Il capo dei ribelli di claudineclaudette_ (/viewuser.php?uid=44478)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Ribelli ***
Capitolo 2: *** Silfarion ***
Capitolo 1 *** I Ribelli ***
1. I Ribelli
Strisciò attraverso uno sporco condotto ricoperto di
spazzatura ed atterrò in uno scolo d’acqua
putrida, come al solito del resto. Comunque, nulla avrebbe mai potuto
renderlo più sporco di quello che già era.
Camminò per mezzo chilometro con l’acqua dello
scarico che gli entrava negli stivali vecchi e nei pantaloni troppo
piccoli. Dopo molto tempo il giovane si fermò e si protesse
in una conca nel muro. Si accostò le lunghe dita affusolate
alla bocca e ci soffiò sopra, cercando di scacciare il gelo
che gli era entrato nelle ossa. Respirò a fondo e
ricominciò a camminare, ormai non faceva nemmeno
più caso al fetore delle fogne. Finalmente
cominciò ad incontrare altre persone, vecchie e giovani,
ridotte peggio di lui che, tutto sommato, riusciva sempre a mangiare
almeno due volte alla settimana. Di nuovo, il giovane si
fermò. Era tutto infagottato di stracci, un grande berretto
gli cadeva sugli occhi coprendogli metà viso.
L’altra metà era avvolta in un altro straccio,
solo un po’ più lungo, che gli faceva da sciarpa.
Si soffiò ancora una volta sulle mani, anche queste
rivestite di un paio di guanti bucati che non arrivavano a coprirgli la
punta delle dita. Il giovane si frugò sotto i vari strati di
stracci e dopo poco estrasse un pezzo di pane vecchio e rattrappito.
Con una mano si abbassò la sciarpa e mise nella minuta
bocca, due bocconi. Era come mangiare marmo, ma non sembrava
accorgersene. Masticò a lungo e ingoiò, lo fece
per altre tre volte, poi prese la pagnotta e la fissò per
alcuni istanti. Alzò le spalle e la gettò in un
angolo, su un cumulo di cenci, prima di voltarsi.
- Grazie, Zahan! – il giovane alzò una mano, senza
dire una parola, e continuò a camminare. Quello che sembrava
un altro sporco ammasso di drappi, erano in realtà tre
bambinetti di cinque e sei anni che tentavano di tenersi caldo sedendo
vicini.
Zahan non si voltò indietro. Stringendo i pugni sotto gli
stracci si avvicinò ad una piccola costruzione fatta di
cartone e lamiere. Senza una parola, oltrepassò la porta
fatta di pezzi di tessuto, che prima forse erano stati dei vestiti, ed
attraversò l’unica stanza fino ad arrivare a
quella piccola zona che doveva rappresentare la cucina. Intenta a
strofinare con una stoffa alcuni piatti, gli unici che stavano ancora
insieme, c’era una donna minuta; i capelli biondi, resi quasi
grigi dallo sporco e dall’età, erano legati con
uno spago sulla nuca, creando una stretta crocchia. Zahan le si
avvicinò cautamente alle spalle e
l’abbracciò da dietro. La donna si
voltò di scatto, dal principio allarmata, poi sul suo viso
si dipinse un’espressione di sollievo.
- Zahan! – e l’abbracciò con slancio.
– Come stai? Dove sei stata tutto questo tempo?
- Sono stato via solo una settimana – sorrise il giovane,
inclinando gentilmente la testa di lato.
- Una settimana, tre giorni, un mese! Non so mai se tornerai a casa!
Per me, anche un giorno è troppo!
- Ma se non stessi via – la riprese Zahan, senza smettere di
sorridere, - cosa mangeresti tu?
- Patirei tutta la fame del mondo, sapendoti qui vicino a me, al
sicuro. Cos’hai fatto nel frattempo, oltre che straziare il
cuore di una povera madre apprensiva?
- Cinque giorni li ho passati a Simava, la città a nord
– spiegò il giovane, frugandosi nelle mille tasche
dei suoi indumenti. – Avevo sentito ci sarebbe passata una
carovana di mercanti… il lavoro non ha fruttato quanto avrei
sperato, ma è comunque meglio di quel che si racimola qui!
- Zahan! Tesoro, metti subito via quel denaro! –
sibilò atterrita la donna appena vide quel che il ragazzo si
era rovesciato sulla mano. Cinque corone! Cinque monete
d’argento! Con quelle la povera donna avrebbe potuto vivere
per un‘intera stagione. L’unica moneta
più importante delle Corone erano le Aquile, tozze monete
dell’oro più puro. Se tra le persone che vivevano
nelle loro stesse condizioni si fosse saputo che donna Livia possedeva
quattro monete d’argento, una l’aveva tenuta Zahan,
l’avrebbero derubata anche della biancheria che non
possedeva. Erano tutti ladri laggiù, Zahan non faceva
eccezione, era solo più abile degli altri. Erano una
numerosissima comunità di persone, costituivano quasi la
maggioranza della popolazione. Non era corretto chiamarli ladri,
perché non erano solo quello. Non era corretto chiamarlo
zingari, perché erano molto diversi e certamente gli zingari
se la passavano meglio. Non era corretto chiamarli mendicanti,
perché andava contro il loro orgoglio andare in giro a
elemosinare carità a quelle stesse persone che li
disprezzavano e sputavano loro addosso quando passavano. Insomma, tutte
quelle persone che si rifugiavano laggiù avevano un nome
particolare, come vanivano chiamati dalla piccola borghesia e dalla
gente comune: Ravusisch. Significava topo, spazzatura nella loro
lingua. Nonostante fosse un appellativo dispregiante, tutta quella
gente lo accettava, sebbene non avessero bisogno di un nome specifico.
Tra di loro si conoscevano tutti, dal primo all’ultimo.
Poteva sembrare strano, tanto erano numerosi, qualunque Ravusisch ne
incontrasse un altro, sapeva come si faceva chiamare, conosceva i suoi
genitori, se non di persona, almeno per sentito dire.
Il motivo per il quale così tanta gente potesse vivere in
una tale situazione catastrofica, quando a qualche centinaio di metri
di distanza, sopra le loro teste, si estendeva una vasta
città con nobili borghesi e aristocratici che con un
millesimo del loro denaro avrebbero potuto sfamare un’intera
famiglia per un anno intero, era un mistero. O meglio, per alcuni era
un mistero ma per altri, come Zahan, la verità era chiara e
palpabile: chi li governava era un tiranno. Un dittatore che aveva
assoggettato con l’inganno il loro paese. I Grandi Sacerdoti
erano corrotti e lo seguivano senza esitazione, i guerrieri e i nobili
erano ricchi e non traevano che vantaggi dalla sua politica parziale. I
mercanti, invece, si adattavano a qualunque tenore di vita nonostante
tutti avessero preferito quello antecedente il dittatore, il cui nome
era Kuuner. Re Kuuner. Però… la gente comune se
la passava molto male. Una famiglia dopo l’altra finiva sul
lastrico a causa delle tasse troppo alte, agli sproporzionati
favoritismi verso chi era di rango più elevato. Una dopo
l’altra, erano sempre di più le persone che
vendevano la loro casa e i loro ultimi averi per saldare i debiti. Da
quel momento in poi, acquisivano il nome di Ravusisch. Venivano
marchiati a fuoco e andavano a vivere nelle lunghissime e vaste
gallerie che rappresentavano le maleodoranti fogne della
città. Ormai nessuno badava al cattivo odore
perché, insieme a quello, giungevano le malattie, con le
malattie venivano i morti e le infezioni, con le infezioni le epidemie
e con le epidemie migliaia di morti. Ma per quanto forti potessero
essere gli stenti e le malattie, molte persone sopravvissero e sempre
più persone arrivavano. Nessuno aveva il coraggio o
solamente la forza di reagire, di opporsi. Nessuno tranne un contenuto
gruppo di uomini, non più di una ventina. Erano un semplice
corpo di resistenza, ma il popolo intero li chiamava orgogliosamente
ribelli.
- Zahan! Sei tornato finalmente, diavolo bastardo! –
enfatizzò un ragazzo circa dell’età di
Zahan. Salutò la madre del ragazzo con un buffo inchino di
scherno e trascinò via l’amico. –
Fratello, sei tornato e non sei nemmeno passato a salutarci?
- Prima sono andato da mia madre – rispose il giovane,
rimanendo serio.
- Ma adesso sei qui con noi – esclamò uno dei suoi
compagni. Erano Kir, Aisan, e Meldon. Il ragazzo corso a salutare Zahan
e sua madre, con la sua lunga chioma di capelli neri, era stato Kir.
- Siiiiiiiii beve! – gridò Aisan facendo apparire
due belle bottiglie piene di raffinato belgrem, un liquore prodotto con
il midollo delle capre.
- Alla salute – assentì Zahan, concedendosi un
sorriso.
- Sei troppo serio, fratello! – lo sgridò Meldon.
– Scommetto che hai avuto interessanti notizie
laggiù, dove sei andato a imbucarti.
- No davvero – assicurò Zahan passando ad Aisan la
bottiglia di liquore. – Nulla di nuovo, e certamente per
nulla preoccupante. Me ne sono andato a Samiva per un paio di giorni.
- E dici che non c’era nulla di interessante? –
domandò Kir, poco convinto.
- E’ impossibile, Samiva è la città
più pettegola esistente dalla costa fino a qui!
Zahan continuò a sorridere ermetico, poco partecipe
all’entusiasmo dei suoi compagni. Si bagnò ancora
una volta le labbra con il liquore e un dolce calore gli invase tutto
il corpo, riscaldandolo finalmente. – Forse – disse
dopo un po’, dopo averci pensato su –
l’unica cosa che ho sentito con un minimo di rilevanza,
è che pare che il capo della resistenza sia stato visto a
Samiva ma, cosa più importante, che fosse diretto qui.
- Nella capitale commerciale del regno?
- Sei serio, Zahan?
- Ma certo che è serio, hai mai visto Zahan scherzare?
- Ma, se lo catturassero?
Zahan rimaneva in silenzio, non era sua abitudine parlare troppo, se
non aveva nulla da raccontare. Forse perché la maggior parte
del tempo lo passava da solo, o forse solamente perché
trovava troppo divertente vedere i suoi amici esaltarsi.
- Il capo dei ribelli non può essere catturato –
disse una voce rauca e profonda alle spalle dei giovani. I ragazzi si
voltarono e si trovarono a faccia a faccia con Frekum, una delle
persone più anziane nell’intera
comunità.
- I miei omaggi – salutò immediatamente Zahan,
balzando in piedi.
- Ciao nonno!
- Ehilà, nonno! – si limitarono invece Meldon e
Aisan. Kir, dopo un po’ e con notevole calma, fece un cenno
con la testa per poi ripetere il saluto di Zahan.
- Ragazzi sconsiderati – sospirò il vecchio
scuotendo la testa. – Stavate parlando dei Ribelli, ho
sentito.
Zahan annuì mentre gli offriva il liquore da assaggiare.
– Del loro capo.
- Ahh – sospirò il vecchio. – Quello non
è un uomo, è una leggenda!
- Raccontaci di lui, nonno – supplicò Meldon,
posando da parte la bottiglia di belgrem.
- Ma prima – avvertì il vecchio, tirando fuori una
vecchia pipa, - cercatemi un fiammifero.
- Dovrei averne io un paio – esclamò Kir
frugandosi nelle tasche. – Chissà dove li ho
ficcati…
- Ecco, signore – disse Zahan, porgendo al vecchio una
scatola di fiammiferi.
- Ehi, Zahan! Quelli sono i miei!
- Sempre il solito, Zahan – risero Aisan e Meldon.
- Non ridete, idioti! Dannazione, un giorno riuscirò a
beccarti con le mani nel sacco! – ringhiò Kir.
- Sei l’unico a cui si riesce sempre a fregare qualunque cosa
– lo schernirono gli altri due ragazzi, continuando a
rotolarsi per terra dalle risa.
- Ah, sì? – ghignò allora Kir, - e
quelle cosa sono?
Il giovane aveva puntato il dito contro Zahan, che già da
qualche minuto stava facendo dondolare con la mano una fascia di
tessuto che fungeva da cintura, una moneta di bronzo, chiamata veliero,
e un pugnale.
- Ehi! – esclamarono mortificati i giovani. –
Quella è la nostra roba!
- Dannato ladruncolo, quando smetterai di fregarci la roba sotto il
naso?
- Ringraziamo il fatto che ce la restituisca sempre, ragazzi
– sospirò Aisan, riallacciandosi la cintura in
vita.
- E’ colpa vostra che non ve ne rendete conto – li
dileggiò Zahan, ridacchiando leggermente. – Potrei
sfilarvi i pantaloni e nemmeno ve ne accorgereste.
- Oh, oh, oh – rise il vecchio, divertito da quel buffo
teatrino. – Zahan, ragazzo, sei forse il miglior ladro di
queste parti!
- Dai nonno – gemette Meldon– raccontaci dei
ribelli!
- Sono solo un gruppo di resistenza – sbuffò Zahan
stendendosi sulla schiena, coprendosi gli occhi col cappello.
- Non capisci nulla, Zahan!
- Non è dei ribelli che vi voglio narrare -
precisò il vecchio, – io desidero solamente farvi
capire chi è il loro capo. Il suo nome lo conoscono in
pochi, anche il suo aspetto è sconosciuto ai più.
Ma è giovane, un giovane leader di ventitré anni.
Io non ho mai avuto la fortuna di incontrarlo, perciò quel
che vi sto raccontando è frutto di racconti altrui. Si dice
sia un uomo freddo e coerente, ma anche responsabile. Una
volta…
Zahan ascoltava distrattamente le montagne di favole che narrava il
vecchio, certo erano interessanti, erano belle da ascoltare, ma il
giovane dubitava altamente che tutto quello che gli veniva raccontato
combaciasse al vero.
- Sai come decise di diventare un membro della resistenza? –
domandò solamente, levandosi a sedere qualche racconto dopo.
- Sono ribelli! – ringhiarono i compagni del ragazzo,
testardi sul punto.
- Ahimé! Quell’uomo è un mistero
ma… una cosa ve la posso dare come sicura. Un tempo era un
nobile, ma ha abbracciato la causa trovandosi in disaccordo con la
nuova politica. A questo proposito, mi hanno riferito che…
Zahan sbuffò, mentre sentiva che le persone vicino a loro
cominciavano ad allontanarsi verso le proprie cucce per passare la
notte, un nobile che fa il lavoro dei contadini… come
mettere un gatto a tenere insieme un gregge di pecore.
Dopo un altro po’, finalmente il vecchio
s’allontanò verso la cuccia della famiglia di sua
nipote e scomparve. Zahan rimase indeciso qualche istante: si chiedeva
se dormire con la madre o con i suoi amici, ma alla fine Kir decise per
lui. Gli afferrò il giubbotto e lo trascinò a
terra sugli stracci che formavano i letti di quei tre, passarono pochi
secondi e tutti e quattro si addormentarono, così
com’erano, uno sopra l’altro. Zahan detestava avere
un eccessivo contatto fisico con i suoi amici o con chiunque altro, ma
quella notte si abbandonò nelle braccia del sonno e si
addormentò. Non sognò nulla, da quando era nato
poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui aveva sognato.
Si svegliò abbastanza presto, a causa del ginocchio di Aisan
conficcato nella sua schiena. Zahan si levò con uno
sbadiglio, stirando le braccia e allungando le lunghe gambe davanti a
sé. Il giovane recuperò alcuni parti dei suoi
indumenti e si allontanò dal gruppo di amici. Avevano
passato una bella serata, erano stati al caldo, ma Zahan non aveva
altro tempo da perdere. Passò davanti alla casa della madre,
di certo stava ancora dormendo. Il ragazzo sorrise pensando a lei e si
sistemò meglio il cappello sulla testa, non
l’aveva tolto nemmeno per dormire. In verità, non
toglieva mai quel cappello, tanto che chi lo conosceva sapeva che i
suoi capelli erano castani quasi per un semplice atto di fiducia. Era
quasi impossibile vedere il ragazzo con la testa scoperta. Zahan
ripercorse le lunghe gallerie che aveva attraversato il giorno prima,
chiedendosi per quale motivo non si fosse girato dall’altra
parte per rimettersi a dormire. Dopotutto, era solo l’alba!
Come facesse a saperlo, era un mistero. Uno dei tanti che circondavano
Zahan, in pochissimi riuscivano a capirlo, tra tutti i suoi amici, a
parte sua madre, solamente Kir riusciva ad intuire qualcosa.
Finalmente uscì all’aria aperta. Nonostante non
gli desse più fastidio l’odore dei sotterranei,
ogni volta che usciva all’aria aperta e vedeva il cielo si
sentiva come se stesse nascendo di nuovo. Zahan respirò a
pieni polmoni, attraversando lentamente la piazza del mercato,
semideserta. Avrebbe cominciato a riempirsi entro due ore,
né prima né dopo. Decise di attendere che ci
fosse più vita e fece per allontanarsi dalla strada
principale, ma all’improvviso Zahan si sentì
urtare e prendere per i vestiti. Un ragazzo, un po’
più grande di lui, tentò goffamente di gettarlo a
terra frugandogli nelle tasche. Zahan non gli lasciò
continuare, gonfiando i muscoli afferrò a propria volta gli
abiti del ragazzo, allontanandolo da sé e sbattendolo con
violenza contro un muro.
- Che diavolo hai intenzione di fare, stronzo? – gli
ringhiò contro, fissandolo col suo inquietante sguardo.
- Z-zahan? – gemette il ragazzo terrorizzato. – Io
non sapevo… dicevano che fossi partito!
- Sono tornato – lo informò allora Zahan, mentre i
suoi occhi si gelavano sempre di più. – Non
accetto che nessuno cerchi di taccheggiarmi. Capito?
- Sì! Sì! Chiedo scusa! –
supplicò il giovane.
Zahan lo lasciò andare, spingendolo lontano da
sé. Gente come quello la detestava, e detestava chi era
terrorizzato dai suoi occhi. In verità… per molto
tempo avevano spaventato anche lui. Zahan rifletté anche su
quello, mentre aspettava che il mercato si animasse. Aveva detestato a
lungo i suoi occhi, il suo sguardo magnetico ma, soprattutto, detestava
il loro colore. L’occhio destro era color lavanda, per
mancanza di pigmento, l’altro era dello stesso colore
dell’ambra. Ecco! Quello sarebbe dovuto essere il colore dei
suoi occhi, sebbene sarebbe rimasto un colore insolito, con le sue
profonde ramificazioni marroni, quello era il colore dei suoi occhi!
Non lavanda!
Una lacrima solitaria solcò il viso del giovane. Zahan la
raccolse sulla punta di un dito e continuò a fissarla,
sapeva di avere le ciglia bagnate in quel momento. Anche le ciglia
erano particolari, lunghe e nere, incurvate verso l’alto. La
pelle chiara e liscia, le labbra sottili e rosse, il naso minuto e la
fronte alta. Troppo femmineo era il suo aspetto, troppo per quello che
Zahan pretendeva di essere. Il ragazzo si risvegliò dai suoi
angoscianti pensieri quando, accidentalmente gli pestarono i piedi.
Finalmente la piazza stava cominciando a riempirsi. Zahan si
levò dal gradino su cui si era seduto, e camminò
fino al centro della piazza. Un ragazzetto, che non riusciva nemmeno ad
arrivare al bacino di Zahan, si stava sgolando come un matto cercando
di distribuire il giornale locale. Zahan gli si avvicinò e
gli lanciò un veliero, il ragazzetto lo prese al volo e gli
porse il giornale in cambio.
- Grazie Zahan! – ringraziò il piccoletto.
Il giovane fece un cenno con la testa e si allontanò
stringendo il rotolo di carta sotto il braccio, cercando un posto
tranquillo dove mettersi a leggere. In realtà, Zahan non
capiva per quale folle motivo continuassero a distribuire giornali
laggiù visto che, probabilmente, lui era l’unica
persona nel raggio di mezzo miglio a non essere analfabeta. Sulla scia
di questi pensieri, Zahan s’infilò in un vicolo di
collegamento e pochi attimi dopo si ritrovò nella strada
principale parallela a quella che portava al mercato. Il giovane rimase
sbalordito per qualche secondo, mezza città si era riunita
laggiù, spingeva e urtava, urlava e imprecava. Cosa stava
succedendo? Zahan cercò di vedere oltre le teste delle
persone, non riuscì a vedere nulla a parte un enorme
cappello di paglia con uno strano uccello impagliato sopra. Il giovane
sospirò, scuotendo la testa, doveva essere accaduto davvero
qualcosa di grosso! Si guardò attorno e il suo sguardo
s’incrociò con quello di un soldato. Per un attimo
ebbe un tuffo al cuore ma si riprese immediatamente e si
avvicinò cautamente all’uomo in divisa.
- Scusatemi - chiamò, sfoderando tutto il suo ambiguo
fascino, - saprebbe dirmi cosa sta succedendo?
La guardia lo studiò a lungo prima di rispondere. Certamente
era stato combattuto tra la possibilità di arrestarlo oppure
no, i Ravusisch erano tutti ricercati. Certo, quell’uomo non
poteva esserne sicuro, ma non aveva un grande margine
d’errore, quella gentaglia si assomiglia tutta! Tuttavia,
alla fine abbandonò quella scomoda idea, non gli avrebbero
dato nessuna ricompensa e la soddisfazione che provava era troppo
grande.
- Finalmente, è stato catturato quel cane del capo dei
ribelli! – spiegò l’uomo.
Zahan strabuzzò gli occhi, incredulo. Non aveva certo
creduto alle storielle di Frekum, ma era convinto che non sarebbero,
davvero, mai riusciti a catturare il capo della resistenza. –
Buon per voi – disse allora il ragazzo, riuscendo velocemente
a mascherare lo stupore, quindi si allontanò, ficcandosi le
mani infreddolite nelle tasche. Il capo dei Ribelli…
sbuffò Zahan tra sé e sé, arrendendosi
all’idea di chiamarli “ribelli”
così come, pareva, fossero chiamati da tutti.
Bah… evaderà nel giro di tre giorni. Molto prima
che pensino solamente a trasferirlo alla capitale. Le prigioni di
questa città sono le più scadenti che abbia mai
visto.
Zahan, come tutti i Ravusish, era finito un paio di volte in prigione
ma, a contrario di quello che si potesse pensare, c’era
andato per salvare quell’impiastro di Kir. Zahan era troppo
abile per farsi catturare, o almeno, così credette fino a
qualche giorno dopo. In ogni modo, le celle e le loro sbarre erano
scadenti, poste abbastanza distanziate da permettere ad una donna molto
piccola e magra di passarci attraverso. Siccome di donne, di solito,
non ne avevano, non era un problema, ma consisteva comunque di una
grave pecca. Per loro fortuna, però, ogni cella era
costruita ad un piano diverso delle prigioni. Queste, in effetti, erano
una semplice ex-torre di vedetta, costruita al centro della
città. Forse essere rinchiusi nella cella in cima alla torre
sarebbe stato un bel problema, per chi avesse intenzione di scappare.
Probabilmente avrebbero rinchiuso lì il capo dei ribelli, ma
Zahan rimaneva della sua idea: nel giro di pochi giorni sarebbe evaso.
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Capitolo 2 *** Silfarion ***
2. Silfarion
Passarono i giorni, passò una settimana ma nessuno era
ancora evaso. Anche la notizia dell’arresto, ormai, stava
perdendo importanza. Ogni giorno erano sempre di meno le righe dedicate
al capo dei ribelli, la novità andava perdendo tutta
quell’attenzione che aveva attirato su di sé.
Probabilmente, l’unico motivo per cui ancora se ne parlava
era perché i capi di Stato non si decidevano a scegliere una
data per l’esecuzione.
Con un sospiro, Zahan appallottolò il giornale e se lo
buttò alle spalle con noncuranza, prima di immergersi nel
mare di folla del mercato. Camminava agile e silenzioso tra la gente,
passava accanto ai banchi con la merce esposta e proseguiva, a volte
dopo averci buttato una breve occhiata. Un improvviso refolo di vento
riuscì a penetrare attraverso il muro di persone e
s’insinuò sotto i vestiti di Zahan. Il ragazzo
ebbe un brivido, ma proprio in quel momento aveva trovato quel che
cercava. Sorrise malizioso, prima di proseguire si calò per
bene il cappello sugli occhi. Infilò le mani nelle larghe
tasche della giacca e si avvicinò incerto ad un banco
particolarmente invitante. Doveva essere nuovo, perché Zahan
era sicuro di non aver mai visto gioiellieri in quella parte della
città. Dopo una prima occhiata si disse che chiamarlo
gioielliere poteva sembrare un’esagerazione, ma qualcosa
della merce che vendeva non era male. Rallentò prima di
trovarsi vicino al banco interessato, lo raggiunse e lo
superò, mantenendo sempre la stessa andatura.
Zahan non riuscì a reprimere un ghigno, sentendo il freddo
metallo sotto i vestiti. Silenzioso come un’ombra aveva
trafugato uno dei migliori pezzi della collezione del mercante. Con
quello avrebbe dato a sua madre almeno un altro mese di autonomia. Il
giovane, alla pari del vento e altrettanto veloce e invisibile,
già si preparava a svoltare nel primo vicolo, per poi
scomparire definitivamente della calca. Ma qualcosa era andato storto:
qualcuno l’aveva visto rubare. O meglio, aveva visto una
collana scomparire contemporaneamente al suo passaggio.
All’improvviso Zahan si sentì afferrare da dietro
con violenza, strattonato per un braccio.
Dannazione pensò immediatamente dopo aver voltato la testa.
Di tutte le persone, proprio un soldato della guarnigione? I due si
fissarono truci per un istante, Zahan si domandava se era meglio
bluffare o darsela a gambe. Impiegò poco tempo per decidere.
In rapida successione piegò il braccio che veniva stretto e
subito dopo lo distese, facendo scivolare la presa al soldato. Poi,
senza attendere nemmeno un attimo, si voltò e corse via ma
il soldato cominciò a rincorrerlo, e non da solo: con un
gesto della mano aveva chiamato a sé due suoi compagni e
adesso erano in tre ad inseguirlo. Zahan correva veloce, con
l’estremità del lungo spolverino che gli sfiorava
gli stivali. Aveva sollevato leggermente il cappello per ampliare la
propria visuale. In quel momento si trovava nel centro del mercato: da
una parte era un bene, perché era anche il punto in cui la
folla si concentrava, ma dall’altra era un male, trovandosi
molto lontano da qualunque via di fuga. Zahan si guardò
velocemente intorno, cercando con gli occhi i suoi inseguitori. Quando
non li vide, pensò di averli seminati, cosa affatto
difficile essendo lui abbastanza piccolo e gracile d’aspetto
e loro molto più grossi e muscolosi. Al centro della piazza,
costruita su un rialzo di pietra, si trovava una fontana circolare.
Scolpite nella roccia, tre immagini di donne gli sorridevano mentre
rovesciavano nella fontana le loro anfore colme d’acqua.
Zahan rivolse il suo sguardo al cielo: viaggiavano molte nuvole,
portate dal vento, ma alcune, quelle scure e grigie, portavano la
pioggia. Il ragazzo scosse la testa sconsolato, pensando ai cunicoli
sotterranei che si riempivano d’acqua, forse era giunto il
momento di fare ritorno a casa. Assicurandosi che la refurtiva fosse al
sicuro al suo posto, si abbassò nuovamente il cappello sugli
occhi certo che, a quell’ora, i soldati avessero rinunciato a
dargli la caccia e se ne fossero ritornati ai loro posti. Prima di
rientrare, però, si avvicinò alla fontana,
salì gli scalini e si soffermò a fissarsi nello
specchio d’acqua. Restò lì immobile per
alcuni istanti, quasi ipnotizzato da quel riflesso trasparente.
Distrattamente, notò che una ciocca dei suoi capelli era
sfuggita da sotto il cappello e gli solleticava dolcemente la guancia,
allora la respinse velocemente sotto il copricapo. Di nuovo
spostò il suo sguardo sullo specchio d’acqua e
fissava duramente i suoi occhi bicolori, in una specie di gara. Non
riuscì a reggere il suo stesso sguardo e affondò
una mano nella polla, increspandone la liscia superficie.
L’acqua era gelata e Zahan tirò fuori la mano, che
già cominciava a diventare livida. Ci alitò
sopra, nel vano tentativo di scaldarla: perché aveva fatto
una cosa tanto stupida? Basta, l’unica cosa che poteva fare
era correre a casa il più velocemente possibile, accendere
un fuoco e accostarci la mano. Fino a quel momento decise di sfilarsi
la sciarpa dal collo e avvolgerla intorno alle dita ed al polso, poi si
voltò e andò a sbattere dritto dritto contro una
delle tre guardie che lo afferrò, questa volta per entrambe
le braccia, e lo trascinò insieme ad uno dei suoi compagni
verso le prigioni.
- Sentiti fortunato – gli disse il soldato. – Di
solito ai bastardi come te tagliamo la mano destra, Ger trova la
collana, ma con la cattura di quel cane di un capo dei ribelli, simili
dettagli diventano insignificanti.
Il secondo soldato si avvicinò per frugare sotto i vestiti
di Zahan, ma questi lo anticipò:
- E’ nella tasca interna, sotto la manica sinistra.
I due soldati alzarono lo sguardo sul ragazzo, confusi dal suo
comportamento insolito, soprattutto quando trovarono effettivamente
lì la collana.
- A che gioco stai giocando? – domandò il primo
soldato, alzando diffidente un sopracciglio.
Zahan alzò le spalle, per quanto gli fosse possibile.
– L’avreste trovato comunque – rispose
tagliente, - e non mi piace quando un uomo mi palpa, perdonate la
franchezza.
- Siamo delicati, eh? - ghignò il secondo soldato, che
stringeva nella grossa mano pelosa il monile. Lentamente se lo
infilò in una tasca della divisa e poi diresse un pugno
dritto dello stomaco del ragazzo. Zahan lo fissò con lo
sguardo rovente per qualche secondo, ma quando gli arrivò un
secondo colpo dietro la nuca, perse inevitabilmente i sensi.
Lentamente aprì un occhio, poi l’altro. Con una
gran confusione in testa cominciò a guardarsi attorno. Si
trovava sdraiato sul pavimento di pietra, il gelo che ormai gli stava
penetrando nelle ossa. Zahan non conosceva il posto dove si trovava
perché probabilmente non c’era mai stato, ma era
uno solo il luogo dove quei due soldati avrebbero potuto portarlo.
Aggrappandosi alle sbarre di ferro della cella, si trascinò
fino al muro dove riuscì a gettare un’occhiata
fuori dalla piccola finestra, bloccata con delle spesse sbarre di
metallo. Zahan vide poco, pochissimo, ma quello poco che vide gli
provocò un brivido: l’avevano rinchiuso nella
cella all’ultimo livello dell’ex torre di vedetta,
e se non era l’ultima, poco passava. Si sentì
quasi come le principesse delle favole, ma la battuta non lo fece
affatto ridere: non sarebbe stato facile evadere di lì!
- Guardate un po’ chi si è destato dal suo sonno:
il bello addormentato!
Zahan volse la testa verso la voce. Quattro guardie della prigione lo
stavano fissando ridendo di gusto. Il ragazzo però non
sfuggì lo sguardo e li fissò con i suoi
inquietanti occhi.
Una delle guardie ebbe una smorfia quando vide il duplice colore delle
iridi del giovane.
- Ehi ragazzi – chiamò – guardate che
orrore!
- Che Dio li perdoni – esclamò allora un altro dei
quattro uomini, - questi due si fanno concorrenza!
- Via, via, lasciamoli in pace – rise la terza guardia,
aprendo una porta e cominciando a scendere le ripide scale a
chiocciola. – Il nostro turno è finito, tra un
po’ verranno a darci il cambio.
Le due guardie che prima avevano parlato se ne andarono velocemente
come la prima, ma una di loro si intrattenne ancora un attimo presso le
sbarre.
- Scusa per la compagnia ometto – disse sarcasticamente
– ma ti assicuro che quello sporco cane rosso non ti
mangerà! – poi Zahan rimase solo.
Scusa per la compagnia? Si domandò il ragazzo confuso, poi
si voltò e vide che effettivamente non era l’unica
persona in quella cella. Di fronte a lui c’era un uomo,
leggermente più vecchio, che doveva avere da venti ai
trent’anni. Sedeva a terra, semisdraiato, con la schiena
appoggiata al muro. L’uomo non lo fissava, non si era nemmeno
girato a guardare Zahan da quando questo si era risvegliato: rimaneva
immobile, con lo sguardo fisso di fronte a sé. Come aveva
detto l’ultima guardia, i capelli dell’uomo, che
gli cadevano disordinati sulle spalle e intorno al viso, erano rossi,
un rosso molto intenso. Zahan non riusciva a giudicarne precisamente la
statura, ma era certo che fosse abbastanza alto, certamente
più alto di lui. Le spalle erano larghe e coperte da un
lungo mantello beige particolarmente elaborato, decorato con rifiniture
in oro e in argento. Certamente non è qualcuno che soffre la
fame pensò Zahan infastidito e infreddolito, ma allora cosa
ci fa chiuso qua dentro?
Il volto dell’uomo era molto fine ed elegante, non come
poteva essere quello di Zahan, ma avrebbe affascinato molte donne. Il
naso scendeva dritto, ma senza creare una linea continua con la fronte.
La sua espressione non era serena ma corrucciata, dopotutto,
cos’altro ci si poteva aspettare da un uomo rinchiuso dietro
a delle sbarre?
Anche Zahan si sedette a terra, lontano il più possibile da
quello strano uomo che lo inquietava, emettendo una singolare aura di
forza e carisma, eppure il ragazzo continuava a fissarlo incuriosito.
L’occhio sinistro dell’uomo, l’unico che
Zahan riusciva a vedere dalla posizione in cui si trovava, era grande e
limpido, ma di un’inusuale forma allungata. Continuava a
guardare fisso a terra e il ragazzo gli invidiò quel
semplice e contemporaneamente bellissimo color blu mare.
Non sapendo cosa fare, senza la possibilità di evadere o la
ben che minima intenzione di rivolgere la parola al suo inquietante
compagno di cella, Zahan chiuse gli occhi e tentò di
riposare. Dopo alcuni minuti si addormentò.
Fu un freddo rumore di ferraglia a svegliarlo. Placidamente
aprì gli occhi e diresse lo sguardo verso la porta della
cella. Altre quattro guardie, diverse da quelle che avevano dato il ben
svegliato a Zahan, fissavano i due prigionieri seduti a terra. Una di
queste guardie stava aprendo la porta della cella, mentre
un’altra entrava guardinga e posava accanto al ragazzo ed
all’uomo dai capelli rossi due piatti pieni di un liquido
biancastro. Zahan ci buttò un’occhiata per poi
ritirarsi disgustato: non aveva l’aspetto di nulla che avesse
visto nei suoi diciassette anni. Il giovane alzò lo sguardo
irritato e, con enorme sorpresa, si trovò a fissare una
decina di soldati che li osservavano con i fucili puntati.
Involontariamente Zahan spalancò la bocca, basito: che cosa
diavolo stava succedendo? Le guardie richiusero la porta a doppia
mandata e solo allora i soldati posarono i fucili. Le chiavi della
cella furono affidate alle guardie di servizio, tre in tutto, mentre
gli altri, guardie e soldati, cominciarono a scendere le scale. I tre
uomini rimasti si spostarono nella stanza attigua, si sedettero presso
un tavolo, estrassero carte e rhum e si dimenticarono di Zahan e
dell’uomo dai capelli rossi.
Solo allora il ragazzo provò a prendere in mano il piatto
portatogli e lo fissò diffidente. Il suo compagno di cella,
invece, lo afferrò con entrambe la mani e
cominciò a sorseggiare la brodaglia bianca contenuta. Zahan
lo fissò perplesso. Provò ad annusare lo strano
liquido, ma non percepì alcun’odore, allora prese
in mano il rozzo cucchiaio di legno e si portò la pietanza
alle labbra. L’assaggiò con la punta della lingua
e con un’espressione contrita sputò a terra
disgustato.
- Puah! Ma che cos’è questa roba? –
esclamò. – Persino la suola delle scarpe ha un
sapore migliore.
E’ anche fredda! Rifletté nauseato. Il giovane
alzò lo sguardo, dirigendolo verso l’uomo dai
capelli rossi.
- Come fai a mangiarla? – domandò.
- E’ l’unica cosa che si può mangiare in
questo posto – rispose l’uomo, parlando per la
prima volta. Aveva una voce profonda, sommessa ma nitida. Lentamente
finì di mangiare, poi ripose in un angolo il cucchiaio e il
piatto vuoto.
- Beh, io sono stufo di starmene chiuso qui dentro! –
esclamò Zahan, gettando un’occhiata alle guardie
nell’altra stanza, prossime a cadere addormentate.
– Me ne vado. Tu resti?
- Sto aspettando delle persone.
- Ho capito…credo che aspetterò ancora un pochino
– decise allora Zahan, tornando a sedersi.
Seguì un lungo silenzio. L’uomo dai capelli rossi
pareva parlare solo se interpellato, e Zahan aveva terminato le domande
da porgli. Distrattamente, controllò che il suo cappello
fosse ancora al proprio posto, posandosi le mani sul capo. Lo
toccò, lo raddrizzò e sentendosi soddisfatto
lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
S’arrestò un attimo, c’era qualcosa che
non quadrava: si guardò le mani. Entrambe funzionavano
perfettamente, non sentiva alcun dolore o un freddo particolarmente
intenso. Cos’era successo alla mano che aveva imprudentemente
immerso nell’acqua gelida?
- Spero non ti dispiaccia.
Zahan voltò la testa verso l’uomo, probabilmente
dalla sua espressione lasciava facilmente intuire che non aveva
compreso le sue parole.
- La tua mano - continuò allora l’uomo,
guardandola fisso. - Te l’ho scaldata io o avrebbe gelato.
Zahan spostò lo sguardo da lui alla mano e poi di nuovo su
di lui.
- Grazie - riuscì solamente a rispondere. Poi non
riuscì più a continuare.
Dovette ripetere mentalmente la loro piccola conversazione per molte
volte, prima di riuscire realmente a coglierne il significato. Quando
finalmente comprese lo fissò sbalordito. Perché
l’aveva fatto? Per passare il tempo? Il giovane
continuò a crucciarsi a lungo ma senza trovare una risposta
abbastanza verosimile da prendere in considerazione. Alla fine si
arrese.
- Perché hai… - cominciò, ma poi si
interruppe. La domanda sarebbe stata completamente inutile.
Sospirò. - Io sono Zahan.
L’uomo dopo un po’ levò lo sguardo sul
giovane volto del ragazzo, rispondendogli solo dopo un lungo silenzio.
- Silfarion.
- Che nome strano - borbottò Zahan. - Tra quanto credi che
arriveranno le persone che aspetti? - domandò dopo pochi
istanti.
- Tra poco - passavano sempre lunghi istanti prima che l’uomo
rispondesse alle sue domande.
Per un po’ Zahan tentò ancora di fare
conversazione, ma nulla sembrava risvegliare l’interesse di
Silfarion, che continuava a rispondergli sempre con lo stesso, monotono
tono di voce.
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