Primavera

di minimelania
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


Primavera

Il sole galleggiava immobile quando giunse la nave della peste. Si chiusero i cancelli del porto, e si aspettò di vedere che passava. Ne capitavano spesso in quei giorni di navi piene di gente, stracci marci e gemiti simili al verso dei gabbiani. Sfilavano all'orizzonte nel tetro ronzio delle api. Erano tempi in cui la disgrazia d'altri costituiva già da sola una fortuna.
L'aria era immobile, la pioggia lontana come sono lontani i pianeti nei loro inutili riti siderei. Ma la nave di quel giorno rimase più a lungo immobile sul ciglio del mare. Fu chiaro che attendeva qualcosa.
Dalla cima della scogliera la scorse il vecchio Cèsar, e capì che aspettavano lui, così discese alla spiaggia di sassi, e arrancando andò a staccare la barca.
Come un osso lavato dalla terra, che qualche cane ha nascosto chissà quando e poi dimenticato, così a Cèsar una peste antichissima aveva tolto il bene di morire. Gli aveva tolto la moglie e le figlie, e lui stesso si era ammalato, ma una mattina la febbre era scesa, e i bubboni si erano fatti crosta. Lui diceva che la peste lo uccideva come il mare uccide le meduse, per sfinimento. Erano passati lunghi anni da quando le aveva sepolte al melagrano. Tutto il resto ormai era solo polvere, si era abituato a sbirciare la morte con l'impotenza di un adolescente che osserva la donna che ama ridere a un altro.
Ma poi, ogni volta che ricominciavano a morire gli uomini al porto e le donne nelle case, sperava sempre che la morte avesse perso il conto. Che finalmente si distraesse un poco, e falciasse anche lui via insieme agli altri. Era rimasto così per molti anni, custode del vecchio lebbrosario che serviva per i malati di peste, quando la peste si degnava di mostrarsi.
Al vecchio non piaceva quando il sole scottava come metallo sull'acqua. Gli dava la sensazione di scivolare sopra la porta di qualcos'altro. Non acqua, l'inquieta porta di qualcos'altro, pece.
Quando il tonfo del remo intaccò l'acqua, Cèsar chiuse gli occhi in un cenno di strana gratitudine. Aveva pensato che potesse essere solida. La luce offuscava ogni cosa.
Sulla nave erano tutti morti, o almeno gli parve dapprima. Si arrampicò sulla scala di corda, e protese il collo oltre il primo confine della murata. Sperò che fossero morti. Il suo compito finiva in quello, ma per chi agonizzava c'era sempre qualche parola da dire, e il vecchio odiava i posti che fumigavano di lercio e di morte per essere stato costretto a passarci l’esistenza.
Sul ponte c'era un cadavere già gonfio. Arrampicato a una maniglia del timone, la camicia ondeggiava al vento sotto un nugolo di tafani. Un altro morto, un ragazzino, giaceva a pancia in su vicino all'albero. Intorno al capo aveva un'aureola di vecchi stracci insanguinati e un bubbone proprio sotto l'orecchio. Anche quello era ormai solo interesse dei tafani. Passò oltre.
C'erano segni della morte dovunque, la morte che arrivava dall'Oriente e come un vecchio che ricarica la pipa accendeva i suoi bagliori di brace con l'intervallo regolare di un respiro. C'erano galee che arrivavano stracolme di morti verdi, altre che affidavano tutto il lavoro ad un topo, ignaro, solo, nella stiva a rosicchiare frumento. Le pulci a volte mordevano gli uomini, altre volte prima i cani e gli uccelli. C'erano tanti modi di arrivare alla sola conclusione possibile. Come una festa di villaggio, poi, dopo lo scoppio era la stessa cosa. Sempre le stesse grida, stracci, miserie. Come fuochi d'artificio sempre uguali.
In una botticella d'acqua putrida nuotava il volto gonfio di una scimmia, aveva gli occhi aperti e un cappello con gli alamari. Il capitano fino all'ultimo l'aveva protetta nella sua cabina, la sua scimmia, ma adesso i tafani roteavano sopra di lei come sopra tutto il resto.
Cèsar toccò le sue dita di bambino, si alzò un nugolo di bestie nere e opache. Nel sole un paio andarono a posarglisi sul naso, non le scacciò. Subito quelle, deluse, se ne andarono. Non c'era niente da succhiare sul suo teschio ancora vivo.
Poco distante era la scala di sotto coperta. Cèsar seguì i tafani fino là. Il buio che saliva dalla botola era marcio come certe melanzane dimenticate al sole. Sui primi gradini, lo sapeva, c'erano viscere e escrementi scivolosi. Più sotto, tutto quello che era morto prima del tempo. Forse avevano tentato di inchiodarli, di isolare i malati, come sempre. Assi inutili erano ancora attaccati ai cardini, ma ora il catenaccio pendeva molle nel vento.
Cèsar scrollò la testa, un tafano gli era volato vicino, senza toccarlo. Poi guardò intorno, scese uno scalino, mise il piede su qualcosa di umido e decise che non sarebbe sceso. Non quel giorno, era inutile. Era stanco. Vide la barca che oscillava lassotto, qualche metro oltre la murata. Il vento lieve la faceva oscillare e sbattere contro la chiglia della nave. Decine di piccoli molluschi cominciavano ad arrampicarsi sulle corde. Chissà cosa si muoveva lassotto. Decise che non sarebbe sceso. Si voltò per tornare alla barca.
Fu allora che la sentì, chiaramente. Più che una voce, un sussulto tiepido, il gemito di qualcosa che giaceva molto più sotto. Un suono che aveva l'odore di sangue e latte e caramello come la nuca di certi neonati. Capelli morbidi, manine fragili, escrementi teneri come gusci d'uova. Cose tremendamente inquiete, e adorabili.
Pensò a sua figlia, che era morta. Al vomito di sangue marcio che colava dalla bocca al posto delle ultime parole. Si ricordava una preghiera, e la disse.
Il gemito si ripeté. Era vicino. Cèsar rivide tutto il sangue che rischiava di uccidere sua moglie. Le lenzuola appiccicose del parto. Era stato con la loro prima figlia. Rischiavano di morire tutte e due. Ma poi d'un soffio, come un uccello impazzito, avevano ricominciato a respirare, madre e figlia, come un tutto unico. Cèsar ricordava una preghiera, un'altra ancora, diversa, le la disse tenendo gli occhi chiusi. Il gemito gli si infilò sotto le palpebre, veniva da sotto coperta.
Pensò alla casa, alla stanza buia, al sudore e al silenzio. Perché prima di nascere sua figlia l'avevano fatta. Era una sera di festa e le candele bruciavano per strada e sui banconi. E sua moglie aveva gli occhi cerchiati da un respiro diverso, e le guance piene di vino e di attesa. Così era stato che le sue prime lenzuola si erano tinte anche loro di sangue.
Tutto quel sangue. Pensò. E quel gemito non poté più ignorarlo.
Nel buio, a tentoni, cercò il punto per scendere. Dove la scala curvava verso il basso. Lo cercò come il battito di un cuore, come l'ultimo respiro su una crosta persa sempre. Poi le sue mani scivolarono su qualcosa ancora tiepido, viscido, sicuro.
Sotto un cumulo di bestie morte e umani, proprio ai piedi della scala, sentì che qualcosa, una cosa rannicchiata come un feto. Sognava. Ma quando lui la toccò aprì gli occhi, che erano verdi come due comete. Non era una donna, non ancora.
- Portami a casa - mormorò, poi svenne.
Era una pallida bambina adolescente, stinta dal morbo, sfinita dal digiuno. Cèsar la prese tra le braccia magre. Forse sapeva che sarebbe successo, ma nel posto che lui chiamava casa c'era spazio a sufficienza anche per lei.

Percorsero a piedi la strada che tagliava le rocce. A volte la ragazza incespicava, così lui doveva sostenerla. Le aveva dato da mangiare qualcosa che aveva trovato sulla nave: i resti di un pane e, da una brocca, un sorso di vino oleoso.
Era notte, e i passi non facevano rumore. Tutto intorno l’intrico di rovi lambiva loro le vesti: il vecchio Cèsar, allungando le mani, li usava per trovare la strada. Una lepre attraversò il sentiero, poi scomparve tra le ginestre che invadevano il piano. Sembravano uccelli spaventati. Arrivarono in cima alla scogliera, dov’era il lebbrosario, perduto nel fragore delle onde che andavano a sbattere sugli scogli, molto più in basso. Le finestre erano prive di vetri e il vento quasi spazzava la distesa.
Nel cortile pieno di spifferi la sabbia ingombrava ogni cosa, i muri grigiastri, i vasconi che un tempo erano serviti a lavare i lebbrosi.
Gli ricordavano delle lunghe notti passate in silenzio con cenci e corpi che nulla avevano più di umano. Un fischio distante accarezzava le cime degli alberi radi.
Da una porta mezzo distrutta passarono in una stanza di cui non si vedeva la fine. Al centro una candela illuminava il tavolo e un uomo seduto di schiena, che non si mosse.
Cèsar portò da un angolo un fascio di paglia secca, lo sistemò accanto al fuoco e posò accanto una ciotola d'acqua, cipolle tiepide e formaggio. Ci accomodò la ragazza. L'altro continuava a fissare il fuoco come non li vedesse.
- Mangia - sussurrò Cèsar - e chiudi gli occhi per un poco. Quando il prete avrà finito di pregare, allora ti poterà nella tua stanza. Nel frattempo mangia e riposa.
La ragazza allungò una mano, cercò a tastoni del cibo, e poi anche Cèsar si mise ad aiutarla. Mangiò come in bambini, che metà del cibo non riescono neanche ad inghiottirlo. Poi le palpebre le si fecero pesanti, e chinò il capo contro il muro. Il vecchio la distese delicatamente sulla paglia.
- L'ho trovata alla nave - disse avviandosi a una soglia di pietra che biancheggiava al limite del buio - Fai tu quello che devi, io sono stanco.
Il prete non si mosse. La ragazza si rigirò nel sonno. Le parve di sognare qualcosa che la portava via dal mare, lontano.
Dopo un tempo che non seppe contare, mentre la notte assediava le finestre e una porta sbatteva da qualche parte, il prete si alzò dalla sedia. Andò alla paglia, svegliò la ragazza e la condusse in cortili di pietra, attraverso stretti budelli fitti di stanze come orbite cieche, poi una teoria di porte senza ante né tende, di stanze nude prive di letti, di sedie, di armadi. Soltanto polvere, ancora, e dovunque.
Si arrestò davanti ad un varco come un altro. C’era una vasca sul pavimento di pietra, in quello che sembrava il centro della stanza. Dentro la vasca attendeva dell’acqua senza riflesso. Il prete dovette afferrare sotto le ascelle la ragazza un paio di volte, perché stava svenendo per il freddo, o per il sonno. Con un gesto secco le aprì la veste sul petto. La pelle di sotto era un’unica crosta di sangue rappreso e lerciume. Senza aspettare una reazione la immerse nell’acqua gelata.
- I capelli - estrasse un coltello dalla tasca e cominciò a tagliare la massa aggrovigliata che le copriva la testa. Lei guardò mentre ad una ad una le ciocche cadevano. Poi senti il freddo della notte sul collo, mani di automa stringere gli ultimi nodi, una secchiata d'acqua gelida.
- Le unghie.
Lei aspettò pazientemente che avesse finito con una mano. E poi lo fece con l'altra, con i piedi e le ascelle. Tagliò tutto, tutto ripulì come volesse arrivare alle ossa. Le macchie sparivano contro lo straccio ruvido, la pelle arrossata a sangue cominciava a respirare di nuovo.
Giunse al pube e anche lì cacciò lo straccio strofinando come se non lo vedesse. Puliva, chiudeva, strofinava. Lei avvicinò lievemente le ginocchia l'una con l'altra, ma era troppo stanca per aver paura, o per sentire il dolore, o la vergogna.
Non successe quel che si era aspettata. Non successe niente. Solo, fu pulita.
Quando fu in piedi, l'avvolse in un lenzuolo che bucava di mille aghi e le disse di strofinarsi finché non si asciugava. Lei sentiva l'aria dove prima c'erano i capelli, e sangue che pulsava di nuovo sotto la pelle.
- Grazie - sorrise, soffocando uno sbadiglio. Adesso si sentiva stanca, e meglio. Vide il prete che andava in un angolo e bruciava i suoi vestiti uno per uno.
- Nessuno dovrebbe ringraziare finché non sa che cosa l'aspetta.
Poi se ne andò. Quando il fuoco si fu spento lei si accorse che lui aveva dimenticato la candela. Forse per pena o per dimenticanza, le aveva lasciato qualcosa con cui scacciare via le tenebre.

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


Primavera

La ragazza Occhi Verdi, così l'aveva battezzata Cèsar mentre zappava a fianco del prete, aprì gli occhi che il sole era già alto.
Sui muri scrostati della stanza c'erano lucidi occhi di muffa che la fissarono, e per aria odore di canfora. Sbatté le palpebre, sbadigliò e gli occhi tornarono muffa.
Scosse con un piede la coperta e il piede urtò qualcosa lì vicino. Piccoli frutti arancioni rotolarono sul pavimento.
Si accorse di essere nuda.
Toccò la pelle del ventre dove l'incavo si chiude in ombelico, era pulita. Fece un paio di movimenti, sentì l'aria fresca sulla schiena e rise. Il piacere che provava a quel contatto le versò in gola la voglia di cantare. Non rideva da così tanto tempo. Si alzò.
Sopra una sedia, a capo del letto, trovò una veste lunga fino ai piedi, di stoffa grigia, vecchia come il mondo. Floscia di dietro, davanti scendeva dritta come un filo di piombo. Era ruvida, come l'asciugamano della sera, ed era enorme.
Cercò qualcosa con cui tenerla su, guardò in ogni angolo, ma in tutti c'erano soltanto granelli di calcina. Non una armadio, o uno sgabello, o una cassa. Niente di niente se non polvere e calcina. La crosta del muro si sgretolava, bastava passarci un dito sopra. Lo fece, e lo fece, lo fece, finché il dito non ebbe scavato un piccolo foro profondo. Aveva messo a nudo la pietra.
Ben presto quel gioco la stancò, aveva fame. Raccolse in grembo la frutta e cominciò ad andare in giro addentandola. Voleva trovare il vecchio, per ringraziarlo.
I lunghi corridoi imbiancati a calce erano tutti pieni di stanze, porte, finestre, e oggetti abbandonati. La sera prima non li aveva notati, ma c'erano.
Scoprì che c'erano passaggi, anditi, finte porte e porte nascoste. In quel lungo labirinto di stanze ogni svolta portava dovunque, stanze si aprivano a caso le une sulle altre, la luce entrava dalle finestre in larghi fasci polverosi come cenciosi strascichi da sposa.
Ad una svolta trovò una brocca sfondata, una sedia e alcuni piccoli oggetti malmessi. Accanto c'era un passaggio, e una porta che immetteva in una stanza grande. Dalle finestre ingombre di vegetazione filtrava una luce verdolina. Non ebbe il coraggio di entrare, ma capì che l'edificio doveva essere un quadrato, solido, enorme.
Al cento c'era una specie di chiostro, con un pozzo arrugginito, le strette finestre delle camere affacciavano tutte lì sopra. Dalla parte del corridoio, invece, le finestre erano larghe e davano sul mare, o sulla campagna desolata, o sull'erba gialla di un giardino. Sul muro accanto a lei, che correva per tutto il perimetro, c'erano a tratti scarabocchi e chiazze, fumosi ghirigori sbiaditi.
- Leggi le scritte? - chiese Cèsar comparendo in fondo al corridoio con un cestino in mano. Strascicava appena le gambe, ma non faceva rumore.
- Che cosa sono?
- Sono ricordi, bambina mia. Tieni un fico.
- Li hai colti tu?
La ragazza ne prese uno e lo morse.
- Stamattina, dalla pianta. Per Occhi Verdi, perché ne mangiasse.
- Chi è Occhi Verdi?
- E' il tuo nome.
- Non è il mio nome.
- Adesso sì.
- Va bene - sorrise lei - Tu ne hai uno, vecchio?
- Certo. Mi chiamo Cèsar e sono proprio un vecchio. Un altro fico?
Nel cestino, sopra una foglia di vite ce n'erano almeno dieci, maturi e spaccati a metà. Lei allungò una mano.
- Non ti interessa sapere il mio nome? - chiese con la bocca impiastricciata. Si erano seduti su una grossa panca di legno di banano, lì vicino.
- Non mi interessa - disse lui.
- Meno male.
- Ti chiamerò Occhi Verdi, se vorrai.
- E il prete?
- Anche lui ti chiamerà Occhi Verdi.
- No. Il prete, lui, un nome ce l'ha?
Il vecchio rise.
- Il prete ha molto più che un nome. Ne ha a decine, davvero. Ma tu chiamalo semplicemente Luìs. Luìs va bene, o altrimenti prete. E' così che lo chiamano gli altri.
- Gli altri?
- Quando ci sono. Ma ora siamo da soli.
- Chi sono gli altri?
- Vedi le scritte? - chiese il vecchio - Quando ci sono anche gli altri vuol dire che c'è la peste. Sono gli abitanti del paese, gente che in tempo di pace ci dimentica. Ma basta una piccola nave, una cosa come la tua e allora … e allora filano tutti quassù, e le stanze si riempiono di gente. Poi dimenticano, ma dimenticano solo per poco. - Sulla mia nave ce l'avevano, la peste - disse lei, e addentò un altro frutto. Erano buoni e freschi. Sulla nave, ormai da giorni, mangiavano solo nera carne secca e verminosa.
Il vecchio fece cenno di sì.
- Perché non mi hai lasciata morire?
- Lo volevi?
- No.
- Meno male. Altrimenti sarei sceso per niente. Non è un bel posto dove ti ho trovata.
Lei chiuse gli occhi come una bambina. Era vero, non era un bel posto. O meglio, forse all'inizio lo era stato con tutta quella gente che si imbarcava e rideva e diceva che sarebbero arrivati a questa e a quella città lontanissima. Lei era l'unica che già non rideva. Lei non poteva ridere, no. Perché su quella nave ce l'avevano imbarcata a forza.
- Dove andavate? - chiese il vecchio.
La ragazza scosse la testa. Per un istante guardò lontanissimo, di fuori.
- Non importa - fece lui, discreto - Ormai non importa più a nessuno. Sono tutti morti o moribondi, giusto?
- Sono moribonda, io? - chiese.
- Non lo so. Ma sei stata con quelli che sono morti. Bisognerà aspettare per sapere. Se al terzo giorno ti verranno i bubboni, allora vorrà dire che sei infetta.
- E se non vengono?
Il vecchio sospirò.
- Allora è una brutta notizia. Ma potrebbe anche essere buona.
La ragazza lo guardò senza capire.
- Queste scritte le hanno fatte loro?
- Chi?
- Quelli che erano infetti?
Il vecchio annuì.
- Cosa dicono?
- Questa dice che non vuole morire - disse Cèsar posandoci il dito - Ma che sa che morirà, e si dispera.
- E quest'altra?
- Questa conta i giorni da quando si è ammalata. Conforta l'altra, e spera di guarire.
- E' guarita?
Il vecchio spostò un fico nel cestino. Erano molli, e metà della buccia gli restò in mano. Poi accennò con il mento alla porta che era davanti a loro.
- Hai notato che non sono tutte uguali?
- Le stanze?
- Sì.
- Non so.
- Sono diverse. Alcune più grandi, altre più piccole. In quelle più grandi, per i ricchi, ci stavano due persone sole, o anche una, se andava bene. Potevano permettersi di averle. Nelle altre, quelle come la tua, ci mettevamo anche dodici letti. Tutti vicini, uno accanto all'altro. E quando il letti non bastavano più, anche fasci di paglia sul pavimento. Nelle camere i ricchi si annoiavano, così ogni tanto facevamo musica. C'era qualcuno che sapeva suonare, gente che si portava gli strumenti. I ricchi pagavano volentieri per avere un po' di musica. Ogni tanto salivano persino su dal paese certi teatranti che sfidavano la peste per potersi guadagnare qualche soldo.
- Queste che scrivono stavano in questa stanza?
- Me le ricordo, quando arrivarono. Erano sorelle, la più grande piangeva. Il padre era con loro, un fazzoletto premuto sul naso. Due servi scaricarono i bauli dalla carrozza e poi se ne andarono alla svelta. Portavano catenine al collo per scacciare gli spiriti. Anche il padre se ne andò via subito. Le salutò da lontano. Erano pallide, ma avevano il belletto. Anche qui se lo mettevano ogni mattina, e cantavano, e scrivevano quando la febbre gli dava un po' di tregua. Non ho mai visto due sorelle più belle e più gentili. Nascondevano i bubboni sotto i pizzi, e quando erano vestite non sembravano neanche malate. Ma una delle due, la maggiore, piangeva sempre. Più dell'altra, più di tutte le altre.
- Che era successo?
- Un giorno, quando erano già qui, c'era festa al paese. I signori della città avevano deciso di implorare la grazia di ogni santo che il calendario ricordasse, per vedere se così si scacciava la peste. Ne avevano messi insieme trecento, scovando i nomi nei libri in canonica. E poi altri li avevano chiesti ai vecchi preti, perché non volevano scordarne nessuno. Se una vecchia diceva io conosco anche il nome di quest'altro santo che mia nonna pregava, loro si facevano dire il nome e lo mettevano dentro la lista. Alla fine furono trecentosessanta, quasi uno per ogni giorno dell'anno. E allora, per ognuno dei santi, fecero fare delle statue di cera. Tante statue che non distinguevi la cera morta dalla carne vera. Alcune con occhi neri neri, altre con lunghi capelli dorati. Ce n'erano con vestiti meravigliosi e con occhi azzurri come il mare. Trecentosessanta bambole della stessa perfetta somiglianza. Le portarono tutte in processione. Fu una bella processione, davvero. C'era tutto il popolo e i ricchi, le finestre erano piene di tappeti, arazzi e fiaccole.
- Finì, la peste?
- Il giorno dopo c'erano trenta malati in più al lebbrosario. E nel giro di una settimana ne morirono esattamente quanti erano i santi. Trecentosessanta, più due o tre. Al terzo giorno arrivò al lebbrosario anche un ragazzo riccio, belle spalle, moro. Non fece in tempo ad arrivare che era morto. Lei, la maggiore delle sorelle, che piangeva, lo vide dalla finestra mentre lo scaricavano dal carro e lo mettevano da parte con gli altri. Corse giù come avesse le ali. Lui era già morto, ma lo prese tra le braccia, lo baciò, gridò come una pazza. Pianse molto tutta la notte, e il giorno dopo. Poi sua sorella una sera venne a chiedermi se avevo del carbone, e io glielo detti. A volte i malati hanno dei desideri, all'ultimo, certi vogliono cibo, altri straparlano, ridono. Non si rifiuta mai nulla ai moribondi, così le detti il carbone. E la mattina dopo lei aveva scritto tutto questo.
Mostrò col dito che i segni bizzarri con finivano a quel lato di muro. Oltre la porta continuavano a lungo, di sghimbescio, o regolari e fitti, fino a perdersi nel lungo corridoio.
Cèsar avvicinò le labbra al muro.
- 'Amore - lesse - se la morte non mi prende, sono disperata. Ma io so che mi prende, stanotte. Aspettami, arrivo'.
Occhi Verdi staccò gli occhi dalla scritta.
- E poi è morta?
- L'ho raccolta la mattina dopo. Era discesa dal letto a piedi nudi, e in vestaglia aveva provato ad andare alla finestra. Era bella, e molto bella, con dei lunghi capelli d'oro. La madre glieli tagliò tutti prima di seppellirla. Disse che li voleva con lei. E la ragazza andò ai morti così, nuda.
Occhi Verdi sentì freddo alla nuca.
- Era il suo sposo? - chiese.
- Non sapeva neanche chi era. Non l'aveva mai visto, uno straniero. Un marinaio sbarcato il giorno prima da chissà quale nave, non si poté neanche sapere il suo nome.
- Ma lei …? - chiese Occhi Verdi.
- Fu una specie di sogno, tutto qui. Quando la gente sta per morire sogna. Sogna le cose più strane: versare vino, ridere tra gli aranci, addormentarsi …
- Sono cose strane? - chiese la ragazza.
Cèsar frugava nel cestino, la foglia di vite era tutta appiccicosa. Alzò gli occhi.
- Quando sei qui lo diventano - disse porgendole un fico - Tieni, è l'ultimo.

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


Primavera

Adesso, all'ora di pranzo, la ragazza Occhi Verdi cucinava per loro. Cèsar le aveva mostrato dove trovare l'occorrente per il fuoco e le pentole.
Quando i due uomini entrarono nella stanza, era chinata ad armeggiare al fuoco. Si alzò di scatto.
- Che profumo - sorrise Cèsar con le mani pesanti di zappa, e gli occhi arrossati dal sudore. Lavoravano all'orto, la mattina.
Lei tolse la pentola dal fuoco, e lisciandosi le mani allo straccio che si era messa a mo' di grembiule, si avvicinò al tavolo.
- Ho fatto del mio meglio. Non so … c'erano delle verdure, e del lardo dentro quell'armadio.
Il lardo era ammuffito, ma Occhi Verdi aveva cercato di pulirlo. Aveva gettato nell'acqua una manciata di piselli mezzo secchi e qualche gambo di sedano che Luìs aveva lasciato sulla panca davanti alla cucina. Non entrava mai in cucina da solo, se sapeva che c'era anche lei. E ormai quello era diventato il suo regno.
Cèsar si fregò le mani.
- Sarà buonissimo - disse, e poi allungò una mano sotto il tavolo. Ne trasse un fiasco. La paglia veniva via in più punti e nascondeva il liquido scuro.
- Ne vuoi?
Lei fece segno di no con la testa.
- No bevo mai. Non più.
- Fai bene.
Versò del vino all'altro, che se ne stava in silenzio accanto al tavolo. Era seduto, aveva gambe lunghe e una lunga veste polverosa. Occhi Verdi giudicò che all'inizio le era parso più vecchio. Ma ora che lo vedeva ogni giorno, contro la luce che impolverava il tavolo, notò che non poteva dimostrare più che trent'anni. Era alto, solenne, silenzioso. Non parlava mai mentre mangiava. E lei, intimorita, preferiva la compagnia del vecchio. Anche quel giorno si sedette accanto a lui.
- Ragazza ricca - disse Cèsar risucchiando il primo cucchiaio di minestra - Ricca e anche buona cuoca.
Occhi Verdi sgranò gli occhi.
- Le mani - disse Cèsar - io ne ho viste di persone, in vita mia. Di tutti i generi. E le tue mani sono morbide, bianche. E' già un po' che l'ho notato, ma non voglio sapere niente. Solo si vede che non sai cos'è la lana. O la zappa, o la cenere del fuoco. Non hai tagli o bruciature. Non un callo, un brutto segno, una stortura. Sono perfette, segno che non lavori. E una ragazza della tua età non lavora solo se è ricca.
- Si può lavorare in molti modi.
Tutti e due si voltarono verso Luìs. Mangiava la sua minestra fissando il piatto come se non avesse parlato. Non parlava mai mentre mangiava. Ma quella frase l'aveva detta lui.
Cèsar rise, forse contento di sentire la sua voce.
- Non penserai …
- Non penso nulla. Pensare non serve. Basta avere gli occhi.
La ragazza Occhi Verdi li abbassò.
- Vuoi dire che si può lavorare anche senza le mani? - chiese.
Il prete la fissò con astio, ma solo per il tempo di un soffio. Era la prima volta che incrociava il suo sguardo.
- Si può lavorare in molti modi. Non tutti onorevoli - disse, di nuovo con il naso nel piatto.
Occhi Verdi notò che era un bel naso, nonostante lui cercasse di nasconderlo. Ogni tanto le persone lo fanno, di tentare di imbruttirsi apposta. Anche lei ci aveva provato, quando erano cominciate le disgrazie. In fin dei conti se ci riescono i fiori a tirar dentro i petali, di notte, perché non avrebbe dovuto provarci lei? Ma era stato tutto inutile purtroppo. Gli occhi di un falco non si possono ingannare.
Cèsar portava avanti la discussione tutto da solo. Era un vecchio allegro, e Occhi Verdi era lieta di averlo vicino. Se per caso l'avesse raccolta il prete … Cèsar lodò la zuppa di Occhi Verdi, si informò se le piacevano le pesche ('abbiamo in sacco di pesche, di questa stagione, e a Luìs le cose dolci non piacciono, per cui finisce che marciscono per terra'), le chiese se le sarebbe piaciuto fare un giro nel giardino e nell'orto, quando il sole fosse stato meno caldo.
- Non sono un granché in questo periodo. E' ancora tutto secco, ma penso che presto avremo di nuovo un po' di pioggia e allora vedrai che bellezza, bambina.
La ragazza disse di sì, e poi si alzò per togliere i piatti dalla tavola. Il prete, con la mano sugli occhi, sembrava essere altrove. Cèsar tirò fuori delle noci, ne spaccò quattro per lei e ne mise due davanti a Luìs. Ma lui si alzò, ignorandole, e disse che andava a pregare.  Loro lo lasciarono andare.
- Chi è? - chiese Occhi Verdi quando il prete fu sparito nel sole del giardino.
- Tu vorresti che ti chiedessi lo stesso?
- No.
- Neanche lui lo vuole. Luìs … vuole soltanto scomparire. Ecco tutto.
La ragazza fissò il vecchio qualche istante.
- Scomparire?
- Diventare talmente sottile da non esistere più per nessuno. Non lo vedi? Non ti vede mai davvero quando parla. E se deve proprio ti dice qualcosa che ti mette i brividi. Non dorme mai e non si riposa. Vedessi come zappa. Una furia. Ma io ormai ci ho fatto l'abitudine.  
- Perché? - chiese lei. Ogni volta che pensava a Luìs non poteva impedirsi di pensare alle ginocchia. Allo straccio bagnato, alla vasca. Alla furia gelata di quel tocco. Per lei Luìs era una mano di ghiaccio sulla schiena, acqua gelida, forbici, uno straccio cacciato a forza in mezzo alle ginocchia.
Rabbrividì.
- Stai bene?
In un angolo c'era una vasca come tutte le altre, ma questa aveva una brocca d'acqua accanto. Si chinò per non mostrare al vecchio che aveva le guance in fiamme.

Le ginocchia.
Ma in quell'istante il suono di una campanella ruppe l'immobilità dell'aria.
- Aspetta - fece Cèsar alzandosi - tu non muoverti di qui.
E sparì zoppicando in giardino.
La ragazza Occhi Verdi rimase a chiedersi che fosse quel suono. Nella penombra scura della cucina, sembrava il trillo di un violino, una musica. Come il giorno del suo primo ballo, a casa, quando c'era la musica, e l'atrio di marmo era pieno di gente che saliva lo scalone. Lei era lì, sopra la balaustra, con la sua balia, a spiare chi arrivava. Poi era passata sua madre. Il vestito le stringeva, le aveva chiesto di allentarlo, ma sua madre … sua madre aveva detto che doveva. Gli aveva anzi stretto un bottone sul collo. Ogni bottone era una piccola spilla. Ricordava ancora lo schiocco che facevano quando il gancio del fermaglio …
- Era Juan - ansimò il vecchio rientrando con un paio di conigli uccisi che pendevano da una cordicella - Viene una volta alla settimana. Ci porta quello di cui abbiamo bisogno e poi se ne torna in paese. E' l'unico che accetta di farlo. Ma qui non c'è mica la peste … penso che sia Luìs a spaventarlo. Prima certe volte si fermava. Adesso resta sempre sulla soglia.
Posò i conigli sul tavolo. Uno aveva gli occhi spalancati.
- Non pensavo che venisse qualcuno. Qualcuno dal paese. Fin qui, intendo.
Cèsar sorrise.
- I conigli non crescono nell'orto.
Anche Occhi Verdi rise. Accarezzò il pelo del coniglio. Era bianco e morbido.
- Perché mi hai detto di aspettare qui? Mi occupo io della cucina, avrei potuto andare io a prenderli…
- E' meglio che Juan  non ti veda - disse Cèsar avvicinandosi alla brocca - è meglio che non ti veda nessuno, per il momento. Vuoi un po' d'acqua?
- E perché mai? - chiese lei, senza ascoltarlo.
Cèsar gonfiò le guance d'acqua, con la strana parodia di un mostro cattivo. Poi fece una specie di sorriso.
- Perché voglio tenerti sempre qui - disse posandole una mano sul braccio - E non voglio che a qualcuno, vedendoti, possa venire in mente di rubarti.
Occhi Verdi sbiancò a quel contatto, si ritrasse come se il tocco del vecchio fosse di calce viva.
Cèsar si accorse che arrossiva con violenza e strofinava la mano allo straccio come volesse sfinirla.
- Scusami, non sapevo che …
Ma lei era già oltre la porta.
- Forse ho la peste. Sono infetta - disse. E poi sparì nella luce del giardino.
Cèsar rimase seduto a contemplare i conigli. Quello dagli occhi addormentati aveva un po' di sangue alle gengive. Le mosche si davano da fare.
Non fece niente per scacciarle. Sospirò. Sapeva che non era né la peste né il sangue a far sentire così sporchi gli uomini.  
 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


Primavera

Juan tornò a portare conigli anche il giorno dopo. Cèsar lo ricevette sospettoso.
- Non hai nient'altro da fare, ragazzo, che portare conigli a me e a Luìs?
Il ragazzo allungò il collo e scomparve.
Forse aveva cercato di guardare oltre il muro del cancello che il vecchio usava per andare nell'orto. Era in comunicazione con la casa, e le cucine.
In un angolo del focolare Cèsar trovò Occhi Verdi intenta a sbucciare arance.
- Questi sono per la cena - disse solo, e lasciò andare i conigli sul tavolo.
Uno aveva, stretto tra i denti, un minuscolo bocciolo di ginestra. Occhi Verdi rimase lì a fissarlo per molto tempo.
Più tardi, alzandosi dall'angolo del tavolo dove si era ricavata un cantuccio e dove aveva i coltelli per sbucciare e qualche coccio per la verdura, vide che tutti e due lavoravano nell'orto. Erano trascorsi solo pochi giorni, ma ormai quei giorni li sapeva a memoria. Si asciugò le mani allo straccio, si accoccolò sul limitare del sole, dove la soglia sfidava l'aria greve del pomeriggio.
Al mattino Luìs si alzava presto. Prima di tutti, anche del vecchio, anche del sole, e scompariva verso la strada che portava al mare. A lei era proibita quella strada, la stessa che la prima notte aveva percorso con Cèsar. In fondo c'era una spiaggia di sassi e la barca. Quella che serviva a Cèsar per i morti.
Non poteva prendere neppure il sentiero che portava al paese. Era largo, pieno di sassi e strani cespugli legnosi. Cèsar le aveva spiegato che c'erano rovi, e sassi duri, e serpenti che nascondevano la testa ad ogni pietra. Quando gli aveva chiesto perché quei serpenti nascondessero la testa ad ogni pietra, la sua unica risposa era stata:
- Perché non vogliono guardare quassù.
La ragazza aveva atteso invano che aggiungesse qualche altra parola. Ma non ce n'erano state altre.
Dopo che Luìs era uscito, la mattina, era la volta di Cèsar. Lo sentiva strascicare i piedi da qualche parte nell'immenso labirinto quando il sole raggiungeva il rampicante contro la sua finestra.
A volte sembrava al piano di sopra, a volte sotto, in una delle oscure girandole di corridoi. Doveva avere una stanza da qualche parte, ma lei non l'aveva mia vista. Ogni volta che scendeva in cucina, Cèsar era al focolare, o nell'orto. Non una volta lo aveva visto uscire da qualche porta.
Quando sentiva Cèsar era il segnale di avventurarsi già dal letto anche lei. Luìs era andato e non aveva più motivo di temere il silenzio. Solo allora scendeva in cucina.
Gli preparava una colazione a base di formaggio di capra e pane piatto, poi il vecchio usciva in giardino e mentre il sole intiepidiva le foglie della notte trascorsa, zoppicava fino a un recinto fatti di giunchi. Dentro c'erano le sue galline. Sette in tutto. Belle come l'aurora, bianche e grasse quanto lui era secco e polveroso. Le chiamava per nome, una per una.
Poi Luìs tornava e in silenzio, evitando la porta della cucina, andava fino al limitare dell'orto. Si chinava sul vecchio pozzo e immergeva una mano nell'acqua. Quella non era acqua da bere, le aveva detto Cèsar, ma lui vi immergeva la mano e la beveva. Non l'aveva mai visto bere altro che quell'acqua grigia e sporca in cui gli insetti facevano il nido.
Nel trascorrere del giorno molte volte lo vedeva tornare alla fonte. Sembrava ci si specchiasse dentro. Una volta c'era andata anche lei, ma l'acqua era troppo scura e fonda. Non ci aveva visto niente altro che buio.
I due lavoravano nell'orto, e ogni tanto lei andava da loro. Si accoccolava sotto il melagrano, con le ginocchia strette alla vita. Allora Cèsar alzava lo sguardo e sorrideva col sorriso ferito che hanno certi animali molto vecchi. Era una gioia vederlo lavorare, le ricordava le lente mucche che pascolano con grazia infinita, le capre sterili e testarde, la notte quando uno scricciolo fischia lontano. Poi veniva vicino a lei.
- Che mi hai portato?
Beveva un sorso di vino e sorrideva alla frutta che lei aveva colto.
Luìs invece restava a zappare. Non si fermava e non guardava mai da quella parte. Occhi Verdi aveva l'impressione che qualcosa nei suoi occhi lo inquietasse, che lo straccio bagnato, l'acqua fredda fossero a entrambi rimasti attaccati dentro la pelle. Non voleva sentirlo, ma a volte, quando la notte bussava oscuri passi, lei lo sentiva camminare avanti e indietro, muoversi lento come un fantasma inquieto. Anche lei si muoveva dentro il letto e non riusciva a smettere di pensare alle ginocchia e allo straccio che scavava freddo e sterile. Poi qualcosa la riportava in giardino.
Cèsar, con gli occhi chiusi, contro il tronco, ascoltava il rumore delle foglie. Poi lei andava in cucina. Luìs non la vedeva allontanarsi, infilarsi le unghie dentro palmi. La pausa era finita.

Fu una di quelle mattine, che Occhi Verdi vide per la prima volta Juan. Si incontrarono non certo per caso, ma perché lui l'aspettava da giorni, alla svolta dietro la fontana. Si era detto:
- Prima o poi passerà: l'acqua del pozzo è rancida. Il vecchio zoppica, manderà lei alla fonte.
La sua previsione fu colmata come una brocca sotto il rivolo d'acqua. E Occhi Verdi una mattina apparve dietro la svolta del muro di cinta. C'era una grata accanto a lei, da cui un tempo i parenti passavano regali agli appestati. Quando lo vide era troppo tardi, l'unico gesto che fece fu aggrapparsi a quella a quella.
Il ragazzo, camminava avanti e indietro.
- Sei tu quella che tengono nascosta? - chiese.
Occhi Verdi sbatté le palpebre. Non l'aveva visto subito, le era sbucato davanti all'improvviso. Si ricordò di quel che aveva detto Cèsar e con gli occhi cercò un nascondiglio.
- Non ti voglio mica fare del male - disse, muovendo un passo - Non scappare.
Lei si nascose dietro un albero.
- Aspetta …
Ma la voce di Cèsar che chiamava la sua pupilla oltre il muro lo scacciò. Fece in tempo a lanciarle un bacio. Occhi Verdi non disse niente al vecchio.
La sera, rientrando dall'orto con un cesto di fichi scuri e melanzane rattrappite, Cèsar vide Luìs che rincasava. Era fermo vicino al melagrano.
- Sei stato alla scogliera? - chiese - Hai visto qualcuno sulla strada? Mi era sembrato che oggi, il ragazzo …
Ma Luìs scosse la testa e passò oltre.
- Ieri l'ho visto accanto al muro - continuò Cèsar, seguendolo in cucina - e anche oggi. Quando mi ha visto si è nascosto dietro una pietra. Ma prima era sull'albero, l'ho visto. Non mi piace che stia da queste parti. Lo sai che non deve vederla, c'è pericolo …
Sembrò che Luìs neanche sentisse. Scosse la testa un paio di volte e fece un cenno vago con la mano.
- Credi che si sia accorto di lei? Che abbia capito da dove l'abbiamo portata?
- L'hai portata. Io non ho fatto niente, ricordarlo.
Cèsar sputò per terra.
- Sei una bestia, Luìs. Davvero credi che si doveva lasciarla …
- Lo fai da anni questo lavoro, vecchio. Lo sai che vivi e morti non si mescolano. Non almeno di propria volontà.
- Non è ancora morta.
- Appunto. Ma se la voce si diffonde in paese … allora presto lo sarà davvero. Non dovrebbe stare qui, lo sai. Quelli hanno ucciso per molto meno.
- Ormai è qui. Non ha ancora la febbre. Se nessuno la vede, sarà salva.
- La febbre può venire anche dopo. E se nessuno la vede. E quel ragazzo?
- Quel ragazzo non la vedrà.
- Lo spero.
- E comunque ormai è qui, insieme a noi.
- E chi è entrato non può andarsene, vero?
Spesso sulle labbra di Luìs si dipingeva un cartiglio di ironia.

C'era una fonte vicino alla scogliera. Occhi Verdi andava a prendere acqua. Cèsar le aveva insegnato il sentiero che passava in mezzo alle ginestre. Di là non la vedeva nessuno. Trascinava la brocca con due mani.
- Posso aiutarti? - chiese Juan. Sbucava da dietro un costone di roccia. Era da solo, a piedi scalzi. Occhi Verdi si guardò intorno spaventata.
- Guarda che non ti faccio niente - e per mostrarglielo si avvicinò e le prese la brocca.
- Dove vuoi che la porti?
- Non voglio. Cèsar ha detto …
- Non ti farò niente.
- Ma Cèsar …
Il ragazzo staccò un ramo a una ginestra.
- Hai guardato tra i denti del coniglio?
- Sei stato tu?
- Chi altri?
- Non ti conosco.
- Neppure io. Andiamo?
Si incamminarono insieme alla fonte. Lei a occhi bassi, lui che il sudore faceva somigliare a un pesce d'oro.
- Sei tu quella che tengono nascosta.
Occhi Verdi guardò da un'altra parte.
- Da dove sei arrivata?
- Cèsar mi ha detto di non dirlo. E ha detto anche, se vedo qualcuno, di nascondermi.
- Cèsar il vecchio? Lui dice tante cose. Ma è vecchio e pazzo e non capisce bene. Davvero ti ha detto di nasconderti?
Occhi Verdi afferrò la brocca.
- Non è vecchio e non è pazzo - protestò - E' Cèsar.
- Certo. E' Cèsar proprio perché è vecchio e pazzo. In paese tutti lo conoscono. Lo chiamano Cèsar dei morti.
- Cèsar dei morti?
- Sì. Oppure il vecchio del melograno. Lui, è sempre lui. O anche Cèsar.
Occhi Verdi ci stette un po' a pensare.
- Perché lo chiamano così?
- Cèsar dei morti? Perché vive coi morti. Non con i vivi. Con i morti. Al lebbrosario. Ci sono i fantasmi al lebbrosario.
- Io non ne ho visti.
- Ah no?
- No. Neanche uno. Invece c'è Luìs.
- Luìs?
- Il prete.
Juan scosse la testa un paio di volte.
- Perché ti tiene prigioniera, il vecchio Cèsar?
- Non mi tiene prigioniera, mi ha trovata.
- E dove ti ha trovata?
- In un posto.
Juan sorrise, e strappò un altro rametto a una ginestra.
- Tieni, lo vuoi?
Le ci fece il solletico al naso, glie lo passò sul mento ed infine glie lo fece scivolare oltre il bordo della camicia. Poi le dette un bacio sulla guancia. Occhi Verdi diventò di fiamma.
- Sei molto bella. Come ti chiami?
Uno strano fuoco alle viscere le faceva tenere gli occhi bassi.
- Cèsar mi chiama la ragazza Occhi Verdi - disse piano. E sentiva il fiore di ginestra tanto vicino, premuto ad un capezzolo.
Juan la prese per la vita. Lei non seppe fare un solo gesto per tenerlo lontano.
- E perché? - sussurrò lui ridendo. Il suo fiato sapeva di zucchero e le arrossava la punta delle orecchie - I tuoi occhi non sono verdi affatto.
Occhi Verdi sentì le gambe sciogliersi. Il rametto le scivolò sul ventre.
- No. Ma a lui sembra di sì. Io penso. E ora scusami, devo tornare. Io …
Lui la strinse ancora di più. Contro la coscia Occhi Verdi sentì che la premeva.
- Non te ne andare - disse baciandola. La lingua le scivolò tra i denti, morbida. Poi sentì che le sue mani cominciavano …
- Io devo andare - si staccò - davvero …
Lui le prese la mano tra le sue. Erano calde. Anzi caldissime, come se tutto il sangue di tutti gli uomini del mondo fosse tutto dentro le splendide vene dei polsi.
- Quando torni?
- Non lo so.
- Ma tornerai.
- Solo se Cèsar …
- Lo sai perché lo chiamano il vecchio del Melagrano? - chiese.
Lei fece segno di no.
- Il melograno è un frutto che secca, ma dentro resta rosso. Di sangue. E come il rosso tinge tutto quel che tocca. Vuoi rimanere con lui e morire?
La ragazza lo guardò.
- Che significa?
- Significa che Cèsar sta coi morti. Tu non sei morta. Sei calda.
- Non è vero.
Si chinò ad afferrare la brocca, Juan sedette sul bordo della strada.
- La fontana è sempre qui. E' qui da sempre. E anche i morti devono mangiare.
- Davvero il melagrano resta per sempre pieno di sangue, dentro?
Juan scosse la testa. Sulle labbra gli giocava un sorriso di porpora.
- Non per sempre - soffiò piano - Solamente finché non torna la vera primavera. 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


Primavera

Occhi Verdi aspettava, dentro il letto. Non riusciva a dormire, non poteva. Sentiva Luìs nel corridoio, avanti e indietro, al piano di sotto. Vigilava, faceva la guardia, forse si era accorto di qualcosa.
O forse semplicemente aspettava che succedesse qualcosa. Luìs non dormiva mai, sembrava che non ne avesse bisogno. A volte faceva un gesto con la mano, portandosela agli occhi come per ripararsi dal troppo sole. Occhi Verdi pensava che fosse tutto quello il suo dormire. Non l'aveva mai visto fare altro.
Di notte Luìs vigilava. Andava avanti e indietro per le stanze, muoveva passi su passi, ascoltava ogni rumore nelle stanze cave. E spiava il respiro di Occhi Verdi come prima aveva spiato quello del grande melagrano in cortile, l'odore delle panche di legno, l'opacità della polvere, il silenzio.
Ogni cosa che dormisse, viva, attirava il suo respiro instancabile. E Occhi Verdi, nel suo letto di pietra, aggrovigliava le ginocchia alle coperte con la sottile inquietudine di un martire.
Quella notte, ad un tratto, mentre l'upupa dormiva nella sua tana di frasche, lui venne a lei.
Lo sentì avvicinarsi dal freddo che le correva lungo la schiena. Soffocò con le unghie il guanciale, strinse la fodera, morse le coperte.
Lo sentì muovere un passo oltre la soglia. Era lì, in silenzio, come un'ombra. La luna lasciava tracce grigie sul pavimento, dove moriva l'ombra del rampicante.
- Dormi? - le chiese.
Lei trattenne il fiato.
- Vorrei dormire - disse lui, avvicinandosi. Le passò una mano sulla schiena, rapprese le coperte alle dita, sentì la stoffa riscaldargli il palmo.
- Vorrei dormire ma non ci riesco.
Lasciò che la mano torcesse appena il lembo del lenzuolo, sorrise. Poi si sedette accanto a lei, sul materasso.
- Una volta queste stanze erano piene - disse toccandole i capelli - una volta in queste stanze c'era la morte e il resto. Ora non c'è più niente. Solo Cèsar, polvere e spine che strappiamo al giardino.
Occhi Verdi stava a pancia sotto, immobile. Sentiva la mano di Luìs ferma sul cavo della schiena. Un dito sopra la costola destra, un dito dall'unghia perfettamente liscia.
- Ho sonno - disse Luìs.
- Chiudi gli occhi.
Luìs, con la sua fronte di luna arcana, rise.
- Non posso - mormorò. La sua bocca era vicina all'orecchio.
- Non posso proprio. Ormai non posso più.
Occhi Verdi sentì che la sua mani risaliva lungo le vertebre. Lungo le ossa scure che si nascondono nell'ombra della carne. Le sembrò che una foresta di nubi si arrotolasse contro la finestra.
- Che cosa vuoi? - chiese affondando nel guanciale.
- Un po' di pace - disse lui.
- Solo con me?
- Solo con te.
Occhi Verdi pensò alla strana vita che fanno le meduse in fondo al mare. Vagano inquiete coi loro occhi di glassa. Non hanno naso, bocca, ventre, e sentono. Non hanno niente e continuano a sentire. Lasciò che le dita di Luìs si attorcigliassero all'intrico dei capelli, le si insinuassero dentro orecchie. Quando sentì che le ginocchia si scioglievano, lui era lì, sopra di lei.
- Non muoverti.
Lei non si mosse. Chiuse gli occhi e attese. Restarono così, tutta la notte.
Era il ventre di lei che nascondeva appiccicose calde meraviglie. E Luìs le ascoltava in silenzio: era la vita che trepidava inquieta dentro la carne.

- Dormi? - le chiese Juan.
Occhi Verdi aprì gli occhi. Era mattina. La finestra cigolava sul battente, c'era il sole.
- Cosa fai? - chiese tirandosi su, spaventata.
Lui rise. Era nudo, sopra di lei.
- Non mi hai sentito arrivare?
Si mosse, con il membro le strofinò la carne.
- Ancora?
Il suo fiato sapeva di zucchero. Occhi Verdi lo respinse a fatica, ma lui continuava a trattenerla.
- Come sei entrato?
Lui indicò la finestra.
- Sei tu che mi ha fatto entrare, ieri sera.
Occhi Verdi guardò la stoffa del guanciale, dove due stampe di teste affondavano dentro il sudore. Vide le lenzuola ancora grevi e arricciate di corpi, mosse un piede e ci trovò la gamba liscia, possente, calda, odorosa di Juan. Era bellissimo, Juan, quella mattina. E la stringeva tra le braccia come un dio. Come un dorato dio del paradiso.
- Posso svegliarmi? - chiese lei. Lui rise.
- Sei già sveglia.
- E gli altri?
- Cèsar è uscito stamattina all'alba. Ha dato da mangiare alle galline e poi ha preso il sentiero che scende. Forse per la città. O forse altro. Scende, a volte, alla capanna di un pastore. Altre volte al villaggio, per la lana. Si fila da solo le sue tuniche. Altre volte va a raccogliere frutta. Comunque siamo da soli - disse, e le affondò il mento tra i capelli - Completamente soli tutto il giorno.
Occhi Verdi liberò una mano. Sentì il contatto freddo della pietra sotto il materasso. Si accorse di essere nuda, anche lei.
- E Luìs? - chiese.
Juan socchiuse gli occhi. Scosse la testa, le prese una mano. Se l'appoggiò sul membro, rise di nuovo.
- Siamo soli, e ti amo - le soffiò.
Occhi Verdi lo guardò dal basso in alto.
- Io … io devo andare da Luìs, io devo ...
Torse una spalla, scostò le coperte, tentò di posare un piede in terra.
- E' freddo il pavimento - disse lui - Sicura di non voler restare a letto?
E prima che lei potesse dire anche soltanto un'altra parola, le avvolse le braccia intorno al corpo. Occhi Verdi sentì che erano calde, come caldo era tutto il resto.
- Io devo andare da …
- Ci andrai dopo.
E con il membro le affondò dentro la carne.

Qualche ora dopo aprì gli occhi di nuovo. Si guardò intorno, era pomeriggio. Juan dormiva abbandonato sul cuscino. Provò ad alzarsi, con la punta del piede scostò le coperte, provò un brivido. Stava per posare il piede a terra, quando lui aprì gli occhi dorati dalle ciglia lunghe come lacci.
- Non ti muovere - mormorò, circondandola - Non ti muovere, non ne ho abbastanza, resta.
Con le labbra le tracciava incantesimi a fior di pelle.


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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


Primavera

Luìs l'aspettava in riva al mare.
Occhi Verdi se ne accorse all'imbrunire, quando Juan era andato, e Cèsar non ancora tornato.
- Ti disturbo? - gli chiese avanzando sulla sabbia.
Le caviglie le affondavano tra i sassi al limite del mare.
Luìs non si mosse. Con la veste polverosa rimboccata, tirava sassi piatti sopra l'acqua.
- Ti disturbo? - chiese di nuovo lei. Si accoccolò subito dietro le sue spalle, vicino a un masso levigato, l'unico, su cui un lichene cresceva come brina.
Guardò cosa faceva. Raccoglieva sassi sulla battigia. Non sassi di tutte le forme, solo sassi piatti, quelli che l’onda leviga fino a farli sembrare usciti dal tornio. Con la veste rimboccata alle ginocchia li pescava nel punto in cui rotolano avanti e indietro sbattuti dalle onde. Sulla riva del mare si addensavano nuvole assenti, sembrava si preparasse una tempesta di quelle annunciate dal volo impazzito degli uccelli. La sabbia lambiva la risacca, e tutto era grigio, deserto. Sembrava una statua di sale.
- Ti sei fatto male?
Sotto la veste, Luìs aveva un lungo rigo di sangue. Scendeva fin sotto la caviglia.
- Non mi sono fatto niente - disse lui, e continuò a fare quello che stava facendo.
- Mi dispiace se io … ma cosa fai?
Le lunghe mani di Luìs accarezzavano le pietre lisce. Le sollevava dal limite del mare, dove la sabbia si confonde con l'acqua. Le lasciava un istante al sole e poi le scagliava lontanissimo, lasciandole planare sull'acqua. Alcune facevano decine di piccoli salti a pelo d'acqua prima di uscire dalla vista con un tonfo.
- Lascio che muoiano, come dovrebbero. Come dovrebbe chi è malato e marcio, come dovrebbe chi nasconde morte.
Lei lo guardò, non capiva.
- Vai via. Cèsar sarà quasi tornato. Vattene.
Lei strisciò fino alle sue caviglie.
- Che ti ho fatto? - chiese prendendogli un lembo della veste.
Luìs si allontanò senza guardarla.
- Dove sei stata tutto il giorno?
A Occhi Verdi venne da piangere.
- Io …
- Non voglio saperlo - disse lui - non mi interessa cosa sei o che fai.

Cèsar tornò fregandosi le mani, con un cestino di agrumi barattati al mercato con le uova e un bel po' di notizie senza senso.
- Tieni - disse a Occhi Verdi - ti ho comprato questa.
Le tese un involto. Dentro c'era una veste verde color smeraldo, con larghe maniche e un bordo di pizzo. Occhi Verdi la indossò felice.
- Non sai quanto mi è costato comprarla senza dare nell'occhio! - rise il vecchio - Il vecchio Cèsar che scende al mercato e si avvicina ad un banco da donne! Non succedeva da parecchio tempo …
Occhi Verdi stava rimestando un ramaiolo di cavolo.
- Da quanto tempo? - chiese.
Cèsar si rabbuiò.
- Da tanto. Da quando lo facevo per Maria.
- Chi è Maria? - chiese lei.
- Chi era. Era mia moglie, Maria. Perché una volta il vecchio Cèsar aveva addirittura una moglie.
Occhi Verdi si accostò alla tavola e porse al vecchio un bicchiere di vino.
- Era bella tua moglie? - chiese. Poi si sedette.
Il vecchio sorrise dentro il vino.
- Se era bella? La più bella donna del paese. I ragazzi se la litigavano. Non poteva andare per strada che la gente le fischiava dietro. Venivano dalla costa per vederla, dalle montagne intorno, dalle navi. Si passavano la voce, e se scendeva al mercato con sua madre, tutti, tutti giravano la testa per vederla. Era alta, era bellissima, imponente. Sembrava una statua, la mia Maria. E la volevano tutti, ma alla fine, fu il vecchio Cèsar a portarsela via. C'è altro vino?
Occhi Verdi glielo versò, e si mise una mano sul mento.
- Non è ancora ritornato, Luìs?
- Era alla spiaggia, ancora poco fa.
- Ci va sempre a quest'ora.
- Lo so.
- E tu, che cosa hai fatto tutto oggi? Era caldo, ti sei annoiata, in casa …
Occhi Verdi non seppe che rispondere.
- Mi piacerebbe ascoltare di Maria.
Il vecchio sorrise e bevve tutto il secondo bicchiere di vino. Aveva il mento ancora polveroso, e gli occhi incrostati di fatica.
- Aspetta ­ - disse Occhi Verdi, e gli portò uno straccio e acqua perché potesse pulirsi. L'acqua era tiepida e il vecchio Cèsar fu grato alla ragazza per quel gesto.
- Ti piacerebbe ascoltare di Maria?
Occhi Verdi fece cenno di sì.
- La zuppa non è ancora pronta - disse il vecchio - e Luìs non è ancora arrivato. Non ci vedo niente di male a raccontarti un po' della mia storia. Mettiti comoda.
Così il vecchio aveva cominciato.

- Un tempo Cèsar possedeva una barca. Non era il Cèsar che vedi ora. Non era vecchio, stanco o rugoso. Era un bel ragazzo simpatico, con occhi neri e tanto amore nelle mani. Era nato per coltivare il mare, e aiutava suo padre in una barca presa in affitto. Non erano ricchi, anzi erano poveri, ma non c'era una sera in cui Cèsar non fosse felice, al tramonto, di come era andata la giornata. Le giornate erano tutte belle, perché erano piene di onde, spruzzi, acqua e reti. Lui non aveva bisogno di niente, e quindi aveva tutto, capisci? Ma poi un giorno, arrotolando le reti davanti al molo appena costruito, aveva visto qualcosa che luccicava in pieno sole. Non aveva capito subito cosa era, e si era avvicinato per capire il perché del luccicore. Il venditore della bancarella stava mostrando certi oggetti a delle donne. Erano collane di pietruzze colorate, piccoli oggetti di corallo, una stella fatta con cocci di vetro levigati. Era stata la stella a brillare, quando il mercante l'aveva alzata al sole. Ora invece la teneva sopra il palmo e la mostrava alle donne.
- E' bellissima, ma è lontana, è fredda. E poi le stelle non si muovono mai - stava dicendo una all'altra, e a Cèsar venne fatto di alzare gli occhi. La ragazza che aveva parlato era bellissima, e piena d'amore in uno sguardo luminoso e inquieto. A Cèsar non era stato più capace di scacciare il suo volto dagli occhi.
Era così che l'aveva conosciuta, perché lei aveva detto che le stelle non si muovevano e invece lui sapeva che non era così. Aveva atteso che le ragazze lasciassero il banco, e poi le aveva seguite. Aveva scoperto dove stava la ragazza dai capelli neri, e il giorno dopo era tornato al mercato con la segreta speranza di vederla. Si erano affrontati così, per giorni e giorni, lei senza sapere che aveva occhi di diamante stretti intorno, lui dietro un cesto, o contro un muro, o in un anfratto a sognare segretamente il giorno in cui le stelle, le avrebbe spiegato, si muovono in cielo come nubi e ogni notte rotolano fisse verso l'altrove. Voleva spiegarglielo, voleva che lo sapesse anche lei che le stelle non stavano ferme. Lo voleva come mai non aveva voluto nient'altro. Al terzo giorno, messo il cappello della festa e una camicia che gli aveva regalato sua nonna, uscì di casa e andò a chiederla in sposa. Erano ricchi i genitori di lei, per lo meno possedevano una barca, ma suo padre conosceva gli uomini, e quel giovane simpatico gli piacque.
- Ti frequenti con mia figlia? - chiese. Aveva lunghi baffi e una pancia che rotolava quasi fino a terra.
- No, signore - disse lui - non ci ho neanche mai parlato.
- La conosci di fama, perché è bella?
- Non so neanche il suo nome, signore. Non lo sapevo fino a ieri, fino a quando non ho deciso di venirvela a chiedere.
- E allora perché la vuoi sposare? - aveva chiesto il padre, arrotolando un grosso sigaro tra le dita cicciute. Era enorme, e come un colosso prendeva tutto il vano della porta seduto sul suo trono di banano - forse perché e bella, o perché è ricca, o ti piace il modo in cui cammina, le sue gambe? Ha un bel seno, mi dicono, ma io non posso giudicare, sono il padre.
Cèsar aveva riso, era arrossito. Non gli andava di dirgli che quel seno gli aveva intossicato già tre notti. Ma non era poi quello il motivo per cui la stava chiedendo a suo padre.
Si era seduto su una panca, accanto a lui, e di era tolto il cappello.
- Davvero volete sapere perché la voglio?
- Avanti.
- La voglio perché ha detto che le stelle stanno ferme nel cielo, non girano. E questo non è vero, signore. Le stelle girano, si muovono, eccome. Solo che sono come dei fantasmi. Non si muovono veloci, non si vede. Ma se uno stacca l'occhio per qualche tempo, poi si accorge che sono mutate. Lei invece ha detto che non possono muoversi. Per questo voglio sposarla, perché sappia, che tutto ha una vita, anche il silenzio.
Il grasso vecchio lo aveva guardato come si guardano le mosche per aria.
- Mi stai chiedendo mia figlia per questo?
Cèsar aveva annuito. Il vecchio gli aveva passato il suo sigaro.
- Scende tra poco, se ti vuole è tua. Ma io spero che con un matto del genere non ci si metta. Non porta mai fortuna la follia.
Ma lei era scesa, e lo aveva voluto. Lui le aveva mostrato come le stelle girano sempre e non stanno mai ferme. Era stato un amore profondissimo.

Occhi Verdi sorrise.
- E poi?
- E poi, e poi … - sorrise Cèsar - e poi guarda che ti brucia la zuppa!
Occhi Verdi corse al focolare. Era vero, la zuppa stava bruciando. Trafficò qualche istante con la pentola, provò a tirarla via dal fuoco con un cencio, ma tutto invano. Quando cercò di toccarla, si accorse che era troppo calda, e si scottò. Lanciando un grido si fece indietro. La zuppa era tutta sul pavimento.
- Stai ferma - disse Luìs, comparso alle sue spalle.
E prima che Cèsar fosse riuscito ad alzarsi, aveva preso la pentola tra le dita e l'aveva rimessa al suo posto.
- Ceneremo con qualcos'altro - rise il vecchio - Vero, Luìs?
Ma Occhi Verdi che lo aveva visto rialzare il metallo senza scottarsi, gli lanciò uno sguardo un poco inquieto. Lui le sorrise da un'altezza infinita.
- Non è detto che quello che brucia debba per forza farmi male, sai?


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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***


   Primavera

Fu quando venne mastro Muriel che Cèsar cominciò a preoccuparsi. Mastro Muriel non veniva mai fin là. Non almeno in tempi di pace. E invece una mattina se lo vide comparire dalla svolta della strada. C'era il sole, e lui stava zappando.
- Che vi porta da queste parti, mastro Muriel? - chiese Cèsar, sospendendo la zappa. Muriel lo guardò attraverso le grosse pietre del muricciolo. Non aveva il coraggio di varcare quella soglia: sua madre ci era morta tante estati prima, e lui stesso era stato in pericolo.
- Vengo a chiedervi come va il lavoro - disse Muriel, bighellonando intorno a un ceppo che stava posato per terra. Era il ceppo in cui Luìs certe volte ficcava la scure prima di usarla.
- Vengo solo a chiedervi che fate.
Cèsar sembrò sollevato. Posò la zappa e lo invitò ad entrare, ma quello non volle saperne.
- Vi hanno visto in città, l'altro ieri. Vicino al banco che vende vestiti.
- Ero là per delle compere, a volte mi metto a fantasticare, lo sapete.
Mastro Muriel, che conosceva come tutti le tristi vicende di Cèsar, socchiuse gli occhi, incerto se crederci.
- Avete fatto molte migliorie - disse indicando l'orto circostante. Cèsar si mise a spiegargli d'impegno quanti canali avevano scavato e quanti solchi nuovi per i fagioli. Era tranquillo, Occhi Verdi quel giorno era uscita molto presto, per la fonte. Aveva preso l'abitudine di stare molte ore in giro per la scogliera. Non tornava mai prima del tramonto. Ma da quel lato non andava mai nessuno, era impossibile che facesse degli incontri.
Così Cèsar sorrise a Muriel.
- Avete sete? - chiese e gli allungò una borraccia di vino da sopra il muro. Muriel lo guardò scuro per un attimo.
Si sapeva in paese che Cèsar era un tipo scontroso. Tutta quella cordialità … che stranezza. L'aveva solo in tempo di peste. Allora sì, quando scendeva col carretto aiutato da un vecchio somaro con un pendaglio attaccato alla zampa, allora sì che era allegro, disinvolto. Non il solito Cèsar. Si avvicinava ad ogni casa come fa l'erbivendola, ma lui non vendeva erbe o uova, prendeva morti.
Muriel, che era il sindaco del piccolo villaggio da decenni, lo ricordava, quando era bambino, con quelle braccia secche e quello scheletro, a prender sorsi dalla sua borraccia mentre aspettava di caricare un morto.
- Vi ringrazio. Ma ho bevuto prima di partire.
Stettero un altro po' a chiacchierare, loro due. Mastro Muriel era una buona compagnia. Discussero dei pochi interventi che c'erano da fare al lebbrosario: Cèsar chiese qualche metro di corda per mettere in sicurezza il pozzo e due barili di pece per il tetto. Tendeva a crollare, da un lato, e spesse volte ci pioveva dentro. Mastro Muriel, sotto il sole che cominciava a scottare sotto le nubi basse, gli concesse ogni cosa, sorridendo. Non era venuto per la pece, né per i tratti di corda.
- Allora, vi rivedremo presto in paese? - chiese con un sorriso a mezza bocca quando venne il momento di andarsene.
Cèsar strizzò gli occhi.
- Perché mai? Non ho bisogno di niente, ho tutto quello …
Muriel spostò il peso su un piede.
- L'altra notte, Cèsar, in fondo al porto.
- In fondo al porto?
- Hanno ritrovato questo.
Togliendolo con cura dal sacco che teneva lontano, per la corda, gli mostrò un involto rattrappito. Sembrava il fagotto di un neonato, ma era macchiato di sangue.
Cèsar lo prese senza dire una parola. Scostò un lembo, ci gettò un'occhiata.
- Un topo morto - disse.
Muriel fece un passo indietro.
- Morto di quel che sospettiamo, vecchio?
Cèsar prese il topo per la collottola. Era già gonfio, e sotto il mento aveva una specie di grossa macchia rossa.
- Un topo morto - ripeté - nient'altro.
Lo rigettò sul sacco. Mastro Muriel fece un altro passo indietro, tentennò tra la voglia di scappare e qualcos'altro che poteva anche essere sfida. Alla fine si decise.
- State attento a quel che fate, mastro Cèsar - disse - In paese si dice che ai morti non si comprano vestiti di raso. E che i morti non girano di giorno lungo tratti inesplorati di scogliera.
Cèsar teneva gli occhi sulla zappa. Non lì alzò finché Muriel non scomparve di nuovo oltre la costa accidentata della strada. Poi, lentamente, alzò gli occhi al melagrano.
- Tu che ne sai dei morti, Muriel? - rise - I morti sanno fare molte cose.

Quando la sera ritornò Occhi Verdi, Cèsar l'aspettava in un cantuccio della cucina. Aspettò che entrasse, sorridente, e si slacciasse il vestito sul collo.
- Dove sei stata? - chiese.
Occhi Verdi sobbalzò, perché non l'aveva visto.
- Alla scogliera - farfugliò.
- Con chi?
Le sue guance divennero scarlatte. Aprì la bocca, ma Cèsar fece un gesto.
- Non dire niente. Non mi interessa, non a me. Davvero. Ma ad altri potrebbe interessare.
Occhi Verdi si fece più vicina.
- Ad altri chi?
- Giù al porto - la ignorò lui - giù al porto ti ci ha mai portata?
Occhi Verdi non capiva.
- Il ragazzo. Il ragazzo dei coniglio, Juan.
Le tremarono le ginocchia. Nell'ombra le sembrò che il mondo si sfacesse.
- Come lo sai? - gli chiese.
E davvero avrebbe voluto saperlo. Non sapeva lei per prima perché aveva fatto una cosa del genere, perché si era lasciata convincere a quella gita assurda, a quel gioco. Erano giorni che vagava con Juan per la scogliera. Perché si era lasciata portare l'altro ieri fino al porto.
- Te l'avevo proibito - disse lui. Ma nei suoi occhi non c'era traccia d'ira. Solo una specie di tetro rimpianto.
- Te l'avevo proibito - ripeté.
Occhi verdi si accoccolò accanto a lui.
- E' successo qualcosa? - chiese. Il sole stava scendendo oltre la soglia. Sembrava una pietra galleggiante su un mare d'oro.
- E' la peste - disse soltanto Cèsar - Sei stata tu a portarla. Tu ne sei immune, come me, è evidente. Ma non è detto che non possa portarla nascosta in te. Devi averla portata. Hanno trovato un topo morto, giù in città. E' la peste. E quando cominceranno anche gli uomini, allora verranno a cercarti. Perché sanno che la peste non viene sola, ma ha sempre un inizio, qualcuno che per primo se la trascina dietro.
Occhi verdi rimase in silenzio per un istante.
- Lo sa già, Luìs?
Quella domanda gli era affiorata sulle labbra come una cosa galleggiante e inquieta. Non sapeva perché l'aveva fatta.
- Che hai portato la peste?
- Che sono infetta.
- Cosa pensi che cambi?
- Niente.
Non pensava che a Luìs importasse qualcosa. Ma le era venuto di chiederlo.
Cèsar scosse la testa.
- Pensi che non siamo abituati a queste cose? Luìs lo è da prima di me. E' venuto qui tanto tempo fa, con la peste. E forse se ne andrà con la peste. Era qui quando sono morti tutti.
- Era qui quando sono morte le sorelle?
Cèsar sorrise nell'ombra.
- E' arrivato il giorno dopo.
- Era sua moglie? Quella che è morta, quella che è impazzita. Era sua moglie?
- Tu come lo sai?
- Era sua moglie?
- Sì.
- Da quanto tempo è morta?
- Da decenni.
- E lui è rimasto qui? La cerca ancora?
- Dobbiamo andarcene, Occhi Verdi, stanotte.
- La cerca ancora? Pensa che ritorni?
Gli occhi di Cèsar si fecero fessure.
- Dice che un giorno tornerà con la peste. Aspetta un'altra peste, perché torni. E tu hai portato un'altra peste. Ancora una.
Occhi Verdi mosse inquieta un piede. Nella penombra del crepuscolo parve una bizzarra creatura d'argento.
- Pensi che tornerà davvero? - chiese quando fu troppo stanca del silenzio - Che tornerà per portarlo via con sé?
Cèsar si alzò in piedi. Era vecchio, zoppicava, ma a lei parve che ci mettesse solo un attimo.
- Stanotte io e te partiremo - disse quando fu sulla soglia - Se ti trovano quassù sei finita.
Occhi Verdi lo guardò.
- E Luìs?
- Luìs non potrà proprio farci nulla.

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***


Primavera

Trovarono Luìs davanti al muro, sullo sfondo scuro del melagrano. Imbruniva e lui teneva in mano la sua scure. Cèsar se lo era aspettato.
- Lasciaci andare, Luìs - disse. Aveva indosso un fagotto di stracci e il bastone che usava per camminare. Con una mano strinse il braccio di Occhi Verdi, e sentì che il suo polso non tremava.  Strana ragazza, pensò, come lo aveva pensato il giorno che l'aveva tratta fuori dalla sua nave. Una ragazza in cui la paura era solo una crosta sottile sopra un cuore di statua.
Luìs, con le nocche bianche dal peso sottile della scure, non si mosse.
- Perché la stai portando via, Cèsar?
Cèsar sapeva che ci sarebbe stato ancora qualche peso da spostare, qualche lungo stelo da spezzare prima che tutti loro potessero essere liberi. Lui stesso, che aspettava la morte ormai da muti decenni, lo sapeva: subito prima della fine, non appena qualcosa inizia dietro il velo della morte, tutto comincia a muoversi, tutto comincia la sua danza frenetica. Anche adesso, negli occhi vuoti e immobili di Luìs, lui quella nuova foga la vedeva. Era il segnale di qualcosa di nuovo.
- Lasciaci andare, Luìs. Lo sai che devi.
- Io non devo proprio niente.
- E invece sì.
Fece un passo in avanti. Allungò il braccio, come quando a un bambino che piange si mette una mano sulla nuca.
Conosceva quella sensazione, l'odioso vuoto che precede la nascita. L'aveva visto negli occhi dei morenti quando sapevano che stavano per andarsene, lo aveva visto sopra i banchi delle navi quando gli uomini si aggrappano agli schianti e sanno che non ne usciranno vivi. Sapeva che prima della morte c'è un istante di terrore: come un feto, immaginava, serra gli occhi e crede di morire quando nasce.
- Hanno scoperto che lei è qui - sillabò piano - E' tutto pronto, è meglio che ritorni da dove è venuta, Luìs.
Luìs lo guardò come non capisse. Poi mosse un piede per terra, nella polvere.
- Pensi ancora che la barca possa reggerla? Adesso lei è entrata tra i morti, adesso pesa, non è viva, lei …
Cèsar sorrise e avanzò di un altro passo.
- La barca potrà reggere il suo peso. Non sarebbe giusto altrimenti. La barca reggerà il suo peso come prima ha retto quello degli altri.
- Quali altri, vecchio?
- Tutti quelli che sono tornati e poi partiti.
Ci fu un lungo silenzio, in cui Luìs non fece altro che fissare sulla scure i barbagli che faceva la luce. Poi riprese, sorridendo, e adesso aveva gli occhi alla polvere per terra.
- Dici davvero che avremo un'altra peste?
- L'ultima. E dopo tutto giungerà a conclusione. Stanotte saremo in pace anche noi.
Occhi Verdi vide Luìs oscillare. Non mosse un muscolo, ma vide che i suoi occhi sembravano accendersi di brama, che il vecchio aveva toccato qualcosa di profondo nel suo cuore. Trasse un respiro, perché non capiva. Intorno a loro tutto si era gelato.
- Allora? - fece Cèsar - Ci lascerai andare?
- Tu non mi hai mai lasciato andare.
- Non potevo. E poi eri tu che non volevi.
- Non è vero.
- Se fossi morto che cosa avresti fatto? E ora invece moriremo insieme. Questa è la nostra ultima peste.
Luìs fissò al di là della sua spalla, nella luce oscura di Occhi Verdi.
- Lo sai dove ti sta portando, il vecchio?
Occhi Verdi scosse piano la testa. Sulla bocca di Luìs comparve un sorriso che era come una crepa, un sorriso da animale dissepolto prima che il vento e i brandelli di carne ne abbiano fatto uno scheletro.
- Ti sta portando dove sono i morti. Sono sott'acqua. Nuotano. Raschiano il fondo delle navi, bisbigliano strani sogni alle orecchie. Mai, mai una volta dicono il vero. Sono falsi come tutti i sogni. E sempre conducono alla morte. Tu vuoi andarci davvero, da quei morti?
Occhi Verdi strizzò le palpebre. Il sole che tramontava contro l'orizzonte le ferì gli occhi. Un uccello che se ne stava rannicchiato sopra un ramo alto del melagrano sbatté le ali e frullò via in un soffio. Ogni cosa era detta.
- Li vuoi vedere, i morti? - ripeté Luìs.
- Già li vedo - disse lei. E di un soffio era già passata oltre.
Luìs rimase immobile ancora per molto tempo quando furono andati. La lama della scure ora era fredda e non faceva più male alle dita. Si rannicchiò per terra. La notte era quieta e non faceva rumore. E adesso che lei se n'era andata, poteva infine vivere per sempre.

 

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