Uno, due, tre, quattro. Asfodelo.

di Elos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** come sei veramente ***
Capitolo 2: *** il viaggio della madre ***
Capitolo 3: *** divenire ***
Capitolo 4: *** scorre nella famiglia ***



Capitolo 1
*** come sei veramente ***





1. come sei veramente
Giovanni Allevi



Il pianoforte era un lago di sassi neri sospesi al di sopra del riflesso bianco di una giornata nuvolosa, ogni dito una pietra lanciata a percuotere l'acqua: si allargavano cerchi di suono lento, liquido, e poi le dita erano altrove, a picchiettare nuove note in un punto solo un soffio più in là, e ancora indietro, ancora. Salivano le scale. Tre dita, cinque dita, certe volte erano tutte e dieci e certe volte non ce n'era nessuna, e quelle erano le volte in cui il suono era più profondo, silenzio; e poi di nuovo un dito sbucava fuori e - fa diesis - si ripartiva.
Pioveva musica nella stanza. Il pianoforte dorato ne era intriso.
Le dita bagnate di note erano la cosa più bella; poi c'erano le mani - belle anche quelle - e i capelli lunghissimi strappati via ad una favola e piantati su un corpo tutto spigoli asciutti e curve mancate. Portava una camicia bianca e calzoni neri da maschio, da uomo: le sue gambe magre, là dentro, sembravano un po' meno ossute, i suoi passi scoordinati si sentivano appena appena se non indossava le scarpe con i tacchi. Andava bene per il pianoforte, lei, con le sue dita lunghissime dalle unghie arrotondate e le nocche distanziate. Mani snodate da marionetta.
Lui sbadigliò rumorosamente, stiracchiandosi, e allungò la mano per abbassare il coperchio sulla tastiera, costringendola a ritrarre le dita per non farsele schiacciare.
Questo, finalmente, la spinse ad alzare gli occhi per guardarlo. Aveva sempre avuto degli occhi molto grandi, Andrea, occhi grandi e un poco infossati con iridi liquide, pupille strette e ciglia lunghe: non belli, no, però gli piacevano un sacco. Gli piacevano un sacco da sempre.
- Penso di non aver mai sentito nulla di così noioso. - le disse.
Andrea non ne parve né contrariata né offesa.
- Potrei dirti che nessuno ti ha obbligato a rimanere qui, oggi pomeriggio. - replicò piattamente. - O che il tuo parere non è stato richiesto; e, nel caso, sarebbe stato comunque considerato in funzione di un parametro di valutazione basso. Estremamente basso, e dovutamente. Ora, potresti togliere la tua mano dal coperchio? Per quanto io mi senta propensa a concordare con te per quanto concerne il grado di coinvolgimento dei Notturni, questo è sfortunatamente il pezzo che ho tutte le intenzioni di portare al saggio. -
Dovutamente, scandì lui tra sé e sé, dovutamente. Cinque sillabe.
- Uh, adesso mi traduci quel che hai detto? In qualcosa che assomigli all'italiano, per cortesia. -
- Ma certo: leva la mano dal mio pianoforte, gentilmente, o te la frantumo. -
Non suonava come stesse scherzando. Le dita gli servivano: il pollice in particolar modo, perché con un indice rotto avrebbe potuto suonare, forse, con il medio rotto anche, con il pollice rotto sicuramente no - a meno che lui non avesse trovato un qualche modo per incollarsi l'archetto al palmo della mano. Tolse la mano dal suo pianoforte. Molto, molto gentilmente.
- Concerne è il passato remoto di quale verbo? -
- Di nessun verbo. E' il presente semplice di sé stesso. Concerne, concernere. E' un sinonimo di riguarda. Stavo banalmente comunicandoti che mi trovavo concorde con il tuo parere. - Lui le rivolse uno sguardo opaco e lei sospirò, risollevando con amorevole cura il coperchio per poter far scorrere ancora le dita sui tasti: - Concordavo. Ero d'accordo. -
- Sul fatto che è noioso? -
Lei si tenne sul vago:
- Sul fatto che non è coinvolgente. -
- Coi-nvol-gen-te, quattro sillabe. -
- Sono cinque sillabe, non quattro. Scandisci, non sezionare. -
- Cinque sillabe... peggio ancora! Cosa avevamo detto delle parole lunghe? -
- Avevamo detto che ti avremmo comprato un dizionario e che l'avresti letto. Io il dizionario l'ho comprato, ottemperando alla mia parte di dovere, ma tu l'hai mai sfogliato? -
- No, ma non si può dire che non sia stato un acquisto utile. E' fantastico sotto alla gamba rotta del tavolino, molto meglio del libro che ci avevo messo prima. Cos'era quel mattone che mi hai regalato la scorsa estate...? -
Lei sospirò ancora, scuotendo la testa, ma subito dopo dové reprimere un ghigno.
- Era L'Idiota, e tu sei senza speranza. - sentenziò signorile. - Usami la cortesia di trovarti un passatempo che si discosti dall'importunarmi mentre m'esercito e ti tenga altrimenti occupato. -
- … sottotitolato? -
- Va' a farti un giro, Luca. -


Tornò a prenderla tre ore più tardi - il tempo minimo necessario prima che giudicasse prudente riaffacciarsi nella sala prove - e trovò la porta chiusa.
- Andrea? - la chiamò forte, bussando; e poi, quando nessuno gli rispose, guardò su e giù lungo il corridoio vuoto e riprovò più piano: - Ti stai cambiando? -
La voce di Andrea suonò ovattata appena oltre il battente di legno:
- Sì. -
- Andiamo a prendere qualcosa da bere? -
- Un gelato. -
- Un gelato. - ripeté lui, sarcastico. - Vuoi anche un leccalecca, piccina? Due caramelle, un palloncino...? -
- Solo un gelato, grazie. -
- Andrea, sono le otto di sera. Le otto, capisci? Non è orario da gelato. Andiamo a prendere una birra, una tequila, una coca-cola, un... un... -
- Un gelato. -
Luca appoggiò la fronte alla paratia di legno, sospirando pesantemente:
- Un gelato. -
Andrea scelse proprio quel momento per aprirgli la porta davanti alla faccia, facendolo barcollare in avanti. Gli sorrise, candidissima, e confermò:
- Gelato. -
Aveva addosso la gonna: un'altra delle sue gonne-divisa, di un verde pallido dalle pieghe strettissime, che le arrivava appena sopra il ginocchio. Anche le calze corte erano verdi, e così la maglietta decorata di pizzo. A qualcun'altra il completo sarebbe stato bene; su una ragazza con la carnagione giusta, con i capelli giusti, con il viso giusto, sarebbe stato meravigliosamente. Su Andrea era - molto semplicemente - tremendo.
Andrea non portava mai la gonna in classe. Andrea non portava mai altro che la gonna fuori dalla classe. Aveva un armadio intero pieno di gonne - le sue divise da donna - e le stavano tutte più che orribilmente.
Andrea era andata a comprarsi un vestito nuovo per il saggio di fine giugno: lui lo sapeva perché l'aveva accompagnata in giro per negozi e le aveva retto la borsa, sette tonnellate di libri e spartiti e album pieni di disegni sfatti e scomposti, frammentati, finché le spalle non avevano cominciato a dolergli. Chissà come faceva lei a portarsela sempre dietro ovunque andasse.
Il vestito nuovo di Andrea era rosa. Un vestito rosa. A fiorellini. Un vestito rosa a fiorellini su Andrea.
Luca non osava pensare a quanto male le sarebbe stato indosso: avrebbe avuto l'aspetto di un'undicenne anoressica che l'avesse sottratto all'armadio della madre prosperosa, avrebbe dato l'idea che il vestito non fosse indossato da nessuno, che stesse semplicemente passando da una stampella a un'altra, come un fazzoletto per signora drappeggiato addosso ad una piattissima patata cruda.
Andrea era come i suoi occhi, gli piaceva un sacco, da sempre. Andrea, però, non gli piaceva per niente quando si sforzava di trasformarsi in qualcosa che non fosse Andrea.
Luca sapeva che Annalisa - l'adorabile, infiorata, morbida e dorata signora Annalisa - aveva fatto a sua figlia un certo discorso sulle rose che sbocciano solo un paio di settimane prima. Le aveva detto che era un bocciolo. Un bozzolo. Che da lei sarebbe uscita una farfalla, una bellissima, radiosa, raggiante farfalla.
Il termine radiosa non aveva nulla a che vedere con Andrea: Andrea non irradiava un bel niente - di certo non irradiava luce. Qualche volta faceva piovere musica. Parecchie volte faceva sgocciolare sarcasmo. Il discorso sulle rose e le farfalle lei gliel'aveva riferito piattamente: Andrea diceva molte cose piattamente, che era un modo come un altro per mentire senza nascondere la verità, pensava Luca.
Andrea non era un bozzolo, Andrea non era un bocciolo. Andrea era fiorita anni prima, ma quel che ne era uscito fuori era stato uno stelo violaceo di belladonna e asfodelo.
Fece per toglierle la borsa dalle spalle - era così pesante che le aveva infossato un segno rosso sul collo pallido - ma lei si limitò a scansargli gentilmente la mano e a sistemarsela meglio in schiena. Le chiese:
- Come lo vuoi, il gelato? -
- Fragola e panna. - rispose lei, subito. - Voglio un gelato alla fragola. -
Forse, si disse lui, dopo una, due, tre grosse cucchiaiate di gelato, Andrea sarebbe stata meno propensa al latinorum e un po' più propensa a spiegare estesamente come e perché avrebbe portato al saggio - il saggio, non un saggio ma il saggio, davanti a tutta la scuola e a tutti i loro compagni, amici, professori e conoscenti, i bidelli e i genitori e i fidanzati e le fidanzate e quelli che passavano di lì perché non avevano nulla di meglio da fare - niente poco di meno che Sua-Signoria-ti-faccio-finire-in-coma-al-pianoforte Frederich Francois Chopin.
Chopin. Bah.






Note della storia: Questo racconto in quattro capitoli partecipa al concorso Ragazze al pianoforte indetto da Harriet.
Il bando richiedeva di scrivere una storia che ruotasse attorno ad un personaggio femminile, ad un pianoforte e ad una tra le citazioni, canzoni e video proposti come prompt da Harriet. Io ho scelto la stupenda Runs in the family, di Amanda Palmer (per il testo, qui).
Un enorme grazie a LaureDeTroyes e a Salice, le mie eterne e infinitamente pazienti beta.

Modifico per aggiungere che i risultati di Harriet sono arrivati e che questa storia si è classificata prima.
Qui sotto riporto il giudizio della giudiciA, con i miei ringraziamenti per i bellissimi commenti:
L'autrice riesce a raccontare una vicenda semplice, un breve momento nella vita di alcune persone, come fosse la più grande delle imprese epiche, ricolmando di significato ogni minimo gesto e soprattutto la canzone, che diventa simbolo di una liberazione attesa da troppo tempo. Sono ammirata dalla scrittura: elaborata senza essere pretenziosa, pesante o eccessiva, è capace di disegnare sensazioni e scene in modo molto vivo e spontaneo. Si entra davvero nella mente di un adolescente, piena delle due cose che gli interessano di più: la musica e la protagonista. Il suo punto di vista è perfetto per descrivere la vicenda. Anche gli altri personaggi sono caratterizzati benissimo: la ragazza al pianoforte è splendida, non scontata e ben raccontata. La madre, con la sua dolcezza che fa male senza che lei se ne renda conto, è terribilmente realistica, e mi sono piaciute molto le metafore così efficaci per far capire il suo affetto soffocante che impone una personalità non sua alla figlia. Il tema è davvero ben svolto: la protagonista è apprezzabilissima e l'utilizzo della canzone è molto elaborato, in quanto compare all'interno della storia (nel momento massimo del climax finale), concettualmente definisce la storia ed è ripresa in altri particolari (per esempio, il titolo del racconto richiama l'inizio della canzone.) Questi motivi, insieme al potere che ha avuto questa storia di tenermi incollata a leggerla, la spediscono in cima alla classifica. Unica nota pignola: mi sa che è da riguardare la grafia del nome di Chopin.

Note del capitolo: Il titolo di questo capitolo, Come sei veramente, è preso da una composizione di Giovanni Allevi che potete trovare qui. I Notturni sono una serie di composizioni per pianoforte di F.F.Chopin, estremamente delicate... e sia ben chiaro che lungi da me è il disapprovarle. x°D L'idiota è un'opera letteraria di F.M.Dostoevskij, estremamente affascinante e molto, molto particolare; e sì, è - fisicamente parlando - un mattone. Per il latinorum si ringrazia Manzoni. E per questa volta, That's all Folks!

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Capitolo 2
*** il viaggio della madre ***





2. il viaggio della madre
Yann Tiersen



Il Liceo Scientifico Statale Guglielmo Marconi si gloriava di una lunga tradizione di ex allievi usciti dalle sue aule spoglie di cartongesso e vetri macchiati solo per assurgere agli alti e sacri sogli del mondo della musica.
Assurgere agli alti e sacri sogli era parte del formulario della professoressa Bellucci. Luca non aveva niente contro la Bellucci - che era una brava donna molto affettuosa, tutto sommato - ma c'erano volte in cui la ascoltava parlare e si domandava da dove le tirasse fuori, certe cose, da quale buco nero spalancato nel suo cranio uscissero, come facesse a partorirle. Alti e sacri sogli era solo la punta dell'iceberg: a precederlo c'era stato un sacerdoti dei melodiosi altari che ancora, a ripensarci, lo faceva sudare freddo, e prima ancora...
Comunque.
Il Liceo Scientifico Statale Guglielmo Marconi non si gloriava di una lunga tradizione di musicisti per merito proprio: i fondi della scuola erano a malapena sufficienti a sovvenzionare l'affitto di una palestra per cinque ore alla settimana ad una squadra di basket guidata da un malpagato e irritabile allenatore sulla cinquantina, e l'ultimo corso di inglese tenuto nelle sue aule si era concluso ingloriosamente e anzitempo quando il denaro per pagare gli insegnanti di madrelingua era finito a metà dell'anno scolastico. Il Guglielmo Marconi si beava invece, per così dire, di gloria riflessa: perché a quindici metri dai suoi portoni di alluminio, centimetro più, centimetro meno, si alzavano quelli in costosissimo legno di quercia del Conservatorio della città.
Vedere i due edifici l'uno vicino all'altro faceva un po' tristezza; il liceo aveva, così, precisamente l'aspetto d'un fratellino dimesso al quale qualcuno si fosse dimenticato di pettinare i capelli prima di mandarlo a scuola.
Quindici metri erano quindici metri, però: tanto pochi che gli studenti potevano uscire dalle porte del Marconi e infilarsi in quelle del Conservatorio senza neanche bisogno di attraversare la strada, dritti da una scuola all'altra come fossero lo stesso edificio. Il Marconi era pieno di gente che cantava, gente che suonava, gente che bacchettava con le matite sul bordo dei tavoli come fossero leggii e gente che studiava spartiti ad alta voce. Il Marconi aveva un pianoforte in prestito dal Conservatorio in un grosso sgabuzzino vuoto che tutti chiamavano nobilmente la sala prove - anche se era piena di ragni e il pavimento aveva uno strato di polvere alto due dita a fare da moquette. Il Marconi organizzava alla fine di ogni anno scolastico il concerto del MusicaMente e il Conservatorio consentiva con signorile condiscendenza che le belle poltroncine della sua aula grande venissero sfruttate per ospitare l'orda degli studenti e del parentado in massa.

In novembre Luca aveva stabilito che il MusicaMente di quell'anno sarebbe stato il suo momento di gloria. Nel MusicaMente sarebbe stato fico: più fico di sempre, più fico di chiunque altro, fico per una volta nella sua carriera scolastica in una maniera assoluta, totalitaria, appariscente.
Luca suonava il violino da quando aveva cinque anni: un qualche lontano e mai visto zio di tredicesimo grado gliene aveva messo in mano uno di plastica come regalo per il suo compleanno - archetto arancione a disegni di mostriciattoli incorporato nella scatola - e lui aveva scoperto che era la sua seconda pelle, quella. Grattava sulle corde e veniva fuori il suo sangue: nei sussulti gonfi della cassa di risonanza, un graffio alla volta, si apriva il suo respiro, gli si spalancavano i polmoni, il cuore, tutto. Suonava come tenesse in mano le proprie viscere, certe volte era sgradevole, certe volte sfibrante, ma ogni singola volta gli dava euforia.
A sette anni i suoi genitori gli avevano comprato un violino vero, di legno, bellissimo. Gli era sembrato di reggere lo specchio di Alice tra le dita. A otto anni l'avevano iscritto al Conservatorio. A dieci aveva una borsa di studio e suonava dalla mattina alla sera con brevi pause per mangiare, dormire, andare a scuola.
A dodici anni aveva scoperto le ragazze.
Le ragazze erano come il violino: tenevano in mano le sue viscere. Suonava ancora, ma baciava anche: scopriva che gusto aveva la bocca di un'altra persona sulla sua, che profumo aveva quel punto proprio dietro le orecchie, tra i capelli, che gli era sempre piaciuto farsi grattare, che sensazione dava tenere un qualcosa che non fosse il violino tra le mani, averne cura, maltrattarlo. Come il violino, le ragazze potevano amarlo. A differenza del violino, però, potevano anche respingerlo. Era strano, era un mondo nuovo.
A tredici anni aveva scoperto Andrea.
Andrea non era una ragazza, Andrea era una ragazza. Andrea non era un violino. Andrea grattava e graffiava come un archetto sulle corde, ma sapeva essere liquida, musica. Andrea saliva le scale ripide del suo pianoforte e lui le buttava giù funi fatte di crine, perché potesse arrampicarcisi e andare altrove.
Ad Andrea i suoi genitori non avevano chiesto se volesse davvero suonare. Nessuno si era informato sui suoi gusti: il flauto, la batteria? Il calcio? La danza? Sua madre le aveva messo un pianoforte sotto le dita quand'era ancora troppo piccola per arrivare alla tastiera senza l'aiuto di un grosso cuscino, e tutto sommato le era andata anche bene, di lusso: perché le era piaciuto. Era finita al Conservatorio prima ancora di entrare alle elementari.
Andrea non era come Luca, non aveva uno strumento tutto suo del quale andare gelosa: Andrea prendeva i pianoforti che le venivano dati e li persuadeva a fare quel che diceva lei, quando lo diceva lei, come lo diceva lei.
Andrea gli piaceva da sempre. Longilinea e asciutta ovunque, sui fianchi e sul seno e sulla vita e sulle gambe, soprattutto sulle gambe, lunghe e magre come stecchi, bianca di pelle e scura di capelli, portava la treccia per non avere le ciocche sugli occhi quando pigiava sui tasti. Aveva pupille sottili e iridi bagnate d'ambra. Quando indossava i jeans era bellissima: quelli a vita bassa, stretti, con le camice annodate sull'ombelico, gli facevano venir voglia di passarle una mano sul ventre e infilarla sotto la stoffa per sentire se era liscia come sembrava. Quando suonava era più che bellissima: era assorta e sicura e femmina e androgina e impalpabile. Era il modo in cui era più Andrea, quello.
Per Luca Andrea era stata una scoperta come il violino, come le ragazze. L'aveva conosciuta un po' alla volta: prima aveva conosciuto l'eloquio contorto e il distacco neutro che servivano a tenere lontani tutti, tranne quelli che erano furbi abbastanza per andarle vicini tenendosi sottovento, scivolando tra una trincea e l'altra senza farsi scoraggiare da quel fuoco di fila di parole intoccabili; più tardi il sarcasmo, perché Andrea era come un pungitopo, e poi tutte le bacche rosse di cose bellissime che c'erano dietro; e infine aveva incontrato Annalisa, che era parte di Andrea come neanche il pianoforte riusciva ad essere, Annalisa e i suoi discorsi sulle farfalle e le rose e su come sarebbe sbocciata, la sua bambina, come sarebbe stata una donna adorabile.
Le gonne di Andrea erano il guscio osseo di Annalisa: una sua secrezione, un suo prodotto. Andrea riusciva ad essere sé stessa solo otto ore alla volta, le otto ore in cui era a scuola e poi nella sala prove. Entrava prima che la campanella suonasse, si cambiava in bagno, tornava in classe e poi di nuovo si cambiava prima di uscire per tornare a casa. Luca ci aveva fatto l'abitudine.
Ed eccola lì, Annalisa, che gli offriva il vassoio di ceramica della torta e gli chiedeva:
- Un'altra fetta...? -
Aveva un sorriso spettacolare, Annalisa. Sulla torta c'era un ghirigoro di fragole e panna che sembrava disegnato con il pennello, tutto strati compatti di granelli di zucchero rosa e crema gialla, ricca, spumosa.
- Grazie, sì. -
- Annie, ne vuoi un'altra anche tu? -
Andrea aveva finito la prima svogliatamente, e adesso scarabocchiava con la punta della forchetta sull'impasto rimasto nel piattino: sotto lo sguardo penetrante di sua madre si bloccò e scosse la testa, poggiando la posata sul tavolo - con le punte verso il basso, per non sporcare la tovaglia.
- No, grazie. -
- Ne dovresti proprio mangiare un'altra fetta, tesoro, invece. - Insisté delicatamente Annalisa. - Sei così magra... non vuoi che il vestito per il saggio ti stia bene, amore? -
Luca vide chiaramente la bocca di Andrea piegarsi in una breve torsione che durò solo un attimo, un momento, prima che lei alzasse il piatto e, senza una parola, lo allungasse verso la madre per farselo riempire.
Il signor Stefano Maisano - Annalisa era Annalisa, ma Stefano era il signor Stefano Maisano - sollevò la testa, guardò la figlia, non disse niente e tornò ad occuparsi del proprio dolce. Luca gli aveva sentito dire forse quindici parole in totale nel corso di quei cinque anni di conoscenza: quindici parole in cinque anni, per una media di tre parole l'anno, generalmente monosillabiche, , no, ah. Andrea adorava suo padre - che adorava Andrea. Luca non era mai riuscito mai davvero a capire né l'uno né l'altra, e forse era questa la ragione per la quale tra di loro comunicavano tanto bene.
Annalisa, rifletté Luca osservando Andrea mangiare svogliatamente la sua seconda fetta di dolce, avrebbe potuto far ingozzare la figlia di una, due, dieci torte, una pasticceria intera compresa di cornetti e tramezzini, senza che quel vestito riuscisse a starle anche solo un grammo meglio.
Non era Andrea, quel vestito. Era molto semplice. Chopin non era Andrea. Il vestito rosa a fiorellini non era Andrea.
Andrea sarebbe andata al MusicaMente indossando i panni di qualcun altro.

In novembre Luca aveva stabilito che il MusicaMente di quell'anno sarebbe stato il suo momento di gloria. Nel MusicaMente sarebbe stato fico: più fico di sempre, più fico di chiunque altro, fico per una volta nella sua carriera scolastica in maniera assoluta, totalitaria, appariscente.
Suonava il violino sin da quando era bambino, gli sembrava di non aver fatto altro che suonare per tutta la vita, e la cosa lo rendeva indicibilmente felice: ma il violino gli piaceva quanto gli piacevano le ragazze, e quanto gli piaceva sentirsi al posto giusto al momento giusto. Se fosse stato un chitarrista sarebbe stato tutto più semplice. Se avesse suonato la batteria, se avesse cantato, sarebbe stato in. A posto. Alla moda. Moderno. Fico. Le sonate di Corelli non reggevano agli occhi di tutti il paragone con i Radiohead, doloroso ma vero. Suonare il violino era ah, forte, suonare la chitarra era oh, wow, mi fai sentire qualcosa?, e la seconda reazione era infinitamente più lusinghiera.
Alla fine del MusicaMente gli avrebbero chiesto tutti oh, wow, mi fai sentire qualcosa? Sarebbe stato al centro del palco. Sotto gli occhi di tutti. Sarebbe piaciuto alle ragazze. Avrebbe fatto invidia ai ragazzi.
La preparazione per l'evento che avrebbe fatto di lui un fico aveva richiesto otto mesi. Aveva dovuto scegliere una canzone adatta, intanto - dopo settimane e settimane a tormentarsi dietro ad infiniti ripensamenti. Aveva dovuto cercarsi una cantante, un batterista, un bassista, un - ugh - un chitarrista: questa parte non era stata poi tanto difficile, perché c'era mezzo Marconi in cerca di un gruppo per il saggio, e la cantante dopotutto era carina. Non gli piaceva come gli piaceva Andrea, ma era carina. L'aveva baciata prima della terza giornata di prove e dopo la terza giornata di prove, erano usciti per un po' e si erano separati senza rancore. Era stato piacevole baciarla, e lei adesso stava con un ragazzo molto alto del quale lui non sapeva assolutamente niente e che veniva ad assistere alle prove, ogni tanto. C'erano stati pomeriggi interi trascorsi a suonare e notti passate a dannarsi su quel che non veniva, e poi accordarsi per provare insieme, studiare tenendo sott'occhio gli spartiti come avesse paura che le note potessero cambiare se le avesse perse di vista, e di nuovo provare, provare, provare. Era stato un anno pieno. Il MusicaMente, aveva pensato ogni volta che era stato sul punto di cedere, esausto, sarebbe stato il suo fugace, piccolo, esaltante attimo di celebrità.

Posò l'archetto e Andrea emise un suono di gola vibrante, basso, piacevolmente soddisfatto.
- Ti viene bene. -
- Potrei suonarlo ad occhi chiusi. - Esclamò Luca, senza neanche provare a nascondere quanto fosse lusingato dal complimento. - Bendato. Con le orecchie piene di cera e la mano sinistra legata dietro la schiena. -
- Non che io desideri sminuirti, ma permettimi di dubitarne. -
Andrea afferrò lo spartito e ne seguì le righe con le dita, contando senza voce. Se ne stava sdraiata sul letto con niente più che il pigiama leggero, e Luca doveva usarsi violenza per non abbassare gli occhi e guardarle le gambe, la linea bianca delle caviglie esili che diventavano ginocchia aguzze e poi cosce lisce, sottili, appena sotto l'orlo di pizzo. Anche quello era un pigiama che gridava Annalisa! con ciascuno dei suoi piccoli, graziosi centimetri di tessuto traforato, ma c'era il seno che si abbozzava appena al di sotto del lino e la pelle sembrava rosa, lì dietro, non bianca come sempre. Nella luce della lampada da tavolo gli occhi di Andrea erano più miele che oro, scuriti, i capelli sciolti ad onde giù per il cuscino.
- Eramaan Viimeinen, allora. - Osservò lei, meditabonda.
- Non ti piace? -
- Mi piace molto. - Ne canticchiò a mezza voce un pezzetto. - Per sostituire il flautista come avete fatto? -
- Suono io, con il violino. -
- Oh. -
Di nuovo silenzio, mentre lei picchiettava con un'unghia contro il bordo dello spartito. Aveva un'espressione assorta, distratta, che ad un altro avrebbe fatto pensare che non stesse nemmeno guardando quel che teneva in mano: ma Luca la conosceva da cinque anni, cinque anni passati a guardare le sue caviglie, le sue gambe, la sua pancia liscia e gli occhi d'oro e il viso di Andrea, e così gli sembrava adesso di poter interpretare i suoi pensieri come fosse stato dentro la sua testa.
- Andrea? -
- Dimmi. -
- Devi proprio portare Chopin? Voglio dire, hai detto che non ti piace... -
Lei lo interruppe, quietamente:
- Non ho mai detto che non mi piaccia. -
- Hai detto che non è, uh, travolgente...? -
- Coinvolgente. -
- Coinvolgente, sì. Hai detto che non è coinvolgente, e tu lo sai che è noiosissimo. Si stravaccheranno sulle sedie, Andrea. Si ricorderanno di te solo questo, Chopin e un pezzo al pianoforte che li ha fatti stravaccare sulle sedie. - Esitò per un attimo, prima d'aggiungere più piano: - E' l'ultimo anno. -
Andrea non lo guardava. Fissava ancora lo spartito che teneva in mano, e si limitò ad assentire quieta:
- Lo so. -
- E non vuoi che sia... bello? Che finisca in gloria? Andrea, non è Annalisa che... -
- Manca un foglio. -
Il brusco cambio di discorso lo lasciò spaesato. Guardò prima lei, poi gli spartiti che teneva in mano e che stava agitando al suo indirizzo, e infine le chiese:
- Come? -
- Manca un pezzo. L'hai perso? -
Non ne voglio parlare, non ne voglio parlare. Gli stava dicendo. Non ne parliamo.
Per un attimo Andrea ebbe la tentazione di forzarla, di portare avanti il discorso, di spingerla e tirarla e spronarla: ma invece si chinò e cominciò a frugare nella borsa.
- No. - Le rispose. - Dev'essere rimasto in mezzo ai quaderni. -






Note della storia: Questo racconto in quattro capitoli partecipa al concorso Ragazze al pianoforte indetto da Harriet.
Il bando richiedeva di scrivere una storia che ruotasse attorno ad un personaggio femminile, ad un pianoforte e ad una tra le citazioni, canzoni e video proposti come prompt da Harriet. Io ho scelto la stupenda Runs in the family, di Amanda Palmer (per il testo, qui).
Un enorme grazie a LaureDeTroyes e a Salice, le mie eterne e infinitamente pazienti beta.

Note del capitolo: Il titolo di questo capitolo, Il viaggio della madre, è la traduzione del titolo di una composizione di Guillaume Yann Tiersen, il meraviglioso compositore e musicista francese autore - tra le altre cose - di quel capolavoro che è la colonna sonora de Il favoloso mondo di Amélie. Il brano, Mother's journey, lo potete trovare qui. Arcangelo Corelli è un celeberrimo violinista barocco italiano, autore, per l'appunto, di diverse sonate. I Radiohead (ma serve davvero che lo dica? xD) sono un ben noto gruppo inglese.
Per quanto riguarda Eramaan Viimeinen potete trovare qui il video. E' una canzone dei Nigthwish con delle meravigliose parti per violino.

Grazie a tutti quelli che si sono fermati a commentare! Mi ha fatto infinitamente piacere! That's all Folks!
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Capitolo 3
*** divenire ***





3. divenire
Ludovico Einaudi



La cantante si chiamava Flavia. Aveva un viso molto grazioso, occhi azzurrissimi e sgranati e una lunga coda castana decorata da un bizzarro fermaglio ingemmato con grosse pietre da bigiotteria e una piuma di pavone a pendere da una parte. Luca l'aveva trovata - la ragazza, non la piuma - mettendo un annuncio per i provini nella bacheca della scuola: aveva scartato una decina di rauche esaltate ed un'orda di aspiranti popstar starnazzanti e stonate come campane prima che fosse il suo turno, e a quel punto era stato sufficientemente vicino all'orlo estremo della disperazione da accoglierla come fosse acqua nel deserto.
Alle prove, una settimana prima del MusicaMente, il ragazzo di Flavia non c'era: il che era un sollievo, in effetti, perché Luca sospettava che lei gli avesse detto di quella storia dei, uh, dei baci, ed era possibile che lui non l'avesse presa molto bene. Certo, all'epoca non era stato il suo ragazzo. Forse si trattava di un caso di gelosia retroattiva? Comunque Luca non è che disdegnasse il pensiero di provare in un ambiente tranquillo, per cui aveva accolto con entusiasmo l'assenza del Grande Capo A-muso-duro.
C'era Andrea su una delle sedie di fondo della sala prove, schiacciata tra un tavolino privo di una delle quattro gambe ed una lavagna rotta: faceva oscillare i piedi a tempo con la musica - oggi portava i jeans, e gli occhi di Luca schizzavano a intervalli regolari verso il pendolo irregolare delle sue gambe.
L'avvicinò quand'ebbero finito, e lei gli porse una bottiglia di succo di frutta. Luca adocchiò con interesse l'etichetta, fiondandosi a stapparla con avidità:
- Pesca! - Il succo era dolcissimo, la sala rovente. Le gambe di Andrea non si muovevano, adesso che non c'era più musica, ma attiravano lo stesso i suoi occhi come calamite, come fulcri. - Devi provare anche tu? -
Lei agitò la mano in un gesto distratto:
- Più tardi, forse. Avete finito? -
- Già. Oh, ciao, Giorgio. Lunedì, eh? - E poi, mentre l'allampanato batterista assentiva svagatamente e si allontanava verso le scale, si sporse per gridargli dietro: - Non te ne scordare...! -
Sospirò pesantemente, prima di tornare a guardare Andrea:
- Si è già dimenticato delle prove di mercoledì scorso. E' strafatto cinque giorni su sette, però suona come Dio comanda. -
Andrea si limitò ad assentire:
- Capisco. Vogliamo andare a prendere un gelato? Hanno aperto un locale in fondo alla strada dove non sono ancora stata. -
- Sicuro! Dammi... cinque minuti, ok? Mi do una ripulita e andiamo! -

Non desiderava altro che camminare con Andrea per la strada: se avesse potuto scegliere, anzi, si sarebbe messo proprio un passo dietro di lei, sulla sua sinistra, per poterle guardare le gambe, i fianchi, per osservare come il ciuffo sottile che chiudeva la treccia le disegnava dondolando la linea magra della vita. Camminandole a fianco, però, aveva il suo naso proprio sotto gli occhi, le labbra assorte, l'ombra delle ciglia scurissime come una ragnatela gettata su quegli occhi complicati. Avrebbe baciato quelle labbra sino a mangiarle, sino a fonderle con le sue, l'avrebbe baciata e le avrebbe impedito di riprendere il fiato quando avesse cominciato a sentirsi mancare l'aria; l'avrebbe costretta a respirare da lui tenendole il collo in una mano, e avrebbe avuto la peluria soffice dei capelli, proprio dietro la nuca, a fargli il solletico contro il polso. Le avrebbe stretto la pelle tra i denti, così quelle labbra si sarebbero arrossate, e quando lei si fosse staccata avrebbe visto che la bocca di Andrea era diventata gonfia e rosata, morbidissima, lucida.
- Che cosa vuoi? - Gli chiese lei.
Farla sedere sulle sue ginocchia così da non doversi chinare per morderle il collo.
- Quello che prendi tu, credo. C'è il cioccolato? -
- Bacio, cioccolato all'arancia, cioccolato fondente, cioccolato alla cannella... - Elencò servizievole la ragazza con il camice dietro al bancone.
- Bacio. - Decise Luca. Guardò Andrea e gli scappò un sorriso.

Era bastato il gelato a farle arrossare le labbra, dopotutto: scintillavano quasi le avesse cosparse di rossetto. Se le avesse toccate sarebbero state fredde, dolci.
Si erano seduti su di una panchina all'ombra nel parchetto dietro la scuola. Non era precisamente uno di quei graziosi giardini dove si potevano trovare giostre, riquadri di sabbia e bambinetti urlanti accompagnati dalle madri; la fauna media era composta da studenti annoiati, gruppetti di ragazzi e ragazze in circolo attorno alle altalene cigolanti o sui gradini dello scivolo, oppure - la specie più prolifera - coppiette intente a pomiciare selvaggiamente dietro ad ogni cespuglio, albero, secchio dell'immondizia a disposizione: dal loro punto d'osservazione Luca riusciva a vederne almeno una piuttosto intenta alla suddetta occupazione.
- E' buono. - Osservò, sollevando il gelato. E poi, indicando la coppietta con un sogghigno: - Secondo te stanno sperimentando una nuova tecnica di respirazione bocca a bocca? -
Andrea sembrò prendere in considerazione l'idea:
- Improbabile, ma è un'ipotesi affascinante. -
- E' un quarto d'ora che non si staccano. Un quarto d'ora. A questo punto dovrebbero aver finito le scorte di ossigeno. Forse sono morti! -
- Non sembrano morti. - Andrea stava studiando la coppia con una specie di interesse critico, del tutto a proprio agio. - Mi sembrano dotati di funzioni vitali piuttosto attive, anzi. -
- Forse li hanno incollati con il silicone e ora non riescono a staccarsi? -
- Potresti provare a chiederglielo, ma hai del solvente con te? -
- Uh, no? -
- E allora saresti comunque inutile. Lasciali perdere. Ho ripensato a quel che mi hai detto l'altra sera. -
Andrea distolse l'attenzione dalla coppietta per fissarla su di lei. Rimase in silenzio per un lunghissimo istante, prima di domandare cautamente:
- A quale proposito? -
- A proposito di Chopin. -
- Oh. Ah, uhm... - Le reazioni pronte non erano mai state il suo forte, e tendeva a diventare mugugnante se messo sotto pressione. - … e cosa hai ripensato? -
Fu la volta di Andrea di rimanere in silenzio: taceva e guardava davanti a sé, verso la coppietta, e aveva un viso di vetro imperscrutabile, indecifrabile, un viso da Sfinge sul quale non si leggeva nulla. Tacque così a lungo che Luca cominciò a strisciare i piedi sul terreno, a disagio, e appoggiò la schiena al sedile reggendo la coppetta tra le mani: con il caldo il gelato si era sciolto e adesso gli aveva appiccicato tutte le dita. Doveva star attento a tenerlo sollevato per non macchiarsi i calzoni, e non c'erano secchi dell'immondizia in vista; ma anche Andrea era nelle sue stesse condizioni, e questo era un sollievo.
- Ho pensato che mi serve una cantante. - Disse Andrea, alla fine. - E un batterista. -
Girò la testa verso di lui, e lo fissò, e nella penombra screziata di sole aveva occhi bagnati di luce, graffianti come quelli dei gatti, le pupille niente più che due punti persi in tutto quell'oro.
- E un violinista. - Aggiunse.
L'attimo dopo Luca si stava già allungando per baciarla: era partito con l'intenzione di posarle le labbra sulla guancia, ma a quel punto lei si era girata, spostata, e gli aveva corretto la mira. Labbra su labbra su labbra su labbra, sette miliardi di centimetri di pelle che si incontravano a mezza strada, era alta quasi quanto lui e così non doveva piegarsi, i capelli di Andrea gli facevano il solletico e il respiro di Andrea gli riempiva la bocca, lei stava respirando dentro di lui e davanti a lui ed era ancora meglio di come avesse pensato. Aveva le labbra fredde, la lingua dolce di gelato. Gli graffiava le labbra con i denti perché era inesperta, goffa, ed era bellissimo che fosse così perché forse, solo forse, forse, forse, questo significava che quello era il suo primo bacio.
Luca desiderò aver tenuto il suo, il primo, per lei. Non l'aveva mai desiderato per nessuna, ma per lei sì. Era Andrea.
Voleva bloccarle il collo come aveva sognato, accarezzarle i capelli, disfarle la treccia per guardarla cadere giù, sciogliersi in onde nere, però aveva le mani occupate da quel che restava del suo gelato. Tutto quel che di loro si toccava erano le labbra, e il mondo per un po' sembrò concentrarsi lì in mezzo.
Quando Andrea si staccò gli venne da boccheggiare; inspirò profondamente, poi rise e disse:
- Non ti serviva cercare di corrompermi così, sai? Ti avrei detto di sì lo stesso. -
Se fosse stata un'altra si sarebbe offesa, probabilmente, ma quella era Andrea - Andrea, Andrea, Andrea, pensò gloriosamente lui, Andrea - che perciò sorrise solo, e poi lo baciò di nuovo.
Luca sentì la marcia dell'Aida intonarglisi dentro la testa.






Note della storia: Questo racconto in quattro capitoli partecipa al concorso Ragazze al pianoforte indetto da Harriet.
Il bando richiedeva di scrivere una storia che ruotasse attorno ad un personaggio femminile, ad un pianoforte e ad una tra le citazioni, canzoni e video proposti come prompt da Harriet. Io ho scelto la stupenda Runs in the family, di Amanda Palmer (per il testo, qui).
Un enorme grazie a LaureDeTroyes e a Salice, le mie eterne e infinitamente pazienti beta.

Note del capitolo: Divenire è un meraviglioso pezzo di Ludovico Einaudi che potete trovare qui.
Questa volta Wikipedia non serve! xD
Sono in ritardo di un giorno, lo so e chiedo perdono, ma la mia connessione ha barbaramente ceduto, ieri notte, abbandonandomi mentre mi accingevo - in ritardo - a mettere il capitolo online.
Con il prossimo pezzo Uno, due, tre, quattro. Asfodelo. sarà conclusa. Ancora un grazie a tutti coloro che hanno commentato i precedenti capitoli. That's all Folks!

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Capitolo 4
*** scorre nella famiglia ***





4. scorre nella famiglia
Amanda Palmer



Luca ripassò per l'ennesima volta di fronte al piccolo specchio unto, lisciando nervosamente con le dita la camicia verde:
- Come sto? -
Suo fratello sospirò esasperato, buttando la testa all'indietro e schiacciando la fronte contro lo stipite del camerino mentre lo guardava:
- Come le prime cinquecento volte. -
Dovevano parlare a voce altissima per sentirsi nel caos delle quinte, con il sottofondo rumoroso di tutti quelli che gridavano, si chiamavano, cercavano qualcuno o qualcosa dando di matto cinque minuti prima dell'inizio dello spettacolo, ma a Luca non dispiaceva. Era una cosa che lo rendeva euforico, eccitato, l'animazione, l'agitazione, era qualcosa di vitale.
Dal camerino accanto sgusciò fuori Flavia: vestita, truccata e pettinata, con una tuba cortissima appoggiata sulle ventitré e un vestito di quello che pareva pizzo nero. Luca vide suo fratello aguzzare lo sguardo e fissarle un qualche punto appena sotto l'orlo della gonna e, sghignazzando, gli diede un leggero colpo di gomito:
- Lascia stare, l'hanno già presa. -
Damiano lo guardò malissimo, prima di bofonchiare qualcosa che suonava tanto come un e chi te l'ha chiesto, ma l'attimo dopo Flavia li superava e andava incontro a qualcuno che si stava facendo largo a fatica attraverso i camerini. Luca pensò per un attimo - con una punta di panico a rimestargli lo stomaco - che potesse essere A-Muso-Duro, ma poi si accorso che era troppo basso, troppo minuto e, soprattutto, troppo rosa.
- Andrea! - Cinguettò Flavia. - Tesoro, ma come... - Si interruppe, tutto ad un tratto, sgranò gli occhi e fissò Andrea come se non l'avesse mai vista prima.
Luca sapeva perché. Luca sapeva benissimo perché. Andrea aveva indosso il fazzoletto rosa a fiori, l'abito della patata cruda, il vestito alla Annalisa: a guardarlo bene, rifletté con una punta d'interesse clinico, non era semplicemente orrendo quanto lo era sembrato la prima volta, era ancora peggio. Flavia lo fissò sbattendo le palpebre per un lungo istante e poi si schiarì la voce, a disagio:
- E'... uh... E'... Andrea, è molto... molto... -
- E' orribile. - Intervenne Luca schiettamente. Flavia cercò di incenerirlo con lo sguardo, ma Andrea si limitò ad assentire.
- Sono in ritardo. - Disse poi, quieta. - Mi dispiace. I miei genitori hanno tardato nel cercare parcheggio. -
E questo voleva dire, pensò Luca, che Annalisa era lì. Annalisa che era venuta per vedere Chopin, suonato dalla sua bambina di rosa vestita. Annalisa che era nella sua pelle, nella sua testa. Era per Annalisa che Andrea aveva quello sguardo - colpevole.
Flavia, che ancora guardava il vestito con quello che era definibile solo come schifo, si schiarì di nuovo la voce e poi affermò con una specie di disperata, cupa sicurezza:
- Non puoi salire sul palco così, tu. Ti tireranno le sedie! -
Andrea inarcò un sopracciglio. - Non possono farlo. - Ribatté, pragmatica. - Sono inchiodate. -
- E allora prima le staccheranno e poi te le tireranno. Tieni, mettiti questa. - Flavia si tolse la tuba e gliela passò; Andrea esitò con il cappello tra le mani e l'altra insisté, spronandola: - Mettitela! Non abbiamo tutta la sera! Tu...! - Inchiodò con il dito Giorgio, di passaggio nel camerino, che si ritrasse schiacciandosi contro una parete e la fissò con gli occhi sgranati. - Togliti il gilet. Subito, ora! -
Giorgio non provò nemmeno a protestare: schiacciato dalla pressione crescente di quel dito puntato contro di lui, si tolse il gilet e lo consegnò arrendevole, prima di arretrare cauto. Flavia soppesò l'indumento con interesse e, soddisfatta infine dall'esame, afferrò un braccio di Andrea:
- Forza... - La tirò e la spintonò dentro ad un camerino, trascinandosela dietro. - … vieni un po' qui, che vediamo cosa si può fare. -
Luca ebbe un'ultima inquadratura di Andrea e del suo orribile vestito rosa a fiori prima che entrambi sparissero oltre la minuscola porta. Zero ad uno per la squadra di Annalisa, pensò, e palla al centro.

In novembre Luca aveva stabilito che il MusicaMente di quell'anno sarebbe stato il suo momento di gloria. Nel MusicaMente sarebbe stato fico: più fico di sempre, più fico di chiunque altro, fico per una volta nella sua carriera scolastica in una maniera assoluta, totalitaria, appariscente.
In novembre Luca aveva stabilito che il MusicaMente di quell'anno sarebbe stato il suo momento di gloria, e lo era, Dio, sì, lo era, lo era, lo era, ora che era salito sul palco lo era, suonare ed esporre le viscere come fossero musica e c'erano settecento coppie d'occhi puntate sull'archetto, lo era, a guizzare erano tendini e nervi e non corde, si suonavano da soli, adesso lo era, momento di gloria. La chitarra si sentiva appena, il basso era un'eco sullo sfondo. La batteria gli faceva da chaperon e sopra a tutto il resto c'era il violino che, divide et impera, tagliava e conquistava.
Momento di gloria, si disse, momento di gloria, suo fratello lo ascoltava nelle quinte e avrebbe, momento di gloria, raccontato tutto alla madre e al padre quando fosse tornato a casa e, momento di gloria, c'erano tutti i suoi compagni di classe ad ascoltarlo ed il giorno dopo gli avrebbero fatto domande, chiesto di provare il violino, e i complimenti e le lusinghe e gli occhi delle ragazze posati sulla cassa di legno, momento di gloria, in platea c'erano i genitori di Andrea venuti ad ascoltarla suonare Chopin ed anche quello era un momento di gloria perché Andrea, momento di gloria, momento di gloria, momento di gloria, non avrebbe suonato Chopin.
Andrea non suonava Chopin.
Alla fine della canzone tornò dietro le quinte e la spinse contro la porta di un camerino: mentre lei apriva bocca per dirgli qualcosa - che poteva essere un complimento o uno scroscio di sarcasmo, Luca non voleva saperlo - approfittò delle sue labbra schiuse per cacciarvi la lingua dentro e ammutolirla. Le strofinò il viso con forza e, quando sentì Flavia protestare alle loro spalle perché stava rovinando tutto il suo lavoro, si staccò solo per vedere la bocca di Andrea rossa di rossetto sbavato, tutte tracce scure sulla pelle trasparente.
Il rossetto non aveva un buon sapore, ma Andrea era bellissima, così, bella scomposta e bella per nulla Annalisa, bella come uno stelo sbocciato di aconito, asfodelo, rimase a guardarla esterrefatto perché adesso l'aveva tra le mani, aveva la belladonna che fa scoppiare il cuore, con le labbra di porpora e il viso macchiato perché lui l'aveva baciata, baciata, poteva baciare la belladonna fino a farsela fiorire addosso.
Flavia gli strappò malamente Andrea dalle braccia, mugugnando, e cominciò a pulirle il viso con un fazzoletto.
- Guarda qua! - Si lamentò. - Hai impastato il cerone e il rossetto, bestia! -
Andrea aveva ancora le labbra lucide, gli occhi vacui e un po' persi dopo il bacio. Sul palco qualcuno stava suonando per flauto l'arrangiamento di una suite di Bach. Luca le sorrise e le disse:
- Il prossimo pezzo è il nostro. -
La guardò farsi un po' più pallida sotto al trucco, le ginocchia che si piegavano per un attimo, ma poi Andrea fu di nuovo in piedi, diritta, bianca, rigida e gloriosa come un'Ifigenia sull'altare.
Quando Flavia la lasciò andare, la faccia ricomposta ma non del tutto, tracce di rosso agli angoli della bocca e altro rosso sugli zigomi che non era trucco, non era cipria, cerone, non era niente che non fosse un bacio che l'aveva fatta fiorire più di prima e meglio di prima, Luca le poggiò una mano sulla spalla e la schiacciò contro la porta, chinandosi per bisbigliarle dritto in un orecchio:
- Glielo sbatterai in faccia. -
La sentì respirare più forte contro il suo collo e le ripeté:
- In faccia. -
Lei lo guardò, stupendamente gloriosa, e Luca pensò che al diavolo il cerone. Al diavolo il rossetto.

Sotto il cerone, sotto le luci, attraversò il palcoscenico ed era di nuovo Ifigenia: Ifigenia con il coltello in mano e Ifigenia che va sacrificare lo straniero, una Vestale, la vergine Camilla scesa in guerra e Marfisa lancia in resta. Si sedette davanti al pianoforte e ne alzò il coperchio senza mai guardarsi intorno. Non aveva orecchie che per sé stessa e non sentì i fischi, mezza platea a guardare sorpresa la ragazza con il vaporoso vestito rosa e la giacca da uomo di floscia seta nera, il cilindro buttato da una parte e il rossetto come due strisce rosso scuro sulla cipria pallidissima. Non li sentì fischiare, lei, ma Luca sì: s'affacciò da dietro le quinte e guardò giù. C'era la sua classe sulla sinistra, e fissavano Andrea come se l'avessero appena vista uscire fuori da un gigantesco uovo di Pasqua. C'era la Bellucci, sempre sulla sinistra, che sembrava avesse ingoiato un rospo. Vivo. C'era Annalisa e c'era Stefano - il signor Stefano Maisano. Annalisa guardava la sua bambina sul palco - la sua bambina-Chopin, bambina-vestito rosa che sarebbe fiorita raggiante e radiosa - e non pareva credesse ai propri occhi. Troppo scioccata, troppo sorpresa, per riuscire ad avere un'espressione di disapprovazione. E il signor Stefano, accanto a lei...
Il Notturno scivolò fuori dalle dita di Ifigenia come acqua. Note, note, nuotava, le faceva bere dalle proprie mani e ne innaffiava il pianoforte e con delicatezza le mandava a sposarsi tre metri più in là l'una con l'altra, pregne di altre note che andavano su, su, e infine in picchiata verso la platea. Suonava come non avesse mai fatto altro in tutta la sua vita, come se non avesse mai avuto intenzione di fare altro, mai, ma Luca sapeva di aver avuto l'Ifigenia tra le mani cinque minuti prima, di averla tenuta stretta.
Il volto di Annalisa si ammorbidì durante l'esecuzione come il muso d'un grosso gatto soddisfatto: il vestito rosa era irrimediabilmente rovinato dalla giacca, una follia che chissà quale cattivo ragazzo aveva messo in testa alla sua adorabile bambina, ma dopotutto Chopin era Chopin, Andrea lo stava suonando ed era così brava, la sua piccola, così brava, e dlong, quando il Notturno si strozzò a metà di una nota l'interruzione fu così brusca che ad Annalisa - così come al resto della sala - ci volle un minuto buono per accorgersene.
Ifigenia lasciò le mani sul pianoforte, alzò la testa, e finalmente lì guardò.
Mentre Luca usciva dalle quinte, mentre Flavia usciva dalle quinte e prendeva il microfono, e dietro di loro Giorgio arrancava verso la batteria e si sedeva pesantemente, mentre Luca raggiungeva Andrea e aveva il violino tra le mani, mentre se lo sistemava in spalla e sorrideva, sorrideva, sorrideva, Andrea continuava a guardare.
Guardava la gente in platea, ma era ovvio che tutta la gente non contava niente, c'era solo perché era capitata lì, e invece chi aveva importanza era Annalisa. Annalisa che non aveva avuto un vestito rosa, che non avrebbe avuto Chopin, che non avrebbe avuto la sua bambina. Annalisa. Annalisa, la piovra profumatissima e morbida, Annalisa che la voleva veder fiorita di petali che non erano i suoi. Non avrebbe mai fatto miele, Andrea, ma avrebbe potuto curare il mal di cuore, la nausea. Andrea era asfodelo, pianta salvifica, e sapeva di veleno.
“E uno.” Disse Flavia nel microfono.
“E uno, due, tre, quattro.”

Sipario.

Io dico che scorre nella mia famiglia,
questa famiglia che mi porta tanto lontano
per poter aprire le mie gambe a chiunque mi avrà.


Vederla sbiancare com'era sbiancata Andrea solo cinque minuti prima e non provare neanche un'oncia di sensi di colpa perché Andrea era stata piena di ansia per causa sua, e se fosse stata piena di rimorso sarebbe stato sempre per causa sua, solo sua, ma Andrea era una cosa meravigliosa che era riuscita a sbocciare comunque. Andrea aveva messo radici sotto la piovra. Si era riempita di fiori viola.
A un certo punto Luca aveva avuto voglia di ridere e l'aveva fatto, sopra e attorno al violino, davanti alla faccia sbigottita di Annalisa.

Scorre nella mia famiglia, ci passo candida attraverso,
faccio quel che vogliono perché qualcuno ha deciso che è questo che mi deve riempire,
riempirmi.


Annalisa che non era stupida, e tutto questo era per lei. Annalisa avrebbe capito. Annalisa che aveva cercato di riempirla, Annalisa, Annalisa che non ce l'aveva fatta.
Guardare le mani di Andrea sul piano ed era di nuovo Andrea, quella, non più Ifigenia. Alla fine del Musicamente l'avrebbe baciata ancora e ancora e lei gli avrebbe fatto piovere sarcasmo sulla bocca.

Io non posso, non posso, non posso scappare dalla mia famiglia,
si nascondono dentro di me, corpi nel ghiaccio,
vieni se ti piace ma non dirlo alla mia famiglia,
loro non mi perdonerebbero mai, direbbero che sono pazza,
ma direbbero qualunque cosa se servisse a zittirmi,


Andrea teneva la bocca chiusa e gridava musica sul suo pianoforte.

zittirmi,

Gridava, gridava, gridava. Era libera un centimetro di più ad ogni pestata di note sui tasti.

zittirmi!

E alla fine c'era gente che applaudiva sulla chiusura in gloria della batteria, tutta gente che si sapeva che avrebbe applaudito perché è così che si fa, no? Si va a vedere e si battono le mani per simpatia, clap clap, a qualcuno forse era piaciuto, ma anche se non fosse piaciuto a nessuno non sarebbe importato poi molto: perché c'era Andrea accanto al suo pianoforte che Chopin non l'aveva suonato, no, aveva suonato la Palmer e gliel'aveva sbattuto in faccia a sua madre, alla sua famiglia, a tutti.
E alla fine c'era gente che applaudiva sulla chiusura in gloria della batteria, tutta gente che si sapeva che avrebbe applaudito, ma più di tutti c'era Stefano Maisano in piedi accanto alla sua sbigottita moglie, Stefano Maisano che era l'unico ad essersi alzato e che batteva le mani più forte di chiunque altro. Si sarebbe scorticato i palmi, pensò Luca oziosamente, si sarebbe fatto male. Guardava Andrea e Andrea guardava suo padre e si erano trovati, gli venne da dirsi, una volta di più in mezzo alla folla.

La baciò davanti ai camerini e poi dentro ai camerini, cercando a tastoni un modo per slacciarle quel benedetto vestito rosa perché con quello addosso non arrivava bene al suo collo, non arrivava a baciarle le clavicole. Voleva lasciarle segni rossi dal seno al mento, ovunque.
Andrea si bloccò di scatto, mentre lui le palpava la schiena, e si informò gelidamente:
- Che cosa stai facendo? -
- Cerco la zip. - Le spiegò Luca, distratto, provando a sporgersi al di sopra della sua spalla per guardare dove metteva le mani.
- Ah? E per farci cosa, di grazia? -
- Vorrei la tua gola. E' un problema? -
Un attimo di silenzio.
- Devi essere completamente impazzito se credi che questo vestito abbia una zip. -
- Non ce l'ha? -
- Se ce l'avesse, probabilmente sarebbe fatta d'oro. Ha dei bottoni, astuto genio, e sono notevolmente più a sinistra rispetto al punto in cui li stai cercando. -
- Not - evol - men - te, quattro sillabe. -
- Sono cinque. -
- Che cosa avevamo detto a proposito delle parole lunghe? -



- Andrea? -
- Mh? -
- Credo di essere leggermente innamorato di te. -
- … leggermente, quattro sillabe. -
- Andrea? -
- Sì? -
- Fottiti. -



fine.






Note della storia: Questo racconto in quattro capitoli partecipa al concorso Ragazze al pianoforte indetto da Harriet.
Il bando richiedeva di scrivere una storia che ruotasse attorno ad un personaggio femminile, ad un pianoforte e ad una tra le citazioni, canzoni e video proposti come prompt da Harriet. Io ho scelto la stupenda Runs in the family, di Amanda Palmer (per il testo, qui).
Un enorme grazie a LaureDeTroyes e a Salice, le mie eterne e infinitamente pazienti beta.

Note del capitolo: Per Runs in the family, rimando alle Note della Storia. Wikipedia continua a non servire... e con questo capitolo Uno, due, tre, quattro. Asfodelo. si chiude.
Grazie ancora ad Harriet, per aver indetto il concorso, a LaureDeTroyes e a Salice, che hanno corretto questa storia, a lames76, wari, smemorato e Salice (sempre lei! xD) per essersi fermati a lasciarmi un parere. Grazie di cuore.
Lettori silenziosi, non mi dedichereste cinque minuti per darmi un'opinione, adesso che è finita?
That's all Folks - e stavolta davvero!

Qualche mese più tardi: Vorrei ringraziare l'autrice del blog L'isoletta di Zia Agathe per aver pubblicizzato questa storia, e lady snow per avermelo segnalato. Io non ne sapevo niente, grazie di cuore! *_*

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