Beautiful Disaster

di StilledAnima
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Boulevard Of Broken Dreams ***
Capitolo 2: *** You're burning up my dreams ***
Capitolo 3: *** Last chance for one last dance ***
Capitolo 4: *** Qualcosa che non c'è ***



Capitolo 1
*** Boulevard Of Broken Dreams ***


Questa storia è dedicata a una parte di me che se n’è andata troppo presto.
Mi manchi e sei con me, donna. Sempre.






_Beautiful Disaster -


Di StilledAnima





“My shadow's the only one that walks beside me
My shallow heart's the only thing that's beating
Sometimes I wish someone out there will find me
                       'Til then I walk alone… "

( Boulevard Of Broken Dreams, Green Day )





 (Pov Sana)




Quand’è che ho cominciato ad abbandonarmi così al sonno?

È davvero possibile che un tempo fossi sempre piena di energia e completamente sveglia?

La ragazzina dai capelli bizzarri che ruotava attorno agli altri come un vulcano d’allegria, che riusciva a sorridere e cantare persino nei momenti meno indicati.

Testarda e determinata, non si abbatteva facilmente di fronte alle prime difficoltà che incontrava sul suo cammino…

Un sospiro, uno dei tanti che grava su questo silenzio pieno di parole non dette.



Che ne è adesso, di quella bambina?


Quando i suoi sogni colorati si sono spezzati sul vetro spesso di una realtà così in bianco e nero?



Un sorriso amaro, un respiro che si spezza, la consapevolezza di una verità che non può più cambiare, ormai.

Mi stringo fra le braccia in un moto di protezione, come se il calore di questo abbraccio improvvisato potesse lenire un poco il vuoto che appesantisce il cuore.

 E non riesco a fermarla, forse non voglio. Scende giù, traditrice come le altre prima di lei. Un solco umido si fa strada sulla mia guancia. Raggiunge il mento fermandosi indecisa finché, spinta dal dolore, sia lascia cadere nel vuoto.


Opporsi è diventato impossibile.


 Il vento si alza leggero scompigliandomi i capelli, regalandomi un attimo di lucidità in più.

Solo allora ricordo dove sono e che ho poco tempo. Alzo di nuovo lo sguardo, soffermandomi su quella casa.

 La sua casa.

Perché sono venuta qui?  È l’alba, tutte le imposte sono ancora chiuse. Corro persino il rischio di arrivare in ritardo, di perdere il volo.

Eppure, eccomi davanti a questo cancello.

 Qui dove tanti anni fa, da ragazzini, l’ho riaccompagnato per non lasciarlo da solo, con la febbre. Si sorreggeva a me senza forze, caldo e sfinito. Ancora non ci conoscevamo veramente.

 Ancora non potevo sapere quanto quel bambino scorbutico e introverso sarebbe diventato importante per me.



 Alzo una mano, tentando di scacciare quei pensieri che si affacciano dolorosi, allontanandoli come se fossero nell’aria sopra di me. Basta, non posso tornare indietro adesso.

Che cosa credevo di trovare, poi? Sono due mesi che non lo vedo, due mesi che mi nascondo ogni volta che mi viene a cercare, facendo finta di ignorare quella sagoma familiare stagliata dietro le tende del salotto.

Mi ha aspettata tutto questo tempo. Con quegli occhi ambrati duri e immoti piantati in alto, a seguirmi in ogni mio spostamento.

Non è stato facile resistere all’impulso di piombare fuori sotto la pioggia e stringerlo a me per dimenticare tutto. Aggrapparsi al suo petto e chiudere gli occhi su quell’immagine che in questi mesi è stata il mio tormento, il mio incubo costante.

Strizzo gli occhi, so che sta per arrivare come ogni volta che i miei pensieri tornano al passato.

 Ed eccola, forte e spietata come un colpo di fucile.

 Come la prima volta, forse anche peggio: abbracciati l’uno all’altra su quel divano, le dita perse ad accarezzarsi. Quel bacio che non era per me e che dato a lei faceva ancora più male.

 Ancora mi stupisco di come sono riuscita a farcela. Non so dove ho trovato la forza di urlare e di scappare da quella casa. Ricordo solo le sue grida, il mio nome che si perdeva nel rumore del traffico, la gente ignara che spintonavo durante la mia corsa disperata.

 Tutto, pur di lasciarmi dietro quel momento.


Il vento si rialza leggero, fa danzare in alto le ciocche dei miei capelli castani. La sua finestra deve essere quella in alto a destra.

È più forte di me, non ce la faccio.

- Akito…-

Il suo nome esce dalla labbra, ma è appena più che un sussurro.

Come se potesse sentirmi, come se potesse rispondermi.

Rimango per un attimo incerta davanti a quella casa silenziosa, la mano sul cuore chiusa a pugno. Un lieve pizzicore mi fa prudere le dita, mentre lacrime di rabbia si vanno ad aggiungere a quelle di dolore appena versate.

Dannazione!

 Quanto avrei voglia di picchiarlo, di suonargliele in testa col mio fedele martelletto di plastica. Urlargli che è uno stupido, che ha rovinato tutto, che buttare al vento anni e anni di amore è uno spreco mostruoso. Poterlo colpire in pieno viso, fargli male, graffiarlo, riversare su di lui anche solo la metà di quello che sto provando.

E soprattutto, guardarlo negli occhi e urlargli che lo amo, che gli voglio bene, che magari col tempo riuscirò a perdonarlo.

Che, comunque vada, voglio che sia felice…

Improvvisamente, una mano calda e rassicurante si posa sulla mia spalla, un tocco leggero che mi scuote dalle mie riflessioni.

 - “ Sana, mi dispiace, ma dobbiamo andare. Il tuo aereo parte tra venti minuti.”-

Rei, attraverso i suoi occhiali da sole, mi sorride ingenuamente.

Cerco di riprendermi, lo guardo appena con gli occhi lacrimanti e il naso arrossato.  So che era contrario al fatto di passare davanti a questa casa, prima di partire. Non gli è mai andata a genio la mia relazione con Akito, sin da quando eravamo a scuola insieme. Ma non ha fatto una piega, non una domanda. Semplicemente ha capito il mio desiderio impellente e mi ha scortata come ha sempre fatto, non mi ha lasciato sola a me stessa.

E di questo non posso far altro che essergliene grata.

- “ Va bene. Credo di essere pronta…”-

Sospiro piano, alzando di nuovo gli occhi verso quella finestra, mentre il mio manager si fa rispettosamente indietro, rientrando in macchina e lasciandomi al mio addio solitario.

Chiudo gli occhi, strizzandoli sino a confortarmi di quelle ombre scure dietro le palpebre.

Non voglio più vedere, non ha più senso ormai.

Perché non c’è rimasto più niente da vedere. Sogni infranti che non hanno spessore.
 

Inizio a correre indietro, tremando, uno scatto veloce che mi fa perdere quasi l’equilibrio.

La portiera si apre, salgo in macchina imponendomi di non lanciare un’altra singola occhiata dietro di me.

Sarebbe più doloroso. Un taglio netto è la scelta migliore.

 La macchina parte, gratta nella sgommata che la lancia in avanti. è un attimo di debolezza che non riesco ad arginare. Mi volto velocemente indietro, il tempo necessario per vedere quella casa allontanarsi e sparire del tutto dietro la curva.


Poi niente. Non vedo più niente.

Sprofondo così nelle poltroncine della macchina. Provo ad affondarci, caderci dentro. Istintivamente porto le mani ad appoggiarsi sul mio ventre, come a custodirlo.

Il mio dono prezioso che cresce a riparo della tempesta. Lo accarezzo piano, con dita tremanti, il cuore colmo di gioia e pena.

Rei, gettando un’occhiata nello specchietto retrovisore della macchina, si accorge di quel mio gesto.

 - “ Sana…”- La sua voce si incrina leggermente. - “ Sei davvero sicura di quello che stai facendo? Los Angeles non è vicina e nelle tue condizioni faresti meglio a non partire. Sono stati mesi difficili, e anche se Naozumi da bravo amico si è offerto di darti una mano con il trasloco, sarebbe meglio rinunciare, non pensi? Tua madre è preoccupata per te. “-

 Mi lancia uno sguardo dolcissimo, deciso, difficile da ignorare.

 - “ Anch’io… Anch’io sono preoccupato per te.”-

Solo con molta fatica riesco a impormi di non piangere di nuovo. Mi allungo dietro di lui, sfiorandogli appena una guancia e guardandolo con tenerezza.

 - “ Non lo so, Rei, se ne sono sicura. In questo momento non ho la certezza di niente. Ma ho assolutamente bisogno di lasciarmi tutto alle spalle, di dimenticarlo per quanto sarà possibile. Non riesco ad andare avanti così, con tutta questa tensione”-

Carezzo con leggerezza il ventre, guardandolo con amore, pensando a quel bambino che è dentro di me e che già amo più della mia vita.

- “ Non ho avuto modo di dirgli come stanno le cose, ma forse è meglio così. Se sapesse delle mie condizioni, non mi lascerebbe andare per niente al mondo. Ma non voglio che mi stia accanto solo perché deve, perché porto in grembo suo figlio. Non sarebbe felice e questo non è quello che voglio per lui. Né per me”-

Sto per perdere il controllo, lo sento. Mi fermo per riprendere fiato e cercare di calmarmi. Le parole mi escono strozzate, un fiume in piena che riesco a gestire con difficoltà.

- “ Ma voi non dovete preoccuparvi. Me la caverò, come ho sempre fatto. Farò il possibile per stare bene, promesso.”-

Lascio cadere la mano e mi avvicino al finestrino, ignorando il riflesso pallido del mio viso. Dopo alcuni minuti di respiro affannato, cerco di concentrarmi e mi sforzo di parlare ancora. C'è ancora qualcosa da aggiungere al resto.

 - “ Rei? “-

Il mio manager si volta verso di me, in attesa.

- “ Grazie per avermi accompagnata e per non avermi chiesto niente. Per me era importante. Sei un vero amico.”-

 La sua espressione si addolcisce ancora, mentre torna a guardare la strada. - “ A volte non ci sono domande, così come a volte non ci sono risposte. Non preoccuparti. Piuttosto…”-

 Torna a fissarmi seriamente, il viso concentrato in un’espressione professionale e attenta.

- “ Mi scusi se per oggi faccio a meno di questi? “- E con un gesto veloce della mano, si toglie gli occhiali da sole e me li porge gentilmente, ignorando il mio stupore davanti a quel viso così sorprendentemente bello.

- “ Credo che, ora come ora, facciano più comodo a te che a me.”-

 Si volta così, fischiettando, la mano artigliata sul volante che trema leggermente, lo sguardo deciso ad ignorare lo specchietto sopra la sua testa.

 Forse perché non vuole vedere, magari perché con la sua attenta dolcezza vuole lasciar spazio al mio dolore e non al suo. Ma il suo gesto, unito alla stanchezza di questi interminabili giorni, mi piega come non mai.

Rannicchiata verso la portiera, nascosta dalle maniche del caldo cappotto che indosso, scoppio a piangere silenziosamente senza riuscire a frenarmi.
E mentre le lacrime si addensano e scendono a rigarmi le guance, solo allora mi concedo quel tanto temuto addio.

Solo allora riesco ad aggrapparmi a quella consapevolezza e a mormorarla piano dentro di me:

 Addio, Akito Hayama.








Angolo autrice:

Solo poche parole.

Voglio ringraziare tutti coloro che hanno letto questo primo capitolo, in special modo un ringraziamento speciale a coloro che l'hanno riletto per la seconda volta. Mi sono decisa a ripubblicare questa storia proprio per coloro che l'avevano seguita con così tanta passione e a cui avevo negato un continuo.
Stavolta sono ben decisa a portare in fondo il mio compito, non lascerò storie incomplete, lo prometto.
Mi sono presa del tempo per rileggere i miei appunti, correggerli e riscriverli e la storia( almeno su carta) è stata ultimata.
Troverete i nuovi aggiornamenti ogni lunedì.
Per il resto, Grazie ancora del sostegno che mi avete dato. Beautiful è tornata soltanto per merito vostro.
Un abbraccio, a presto.

StilledAnima( alias, la vecchia "Speednewmoon") 

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Capitolo 2
*** You're burning up my dreams ***








     _Beautiful Disaster -

     di StilledAnima









" Where are you and I'm so sorry
I cannot sleep I cannot dream tonight
I need somebody and always
This sick strange darkness
Comes creeping on so haunting every time..."

( I Miss You, Blink 182)






( Pov Akito )

La luce in quella stanza era di un bianco abbagliante, fastidioso.  Mi avevano sistemato su un letto duro e irregolare, con i cuscini piatti e bitorzoluti tutti intorno.
Attento ad evitare strappi o movimenti troppo bruschi, cercai di mettermi a sedere, la benda legata sotto la spalla che mi impediva di riposare.
Il braccio pulsava terribilmente. Potevo sentire la carne sotto la fasciatura animarsi di vita propria, un continuo rigonfiamento dove risuonava lontano il battito del cuore.
A occhi chiusi percepivo il lento – bip!- delle macchine ospedaliere, l’ago della flebo che pungeva opprimente dentro di me.

Non mi accorsi della porta della camera che si apriva lentamente, dei passi che si avvicinavano al letto.

Mi sorreggevo la fasciatura appoggiato contro uno di quegli scomodi cuscini, e pensavo.
Il dottore era stato chiaro: il polso difficilmente sarebbe tornato quello di un tempo, i legamenti sarebbero rimasti rigidi e avrei fatto fatica anche a compiere gesti elementari quali reggere una penna o provare a mangiare.
L’unica soluzione era la clinica di Atlanta, in America.

Mi lasciai sfuggire un sospiro,  le palpebre chiuse su di un futuro che non volevo neanche immaginare.
Sapevo bene che cosa sarebbe successo.
Partire significava lasciare casa, i miei amici…
Significava lasciare lei.
 
Strinsi un lembo del lenzuolo con la mano, artigliandolo.
  Non osavo pensarci.
Ero certo che non ce l’avrei fatta, non senza il suo aiuto. La lontananza sarebbe stata insopportabile, anche se avremmo cercato ogni espediente possibile per  tenerci in contatto.
Ma telefonate e lettere non possono colmare il vuoto del cuore, non sono sufficienti per sentirsi vicini.
Non bastano mai…


-    “  Akito…” -  


Qualcosa scosse il silenzio, ma all’inizio non mi resi conto di che cosa.
Non aprii gli occhi, avevo troppa paura di far svanire quella tenera illusione.

Il mio nome.  Il mio nome pronunciato da lei.  

Decisi di rischiare.

Mi voltai lentamente verso la porta e la vidi appoggiata alla tenda del corridoio.
I capelli raccolti in due code laterali, il giacchetto appoggiato sulle piccole spalle, i candidi denti a tormentare con ansia il labbro inferiore.
Mi fissava, gli occhi gonfi e pieni di lacrime che le tracciavano in silenzio le candide guance.


Non ci fu un momento preciso, un attimo in cui stabilimmo di incontrarci a metà strada.

Sentii le sue braccia chiudersi attorno alle mie spalle, il suo corpo tremare e aggrapparsi al mio. Allungai il braccio sano per avvicinarla a me e coccolarla sul mio petto.

La camera d’ospedale sembrò sparire in un bolla d’ovatta, tutto il dolore patito dopo l’intervento acquietarsi  e passare.

Non c’era altro, solo quel dolce peso a gravare sulle mie ossa stanche.  Solo quel calore, quel profumo delicato di pelle e lacrime, che era tutto ciò di cui avevo bisogno per continuare a respirare.

Piccoli singhiozzi trattenuti a stento mi solleticavano il collo, la mano che la stringeva a me persa tra quei capelli castano ramati.
Cercai di calmarla, di cullarla con tenerezza  accettando il suo sfogo.

-    “ Sana” -  

Il cuore le batteva troppo velocemente per non poterlo udire.

-    “ Sana”-

Cercai il suo viso, portando due dita a sollevarle il mento. Volevo vederla sorridere, dimenticarsi delle lacrime.

-    “ Sana”-


Alzai gli occhi su di lei e ne rimasi sconvolto.

Non era quel sorriso che conoscevo  e che amavo a piegarle le labbra, ora.

C’era qualcosa di diverso, di stonato: un calore che se ne era andato ancora prima di illuminarle gli occhi, un’ombra scura che rimaneva agli angoli e che pesava più di tutto il resto.

Poi accadde tutto molto velocemente.

Sana si districò dal mio abbraccio, arretrando verso la porta, guardandomi con dolore.

Se ne stava andando.

-    “ Sana, aspetta!” –

L’urlo che uscì dalle mie labbra era rauco e flebile, troppo debole per riuscire a trattenerla.

-    “ Sana, non andartene! Ti prego!” –

Ma lei continuava a camminare, ancora quel sorriso amaro dipinto sulle labbra. Sembrava che l’oscurità stesse piombando lenta nella stanza. Il suo volto era già nell’ombra.
Confuso e disorientato, in un ultimo gesto disperato, provai ad alzarmi, ignorando il dolore lancinante della ferita.
Stesi il braccio nella sua direzione…

-    “ Sana! ” –
Mi risveglio di soprassalto, spalancando gli occhi.
Le pareti della mia camera tornano al loro posto, la luce grigia e smorta filtra attraverso le imposte della finestra come ogni mattina.
Il braccio al di là del lenzuolo è teso verso l’alto, ad afferrare l’aria sopra di me.
Lentamente, come se mi provocasse di nuovo dolore, lo abbasso sopra le coperte, immobile.
Mi metto a sedere con fatica, lo sguardo attirato dalla luce verdognola della sveglia sul comodino.
Le cinque del mattino.
Con un sospiro mi prendo la testa fra le mani, appoggiando la fronte sulle ginocchia scoperte.

Era un sogno. Un altro maledetto sogno.

Con le mani che ancora tremano, mi avvicino alla finestra, aprendola con calma.
Un’ alba dai colori smorti ricambia il mio sguardo, mentre l’aria frizzantina del primo mattino mi colpisce impietosa. 

È  ciò che ci vuole per riuscire a scuotermi dagli ultimi ricordi, da quelle immagini così realistiche.
Stavolta  è stato peggio, il peggiore fra gli incubi che in queste ultime settimane non sembrano darmi pace.
Era così vivido che, per certi versi, ho creduto di ritrovarmi davvero in quel letto d’ospedale.
Solo quando l’ho vista, qualcosa è scattato.

La Sana del mio sogno era l’immagine della ragazzina di tredici anni con la zazzera corta, il corpo snello, gli occhi grandi e ridenti.  
Un persona diversa dalla donna che meno di tre mesi fa riposava fra le mie braccia dopo una notte d’amore.

Un fremito mi coglie al pensiero di quel corpo perfetto, longilineo, dolce come solo lei può esserlo: i capelli più lunghi, leggermente ondulati, sempre sciolti a ballarle sulle piccole spalle; le labbra rosee e piene, gli occhi espressivi, allegri, innamorati.

È la Sana di sempre, così piena di voglia di vivere, sbocciata in una bellissima giovane donna.
Una donna che amo con tutto me stesso, che si è donata a me senza riserve. Che ho allontanato per sbaglio, per un’incomprensione assurda.

Stringo gli occhi, appoggiandomi con i gomiti sul bordo della finestra.
Non voglio crederci ancora. Al pensiero, il vuoto di questi giorni torna a scavarmi dentro più forte e duro che mai.
Vorrei scusarmi con lei, spiegarle come sono andate veramente le cose, ma non mi vuole ascoltare, tanto meno vedere.
Mi passo una mano sul viso, come a scacciare quell’ episodio che ha fatto precipitare ogni cosa. L’ho sognato così tante volte, ormai, che è diventato impossibile rilegarlo in un angolo della mente.
Mi perseguita, senza lasciarmi un attimo di tregua: il suono del campanello, il mio sguardo sorpreso nel trovarmi davanti Fuka in lacrime. Il suo bisogno di confidarsi con qualcuno dopo l’ennesimo tradimento del marito. Quel bacio inaspettato e pieno di tristezza che non sono riuscito ad evitare.
E poi i suoi occhi, gli occhi di Sana.  
La sua espressione ferita, piena di cosa?
Delusione, rabbia. Incredulità, forse.

Poi, solo frammenti concitati, dettati da un cuore pieno di paura e impotenza.
La mia corsa nel traffico per tentare di raggiungerla, persa fra la folla. Stare appostato sotto casa sua ad aspettarla, pronto a spiegarle ogni cosa.
La sua ombra dietro le tende della finestra si stagliava nitida, mentre la Signora Kurata giurava che non era in casa.
Solo quando “Occhiali da sole” mi ha intimato di andarmene prima di chiamare la polizia, mi sono dovuto arrendere.

Il vento che mi sfiora la punta delle dita è terribilmente freddo, adesso.

Mi rannicchio contro il vetro della finestra, la fronte appoggiata al muro, gli occhi chiusi per non vedere più niente.  Prendo due bei respiri, prima di voltarmi e chiudere la finestra.
Rimango a guardare fuori per un altro po’, finché il primo sole del mattino non colora di arancione i tetti del vicinato.
Sono così concentrato sui profili degli edifici, i pensieri persi su ricordi troppo dolci e amari, che in un primo momento non ci faccio caso.
Solo dopo alcuni istanti il rumore del telefono al piano di sotto sembra rimbombare tra le mura silenziose di questa casa.
Sobbalzo dalla sorpresa, guardando subito verso l’orologio: le cinque e mezzo.
Chi può essere a quest’ora?

Un fiotto di speranza mi fa sobbalzare, mentre senza che me ne renda conto, mi trovo già a correre e inciampare per le scale.
Con il fiatone, riesco ad agguantare la cornetta prima degli ultimi squilli, le mani che iniziano a tremare per lo sforzo di contenermi.
-    “ Pronto? Qui casa Hayama, chi parla?” –

Tento di schiarirmi la voce impastata dal sonno,  mentre il cuore prende a battere più forte ogni secondo che passa.
-    “ Hayama? Sono la madre di Sana”-

Il sangue si gela nelle vene, mentre mille domande prendono a vorticarmi in testa nel giro di mezzo secondo. Perché è sua madre che chiama? Che le sia successo qualcosa?
La presa sul telefono si fa più salda, le nocche bianche per lo sforzo.

-    “ Signora Kurata, che cosa c’è? Perché mi chiama a quest’ora? Sana st..?”-

Deglutisco, non appena  mi rendo conto che al di là del filo, la madre di Sana sta piangendo sommessamente, come a nascondere qualcosa. Qualcosa di duro e pesante, ne sono certo.

-    “ Scusami Hayama, forse non ho fatto bene a chiamarti. Ma ormai sei l’unico che ci può riuscire, a cui può dare ascolto. Devi fare in fretta…”-

La testa gira a vuoto, le mani tremano per la paura della frase che verrà. Rimango in silenzio, aspetto con ansia, inizio a preparare il cuore per ciò che sentirò fra poco.
Ma quando la voce strozzata della Signora Kurata riprende a parlare dall’altro capo, capisco che non sempre si può essere preparati per certe cose, non sempre si riesce ad attutire il colpo all’anima che ne deriva.

Un ultimo battito, la cornetta che cade a terra con un tonfo.
E solo quelle parole, nel silenzio opprimente dell'alba.

-    “ Sta partendo, Akito. “-  





Piccola nota al capitolo:


L'episodio che apre il capitolo si riferisce al momento in cui, nel manga, Akito viene ferito da un suo compagno di scuola ed è costretto a volare in America per curarsi. C'è pure la scena in cui Sana va a trovare Akito in ospedale, qui trattata in maniera un po' più personale.


Angolo Autrice:


Prima cosa, mi scuso subito del ritardo di questi giorni. Avrei dovuto pubblicare lunedì come stabilito, ma ho avuto dei problemi con l'html che sono riuscita a risolvere solo oggi.
Scusate l'attesa, cercherò di evitare in futuro!^^''
Secondo, voglio ringraziare tutti coloro che hanno letto il primo capitolo, che hanno aggiunto la storia fra i preferiti/ seguiti e ricordati, e in particolare un caloroso abbraccio virtuale alle due ragazze che hanno lasciato un commento al primo capitolo:

- sailorm: Benvenuta!Ti ringrazio per i complimenti, sono felice che la mia storia ti interessi e, sì, consiglio spassionato da autrice a lettrice: armati di una bella scatola di fazzoletti, sono famosa per il mio sadismo nel batocchiare i miei poveri personaggi,ahah!:D Un abbraccio, e Grazie!

- Bettinellina: Benvenuta anche a te!Come già detto, ti consiglio di armarti di dosi industriali di fazzoletti perché per la povera Sana quello era solo l'inizio,ahimé!Ti ringrazio per i complimenti, cercherò di aggiornare sempre con regolarità per non deludervi,promesso!Un abbraccio, Grazie ancora!

Bene, per il momento vi lascio!
Ci vediamo lunedì prossimo col prossimo aggiornamento!
Baci!

StilledAnima

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Capitolo 3
*** Last chance for one last dance ***


_Beautiful Disaster -

di StilledAnima
 

 
                                                                   Alla moglia amante del viola e del nero:

 Perché per due anni ci sei sempre stata  mentre io non c’ero.








 

And I miss you
Been far away for far too long
I keep dreaming you'll be with me
and you'll never go
Stop breathing if
I don't see you anymore

On my knees, I'll ask
Last chance for one last dance

( Nickelback, "Far away" )

 
 
( Pov Akito)
 


Nei momenti in cui capisco, ho sempre paura.
Dev’essere perché finora ogni volta che ho avuto la sensazione di capire qualcuno, le cose non sono mai andate come dovevano. 
La verità è che questi  momenti potrebbero fare ancora la differenza, non c’è niente di scritto nel futuro.
Ma i miei piedi non si muovono, l’aria non arriva con regolarità ai polmoni.
L’unica cosa che riesco a fare è fissare quel telefono abbandonato sul pavimento chiedendomi se sia solo un altro brutto incubo, uno dei tanti che mi tengono compagnia quando lei non c’è.
 

Sana non può ferirmi, andarsene via così.


Non è nel suo carattere scappare di fronte a un problema, non è nella sua indole lasciarsi il passato alle spalle senza dare spiegazioni.

Deve trattarsi di uno scherzo, un’altra delle tante stramberie che quella pazza della signora Kurata ha architettato per farmi perdere il sonno.

Cerco di convincermi, di stringere i denti di fronte all’evidenza finché non mi accorgo che qualcosa comincia a cambiare. Una specie di reazione chimica su cui non ho nessun controllo: entra lenta in circolazione, pompa sangue nelle vene, fa disperdere quella patina che mi impedisce di vedere la realtà per quella che è.

L’attesa scivola via come un nastro tirato e quello che mi ritrovo davanti agli occhi è un destino talmente doloroso da mozzarmi il respiro e farmi piegare in avanti sulle ginocchia.
Come la caduta precipitosa di un fiammifero in una polveriera, il dolore di un bacio non dato, lo strappo allo stomaco di un salto vertiginoso ad alta quota.

 
Ci sono solo immagini a descrivere quest’istante,  frammenti di colore che vorticano impazziti e portano tutti ad un’unica conclusione: lo straziante suono della mancanza.


 
Mi ritrovo in strada senza accorgermene, una sciarpa legata malamente attorno al collo e le falde del cappotto a nascondere il pigiama.
Inizio a correre verso l’aeroporto, per le vie già piene dei primi pendolari mattutini e sotto gli ultimi raggi di questa luna dai colori opachi.

Vetri, asfalto, la luce del sole sulle punte più alte dei grattaceli, le mie unghie infilzate a viva forza nei palmi. Non c’è altro in questa mattina di dicembre, se non la consapevolezza che questa vita sta correndo troppo in fretta persino per me.

Il fianco inizia a pulsare per lo sforzo proprio nel momento in cui metto un piede in fallo e crollo in avanti, le mani che si sbucciano nel tentativo di frenare la caduta.
È come se il peso del mondo si riversasse in tempesta sopra di me, impedendomi di riacquistare lucidità e rigando le mie guance con le prime stille salate di quel dolore a stento trattenuto.
Perché le sento arrivare, quelle ondate di sofferenza. Strisciano sotto pelle, silenziose, aggirano il cuore e mi cementano su questo marciapiede senza darmi la possibilità di alzarmi.

Ho perso, non riuscirò a fermarla neanche stavolta.

Precipito giù, le dita ad artigliare la stoffa dei pantaloni, il petto scosso dai primi singulti. L’aria mattutina si trasforma improvvisamente in un vento gelido che tocca le ossa come neve, i pallidi colori che si perdono nel grigiore di una speranza che se n’è andata e non tornerà più.

Non c’è, è andata via.

Persino i passanti diventano figure sfocate e distratte in continua lotta con il tempo, tutti troppo impegnati con le loro vite per fermarsi ad ascoltare il rumore di quel  vuoto tra le costole.  Riesco a rimettermi in piedi a fatica, le dita a cancellare quelle prime tracce di debolezza quando all’improvviso riesco a distinguere un volto tra i tanti. Non so perché colgo quell’espressione, non so perché tra le tante persone che affollano questa strada  mi incanto a fissare proprio quei grandi occhi.

C’è una bambina sul seggiolino posteriore di una bicicletta ferma al semaforo. Avrà più o meno cinque anni e, del tutto indifferente al caos che la circonda, sposta la sua attenzione su ogni oggetto in movimento, l’aria trasognata di chi sta seguendo qualcosa di bello.

È un attimo, e poi i suoi occhi incontrano i miei per la prima volta.

Uno sguardo discreto, incredibilmente adulto e disincantato, gli occhi di una bambina abituata a guardare il mondo dalla sua piccola sfera personale.
Qualcosa di insolito inizia a pizzicare i bordi ingialliti dei miei ricordi e in un attimo lungo un sospiro mi rendo conto di dove ho già visto quello sguardo, dove ho già intravisto quella franchezza ingentilita da un sorriso.
Era un altro viso, erano capelli lunghi spettinati dal vento, quella gioia di vivere che così spesso le avevo invidiato.


“- Allora uccidimi.
-Come si può chiedere una cosa del genere? È così stupido!
-Non hai mai voluto morire?
-No, mai!”

 
Non so cosa sia la speranza, ma ammesso che da qualche parta esista, come qualcosa di luminoso e ancora intatto, capisco solo che qui la sua energia non potrebbe respirare. Non c’è in questa città e nemmeno negli occhi delle persone che vedo per strada. Non ce n’è la minima traccia alla televisione o nelle vetrine dei negozi, neppure nel mondo dove sono cresciuto.

L’unica speranza che mi è rimasta, la sola vera luce in fondo al tunnel  che mi resta, sta per andarsene con un aereo internazionale.
 
E io non sono ancora disposto a lasciarla volare via da me.
 

Come un automa, ricomincio a correre  nel traffico di Tokyo sollevando grida e insulti ogni volta che travolgo qualcuno. Non mi fermo, inciampo, prendo vie laterali e scorciatoie per evitare le lunghe file di auto. Proprio quando sento di nuovo le forze venire meno, l’entrata del aeroporto si apre davanti a me come un porto di mare e vengo risucchiato dalla folla in partenza.

Mi precipito verso le lunghe code, ignorando le occhiate curiose dei turisti e le risate di qualche gita di passaggio.

“Sana!”

Qualche donna si volta, probabilmente richiamata dal suono dello stesso nome. Ma solo lei è l’unica che voglio, l’unica che cerco e non riesco a trovare. Salgo a due a due i gradini della scala mobile, correndo come un pazzo verso i terminal.

“Sana!Sa…”

L’urlo mi muore fra le labbra non appena riesco a scorgerla fra questo fiume di persone.
Se ne sta aggrappata alle spalle di Occhiali da Sole dandomi le spalle, i lunghi capelli liberi sulla schiena. Non ci sono parole per descriverla, chiusa in quell’abbraccio di affetto con le guance rigate di lacrime: è solo la cosa più bella che abbia mai visto in tutta la mia vita.
Porta degli occhiali che avevo sempre visto su di un viso diverso e questo mi fa spostare l’attenzione sul suo manager : lo sguardo triste, quelle lacrime silenziose senza un perché.

Non riesco a capire e non riesco neppure a fare un altro passo verso di loro. C’è qualcosa di sbagliato in quella stretta, qualcosa di definitivo che mi fa paura.
 

“Avviso per il volo Tokyo- Los Angeles: preghiamo i gentili passeggeri di affrettarsi al gate numero sette per l’imbarco. Grazie per l’attenzione, il personale vi augura un buon viaggio.”

 
Le parole che feriscono di più sono sempre quelle che non si riescono a dire.

Non  ci sono spazi bianchi in quelle dita che si cercano con tenerezza, fra quelle lacrime che cadono giù insieme a tante altre.
Solo quando Sana si separa con un ultimo abbraccio dal suo accompagnatore riesco a percepire quella scossa nell’aria.

Arriva con la forza di un proiettile, come quell’ultimo sguardo lanciato indietro.

È il mio cuore ad udire per primo ogni sillaba della parola “fine”, pur essendo sordo.
Quattro lettere piombate su un pavimento come schegge di vetro in frantumi, noncuranti dei dolorosi sentimenti che risvegliano dal loro letargo.
Questo non è un arrivederci, un saluto affrettato prima di un breve viaggio.
È molto peggio, inqualificabile per il male che fa: non ci sono passi indietro, nessuna possibilità di replica.
È dentro quello sguardo, in quelle lacrime accennate, in quello spettro di sorriso…
 

A volte vorrei tanto proteggerti da te stessa. Ma vedi, il fatto è che da te non so difendermi nemmeno io.
 
 
È un addio.
 
 
In un attimo mi lancio in avanti con un scatto, cercando di farmi strada tra la folla impassibile.

“ Sana!”

Urlo con tutto il fiato in gola, ma la voce si perde, coperta dal baccano.

“Sana, no!”

Riesco ancora a vederla, ma lei non può sentirmi. Continua  a camminare lenta, le mani artigliate sui gomiti e lo sguardo basso perso nel vuoto.

“Sana, ti prego!”

Cerco di attirare la sua attenzione sbracciandomi, continuando a gridare, ma è tutto inutile. Lei non reagisce, non si muove: si fa portare via dalla calca di persone in partenza, lasciandosi guidare dalla fretta degli altri. Solo una volta accenna uno sguardo indietro, ma è troppo debole per poter fare la differenza.
 
Il tempo di un sospiro, un battito di ciglia e la sua figura di spalle viene sommersa dalla folla.


 
Sana non c’è più.
 



Il sipario si chiude con un sibilo, veloce proprio come di solito si apre, e lascia un sogno intatto al suo cospetto.
Un sogno meraviglioso che porta il nome di lei.

Ed è proprio allora che me ne accorgo.

A volte quando si entra in un labirinto come questo  tutto appare lontano ed esteriore, e gioia e dolore svaniscono insieme al senso della realtà.
Chiudo gli occhi, scivolando lentamente a terra, e nel momento in cui poso il palmo della mano sul volto sento uno scroscio caldo di lacrime attraversare il cielo dentro di me.

È solo l’inizio, ma va bene lo stesso.
Rimango immobile, sdraiato su un fianco mentre la gente attorno a me comincia a notarmi.
 

“Qualcuno chiami un’ambulanza, presto!”
 

Mani preoccupate si avvicinano, una voce calda e professionale cerca di farmi rialzare.
Riesco ad aprire a fatica gli occhi, focalizzando l’attenzione sulla persona accanto a me.
Occhiali da Sole è inginocchiato al mio fianco, in silenzio, e continua a stringere la mano che avevo abbandonato inerte nella sua.  La giacca grigia del completo spiegazzato, la barba appena accennata, lo sguardo stravolto che non si separa dal mio: sta lì, immobile, una muta consapevolezza sul fondo di quegli occhi scuri.

Forse i fantasmi del passato stavano dando la loro ultima dimostrazione di forza.
 
Chiudo di nuovo gli occhi, abbandonandomi sul pavimento proprio nel momento in cui le ruote di una barella si fermano sfrigolando accanto a me.

In quell’attimo lungo un battito accelerato, spero di poter raggiungere un altrove qualsiasi.
Tutto pur di non rimanere ancorato sul questo cemento, a respirare quel mondo storto.
Nel cuore, solo un cielo vuoto.
Un cielo privo del suo sole che cerca tra le stelle un calore che ormai non troverà più.
 

 
 
“ Il treno passa una volta sola, e io l’ho perso.
Mi caricherò queste parole non dette sulle spalle e camminerò fin quando non sarò giunto di fronte a te.
Con il respiro mozzato, gli occhi stanchi e un sorriso sul cuore, te le scaraventerò  addosso, facendoti male.
Mi svuoterò le viscere di queste emozioni violente, che scalciano senza sosta dentro di me.
E sarà lì, in quel momento che accadrà:
Tu mi ascolterai.”
 
 
 
 
 
 
 
Piccole note al capitolo:
Ok, non mi piace. Non mi piace, non mi piace e non mi piace!Ma che posso farci, è voluto nascere così e non c’è stato versi di poterlo modificare.  Non solo perché è triste, ma soprattutto perché quando si tratta di far parlare Akito ho sempre un sacco di difficoltà. Siate spietate e fatemi sapere se sono andata un po’ troppo oltre con i pensieri del protagonista, ci tengo che i miei personaggi rimangano quanto più possibile IC.  Grazie in anticipo per la pazienza e l’aiuto!:)
Altre cose importanti:

  • Le frasi scritte in corsivo sono tutti pensieri di Akito;
  • La canzone a inizio capitolo è “Far Away” dei Nickelback e oltre ad essere una canzone stupenda, vi consiglio di metterla di sottofondo mentre leggete. A me ha dato l’ispirazione per scrivere tutto questo.
  •  Ultimo, il pezzo in corsivo dove Sana e Akito parlano della morte di lui è tratto da un episodio del manga, dove Akito porge un coltello a Sana per farsi uccidere e lei si rifiuta.
 
Angolo Autrice:
Ehm, probabilmente adesso starete lì ad architettare la morte della sottoscritta dato il mostruoso ritardo per questo capitolo( è possibile sperare in qualcosa di rapido e indolore?  vi prego, abbiate pietà!!xD ) * coff coff*
Sul serio, non ho scusanti!Ho avuto un sacco di impegni con l’università e tante altre cose, e le poche volte che mi sono messa a scrivere ho cambiato e ricambiato ottanta volte questo benedetto capitolo, una tragedia insomma!

Ma bando alle ciance, voglio ringraziare tutte le persone che in questi mesi hanno iniziato a seguire questa storia. Ringrazio chi ha letto, chi ha aggiunto Beautiful tra le fic da seguire/ricordare e tra i preferiti(addirittura? Ma io vi amo!).

E in particolare un abbraccio virtuale alle lettrici che hanno lasciato una recensione( poiché adesso il sito lo permette, risponderò a tutte voi  individualemente appena postato questo aggiornamento,promesso!):

sailorm- elenafire- Natasha- Bettinellina- Strange_ Girl.

Gentilissime, davvero!
Annuncio già da ora( e vi prego, non impugnate i forconi, please!xD) che dalla prossima settimana tornerò all’università e non potrò postare aggiornamenti prima di sabato. Cercherò di essere più costante possibile e se mi riesce, di postare anche in settimana dalla facoltà, promesso!

Un bacione a tutti,
A presto!
StilledAnima.

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Capitolo 4
*** Qualcosa che non c'è ***


_Beautiful Disaster-

      di StilledAnima

 
 

“ Chissà se quella ferita,
Chissà se poi è guarita…”
( Lampo di vita, Luca Carboni )

 
( Pov Sana )
 
Si dice che il tempo aggiusti ogni cosa, non importa quanto grosso sia il fardello che ci portiamo dentro.
I giorni scivolano via, lenti e vuoti, recando la consapevolezza che il mondo non sta fermo.
Continua a girare, dritto per la sua strada, non aspetta chi non accelera il passo.

 
Io non riuscivo a camminare, ero troppo stanca persino per quello.
Il nostro era stato un viaggio lungo e difficile, di quelli che ti lasciano sfiniti e sporchi, con la gola arsa e gli occhi arrossati.
Ogni volta ci eravamo voltati a guardarci, esausti di percorrere quella strada piena di solchi, convinti che non ci saremo mai persi.
Sapevamo esattamente dove stavamo andando, non importava quanto fosse lontano.
Lui non avrebbe lasciato la mia mano nemmeno per un attimo, era la nostra promessa.
 

Poi le sue dita si erano allentate con uno strappo improvviso e tutto aveva perso senso.
Il buio, quella gravosa solitudine, avevano preso a graffiare con amarezza il mio corpo, estraniandolo dalla realtà.
Per la prima volta nella mia vita, avevo desiderato che il mondo tacesse.

Volevo una porta chiusa, blindata, un luogo in cui sentire i miei passi frenetici vagare per la stanza.
Avrei camminato tanto in quel posto fino a non avere più il senso dello spazio, della misura, dello scorrere del tempo.

Volevo silenzio, volevo nebbia e incoscienza.

La battaglia a quel punto sembrava persa: un altro attacco e mi sarei lasciata avvolgere in un mare d'oblio e insofferenza.
L’entrata nel tunnel era un ricordo e le tenebre mi accoglievano con la gentilezza di un manto di velluto sulla pelle.
Una promessa di pace.
 
Stavo per chiudere gli occhi, abbandonata, quando un bagliore di speranza indefinito e flebile sembrò farsi spazio nel mio universo, capovolgendolo di netto in un unico istante.

Una lampada artificiale brillava fastidiosa sopra di me, ma il particolare più importante erano due piccoli pugni che si dibattevano in aria, in cerca del primo respiro.
Udii l’urlo strozzato di una vita che nasce e il torpore della sofferenza acquietarsi e passare lentamente.

Non sapevo quale strada avrei percorso d’ora in poi, ma di una cosa finalmente ero certa: adesso non sarei stata sola lungo il mio viaggio. Eravamo di nuovo in due.
 


<< È una femmina, signorina Kurata. >>
 

  
 

“ In questo lampo di vita,
Chissà se ti sei salvata?”
( Lampo di vita, Luca Carboni)

 
 


*

 
 
 
“ I’m here without you, baby
But you’re still on my lonely mind…”
( Here without You, 3 Doors Down)

                                                               



     ( Pov Akito )

Avrei voluto chiederle di restare.

Avevo trovato anche le parole giuste: erano lì, una dietro l’altra, incastrate in gola.
Le avrei detto che quando c’è un sentimento come il nostro, i problemi si possono superare. Le avrei urlato che ce l’avremmo fatta, perché entrambi siamo delle persone migliori quando siamo insieme.
Ero davanti a lei, con il cuore in mano e gli occhi sporchi d’amore.

 
Avrei voluto chiederle di restare, ma alla fine non l’ho fatto.
 

L’ho sentita scivolarmi via dalle mani come un soffio di vento e non ho potuto fare niente se non rimanere a guardare il mio mondo sgretolarsi in mille pezzi.

È davvero possibile riuscire ad odiare una persona che si è così tanto amato?
Odiarla al punto di dimenticarla, di cancellare ogni pensiero felice che ti collega a lei?

Volerla disperatamente da sentirsi consumare dentro, averla vicina solo per fissarsi meglio nella mente ogni gesto, ogni sua espressione.
Per poter conservare un sorriso e vederlo riaffiorare pochi istanti prima di addormentarsi, salutandolo di nuovo nei sogni.
 
Come posso smettere?
 
Le ginocchia sbucciate, il cuore infranto e l’orgoglio ferito.
Chi non è mai caduto, in fondo? Chi non si è mai trovato con graffi tappezzati di cerotti?
Chi non ha permesso agli altri e perché no, anche a se stesso, di prendere a pugnalate il proprio dolore?

Eppure sono ancora qui. Devo trovare la forza di rialzarmi e credo che saranno proprio le ginocchia sbucciate, il cuore infranto e l’orgoglio ferito ad aiutarmi nell’andare avanti, a diventare la persona che Sana voleva che fossi.

Ci proverò, come mi ha insegnato lei.
Lo farò per non gettare al vento questi anni di tenerezze e quelle frasi d’amore che indosserò sempre, ovunque.

Farò questo: mi chiuderò dentro il suo ricordo e butterò fuori la chiave finché non sarà di nuovo qui, con me.

Non riuscirà a convincermi ad uscire prima di quel momento.
 






“ I'm here without you baby 
But you're still with me in my dreams 
And tonight it's only you and me…
( Here without You, 3 Doors Down) 


 

 
Piccola nota al capitolo:

  • Intanto, mi preme dire che questo capitolo è soprattutto di passaggio, mi serviva un momento in cui fare il punto della situazione con i due protagonisti.
  • Le canzoni da cui ho preso le frasi sono “Lampo di vita” di Carboni e “Here without you” dei 3 doors down (consiglio spassionato da autrice a voi lettori: mettete in sottofondo la seconda delle due canzoni mentre leggete, secondo me diventa tutto più coinvolgente!)
  • Piccola curiosità: nella prima stesura di questo capitolo, Sana partoriva un bimbo di nome Asami. Ho deciso di cambiare perché ho scoperto da poco che l’autrice del manga sta disegnando una sorta di continuo di Kodomo no Omocha, “Deep Clear”, dove i nostri due amati protagonisti hanno una bambina.
  • Il titolo del capitolo è ripreso dall'omonima canzone della bravissima Elisa.
     
 
Angolo Autrice:
 
Per gli standard tartarugosi della sottoscritta, l’essere riuscita ad aggiornare in tempo e poco più che un miracolo, ancora non riesco a crederci!:D
Ho pochissimo tempo a disposizione( in teoria dovrei già essere a cena e le occhiate omicida di mia mamma non sono esattamente quel che si dice, “rassicuranti”!), per cui mi limito a ringraziarvi tutte quante per i bellissimi commenti che avete lasciato allo scorso capitolo(prometto che appena avrò un secondo in più vi risponderò una per una!)!Di questo passo altro che fontana di Trevi mi fate diventare, mannaggia a voi!xD
Un grazio di cuore anche a coloro che hanno aggiunto la mia storia tra le preferite/ricordate/seguite, troppo gentili!
 
Spero di tornare presto anche col prossimo aggiornamento, tenete le dita incrociate!
Un bacio, vi auguro un buon inizio di settimana!
A presto,
StilldAnima
 

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