non è per
niente normale!” berciò Felix aggrottando la fronte.
Ci teneva a me, lo faceva
vedere tranquillamente a tutti, non ne aveva paura né vergogna.
Lo vidi così spaventato,
nervoso, si sentiva impotente.
Non mi importò niente, dovevo
tranquillizzarlo ma temevo che il mio superpotere non sarebbe bastato.
Mi diressi verso di lui
abbracciandolo forte, le lacrime mi rigarono il volto.
Avrei voluto dirgli che io e
il mio cuore non saremmo andati da nessuna parte ma non potevo. Saremo andati
via, in Canada, dove avremo sofferto tutti e due: io e la mia imprevedibile
scatola di metallo che mi batteva nel petto, incapaci di poterci opporre a
quella sensazione.
Tutti nella stanza mi
guardavano con tenerezza. La mia famiglia sapeva perfettamente il motivo del
mio malessere.
-
“Dimmi che non
permetterai al tuo stupido cuore di andare via…” supplicò Fel.
No, non te lo dirò. Non posso… cerca di
capirmi ti prego…
-
“Felix, possiamo
parlare?” lo invitò Axel con le mani in tasca e con l’espressione più seria che abbia mai visto
sul suo viso.
Mi voltai verso di lui,
fulminandolo con lo sguardo.
-
“Ora o mai più”
mi rispose rassegnato avendo notato la mia faccia.
Cosa? Sta per dirgli tutto? È impazzito? Non può farmi
questo…
-
“Non lo fare, c’è
ancora tempo. Lo prometto, lo farò io! Ti prego!” lo implorai.
-
“Capisci che non
può continuare così? La vuoi smettere di fare del male a tutti?” sbraitò contro
di me.
-
“Neanche tu hai
detto niente alla tua ragazza e al tuo amico, anche tu fai del male a tutti! Sei
codardo quanto me!” lo aggredii.
-
“È da tre
settimane che prometti di dirlo, io non posso aspettare ancora: o lo dici
adesso tu oppure lo faccio io”.
Né Shay né Fel riuscivano a
trovare una logica nella nostra discussione, ascoltavano stupiti quella lite,
non sapendo cosa pensare.
Percepii una fitta allo
stomaco, esattamente come quella che ebbi sul treno.
Non posso svenire o dirà tutto! Non adesso, maledetta
scatola palpitante! Aveva ragione Felix, ho un cuore stupido!
-
“Axel esci subito
da qui!” ordinò mio padre.
-
“Cosa?” sbottò.
-
“ Hai sentito tuo
padre? Muoviti!” lo spalleggiò mamma.
Uscì dalla stanza sbattendo
la porta.
Mi sdraiai sul letto, cercai
di regolare il battito cardiaco e chiusi gli occhi per concentrarmi.
Antony seguì mio fratello nel
corridoio, i miei amici si guardavano l’un l’altro e mia madre mi mise al
braccio la flebo che avevo dimenticato.
Sapevo di non averne bisogno,
ormai il pericolo era passato.
Axel non poteva dire niente:
lo avevano allontanato.
Alla prima occasione che gli
fosse capitata gli avrebbe riferito tutto.
Devo farlo io. Magari quando starò
meglio…
Stavo rimandando ancora una
volta.
Gli dirò tutto quando starò meglio… lo prometto a me
stessa.
-
“Non voglio
riposare ancora, ho dormito abbastanza” sussurrai.
-
“Ok, ma rimani
stesa intesi?” mise in chiaro Amanda.
Acconsentii facilmente, non
avevo nessuna intenzione di alzarmi e nemmeno nessuna forza.
Si poteva perdere le forze in
così poco tempo? Il corpo umano è una bomba ad orologeria, può esplodere da un
momento all’altro per qualsiasi motivo, anche per il più superficiale.
-
“Tesoro, prendo
la tua roba e corro a casa. Deve essere tutto pronto al tuo ritorno”.
Aprì l’armadio che si trovava
di fronte al mio letto, afferrò un sacco di lenzuola, vestiti e asciugamani con
un braccio solo mentre l’altro era occupato a ghermire due cuscini dall’altra
anta.
La osservavo in tutta la sua
agilità.
Non l’avevo mai vista fare le
pulizie,noi avevamo Sofie, la nostra domestica che si occupava di tutto.
I miei genitori erano troppo
occupati con il loro lavoro e noi con la scuola e le partite, ci serviva una
mano: la casa era grande, aveva anche il giardino, la stanza da lavoro della
mamma era sempre piena di stoffe e
nastrini buttati per terra, doveva cucinare, lavare, stirare, spolverare
e poi… la stanza di Axel era una discarica monumentale.
Nonostante la sua età, se la
cavava benissimo. Portava i suoi 54 anni con meravigliosa allegria.
Anche lei era parte della
famiglia.
Ricordo che al suo dodicesimo
mese di servizio, le arredammo una stanza tutta per lei in modo che potesse
rimanere a dormire invece di guidare di notte fino a casa sua... dopotutto
anche lei aveva una sua famiglia: un bellissimo bambino di tre anni e una
sorella, Linda, che badava a lui quando lei lavorava, praticamente era la sua
seconda mamma.
Geof era un pupo dagli occhi
particolari: ne aveva uno verde ed uno castano.
In effetti Sofie aveva gli
occhi verdi mentre il suo marito gli aveva castani, «una rara situazione
genetica» dicevano i medici.
Purtroppo il signor Oliver
non fece in tempo a vedere suo figlio nascere: perse la vita a causa di un
tumore ai polmoni.
A metterci al corrente di
tutto fu la sorella… da quel giorno la famiglia Fox e la famiglia Mills
condivisero il tetto.
Lo spazio non mancava e
sarebbe stato più comodo per Sofie così, decidemmo di unire le due famiglie.
Ne era entusiasta: si sentiva
proprio a casa sua.
Aveva solo la famiglia un po’
più grande: io e Axel facevamo i babysitter a Geof, la mamma cuciva vestiti per
tutti e papà… beh… portava lo stipendio.
In fin dei conti, ero
dubbiosa… non vedevo Sofie nei paraggi… forse era rimasta a casa.
Il cigolio della porta mi
distrasse, facendomi ritornare con i piedi per terra.
Sono sola adesso! Mi chiederanno della scenata fatta
poco fa davanti ai loro occhi. Cosa cavolo dico? Non mi sono ripresa del tutto!
No, stronzate! Mi sono ripresa eccome! Non mi nasconderò più ora, se
chiederanno risponderò.
Silenzio totale.
Mi mangiavo le unghie per il
nervoso.
Aspettavo che qualcuno
parlasse, forse avevano paura del mio cuore.
-
“Vado a vedere
come sta Axel” ruppe il silenzio Sharon.
-
“No! Non andare!”
la fermai cercando di distrarla dalle sue intenzioni.
-
“Perché?” chiese
dubbiosa.
-
“Dovresti farmi
un favore” temporeggiai cercando una scusa giusta per fermarla senza dire
nessuna bugia.
-
“E quello che sto
cercando di fare, scemotta!” mi fece l’occhiolino senza farsi vedere da Felix.
Cosa? Non voleva davvero
parlare con Axel? Era una scusa per lasciarci soli? Non voleva sapere nulla
sulla lite? Non potevo azzardare una mossa del genere, dovevo assicurarmi in
qualche modo che non sarebbe andata da mio fratello che rischiava di
spifferarle tutto.
-
“Beh grazie, ma
dovresti farmene un altro oltre a questo” dissi imbarazzata.
-
“E sarebbe?”
chiese falsamente scocciata.
-
“Non parlare con
Axel se lo vedi e se ti vuole parlare, tu non lo ascoltare… per favore, ti
spiego tutto dopo, promesso”.
-
“Va bene… anche
se mi stai chiedendo di non parlare al mio ragazzo. Lo posso almeno baciare?
Giuro che non mi farò dire niente” domandò supplicandomi.
-
“Ma certo, quello
che fate non mi riguarda. L’importante e non parlargli e non lasciare che ti
parli. Puoi baciarlo ad oltranza per non fargli aprire bocca, per me va
benissimo”.
-
“Ok, perfetto…
allora… vado, a dopo”.
Fece una piroetta facendo
svolazzare tutti i capelli e se ne andò.
Felix non diceva nulla, non
alzava lo sguardo: se non lo conoscessi, avrei detto che fosse una statua di
cera.
Pensava a qualcosa,
probabilmente alla discussione con Axel.
Anche in quel momento speravo
che non mi chiedesse nulla, avrei dato la notizia a tutti e due nello stesso
modo e nello stesso momento.
Dalla sedia si spostò accanto
a me sul letto.
-
“Devi dirmi
qualcosa?” chiese freddamente senza alzare lo sguardo dal pavimento.
-
“Qualcosa a
proposito di che?”.
-
“A proposito
della lite con Axel”.
Presi
fiato per rispondere in qualche modo vago ma mi pose un’altra domanda non
appena aprii bocca.
-
“E Sharon sa di
noi?”.
Finalmente alzò lo sguardo.
Come potevo nascondere quel
problema ai suoi occhi?
Decisi di rispondere solo
alla sua seconda domanda e sperando che si fosse aperto da lì a poco un nuovo
discorso che non riguardava Axel e me.
-
“Si, Shay non è
stupida. Ha capito tutto da sola non appena mi ha vista in faccia” gli sorrisi
piegando leggermente la testa.
-
“Ah… ok. Ha detto
qualcosa che esprimesse il suo dissenso? O disgusto, o disapprovazione, insomma
hai capito”.
-
“No anzi, è
contentissima per… noi”.
-
“Bene” mi
rispose, solo un bene.
Rivolse ancora una volta lo
sguardo sulle piastrelle della stanza.
Stava pensando troppo, si
avvicinava il momento della verità ed io ero pronta a ritardarlo in qualsiasi
modo.
-
“Non riesco a non
pensarci, te lo devo chiedere…”
No, no, no, no, ti supplico, ti
supplico…
-
“Cosa voleva
dirci Axe…”
-
“Baciami!” lo
interruppi avvicinando il mio viso al suo.
-
“Come? Hai per
caso detto…”
-
“Ho detto baciami
Felix” ripetei con voce tremolante.
Mi fissò per un po’… almeno…
così mi sembrò.
Aveva capito che evitavo il
discorso ma non controbatté, mi afferrò per i fianchi e mi tirò verso di sé.
Avrei voluto che quel momento
non finisse mai.
Per me il sipario poteva
benissimo calare in quel momento.
Continuavo a baciarlo e ad
accarezzargli i capelli.
Il mio respiro gli appannò
gli occhiali, li afferrai e li lanciai non so dove.
Si sentì il rumore provocato
dalla caduta non molto lontano dal lettino che ormai, non ospitava solo un
corpo ma due.
Lo avevo trascinato con me
sulla branda, continuavo a baciarlo con passione, cominciò a baciarmi sul collo
mentre io odoravo il suo profumo.
Io non mi sarei fermata, ero
troppo coinvolta per farlo, non gli davo un attimo di libertà, neanche il tempo
necessario per respirare.
Era inutile respirare,
dopotutto il quel momento lui era il mio ossigeno ed io ero il suo.
-
“Dovrei farti
questa domanda ogni volta per ottenere questo?” sorrise in quel piccolo istante
di tregua.
-
“Non contarci
troppo” gli sussurrai nell’orecchio sarcasticamente.
-
“La speranza è
l’ultima a morire”
-
“Si certo”.
Continuavo a baciarlo, volevo
solo sentire il suo sapore unirsi al mio, se avessi continuato così mia avrebbe
scambiata per una maniaca.
-
“Sai, il tuo stupido cuore mi piace da
impazzire. Mi dispiace averlo insultato prima”.
-
“Stai parlando
troppo, zitto e baciami”.
Ero senza controllo.
-
“Dico sul serio”
si fermò all’improvviso.
-
“Lo so, ma stai
tranquillo… il mio cuore non potrebbe stare meglio di così”. Lo rassicurai.
Poi pensai che, in realtà, la
mia scatola metallica sarebbe potuta stare meglio di come stesse in quel
momento.
Sapendo che avrei dovuto
allontanarmi da loro, era come se mi prendessero il cuore tra le mani e
iniziassero a stritolarlo per poi farlo esplodere.
Faceva male, faceva male per
davvero.
Rallentai il ritmo dei baci
per recuperare un po’ di regolarità cardiaca ma non cambiò nulla: faceva ancora
male.
Mi fermai del tutto e fermai
anche lui.
Capì al volo che non stavo
bene.
-
“Fermiamoci qui,
basta per oggi, posseduta!” scherzò poggiandomi la testa sul cuscino.
-
“E pensa che la
flebo mi è stata d’intralcio” confessai ironicamente.
-
“Oh mamma mia,
incominci a farmi paura! Comunque vado a cercare Shay”.
-
“Potresti
trovarla attaccata ad Axel come un polipo” scoppiai a ridere.
-
“Per questo vado
a cercarla, non voglio un’altra ricoverata!”
-
“Si
giusto…Felix…” lo fermai prima che potesse varcare la soglia.
-
“Dimmi”.
-
“Non sparire
dietro quella porta. Troppe volte ti ho visto farlo”.
-
“Mmm… vediamo..
si, si può fare” pensò tra sé e sé.
-
“Si può fare
cosa?” mi incuriosii.
-
“Non mi vedrai
sparire da una porta… la finestra va bene?”
-
“Cosa? Sei
impazzito? Siamo al primo piano! Ti farai male, io non intendevo…”
-
“Tu non
preoccuparti, ci vediamo presto Ell!”
Si catapultò fuori dalla
finestra e poi udii un tonfo.
Oh mio Dio! Si è ammazzato!
Mi alzai dal letto in preda
al panico, mi lanciai verso la finestra e guardai per terra sperando di non
trovarlo in preda al dolore.
Ero terrorizzata da quello
che avrei potuto vedere quella mattina, non avrei potuto assistere ad una scena
di quel calibro.
Se così fosse stato, non
avrei neanche perso tempo a scendere le scale.
Mi sarei buttata anch’io,
senza dubbio.
Probabilmente mi sarei fatta
male, ma non mi importava, potevo
insabbiare quello spasimo, non potevo pensare a me.
-
“Ell tranquilla,
sto benissimo. Sei contenta?” mi urlò dal pianoterra, soddisfatto di avermi
accontentata.
Tirai un sospiro di sollievo.
-
“Non farlo mai
più! Potevi rimanerci secco. Hai rischiato di farmi morire d’infarto! Tu sei
pazzo!” ribattei con rabbia.
-
“Non è la pazzia
la ragione per il quale qualcuno agisce follemente, ma è il motivo per cui è
tentato di farlo, nel mio caso tu” sorrise.
-
“No nel tuo caso
è la pazzia, credimi!” arrossii.
Abbozzò un sorriso e si
diresse verso l’entrata dell’ospedale.
Ha fatto un gesto del genere solo per farmi contenta,
è proprio pazzo!
Se devo dirla tutta, oltre ad
essere blandita, ero anche molto appagata.
Sapere che si sarebbe lanciato
dalla finestra per me, oltre che a farmi paura, mi faceva sentire, in un certo
senso, al centro della mia vita.
Sentivo che aveva uno scopo,
quello che molti ignorano o che rigettano: l’amore.
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