Beautiful Disaster di StilledAnima (/viewuser.php?uid=28640)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Boulevard Of Broken Dreams ***
Capitolo 2: *** You're burning up my dreams ***
Capitolo 3: *** Last chance for one last dance ***
Capitolo 4: *** Qualcosa che non c'è ***
Capitolo 1 *** Boulevard Of Broken Dreams ***
Questa storia è dedicata a una parte di me che se n’è andata troppo presto. Mi manchi e sei con me, donna. Sempre.
_Beautiful Disaster -
Di StilledAnima
“My shadow's the only one that walks beside me My shallow heart's the only thing that's beating Sometimes I wish someone out there will find me 'Til then I walk alone… "
( Boulevard Of Broken Dreams, Green Day )
(Pov Sana)
Quand’è che ho cominciato ad abbandonarmi così al sonno?
È davvero possibile che un tempo fossi sempre piena di energia e completamente sveglia?
La ragazzina dai capelli bizzarri che ruotava attorno agli altri come un vulcano d’allegria, che riusciva a sorridere e cantare persino nei momenti meno indicati.
Testarda e determinata, non si abbatteva facilmente di fronte alle prime difficoltà che incontrava sul suo cammino…
Un sospiro, uno dei tanti che grava su questo silenzio pieno di parole non dette.
Che ne è adesso, di quella bambina?
Quando i suoi sogni colorati si sono spezzati sul vetro spesso di una realtà così in bianco e nero?
Un sorriso amaro, un respiro che si spezza, la consapevolezza di una verità che non può più cambiare, ormai.
Mi stringo fra le braccia in un moto di protezione, come se il calore di questo abbraccio improvvisato potesse lenire un poco il vuoto che appesantisce il cuore.
E non riesco a fermarla, forse non voglio. Scende giù, traditrice come le altre prima di lei. Un solco umido si fa strada sulla mia guancia. Raggiunge il mento fermandosi indecisa finché, spinta dal dolore, sia lascia cadere nel vuoto.
Opporsi è diventato impossibile.
Il vento si alza leggero scompigliandomi i capelli, regalandomi un attimo di lucidità in più.
Solo allora ricordo dove sono e che ho poco tempo. Alzo di nuovo lo sguardo, soffermandomi su quella casa.
La sua casa.
Perché sono venuta qui? È l’alba, tutte le imposte sono ancora chiuse. Corro persino il rischio di arrivare in ritardo, di perdere il volo.
Eppure, eccomi davanti a questo cancello.
Qui dove tanti anni fa, da ragazzini, l’ho riaccompagnato per non lasciarlo da solo, con la febbre. Si sorreggeva a me senza forze, caldo e sfinito. Ancora non ci conoscevamo veramente.
Ancora non potevo sapere quanto quel bambino scorbutico e introverso sarebbe diventato importante per me.
Alzo una mano, tentando di scacciare quei pensieri che si affacciano dolorosi, allontanandoli come se fossero nell’aria sopra di me. Basta, non posso tornare indietro adesso.
Che cosa credevo di trovare, poi? Sono due mesi che non lo vedo, due mesi che mi nascondo ogni volta che mi viene a cercare, facendo finta di ignorare quella sagoma familiare stagliata dietro le tende del salotto.
Mi ha aspettata tutto questo tempo. Con quegli occhi ambrati duri e immoti piantati in alto, a seguirmi in ogni mio spostamento.
Non è stato facile resistere all’impulso di piombare fuori sotto la pioggia e stringerlo a me per dimenticare tutto. Aggrapparsi al suo petto e chiudere gli occhi su quell’immagine che in questi mesi è stata il mio tormento, il mio incubo costante.
Strizzo gli occhi, so che sta per arrivare come ogni volta che i miei pensieri tornano al passato.
Ed eccola, forte e spietata come un colpo di fucile.
Come la prima volta, forse anche peggio: abbracciati l’uno all’altra su quel divano, le dita perse ad accarezzarsi. Quel bacio che non era per me e che dato a lei faceva ancora più male.
Ancora mi stupisco di come sono riuscita a farcela. Non so dove ho trovato la forza di urlare e di scappare da quella casa. Ricordo solo le sue grida, il mio nome che si perdeva nel rumore del traffico, la gente ignara che spintonavo durante la mia corsa disperata.
Tutto, pur di lasciarmi dietro quel momento.
Il vento si rialza leggero, fa danzare in alto le ciocche dei miei capelli castani. La sua finestra deve essere quella in alto a destra.
È più forte di me, non ce la faccio.
- Akito…-
Il suo nome esce dalla labbra, ma è appena più che un sussurro.
Come se potesse sentirmi, come se potesse rispondermi.
Rimango per un attimo incerta davanti a quella casa silenziosa, la mano sul cuore chiusa a pugno. Un lieve pizzicore mi fa prudere le dita, mentre lacrime di rabbia si vanno ad aggiungere a quelle di dolore appena versate.
Dannazione!
Quanto avrei voglia di picchiarlo, di suonargliele in testa col mio fedele martelletto di plastica. Urlargli che è uno stupido, che ha rovinato tutto, che buttare al vento anni e anni di amore è uno spreco mostruoso. Poterlo colpire in pieno viso, fargli male, graffiarlo, riversare su di lui anche solo la metà di quello che sto provando.
E soprattutto, guardarlo negli occhi e urlargli che lo amo, che gli voglio bene, che magari col tempo riuscirò a perdonarlo.
Che, comunque vada, voglio che sia felice…
Improvvisamente, una mano calda e rassicurante si posa sulla mia spalla, un tocco leggero che mi scuote dalle mie riflessioni.
- “ Sana, mi dispiace, ma dobbiamo andare. Il tuo aereo parte tra venti minuti.”-
Rei, attraverso i suoi occhiali da sole, mi sorride ingenuamente.
Cerco di riprendermi, lo guardo appena con gli occhi lacrimanti e il naso arrossato. So che era contrario al fatto di passare davanti a questa casa, prima di partire. Non gli è mai andata a genio la mia relazione con Akito, sin da quando eravamo a scuola insieme. Ma non ha fatto una piega, non una domanda. Semplicemente ha capito il mio desiderio impellente e mi ha scortata come ha sempre fatto, non mi ha lasciato sola a me stessa.
E di questo non posso far altro che essergliene grata.
- “ Va bene. Credo di essere pronta…”-
Sospiro piano, alzando di nuovo gli occhi verso quella finestra, mentre il mio manager si fa rispettosamente indietro, rientrando in macchina e lasciandomi al mio addio solitario.
Chiudo gli occhi, strizzandoli sino a confortarmi di quelle ombre scure dietro le palpebre.
Non voglio più vedere, non ha più senso ormai.
Perché non c’è rimasto più niente da vedere. Sogni infranti che non hanno spessore.
Inizio a correre indietro, tremando, uno scatto veloce che mi fa perdere quasi l’equilibrio.
La portiera si apre, salgo in macchina imponendomi di non lanciare un’altra singola occhiata dietro di me.
Sarebbe più doloroso. Un taglio netto è la scelta migliore.
La macchina parte, gratta nella sgommata che la lancia in avanti. è un attimo di debolezza che non riesco ad arginare. Mi volto velocemente indietro, il tempo necessario per vedere quella casa allontanarsi e sparire del tutto dietro la curva.
Poi niente. Non vedo più niente.
Sprofondo così nelle poltroncine della macchina. Provo ad affondarci, caderci dentro. Istintivamente porto le mani ad appoggiarsi sul mio ventre, come a custodirlo.
Il mio dono prezioso che cresce a riparo della tempesta. Lo accarezzo piano, con dita tremanti, il cuore colmo di gioia e pena.
Rei, gettando un’occhiata nello specchietto retrovisore della macchina, si accorge di quel mio gesto.
- “ Sana…”- La sua voce si incrina leggermente. - “ Sei davvero sicura di quello che stai facendo? Los Angeles non è vicina e nelle tue condizioni faresti meglio a non partire. Sono stati mesi difficili, e anche se Naozumi da bravo amico si è offerto di darti una mano con il trasloco, sarebbe meglio rinunciare, non pensi? Tua madre è preoccupata per te. “-
Mi lancia uno sguardo dolcissimo, deciso, difficile da ignorare.
- “ Anch’io… Anch’io sono preoccupato per te.”-
Solo con molta fatica riesco a impormi di non piangere di nuovo. Mi allungo dietro di lui, sfiorandogli appena una guancia e guardandolo con tenerezza.
- “ Non lo so, Rei, se ne sono sicura. In questo momento non ho la certezza di niente. Ma ho assolutamente bisogno di lasciarmi tutto alle spalle, di dimenticarlo per quanto sarà possibile. Non riesco ad andare avanti così, con tutta questa tensione”-
Carezzo con leggerezza il ventre, guardandolo con amore, pensando a quel bambino che è dentro di me e che già amo più della mia vita.
- “ Non ho avuto modo di dirgli come stanno le cose, ma forse è meglio così. Se sapesse delle mie condizioni, non mi lascerebbe andare per niente al mondo. Ma non voglio che mi stia accanto solo perché deve, perché porto in grembo suo figlio. Non sarebbe felice e questo non è quello che voglio per lui. Né per me”-
Sto per perdere il controllo, lo sento. Mi fermo per riprendere fiato e cercare di calmarmi. Le parole mi escono strozzate, un fiume in piena che riesco a gestire con difficoltà.
- “ Ma voi non dovete preoccuparvi. Me la caverò, come ho sempre fatto. Farò il possibile per stare bene, promesso.”-
Lascio cadere la mano e mi avvicino al finestrino, ignorando il riflesso pallido del mio viso. Dopo alcuni minuti di respiro affannato, cerco di concentrarmi e mi sforzo di parlare ancora. C'è ancora qualcosa da aggiungere al resto.
- “ Rei? “-
Il mio manager si volta verso di me, in attesa.
- “ Grazie per avermi accompagnata e per non avermi chiesto niente. Per me era importante. Sei un vero amico.”-
La sua espressione si addolcisce ancora, mentre torna a guardare la strada. - “ A volte non ci sono domande, così come a volte non ci sono risposte. Non preoccuparti. Piuttosto…”-
Torna a fissarmi seriamente, il viso concentrato in un’espressione professionale e attenta.
- “ Mi scusi se per oggi faccio a meno di questi? “- E con un gesto veloce della mano, si toglie gli occhiali da sole e me li porge gentilmente, ignorando il mio stupore davanti a quel viso così sorprendentemente bello.
- “ Credo che, ora come ora, facciano più comodo a te che a me.”-
Si volta così, fischiettando, la mano artigliata sul volante che trema leggermente, lo sguardo deciso ad ignorare lo specchietto sopra la sua testa.
Forse perché non vuole vedere, magari perché con la sua attenta dolcezza vuole lasciar spazio al mio dolore e non al suo. Ma il suo gesto, unito alla stanchezza di questi interminabili giorni, mi piega come non mai.
Rannicchiata verso la portiera, nascosta dalle maniche del caldo cappotto che indosso, scoppio a piangere silenziosamente senza riuscire a frenarmi. E mentre le lacrime si addensano e scendono a rigarmi le guance, solo allora mi concedo quel tanto temuto addio.
Solo allora riesco ad aggrapparmi a quella consapevolezza e a mormorarla piano dentro di me:
Addio, Akito Hayama.
Angolo autrice:
Solo poche parole.
Voglio ringraziare tutti coloro che hanno letto questo primo capitolo, in special modo un ringraziamento speciale a coloro che l'hanno riletto per la seconda volta. Mi sono decisa a ripubblicare questa storia proprio per coloro che l'avevano seguita con così tanta passione e a cui avevo negato un continuo. Stavolta sono ben decisa a portare in fondo il mio compito, non lascerò storie incomplete, lo prometto. Mi sono presa del tempo per rileggere i miei appunti, correggerli e riscriverli e la storia( almeno su carta) è stata ultimata. Troverete i nuovi aggiornamenti ogni lunedì. Per il resto, Grazie ancora del sostegno che mi avete dato. Beautiful è tornata soltanto per merito vostro. Un abbraccio, a presto.
StilledAnima( alias, la vecchia "Speednewmoon")
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Capitolo 2 *** You're burning up my dreams ***
_Beautiful Disaster
-
di
StilledAnima
" Where are you and I'm so sorry
I cannot sleep I cannot dream tonight
I need somebody and always
This sick strange darkness
Comes creeping on so haunting every time..."
( I Miss You, Blink 182)
( Pov Akito
)
La luce in quella stanza
era di un bianco abbagliante, fastidioso. Mi avevano
sistemato su un letto duro e irregolare, con i cuscini piatti e
bitorzoluti tutti intorno.
Attento ad evitare
strappi o movimenti troppo bruschi, cercai di mettermi a sedere, la
benda legata sotto la spalla che mi impediva di riposare.
Il braccio pulsava
terribilmente. Potevo sentire la carne sotto la fasciatura animarsi di
vita propria, un continuo rigonfiamento dove risuonava lontano il
battito del cuore.
A occhi chiusi percepivo
il lento – bip!- delle macchine ospedaliere, l’ago
della flebo che pungeva opprimente dentro di me.
Non mi accorsi della
porta della camera che si apriva lentamente, dei passi che si
avvicinavano al letto.
Mi sorreggevo la
fasciatura appoggiato contro uno di quegli scomodi cuscini, e pensavo.
Il dottore era stato
chiaro: il polso difficilmente sarebbe tornato quello di un tempo, i
legamenti sarebbero rimasti rigidi e avrei fatto fatica anche a
compiere gesti elementari quali reggere una penna o provare a mangiare.
L’unica
soluzione era la clinica di Atlanta, in America.
Mi lasciai sfuggire un
sospiro, le palpebre chiuse su di un futuro che non volevo
neanche immaginare.
Sapevo bene che cosa
sarebbe successo.
Partire significava
lasciare casa, i miei amici…
Significava lasciare lei.
Strinsi un lembo del
lenzuolo con la mano, artigliandolo.
Non osavo
pensarci.
Ero certo che non ce
l’avrei fatta, non senza il suo aiuto. La lontananza sarebbe
stata insopportabile, anche se avremmo cercato ogni espediente
possibile per tenerci in contatto.
Ma telefonate e lettere
non possono colmare il vuoto del cuore, non sono sufficienti per
sentirsi vicini.
Non bastano
mai…
-
“ Akito…” -
Qualcosa scosse il
silenzio, ma all’inizio non mi resi conto di che cosa.
Non aprii gli occhi,
avevo troppa paura di far svanire quella tenera illusione.
Il mio nome.
Il mio nome pronunciato da lei.
Decisi di rischiare.
Mi voltai lentamente
verso la porta e la vidi appoggiata alla tenda del corridoio.
I capelli raccolti in
due code laterali, il giacchetto appoggiato sulle piccole spalle, i
candidi denti a tormentare con ansia il labbro inferiore.
Mi fissava, gli occhi
gonfi e pieni di lacrime che le tracciavano in silenzio le candide
guance.
Non ci fu un momento
preciso, un attimo in cui stabilimmo di incontrarci a metà
strada.
Sentii le sue braccia
chiudersi attorno alle mie spalle, il suo corpo tremare e aggrapparsi
al mio. Allungai il braccio sano per avvicinarla a me e coccolarla sul
mio petto.
La camera
d’ospedale sembrò sparire in un bolla
d’ovatta, tutto il dolore patito dopo l’intervento
acquietarsi e passare.
Non c’era
altro, solo quel dolce peso a gravare sulle mie ossa stanche.
Solo quel calore, quel profumo delicato di pelle e lacrime, che era
tutto ciò di cui avevo bisogno per continuare a respirare.
Piccoli singhiozzi
trattenuti a stento mi solleticavano il collo, la mano che la stringeva
a me persa tra quei capelli castano ramati.
Cercai di calmarla, di
cullarla con tenerezza accettando il suo sfogo.
-
“ Sana” -
Il cuore le batteva
troppo velocemente per non poterlo udire.
-
“ Sana”-
Cercai il suo viso,
portando due dita a sollevarle il mento. Volevo vederla sorridere,
dimenticarsi delle lacrime.
-
“ Sana”-
Alzai gli occhi su di
lei e ne rimasi sconvolto.
Non era quel sorriso che
conoscevo e che amavo a piegarle le labbra, ora.
C’era qualcosa
di diverso, di stonato: un calore che se ne era andato ancora prima di
illuminarle gli occhi, un’ombra scura che rimaneva agli
angoli e che pesava più di tutto il resto.
Poi accadde tutto molto
velocemente.
Sana si
districò dal mio abbraccio, arretrando verso la porta,
guardandomi con dolore.
Se ne stava andando.
-
“ Sana, aspetta!” –
L’urlo che
uscì dalle mie labbra era rauco e flebile, troppo debole per
riuscire a trattenerla.
-
“ Sana, non andartene! Ti prego!”
–
Ma lei continuava a
camminare, ancora quel sorriso amaro dipinto sulle labbra. Sembrava che
l’oscurità stesse piombando lenta nella stanza. Il
suo volto era già nell’ombra.
Confuso e disorientato,
in un ultimo gesto disperato, provai ad alzarmi, ignorando il dolore
lancinante della ferita.
Stesi il braccio nella
sua direzione…
- “ Sana! ”
–
Mi risveglio di soprassalto, spalancando gli occhi.
Le pareti della mia camera tornano al loro posto, la luce grigia e
smorta filtra attraverso le imposte della finestra come ogni mattina.
Il braccio al di là del lenzuolo è teso
verso l’alto, ad afferrare l’aria sopra di me.
Lentamente, come se mi provocasse di nuovo dolore, lo abbasso sopra le coperte, immobile.
Mi metto a sedere con fatica, lo sguardo attirato dalla luce verdognola
della sveglia sul comodino.
Le cinque del mattino.
Con un sospiro mi prendo la testa fra le mani, appoggiando la fronte
sulle ginocchia scoperte.
Era un sogno.
Un altro maledetto
sogno.
Con le mani che ancora tremano, mi avvicino alla finestra, aprendola
con calma.
Un’ alba dai colori smorti ricambia il mio sguardo, mentre
l’aria frizzantina del primo mattino mi colpisce
impietosa.
È ciò che ci vuole per riuscire a
scuotermi dagli ultimi ricordi, da quelle immagini così
realistiche.
Stavolta è stato peggio, il peggiore fra gli
incubi che in queste ultime settimane non sembrano darmi pace.
Era così vivido che, per certi versi, ho creduto di
ritrovarmi davvero in quel letto d’ospedale.
Solo quando l’ho vista, qualcosa è scattato.
La Sana del mio sogno era l’immagine della ragazzina di
tredici anni con la zazzera corta, il corpo snello, gli occhi grandi e
ridenti.
Un persona diversa dalla donna che meno di tre mesi fa riposava fra le
mie braccia dopo una notte d’amore.
Un fremito mi coglie al pensiero di quel corpo perfetto, longilineo,
dolce come solo lei può esserlo: i capelli più
lunghi, leggermente ondulati, sempre sciolti a ballarle sulle piccole
spalle; le labbra rosee e piene, gli occhi espressivi, allegri,
innamorati.
È la Sana di sempre, così piena di voglia di
vivere, sbocciata in una bellissima giovane donna.
Una donna che amo con tutto me stesso, che si è donata a me
senza riserve. Che ho allontanato per sbaglio, per
un’incomprensione assurda.
Stringo gli occhi, appoggiandomi con i gomiti sul bordo della finestra.
Non voglio crederci ancora. Al pensiero, il vuoto di questi giorni
torna a scavarmi dentro più forte e duro che mai.
Vorrei scusarmi con lei, spiegarle come sono andate veramente le cose,
ma non mi vuole ascoltare, tanto meno vedere.
Mi passo una mano sul viso, come a scacciare quell’ episodio
che ha fatto precipitare ogni cosa. L’ho sognato
così tante volte, ormai, che è diventato
impossibile rilegarlo in un angolo della mente.
Mi perseguita, senza lasciarmi un attimo di tregua: il suono del
campanello, il mio sguardo sorpreso nel trovarmi davanti Fuka in
lacrime. Il suo bisogno di confidarsi con qualcuno dopo
l’ennesimo tradimento del marito. Quel bacio inaspettato e
pieno di tristezza che non sono riuscito ad evitare.
E poi i suoi occhi, gli occhi di Sana.
La sua espressione ferita, piena di cosa?
Delusione, rabbia. Incredulità, forse.
Poi, solo frammenti concitati, dettati da un cuore pieno di paura e
impotenza.
La mia corsa nel traffico per tentare di raggiungerla, persa fra la
folla. Stare appostato sotto casa sua ad aspettarla, pronto a spiegarle
ogni cosa.
La sua ombra dietro le tende della finestra si stagliava nitida, mentre
la Signora Kurata giurava che non era in casa.
Solo quando “Occhiali da sole” mi ha intimato di
andarmene prima di chiamare la polizia, mi sono dovuto arrendere.
Il vento che mi sfiora la punta delle dita è terribilmente
freddo, adesso.
Mi rannicchio contro il vetro della finestra, la fronte appoggiata al
muro, gli occhi chiusi per non vedere più niente.
Prendo due bei respiri, prima di voltarmi e chiudere la finestra.
Rimango a guardare fuori per un altro po’, finché
il primo sole del mattino non colora di arancione i tetti del vicinato.
Sono così concentrato sui profili degli edifici, i pensieri
persi su ricordi troppo dolci e amari, che in un primo momento non ci
faccio caso.
Solo dopo alcuni istanti il rumore del telefono al piano di sotto
sembra rimbombare tra le mura silenziose di questa casa.
Sobbalzo dalla sorpresa, guardando subito verso l’orologio:
le cinque e mezzo.
Chi può essere a quest’ora?
Un fiotto di speranza mi fa sobbalzare, mentre senza che me ne renda
conto, mi trovo già a correre e inciampare per le scale.
Con il fiatone, riesco ad agguantare la cornetta prima degli ultimi
squilli, le mani che iniziano a tremare per lo sforzo di contenermi.
- “ Pronto? Qui casa Hayama,
chi parla?” –
Tento di schiarirmi la voce impastata dal sonno, mentre il
cuore prende a battere più forte ogni secondo che passa.
- “ Hayama? Sono la madre di
Sana”-
Il sangue si gela nelle vene, mentre mille domande prendono a
vorticarmi in testa nel giro di mezzo secondo. Perché
è sua madre che chiama? Che le sia successo qualcosa?
La presa sul telefono si fa più salda, le nocche bianche per
lo sforzo.
- “ Signora Kurata, che cosa
c’è? Perché mi chiama a
quest’ora? Sana st..?”-
Deglutisco, non appena mi rendo conto che al di là
del filo, la madre di Sana sta piangendo sommessamente, come a
nascondere qualcosa. Qualcosa di duro e pesante, ne sono certo.
- “ Scusami Hayama, forse non
ho fatto bene a chiamarti. Ma ormai sei l’unico che ci
può riuscire, a cui può dare ascolto. Devi fare
in fretta…”-
La testa gira a vuoto, le mani tremano per la paura della frase che
verrà. Rimango in silenzio, aspetto con ansia, inizio a
preparare il cuore per ciò che sentirò fra poco.
Ma quando la voce strozzata della Signora Kurata riprende a parlare
dall’altro capo, capisco che non sempre si può
essere preparati per certe cose, non sempre si riesce ad attutire il
colpo all’anima che ne deriva.
Un ultimo battito, la cornetta che cade a terra con un tonfo.
E solo quelle parole, nel silenzio opprimente dell'alba.
- “ Sta
partendo, Akito. “-
Piccola nota al capitolo:
L'episodio che apre il capitolo si riferisce al momento in cui, nel manga, Akito viene ferito da un suo compagno di scuola ed è costretto a volare in America per curarsi. C'è pure la scena in cui Sana va a trovare Akito in ospedale, qui trattata in maniera un po' più personale.
Angolo Autrice:
Prima cosa, mi scuso subito del ritardo di questi giorni. Avrei dovuto
pubblicare lunedì come stabilito, ma ho avuto dei problemi
con l'html che sono riuscita a risolvere solo oggi.
Scusate l'attesa, cercherò di evitare in futuro!^^''
Secondo, voglio ringraziare tutti coloro che hanno letto il primo
capitolo, che hanno aggiunto la storia fra i preferiti/ seguiti e
ricordati, e in particolare un caloroso abbraccio virtuale alle due
ragazze che hanno lasciato un commento al primo capitolo:
- sailorm:
Benvenuta!Ti ringrazio per i complimenti, sono felice che la mia storia
ti interessi e, sì, consiglio spassionato da autrice a
lettrice: armati di una bella scatola di fazzoletti, sono famosa per il
mio sadismo nel batocchiare i miei poveri personaggi,ahah!:D Un
abbraccio, e Grazie!
- Bettinellina:
Benvenuta anche a te!Come già detto, ti consiglio di armarti
di dosi industriali di fazzoletti perché per la povera Sana
quello era solo l'inizio,ahimé!Ti ringrazio per i
complimenti, cercherò di aggiornare sempre con
regolarità per non deludervi,promesso!Un abbraccio, Grazie
ancora!
Bene, per il momento vi lascio!
Ci vediamo lunedì prossimo col prossimo aggiornamento!
Baci!
StilledAnima
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