Primavera di minimelania (/viewuser.php?uid=64923)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 1 *** Capitolo Primo ***
Primavera
Il
sole galleggiava immobile quando giunse la
nave della peste. Si chiusero i cancelli del porto, e si
aspettò di vedere che
passava. Ne capitavano spesso in quei giorni di navi piene di
gente, stracci
marci e gemiti simili al verso dei gabbiani. Sfilavano all'orizzonte
nel tetro
ronzio delle api. Erano tempi in cui la disgrazia d'altri costituiva
già da
sola una fortuna.
L'aria era immobile, la pioggia lontana come
sono lontani i pianeti nei loro inutili riti siderei. Ma la nave di
quel giorno
rimase più a lungo immobile sul ciglio del mare. Fu chiaro
che attendeva
qualcosa.
Dalla cima della scogliera la scorse il vecchio
Cèsar, e capì che aspettavano lui,
così discese alla spiaggia di sassi, e
arrancando andò a staccare la barca.
Come un osso lavato dalla terra, che qualche
cane ha nascosto chissà quando e poi dimenticato,
così a Cèsar una peste
antichissima aveva tolto il bene di morire. Gli aveva tolto la moglie e
le
figlie, e lui stesso si era ammalato, ma una mattina la febbre era
scesa, e i
bubboni si erano fatti crosta. Lui diceva che la peste lo uccideva come
il mare
uccide le meduse, per sfinimento. Erano
passati lunghi anni da quando le aveva sepolte al melagrano. Tutto il
resto
ormai era solo polvere, si era abituato a sbirciare la morte con
l'impotenza di
un adolescente che osserva la donna che ama ridere a un altro.
Ma poi, ogni volta che ricominciavano a morire
gli uomini al porto e le donne nelle case, sperava sempre che la morte
avesse
perso il conto. Che finalmente si distraesse un poco, e falciasse anche
lui via
insieme agli altri. Era rimasto così per molti anni, custode
del vecchio
lebbrosario che serviva per i malati di peste, quando la peste si
degnava di
mostrarsi.
Al vecchio non piaceva quando
il sole scottava come metallo sull'acqua.
Gli dava la
sensazione di scivolare sopra la porta di qualcos'altro. Non acqua,
l'inquieta
porta di qualcos'altro, pece.
Quando il tonfo del remo intaccò l'acqua, Cèsar
chiuse gli occhi in un cenno di strana gratitudine. Aveva pensato che
potesse
essere solida. La luce offuscava ogni cosa.
Sulla nave erano tutti morti,
o almeno gli parve dapprima. Si
arrampicò sulla scala di corda, e protese il collo oltre il
primo confine della
murata. Sperò che fossero morti. Il suo compito finiva in
quello, ma per chi
agonizzava c'era sempre qualche parola da dire, e il vecchio odiava i
posti che
fumigavano di lercio e di morte per essere stato costretto a passarci
l’esistenza.
Sul ponte c'era un cadavere già gonfio. Arrampicato
a una maniglia del timone, la camicia ondeggiava al vento sotto un
nugolo di
tafani. Un altro morto, un ragazzino, giaceva a pancia in su vicino
all'albero.
Intorno al capo aveva un'aureola di vecchi stracci insanguinati e un
bubbone
proprio sotto l'orecchio. Anche quello era ormai solo interesse dei
tafani. Passò
oltre.
C'erano segni della morte dovunque, la morte
che arrivava dall'Oriente e come un vecchio che ricarica la pipa
accendeva i
suoi bagliori di brace con l'intervallo regolare di un respiro. C'erano
galee
che arrivavano stracolme di morti verdi, altre che affidavano tutto il
lavoro
ad un topo, ignaro, solo, nella stiva a rosicchiare frumento. Le pulci
a volte
mordevano gli uomini, altre volte prima i cani e gli uccelli. C'erano
tanti
modi di arrivare alla sola conclusione possibile. Come una festa di
villaggio,
poi, dopo lo scoppio era la stessa cosa. Sempre le stesse grida,
stracci,
miserie. Come fuochi d'artificio sempre uguali.
In una botticella d'acqua putrida nuotava il
volto gonfio di una scimmia, aveva gli occhi aperti e un cappello con
gli
alamari. Il capitano fino all'ultimo l'aveva protetta nella sua cabina,
la sua
scimmia, ma adesso i tafani roteavano sopra di lei come sopra tutto il
resto.
Cèsar toccò le sue dita di bambino, si
alzò un
nugolo di bestie nere e opache. Nel sole un paio andarono a posarglisi
sul
naso, non le scacciò. Subito quelle, deluse, se ne andarono.
Non c'era niente
da succhiare sul suo teschio ancora vivo.
Poco distante era la scala di sotto coperta.
Cèsar seguì i tafani fino là. Il buio
che saliva dalla botola era marcio come
certe melanzane dimenticate al sole. Sui primi gradini, lo sapeva,
c'erano
viscere e escrementi scivolosi. Più sotto, tutto quello che
era morto prima del
tempo. Forse avevano tentato di inchiodarli, di isolare i malati, come
sempre. Assi
inutili erano ancora attaccati ai cardini, ma ora il catenaccio pendeva
molle
nel vento.
Cèsar scrollò la testa, un tafano gli era
volato vicino, senza toccarlo. Poi guardò intorno, scese uno
scalino, mise il
piede su qualcosa di umido e decise che non sarebbe sceso. Non quel
giorno, era
inutile. Era stanco. Vide la barca che oscillava lassotto, qualche
metro oltre
la murata. Il vento lieve la faceva oscillare e sbattere contro la
chiglia
della nave. Decine di piccoli molluschi cominciavano ad arrampicarsi
sulle
corde. Chissà cosa si muoveva lassotto. Decise che non
sarebbe sceso. Si voltò
per tornare alla barca.
Fu allora che la sentì, chiaramente. Più che
una voce, un sussulto tiepido, il gemito di qualcosa che giaceva molto
più
sotto. Un suono che aveva l'odore di sangue e latte e caramello come la
nuca di
certi neonati. Capelli morbidi, manine fragili, escrementi teneri come
gusci
d'uova. Cose tremendamente inquiete, e adorabili.
Pensò a sua figlia, che era morta. Al vomito di
sangue marcio che colava dalla bocca al posto delle ultime parole. Si
ricordava
una preghiera, e la disse.
Il gemito si ripeté. Era vicino. Cèsar rivide
tutto il sangue che rischiava di uccidere sua moglie. Le lenzuola
appiccicose
del parto. Era stato con la loro prima figlia. Rischiavano di morire
tutte e
due. Ma poi d'un soffio, come un uccello impazzito, avevano
ricominciato a
respirare, madre e figlia, come un tutto unico. Cèsar
ricordava una preghiera,
un'altra ancora, diversa, le la disse tenendo gli occhi chiusi. Il
gemito gli
si infilò sotto le palpebre, veniva da sotto coperta.
Pensò alla casa, alla stanza buia, al sudore e
al silenzio. Perché prima di nascere sua figlia l'avevano
fatta. Era una sera
di festa e le candele bruciavano per strada e sui banconi. E sua moglie
aveva
gli occhi cerchiati da un respiro diverso, e le guance piene di vino e
di attesa.
Così era stato che le sue prime lenzuola si erano tinte
anche loro di sangue.
Tutto quel sangue. Pensò. E quel gemito non
poté più ignorarlo.
Nel buio, a tentoni, cercò il punto per
scendere. Dove la scala curvava verso il basso. Lo cercò
come il battito di un
cuore, come l'ultimo respiro su una crosta persa sempre. Poi le sue
mani
scivolarono su qualcosa ancora tiepido, viscido, sicuro.
Sotto un cumulo di bestie morte e umani,
proprio ai piedi della scala, sentì che qualcosa, una cosa
rannicchiata come un
feto. Sognava. Ma quando lui la toccò aprì gli
occhi, che erano verdi come due
comete. Non era una donna, non ancora.
- Portami a casa - mormorò, poi svenne.
Era una pallida bambina adolescente, stinta dal
morbo, sfinita dal digiuno. Cèsar la prese tra le braccia
magre. Forse sapeva
che sarebbe successo, ma nel posto che lui chiamava casa c'era spazio a
sufficienza anche per lei.
Percorsero a piedi la strada
che tagliava le
rocce. A volte la ragazza incespicava, così lui doveva
sostenerla. Le aveva
dato da mangiare qualcosa che aveva trovato sulla nave: i resti di un
pane e,
da una brocca, un sorso di vino oleoso.
Era notte, e i passi
non facevano rumore. Tutto
intorno l’intrico di rovi lambiva loro le vesti: il vecchio
Cèsar, allungando
le mani, li usava per trovare la strada. Una lepre
attraversò il sentiero, poi
scomparve tra le ginestre che invadevano il piano. Sembravano uccelli
spaventati. Arrivarono in cima alla scogliera, dov’era il
lebbrosario, perduto
nel fragore delle onde che andavano a sbattere sugli scogli, molto
più in
basso. Le finestre erano prive di vetri e il vento quasi spazzava la
distesa.
Nel cortile pieno di
spifferi la sabbia
ingombrava ogni cosa, i muri grigiastri, i vasconi che un tempo erano
serviti a
lavare i lebbrosi.
Gli ricordavano delle
lunghe notti passate in
silenzio con cenci e corpi che nulla avevano più di umano.
Un fischio distante
accarezzava le cime degli alberi radi.
Da una porta mezzo
distrutta passarono in una
stanza di cui non si vedeva la fine. Al centro una candela illuminava
il tavolo
e un uomo seduto di schiena, che non si mosse.
Cèsar
portò da un angolo un fascio di paglia
secca, lo sistemò accanto al fuoco e posò accanto
una ciotola d'acqua, cipolle
tiepide e formaggio. Ci accomodò la ragazza. L'altro
continuava a fissare il
fuoco come non li vedesse.
- Mangia -
sussurrò Cèsar - e chiudi gli occhi
per un poco. Quando il prete avrà finito di pregare, allora
ti poterà nella tua
stanza. Nel frattempo mangia e riposa.
La ragazza
allungò una mano, cercò a tastoni
del cibo, e poi anche Cèsar si mise ad aiutarla.
Mangiò come in bambini, che
metà del cibo non riescono neanche ad inghiottirlo. Poi le
palpebre le si
fecero pesanti, e chinò il capo contro il muro. Il vecchio
la distese
delicatamente sulla paglia.
- L'ho trovata alla
nave - disse avviandosi a una
soglia di pietra che biancheggiava al limite del buio - Fai tu quello
che devi,
io sono stanco.
Il prete non si mosse.
La ragazza si rigirò nel
sonno. Le parve di sognare qualcosa che la portava via dal mare,
lontano.
Dopo un
tempo che non seppe contare, mentre la
notte assediava le finestre e una porta sbatteva da qualche parte, il
prete si
alzò dalla sedia. Andò alla paglia,
svegliò la ragazza e la condusse in cortili
di pietra, attraverso stretti budelli fitti di stanze come orbite
cieche, poi
una teoria di porte senza ante né tende, di stanze nude
prive di letti, di
sedie, di armadi. Soltanto polvere, ancora, e dovunque.
Si arrestò
davanti ad un varco come un altro.
C’era una vasca sul pavimento di pietra, in quello che
sembrava il centro della stanza. Dentro la vasca
attendeva dell’acqua senza riflesso. Il prete dovette
afferrare sotto le
ascelle la ragazza un paio di volte, perché stava svenendo
per il freddo, o per
il sonno. Con un gesto secco le aprì la
veste sul petto. La pelle di sotto era un’unica crosta di
sangue rappreso e
lerciume. Senza aspettare una reazione la immerse nell’acqua
gelata.
- I capelli - estrasse
un coltello dalla tasca
e cominciò a tagliare la massa aggrovigliata che le copriva
la testa. Lei
guardò mentre ad una ad una le ciocche cadevano. Poi senti
il freddo della
notte sul collo, mani di automa stringere gli ultimi nodi, una
secchiata
d'acqua gelida.
- Le unghie.
Lei aspettò
pazientemente che avesse finito con
una mano. E poi lo fece con l'altra, con i piedi e le ascelle.
Tagliò tutto,
tutto ripulì come volesse arrivare alle ossa. Le macchie
sparivano contro lo
straccio ruvido, la pelle arrossata a sangue cominciava a respirare di
nuovo.
Giunse al pube e anche
lì cacciò lo straccio
strofinando come se non lo vedesse. Puliva, chiudeva, strofinava. Lei
avvicinò
lievemente le ginocchia l'una con l'altra, ma era troppo stanca per
aver paura,
o per sentire il dolore, o la vergogna.
Non successe quel che
si era aspettata. Non
successe niente. Solo, fu pulita.
Quando fu in piedi,
l'avvolse in un lenzuolo
che bucava di mille aghi e le disse di strofinarsi finché
non si asciugava. Lei
sentiva l'aria dove prima c'erano i capelli, e sangue che pulsava di
nuovo sotto la pelle.
- Grazie - sorrise,
soffocando uno sbadiglio.
Adesso si sentiva stanca, e meglio. Vide il prete che andava in un
angolo e
bruciava i suoi vestiti uno per uno.
- Nessuno dovrebbe
ringraziare finché non sa
che cosa l'aspetta.
Poi se ne
andò. Quando il fuoco si fu spento
lei si accorse che lui aveva dimenticato la candela. Forse per pena o
per
dimenticanza, le aveva lasciato qualcosa con cui scacciare via le
tenebre.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo Secondo ***
Primavera
La
ragazza Occhi Verdi, così
l'aveva battezzata Cèsar mentre zappava a fianco del prete,
aprì gli occhi che
il sole era già alto.
Sui muri scrostati della
stanza c'erano lucidi occhi di muffa che la fissarono, e per aria odore
di
canfora. Sbatté le palpebre, sbadigliò e gli
occhi tornarono muffa.
Scosse con un piede la
coperta e il piede urtò qualcosa lì vicino.
Piccoli frutti arancioni rotolarono
sul pavimento.
Si accorse di essere nuda.
Toccò la pelle del ventre
dove l'incavo si chiude in ombelico, era pulita. Fece un paio di
movimenti,
sentì l'aria fresca sulla schiena e rise. Il piacere che
provava a quel
contatto le versò in gola la voglia di cantare. Non rideva
da così tanto tempo.
Si alzò.
Sopra una sedia, a capo del letto,
trovò una veste lunga fino ai piedi, di stoffa grigia,
vecchia come il mondo.
Floscia di dietro, davanti scendeva dritta come un filo di piombo. Era
ruvida,
come l'asciugamano della sera, ed era enorme.
Cercò qualcosa con cui
tenerla su, guardò in ogni angolo, ma in tutti c'erano
soltanto granelli di
calcina. Non una armadio, o uno sgabello, o una cassa. Niente di niente
se non
polvere e calcina. La crosta del muro si sgretolava, bastava passarci
un dito
sopra. Lo fece, e lo fece, lo fece, finché il dito non ebbe
scavato un piccolo
foro profondo. Aveva messo a nudo la pietra.
Ben presto quel gioco la
stancò, aveva fame. Raccolse in grembo la frutta e
cominciò ad andare in giro
addentandola. Voleva trovare il vecchio, per ringraziarlo.
I lunghi corridoi imbiancati
a calce erano tutti pieni di stanze, porte, finestre, e oggetti
abbandonati. La
sera prima non li aveva notati, ma c'erano.
Scoprì che c'erano passaggi,
anditi, finte porte e porte nascoste. In quel lungo labirinto di stanze
ogni
svolta portava dovunque, stanze si aprivano a caso le une sulle altre,
la luce
entrava dalle finestre in larghi fasci polverosi come cenciosi
strascichi da
sposa.
Ad una svolta trovò una
brocca sfondata, una sedia e alcuni piccoli oggetti malmessi. Accanto
c'era un
passaggio, e una porta che immetteva in una stanza grande. Dalle
finestre
ingombre di vegetazione filtrava una luce verdolina. Non ebbe il
coraggio di
entrare, ma capì che l'edificio doveva essere un quadrato,
solido, enorme.
Al cento c'era una specie di
chiostro, con un pozzo arrugginito, le strette finestre delle camere
affacciavano tutte lì sopra. Dalla parte del corridoio,
invece, le finestre
erano larghe e davano sul mare, o sulla campagna desolata, o sull'erba
gialla
di un giardino. Sul muro accanto a lei, che correva per tutto il
perimetro,
c'erano a tratti scarabocchi e chiazze, fumosi ghirigori sbiaditi.
- Leggi le scritte? - chiese
Cèsar comparendo in fondo al corridoio con un cestino in
mano. Strascicava
appena le gambe, ma non faceva rumore.
- Che cosa sono?
- Sono ricordi, bambina mia.
Tieni un fico.
- Li hai colti tu?
La ragazza ne prese uno e lo
morse.
- Stamattina, dalla pianta.
Per Occhi Verdi, perché ne mangiasse.
- Chi è Occhi Verdi?
- E' il tuo nome.
- Non è il mio nome.
- Adesso sì.
- Va bene - sorrise lei - Tu
ne hai uno, vecchio?
- Certo. Mi chiamo Cèsar e
sono proprio un vecchio. Un altro fico?
Nel cestino, sopra una foglia
di vite ce n'erano almeno dieci, maturi e spaccati a metà.
Lei allungò una
mano.
- Non ti interessa sapere il
mio nome? - chiese con la bocca impiastricciata. Si erano seduti su una
grossa
panca di legno di banano, lì vicino.
- Non mi interessa - disse
lui.
- Meno male.
- Ti chiamerò Occhi Verdi, se
vorrai.
- E il prete?
- Anche lui ti chiamerà Occhi
Verdi.
- No. Il prete, lui, un nome
ce l'ha?
Il vecchio rise.
- Il prete ha molto più che
un nome. Ne ha a decine, davvero. Ma tu chiamalo semplicemente
Luìs. Luìs va
bene, o altrimenti prete. E'
così che
lo chiamano gli altri.
- Gli altri?
- Quando ci sono. Ma ora
siamo da soli.
- Chi sono gli altri?
- Vedi le scritte? - chiese
il vecchio - Quando ci sono anche gli altri vuol dire che
c'è la peste. Sono
gli abitanti del paese, gente che in tempo di pace ci dimentica. Ma
basta una
piccola nave, una cosa come la tua e allora … e allora
filano tutti quassù, e
le stanze si riempiono di gente. Poi dimenticano, ma dimenticano solo
per poco.
- Sulla mia nave ce
l'avevano, la peste - disse lei, e addentò un altro frutto.
Erano buoni e freschi.
Sulla nave, ormai da giorni, mangiavano solo nera carne secca e
verminosa.
Il vecchio fece cenno di sì.
- Perché non mi hai lasciata
morire?
- Lo volevi?
- No.
- Meno male. Altrimenti sarei
sceso per niente. Non è un bel posto dove ti ho trovata.
Lei chiuse gli occhi come una
bambina. Era vero, non era un bel posto. O meglio, forse all'inizio lo
era
stato con tutta quella gente che si imbarcava e rideva e diceva che
sarebbero
arrivati a questa e a quella città lontanissima. Lei era
l'unica che già non
rideva. Lei non poteva ridere, no. Perché su quella nave ce
l'avevano imbarcata
a forza.
- Dove andavate? - chiese il
vecchio.
La ragazza scosse la testa.
Per un istante guardò lontanissimo, di fuori.
- Non importa - fece lui,
discreto - Ormai non importa più a nessuno. Sono tutti morti
o moribondi,
giusto?
- Sono moribonda, io? -
chiese.
- Non lo so. Ma sei stata con
quelli che sono morti. Bisognerà aspettare per sapere. Se al
terzo giorno ti
verranno i bubboni, allora vorrà dire che sei infetta.
- E se non vengono?
Il vecchio sospirò.
- Allora è una brutta
notizia. Ma potrebbe anche essere buona.
La ragazza lo guardò senza
capire.
- Queste scritte le hanno
fatte loro?
- Chi?
- Quelli che erano infetti?
Il vecchio annuì.
- Cosa dicono?
- Questa dice che non vuole
morire - disse Cèsar posandoci il dito - Ma che sa che
morirà, e si dispera.
- E quest'altra?
- Questa conta i giorni da
quando si è ammalata. Conforta l'altra, e spera di guarire.
- E' guarita?
Il vecchio spostò un fico nel
cestino. Erano molli, e metà della buccia gli
restò in mano. Poi accennò con il
mento alla porta che era davanti a loro.
- Hai notato che non sono
tutte uguali?
- Le stanze?
- Sì.
- Non so.
- Sono diverse. Alcune più
grandi, altre più piccole. In quelle più grandi,
per i ricchi, ci stavano due
persone sole, o anche una, se andava bene. Potevano permettersi di
averle.
Nelle altre, quelle come la tua, ci mettevamo anche dodici letti. Tutti
vicini,
uno accanto all'altro. E quando il letti non bastavano più,
anche fasci di
paglia sul pavimento. Nelle camere i ricchi si annoiavano,
così ogni tanto
facevamo musica. C'era qualcuno che sapeva suonare, gente che si
portava gli
strumenti. I ricchi pagavano volentieri per avere un po' di musica.
Ogni tanto
salivano persino su dal paese certi teatranti che sfidavano la peste
per potersi
guadagnare qualche soldo.
- Queste che scrivono stavano
in questa stanza?
- Me le ricordo, quando
arrivarono. Erano sorelle, la più grande piangeva. Il padre
era con loro, un
fazzoletto premuto sul naso. Due servi scaricarono i bauli dalla
carrozza e poi
se ne andarono alla svelta. Portavano catenine al collo per scacciare
gli
spiriti. Anche il padre se ne andò via subito. Le
salutò da lontano. Erano
pallide, ma avevano il belletto. Anche qui se lo mettevano ogni
mattina, e
cantavano, e scrivevano quando la febbre gli dava un po' di tregua. Non
ho mai
visto due sorelle più belle e più gentili.
Nascondevano i bubboni sotto i pizzi,
e quando erano vestite non sembravano neanche malate. Ma una delle due,
la
maggiore, piangeva sempre. Più dell'altra, più di
tutte le altre.
- Che era successo?
- Un giorno, quando erano già
qui, c'era festa al paese. I signori della città avevano
deciso di implorare la
grazia di ogni santo che il calendario ricordasse, per vedere se
così si
scacciava la peste. Ne avevano messi insieme trecento, scovando i nomi
nei
libri in canonica. E poi altri li avevano chiesti ai vecchi preti,
perché non
volevano scordarne nessuno. Se una vecchia diceva io conosco anche il
nome di
quest'altro santo che mia nonna pregava, loro si facevano dire il nome
e lo
mettevano dentro la lista. Alla fine furono trecentosessanta, quasi uno
per
ogni giorno dell'anno. E allora, per ognuno dei santi, fecero fare
delle statue
di cera. Tante statue che non distinguevi la cera morta dalla carne
vera.
Alcune con occhi neri neri, altre con lunghi capelli dorati. Ce n'erano
con
vestiti meravigliosi e con occhi azzurri come il mare. Trecentosessanta
bambole
della stessa perfetta somiglianza. Le portarono tutte in processione.
Fu una
bella processione, davvero. C'era tutto il popolo e i ricchi, le
finestre erano
piene di tappeti, arazzi e fiaccole.
- Finì, la peste?
- Il giorno dopo c'erano
trenta malati in più al lebbrosario. E nel giro di una
settimana ne morirono
esattamente quanti erano i santi. Trecentosessanta, più due
o tre. Al terzo
giorno arrivò al lebbrosario anche un ragazzo riccio, belle
spalle, moro. Non
fece in tempo ad arrivare che era morto. Lei, la maggiore delle
sorelle, che
piangeva, lo vide dalla finestra mentre lo scaricavano dal carro e lo
mettevano
da parte con gli altri. Corse giù come avesse le ali. Lui
era già morto, ma lo
prese tra le braccia, lo baciò, gridò come una
pazza. Pianse molto tutta la
notte, e il giorno dopo. Poi sua sorella una sera venne a chiedermi se
avevo
del carbone, e io glielo detti. A volte i malati hanno dei desideri,
all'ultimo, certi vogliono cibo, altri straparlano, ridono. Non si
rifiuta mai
nulla ai moribondi, così le detti il carbone. E la mattina
dopo lei aveva
scritto tutto questo.
Mostrò col dito che i segni
bizzarri con finivano a quel lato di muro. Oltre la porta continuavano
a lungo,
di sghimbescio, o regolari e fitti, fino a perdersi nel lungo corridoio.
Cèsar avvicinò le labbra al
muro.
- 'Amore
- lesse - se la morte non mi prende, sono
disperata. Ma io so che mi prende, stanotte. Aspettami, arrivo'.
Occhi Verdi staccò gli occhi
dalla scritta.
- E poi è morta?
- L'ho raccolta la mattina
dopo. Era discesa dal letto a piedi nudi, e in vestaglia aveva provato
ad
andare alla finestra. Era bella, e molto bella, con dei lunghi capelli
d'oro.
La madre glieli tagliò tutti prima di seppellirla. Disse che
li voleva con lei.
E la ragazza andò ai morti così, nuda.
Occhi Verdi sentì freddo alla
nuca.
- Era il suo sposo? - chiese.
- Non sapeva neanche chi era.
Non l'aveva mai visto, uno straniero. Un marinaio sbarcato il giorno
prima da
chissà quale nave, non si poté neanche sapere il
suo nome.
- Ma lei …? - chiese Occhi
Verdi.
- Fu una specie di sogno,
tutto qui. Quando la gente sta per morire sogna. Sogna le cose
più strane: versare
vino, ridere tra gli aranci, addormentarsi …
- Sono cose strane? - chiese
la ragazza.
Cèsar frugava nel cestino, la
foglia di vite era tutta appiccicosa. Alzò gli occhi.
- Quando sei qui lo diventano
- disse porgendole un fico - Tieni, è l'ultimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo Terzo ***
Primavera
Adesso,
all'ora di pranzo, la
ragazza Occhi Verdi cucinava per loro. Cèsar le aveva
mostrato dove trovare
l'occorrente per il fuoco e le pentole.
Quando i due uomini entrarono
nella stanza, era chinata ad armeggiare al fuoco. Si alzò di
scatto.
- Che profumo - sorrise Cèsar
con le mani pesanti di zappa, e gli occhi arrossati dal sudore.
Lavoravano
all'orto, la mattina.
Lei tolse la pentola dal
fuoco, e lisciandosi le mani allo straccio che si era messa a mo' di
grembiule,
si avvicinò al tavolo.
- Ho fatto del mio meglio.
Non so … c'erano delle verdure, e del lardo dentro
quell'armadio.
Il lardo era ammuffito, ma
Occhi Verdi aveva cercato di pulirlo. Aveva gettato nell'acqua una
manciata di
piselli mezzo secchi e qualche gambo di sedano che Luìs
aveva lasciato sulla
panca davanti alla cucina. Non entrava mai in cucina da solo, se sapeva
che
c'era anche lei. E ormai quello era diventato il suo regno.
Cèsar si fregò le mani.
- Sarà buonissimo - disse, e
poi allungò una mano sotto il tavolo. Ne trasse un fiasco.
La paglia veniva via
in più punti e nascondeva il liquido scuro.
- Ne vuoi?
Lei fece segno di no con la
testa.
- No bevo mai. Non più.
- Fai bene.
Versò del vino all'altro, che
se ne stava in silenzio accanto al tavolo. Era seduto, aveva gambe
lunghe e una
lunga veste polverosa. Occhi Verdi giudicò che all'inizio le
era parso più
vecchio. Ma ora che lo vedeva ogni giorno, contro la luce che
impolverava il
tavolo, notò che non poteva dimostrare più che
trent'anni. Era alto, solenne,
silenzioso. Non parlava mai mentre mangiava. E lei, intimorita,
preferiva la
compagnia del vecchio. Anche quel giorno si sedette accanto a lui.
- Ragazza ricca - disse Cèsar
risucchiando il primo cucchiaio di minestra - Ricca e anche buona cuoca.
Occhi Verdi sgranò gli occhi.
- Le mani - disse Cèsar - io
ne ho viste di persone, in vita mia. Di tutti i generi. E le tue mani
sono
morbide, bianche. E' già un po' che l'ho notato, ma non
voglio sapere niente.
Solo si vede che non sai cos'è la lana. O la zappa, o la
cenere del fuoco. Non
hai tagli o bruciature. Non un callo, un brutto segno, una stortura.
Sono
perfette, segno che non lavori. E una ragazza della tua età
non lavora solo se
è ricca.
- Si può lavorare in molti
modi.
Tutti e due si voltarono
verso Luìs. Mangiava la sua minestra fissando il piatto come
se non avesse
parlato. Non parlava mai mentre mangiava. Ma quella frase l'aveva detta
lui.
Cèsar rise, forse contento di
sentire la sua voce.
- Non penserai …
- Non penso nulla. Pensare
non serve. Basta avere gli occhi.
La ragazza Occhi Verdi li abbassò.
- Vuoi dire che si può
lavorare anche senza le mani? - chiese.
Il prete la fissò con astio,
ma solo per il tempo di un soffio. Era la prima volta che incrociava il
suo
sguardo.
- Si può lavorare in molti
modi. Non tutti onorevoli - disse, di nuovo con il naso nel piatto.
Occhi Verdi notò che era un
bel naso, nonostante lui cercasse di nasconderlo. Ogni tanto le persone
lo
fanno, di tentare di imbruttirsi apposta. Anche lei ci aveva provato,
quando
erano cominciate le disgrazie. In fin dei conti se ci riescono i fiori
a tirar
dentro i petali, di notte, perché non avrebbe dovuto
provarci lei? Ma era stato
tutto inutile purtroppo. Gli occhi di un falco non si possono ingannare.
Cèsar portava avanti la
discussione tutto da solo. Era un vecchio allegro, e Occhi Verdi era
lieta di
averlo vicino. Se per caso l'avesse raccolta il prete …
Cèsar lodò la zuppa di
Occhi Verdi, si informò se le piacevano le pesche ('abbiamo in sacco di pesche, di questa stagione, e
a Luìs le cose dolci
non piacciono, per cui finisce che marciscono per terra'), le
chiese se le
sarebbe piaciuto fare un giro nel giardino e nell'orto, quando il sole
fosse
stato meno caldo.
- Non sono un granché in
questo periodo. E' ancora tutto secco, ma penso che presto avremo di
nuovo un
po' di pioggia e allora vedrai che bellezza, bambina.
La ragazza disse di sì, e poi
si alzò per togliere i piatti dalla tavola. Il prete, con la
mano sugli occhi,
sembrava essere altrove. Cèsar tirò fuori delle
noci, ne spaccò quattro per lei
e ne mise due davanti a Luìs. Ma lui si alzò,
ignorandole, e disse che andava a
pregare. Loro lo
lasciarono andare.
- Chi è? - chiese Occhi Verdi
quando il prete fu sparito nel sole del giardino.
- Tu vorresti che ti
chiedessi lo stesso?
- No.
- Neanche lui lo vuole. Luìs
… vuole soltanto scomparire. Ecco tutto.
La ragazza fissò il vecchio
qualche istante.
- Scomparire?
- Diventare talmente sottile
da non esistere più per nessuno. Non lo vedi? Non ti vede
mai davvero quando
parla. E se deve proprio ti dice qualcosa che ti mette i brividi. Non
dorme mai
e non si riposa. Vedessi come zappa. Una furia. Ma io ormai ci ho fatto
l'abitudine.
- Perché? - chiese lei. Ogni
volta che pensava a Luìs non poteva impedirsi di pensare
alle ginocchia. Allo
straccio bagnato, alla vasca. Alla furia gelata di quel tocco. Per lei
Luìs era
una mano di ghiaccio sulla schiena, acqua gelida, forbici, uno straccio
cacciato
a forza in mezzo alle ginocchia.
Rabbrividì.
- Stai bene?
In un angolo c'era una vasca
come tutte le altre, ma questa aveva una brocca d'acqua accanto. Si
chinò per
non mostrare al vecchio che aveva le guance in fiamme.
Le
ginocchia.
Ma in quell'istante il suono
di una campanella ruppe l'immobilità dell'aria.
- Aspetta - fece Cèsar
alzandosi - tu non muoverti di qui.
E sparì zoppicando in
giardino.
La ragazza Occhi Verdi rimase
a chiedersi che fosse quel suono. Nella penombra scura della cucina,
sembrava
il trillo di un violino, una musica. Come il giorno del suo primo
ballo, a
casa, quando c'era la musica, e l'atrio di marmo era pieno di gente che
saliva
lo scalone. Lei era lì, sopra la balaustra, con la sua
balia, a spiare chi
arrivava. Poi era passata sua madre. Il vestito le stringeva, le aveva
chiesto
di allentarlo, ma sua madre … sua madre aveva detto che
doveva. Gli aveva anzi
stretto un bottone sul collo. Ogni bottone era una piccola spilla.
Ricordava
ancora lo schiocco che facevano quando il gancio del fermaglio
…
- Era Juan - ansimò il
vecchio rientrando con un paio di conigli uccisi che pendevano da una
cordicella - Viene una volta alla settimana. Ci porta quello di cui
abbiamo
bisogno e poi se ne torna in paese. E' l'unico che accetta di farlo. Ma
qui non
c'è mica la peste … penso che sia Luìs
a spaventarlo. Prima certe volte si
fermava. Adesso resta sempre sulla soglia.
Posò i conigli sul tavolo.
Uno aveva gli occhi spalancati.
- Non pensavo che venisse
qualcuno. Qualcuno dal paese. Fin qui, intendo.
Cèsar sorrise.
- I conigli non crescono
nell'orto.
Anche Occhi Verdi rise. Accarezzò
il pelo del coniglio. Era bianco e morbido.
- Perché mi hai detto di
aspettare qui? Mi occupo io della cucina, avrei potuto andare io a
prenderli…
- E' meglio che Juan non
ti veda - disse Cèsar avvicinandosi alla
brocca - è meglio che non ti veda nessuno, per il momento.
Vuoi un po' d'acqua?
- E perché mai? - chiese lei,
senza ascoltarlo.
Cèsar gonfiò le guance
d'acqua, con la strana parodia di un mostro cattivo. Poi fece una
specie di
sorriso.
- Perché voglio tenerti sempre
qui - disse posandole una mano sul braccio - E non voglio che a
qualcuno,
vedendoti, possa venire in mente di rubarti.
Occhi Verdi sbiancò a quel
contatto, si ritrasse come se il tocco del vecchio fosse di calce viva.
Cèsar si accorse che
arrossiva con violenza e strofinava la mano allo straccio come volesse
sfinirla.
- Scusami, non sapevo che …
Ma lei era già oltre la
porta.
- Forse ho la peste. Sono
infetta - disse. E poi sparì nella luce del giardino.
Cèsar rimase seduto a
contemplare i conigli. Quello dagli occhi addormentati aveva un po' di
sangue
alle gengive. Le mosche si davano da fare.
Non fece niente per scacciarle.
Sospirò. Sapeva che non era né la peste
né il sangue a far sentire così sporchi
gli uomini.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo Quarto ***
Primavera
Juan
tornò a portare conigli
anche il giorno dopo. Cèsar lo ricevette sospettoso.
- Non hai nient'altro da
fare, ragazzo, che portare conigli a me e a Luìs?
Il ragazzo allungò il collo e
scomparve.
Forse aveva cercato di
guardare oltre il muro del cancello che il vecchio usava per andare
nell'orto.
Era in comunicazione con la casa, e le cucine.
In un angolo del focolare Cèsar
trovò Occhi Verdi intenta a sbucciare arance.
- Questi sono per la cena -
disse solo, e lasciò andare i conigli sul tavolo.
Uno aveva, stretto tra i
denti, un minuscolo bocciolo di ginestra. Occhi Verdi rimase
lì a fissarlo per
molto tempo.
Più tardi, alzandosi
dall'angolo del tavolo dove si era ricavata un cantuccio e dove aveva i
coltelli per sbucciare e qualche coccio per la verdura, vide che tutti
e due
lavoravano nell'orto. Erano trascorsi solo pochi giorni, ma ormai quei
giorni
li sapeva a memoria. Si asciugò le mani allo straccio, si
accoccolò sul
limitare del sole, dove la soglia sfidava l'aria greve del pomeriggio.
Al mattino Luìs si alzava
presto. Prima di tutti, anche del vecchio, anche del sole, e scompariva
verso
la strada che portava al mare. A lei era proibita quella strada, la
stessa che
la prima notte aveva percorso con Cèsar. In fondo c'era una
spiaggia di sassi e
la barca. Quella che serviva a Cèsar per i morti.
Non poteva prendere neppure il
sentiero che portava al paese. Era largo, pieno di sassi e strani
cespugli
legnosi. Cèsar le aveva spiegato che c'erano rovi, e sassi
duri, e serpenti che
nascondevano la testa ad ogni pietra. Quando gli aveva chiesto
perché quei
serpenti nascondessero la testa ad ogni pietra, la sua unica risposa
era stata:
- Perché non vogliono
guardare quassù.
La ragazza aveva atteso
invano che aggiungesse qualche altra parola. Ma non ce n'erano state
altre.
Dopo che Luìs era uscito, la
mattina, era la volta di Cèsar. Lo sentiva strascicare i
piedi da qualche parte
nell'immenso labirinto quando il sole raggiungeva il rampicante contro
la sua
finestra.
A volte sembrava al piano di
sopra, a volte sotto, in una delle oscure girandole di corridoi. Doveva
avere
una stanza da qualche parte, ma lei non l'aveva mia vista. Ogni volta
che
scendeva in cucina, Cèsar era al focolare, o nell'orto. Non
una volta lo aveva
visto uscire da qualche porta.
Quando sentiva Cèsar era il
segnale di avventurarsi già dal letto anche lei.
Luìs era andato e non aveva
più motivo di temere il silenzio. Solo allora scendeva in
cucina.
Gli preparava una colazione a
base di formaggio di capra e pane piatto, poi il vecchio usciva in
giardino e
mentre il sole intiepidiva le foglie della notte trascorsa, zoppicava
fino a un
recinto fatti di giunchi. Dentro c'erano le sue galline. Sette in
tutto. Belle
come l'aurora, bianche e grasse quanto lui era secco e polveroso. Le
chiamava
per nome, una per una.
Poi Luìs tornava e in
silenzio, evitando la porta della cucina, andava fino al limitare
dell'orto. Si
chinava sul vecchio pozzo e immergeva una mano nell'acqua. Quella non
era acqua
da bere, le aveva detto Cèsar, ma lui vi immergeva la mano e
la beveva. Non
l'aveva mai visto bere altro che quell'acqua grigia e sporca in cui gli
insetti
facevano il nido.
Nel trascorrere del giorno
molte volte lo vedeva tornare alla fonte. Sembrava ci si specchiasse
dentro.
Una volta c'era andata anche lei, ma l'acqua era troppo scura e fonda.
Non ci
aveva visto niente altro che buio.
I due lavoravano nell'orto, e
ogni tanto lei andava da loro. Si accoccolava sotto il melagrano, con
le
ginocchia strette alla vita. Allora Cèsar alzava lo sguardo
e sorrideva col
sorriso ferito che hanno certi animali molto vecchi. Era una gioia
vederlo
lavorare, le ricordava le lente mucche che pascolano con grazia
infinita, le
capre sterili e testarde, la notte quando uno scricciolo fischia
lontano. Poi
veniva vicino a lei.
- Che mi hai portato?
Beveva un sorso di vino e
sorrideva alla frutta che lei aveva colto.
Luìs invece restava a
zappare. Non si fermava e non guardava mai da quella parte. Occhi Verdi
aveva
l'impressione che qualcosa nei suoi occhi lo inquietasse, che lo
straccio
bagnato, l'acqua fredda fossero a entrambi rimasti attaccati dentro la
pelle.
Non voleva sentirlo, ma a volte, quando la notte bussava oscuri passi,
lei lo
sentiva camminare avanti e indietro, muoversi lento come un fantasma
inquieto. Anche
lei si muoveva dentro il letto e non riusciva a smettere di pensare
alle
ginocchia e allo straccio che scavava freddo e sterile. Poi qualcosa la
riportava in giardino.
Cèsar, con gli occhi chiusi,
contro il tronco, ascoltava il rumore delle foglie. Poi lei andava in
cucina.
Luìs non la vedeva allontanarsi, infilarsi le unghie dentro
palmi. La pausa era
finita.
Fu
una di quelle mattine, che
Occhi Verdi vide per la prima volta Juan. Si incontrarono non certo per
caso,
ma perché lui l'aspettava da giorni, alla svolta dietro la
fontana. Si era
detto:
- Prima o poi passerà:
l'acqua del pozzo è rancida. Il vecchio zoppica,
manderà lei alla fonte.
La sua previsione fu colmata come
una brocca sotto il rivolo d'acqua. E Occhi Verdi una mattina apparve
dietro la
svolta del muro di cinta. C'era una grata accanto a lei, da cui un
tempo i
parenti passavano regali agli appestati. Quando lo vide era troppo
tardi,
l'unico gesto che fece fu aggrapparsi a quella a quella.
Il ragazzo, camminava avanti
e indietro.
- Sei tu quella che tengono
nascosta? - chiese.
Occhi Verdi sbatté le
palpebre. Non l'aveva visto subito, le era sbucato davanti
all'improvviso. Si
ricordò di quel che aveva detto Cèsar e con gli
occhi cercò un nascondiglio.
- Non ti voglio mica fare del
male - disse, muovendo un passo - Non scappare.
Lei si nascose dietro un
albero.
- Aspetta …
Ma la voce di Cèsar che chiamava
la sua pupilla oltre il muro lo scacciò. Fece in tempo a
lanciarle un bacio. Occhi
Verdi non disse niente al vecchio.
La sera, rientrando dall'orto
con un cesto di fichi scuri e melanzane rattrappite, Cèsar
vide Luìs che
rincasava. Era fermo vicino al melagrano.
- Sei stato alla scogliera? -
chiese - Hai visto qualcuno sulla strada? Mi era sembrato che oggi, il
ragazzo
…
Ma Luìs scosse la testa e
passò oltre.
- Ieri l'ho visto accanto al
muro - continuò Cèsar, seguendolo in cucina - e
anche oggi. Quando mi ha visto
si è nascosto dietro una pietra. Ma prima era sull'albero,
l'ho visto. Non mi
piace che stia da queste parti. Lo sai che non deve vederla,
c'è pericolo …
Sembrò che Luìs neanche
sentisse. Scosse la testa un paio di volte e fece un cenno vago con la
mano.
- Credi che si sia accorto di
lei? Che abbia capito da dove l'abbiamo portata?
- L'hai portata. Io non ho fatto
niente, ricordarlo.
Cèsar sputò per terra.
- Sei una bestia, Luìs.
Davvero credi che si doveva lasciarla …
- Lo fai da anni questo
lavoro, vecchio. Lo sai che vivi e morti non si mescolano. Non almeno
di
propria volontà.
- Non è ancora morta.
- Appunto. Ma se la voce si diffonde
in paese … allora presto lo sarà davvero. Non
dovrebbe stare qui, lo sai.
Quelli hanno ucciso per molto meno.
- Ormai è qui. Non ha ancora
la febbre. Se nessuno la vede, sarà salva.
- La febbre può venire anche
dopo. E se nessuno la vede. E quel
ragazzo?
- Quel ragazzo non la vedrà.
- Lo spero.
- E comunque ormai è qui,
insieme a noi.
- E chi è entrato non può
andarsene, vero?
Spesso sulle labbra di Luìs si
dipingeva un cartiglio di ironia.
C'era
una fonte vicino alla
scogliera. Occhi Verdi andava a prendere acqua. Cèsar le
aveva insegnato il
sentiero che passava in mezzo alle ginestre. Di là non la
vedeva nessuno. Trascinava
la brocca con due mani.
- Posso aiutarti? - chiese
Juan. Sbucava da dietro un costone di roccia. Era da solo, a piedi
scalzi. Occhi
Verdi si guardò intorno spaventata.
- Guarda che non ti faccio
niente - e per mostrarglielo si avvicinò e le prese la
brocca.
- Dove vuoi che la porti?
- Non voglio. Cèsar ha detto
…
- Non ti farò niente.
- Ma Cèsar …
Il ragazzo staccò un ramo a una
ginestra.
- Hai guardato tra i denti
del coniglio?
- Sei stato tu?
- Chi altri?
- Non ti conosco.
- Neppure io. Andiamo?
Si incamminarono insieme alla
fonte. Lei a occhi bassi, lui che il sudore faceva somigliare a un
pesce d'oro.
- Sei tu quella che tengono
nascosta.
Occhi Verdi guardò da
un'altra parte.
- Da dove sei arrivata?
- Cèsar mi ha detto di non
dirlo. E ha detto anche, se vedo qualcuno, di nascondermi.
- Cèsar il vecchio? Lui dice
tante cose. Ma è vecchio e pazzo e non capisce bene. Davvero
ti ha detto di
nasconderti?
Occhi Verdi afferrò la
brocca.
- Non è vecchio e non è pazzo
- protestò - E' Cèsar.
- Certo. E' Cèsar proprio
perché è vecchio e pazzo. In paese tutti lo
conoscono. Lo chiamano Cèsar dei
morti.
- Cèsar dei morti?
- Sì. Oppure il vecchio del
melograno. Lui, è sempre lui. O anche Cèsar.
Occhi Verdi ci stette un po'
a pensare.
- Perché lo chiamano così?
- Cèsar dei morti? Perché
vive coi morti. Non con i vivi. Con i morti. Al lebbrosario. Ci sono i
fantasmi
al lebbrosario.
- Io non ne ho visti.
- Ah no?
- No. Neanche uno. Invece c'è
Luìs.
- Luìs?
- Il prete.
Juan scosse la testa un paio
di volte.
- Perché ti tiene prigioniera,
il vecchio Cèsar?
- Non mi tiene prigioniera,
mi ha trovata.
- E dove ti ha trovata?
- In un posto.
Juan sorrise, e strappò un
altro rametto a una ginestra.
- Tieni, lo vuoi?
Le ci fece il solletico al
naso, glie lo passò sul mento ed infine glie lo fece
scivolare oltre il bordo
della camicia. Poi le dette un bacio sulla guancia. Occhi Verdi
diventò di
fiamma.
- Sei molto bella. Come ti
chiami?
Uno strano fuoco alle viscere
le faceva tenere gli occhi bassi.
- Cèsar mi chiama la ragazza
Occhi Verdi - disse piano. E sentiva il fiore di ginestra tanto vicino,
premuto
ad un capezzolo.
Juan la prese per la vita. Lei
non seppe fare un solo gesto per tenerlo lontano.
- E perché? - sussurrò lui
ridendo. Il suo fiato sapeva di zucchero e le arrossava la punta delle
orecchie
- I tuoi occhi non sono verdi affatto.
Occhi Verdi sentì le gambe
sciogliersi. Il rametto le scivolò sul ventre.
- No. Ma a lui sembra di sì.
Io penso. E ora scusami, devo tornare. Io …
Lui la strinse ancora di più.
Contro la coscia Occhi Verdi sentì che la premeva.
- Non te ne andare - disse
baciandola. La lingua le scivolò tra i denti, morbida. Poi
sentì che le sue
mani cominciavano …
- Io devo andare - si staccò
- davvero …
Lui le prese la mano tra le
sue. Erano calde. Anzi caldissime, come se tutto il sangue di tutti gli
uomini
del mondo fosse tutto dentro le splendide vene dei polsi.
- Quando torni?
- Non lo so.
- Ma tornerai.
- Solo se Cèsar …
- Lo sai perché lo chiamano il
vecchio del Melagrano? - chiese.
Lei fece segno di no.
- Il melograno è un frutto
che secca, ma dentro resta rosso. Di sangue. E come il rosso tinge
tutto quel
che tocca. Vuoi rimanere con lui e morire?
La ragazza lo guardò.
- Che significa?
- Significa che Cèsar sta coi
morti. Tu non sei morta. Sei calda.
- Non è vero.
Si chinò ad afferrare
la brocca, Juan sedette sul bordo della strada.
- La fontana è sempre qui. E'
qui da sempre. E anche i morti devono mangiare.
- Davvero il melagrano resta
per sempre pieno di sangue, dentro?
Juan scosse la testa. Sulle labbra gli giocava un sorriso di
porpora.
- Non per sempre - soffiò piano - Solamente
finché
non torna la vera primavera.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo Quinto ***
Primavera
Occhi
Verdi aspettava, dentro
il letto. Non riusciva a dormire, non poteva. Sentiva Luìs
nel corridoio,
avanti e indietro, al piano di sotto. Vigilava, faceva la guardia,
forse si era
accorto di qualcosa.
O forse semplicemente
aspettava che succedesse qualcosa. Luìs non dormiva mai,
sembrava che non ne
avesse bisogno. A volte faceva un gesto con la mano, portandosela agli
occhi
come per ripararsi dal troppo sole. Occhi Verdi pensava che fosse tutto
quello
il suo dormire. Non l'aveva mai visto fare altro.
Di notte Luìs vigilava.
Andava avanti e indietro per le stanze, muoveva passi su passi,
ascoltava ogni
rumore nelle stanze cave. E spiava il respiro di Occhi Verdi come prima
aveva
spiato quello del grande melagrano in cortile, l'odore delle panche di
legno,
l'opacità della polvere, il silenzio.
Ogni cosa che dormisse, viva,
attirava il suo respiro instancabile. E Occhi Verdi, nel suo letto di
pietra, aggrovigliava
le ginocchia alle coperte con la sottile inquietudine di un martire.
Quella notte, ad un tratto,
mentre l'upupa dormiva nella sua tana di frasche, lui venne a lei.
Lo sentì avvicinarsi dal
freddo che le correva lungo la schiena. Soffocò con le
unghie il guanciale,
strinse la fodera, morse le coperte.
Lo sentì muovere un passo
oltre la soglia. Era lì, in silenzio, come un'ombra. La luna
lasciava tracce
grigie sul pavimento, dove moriva l'ombra del rampicante.
- Dormi? - le chiese.
Lei trattenne il fiato.
- Vorrei dormire - disse lui,
avvicinandosi. Le passò una mano sulla schiena, rapprese le
coperte alle dita,
sentì la stoffa riscaldargli il palmo.
- Vorrei dormire ma non ci
riesco.
Lasciò che la mano torcesse
appena il lembo del lenzuolo, sorrise. Poi si sedette accanto a lei,
sul
materasso.
- Una volta queste stanze
erano piene - disse toccandole i capelli - una volta in queste stanze
c'era la
morte e il resto. Ora non c'è più niente. Solo
Cèsar, polvere e spine che
strappiamo al giardino.
Occhi Verdi stava a pancia
sotto, immobile. Sentiva la mano di Luìs ferma sul cavo
della schiena. Un dito
sopra la costola destra, un dito dall'unghia perfettamente liscia.
- Ho sonno - disse Luìs.
- Chiudi gli occhi.
Luìs, con la sua fronte di
luna arcana, rise.
- Non posso - mormorò. La sua
bocca era vicina all'orecchio.
- Non posso proprio. Ormai
non posso più.
Occhi Verdi sentì che la sua
mani risaliva lungo le vertebre. Lungo le ossa scure che si nascondono
nell'ombra della carne. Le sembrò che una foresta di nubi si
arrotolasse contro
la finestra.
- Che cosa vuoi? - chiese
affondando nel guanciale.
- Un po' di pace - disse lui.
- Solo con me?
- Solo con te.
Occhi Verdi pensò alla strana
vita che fanno le meduse in fondo al mare. Vagano inquiete coi loro
occhi di
glassa. Non hanno naso, bocca, ventre, e sentono. Non hanno niente e
continuano
a sentire. Lasciò che le dita di Luìs si
attorcigliassero all'intrico dei
capelli, le si insinuassero dentro orecchie. Quando sentì
che le ginocchia si
scioglievano, lui era lì, sopra di lei.
- Non muoverti.
Lei non si mosse. Chiuse gli
occhi e attese. Restarono così, tutta la notte.
Era il ventre di lei che
nascondeva appiccicose calde meraviglie. E Luìs le ascoltava
in silenzio: era
la vita che trepidava inquieta dentro la carne.
-
Dormi? - le chiese Juan.
Occhi Verdi aprì gli occhi.
Era mattina. La finestra cigolava sul battente, c'era il sole.
- Cosa fai? - chiese
tirandosi su, spaventata.
Lui rise. Era nudo, sopra di
lei.
- Non mi hai sentito
arrivare?
Si mosse, con il membro le
strofinò la carne.
- Ancora?
Il suo fiato sapeva di
zucchero. Occhi Verdi lo respinse a fatica, ma lui continuava a
trattenerla.
- Come sei entrato?
Lui indicò la finestra.
- Sei tu che mi ha fatto
entrare, ieri sera.
Occhi Verdi guardò la stoffa
del guanciale, dove due stampe di teste affondavano dentro il sudore.
Vide le
lenzuola ancora grevi e arricciate di corpi, mosse un piede e ci
trovò la gamba
liscia, possente, calda, odorosa di
Juan. Era bellissimo, Juan, quella mattina. E la stringeva tra le
braccia come
un dio. Come un dorato dio del paradiso.
- Posso svegliarmi? - chiese
lei. Lui rise.
- Sei già sveglia.
- E gli altri?
- Cèsar è uscito stamattina
all'alba. Ha dato da mangiare alle galline e poi ha preso il sentiero
che
scende. Forse per la città. O forse altro. Scende, a volte,
alla capanna di un
pastore. Altre volte al villaggio, per la lana. Si fila da solo le sue
tuniche.
Altre volte va a raccogliere frutta. Comunque siamo da soli - disse, e
le
affondò il mento tra i capelli - Completamente soli tutto il
giorno.
Occhi Verdi liberò una mano.
Sentì il contatto freddo della pietra sotto il materasso. Si
accorse di essere
nuda, anche lei.
- E Luìs? - chiese.
Juan socchiuse gli occhi.
Scosse la testa, le prese una mano. Se l'appoggiò sul
membro, rise di nuovo.
- Siamo soli, e ti amo - le
soffiò.
Occhi Verdi lo guardò dal
basso in alto.
- Io … io devo andare da
Luìs, io devo ...
Torse una spalla, scostò le
coperte, tentò di posare un piede in terra.
- E' freddo il pavimento -
disse lui - Sicura di non voler restare a letto?
E prima che lei potesse dire
anche soltanto un'altra parola, le avvolse le braccia intorno al corpo.
Occhi
Verdi sentì che erano calde, come caldo era tutto il resto.
- Io devo andare da …
- Ci andrai dopo.
E con il membro le affondò dentro
la carne.
Qualche ora dopo
aprì gli
occhi di nuovo. Si guardò intorno, era pomeriggio. Juan
dormiva abbandonato sul
cuscino. Provò ad alzarsi, con la punta del piede
scostò le coperte, provò un
brivido. Stava per posare il piede a terra, quando lui aprì
gli occhi dorati
dalle ciglia lunghe come lacci.
- Non ti muovere -
mormorò, circondandola
- Non ti muovere, non ne ho abbastanza, resta.
Con le labbra le
tracciava
incantesimi a fior di pelle.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo Sesto ***
Primavera
Luìs
l'aspettava in riva al
mare.
Occhi Verdi se ne accorse
all'imbrunire, quando Juan era andato, e Cèsar non ancora
tornato.
- Ti disturbo? - gli chiese
avanzando sulla sabbia.
Le caviglie le affondavano tra
i sassi al limite del mare.
Luìs non si mosse. Con la
veste polverosa rimboccata, tirava sassi piatti sopra l'acqua.
- Ti disturbo? - chiese di
nuovo lei. Si accoccolò subito dietro le sue spalle, vicino
a un masso
levigato, l'unico, su cui un lichene cresceva come brina.
Guardò cosa faceva. Raccoglieva
sassi sulla battigia. Non sassi di tutte le forme, solo sassi piatti,
quelli
che l’onda leviga fino a farli sembrare usciti dal tornio.
Con la veste
rimboccata alle ginocchia li pescava nel punto in cui rotolano avanti e
indietro sbattuti dalle onde. Sulla
riva
del mare si addensavano nuvole assenti, sembrava si preparasse una
tempesta di
quelle annunciate dal volo impazzito degli uccelli. La sabbia lambiva
la
risacca, e tutto era grigio, deserto. Sembrava una statua di sale.
- Ti sei fatto male?
Sotto la veste, Luìs aveva un
lungo rigo di sangue. Scendeva fin sotto la caviglia.
- Non mi sono fatto niente -
disse lui, e continuò a fare quello che stava facendo.
- Mi dispiace se io … ma cosa
fai?
Le lunghe mani di Luìs
accarezzavano le pietre lisce. Le sollevava dal limite del mare, dove
la sabbia
si confonde con l'acqua. Le lasciava un istante al sole e poi le
scagliava
lontanissimo, lasciandole planare sull'acqua. Alcune facevano decine di
piccoli
salti a pelo d'acqua prima di uscire dalla vista con un tonfo.
- Lascio che muoiano, come
dovrebbero. Come dovrebbe chi è malato e marcio, come
dovrebbe chi nasconde
morte.
Lei lo guardò, non capiva.
- Vai via. Cèsar sarà quasi
tornato. Vattene.
Lei strisciò fino alle sue
caviglie.
- Che ti ho fatto? - chiese
prendendogli un lembo della veste.
Luìs si allontanò senza
guardarla.
- Dove sei stata tutto il
giorno?
A Occhi Verdi venne da
piangere.
- Io …
- Non voglio saperlo - disse
lui - non mi interessa cosa sei o che fai.
Cèsar
tornò fregandosi le
mani, con un cestino di agrumi barattati al mercato con le uova e un
bel po' di
notizie senza senso.
- Tieni - disse a Occhi Verdi
- ti ho comprato questa.
Le tese un involto. Dentro
c'era una veste verde color smeraldo, con larghe maniche e un bordo di
pizzo.
Occhi Verdi la indossò felice.
- Non sai quanto mi è costato
comprarla senza dare nell'occhio! - rise il vecchio - Il vecchio
Cèsar che
scende al mercato e si avvicina ad un banco da donne! Non succedeva da
parecchio tempo …
Occhi Verdi stava rimestando
un ramaiolo di cavolo.
- Da quanto tempo? - chiese.
Cèsar si rabbuiò.
- Da tanto. Da quando lo
facevo per Maria.
- Chi è Maria? - chiese lei.
- Chi era. Era mia moglie,
Maria. Perché una volta il vecchio Cèsar aveva
addirittura una moglie.
Occhi Verdi si accostò alla
tavola e porse al vecchio un bicchiere di vino.
- Era bella tua moglie? -
chiese. Poi si sedette.
Il vecchio sorrise dentro il
vino.
- Se era bella? La più bella
donna del paese. I ragazzi se la litigavano. Non poteva andare per
strada che
la gente le fischiava dietro. Venivano dalla costa per vederla, dalle
montagne
intorno, dalle navi. Si passavano la voce, e se scendeva al mercato con
sua madre,
tutti, tutti giravano la testa per vederla. Era alta, era bellissima,
imponente. Sembrava una statua, la mia Maria. E la volevano tutti, ma
alla
fine, fu il vecchio Cèsar a portarsela via. C'è
altro vino?
Occhi Verdi glielo versò, e
si mise una mano sul mento.
- Non è ancora ritornato,
Luìs?
- Era alla spiaggia, ancora
poco fa.
- Ci va sempre a quest'ora.
- Lo so.
- E tu, che cosa hai fatto
tutto oggi? Era caldo, ti sei annoiata, in casa …
Occhi Verdi non seppe che
rispondere.
- Mi piacerebbe ascoltare di
Maria.
Il vecchio sorrise e bevve
tutto il secondo bicchiere di vino. Aveva il mento ancora polveroso, e
gli
occhi incrostati di fatica.
- Aspetta - disse Occhi
Verdi, e gli portò uno straccio e acqua perché
potesse pulirsi. L'acqua era
tiepida e il vecchio Cèsar fu grato alla ragazza per quel
gesto.
- Ti piacerebbe ascoltare di
Maria?
Occhi Verdi fece cenno di sì.
- La zuppa non è ancora
pronta - disse il vecchio - e Luìs non è ancora
arrivato. Non ci vedo niente di
male a raccontarti un po' della mia storia. Mettiti comoda.
Così il vecchio aveva
cominciato.
-
Un
tempo Cèsar possedeva una barca. Non era il Cèsar
che vedi ora. Non era
vecchio, stanco o rugoso. Era un bel ragazzo simpatico, con occhi neri
e tanto
amore nelle mani. Era nato per coltivare il mare, e aiutava suo padre
in una
barca presa in affitto. Non erano ricchi, anzi erano poveri, ma non
c'era una
sera in cui Cèsar non fosse felice, al tramonto, di come era
andata la
giornata. Le giornate erano tutte belle, perché erano piene
di onde, spruzzi,
acqua e reti. Lui
non aveva bisogno di
niente, e quindi aveva tutto, capisci? Ma poi un giorno, arrotolando le
reti
davanti al molo appena costruito, aveva visto qualcosa che luccicava in
pieno
sole. Non aveva capito subito cosa era, e si era avvicinato per capire
il
perché del luccicore. Il venditore della bancarella stava
mostrando certi
oggetti a delle donne. Erano collane di pietruzze colorate, piccoli
oggetti di
corallo, una stella fatta con cocci di vetro levigati. Era stata la
stella a
brillare, quando il mercante l'aveva alzata al sole. Ora invece la
teneva sopra
il palmo e la mostrava alle donne.
- E'
bellissima, ma è lontana, è fredda. E poi le
stelle non si muovono mai - stava
dicendo una all'altra, e a Cèsar venne fatto di alzare gli
occhi. La ragazza
che aveva parlato era bellissima, e piena d'amore in uno sguardo
luminoso e
inquieto. A Cèsar non era stato più capace di
scacciare il suo volto dagli
occhi.
Era così che l'aveva conosciuta, perché
lei aveva detto che le stelle non si muovevano e invece lui sapeva che
non era
così. Aveva atteso che le ragazze lasciassero il banco, e
poi le aveva seguite.
Aveva scoperto dove stava la ragazza dai capelli neri, e il giorno dopo
era
tornato al mercato con la segreta speranza di vederla. Si erano
affrontati
così, per giorni e giorni, lei senza sapere che aveva occhi
di diamante stretti
intorno, lui dietro un cesto, o contro un muro, o in un anfratto a
sognare
segretamente il giorno in cui le stelle, le avrebbe spiegato, si
muovono in
cielo come nubi e ogni notte rotolano fisse verso l'altrove. Voleva
spiegarglielo, voleva che lo sapesse anche lei che le stelle non
stavano ferme.
Lo voleva come mai non aveva voluto nient'altro. Al terzo giorno, messo
il
cappello della festa e una camicia che gli aveva regalato sua nonna,
uscì di
casa e andò a chiederla in sposa. Erano ricchi i genitori di
lei, per lo meno
possedevano una barca, ma suo padre conosceva gli uomini, e quel
giovane simpatico
gli piacque.
- Ti
frequenti con mia figlia? - chiese. Aveva lunghi baffi e una
pancia che
rotolava quasi fino a terra.
- No,
signore - disse lui - non ci ho
neanche
mai parlato.
- La
conosci di fama, perché è bella?
- Non
so neanche il suo nome, signore. Non lo sapevo fino a ieri, fino a
quando non
ho deciso di venirvela a chiedere.
- E
allora perché la vuoi sposare? - aveva chiesto il
padre, arrotolando un
grosso sigaro tra le dita cicciute. Era enorme, e come un colosso
prendeva
tutto il vano della porta seduto sul suo trono di banano
- forse perché e bella, o perché è
ricca, o ti piace il modo in
cui cammina, le sue gambe? Ha un bel seno, mi dicono, ma io non posso
giudicare, sono il padre.
Cèsar aveva riso, era arrossito. Non gli
andava di dirgli che quel seno gli aveva intossicato già tre
notti. Ma non era
poi quello il motivo per cui la stava chiedendo a suo padre.
Si era seduto su una panca, accanto a lui,
e di era tolto il cappello.
- Davvero
volete sapere perché la voglio?
- Avanti.
- La
voglio perché ha detto che le stelle stanno ferme nel cielo,
non girano. E
questo non è vero, signore. Le stelle girano, si muovono,
eccome. Solo che sono
come dei fantasmi. Non si muovono veloci, non si vede. Ma se uno stacca
l'occhio per qualche tempo, poi si accorge che sono mutate. Lei invece
ha detto
che non possono muoversi. Per questo voglio sposarla, perché
sappia, che tutto
ha una vita, anche il silenzio.
Il grasso vecchio lo aveva guardato come
si guardano le mosche per aria.
- Mi
stai chiedendo mia figlia per questo?
Cèsar aveva annuito. Il vecchio gli aveva
passato il suo sigaro.
- Scende
tra poco, se ti vuole è tua. Ma io spero che con un matto
del genere non ci si
metta. Non porta mai fortuna la follia.
Ma lei era scesa, e lo aveva voluto. Lui
le aveva mostrato come le stelle girano sempre e non stanno mai ferme.
Era
stato un amore profondissimo.
Occhi
Verdi sorrise.
- E poi?
- E poi, e poi … - sorrise Cèsar - e poi
guarda che ti brucia la zuppa!
Occhi Verdi corse al focolare. Era vero,
la zuppa stava bruciando. Trafficò qualche istante con la
pentola, provò a
tirarla via dal fuoco con un cencio, ma tutto invano. Quando
cercò di toccarla,
si accorse che era troppo calda, e si scottò. Lanciando un
grido si fece
indietro. La zuppa era tutta sul pavimento.
- Stai ferma - disse Luìs, comparso alle
sue spalle.
E prima che Cèsar fosse riuscito ad
alzarsi, aveva preso la pentola tra le dita e l'aveva rimessa al suo
posto.
- Ceneremo con qualcos'altro - rise il
vecchio - Vero, Luìs?
Ma Occhi Verdi che lo aveva visto rialzare
il metallo senza scottarsi, gli lanciò uno sguardo un poco
inquieto. Lui le
sorrise da un'altezza infinita.
- Non è detto che quello che brucia debba
per forza farmi male, sai?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo Settimo ***
Primavera
Fu
quando venne mastro Muriel
che Cèsar cominciò a preoccuparsi. Mastro Muriel
non veniva mai fin là. Non
almeno in tempi di pace. E invece una mattina se lo vide comparire
dalla svolta
della strada. C'era il sole, e lui stava zappando.
- Che vi porta da queste
parti, mastro Muriel? - chiese Cèsar, sospendendo la zappa.
Muriel lo guardò
attraverso le grosse pietre del muricciolo. Non aveva il coraggio di
varcare
quella soglia: sua madre ci era morta tante estati prima, e lui stesso
era stato
in pericolo.
- Vengo a chiedervi come va
il lavoro - disse Muriel, bighellonando intorno a un ceppo che stava
posato per
terra. Era il ceppo in cui Luìs certe volte ficcava la scure
prima di usarla.
- Vengo solo a chiedervi che
fate.
Cèsar sembrò sollevato. Posò
la zappa e lo invitò ad entrare, ma quello non volle
saperne.
- Vi hanno visto in città,
l'altro ieri. Vicino al banco che vende vestiti.
- Ero là per delle compere, a
volte mi metto a fantasticare, lo sapete.
Mastro Muriel, che conosceva
come tutti le tristi vicende di Cèsar, socchiuse gli occhi,
incerto se
crederci.
- Avete fatto molte migliorie
- disse indicando l'orto circostante. Cèsar si mise a
spiegargli d'impegno
quanti canali avevano scavato e quanti solchi nuovi per i fagioli. Era
tranquillo, Occhi Verdi quel giorno era uscita molto presto, per la
fonte.
Aveva preso l'abitudine di stare molte ore in giro per la scogliera.
Non
tornava mai prima del tramonto. Ma da quel lato non andava mai nessuno,
era
impossibile che facesse degli incontri.
Così Cèsar sorrise a Muriel.
- Avete sete? - chiese e gli
allungò una borraccia di vino da sopra il muro. Muriel lo
guardò scuro per un
attimo.
Si sapeva in paese che Cèsar
era un tipo scontroso. Tutta quella cordialità …
che stranezza. L'aveva solo in
tempo di peste. Allora sì, quando scendeva col carretto
aiutato da un vecchio
somaro con un pendaglio attaccato alla zampa, allora sì che
era allegro,
disinvolto. Non il solito Cèsar. Si avvicinava ad ogni casa
come fa
l'erbivendola, ma lui non vendeva erbe o uova, prendeva morti.
Muriel, che era il sindaco
del piccolo villaggio da decenni, lo ricordava, quando era bambino, con
quelle
braccia secche e quello scheletro, a prender sorsi dalla sua borraccia
mentre
aspettava di caricare un morto.
- Vi ringrazio. Ma ho bevuto
prima di partire.
Stettero un altro po' a
chiacchierare, loro due. Mastro Muriel era una buona compagnia.
Discussero dei
pochi interventi che c'erano da fare al lebbrosario: Cèsar
chiese qualche metro
di corda per mettere in sicurezza il pozzo e due barili di pece per il
tetto.
Tendeva a crollare, da un lato, e spesse volte ci pioveva dentro.
Mastro
Muriel, sotto il sole che cominciava a scottare sotto le nubi basse,
gli
concesse ogni cosa, sorridendo. Non era venuto per la pece,
né per i tratti di
corda.
- Allora, vi rivedremo presto
in paese? - chiese con un sorriso a mezza bocca quando venne il momento
di
andarsene.
Cèsar strizzò gli occhi.
- Perché mai? Non ho bisogno
di niente, ho tutto quello …
Muriel spostò il peso su un
piede.
- L'altra notte, Cèsar, in
fondo al porto.
- In fondo al porto?
- Hanno ritrovato questo.
Togliendolo con cura dal
sacco che teneva lontano, per la corda, gli mostrò un
involto rattrappito.
Sembrava il fagotto di un neonato, ma era macchiato di sangue.
Cèsar lo prese senza dire una
parola. Scostò un lembo, ci gettò un'occhiata.
- Un topo morto - disse.
Muriel fece un passo
indietro.
- Morto di quel che
sospettiamo, vecchio?
Cèsar prese il topo per la
collottola. Era già gonfio, e sotto il mento aveva una
specie di grossa macchia
rossa.
- Un topo morto - ripeté -
nient'altro.
Lo rigettò sul sacco. Mastro
Muriel fece un altro passo indietro, tentennò tra la voglia
di scappare e
qualcos'altro che poteva anche essere sfida. Alla fine si decise.
- State attento a quel che
fate, mastro Cèsar - disse - In paese si dice che ai morti
non si comprano
vestiti di raso. E che i morti non girano di giorno lungo tratti
inesplorati di
scogliera.
Cèsar teneva gli occhi sulla
zappa. Non lì alzò finché Muriel non
scomparve di nuovo oltre la costa
accidentata della strada. Poi, lentamente, alzò gli occhi al
melagrano.
- Tu che ne sai dei morti,
Muriel? - rise - I morti sanno fare molte cose.
Quando la sera
ritornò Occhi
Verdi, Cèsar l'aspettava in un cantuccio della cucina.
Aspettò che entrasse,
sorridente, e si slacciasse il vestito sul collo.
- Dove sei stata? -
chiese.
Occhi Verdi
sobbalzò, perché
non l'aveva visto.
- Alla scogliera -
farfugliò.
- Con chi?
Le sue guance
divennero
scarlatte. Aprì la bocca, ma Cèsar fece un gesto.
- Non dire niente. Non
mi
interessa, non a me. Davvero. Ma ad altri potrebbe interessare.
Occhi Verdi si fece
più
vicina.
- Ad altri chi?
- Giù al
porto - la ignorò
lui - giù al porto ti ci ha mai portata?
Occhi Verdi non
capiva.
- Il ragazzo. Il
ragazzo dei
coniglio, Juan.
Le tremarono le
ginocchia.
Nell'ombra le sembrò che il mondo si sfacesse.
- Come lo sai? - gli
chiese.
E davvero avrebbe
voluto
saperlo. Non sapeva lei per prima perché aveva fatto una
cosa del genere,
perché si era lasciata convincere a quella gita assurda, a
quel gioco. Erano
giorni che vagava con Juan per la scogliera. Perché si era
lasciata portare l'altro
ieri fino al porto.
- Te l'avevo proibito
- disse
lui. Ma nei suoi occhi non c'era traccia d'ira. Solo una specie di
tetro
rimpianto.
- Te l'avevo proibito
-
ripeté.
Occhi verdi si
accoccolò
accanto a lui.
- E' successo
qualcosa? -
chiese. Il sole stava scendendo oltre la soglia. Sembrava una pietra
galleggiante su un mare d'oro.
- E' la peste - disse
soltanto Cèsar - Sei stata tu a portarla. Tu ne sei immune,
come me, è
evidente. Ma non è detto che non possa portarla nascosta in
te. Devi averla
portata. Hanno trovato un topo morto, giù in
città. E' la peste. E quando
cominceranno anche gli uomini, allora verranno a cercarti.
Perché sanno che la
peste non viene sola, ma ha sempre un inizio, qualcuno che per primo se
la
trascina dietro.
Occhi verdi rimase in
silenzio per un istante.
- Lo sa
già, Luìs?
Quella domanda gli era
affiorata sulle labbra come una cosa galleggiante e inquieta. Non
sapeva perché
l'aveva fatta.
- Che hai portato la
peste?
- Che sono infetta.
- Cosa pensi che cambi?
- Niente.
Non pensava che a
Luìs
importasse qualcosa. Ma le era venuto di chiederlo.
Cèsar
scosse la testa.
- Pensi che non siamo
abituati a queste cose? Luìs lo è da prima di me.
E' venuto qui tanto tempo fa,
con la peste. E forse se ne andrà con la peste. Era qui
quando sono morti
tutti.
- Era qui quando sono
morte
le sorelle?
Cèsar
sorrise nell'ombra.
- E' arrivato il
giorno dopo.
- Era sua moglie?
Quella che
è morta, quella che è impazzita. Era sua moglie?
- Tu come lo sai?
- Era sua moglie?
- Sì.
- Da quanto tempo
è morta?
- Da decenni.
- E lui è
rimasto qui? La
cerca ancora?
- Dobbiamo andarcene,
Occhi
Verdi, stanotte.
- La cerca ancora?
Pensa che
ritorni?
Gli occhi di
Cèsar si fecero
fessure.
- Dice che un giorno
tornerà
con la peste. Aspetta un'altra peste, perché torni. E tu hai
portato un'altra
peste. Ancora una.
Occhi Verdi mosse
inquieta un
piede. Nella penombra del crepuscolo parve una bizzarra creatura
d'argento.
- Pensi che
tornerà davvero?
- chiese quando fu troppo stanca del silenzio - Che tornerà
per portarlo via
con sé?
Cèsar si
alzò in piedi. Era
vecchio, zoppicava, ma a lei parve che ci mettesse solo un attimo.
- Stanotte io e te
partiremo
- disse quando fu sulla soglia - Se ti trovano quassù sei
finita.
Occhi Verdi lo
guardò.
- E Luìs?
- Luìs non
potrà proprio
farci nulla.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo Ottavo ***
Primavera
Trovarono Luìs
davanti al
muro, sullo sfondo scuro del melagrano. Imbruniva e lui teneva in mano
la sua scure.
Cèsar se lo era aspettato.
- Lasciaci andare,
Luìs -
disse. Aveva indosso un fagotto di stracci e il bastone che usava per
camminare. Con una mano strinse il braccio di Occhi Verdi, e
sentì che il suo
polso non tremava. Strana ragazza,
pensò, come lo aveva pensato il giorno che l'aveva tratta
fuori dalla sua nave.
Una ragazza in cui la paura era solo una crosta sottile sopra un cuore
di
statua.
Luìs, con
le nocche bianche
dal peso sottile della scure, non si mosse.
- Perché la
stai portando
via, Cèsar?
Cèsar
sapeva che ci sarebbe
stato ancora qualche peso da spostare, qualche lungo stelo da spezzare
prima
che tutti loro potessero essere liberi. Lui stesso, che aspettava la
morte
ormai da muti decenni, lo sapeva: subito prima della fine, non appena
qualcosa
inizia dietro il velo della morte, tutto comincia a muoversi, tutto
comincia la
sua danza frenetica. Anche adesso, negli occhi vuoti e immobili di
Luìs, lui
quella nuova foga la vedeva. Era il segnale di qualcosa di nuovo.
- Lasciaci andare,
Luìs. Lo
sai che devi.
- Io non devo proprio
niente.
- E invece
sì.
Fece un passo in
avanti.
Allungò il braccio, come quando a un bambino che piange si
mette una mano sulla
nuca.
Conosceva quella
sensazione,
l'odioso vuoto che precede la nascita. L'aveva visto negli occhi dei
morenti
quando sapevano che stavano per andarsene, lo aveva visto sopra i
banchi delle
navi quando gli uomini si aggrappano agli schianti e sanno che non ne
usciranno
vivi. Sapeva che prima della morte c'è un istante di
terrore: come un feto,
immaginava, serra gli occhi e crede di morire quando nasce.
- Hanno scoperto che
lei è
qui - sillabò piano - E' tutto pronto, è meglio
che ritorni da dove è venuta,
Luìs.
Luìs lo
guardò come non
capisse. Poi mosse un piede per terra, nella polvere.
- Pensi ancora che la
barca
possa reggerla? Adesso lei è entrata tra i morti, adesso
pesa, non è viva, lei
…
Cèsar
sorrise e avanzò di un
altro passo.
- La barca
potrà reggere il
suo peso. Non sarebbe giusto altrimenti. La barca reggerà il
suo peso come
prima ha retto quello degli altri.
- Quali altri, vecchio?
- Tutti quelli che
sono
tornati e poi partiti.
Ci fu un lungo
silenzio, in
cui Luìs non fece altro che fissare sulla scure i barbagli
che faceva la luce.
Poi riprese, sorridendo, e adesso aveva gli occhi alla polvere per
terra.
- Dici davvero che
avremo
un'altra peste?
- L'ultima. E dopo
tutto
giungerà a conclusione. Stanotte saremo in pace anche noi.
Occhi Verdi vide
Luìs
oscillare. Non mosse un muscolo, ma vide che i suoi occhi sembravano
accendersi
di brama, che il vecchio aveva toccato qualcosa di profondo nel suo
cuore.
Trasse un respiro, perché non capiva. Intorno a loro tutto
si era gelato.
- Allora? - fece
Cèsar - Ci
lascerai andare?
- Tu non mi hai mai
lasciato
andare.
- Non potevo. E poi
eri tu
che non volevi.
- Non è
vero.
- Se fossi morto che
cosa
avresti fatto? E ora invece moriremo insieme. Questa è la
nostra ultima peste.
Luìs
fissò al di là della sua
spalla, nella luce oscura di Occhi Verdi.
- Lo sai dove ti sta
portando, il vecchio?
Occhi Verdi scosse
piano la
testa. Sulla bocca di Luìs comparve un sorriso che era come
una crepa, un
sorriso da animale dissepolto prima che il vento e i brandelli di carne
ne
abbiano fatto uno scheletro.
- Ti sta portando dove
sono i
morti. Sono sott'acqua. Nuotano. Raschiano il fondo delle navi,
bisbigliano strani
sogni alle orecchie. Mai, mai una volta dicono il vero. Sono falsi come
tutti i
sogni. E sempre conducono alla morte. Tu vuoi andarci davvero, da quei
morti?
Occhi Verdi
strizzò le
palpebre. Il sole che tramontava contro l'orizzonte le ferì
gli occhi. Un
uccello che se ne stava rannicchiato sopra un ramo alto del melagrano
sbatté le
ali e frullò via in un soffio. Ogni cosa era detta.
- Li vuoi vedere, i
morti? -
ripeté Luìs.
- Già li
vedo - disse lei. E
di un soffio era già passata oltre.
Luìs rimase
immobile ancora
per molto tempo quando furono andati. La lama della scure ora era
fredda e non
faceva più male alle dita. Si rannicchiò per
terra. La notte era quieta e non faceva rumore. E adesso
che lei se n'era andata, poteva infine vivere per sempre.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=554200
|