Tieni la mente bene aperta di PattyOnTheRollercoaster (/viewuser.php?uid=63689)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La corda spezzata ***
Capitolo 2: *** Il club degli artisti di Terabithia ***
Capitolo 3: *** Storie di paura ***
Capitolo 4: *** L'unione delle tre arti ***
Capitolo 5: *** Il compleanno ***
Capitolo 6: *** La Oxford dei poveri ***
Capitolo 7: *** Il mestiere di diventare grandi ***
Capitolo 8: *** Conseguenze di una partenza ***
Capitolo 9: *** Stanca immaginazione ***
Capitolo 10: *** Una serata fuori ***
Capitolo 11: *** Festa a sorpresa ***
Capitolo 12: *** Colazione in camera ***
Capitolo 13: *** Successe il 26 Agosto ***
Capitolo 14: *** Tieni la mente bene aperta ***
Capitolo 1 *** La corda spezzata ***
Tieni la
mente bene aperta
1.La corda spezzata
Era già passata una
settimana da quando Jess e Leslie erano andati a Terabithia
l’ultima volta. Fatto stava che i compiti erano molto
aumentati in vista della vacanze estive. Era il loro primo anno alle
superiori, e tutti e due erano fieri di un anno scolastico passato come
si deve, un primo anno da ricordare, si erano divertiti come non mai,
era di sicuro cento volte meglio che alle medie. Avevano anche
studiato, certo, e proprio per questo non ebbero nessun corso estivo.
Si erano tutti e due impegnati parecchio per avere l’estate
libera dallo studio, e avevano ottenuto quello che volevano.
Fino al giorno prima erano
stato impegnati, ma quel sabato sarebbero finalmente iniziate le
vacanze. Tre mesi senza scuola. Tre mesi senza test o interrogazioni.
Tre mesi a non fare assolutamente nulla, al massimo andare a Terabithia
a riposarsi.
Quando
suonò la campanella tutti si alzarono facendo rumore con le
sedie, parlando e urlando. Jess salutò qualche compagno di
classe, e così fece anche Leslie. Uscirono assieme dal
portone e andarono verso l’autobus. Non usavano
più lo scuolabus, che serviva solo per portare i ragazzini
delle elementari e delle medie. Ormai andavano alle superiori, e
siccome non c’erano scuole superiori nel paese dove abitavano
loro, dovevano andare nella città più vicina.
Con un sospiro Leslie
si sedette sul primo posto che trovò libero. Poco dopo Jass
la imitò, togliendosi lo zaino e posandolo a terra,
incastrato fra il sedile anteriore e le sue gambe. “Non
è incredibile che ci abbiano fatto portare i libri anche
l’ultimo giorno?”, domandò sbuffando.
“Si,
davvero. Ma quando mai la Timmed non spiega? Spiegherebbe anche se un
aereo si schiantasse dentro l’aula”, disse Leslie.
“Probabile.
Quest’anno non ha fatto nemmeno un giorno di assenza. Non
è nemmeno andata in gita con la classe di terza. Secondo me
è rimasta per noi: perché ci odia.”
Leslie rise e lo
guardò, portandosi una mano alla bocca.
“Addirittura. Dici che ci odia?”
“Non lo so,
però hai sentito cos’ha detto l’altro
giorno. Noi siamo la
peggior classe prima che mi è mai capitata”,
disse lui imitando la voce acuta della professoressa e facendo una
brutta smorfia.
La professoressa Rosy
Timmed, l’insegnante di letteratura, aveva detto proprio
così, ma non era assolutamente vero. Lo diceva sempre alle
classi troppo agitate da quando aveva cominciato ad insegnare, sperando
che così i ragazzi si sarebbero spaventati e dati una
regolata, ma non era mai successo in trentasette anni di insegnamento,
e recentemente si era chiesta se fosse stato meglio cambiare approccio.
Quando il bus li
lasciò alla fermata Leslie e Jess cominciarono a camminare
lentamente lungo la grossa via sterrata che portava a casa. Quando
furono arrivati al bivio Leslie prese la strada a sinistra.
“Ci vediamo dopo mangiato alla corda!”,
ricordò a Jess.
“Si!”
rispose lui avanzando e facendole un gesto affermativo con la mano.
Jess camminò fino a casa, e quando fu sulla porta
entrò dicendo: “Eccomi!”
Joyce Anne corse verso
di lui e lo abbracciò forte. Aveva sei anni soltanto, ma la
forza di un elefante, così quando placcò Jess lui
non rimase del tutto indifferente. May Belle invece ne aveva dodici, e
andava per i tredici, così cominciava a cercare di mantenere
un certo contegno. Non era certo una di quelle ragazzine capricciose e
viziate, ma non aveva più l’abitudine di correre a
salutarlo quando tornava a casa. Quest’aspetto di lei un
po’ mancava a Jess.
“Hai finito
la scuola?”, chiese Joyce Anne appeso alle sue ginocchia,
guardandolo dal basso verso l’alto.
“Si
certo”, le rispose lui lasciando lo zaino a terra.
“E
l’anno prossimo potrò venire con te?”
“Ma se devi
ancora iniziare la prima elementare!”, esclamò
sorridendo Jass e prendendole la mano, conducendola in cucina.
Sua madre scelse
proprio quel momento per apparire dalla cucina, e indicando lo zaino
che aveva lasciato per terra Jass disse: “Non credere di
lasciarlo lì solo perché sono iniziate la vacanze
estive.”
“Okay”,
disse Jass roteando gli occhi al cielo. Prese lo zaino e se lo mise in
spalla, salendo in camera sua. Da quando Ellie e Brenda se
n’erano andate all’università, e quindi
abitavano in città in un piccolo appartamento assieme ad
altre due studentesse, aveva ottenuto di avere una stanza tutta per
sé, mentre May Belle e Joyce Anne condividevano la sua
vecchia cameretta, che era diventata di un rosa pallido, piena di
bambole, peluche e altri oggetti simili.
Quando scese Jass
mangiò a tutta velocità, salutò sua
madre, May Belle e Joyce Anne e uscì di casa.
Andò di corsa fino alla corda che portava a Terabithia, e
lì trovò Leslie ad aspettarlo assieme a Prince
Terrian, il cane da caccia di Troll Giganti.
“Andiamo?”,
chiese lei non appena il ragazzo fu arrivato.
“Certo.”
Jess prese da terra il grosso pezzo di legno che utilizzavano ormai da
anni per raggiungere Terabithia e afferrò la corda.
Quell’anno
aveva cominciato a fare caldo molto presto, e il risultato fu che il
fiumiciattolo che attraversavano ogni volta si era prosciugato.
Rimaneva solo un sottile rigagnolo fangoso.
Jess si appese alla
corda e saltò. Nel momento esatto in cui si
abbandonò del tutto e il suo peso gravò sulla
corda, quella si spezzò. Dopotutto era suo diritto, dopo
anni di fedeli servigi, e per di più i ragazzi erano
cresciuti ed erano più pesanti. Leslie non era molto
cambiata: portava ancora i capelli corti, era piccola e sottile, ma il
suo corpo stava cominciando a prendere fattezza da donna, si intuiva
già la curva dei fianchi, i piccoli seni e movenze delicate.
Aveva mani affusolate e piccole, dalle unghie perennemente rosicchiate.
Chi era cambiato molto era Jass. In pochi anni si era allungato di
parecchi centimetri, era diventato alto e il suo viso aveva perso le
fattezze di un ragazzino, acquistando quelle di un giovane uomo. Delle
volte, osservandosi acutamente allo specchio, credeva di vedere un filo
di barba sul mento, ma il più delle volte si sbagliava: era
troppo giovane ancora.
Jass cadde proprio nel
rigagnolo fangoso che era diventato il fiume. Era più
profondo di quello che si aspettasse, e infatti quando cadde, oltre a
farsi molto male cadendo con il sedere sulle pietre vischiose che
ricoprivano il fondo, venne immerso dall’acqua fino alla vita.
“Jess!”,
esclamò Leslie. Cercò di raggiungerlo e si
fermò appena prima di toccare l’acqua. Anche PT lo
raggiunse, e senza curarsi dell’acqua sporca si
tuffò nel fiumiciattolo schizzando fango dappertutto.
“PT!
Sta’ fermo!”, esclamò Jess prendendolo
in braccio e alzandosi. Fu davvero una brutta mossa, perché
l’unica cosa che ottenne fu di macchiarsi anche la maglietta
di fango, mentre il cagnolino scodinzolava felice. “Oh
cavolo!”, esclamò Jass.
“Vieni,
andiamo a casa. Ti presto dei vestiti”, disse Leslie
cominciando a risalire il letto del fiume.
“E di chi?
Di tuo padre?”, chiese Jass uscendo dal fiumiciattolo.
“Perché,
non ti va?”
“Nah, va
bene. Sempre meglio delle grida di mia madre quando mi vedrà
tornare a casa con i vestiti macchiati.”
Jass e Leslie si
diressero verso casa della ragazza assieme a PT. Quando entrarono
sentirono la voce della madre di Leslie che diceva: “Leslie
ma come, sei già tornata?”
“Si, abbiamo
un problema!”, urlò la ragazza avanzando verso la
cucina. Si voltò per dire a Jess di chiudere la porta ma con
sorpresa lo vide ancora impalato sulla soglia, con PT in braccio e bene
attento a non sfiorare nemmeno il tappetino.
“Entra”, lo incitò.
“Ma
macchierò tutto”, protestò lui.
“Togliti le
scarpe allora.”
Jess eseguì
e lasciò le scarpe infangate fuori dalla porta, si
tirò su i pantaloni fino alle ginocchia ed entrò.
Raggiunse Leslie e la signora Burke in cucina. “Che cosa ti
è successo Jess?”, chiese quest’ultima
guardandolo stupita.
“Sono caduto
nel fiume”, disse Jess un pochino imbarazzato.
“Oh.
Va’ di sopra a farti un bagno, ti poterò dei
vestiti di mio marito”, disse. “Leslie
va’ a fare il bagno a quel cane prima che salga sul
divano.”
“D’accordo.”
Leslie prese dalle mani di Jess PT, e tenendoselo ben lontano dal corpo
uscì.
Jess fece la doccia, e
fu davvero un bene, perché scoprì di avere del
fango nei piedi e fra i capelli, oltre a tutti gli schizzi che gli
erano arrivati in faccia per colpa di Prince Terrian. Quando ebbe
finito si asciugò e trovò dei vecchi jeans e una
maglietta lì per lui, che probabilmente dovevano essere del
signor Burke.
Con i capelli ancora
umidi si avviò verso camera di Leslie. “Che
fai?”, chiese entrando, sfregandosi la testa con un
asciugamano.
“Leggevo
questi”, disse lei sventolando un pacco di fogli.
“L’ha scritto mio padre, dice che vorrebbe la mia
opinione.”
“E
fin’ora come’è?” Jass si
sedette sul letto a gambe incrociate.
“Non
male”, disse Leslie mettendo il manoscritto sul comodino.
“Immagino che dovremmo andare a Terabithia in un altro modo
adesso”.
“C’è
il tronco”, osservò Jess.
“Sì,
ma non è bello allo stesso modo. Quella corda era
magica.” Leslie sbuffò dispiaciuta e le spalle le
crollarono, tanto era sconfortata.
Era da molto ormai che
avevano smesso di giocare a Terabithia come una volta, ma era sempre il
loro posto speciale. Il posto dove poteva accadere di tutto. Il loro
posto. Non sarebbe stato più lo stesso se avessero dovuto
attraversare il fiume con il tronco.
“Potremmo
appendere un’altra corda. O costruire un ponte”,
propose Jass illuminandosi, stupefatto della sua stessa idea.
“E’
vero”, approvò Leslie. “Dovremmo
procurarci delle assi di legno, e dei martelli, dei chiodi…
forse sarebbe meglio fare una lista.” Si alzò e
prese un foglio e una biro.
“Lo
costruiremo sul tronco. Altrimenti sarà troppo complicato da
fare e in questo modo sarà anche più sicuro. Non
dovremmo neanche partire da zero”, disse Jass.
“Sono
d’accordo”, disse Leslie appuntando il materiale
che avevano già elencato.
“Dovremmo
fare una scritta da appendere all’entrata”, propose
Jass sognante. “Qualcosa come: Niente ci schiaccerà.
Che te ne pare?”.
“Si, mi
piace. La farai tu, Re
e Primo Artista di Terabithia.”
“Non che
unico”, osservò Jass ridacchiando.
“Comunque sono d’accordo. Sarà come
quando usavamo la corda. Non importa con che mezzo la raggiungiamo,
Terabithia è sempre lì, no?”
“Infatti”,
disse Leslie sorridendo. “Forse nel giardino del retro
c’è qualche cosa che potremmo
utilizzare”, disse Leslie alzandosi. Piegò la
lista e se la mise in tasca.
Scesero al piano di
sotto, passarono attraverso il salotto dorato che avevano dipinto
qualche anno prima e uscirono nel cortile. In un angolo
c’erano ammonticchiati diversi pezzi di legno di diversa
lunghezza e spessore. Jess ne prese alcuni e li esaminò con
cura.
“Sembrano
resistenti”, disse guardando Leslie.
“Perfetto.”
Lei prese un elastico che aveva al polso e si legò i corti
capelli in un gesto a cui ormai Jess era abituato. Si legava i capelli,
che poi spuntavano come un piccolo riccio sulla nuca, solo quando
doveva impegnarsi in qualcosa. Per i compiti in classe particolarmente
complicati o importanti, per cucinare -cosa per la quale non era
assolutamente portata- e quando doveva fare lavori di fatica.
Mentre Jess
ammonticchiava alcuni pezzi di legno uno sopra l’altro per
portarli al fiume chiese, voltandosi verso la ragazza: “Credi
che per stasera i miei vestiti saranno asciutti?” Sapeva che
la madre di Leslie li aveva lavati, e sperava di poter tornare a casa
uguale a come era uscito.
“Credo di
si” disse Leslie. “Sono già ad
asciugare, con il caldo che fa ci metteranno un minuto.”
Presero il grosso
fascio di legna, quattro grosse tavole in tutto, Jess da una parte e
Leslie dall’altra. Uscirono di casa, e non appena furono
fuori incrociarono il padre di Leslie. “Ciao Leslie! Jess!
Che cosa fate?”
“Dobbiamo
costruire un ponte”, rispose Leslie senza fermarsi,
sorridendo al padre.
“Ah, capito.
Non fatevi male, okay?”, si raccomandò lui
entrando in casa.
“Non si
preoccupi signor Burke!”, esclamò Jess.
L’uomo
rientrò in casa e si sedette accanto alla moglie, che stava
accoccolata sul divano a leggere un gorsso libro dalla copertina rigida
e a bere caffè. “Ciao tesoro”, le disse
la moglie dandogli un bacio sulle labbra. “Che cosa stanno
facendo Leslie e Jess?”
“Hanno detto
che devono costruire un ponte”, disse il signor Burke
perplesso. Poi, indicando con il pollice la porta di casa
domandò: “Quelli erano i miei jeans?”
Buon salve!
Ovviamente dopo aver visto il film e letto il libro non si poteva certo
evitare una fan fiction! XD
Parto con dire -attenzione,
sto per spoilerare alla grande- che il fatto che il
personaggio di Leslie sia morto lo trovo talmente ingiusto! Sul serio,
mi dà fastidio in un modo allucinante, per questo ho deciso
di scrivere questa fan fiction.
Ci sono storie che sono talmente perfette che immaginare una fan
fiction alternativa all'interno, o reinventare il finale, mi sembra
quasi impossibile e anche un po' ingiusto. Questa è una di
quelle storie, ma mi ha fatto versare troppe lacrime per passarla
liscia! Questo caso è un'eccezione, e inventare una storia
nuova, anche se il libro è perfetto così
com'è, è stato facile, perchè c'era
una sola cosa che desideravo cambiare, che avete già capito
cosa sia, immagino.
Vi avviso che, se per caso voleste piccole anticipazioni dei prossimi
capitoli, o magari commenti un po' più lunghi su
alcune particolari parti della storia -commenti che sfociano
nel 'filosofeggio' e per questo motivo non scriverò qui-
potete andare sul mio blog (sulla mia pagina personale di EFP trovere
il link).
A dir la verità non mi aspetto lettori a valanghe, anche
perchè questa sezione non è fra le più
frequentate, ma spero comunque di vedere qualche anima pia dare
un'occhiata, e magari se quest'anima lasciasse anche un commento
sarebbe magnifico, perchè altrimenti mi sembrerebbe di
scrivere solo per occupare spazio sul sito XD
Bene, grazie dell'attenzione, se siete arrivati fino a qui significa
che siete dei santi! XD
Al prossimo capitolo,
Patrizia
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Capitolo 2 *** Il club degli artisti di Terabithia ***
2.Il club degli artisti di
Terabithia
Nel giro di una settimana il ponte era
finito. Ci avevano lavorato tutti i giorni, dal mattino presto fino
all’ora di pranzo e poi dopo mangiato fino a quando non
faceva buio. I risultati erano stati ottimi, erano davvero fieri del
loro lavoro: il ponte era resistente e anche bello da vedere. Le assi
erano state dipinte di blu scuro, il corrimano era fatto tutto in rami
e c’era una sorta di portale con sopra un cartello colorato a
forma di rombo, su cui Jess aveva scritto a lettere eleganti ‘Niente ci schiaccerà’.
“Adesso che abbiamo finito mi pare che ci meritiamo un
premio”, disse Leslie osservando il ponte da lontano.
“Giusto” concordò Jess seguendo il suo
sguardo. “Le provviste di Terabithia saranno tutte scadute a
questo punto. Non ci andiamo da quasi un mese.”
“Hai ragione. Non dovremmo portare là cose
fresche. Vanno bene i biscotti e le caramelle. Ma la marmellata e il
pane dovremmo evitarlo. Lo porteremo a piccole dosi.”
“D’accordo. Allora andiamo”, disse Jess
passando attraverso il ponte. Mise il primo piede con
solennità ma circa a metà si fermò e
prese a saltellare. Allo sguardo interrogativo di Leslie rispose:
“Volevo vedere se teneva per davvero.”
Arrivarono all’albero dove avevano costruito la casa e vi si
arrampicarono. Una volta dentro dovevano stare un po’ chini,
erano cresciuti di molto negli ultimi anni, soprattutto Jess. Si
sedettero l’uno di fronte all’altro, le gambe
incrociate, e cominciarono a mangiare biscotti. Da una delle
finestrelle riuscivano a vedere benissimo il nuovo ponte che portava a
Terabithia. Lo osservarono in silenzio, masticando lentamente.
“Che cosa pensi di fare dopo la scuola?”, chiese
improvvisamente Jess.
Leslie posò il biscotto che stava per mangiare e ci
pensò. “Non lo so”, disse alzando le
spalle. “Però mi piace tanto scrivere i temi
scolastici e inventare storie, quindi credo che vorrei fare la
scrittrice anch’io, come i miei.”
“Si, in effetti sei portata. Sei l’unica che riesce
a prendere una A con la Timmed. Sei una raccomandata!”,
ghignò Jess.
“Può darsi. Magari mi dà dei bei voti
solo perché vuole conoscere mia madre.” Leslie
sorrise.
“Probabilmente è così”,
osservò Jess con una falsa aria di disappunto.
“E tu?”, chiese Leslie.
“Boh. Veramente non c’è niente che mi
piace fare particolarmente”, disse Jess.
“Ma sei molto bravo a disegnare, e anche in matematica e
fisica. Non so come fai!” Leslie scosse la testa e
mangiò finalmente il biscotto che continuava a portare alla
bocca e poi dimenticare.
“Si va be’. Ma non è che mi piaccia
molto matematica, o fisica. Se le faccio bene è solo una
fortuna. E poi… non credo che il disegno mi
porterà da qualche parte. Prima di tutto perché i
miei non mi faranno mai
frequentare una scuola apposta. Sai come la pensa mio padre sul
disegno”, disse Jess con una smorfia.
Leslie sospirò. “Forse se gli dimostri che sei
davvero bravo allora ti lascerà. Non può negare
che tua sia molto portato.”
“Mi servirebbe prendere delle lezioni, ma quelle
costano.” Jess rimase pensoso per un po’, poi
disse: “Credo che mi troverò un lavoro estivo,
così potrò mettere da parte qualcosa, e poi forse
potrò pagarmi da solo un corso di disegno.”
“E’ una buona idea. Ma intanto che tu lavori io che
farò tutto il tempo qua da sola?” chiese Leslie un
po’ dispiaciuta.
“Mica vorrai restare qui a far nulla tutta
l’estate”, la rimproverò Jess.
“Perché no? Gli anni scorsi l’abbiamo
fatto.”
“Si ma adesso abbiamo sedici anni, perciò potremmo
anche avere un lavoro.”
“Ah! Tu
hai sedici anni, io ne ho ancora quindici”,
sottolineò Leslie.
“Ma li compirai a Luglio. Non manca tanto” disse
Jess. Rimase ancora un po’ in silenzio.
“T’immagini se riuscissi a convincere mio padre a
lasciarmi studiare arte? Il mio unico compito sarebbe disegnare! Ci
possono essere dei compiti migliori di questo?”, chiese
esaltato.
“Probabilmente no”, disse Leslie sorridendo davanti
al suo entusiasmo.
“Dovrei insistere davvero tanto. E dovrei essere il migliore,
forse così mi daranno una borsa di studio”,
osservò Jess pensoso.
Leslie rimase ad osservarlo, poi prese la sua decisione. La decisione
che molto probabilmente avrebbe cambiato radicalmente le loro vite,
anche se al momento nessuno dei due se ne rese conto.
“Ho deciso Jess! Quest’estate anche io
m’impegnerò a scrivere.”
Jess sorrise e tese la mano. Leslie la prese e la strinse forte.
“D’accordo!” avevano stretto un patto, e
quando loro stringevano un patto s’impegnavano a mantenerlo
al massimo.
“Non ti pare che tutti e due siamo molto, non so…
artistici?”, chiese Leslie ad un tratto, sorridendo eccitata.
“Che vuol dire essere artistico?”
“B’è tutti e due vogliamo fare dei
mestieri non molto comuni. Tu vuoi disegnare e io voglio scrivere. Sai,
dovremmo formare un club.”
“Mi pare una buona idea”, disse Jess,
già soddisfatto di essere considerato artista. “Un
club di artisti.”
“Gli artisti di Terabithia.”
“Solo le persone che conoscono Terabithia e vogliono fare
carriere abbastanza artistiche possono entrarci”, decise Jess.
“Per ora siamo solo in due, ma chissà che non vi
si unisca anche Joyce Ann”, disse Leslie.
Jess sorrise. “Non mi dispiacerebbe se succedesse: Joyce Ann
è una delle mie sorelle preferite… a parte May
Belle.”
“Allora è deciso. Quest’estate
cercheremo di diventare una scrittrice e un pittore” disse
Leslie con un grosso sorriso. Jess non poté fare a meno di
pensare che era un’idea meravigliosa, e già
s’immaginava a viaggiare in giro per il paese a fare mostre.
“Però devi promettere!”, aggiunse Leslie
tendendogli di nuovo la mano, “Devi promettere che niente ci
fermerà, e che faremo di tutto per realizzare il nostro
sogno, e che se servirà ci sosterremo a vicenda.”
Jess sorrise e le strinse la mano. “Prometto”,
disse, e pensava davvero a ciò che stava per dire, e
desiderava ardentemente che le sue parole si avverassero.
“Farò di tutto per realizzare il mio sogno, e ci
sosterremo a vicenda.”
Sbuffando, Leslie gettò un foglio nel cestino della
spazzatura, poi appoggiò il mento alla mano e rimase a
fissare insistentemente attraverso il vetro della finestra. Pensava che
la sua fantasia sarebbe bastata a scrivere almeno un racconto. Nemmeno
troppo lungo magari. Ma no! A quanto pare la fantasia doveva finire
proprio in quel momento. Doveva essere proprio sotto terra,
perché Leslie non si era mai sentita così
abbattuta e priva di idee come allora. Era da giorni ormai che pensava
in continuazione ad una storia. Purtroppo tutto quello che scriveva, o
addirittura abbozzava su fogli trovati in giro per casa, sembrava
inizialmente buono, ma ad una seconda rilettura pareva scontato,
banale. Oppure Leslie si ritrovava a far vivere ai suoi personaggi
avventure e di intrighi senza fine, senza poi riuscire a togliergli
dagli impicci.
E’ assurdo!,
si disse una di quelle volte, non
riesco a risolvere un problema in un mondo che ho creato io stessa! Se
non sono capace di farlo io come potranno farlo i miei personaggi?
Qualcuno bussò alla porta e il padre di Leslie
entrò con una tazza di tè caldo. “Ciao
tesoro. Ti ho preparato il tè al limone, il tuo
preferito.”
“Grazie”, biasciò teatralmente Leslie
facendo cadere la testa sulla scrivania.
Sentì suo padre avvicinarsi e posare la tazza al suo fianco.
Poi udì le molle del letto abbassarsi. Si girò,
con un fantastico broncio dipinto sul viso, a guardare suo padre.
“Che cosa c’è?”, chiese lui.
“Non riesco a scrivere nessuna storia”, disse
cupamente Leslie.
“Ah, capisco”, disse suo padre annuendo a guardando
altrove. “Sai, quando mi hai detto che volevi scrivere un
racconto sono stato molto fiero di te. E sono sicuro che riusciresti
benissimo a farlo ma, sai, scrivere è diverso da immaginare.
Io so che tu hai una grande immaginazione. Ma spesso immaginare
qualcosa è la parte più semplice. Per non parlare
poi di immaginare una storia: immaginare una storia è una
delle cose più difficili che esistano al mondo.”
“Me ne sono accorta”, disse Leslie prendendo la
tazza di tè.
“Spesso l’inizio non è poi
così difficile, ma poi mantenere il ritmo della narrazione
è molto complicato. Lo sai anche tu, no? Hai letto un sacco
di libri.” Leslie annuì.
“B’è, se ti posso dare un consiglio
è di leggere il più possibile, e di cercare
ispirazione in qualcosa che ti piace. Si può trovare
ispirazione in tutto. In giro, in casa, facendo esperienze. La tua vita
è una fonte preziosissima di ispirazione, forse la
più preziosa di tutte. E non ti preoccupare di non riuscire,
non ti sforzare soprattutto. Un’idea forzata non è
la soluzione migliore. Aspetta quello che io chiamo il colpo.”
“Il colpo?”, domandò Leslie poco
convinta, ma tuttavia curiosa.
“Si, il colpo. L’attimo che ti farà
venire in mente una storia diversa dalle altre, talmente buona che non
saprai nemmeno come tu come hai fatto ad immaginarla”, disse
il signor Burke con un vago sorriso sulle labbra.
“D’accordo”, disse Leslie sorridendo.
“Ti ho mai fatto leggere la prima stesura dei miei libri? No,
vero?”
“Non credo”.
“Bene, se mai volessi leggerne una dimmelo subito. Non ti
puoi immaginare quanto sia diversa la storia e delle volte persino lo
stile, alla prima stesura di un lavoro.”
“Okay, grazie mille papà.” Leslie
sorrise e strinse più forte le mani sulla tazza calda. Era
una cosa che le piaceva fare. Dopo aver finito di bere aveva le mani
calde calde.
“Di nulla tesoro”, le disse il padre. Le diede un
bacio sulla fronte e uscì.
Leslie rimase nella stanza a bere il tè bollente e guardare
fuori dalla finestra. Dopotutto suo padre aveva ragione. Forse era
meglio non corrucciarsi troppo e aspettare l’idea giusta.
Elaborala gradualmente nella sua mente e, solo quando era sicura di
essere sulla buona strada, metterla per iscritto.
Si, avrebbe fatto così. Nel frattempo, chissà che
non le sarebbe stato utile leggere diversi libri, di diversi autori,
genere ed epoca. I più famosi magari: Charles Dickens,
Thomas Hardy, Oscar Wilde, le sorelle Bronte. Oppure ancora Jane
Austen, Ernest Hemingway, Robert Louis Stevenson, Emily Dickinson.
Erano così tanti, ma questo non era un problema. Voleva solo
dire che si sarebbe messa d’impegno a leggere.
La casa pareva addirittura disabitata. Una buona parte del muro era
coperta da edera rampicante, il giardino era disseminato di erbacce e
spazzatura, la vernice bianca del cancelletto in ferro si era quasi del
tutto staccata e, nel complesso, sembrava stare in piedi per qualche
brutto scherzo del destino, che non aveva voluto farla crollare solo
per dispetto nei confronti di chi la guardava. Jess spinse il
cancelletto cigolante e dopo aver superato il giardino disastrato
bussò alla porta. Dall’altra parte provenirono dei
rumori di catenelle, poi la porta si aprì, rivelando la
donna più eccentrica che Jess avesse mai visto.
“Tu sei Jess Oliver Aarons?”, chiese con voce
decisa.
“Si. Lei è la signora Felicity
Grenike?”, domandò a sua volta il ragazzo.
“Signorina. Entra”, disse scostandosi dalla porta e
lasciandolo entrare.
Jess entrò e si guardò attorno. Gli
bastò una sola occhiata per capire che l’interno
della casa era una fedele riproduzione dell’esterno. E
sinceramente, guardando anche la proprietaria, non ci si poteva
aspettare altro.
Felicity Grenike era una donna alta e secca, dalle maniere eleganti e
con un carattere duro e temprato dall’esperienza. Aveva i
capelli bianchi, e li teneva ancora abbastanza lunghi, legati in una
stretta e alta crocchia in cima alla testa. I suoi occhi erano azzurri
e penetranti, il suo naso dritto e perfetto. Non aveva l’aria
di un’anziana, aveva una pelle chiara e poche rughe profonde.
Quel giorno indossava una larga camicia colorata, di un rosso intenso,
simile a quelle che si vedono in Africa, pensò Jass. Poi dei
pantaloni verdi, anche quelli molto larghi, che cadevano elegantemente
ai suoi piedi e fluttuavano ad ogni suo movimento. Il tutto era
addobbato da bracciali e gioielli.
La donna condusse Jess in salotto e lo fece sedere sul divano, davanti
ad un tavolino sul quale era posato un vassoio con del tè e
dei biscotti mezzi bruciacchiati. Lei si sedette sulla poltrona di
fronte a lui, incrociando le gambe in modo elegante e posando le
braccia ingioiellate al ventre. “Allora Jess, per prima cosa
vorrei chiederti perché hai deciso di venire a lavorare per
me.”
“B’è…” Inizialmente
Jess aveva pensato solo di dire che voleva guadagnare un po’
di soldi, ma alla fine il suo orgoglio prevalse. Voleva che sapesse
delle sue ambizioni, anche se la signora era praticamente una
sconosciuta. “Voglio mettere da parte dei soldi per potermi
pagare delle lezioni di disegno.”
Negli occhi di Felicity Grenike passò un veloce lampo, ma fu
talmente fugace che Jess pensò di averlo solo immaginato.
“Bene. Al telefono hai detto che t’intendi di
lavori manuali.”
“E’ così”, disse Jess, e il
suo pensiero volò verso il ponte di Terabithia.
“Perfetto. Verrai da me ogni pomeriggio, dalle due alle sei,
dal lunedì al venerdì, e farai tutti i lavori che
ti dirò di fare. Sarai come un uomo tuttofare”,
disse con cipiglio severo. “Per quanto riguarda la tua paga,
siccome dovrai fare lavori pensanti, credo che potrebbero andar bene
anche trenta dollari a giornata.”
“Sette dollari e cinquanta all’ora.”
“Precisamente. Per la prossima volta indossa vestiti
più adatti, non vorrei che tua madre mi accusasse di farti
sporcare il vestito buono della domenica. Per ora potresti iniziare con
il giardino. In cucina troverai i sacchi grandi della spazzatura, in
garage tutti gli attrezzi per estirpare le erbacce.”
Jess, senza farselo ripetere due volte, si alzò e
andò in cucina. Trovò i sacchi della spazzatura
e, in garage, per precauzione, prese due grossi guanti. Non appena
uscì nel giardino, guardandosi attorno e chiedendosi da dove
sarebbe stato meglio iniziare, vide la signorina Grenike, sulla porta
di casa, spegnere una sigaretta sul tacco della scarpa e poi gettarla
in mezzo all’erbaccia. Jess sospirò e
cominciò.
Si prospettava un lavoro lungo.
“Allora com’è andata?”, chiese
Leslie.
“Abbastanza bene. Però in una sola settimana sono
riuscito soltanto a mettere a posto il giardino, ripulirlo dallo schifo
e piantare dei fiori”, rispose Jess. “Quella
signora è strana forte. Dovresti vederla, scommetto che ti
piacerebbe un sacco.”
“Dici?”, chiese Leslie guardando altrove.
“Secondo me sì. Mette sempre dei… non
lo so, dei vestiti stranissimi. Non so neanche quanti anni abbia, ma
non è giovane. Come minimo ha sessantacinque o sessantasei
anni, se non di più. Comunque… tu?”
“Mah, nulla di che. Sto leggendo un sacco. Per prendere
spunto, sai?”
“Che cosa leggi?”
“Un sacco di vecchi romanzi. Ho finito di leggere
l’altro giorno Ragione
e sentimento di Jane Austen. E adesso sto leggendo Il vecchio e il mare
di Hemingway”, disse Leslie.
“E che te ne pare fin’ora?”
“La Austen non è per niente male, credo che
leggerò qualcos’altro di suo. Mi piace il suo
stile. E’ serio, però riesce a tenerti incollato
al libro. Per quanto riguarda Hemingway…” Leslie
si bloccò un secondo. “Sai, i grandi scrittori del
passato non cadevano affatto nel banale quando parlavano del dolore. E
sapevano che si può manifestare nei momenti più
banali della nostra vita. Prendi ad esempio il dolore di un uomo che
mangia, o che guarda fuori dalla finestra.”
Jess rimase un secondo in silenzio, poi sorrise e disse:
“Cavolo. Una decina di pagine di Hemigway e sei diventata
Socrate.”
Leslie rise e si allungò per prendere la grossa bottiglia
d’acqua che stava sulla mensola proprio sopra le loro teste.
Leslie teneva le bottiglie nel freezer e aspettava che fossero gelate,
poi le portava sulla casa. Faceva talmente caldo che il ghiaccio si
scioglieva in circa due ore. Spesso rimaneva un grosso ghiacciolo
informe che galleggiava nel mezzo della bottiglia di plastica, ma alla
fine anche quello si scioglieva e l’acqua rimaneva fresca.
“A proposito di Socrate”, disse Jess,
“l’altro giorno ho trovato un suo libro nella mia
stanza. Dev’essere stato di mia sorella, solo che lo ha
dimenticato. Ne ho letto un paio di pagine ed è
interessante. Se vuoi te lo passo.”
“Grazie. Ma che cos’è? Un
racconto?”, chiese Leslie.
“No. In pratica Socrate era stato arrestato e nella sua Apologia
c’è scritto tutto quello che ha detto quando si
è difeso davanti ai giudici. E’ impressionante,
riesce a rigirare la storia come vuole lui. Infatti lo accusavano di
essere un sofista, e sai una cosa? Avevano assolutamente
ragione”, disse Jess con un sorrisino.
“Davvero? Bello. Immagino che un personaggio così
sia interessante, no?” Leslie pensò ad un
personaggio dal grande carattere e con tanto carisma. Uno come Socrate,
o come Dorian Gray. Affascinante.
“Probabile. Mi passi l’acqua?” Jess
allungò una mano e prese la bottiglia che Leslie gli
porgeva. Proprio mentre beveva si ricordò di una cosa:
“Hm!” esclamò bevendo. Posò
la bottiglia e disse con aria stralunata: “Mio padre ieri ha
trovato il libro su Caravaggio che mi hai regalato al mio
compleanno.”
“E che ha detto?”
Jass sbuffò. “Ha detto un sacco di cose. Prima di
tutto che l’arte è una perdita di tempo, poi che
dovrei farmi regalare dai miei amici cose più utili e, alla
fine, che Caravaggio ci provava con i suoi modelli.” Jess
fece una faccia come a dire assurdo
no?
“Però è vero… di Caravaggio
e i suoi modelli”, osservò Leslie.
“Si ma come fa mio padre a saperlo? E comunque anche se fosse
non è interessante. Quello che importa sono i suoi
quadri”, disse Jess. “Aveva una tecnica pazzesca,
sembrano fotografie”, disse allucinato.
“Sono contenta che ti piacciano. Non sapevo proprio che cosa
regalarti. Ne hai trovato uno che ti piace in particolare?”
“Si” disse subito Jess. “Si chiama Amor Vincit Omnia
e, in pratica, c’è questo ragazzino con le ali
nere, che rappresenta l’amore, e ai suoi piedi un sacco di
cose. Libri, un’armatura, degli strumenti e alcuni spartiti.
Significa che l’amore vince tutto: guerra, musica e
letteratura, tutto.”
“Hm…”, fece Leslie, “Dovrei
scoraggiare questo genere di cose.”
“Perché?”, chiese Jess stupito.
“La letteratura non viene vinta!”
esclamò lei.
Jess la guardò un secondo, poi la spinse leggermente,
ridendo.
Ecchime! ^^
Allora, principalmente il tema di questo capitolo è quello
su cui si basa tutta la fic,
Lo so, alcuni di voi saranno delusi, perchè non si tratta di
una storia d'amore ma di altro, però mi giustifico dicendo
che non c'era scritto nulla di 'amoroso' nel genere XD Insomma, volevo
scrivere qualcosa di diverso, perchè tutte le fic su questo
fandom parlano di storie nelle quali Leslie e Jess si innamorano o one
shot tristi dal punto di vista di Jess.
Ho fatto vivere Leslie perchè altrimenti non sapevo come
fare una fic, non volevo farne una triste. Credo di essere stata
-molto- infulenzata dal fatto che quando l'ho scritta stavo facendo
l'ultimo anno di liceo XD Si, più avanti probabilmente si
noterà di più XD
Comunque non disperate, è possibile che più
avanti accada qualcosa. Non voglio spoilerare troppo però!
Uhuhuh!
Recensioni! Miracolosamente ne ho ricevuta una, sono soddisfatta anche
perchè non me ne aspettavo neanche una ad essere sinceri! XD
Lady Marion:
wow grazie per la recensione, che anima pia! XD Mi spiace ma ho
già infranto i tuoi sogni riguardo a Jess e Leslie che si
mettono assieme, so che in questo modo diventerò molto
impopolare, ma mi sembrava scontato altrimenti XD Comunque, grazie
mille per aver commentato, ciao ciao :)
Un grazie sincero a chi ha letto, spero che aumenterete dato che
così siete ben in pochi! XD Però, insomma,
già sapevo che questa sezione non era poi così
adatta per le long fic, comunque, anche se non ci sarà
nessuno a commentare, se ci sarà anche un solo lettore o
anche una sola persona che segue, io continuierò
imperterrita a postare! La storia tanto è già
finita, si tratta di fare una piccla revisione, non vi
abbandonerò! XD
Patrizia
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Capitolo 3 *** Storie di paura ***
3.Storie
di paura
“Jess!”
La signora Grenike fece una pausa. “Jess!”,
gridò di nuovo.
“Si?”, la voce del ragazzo giunse ovattata dalla
cantina, dove stava riordinando e ripulendo.
“Potresti venire un attimo? Sono nello studio.”
“Arrivo signorina Grenike!” Si liberò di
uno specchio alquanto impolverato che teneva in mano e salì
le scale. Non aveva mai visto lo studio dell’anziana signora,
del quale gli era stata proibita l’entrata in qualsiasi
situazione, ma rimase stupefatto.
Lo studio consisteva in una grande stanza soleggiata, illuminata da una
grossa finestra circolare che si trovava proprio sul soffitto. La
stanza era piena di quadri e disegni appesi alle pareti e anche alcune
piccole statue di uomini curiosamente allungati, come quelli che Jess
vedeva spesso al mercato nelle bancarelle africane. Poi
c’erano un piccolo armadio in metallo grigio e un lavello in
un angolo. A terra c’erano montagne di fogli di giornale
macchiati di tutti i colori, diverse boccette di colori ad olio, quasi
tutte senza tappo, mandavano un odore curioso e pungente. In mezzo a
tutto questo c’era la signorina Grenike, voltata di spalle,
che stendeva generose pennellate di verde su una tela alta quanto lei e
larga almeno tre metri.
Quando sentì Jess arrivare, Felicity Grenike si
voltò con sorpresa, quasi non fosse stata lei a chiamarlo.
Lo guardò con attenzione e poi gli fece segno di
raggiungerla. Jess eseguì, e rimase a contemplare il quadro
che stava dipingendo.
“Che cosa te ne pare?”, domandò
allontanandosi dal dipinto per avere una visuale migliore.
“Non saprei dire. Non è ancora finito”,
disse Jess sperando di non offendere la vecchia signora. Il suo era
però un giudizio sincero.
“Hai assolutamente ragione. Aiutami a mettere a
posto”, disse Felicity mettendogli in mano il grosso pennello
e la boccetta di colore. In realtà si aspettava che Jess la
lodasse, il che equivaleva a dire che il ragazzo era un vero
leccapiedi, ma era rimasta compiaciuta invece dalla risposta che aveva
avuto.
Jess mise a posto tutto ciò che trovò a portata
di mano, mentre la signora si affaccendava attorno al quadro e non lo
faceva avvicinare nemmeno di un millimetro. Quando ebbe pulito fino
all’ultimo pennello e messo via tutto nell’armadio,
la signora Grenike gli indicò un angolo della stanza.
“Va’ a prendere un cavalletto e dei fogli. Delle
matite grasse e della gommapane.”
Jess prese tutto quello che gli era stato chiesto. Felicity
posizionò il cavalletto al centro della stanza, prese un
foglio e lo appuntò sul legno del cavalletto con delle
puntine colorate. Prese la matita dalle mani di Jess e
cominciò a tracciare linee sul foglio.
“Quando si fa la copia dal vero, la prima cosa che devi fare
è tracciare una verticale sul tuo foglio, e tracciare una
linea immaginaria sulla figura che vuoi copiare. Così
facendo capirai meglio dove si trovano le linee compositive rispetto
alla figura, e avrai minori possibilità di sbagliare. La
seconda cosa da fare è osservare bene il soggetto. Non devi
disegnarlo come credi che sia, come la tua mente è abituata a pensare
che sia. Lo devi guardare. Infine, devi partire dal generale per
arrivare al particolare.”
“Che vuol dire?”, chiese Jess dubbioso.
“Vuol dire quello che ho detto. Figura generale. Particolari.
Tieni”, gli mise la matita in mano e sparì. Quando
tornò aveva con sé un gesso rappresentate la
testa di una donna, per niente complicata, senza espressione. La mise
di fronte a Jess e uscì, dicendo: “Torno fra due
ore.”
Jess osservò il disegno che lei aveva fatto. C’era
una semplice testa abbozzata e, sotto, c’era scritto in una
grafia minuta ed elegante: 1.
Verticale; 2.
Osservare; 3.
Dal generale al particolare.
Jess prese la matita e guardò la statua. Non sarebbe stato
affatto complicato.
“Oh mio Dio”, disse lentamente Felicity portandosi
una mano al petto. “Non ho mai visto niente di più
terrificante”, commentò guardando meglio il
disegno di Jess. Gli prese dalle mani la matita e cominciò a
tracciare linee, gettando di tanto in tanto qualche occhiata al
soggetto di fronte a lei. Guardando come faceva, Jess si rese conto che
aveva assolutamente ragione. C’erano delle visibili
differenze fra quello che aveva fatto lui e come Felicity stava
ritoccando il disegno.
“Il chiaroscuro si applica in questo modo” disse
tenendo la matita leggermente inclinata e passandola con decisione sul
foglio. “Non devi sfumare con le dita, in quel modo il colore
diventa… monotono. Devi imparare a farlo con la matita,
chiaro? Poi usi la gommapane per cancellare le parti troppo scure, devi
usarla in questo modo.” E gli mostrò come fare,
dando piccoli tocchi al foglio con una punta di gomma stretta fra le
dita.
“D’accordo”, disse Jess osservando con
attenzione.
“Bene. Per oggi abbiamo finito. Ci vediamo domani alla stessa
ora. Tieni”, e gli allungò trenta dollari.
“Oh, hmmm… se lei ha intenzione di continuare
queste lezioni, può anche non pagarmi. Io le metto a posto
la casa e lei m’insegna, potremmo fare
così.”
“Non dire sciocchezze, questi soldi ti serviranno per
comprare tutto il materiale necessario per le lezioni. Mi piacerebbe
che domani venissi di mattina, verso le nove. E dammi del
tu”, disse Felicity mettendogli in mano il denaro senza
troppi complimenti.
Jess uscì di casa con passo baldanzoso, prese la bici e si
avviò verso la lunga strada che lo avrebbe condotto a casa.
Non appena fu arrivato mise i soldi nella scatola di cartone che
nascondeva in un piccolo buco del muro che stava proprio sotto il suo
letto. Stava per uscire di nuovo e andare da Leslie, quando suo padre
lo fermò.
“E’ inutile che esci, tanto fra poco
mangiamo.”
“Okay” disse lui tornando a sedersi in salotto.
“Ah papà. Domani devo andare dalla signora Grenike
alle nove.”
“Perché?”
“Non lo so, mi ha detto solo di andare da lei per
quell’ora.”
“Che cosa pensi di fare con i soldi che guadagnerai
Jess?”, chiese all’improvviso il padre alzando lo
sguardo dal giornale.
Jess aveva pensato subito di non dire a nessuno, a parte Leslie, come
voleva usare quei soldi, così mentì
spudoratamente: “Non lo so. Forse potrei comprarmi una bici
nuova.”
“E’ ora che impari il valore del denaro. Potresti
comprarti qualcosa di utile”, disse il padre di Jess con
sguardo severo.
La voce di sua madre arrivò dalla minuscola cucina:
“Sono i suoi soldi! Lascialo stare!”
Quella sera dopo cena Jess andò subito da Leslie e gli
raccontò cos’era successo con Felicity Grenike
quel pomeriggio. Quando ebbe finito il racconto chiese esitante:
“Posso chiederti un favore?”
“Ma certo”, disse Leslie.
“Se dovrò comprare cose per disegnare o
dovrò portare a casa i disegni, potrò portarli a
casa tua? Non credo che a mio padre farà piacere che io
prenda lezioni, quindi forse si arrabbierà se
vedrà tutte quelle cose”, disse Jess esitante. La
sua famiglia gli aveva insegnato a non chiedere troppi favori alla
gente: anche nei momenti peggiori gli Aarons se l’erano
cavata con le loro sole forze: risparmiando, stringendo la cinghia e
continuando a lavorare sodo.
“Ma certo non preoccuparti. Avevamo promesso di aiutarci a
vicenda, no?”, disse Leslie sorridendo. “Sto
cominciando a scrivere qualcosa”, disse poi orgogliosa.
“Davvero? Di che cosa si tratta?”,
domandò Jess accomodandosi meglio sul letto d Leslie.
“Un racconto fantasy”, disse la ragazza scrollando
le spalle.
“Posso leggerlo?”
“Preferirei che lo leggessi quando sarà
finito”, disse Leslie con una piccola smorfia. In
realtà il suo racconto non era molto vicino
all’essere terminato, ma quello, a differenza di altre cose
che aveva provato a scrivere, la convinceva molto più di
altre storie, ed era sicura che l’avrebbe portato a termine,
anche se non sapeva ancora come sarebbe andato a finire.
“E quanto sarà lungo? Più o
meno.”
“Non molto, è solo un racconto. Una decina di
pagine, forse meno. Sembra facile, ma scrivere anche una decina di
pagine è complicato.”
“Non ho mai scritto nulla di mia invenzione. Solo temi dove
avevo anche la traccia da seguire, quindi non saprei”, disse
Jess con un’alzata di spalle. Poi sorrise raggiante:
“Hai avuto una buonissima idea con il Club degli Artisti di
Terabithia.”
“Grazie”, disse Leslie fiera.
Jess guardò l’orologio e disse alzandosi:
“Devo andare, è tardi.”
“Perché non resti? Dai, andiamo a chiedere ai tuoi
genitori se puoi restare a dormire da me”, disse Leslie
alzandosi a sua volta.
“Non lo chiedi ai tuoi prima?”
“Diranno di sicuro di sì”, disse Leslie
agitando una mano. Andò a cercare uno dei due genitori, i
quali accordarono subito il permesso. Quindi Leslie tornò di
sopra e disse: “I miei hanno detto di sì. Dai
andiamo a chiederlo ai tuoi.”
I due fecero una corsa fino a casa di Jess. Trovarono Joyce Ann a
giocare con qualche barbie, mentre May Belle leggeva un libro, la madre
di Jess finiva qualche faccenda di casa e suo padre guardava la tv.
“Papà, posso andare a dormire a casa di
Leslie?”
L’uomo alzò un sopracciglio, li squadrò
per bene, poi chiese: “I tuoi genitori sono
d’accordo Leslie?”
“Si signor Aarons.”
“Allora va bene”, rispose l’uomo tornando
a voltarsi verso la tele.
Jess prese pigiama, spazzolino e dei vestiti puliti per il giorno dopo,
poi tornarono a casa di Leslie. Una volta in casa i due trascinarono
dalla stanza degli ospiti un letto in camera di Leslie, poi la ragazza
esclamò: “Facciamo un pigiama party! Va’
a cambiarti.”
“D’accordo”, disse Jess sorridendo
leggermente.
Così, mentre Jess s’infilava nel bagno, lei si
mise una lunga vestaglia azzurra che usava come pigiama. Quando il
ragazzo tornò fu leggermente delusa che il suo pigiama non
fosse un vero pigiama, piuttosto una vecchia maglietta larghissima e
dei pantaloncini consunti, ma in fondo non le importava più
di tanto.
“Che facciamo adesso?”, chiese Jess.
“Cosa si fa ad un pigiama party?”
“Non lo so.”
“Senza offesa, sembra tanto una cosa da ragazze”,
disse Jess con una smorfia.
Leslie gli fece il verso: “Sembra tanto una cosa da ragazze.”
Jess rimase un secondo in silenzio, poi chiese: “Hai ancora
la torcia a pile?”
“Certo.” Leslie cercò in un grosso baule
in legno che teneva ai piedi del letto e tirò fuori la
torcia, dicendo trionfante: “Eccola!”
“Dammi qua.” Jess prese la torcia,
l’accese e spense la luce. “Ti racconto una storia
di paura”, disse sedendosi sul letto e puntandosi la torcia
sotto al mento. La luce forte della torcia, che illuminava uno spazio
ristretto, rendeva tutto il resto della stanza di un buio pece, senza
nemmeno le ombre.
“D’accordo”, disse Leslie dopo un attimo.
Si sedette di fronte a Jess con le gambe incrociate.
“Allora. Questa storia me l’ha raccontata mio padre
quando ero piccolo. Circa cinquant’anni fa, in queste
campagne, c’era una casa disabitata da anni. Era tutta
bianca, con i tetto e le finestre dipinte di marrone scuro, ma a quei
tempi era tutta rovinata. C’è ancora, non
è molto lontana da qui. Un giorno, un giovane di nome Harry,
passò da queste parti e decise di comprarla. Al momento di
concludere l’affare il proprietario, che non vedeva
l’ora di disfarsene, disse a Harry che molti credevano che la
vecchia casa fosse infestata da fantasmi, ma di non far caso alle voci
e di non preoccuparsi se molti sarebbero stati strani nei suoi
confronti, che pian piano ci si sarebbero abituati. Harry, che non era
affatto superstizioso, non diede peso alle parole dell’uomo e
cominciò a ristrutturare la vecchia casa tutto da
solo.”
Jess fece una pausa d’effetto, poi riprese: “Una
sera, mentre Harry cenava, sentì un forte tonfo provenire
dalla soffitta. Pensando che fosse caduto qualcosa andò a
controllare, ma la soffitta, nella quale non era mai entrato, era
vuota. Tranne che per una fotografia in una cornice ovale, in bianco e
nero, che si trovava per terra esattamente al centro della soffitta.
Rappresentava una donna dai capelli scuri e una ragazza circa della
nostra età. La somiglianza fra le due era lampante, ed Harry
pensò che fossero madre e figlia, forse due vecchie
inquiline della casa. Pensando di gettare via la foto la
portò al piano di sotto, ma poco dopo se ne
dimenticò.
“Continuava a rimettere a posto la casa, ripulirla dalla
polvere e dalle ragnatele, rimettere a posto i mobili e le cose rotte.
Un giorno, mentre metteva via diversi vecchi documenti da buttare, vide
un figura vestita di rosso sgargiante camminare nel corridoio. Pensando
che qualche curioso fosse entrato in casa sua andò a
controllare, ma non c’era nessuno. Camminò avanti
e indietro per il corridoio e, quando arrivò di fronte ad
uno specchio in salotto, che prendeva tutta la sua immagine da capo a
piedi, raggelò. C’era una scritta sopra, fatta con
il sangue, che diceva: vattene.”
Leslie era sempre più emozionata, e voleva assolutamente
sapere come andava a finire la storia. “Era stato il
fantasma?”, chiese impaziente.
“Certo che era stato lui. Ma il fantasma di chi secondo
te?”, chiese Jess.
“Va’ avanti”, disse Leslie stringendosi
le ginocchia al petto.
“Harry, all’inizio, credette in uno scherzo di
qualche ragazzino, ma si dovette ricredere quando continuò a
sentire strani ululati nella notte, tonfi sospetti che lo facevano
sobbalzare e ancora scritte che gli intimavano di lasciare la casa e lo
minacciavano. Decise quindi di indagare sugli abitanti della casa che
c’erano stati prima di lui, e venne a sapere che la
proprietaria era stata da tempo ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Harry prese con sé la foto che aveva trovato in soffitta e
andò a visitare la donna. Era una signora molto vecchia, in
sedia a rotelle, piena di rughe e con i capelli completamente bianchi.
Quando Harry gli mostrò la foto e le chiese se la donna era
lei la signora non volle parlare, ma quando le disse che abitava in
quella casa lei si agitò molto e gli disse solo che doveva
andarsene in fretta, altrimenti sua figlia gliel’avrebbe
fatta pagare. Domandò ad un’infermiera
dell’ospedale che cosa fosse accaduto alla signora, e quella
le disse che, molto tempo fa, la figlia si era suicidata in casa loro
per un motivo che nessuno aveva mai scoperto, nemmeno la polizia, e che
da allora la vecchia era impazzita. Lui tornò a casa
scoraggiato, e decise che avrebbe affrontato il fantasma della figlia
della signora, perché ormai non aveva più dubbi
sul fatto che ci fosse. A casa si recò in soffitta, da dove
provenivano la maggior parte delle urla, ma quello che vide lo
lasciò pietrificato. Una figura vestita di un rosso
sgargiante stava alla finestra e guardava fuori. Quando
sentì arrivare Harry… si voltò
lentamente… mostrando l’orribile viso coperto
di…”
In quel momento la porta si aprì e i ragazzi si misero a
gridare all’unisono. Smisero solo quando videro che era il
signor Burke, con in mano due tazze di tè. “Ma che
cosa fate qui al buio?”, chiese lui. Posò le tazze
sulla scrivania, che si vedeva appena grazie alla luce proveniente dal
corridoio, poi accese la luce della stanza.
Leslie e Jess si stavano ancora riprendendo dallo spavento, e il signor
Burke vedendo Jess con la torcia in mano, sorrise e disse:
“Ah! Storie di paura, eh?”
“Infatti”, disse Jess con voce stentorea.
“Ah, ne sapevo una bellissima sulla strega del bosco qua
vicino.”
“Non!… dire una parola”,
sibilò Leslie. “Se me ne racconti
un’altra non avrò più il coraggio di
metterci piede”, disse con un gesto secco della mano.
“Forse è meglio che te la racconti di
giorno”, disse Jess spegnendo la torcia e sorridendo.
“Sarà molto meglio”, disse il signor
Burke. “Non puoi immaginare quanto Leslie sia
fifona.”
“Non è vero”, ribatté la
ragazza incrociando le braccia al petto e sorridendo suo malgrado.
“E’ che Jess racconta bene, e poi
l’atmosfera…”, disse agitando una mano
per aria.
Suo padre e Jess risero di gusto, poi l’uomo disse:
“Forse è meglio che andiate a dormire. Jess si
deve svegliare presto domani, no? Vai a lavorare, vero?”
“Si, domani devo uscire di casa al massimo alle otto e mezza.
Meglio un po’ prima”, disse il ragazzo alzandosi
dal letto e prendendo una delle tazze di tè.
“A che ora volete che vi svegliamo?”
“Oh, non c’è problema. Di solito mi alzo
presto anche da solo. Verso le sette, spero solo di non darvi
fastidio.”
“Oh, assolutamente no, credo che Judy si alzi ogni giorno
alle sei di mattina. Non so davvero come faccia.”
L’uomo augurò loro la buonanotte e poi se ne
andò.
Jess e Leslie rimasero a bere il tè, poi si misero a letto.
Dopo un po’ Jess chiese: “Leslie? Dormi?”
“No.”
“Nemmeno io. Secondo riusciremo a diventare quello che
vogliamo?”
“Certo. E’ solo questione
d’impegno”, disse sicura la ragazza.
“Tu dici? E se non fosse destino? E se invece ci volesse
tanta fortuna?”, chiese Jess facendo una smorfia nel buio.
“Il destino è una cosa che hanno inventato le
persone pigre. La gente parla di destino quando non ha voglia di fare
qualcosa, e si giustifica dicendo non
era destino.”
“Probabilmente è così.”
Rimasero ancora un po’ in silenzio, poi, siccome Leslie
sentiva il sonno arrivare, disse: “Buonanotte Jess.”
“Notte Leslie”, rispose lui girandosi su un fianco.
Yo ._.
Ok, già cominciamo bene se dico 'yo' all'inizio della sezione commenti, o
qualunque cosa sia questa! XD
Allora, mi duole avvisare che, nonostante proprio poco fa abbia
promesso di non abbandonare i lettori, per un po' dovrò
andarmene, perchè rimarrò senza connessione
internet. Comunque credo che non si tratti di più di una
settimana, o almeno spero... Ahimè! Eh, lo so, lo so che vi mancherò,
ma resistete! Tornerò presto! XD
Se per lo scorso capitolo l'unica a fare dei seri tentativi era stata
Leslie, questa volta è Jess a cominciare a fare attivamente
qualcosa per realizzare il suo sogno. Mi piace il personaggio della
signora Grenike, anche se è un po' stereotipato; sapete,
la vecchia artista stramplata che sembra un po' fuori
di testa, e cose del genere, ma a me è piaciuto lo stesso
scrivere le parti dove c'è lei.
A proposito, per le tecniche di disegno mi sono rifatta alla mia
personale esperienza (che non vale quanto quella della signora Grenike,
ma spero vi accontenterete XD), e per i consigli sulla stile proff mi sono
liberamente ispirata alla mia ex-proffa di discipline pittoriche! Ci
avrà ripetuto quelle cose per milioni di volte, infatti me
le ricordo ancora! XD Grazie
mille alla mia proffa che, oltre ad avermi insegnato a tenere in mano
una matita, ha incosapevolmente contribuito a questa fic! <3
Per la foto a fine capitolo, ebbene sì, lo
ammetto (anche se questo macchierà la mia reputazione u_u
XD): l'ho fatto io, ed
è venuto malissimo! Potete dirlo con
tranquillità, sono cosciente della mia deficenza grafica
XD
Lady Marion:
eh, lo scoprirai solo leggendo! XD Spero che anche questo capitolo ti
piaccia, comunque anche io la penso come te! Anche a me piace molto
disegnare (infatti ho frequentato il liceo artistico) e pure io, se mai
scrivessi un libro (se mai ci riuscissi,
è più corretto dire XD) disegnerei le
ambientazioni delle mie parti preferite, i personaggi più
interessanti, o qualcosa del genere! :D Be', grazie mille per aver
letto questo capitolo, e ancora di più per aver recensito! ^^
A tutti i lettori silenziosi dico grazie,
sapere che la fic vi è anche solo interessata mi fa molto
piacere!
Patrizia
|
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Capitolo 4 *** L'unione delle tre arti ***
4.L’unione delle tre
arti
“Tu
credi che andrà bene?”, chiese Leslie a suo padre
davanti alla cassetta rossa della posta.
“Leslie,
l’importante non è che tu vinca, ma che impari
qualcosa da quest’esperienza. E poi io ho letto la storia, e
posso dire che non è affatto male, mi stupirei se non
ricevessi almeno un riconoscimento.” Leggermente rassicurata,
Leslie infilò la busta nella fessura rossa e
sentì il pacco con dentro la sua storia cadere sul fondo
metallico con un tonfo.
Aveva saputo di un
concorso letterario per ragazzi dai tredici ai diciotto anni,
così si era iscritta senza esitazione. Il tema era libero, e
l’unica cosa che veniva richiesta era un massimo di cinque
pagine, con mille parole a pagina. Leslie si era impegnata tanto per
seguire le regole alla lettera. Il suo racconto s’intitolava La pioggia a Metony Island.
Era una raccolta dei pensieri di tanti abitanti di
quell’isola inventata, e tutti avevano a che fare con la
pioggia. Pensava di essere stata abbastanza originale, anche
perché c’erano i pensieri di un cane randagio, di
un uomo che in realtà era un disegno in un quadro, e anche
di un albero. Si era divertita molto a scriverli, e pensava che il
risultato non fosse affatto male.
Quando tornarono a
casa Leslie fece una doccia veloce, poi decise di uscire a fare una
passeggiata, rimuginando su alcune parti del suo racconto. Assieme a PT
si spinse fino a Terabithia, ma poi si rese conto di non voler andare
alla casa sull’albero, così continuò a
camminare. Pensò e pensò, camminò e
camminò, quasi le facevano male la testa e i piedi per tutto
quel pensare e camminare. Alla fine, senza rendersene nemmeno conto,
raggiunse la fine del bosco. PT le trotterellò affianco e si
fermò, respirando rumorosamente con la lingua di fuori.
E così
quella era la ‘fine’ di Terabithia.
Leslie
avanzò guardandosi attorno. C’era un grande campo
e, nel mezzo, una piccola via sterrata. Leslie cominciò a
camminare. Nel fondo c’era solo una piccola macchia di
alberi. Ci mise meno di dieci minuti a percorrere tutta la stradicciola
e sorpassare i pochi alberelli che delimitavano il campo giallo oro.
Quando passò oltre si trovò di fronte ad
una’enorme casa. Un grande casa bianca con il tetto in tegole
marrone scuro, e tutti gli infissi dello stesso colore. Guardandola
affascinata lo sguardo di Leslie si alzò. Forse fu a causa
del silenzio, o anche perché era da sola, ma quasi le si
mozzò il fiato.
Alla finestra del
secondo piano vide una ragazza che osservava di fronte a sé,
con uno sgargiante vestito rosso.
Leslie, ricordando
subito la storia di Jess, si girò e si mise a correre il
più velocemente possibile, e in meno di un minuto, con PT al
seguito che al contrario di lei correva felice abbaiando, fu di nuovo
nella foresta di Terabithia.
Si appoggiò
ad un albero per prendere fiato, mentre Prince Terrian gli ballava
attorno scodinzolando. Leggermente spaventata, e anche un po’
imbarazzata per quel che aveva fatto, Leslie si avviò in
fretta verso casa, guardandosi di tanto in tanto alle spalle.
“No, no.
Questa ombra ti pare scura come questa per caso?”, chiese
Felicity indicando vagamente il disegno. “Le ombre in un
disegno possono essere catalogate. Ci sono quelle nere, quelle scure e
quelle leggere che sfumano nel bianco.”
“D’accordo”,
disse Jess a mezza voce cancellando un paio di scuri e guardando ogni
tanto la stuatua.
Felicity si sedette
sullo sgabello dietro di lui. A Jess non piaceva che lei sedesse
lì, gli dava fastidio sentirsi osservato, ma pensava che
probabilmente Felicity non guardava lui, ma il suo disegno,
perciò cercò con tutte le sue forze di non
pensarci.
Quella mattina, fino
all’una, Jess aveva continuato il suo lavoro, poi Felicity
aveva preparato alcuni sandwich e glieli aveva lasciati sul tavolo.
Dopo di che lo aveva portato nello studio e gli aveva messo di fronte
la stessa statua del giorno prima.
Poco dopo Felicity
sospirò, si alzò dallo sgabello e prese a
passeggiare per la stanza. “Lo sai?”, chiese con
voce stentorea guardando per aria, come se ci fosse il cielo sopra e
attorno a lei, “Il primo a cercare di ricreare una vera
somiglianza dalla realtà ai quadri è stato
Giotto. Prima di lui tutti gli edifici erano disegnati in modo
stilizzato e piatto, e soprattutto nei personaggi veniva rispettato
l’ordine d’importanza. Se un personaggio era un re,
un duca, oppure qualche santo, la Madonna o Gesù, allora
venivano disegnati sempre più grandi degli altri. Giotto
introduce la prospettiva,
e anche un tocco di verosimiglianza. Anche se ovviamente non siamo
ancora ai livelli di Raffaello o di Leonardo.”
Continuò
così finché Jess non ebbe terminato il suo
disegno. Quando lo ebbe finito Felicity lo guardò e disse:
“Discreto.” Gli diede i suoi trenta dollari,
assieme ad un foglio di carta con scritto un elenco di tutto il
materiale che avrebbe dovuto comprare per la prossima volta. Quando lo
congedò gli disse, con un’aria compiaciuta:
“Ci vediamo Lunedì Jess.”
“Aspetta,
dove posso comprare tutta questa roba?”, domandò
il ragazzo osservando dubbioso la lista.
“Da un
qualsiasi colorificio”, rispose Felicity come se Jess le
avesse chiesto quanto faceva due più due.
Quando Jess
tornò a casa prese i suoi risparmi dalla scatoletta di legno
nascosta sotto al letto e si recò subito
all’unico, e per questo abbastanza fornito, colorificio della
piccola cittadina. Comprò fogli di diversa fattura -lisci,
ruvidi, speciali per acquerelli fatti per metà in cotone e
per metà in cellulosa, grandi e piccoli- tre tele di misure
diverse, matite, gomme, gommapane, gessetti colorati, carboncino nero,
sanguigna rossastra, pennelli grandi e piccoli sia piatti che tondi,
tempere, acquarelli e oli. Aveva speso gran parte di quel che aveva
guadagnato, ma gli sembrava che non avrebbe dovuto comprare
più nulla.
Quando ebbe preso
tutto, riempiendo due grandi buste di cartone, andò a casa
di Leslie che, come promesso, gli fece depositare tutto in camera sua.
Mentre salivano le scale lei, con gli occhi spalancati e una voce
emozionata, disse: “Jess non sai che cos’ho visto
oggi!”
“Che
cosa?”, chiese lui con un mezzo sorriso.
“Ho visto la
casa di cui mi hai parlato ieri. E ho anche visto la ragazza vestita di
rosso alla finestra!”, disse Leslie sorridendo eccitata.
“Ah si?
Dove?”
“Dopo
Terabithia. Ci sono dei campi e un sentiero, poi ci sono degli alberi e
dopo di quelli, la casa.”
Pronunciò l’ultima parola con un tono reverenziale.
Jess
depositò le buste in un angolino della stanza di Leslie,
perché non occupassero troppo spazio, poi si
voltò a guardarla, le braccia incrociate sul petto e un vago
sorriso divertito sul volto. “E allora? Vuoi andarci
vero?”, le chiese.
“Forse, solo
se vieni anche tu.”
“Ah! Ha
ragione tuo padre! Sei una fifona!”, la prese in giro Jess.
“E va bene e
anche se fosse? Vorrei vedere te”, disse Leslie piccata
arrossando e voltandosi dall’altra parte.
“Okay. Va
bene, ci andiamo domani.”
“Alle nove
al ponte”, disse Leslie riacquistando il sorriso.
“E ora? Non
sembra disabitata”, disse Jess con il mento in alto
osservando la casa. Non aveva nulla a che vedere con le case dei film
dell’orrore che gli piacevano tanto e che guardava con May
Belle. Era simile a molte altre case che aveva visto.
“Infatti, ma
mica dobbiamo entrarci. Volevo solo che la vedessi. Forse riusciremo
anche a vedere la ragazza vestita di rosso. Ti giuro che
l’altro giorno mi sono presa uno spavento! Era proprio
lì”, Leslie indicò col dito una
finestra del secondo piano.
Ad un tratto un
fruscìo fece voltare entrambi. Trattennero il fiato quando
una figuretta spuntò dagli alberi dietro di loro. Ma si
rilassarono subito quando videro che era solo una ragazza, che per di
più indossava un vestito verde che le arrivava poco
più su delle ginocchia. Aveva capelli castano chiaro
leggermente mossi, che le arrivavano a metà schiena. Mentre
li guardava sorrise, sulle guancie aveva due fossette profonde, e i
suoi occhi erano del colore del cioccolato. In mano aveva una cesta
piena di fiori bianchi.
“Ciao”,
disse.
“Ciao”,
ripeté Jess.
“Ciao. Io
sono Leslie.”
“Jess.”
“Io mi
chiamo Rosemary, ma potete chiamarmi solo Mary”, disse la
ragazza, senza abbandonare quel sorriso. “Ti ho vista ieri
dalla finestra.”
“Ah... si
ero io”, disse Leslie vergognandosi un po’ per
essere corsa via in quel modo.
“Non
preoccuparti”, disse Mary come se avesse letto nel suo
pensiero, “capita a volte. Molti pensano che questa sia la
casa della leggenda di
Harry”, disse la ragazza alzando gli occhi al
cielo. “In realtà Harry è mio nonno,
s’inventò quella storia per spaventare alcuni
bambini, ma a quanto pare è stata tramandata alle seguenti
generazioni.”
“Infatti. Me
l’ha raccontata mio padre”, disse Jess.
“Non ti ho mai vista da queste parti.”
“Bè
sono arrivata qui da poco, insieme a mia madre. Nonna è
morta da poco, così abbiamo deciso di far compagnia a nonno
Harry, altrimenti se ne starebbe qua da solo tutto il tempo in questa
casa grandissima”, disse Mary indicando con un gesto del capo
alla casa.
“Resterai
qui per l’estate quindi?”, chiese Leslie.
“In
realtà, credo che mia madre stia decidendo per un
trasferimento permanente.”
“Dove
abitavi prima?”, domandò Jess.
“A Orlando.
Quanti anni avete?”
“Sedici.”
“Sedici a
fine Luglio” disse Leslie. “E tu?”
“Quindici.
Ne compirò sedici Dicembre. Il primo”, disse Mary.
“Quindi, se
resterai qui, verrai a studiare nella nostra scuola”,
osservò Jess.
“Credo di
sì. Volete entrare? Vi assicuro che nessuno vi
aggredirà.”
“D’accordo”,
disse Jess dopo un attimo di esitazione.
“Andiamo?”, chiese a Leslie.
“Si
certo” disse lei sorridendo. Una volta appurato che non era
un fantasma Leslie era ben felice di conoscere la ragazza dal vestito rosso.
Dentro, la casa non
aveva assolutamente nulla di pauroso. Era arredata con mobili rustici e
vecchi, e ogni stanza era di un colore differente. Per terra
c’erano enormi tappeti e in ogni angolo c’era un
soprammobile, una lampada o un mobiletto in legno. Mary andò
in cucina e posò sul tavolo la cesta con i fiori, poi
cominciò a salire le scale e condusse Jess e Leslie nella
sua stanza. “Mia madre è uscita, e probabilmente
mio nonno dorme”, disse facendoli entrare.
“Oh, che
bello. Suoni il violino?”, chiese Leslie vedendo una custodia
poggiata in un angolo, assieme a diversi libri di musica, spartiti
pieni di note e diverse fotocopie.
“Si, da
quando avevo sei anni.”
“Hai mai
composto qualcosa?”, chiese Jess.
“Si, ma
nulla di troppo importante”, disse Mary agitando una mano.
“Dopo aver finito gli studi mi piacerebbe fare il
conservatorio. Purtroppo però si deve essere davvero abili
per entrarvi. Ogni anno ammettono solo una decina di persone. Non credo
di essere all’altezza, ci sono ragazzi della mia
età che fanno già concerti.”
“Non credo
che dovresti scoraggiarti”, cominciò Leslie.
“Sai, noi abbiamo deciso di provare già adesso a
fare quello che vogliamo fare da grandi. Io ho inviato una storia ad un
concorso, e Jess sta prendendo lezioni di disegno.”
“Davvero?”
“Certo”,
disse Jess, un po’ gongolante. “Dobbiamo cominciare
adesso se vogliamo essere i migliori.”
Mary rimase un
po’ pensosa, poi guardò entrambi con espressione
ispirata e disse: “Avete ragione. Anche io mi
eserciterò, proverò a comporre qualcosa di
grande! Potrei addirittura incidere un demo, poi inviarlo al
conservatorio.”
“Quindi”,
disse solennemente Leslie, “adesso anche tu fai parte del
nostro Club di Artisti.”
“Dovremmo
avere un riconoscimento per questo”, osservò Jess.
“Tutti i club ne hanno uno. Qualcosa come una spilla, o una
tessera.”
“Una
spilla!”, esclamò Mary raggiante. “Mi
pare una buona idea.”
“Jess
disegnerà il logo. Poi andremo in un negozio, sicuramente ce
ne sarà uno che potrà farci delle
spille”, disse Leslie.
“Si, e nel
logo dovrebbero esserci riunite tutte le tre arti principali: musica,
disegno e letteratura”, propose Mary.
“Un libro,
un pennello e …”, Jess si bloccò.
“La tastiera
di un pianoforte”, disse Leslie.
“Perfetto,
farò dei bozzetti e ve li farò vedere. Decideremo
tutti assieme”, disse Jess, cui già venivano in
mente un sacco di idee.
“Che bei
fiori che hai trovato Rosemary”, disse la signora Teperson
mettendo i gigli bianchi in un grosso vaso.
“Li ho
trovati nel boschetto”, disse lei mangiando a
velocità preoccupante. Quando ebbe ingollato
l’ultimo boccone si alzò, mise tutti i piatti
sporchi nel lavandino, poi salì le scale di corsa diretta in
camera sua. Quando fu arrivata prese il violino e incominciò
a provare qualche nota esitante. Sebbene quel pomeriggio era felice
soltanto perché aveva incontrato dei ragazzi della sua
età, che per giunta parevano anche simpatici, non aveva
pensato realmente a quel che avevano detto. Dopo che se
n’erano andati però aveva rielaborato le loro
parole. Li trovava molto audaci in ciò che facevano, e le
sarebbe tanto piaciuto essere come loro. Coraggiosa, intraprendete. Ad
un tratto realizzò che non doveva solo volerlo. Lei poteva
esserlo, poteva essere come loro. Decise che anche lei si sarebbe
impegnata, che avrebbe provato e riprovato.
Prese a suonare
qualcosa a caso, ma poco dopo si rese conto che non era una sua
invenzione ma somigliava in modo palese ad un brano di Mozart,
così mise giù l’archetto sospirando.
Non faceva altro che ascoltare musica classica e tutto ciò
che suonava pareva un rifacimento di famose melodie. In effetti era
l’unico genere che ascoltava e che le piaceva. Ma che cosa
sarebbe venuto fuori se si fosse ispirata alla musica moderna?
Accese il pc e
aspettò che il computer, lento come pochi, fosse pronto
all’uso. Non conosceva molto i cantanti moderni, a parte
quelli che vedeva alla tv nei canali di musica, ma nessuno le piaceva
particolarmente. La musica pop era tutta uguale, lo stesso ritmo
ripetuto all’infinito, o almeno così la pensava
lei. Così decise di buttarsi sulla musica rock. In fondo il
rock è la musica della rivoluzione, della
libertà, la musica con cui migliaia di generazioni erano
cresciute. E pensava che la composizione di una canzone rock si
avvicinasse molto di più al processo che faceva lei per
comporre, che a quello che si utilizzava per la musica dance o pop.
Dopo una piccola
ricerca scoprì anche una band formata da ragazzi che
suonavano il violino, assieme agli strumenti convenzionali quali
batteria, chitarra e basso. Senza esitare scaricò alcune
canzoni e attese.
Chissà che
non fosse la strada giusta?
Sono
resuscitata dagli inferi...
XD
Ok, prima di tutto mi
scuso, credevo che questa pausa non sarebbe durata poi così
tanto. Dieci giorni al massimo... tsé!
Comunque sia, il
personaggio di Rosemary, hmm, so che molti di voi lo
odieranno, perchè si intromette fra Leslie e Jess e la loro
amicizia, ma volevo introdurre un nuovo personaggio (mi piacciono
tanto! Uhuh!). Per di più questa storia parla sì
delle passioni dei protagonisti e di come le realizzano, ma deve anche
avere un qualcosa che faccia da ripieno, non so se mi spiego. Volevo
mescolare questo rincorrere di sogni e speranze con le esperienze
dell'adolescenza e, insomma, so che un'adolescente (come me) non
può raccoontare tutto da un punto di vista completamente
distaccato, ma ci provo e vedremo che cosa ne salta fuori :)
Se qualcuno vuole
anticipazioni sul prossimo capitolo saranno online già da
domani sul mio blog ^^ Lo trovato alla pagina dell'autore.
Un'ultima cosa, grazie
a chi legge, anche se non recensite e, detto fra noi, nemmeno io mi
sarei recensita dopo aver guardato la data dell'ultimo post! XD
Al prossimo capitolo,
Patrizia
|
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Capitolo 5 *** Il compleanno ***
5.Il
compleanno
“Come
primo lavoro a carboncino direi che non è male”,
osservò Felicity guardando il disegno. Rappresentava il
busto di un uomo piegato verso destra. I muscoli in tensione, la pelle
che formava piccole pieghe appena sotto l’ombelico.
“Grazie”, disse Jess guardando anche lui il disegno
appena ultimato.
Da quando avevano iniziato quelle improvvisate lezioni era passato poco
più di un mese. Jess aveva collezionato almeno cinque
disegni con il solito viso imperturbabile della prima statua che aveva
disegnato, da tutte le angolazioni possibili. Dopo avevano cambiato
soggetto, passando per il busto maschile, tre Veneri di spalle, un
busto femminile, un braccio, un putto, un uomo barbuto che Jess
detestava proprio a causa della sua impossibile barba, un fauno e
svariati altri gessi rappresentati le più svariate forme.
“Domani mattina ho intenzione di mandarti a fare qualche
commissione. Niente lavori in casa”, disse Felicity
restituendogli il disegno. “Porta ancora il carboncino, e
preparati, domani affronteremo un tema importante.” Tutti i
giorni, mentre Jess disegnava, Felicity gironzolava in giro
per lo studio e gli parlava dei più importanti
artisti. Jess assorbiva tutto ciò che gli veniva detto. Una
volta a casa, dando uno sguardo al libro di arte che usava per scuola,
aveva capito che Felicity stava andando in ordine cronologico.
“Che cosa faremo domani?”, domandò il
ragazzo.
“Sandro Botticelli, così chiamato per suo padre,
che si diceva fosse grosso come una botte. Vieni qui”, disse
poi Felicity andando nell’altra stanza. In un secondo
studiolo, che fungeva anche da camera per gli ospiti, c’era
un’enorme libreria, piena di ogni sorta di libro. Felicity
cercò fra gli scaffali più bassi ed estrasse un
grosso libro intitolato BOTTICELLI. Lo porse a Jess e disse:
“Leggi quello che riesci, e domani mi dirai tutto quello che
sai sull’autore.”
“D’accordo”, disse Jess prendendo
avidamente il libro fra le mani.
“Attenzione! Non ho detto che lo devi studiare. Solo gli
sciocchi studiano l’arte e pensano di ricavarne qualcosa.
L’arte non si studia, si sente.
Leggi, e se domani ti ricorderai qualcosa vorrà dire che ti
ha colpito.”
“Non credi che sia utile sapere più cose possibili
sulle tecniche e sulla storia dell’arte?”,
domandò Jess stupefatto.
Felicity agitò una mano come a scacciare una mosca e disse:
“E’ utile fino ad un certo punto, per capire come
si è evoluta nel pensiero, nella tecnica…
nell’utilità. Ma non credere che ad un artista sia
utile solo quello: un artista deve amare l’arte, viverla,
immergersi in essa. Solo così la può veramente
conoscere.”
Quella sera, prima di tornare a casa, passò da casa di Mary.
Assieme a lei Jess e Leslie avevano preso l’abitudine di
incontrarsi tutti i Sabati e le Domeniche. Stavano assieme tutto il
giorno e tornavano a casa la sera tardi. Avevano fatto vedere a Mary
Terabithia, e le avevano raccontato tutto su come si erano conosciuti
quasi sei anni prima. Leslie e Mary, che potevano incontrarsi anche
durante la settimana, avevano deciso che avrebbero allargato e
rinforzato la casa sull’albero, così un giorno
avevano iniziato a ricostruirla. Da allora passavano diverso tempo
nella casa, che era abbastanza spaziosa per tutti quanti, compreso PT.
“Ciao”, disse Jess quando vide Mary
sull’uscio. Lui era ancora in sella alla bici,
così Mary scese i pochi gradini che portavano
all’ingresso e lo raggiunse.
“Ciao Jess. Com’è andata al
lavoro?”
“Bene, bene grazie. Senti, Martedì è il
compleanno di Leslie, ti ricordi avevo detto…?”
“Il ventinove, si.”
“Tu le hai per caso comprato un regalo?”
“No, a dir la verità volevo sapere che cosa le
avresti regalato tu”, disse Mary dondolandosi sui piedi.
Portava uno dei suoi soliti vestiti vaporosi, questa volta arancione
acceso.
“Allora ti va di venire con me Sabato a cercargliene uno?
Andiamo in città.”
“E che cosa diciamo a Leslie se vorrà venire con
noi?”
“Non lo so. Dille che devi badare a tuo nonno, io le
dirò che… mio padre vuole che lo aiuti in
casa”, disse Jess. “Ci vediamo Sabato
allora?”
“Aspetta, andremo in bici?” chiese Mary.
“Perché, veramente, la mia è molto
vecchia, non avevo molte possibilità di usarla in
città. Non mi piace andare in giro con il
traffico”, disse con un sorrisino a mo’ di scusa.
“Possiamo andare in autobus”, disse Jess con
un’alzata di spalle. “Allora ci vediamo alla
fermata alle… due e un quarto. Verso quell’ora
dovrebbe passare un bus.”
“D’accordo. Allora ci vediamo Sabato”,
disse Mary rientrando in casa.
“Un libro sarebbe l’ideale, ma come facciamo a
sapere che non ce l’ha già?”, chiese
Mary passando le sottili dita da musicista lungo un grosso tomo.
“Infatti. Ha tutti i libri che sono stati stampati negli
ultimi sessant’anni”, disse Jess rimettendo a posto
un libro dalla copertina spessa e rigida.
Sconfortati, uscirono dal negozio e continuarono a camminare.
“Forse potremmo comprarle un vestito”,
azzardò Mary.
“Si, ma quale? Sarà una scelta
difficile”, osservò Jess. “Ha dei gusti
talmente strani.” Jess sorrise fra sé e
sé, ricordando la prima volta che Leslie era entrata in
classe quando andavano alle medie.
“Hai ragione. Allora… un pupazzo, o un cd. Gli
piacciono i Nirvana,
no?”
“Si, ma credo che abbia tutti i cd. A dir la
verità non ho mai controllato, ma sull’i-pod ha la
discografia completa.”
Rimasero un po’ a rimuginare, finché non passarono
davanti ad un negozio di giocattoli e videro un foglio giallo appeso e
stampato a grandi lettere nere. “Jess quello sarebbe un
regalo bellissimo!”, esclamò Mary eccitata dopo
aver letto.
Jess sorrise. “Ma abbiamo bisogno di una foto. Non credo che
domani potremmo tornare, Leslie si chiederà dove siamo
finiti.”
“Oh per quello non c’è problema, ci
penso io. Verrò qui un giorno con mia madre”,
disse lei agitando una mano. “Andiamo a chiedere quanto costa
e quanto ci mettono piuttosto.”
Quando entrarono e dissero al commesso cosa volevano lui rispose che ci
sarebbe voluta una settimana. “Così
tanto?”, chiese Jess esterrefatto. “Non potete
farlo un po’ più in fretta? Per martedì
mattina al massimo?”
Il commesso ci pensò su. “Se mi date adesso la
foto si.”
Jess si morse un labbro, ma Mary disse: “Se mi fa usare
internet gliela do io la foto. Ne ho messe un paio sul mio
blog”, disse poi in risposta allo sguardo di Jess.
“Chiediglielo”, rispose lui.
Mary e Jess cercarono la foto migliore che avessero e il commesso la
salvò. “Passate martedì verso
mezzogiorno e sarà pronta. Adesso ho bisogno di un
anticipo.”
Jess diede la prima metà dei soldi, siccome lui non ci
sarebbe stato al momento del ritiro, dato che il compleanno cadeva in
un giorno settimanale. Quando uscirono dal negozio erano tutti e due
ampiamente soddisfatti. “Sarà un regalo
magnifico”, disse Mary camminando verso la fermata.
“Per quella sera organizzerò una festa alla casa
sull’albero, ma non dirlo a Leslie. Va’ a chiamarla
verso le sette di sera e dille che devi dirle una cosa. Poi portala
alla casa.”
“D’accordo”, disse Jess camminando come
la mani in tasca. “Ho sentito una goccia”, disse
poi alzando lo sguardo verso il cielo.
“Oh no, non dirmi che piove. Siamo a Luglio. Non ho nemmeno
portato l’ombrello”, si lamentò Mary
seguendo il suo sguardo.
Probabilmente il cielo udì le sue lamentele e, giusto per
dispetto, decise di punirla. Circa cinque minuti dopo grosse, pesanti
gocce di pioggia cominciarono a cadere sulle loro teste.
“Dai, non manca molto alla fermata”, disse Jess
velocizzando il passo.
“Giusto.” Assieme cominciarono a camminare
più velocemente ma, all’improvviso, la pioggia si
trasformò in una vera e propria tormenta. Jess vide i
fragili alberi ai lati della strada piegarsi sotto la spinta potente
del vento. Come per magia tutti erano spariti dalle strade, e in giro
sembravano esserci solo lui e Mary. Il vento li colpiva forte, avevano
la pelle d’oca, e i loro vestiti, leggeri ed adatti ad una
giornata estiva, erano fradici.
Jess prese il polso di Mary e la trascinò via. Iniziarono a
correre lungo le vie deserte, con i capelli attaccati alla fronte. Ad
un’occhiata Jess vide che Rosemary teneva una mano davanti
agli occhi per ripararsi dalla pioggia e, correndo, rideva. Arrivarono
sotto il tettuccio della fermata, che per fortuna non era una di quelle
spoglie senza panchina. Si ripararono ancora ridendo sotto al tetto,
appoggiandosi al vetro. Erano tutti e due fradici fino
all’osso. Si scambiarono un’occhiata e iniziarono a
ridere, e proprio in quell’istante il bus svoltò
l’angolo. Mary tirò fuori da una borsa il
portafoglio con il biglietto, fradicio anche lui. Non appena lo videro
risero ancora più forte, mentre Mary cercava di seccarlo
sventolandolo per aria, ma ormai la carta era diventata
irrimediabilmente molle.
“Non preoccuparti, credo che l’autista
capirà”, disse Jess.
Quando salirono e Mary mostrò il biglietto al conducente,
questi sorrise nel vederlo. Disse loro di non preoccuparsi e di
scrivere data e ora a biro. Il bus era quasi vuoto, a parte due
vecchiette sedute nelle prime file. Loro si ritirarono subito nei posti
da due in fondo e Mary sedette vicino al finestrino.
Passarono tutto il viaggio a fare disegnini sulla condensa del vetro.
Da qualche tempo Leslie aveva preso l’abitudine di scrivere
lunghi commenti sui libri che leggeva. Pensava le fossero utili per
capire meglio la natura del libro. Il perché un libro era
più interessante di un altro, le parti noiose da che cosa
erano rese tali. Le serviva per capire i personaggi, per non rendere i
suoi superficiali e banali.
Era il ventinove di Luglio. Il suo sedicesimo compleanno.
Quella mattina i suoi genitori l’avevano svegliata presto,
con una fantastica colazione tutta in suo onore. Verso tarda mattinata
Rosemary le aveva telefonato per farle gli auguri e il resto del tempo
lo aveva passato assieme ai suoi genitori. Pensava che non ci fosse
persona più fortunata! Il rapporto che aveva con i suoi era
meraviglioso e perfetto, non ci potevano essere al mondo dei genitori
migliori.
Erano circa le sette di sera quando sentì suonare al
campanello. Poco dopo udì la voce di Jess salutare sua
madre. Aspettò che arrivasse di sopra, e quando
entrò in camera la prima cosa che fece fu abbracciarla.
“Tanti auguri!”, le disse praticamente dentro
l’orecchio.
“Grazie”, disse Leslie soffocata
nell’abbraccio, e tuttavia incapace di non sorridere.
“Vieni subito, devo farti vedere una cosa”, disse
trascinandola fuori dalla stanza. “E’ una cosa
importante.”
“Riguarda il mio compleanno?”
“Assolutamente no”, disse Jess serio.
Leslie si preoccupò un po’, e un po’ fu
dispiaciuta. “Oh. Mamma, papà, io
esco!”, disse avviandosi all’entrata.
Sentì solo vagamente la risposta affermativa di sua madre,
stava pensando a che cosa potesse essere capitato da far diventare
così serio Jess tutto d’un tratto.
Andarono verso Terabithia, oltrepassarono il ponte e si diressero verso
la casa sull’albero. Jess salì prima di lei e
svanì nella casa, poi, quando la sua testa spuntò
nell’apertura sul pavimento, la scena che vide
lasciò Leslie esterrefatta.
Nella casa c’erano Jess e Mary, assieme ad una torta
gigantesca, con sedici candeline accese, e con sopra scritto con glassa
bianca Buon Compleanno
Leslie.
“Forte!”, fu l’unica cosa che
riuscì a dire. Abbracciò Mary e Jess, che
sorridevano soddisfatti, poi si sedette a gambe incrociate e
soffiò forte sulle candeline.
“Hai espresso un desiderio?”, chiese Jess.
“Si”, disse lei sorridendo, ma la verità
era che non desiderava nulla. La sua vita non sarebbe potuta essere
migliore di così. Si poteva dire che aveva sperato che quel
momento non passasse mai.
“Okay, adesso taglia”, le disse Mary passandole un
coltello. Poi si voltò e prese bicchieri, piatti e una
bottiglia di spremuta d’arancia. La prima fetta
andò a lei, poi Jess, e infine Mary, che servì
tutti di succo e distribuì i tovaglioli. Aveva cercato di
organizzare bene la serata e infatti, dopo mangiato, tirò
fuori dalla borsa il regalo, accuratamente incartato e con un elegante
fiocco rosso.
“E’ da parte di tutti e due”, disse poi
porgendolo a Leslie.
“Che cosa? Ma non dovevate farmi pure il regalo.”
Prese il pacco e lo scartò. Dentro c’era una
scatola dalle grosse dimensioni. Quando Leslie
l’aprì trovò un cuscino quadrato in
tela verde chiaro con stampata sopra una foto di loro tre.
“Wow… ma è bellissimo”, disse
assorta osservando la foto e passandovi sopra le dita. Alzò
lo sguardo e sorrise.
Anche i suoi amici non erano per niente male. Anzi, dire che non erano
male era minimizzare! Non ci potevano essere al mondo amici migliori.
Pochi giorni dopo il suo compleanno Leslie ricevette dai genitori una
notizia alquanto sorprendente. “Che cosa?”, chiese
quando glielo dissero. “E dove?”
“In Francia”, disse fieramente sua madre.
“Potremmo visitare un sacco di cose, ci pensi?”,
chiese Judy con aria sognante.
“Infatti”, rincarò la dose suo padre.
“Certo tre settimane non servirebbero nemmeno per visitare
come si deve Parigi, figurati tutta la Francia!”
“…e anche Lione, Marsiglia, Stasburgo, Nizza! Oh,
potremmo…”, la signora Burke continuava a parlare
ininterrottamente, ma Leslie non l’ascoltava.
Certo, andare a fare una vacanza con i suoi in Francia per tre
settimane sarebbe stato magnifico, però quello significava
lasciare Jess e Rosemary. Pensò a Jess, che era appassionato
d’arte, e si chiese quanto avrebbe dato lui, per andare a
vedere le opere e le città che stava per andare a visitare.
Poi pensò a Mary, che era arrivata da appena due mesi e,
anche se Jess rimaneva, lui doveva lavorare e prendere lezioni con la
signora Grenike tutti i giorni dal Lunedì al
Venerdì, e quindi sarebbe rimasta sola.
“Allora Leslie? Non sei contenta?”, chiese sua
madre.
Leslie si riebbe dai suoi pensieri, poi disse: “Certo, devo
andare.” Scappò correndo e si diresse a casa di
Mary, saltando sui rami a terra e facendo lo slalom fra i cespugli. Non
ci mise più di dieci minuti ad arrivare di fronte alla sua
porta. Bussò freneticamente e quando lei le aprì
con un sorriso cercò di riprendere fiato il più
presto possibile.
“Leslie che succede?”, chiese Mary scendendo gli
scalini e aprendo il cancelletto per farla entrare.
Quando Leslie le ebbe raccontato tutto Mary rise di gusto.
“Tutto qui? Credevo che fosse successo qualcosa di terribile!
L’unica cosa che dovremmo fare adesso è una festa
d’addio. Quando parti?”
“L’otto di Agosto.”
“Hm, non manca molto”, osservò Mary.
“Allora oggi andremo a comprare tutto il necessario, e la
sera prima festeggeremo la tua partenza. Non sono mai stata fuori
dall’America, sai? Ci dovrai raccontare tutto,
l’Europa sembra così pittoresca!”,
esclamò poi sognante.
“Farò un sacco di foto, te lo prometto”,
disse Leslie. “Allora prendiamo le bici e andiamo al
supermercato, adesso.”
“La mia bici è un po’
scassata”, si scusò l’altra.
“Dovrei proprio farla rimettere a posto.”
“Oh se vuoi ti presto la mia. Io userò quella di
mia madre. Vieni.”
La festa di addio per Leslie, che Jess aveva giustamente ribattezzato
come La festa di
Arrivederci, fu insolitamente solenne, ma al punto giusto.
Brindarono alla salute di Leslie e dei suoi genitori e alla buona
riuscita del viaggio con della pepsi cola, poi passarono il resto della
serata a parlare di come pian piano si stavano esercitando nei loro
futuri progetti di lavoro.
Leslie raccontò di come avrebbe ottenuto i risultati del
concorso a cui si era iscritta verso i primi di Settembre, ma disse che
nel frattempo stava scrivendo qualcos’altro.
Un’altra piccola storia, questa volta incentrata sulle
vicende di due fratelli, un maschio e una femmina, che fanno per
sbaglio arrabbiare una strega che, per punirli, li manda in un universo
alternativo. Aveva stampato due copie di La pioggia a Metony Island,
e ne aveva data una a Jess e una a Mary. “Vorrei che lo
leggeste, sarà molto meglio che se ve lo spiegassi
io.”
Jess disse che con la signora Grenike stava facendo grossi progressi.
Aveva iniziato disegnando semplicemente a matita, ma adesso stava
facendo disegni a carboncino, e presto avrebbe iniziato ad usare i
gessetti colorati. Con le lezioni di storia dell’arte
Felicity era passata attraverso i grandi artisti del quattrocento, e
nell’ultima lezione gli aveva parlato di Donato Bramante.
“Mi ha prestato un altro libro, su Leonado Da
Vinci”, disse alla fine emozionato. “Ho iniziato a
leggerlo non appena sono arrivato a casa. E’
interessantissimo, quell’uomo ha fatto praticamente di
tutto!”
“Cosa ti dicono i tuoi quando porti a casa i
libri?”, chiese Leslie.
“Niente. Ho detto loro che li prendo in
biblioteca”, rispose lui scrollando le spalle.
Rosemary fece sentire loro diverse canzoni, si di musica classica che
di musica rock, moderna ma soprattutto dagli anni sessanta agli
ottanta. “In questo periodo sto ascoltando soprattutto i
Beatles. Sto componendo qualcosa!”, disse poi raggiante.
“Qualcosa che dura più di cinque minuti.”
“Davvero? Complimenti!”, disse Leslie raggiante.
Dopo quella sera era sicura che non avrebbe sentito la loro mancanza
così fortemente come credeva, era felice che tutti loro
stessero avverando i loro sogni.
Heylà, eccomi qua.
Allora, questo
capitolo ci tenevo a farlo, la storia racconta praticamente tutti i
compleanni di Leslie e nessuno di Jess (spoilerspoiler)!
Povero, viene discriminato... XD Comunque, non so bene
perchè, forse è una specie di risarcimento per il
fatto che, nel film, c'è il compleanno di lui e non quello
di lei. Dopo questa parentesi psicoanalitica, passo alle recensioni! ^^
Lady
Marion:
ciao, è un piacere rivederti! ^^ Non faccio fidanzare Leslie
con Jess solo perchè quasi tutte le fic in questo fandom lo
fanno, e volevo fare qualcosa di diverso. Comunque loro passano anche
il periodo dell'adolescenza, non dimenticarlo: quel che
accadrà sarà una sorpresa. Comunque, non volevo
che Leslie e Jess fossero antipatici con Rosemary, dato che loro stessi
da piccoli venivano presi in giro, soprattutto Leslie che era nuova e
sa bene come ci si sente ad essere quella
appena arrivata.
Detto questo, ti ringrazio per la recensione, al prossimo
capitolo! ^^
A tutti gli altri che
hanno messo la fic fra Preferiti e Seguite e quant'altro, grazie mille!
Ciao ciao,
Patrizia
|
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Capitolo 6 *** La Oxford dei poveri ***
6.La Oxford dei poveri
Dopo che Leslie fu partita tutto divenne più calmo. Rosemary
continuava a comporre, Jess a disegnare e lavorare per Felicity. Come
al solito, tutti i Sabati e le Domeniche, s’incontravano a
Terabithia. Non facevano nulla di nuovo. Parlavano, a volte
mangiucchiavano qualche biscotto. Leslie sarebbe tornata il primo di
Settembre.
Un giorno Mary annunciò: “Ho finito la mia prima
composizione, dura sette minuti e qualcosa, più o meno.
Quando Leslie torna ve la farò sentire.”
“Ah, è una buona idea. Forse anche io potrei farti
vedere uno dei miei disegni, purtroppo però Felicity vuole
che li lasci tutti a casa sua”, disse Jess.
“E perché non ne fai uno adesso?”
“Se ti va di posare posso provare a fare un ritratto. Non ne
ho mai fatto uno a dir la verità, ma
c’è sempre una prima volta”, propose
Jess. Quando Leslie se n’era andata gli aveva ridato tutte le
sue cose, i fogli e tutto il resto. Adesso teneva le grosse buste del
colorificio sotto al letto. Era sicuro che sua madre sapesse di loro,
ma per qualche motivo non lo aveva detto a suo padre. “Vieni,
andiamo a casa mia”, disse alzandosi.
Una volta a casa Jess prese il necessario e fece sedere Mary sul letto,
mentre lui si sistemò su una sedia di fronte alla sua prima
modella. Non aveva mai fatto il ritratto di una persona vera, solo di
statue di gesso.
“Quando sei stanca dimmelo”, avvisò Jess
prima di iniziare.
“D’accordo. Però devo dire che mi hai
messo in un posizione comoda.” Rosemary era seduta sul letto
a ginocchia unite e con le caviglie incrociate, una mano posata sulle
gambe e l’altra sul copriletto. Aveva il volto girato verso
la finestra e guardava fuori. La sua espressione era serena e vagamente
felice.
Jess non poté fare a meno di notare come la luce le
scivolasse sulle guancie in modo morbido e perfetto. Ci mise due ore a
fare tutto il disegno. Fecero tre pause di circa dieci minuti
l’una, per far sgranchire gambe e braccia a Mary. Jess non
volle farle vedere il ritratto fino a che non fu completamente
terminato.
“Mettici la firma”, disse lei, immobile nella
stessa posizione, poco prima che Jess finisse.
“D’accordo. Ancora dieci minuti poi ho
finito.”
In quel momento il padre di Jess entrò nella stanza.
“Jess dovresti aiutarmi a fare una cosa”, disse
dopo aver dato un’occhiata a Mary ed averle rivolto un saluto
silenzioso.
“Adesso?”, chiese Jess.
“Adesso. Che stai facendo?”, chiese avvicinandosi
al figlio.
“Un ritratto. Non si vede?”, chiese Jess. Il signor
Aarons si avvicinò alle spalle di Jess. Lui, senza farci
troppo caso, continuò a disegnare. Lo finì mentre
suo padre lo osservava da dietro le spalle. Jess vi mise una firma
sobria senza troppi svolazzi e lo voltò, per farlo vedere a
Mary.
“Wow! Jess è bellissimo”, disse lei
portandosi una mano alla bocca, stupita.
Jess si voltò a guardare suo padre con un sorriso fiducioso
e felice, ma lui lo guardò, gli fece segno di raggiungerlo
giù e poi uscì dalla stanza. Un po’
spiazzato e rammaricato Jess abbassò lo sguardo.
“E’ davvero un fantastico disegno, è
somigliante. E pensare che è il primo ritratto che
fai”, continuò Mary. “Hai un grande
talento Jess, dico sul serio.”
“Grazie”, bisbigliò lui.
“Credo che ora tu debba andare. Hai sentito mio padre, devo
aiutarlo.”
“A lui non va che tu disegni, vero?”, chiese Mary a
voce bassa.
“Non molto, non credo. Veramente non ne ho mai parlato con
lui, ma da piccolo mi diceva sempre di non perdere tempo a disegnare,
di fare cose più da maschio. Tipo giocare a pallone, a
football. Ma lui lo sa che non ho smesso, è che non sa che
sto prendendo lezioni”, disse Jess con voce piatta.
“Ma m-mi sembrava interessato adesso, più che
arrabbiato”, cercò di rassicurarlo Mary.
“O meglio… sorpreso”, disse poi piano.
“Credo che sorpreso sia la parola giusta. Oh cavolo mi
farà storie, lo so! E’ meglio che tu vada Mary,
davvero. Ci vediamo Sabato”, disse Jess conducendola al piano
di sotto e poi fuori. “Il disegno puoi tenerlo, te lo
regalo”, disse burbero mentre la trascinava fuori tenendole
un mano sulla schiena.
Quel pomeriggio Jess e suo padre, senza dire una parola più
del necessario per tre ore, aggiustarono il tetto del fienile, che era
crollato all’improvviso il giorno prima. Suo padre non disse
nulla fino all’ora di cena. “Jess,
perché non appendiamo quel disegno che hai fatto qui nel
salotto?”
Jess rimase con un palmo di naso e la forchetta con l’arrosto
si fermò a mezz’aria. Nel frattempo sua madre
alzò gli occhi dal piatto e chiese meravigliata:
“Quale disegno?”
“Oggi Jess ha fatto un ritratto ad una ragazza”,
disse suo padre.
“A Leslie?”, chiese Joyce Ann.
“No, Leslie è in Francia”, le disse May
Belle. “L’hai fatto a Rosemary?”
“Si”, borbottò Jess ingollando una
patata.
“Davvero?”, chiese sua madre meravigliata.
“Posso vederlo?”
“No, gliel’ho regalato. Ma se vuoi posso farne uno
a te”, disse poi abbozzando un sorriso. Sua madre si
portò una mano al petto e sorrise.
“Allora domani, quando torni da casa della signora
Grenike”, disse lei.
E così fecero. Il giorno dopo la signora Aarons
cercò di finire in fretta tutte le sue faccende e si
concesse un bagno rilassante. Quando Jess fu a casa si fece trovare
tutta sorridente seduta al tavolo della cucina. “Come mi devo
mettere?”, chiese quando Jess scese con il blocco dei fogli e
il resto.
“Comoda. Ci posso mettere anche più di
un’ora. Ma sta’ tranquilla, quando sei stanca ci
fermiamo”, disse lui sedendole di fronte.
“D’accordo”, disse sua madre sistemandosi
i capelli. Incrociò le dita sul tavolo e rimase ferma a
guardare oltre la spalla di Jess.
Fu molto più complicato disegnare sua madre. Forse proprio
perché era sua madre, o forse perché il suo viso
non era più così giovane e la pelle liscia come
quella di Rosemary. Le prime rughe cominciavano a comparire e il suo
volto non aveva più la spensieratezza che di sicuro
possedeva quando era giovane. Ma Jess la vide comunque molto bella, in
un modo tutto suo, speciale. Nei suoi occhi si leggeva una sorta di
consapevolezza, come di saggezza, e tutta la sua persona era illuminata
da una luce impalpabile, che le donava candore, forza e determinazione.
Ci mise poco più di due ore a finire il disegno, e anche
allora fecero tre pause. L’ultima mezz’ora era
stata ‘disturbata’ da Joyce Ann, che voleva a tutti
i costi vedere il disegno, ma alla fine Jess riuscì a finire
senza altri intoppi.
Quando annunciò: “Finito”, sua madre si
alzò e andò da lui ad abbracciarlo.
“Aspetta, vado a prendere gli occhiali”, disse
scappando in camera da letto. Quando fu di ritorno prese in mano il
disegno e lo guardò per lungo tempo senza dire nulla. Il
ragazzo ebbe paura che non le piacesse. “Jess è
bellissimo”, disse la madre seriamente.
“Dici davvero?”, chiese lui alzandosi.
“Si, certo. Non sapevo che disegnassi così bene.
E’ sbalorditivo”, disse ancora, le sopracciglia
corrugate. “Sei bravissimo”, concluse guardandolo e
sorridendo.
“Grazie, non è nulla.”
“Come hai fatto a diventare così bravo?”
“Ehr… ho letto un manuale in
biblioteca”, buttò lì Jess.
“Davvero? Solo con un manuale si può arrivare a
tanto?”
“E’ un buon manuale”, sussurrò
Jess guardando altrove.
Da quella volta il padre di Jess non parlò più
dei disegni. Non gli chiese nulla, non indagò per sapere
altro. Veloci come
il vento le vacanze finirono. Leslie tornò dalla Francia,
portando con sé tantissime fotografie e racconti messi
giù a caldo su un moleskine sul suo viaggio.
La prima settimana di Settembre Rosemary andò a iscriversi
alla stessa scuola che frequentavano Leslie e Jess.
“Ricordati di dire che ci conosci e che vuoi essere messa in
classe con noi,” disse per la decima volta Leslie,
“nella sezione B, okay?”
“Si, ho capito, ho capito”, la rassicurò
Mary annuendo.
Quando Jess le disse che fra poco iniziava la scuola e non avrebbe
avuto più tempo per le lezioni Felicity Grenike non la prese
troppo bene. Cerò di non darlo a vedere, ma si era
affezionata al ragazzo. Disse solo: “Continueremo durante le
vacanze Natalizie e Pasquali, a cosa credi che servano le vacanze se
non a riposare la mente e allenare la mano? Ricordati che siamo
arrivati a Michelangelo Buonarroti, il prossimo argomento che
tratteremo quando ne avremo l’opportunità saranno
i grandi maestri veneziani.”
“Me lo ricorderò. Ti chiamerò non
appena avrò del tempo libero”, disse.
“Ricorda di esercitarti sempre, non voglio che quando torni
da me tu sia ridiventato un asinaccio”, disse con quel tono
altisonante e severo che Jess aveva imparato a non prendere troppo sul
serio. “E ricordati! Ricordati che la luce è
fondamentale!”, continuò accompagnandolo alla
porta. “Forse quando tornerai potremmo cominciare con gli
acquarelli. Ma non ti emozionare troppo, devi ancora provare qualche
disegno con i gessetti colorati. Per le vacanze di Natale voglio che tu
mi porti sei disegni a colori d’accordo?”
“Va bene. Grazie mille ancora Felicity, davvero”,
disse Jess attraversando il giardino. La vecchia signora fece un verso
come di disapprovazione e poi gli chiuse la porta in faccia.
Leslie ricevette i risultati del concorso al quale si era iscritta.
Arrivò terza, e ottenne che una parte della sua storia
venisse pubblicata su un mensile.
La scuola iniziò Lunedì 9 Settembre. Fu bello
rivedere tutti i loro compagni di classe, e per Rosemary fu
più facile integrarsi con il resto della classe dato che
conosceva già Leslie e Jess. Le parlarono di tutto quello
che succedeva a scuola, chi erano i professori da non contraddire e
quali quelli con cui poter scherzare. I professori che non si rendevano
conto quando copiavi e quelli che invece vedevano tutto e tutti. I
compagni che chiedevano sempre di copiare i compiti, quelli che ti
prestavano sempre gli appunti in caso di bisogno, e i bidelli a cui
andare a chiedere qualcosa, perché ce n’erano
alcuni antipatici.
Ricominciarono i frenetici ritmi della scuola. Ogni mattina si alzavano
alle sette, prendevano il pullman alle otto ed erano in classe verso le
nove meno un quarto, se tutto andava bene. Fino alle due stavano a
scuola, poi tornavano a casa e, assieme, studiavano e facevano i
compiti.
Pian piano questa routine cominciò a divenire normale e a
prendere il posto dell’estate. Settembre passò in
fretta, assieme alle prime interrogazioni e ai primi test, per vedere
se ricordavano qualcosa dell’anno prima o se il solleone
aveva bruciato loro tutti i ricordi. Le prime ansie dettate dallo
studio, le parole che scorrevano fluide dalle loro penne e cercavano di
seguire febbrilmente quel che diceva il professore, le parole che
scorrevano fluide sotto i loro occhi e che cercavano di imparare a
memoria.
“Ricordatevi che la settimana prossima metterò
problemi esattamente come questi nel compito in classe, chiaro?
Studiate e fate gli esercizi! Non basta sapere le formule,
chiaro?”, disse ancora una volta il professor Milcoln.
“Ah cavolo! Non riesco assolutamente a fare quei problemi da
sola. In classe sì, mi sembra ovvio quello che devo fare, ma
a casa mi vengono tutti sbagliati”, si lamentò
Mary. “Non lo passerò mai.”
“Se ti va ti aiuto. Tanto devo studiare
anch’io”, disse Jess.
“Possiamo andare tutti a casa mia. Il compito sarà
Mercoledì, abbiamo ancora sei giorni”, disse
Leslie.
“No, no, dovrò studiare tutto il tempo”,
disse Mary. “Per fortuna ho già fatto
l’interrogazione di inglese, altrimenti dovevo studiare pure
quello.”
“Già, io la devo ancora fare”,
borbottò Jess. “Facciamo così,
Lunedì non abbiamo niente, troviamoci Domenica a casa di
Leslie e facciamo tutto il giorno matematica.”
“Per me va bene”, disse Leslie. “Se
volete potete anche mangiare da me, vi va?”
“Se non da fastidio ai tuoi…”, disse
Mary esitante.
“No, certo che no”, disse Leslie agitando una mano.
“Allora veniamo di mattina, facciamo una full
immersion”, disse Jess, già sapendo che avrebbe
dovuto fare da insegnante di turno.
Era molto comodo in quel senso studiare assieme. Jess spiegava sempre
matematica, Leslie letteratura e Rosemary era particolarmente portata
per il disegno geometrico, così li aiutava a fare le tavole
quando dovevano consegnarle. Assieme erano una bella squadra.
Il Sabato arrivò per tutti loro come un dono dal cielo. Il
giorno seguente si incontrarono alle nove da Leslie e iniziarono subito
a fare problemi su problemi. Pian piano Mary s’impratichiva
sempre di più, mentre Leslie era ormai entrata
nell’ottica della faccenda. All’ora di pranzo
mangiarono come se avessero corso per chilometri. Alle cinque di
pomeriggio non ne potevano più.
“Basta, riposo”, implorò Mary.
“Si, sono d’accordo”, disse Leslie
poggiando la testa sul tavolo.
“Okay”, sussurrò Jess mettendo via libri
e quaderni. Andarono in camera di Leslie e si sparpagliarono
letteralmente un po’ dappertutto. La padrona di casa si
gettò sul suo letto, Jess era crollato a terra sul pavimento
con Mary al fianco.
“Vado in bagno”, disse improvvisamente Leslie.
“Ah, però adesso sono abbastanza certa che
prenderò minimo una B-”, disse Mary.
“Si, su questo non ci sono dubbi”, disse Jess
guardando il soffitto.
“Non appena posso ti cucinerò dei dolci e te li
porterò per ringraziarti”, promise Mary.
“Di sicuro non questa settimana, perché poi
Venerdì c’è anche Chimica. La settimana
prossima.”
Jess rise e si voltò verso di lei. La trovò
più vicina di quanto non si aspettasse, così si
dimenticò subito quello che voleva dire. Era come
annebbiato, come se il suo cervello avesse completamente dimenticato
ogni cosa, dove stavano cielo e terra, dove stava Jess in
quell’istante e anche tutte le formule appena apprese con
tanta fatica.
Nessuno dei due sapeva esattamente perché, ma
quell’improvvisa vicinanza li metteva a disagio. Jess non era
mai stato così consapevole del fatto di essere un ragazzo e
che Mary fosse una ragazza. In realtà l’aveva
sempre vista come un’amica, anche se in una parte di lui si
agitava qualcosa quando la osservava, e per qualche motivo voleva stare
assieme a lei più spesso del dovuto.
“Hey guardate che fuori sta cominciando a
piovigginare.” La voce di Leslie li distrasse, e in qualche
modo salvò tutti e due dall’imbarazzo. Si alzarono
e andarono a casa di corsa, e quel fatto fu presto dimenticato fra i
tanti pensieri di entrambi.
“E’ la cosa peggiore che avessero mai potuto
fare”, si lamentò Leslie sedendosi ad uno dei
tavoli della mensa.
“Perché?”, chiese Jess posando il suo
vassoio. “Non credo sia nulla di speciale in fondo.”
“Ma fa così scuola di periferia.”
“Questa è una scuola di periferia”, le
fece notare Mary. “Oh, grazie”, disse poi quando
Jess le scostò la sedia.
“Si ma… un ballo natalizio è
troppo…. periferico. Sembra la Oxford dei poveri”,
disse Leslie infilzando una delle polpettine rachitiche della mensa.
“Chi ti assicura che a Oxford fanno i balli?”
“Nessuno, ma sta sicuro che qualcosa faranno. Altrimenti
perché in tutti quei film
sull’università li fanno?”, chiese
agitando la polpetta per aria.
“Si, ma sono tutti film demenziali o horror”,
osservò Mary.
“E se venissimo chiusi nella scuola con qualche pazzo
assassino?”, chiese Jess allargando gli occhi e facendo un
sorrisetto furbo.
“Ma piantala!”, gli disse Leslie ridendo.
“Resta il fatto che questa è la Oxford dei
poveri.”
“E quindi? Non ci andrai?”
“B’è… se nessuno
m’invita no. Se qualcuno lo farà allora mi
prenderò la briga di venire, altrimenti non farò
la damigella sconsolata seduta ad aspettare che qualcuno le chieda di
ballare.”
“Oh, spero che non m’inviti nessuno che non voglio,
sarebbe bruttissimo dire di no”, osservò Mary.
“Ti assicuro che sarebbe brutto anche per il poveraccio che
verrà rifiutato”, gli disse Jess improvvisamente
nervoso.
“Vuoi invitare qualcuna?”, chiese Leslie.
“Boh”, disse Jess vago fissando insistentemente la
sua insalata, e trovandola anche estremamente interessante, di sicuro
molto più interessante della loro conversazione.
“Ciao”, disse un ragazzo che passava di
lì rivolto a Leslie.
“Ciao”, rispose lei alzando la mano in segno di
saluto.
“E se a te lo chiedesse Marc tu che diresti?”,
chiese Jess seguendo con lo sguardo il ragazzo che se n’era
appena andato.
Leslie si strinse nelle spalle. “Non lo so. Forse
sì, Marc è simpatico”, disse poi. La
verità era che Marc Vennar era venuto a chiedere a Jess se
lui e Leslie erano per caso fidanzati o se gli avrebbe dato fastidio
che la invitasse, quindi in realtà lui sapeva che Marc aveva
tutta l’intenzione di invitare Leslie al ballo.
Una volta finita la pausa pranzo tornarono nelle aule. Fu un pomeriggio
noioso, il professore di storia fece vedere loro un video che
probabilmente ebbe effetti soporiferi su tutta la classe.
Quando furono sulla via per tornare a casa videro la macchina del padre
di Leslie venire verso di loro. Lui si fermò e
abbassò il finestrino. “Hey tesoro, sto andando a
prendere la cuccia nuova per PT, quella che ha adesso l’ha
completamente distrutta”, spiegò a Jess e Mary.
“Vieni anche tu?”
“D’accordo. Intanto sono sicura che muori dalla
voglia di sentire la lezione di scienze, quindi preparati che devo
ripassare.”
“Non vedo l’ora”, disse suo padre con un
forte sospiro. Leslie salutò gli altri due e
sparì nella macchina. Quando l’auto fu abbastanza
lontana i due ripresero a camminare.
Ad un tratto Jess disse: “Ti va se ti accompagno a
casa?”
“Se ti va okay”, disse Mary sorridendo.
“Passiamo dal ponte.” Quando furono circa a
metà strada e stavano per uscire dal bosco di Terabithia
Jess buttò lì, come per caso: “Tu che
ne pensi del ballo?”
“Mah, potrebbe essere carino, no? Non sono mai stata da un
ballo. In realtà non sono mai stata in un posto dove ci si
deve vestire eleganti”, disse lei.
“E vorresti… vorresti che qualcuno in particolare
ti invitasse?” Jess si schiarì la gola. Si sentiva
nervoso.
“B’è… nessuno in
realtà. Ma non mi piacerebbe andarci con qualcuno che
conosco poco quindi, credo che farò come Leslie, se nessuno
con cui mi va di andare m’invita allora me ne
starò a casa”, disse Mary stringendo le labbra e
osservandosi i piedi.
“Forse… non so, forse ti va di andarci. Insieme
voglio dire. Io… e te”, la voce di Jess si perse
nell’incertezza delle sue parole, e lui guardò
Mary interrogativamente, un po’ speranzoso, un po’
timoroso.
Mary si voltò verso di lui e sorrise raggiante.
“Sul serio? Speravo proprio che me lo chiedessi. Si,
certo!”, esclamò.
“Oh, va bene. Perfetto”, disse Jess mentre un
piacevole calore gli si diffondeva sul viso. I due rimasero fermi a
guardarsi, senza dire nulla.
Senza sapere nemmeno lui che cosa faceva, impacciato ma proprio per
quello così tenero agli occhi di Rosemary, Jess si
avvicinò cautamente a lei e le diede un piccolo bacio. Fu
uno di quei baci nei quali più che voler sentire il sapore
dell’altro, si voleva sentire la sua anima, il suo cuore.
Soppesando i movimenti Jess prese le mani di Mary fra le sue e le
intrecciarono. Si avviarono così verso casa.
“Allora ci vediamo domani”, disse lei, rossa come
un pomodoro, quando furono davanti alla porta.
“Si, okay. Ciao”, disse Jess. E con stampato in
faccia un sorriso beato tornò verso casa. Non appena
entrò tutti capirono che era successo qualcosa.
“Jess, che hai?”, chiese suo padre.
“Sei contento”, osservò sua madre.
“Hai preso un bel voto?”
“Ah,no niente”, disse lui ancora sorridente
stringendosi nelle spalle. “A proposito, credo che
dovrò comprarmi un vestito nuovo, pare che ci
sarà una specie di ballo di natale a scuola, e devo
andare”, disse poi precipitandosi verso le scale.
“Oh”, fece la signora Aarons guardandolo fiondarsi
al piano di sopra. “Caro, credi che potremmo permettercelo?
Forse potremmo comprare un vestito di seconda mano”, disse
poi la donna rivolgendosi al marito.
“Non ce n’è bisogno tesoro, gli affari
vanno bene. Il negozio è nel pieno delle
attività”, rispose il marito con un sorriso. Poi
si voltò verso le scale pensieroso. “Tu credi che
Jess abbia una ragazza?”, chiese poi.
“Non lo so. Tu credi?”
“Non lo so”, rispose il padre lentamente.
“Hey, Joyce Ann!”, chiamò non appena
vide la piccola passare lì vicino.
“Che c’è?”, domandò
la bambina voltandosi verso il papà e sorridendo.
“Lo sai? Credo che tuo fratello debba andare al ballo
scolastico assieme ad una ragazza, non sei curiosa di sapere chi
è?”, chiese astutamente.
“Davvero? Si che sono curiosa! Chi è? Dai dimmi
chi è papà!”
“Ah, io non conosco il suo nome!”,
esclamò l’uomo sorridendo.
“Va’ a chiederlo a lui, poi vieni a dirlo a me o
alla mamma.”
“D’accordo” disse Joyce Ann annuendo
decisa. E si precipitò lungo le scale.
“Jess!”
Eccomi di
ritorno. Allora sono molto di fretta, per cui dico solo una piccola
preghiera: non
uccidetemi per quel bacio! XD
Detto questo passo
alle recensioni (ve l'ho detto che sono di fretta):
Lady
Marion:
appunto, ribadisco quel che ho appena detto: abbi pietà! XD
Comunque grazie mille per la recensione ^^ Ovviamente Leslie non poteva
andarsene, è uno dei miei personaggi preferiti, la adoro!
Comunque è proprio per non fare come in tutte le altre
fanfic di questa sezione che non li ho fatti mettere assieme.
Giàggià! B'è, sono curiosa di sapere
la tua opinione, soprattutto perchè sei contraria a questa
unione fra Jess e Rosemary XD B'è, al prossimo capitolo,
spero che questo non ti sia dispiaciuto troppo! XD
Un salutone a tutti
quanti, scappo! :)
Patrizia
|
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Capitolo 7 *** Il mestiere di diventare grandi ***
7.Il mestiere di diventare grandi
“Mary”,
bisbigliò Leslie appollottolando un minuscolo pezzetto di
carta. “Mary”, ripeté, leggermente
più forte. La ragazza si volse verso di lei, tentando di non
far scorgere il suo viso dalla professoressa, e le chiese con gli occhi
che cosa succedeva. Leslie le lanciò il bigliettino senza
farsi vedere e tornò a rispondere alle domande in silenzio.
Mary aprì il bigliettino e lesse: Marc mi ha invitata al ballo.
Scribacchiò una risposta e la lanciò a Leslie.
Circa dieci minuti dopo la professoressa alzò gli occhi dal
registro e chiese: “Avete finito? Possiamo
correggere?”
Altri quattro giorni e sarebbero iniziate le vacanze. Altri quattro
giorni e ci sarebbe stato il ballo di Natale. Tutti sembravano in
visibilio per quel ballo. Sembrava che non si parlasse
d’altro nei corridoi, tutti ne parlavano in tutti i momenti.
Gli alunni, Metterò
quello verde, con le scarpe che abbiamo visto l’altro giorno,
i professori, Dovremmo
chiudere l’accesso ai corridoi, altrimenti gireranno per
tutta la scuola, i bidelli, E chi è che
dovrà pulire tutto? Io!
Leslie aveva offerto un passaggio a Jess e Mary, ma se l’era
sentito rifiutare. Jess aveva da poco passato l’esame della
patente, e per quella sera aveva avuto il permesso di suo padre di
prendere la macchina.
La sera del ballo Leslie montò in macchina assieme a suo
papà e si fece portare fino a scuola, in un interminabile
sequela di mi raccomando
e prese in giro da parte del signor Burke. Per l’occasione
aveva appositamente comprato un vestito. Era molto elegante, del tipo
che lei raramente indossava, se non ai matrimoni o ai battesimi delle
sue innumerevoli cuginette. Era color verde bottiglia, senza spalline e
con una scollatura quasi inesistente che, tuttavia, il padre di Leslie
considerava eccessiva. Era addobbato qua e là con piccole
perline che, alla giusta luce, rivolgevano un riflesso verdastro. Per
completare il tutto delle scarpe con poco tacco verde chiaro, qualche
gioiello d’argento prestatole da sua madre e una piccola
borsa dello stesso colore.
Davanti all’entrata della scuola c’erano moltissimi
ragazzi, tutti vestiti in modo elegante e la maggior parte con una dama
sorridente al seguito. Leslie non ci mise molto a trovare Marc nella
folla, era vestito con uno smoking nero che gli calzava a pennello,
anche se Leslie lo preferiva con i soliti jeans e maglietta. Non appena
il ragazzo la vide le andò incontro e le diede una rosa
bianca da appuntare al vestito.
“Grazie!”, disse Leslie sorridendo quando la prese.
“Di nulla”, disse il ragazzo arrossendo.
Pochi minuti dopo incontrarono Jess e Mary, che stavano parlando
accanto all’entrata alla palestra. Jess aveva indosso un
abito grigio, delle scarpe nere tirate a lucido, ma non esibiva nessuna
cravatta, e aveva invece preferito portare alcuni bottoni della camicia
slacciati facendo intravedere il petto ancora glabro. Rosemary invece
indossava un abito azzurro chiaro molto semplice che le arrivava sopra
al ginocchio, con una sola spallina che aveva una grossa rosa azzurra
alla base. “Ciao”, disse Jess vedendo Leslie.
“Ciao. Ciao Mary”, disse poi salutando la ragazza.
“Entriamo? Chissà come hanno addobbato la
palestra!” E così varcarono la soglia della
‘sala da ballo’. Dentro c’erano delle
luci soffuse, arancioni e rosse, azzurre e bianche. Lungo un lato della
palestra c’era un lungo tavolo, con sopra da mangiare e da
bere. Addossato ad una parete un dj faceva andare la musica e incitava
i ragazzi a ballare. Sulla pista c’erano già
diverse coppie che ballavano un ritmo frenetico.
“Andiamo?”, chiese Leslie trascinando via Marc per
mano. Si gettarono nella folla e scomparirono dalla vista.
“Vuoi ballare?”, chiese Jess a Mary sorridendo.
“Si.” E anche loro si buttarono nella pista.
Dopo diversi balli, uno dei quali era un lento, Jess e Mary avevano
sperimentato più piedi pestati che in tutta la loro vita, ma
non se ne curavano affatto. Alla quinta volta si erano impratichiti.
Alla fine di una canzone Jess scorse Leslie al suo fianco, fece segno a
Mary poi si voltò verso di lei e chiese, tendendo una mano
verso l’alto: “Posso?”, rivolto a Marc.
“Certo, ma solo per un ballo. Non credere che rubarmela
sarà così facile”, disse sghignazzando.
Poi guardò Mary e chiese: “Rosemary? Mi faresti
questo onore?”
“Accordato”, disse lei prendendo la mano di Marc.
Le due coppie si scambiarono, e proprio in quell’istante
incominciò un lento.
“Allora come va?”, chiese Jess prendendo la mano di
Leslie e poggiando l’altra al suo fianco.
“Tutto bene, e tu?”, rispose lei sorridendo.
“Non mi lamento.”
Leslie abbassò lo sguardo. Jess ormai la superava di tutto
il viso. “Jess senti...”, cominciò, ma
non ebbe il coraggio di finire.
“Hm?”, domandò lui.
“Si?”
“Tu e Mary state assieme?”
“Hm… si.”
“E da quanto?”
“Pochi giorni”, borbottò Jess.
“E perché non me l’hai
detto?”, chiese Leslie leggermente indignata.
“Non mi pareva il caso, tanto si capisce, no?”,
borbottò di nuovo Jess.
“Infatti, è vero.” Leslie, aggrappata
alle spalle di Jess, ebbe un insolito fremito, qualcosa di mai provato
prima di allora. Era quasi… contraria
all’idea che quei due stessero assieme, ma non sapeva dire il
perché.
Il ballo finì, e ognuno tornò dai rispettivi
partner. La serata continuò fra balli, risate e qualche
scappatella al tavolo delle cibarie, di cui tutti fecero largo uso.
Leslie non pensò più a come si era sentita, e
quando uscirono tutti assieme dalla palestra per prende un
po’ d’aria prese Mary per un braccio e le chiese di
accompagnarla in bagno.
Jess e Marc rimasero assieme da soli, fuori nel freddo della notte.
Nessuno dei due capiva mai perché le ragazze andassero in
bagno a branchi, era come un rito per loro. Seduti sul muretto che
circondava la scuola, aspettarono.
“Non è male come ballo”, disse Marc
issandosi a sedere sul muretto.
“Si”, disse Jess imitandolo, anche se in cuor suo
sarebbe stato esattamente uguale da un’altra parte, a patto
che ci fosse stata anche Rosemary.
“Jess ascolta… per caso Leslie ti ha detto
qualcosa su di me?”, chiese Marc a bassa voce.
“Hem… dovresti chiederlo a Mary”,
rispose lui. In realtà pensava che se a Leslie fosse
piaciuto Marc gliel’avrebbe detto, perché Leslie
era sempre più diretta di quel che ci si aspettava da lei.
Ma la non gli aveva mai detto nulla su Marc, e Jess sospettava che per
lei fosse come un amico. Però forse a Rosemary, fra ragazze,
aveva svelato qualcosa che a lui non voleva dire. Jess non voleva avere
l’ingrato compito di distruggere tutte le speranze di Marc,
così disse: “Si, chiedi a lei. Di sicuro ne
saprà più di me.”
“Okay”, disse Marc con un leggero sorrisino. In un
certo senso la risposta lo rincuorava, perché significava
che Leslie non si era confidata con un ragazzo, ma piuttosto con una
ragazza. Quel fatto lo faceva stare molto più tranquillo.
Quando le ragazze tornarono dall’escursione Jess e Mary
andarono a fare un giro nel parco davanti alla scuola, dove nelle
giornate calde facevano educazione fisica. “Fra poco
torniamo”, disse Jess. “E’ quasi
mezzanotte, tua madre mi ha fatto promettere di riportarti entro
l’una al massimo.”
“Infatti, quasi come Cenerentola”, disse Mary
sorridendo vagamente. Camminando, Jess le prese la mano e i due
continuarono ad avanzare in silenzio. “Non so se ti sei mai
chiesto…”, cominciò Mary a voce bassa,
lo sguardo puntato sulle proprie eleganti scarpe, “dove sia
mio padre.”
Jess rimase interdetto, nonostante la delicata introduzione
dell’argomento. Non aveva mai sentito Mary parlare di suo
papà, aveva accuratamente evitato di parlare di lui fin da
quando si conoscevano, e né Jess né tantomeno
Leslie avevano pensato di farle domande al riguardo. Semplicemente la
lasciavano stare in quel frangente, anche se si erano resi conto che
quando parlavano dei loro genitori lei citava solo sua madre, e
diventava taciturna.
“Se… se ti va di dirmelo va bene. Ma non devi
dirmelo per forza”, mormorò Jess gettandole
un’occhiata obliqua.
“No, in realtà è da un sacco che ne
voglio parlare con qualcuno, e voi siete i miei amici.” Fece
una piccola pausa, poi lo disse tutto d’un fiato:
“I miei genitori divorziano, e stanno decidendo chi
avrà l’affidamento.”
Quelle improbabili parole rimasero sospese nell’aria per un
po’, così come il cuore di Jess si
gonfiò e rimase per un istante galleggiante, dalle parti
della gola, a chiudergliela in una morsa stretta. Il ragazzo
lasciò all’improvviso la mano di Mary e la
guardò esterrefatto. “Ma non sei abbastanza grande
per decidere da sola?! Perché non puoi restare con tua
madre?”, chiese quasi urlando.
“P-perché lei ha un lavoro molto impegnativo, e
papà sostiene che non sarebbe mai in casa”, disse
Mary quasi spaventata dalla reazione del ragazzo.
“Ma perché? Che lavoro fa?”,
domandò Jess disperato, abbassando il tono di voce.
“L’avvocato”, disse piano Mary abbassando
lo sguardo. “E papà fa il cuoco in un ristorante a
tre stelle. Lui sta a casa tutto giorno e se ne va’ alle sei,
torna verso l’una.”
“Ma invece è con lui che resti da sola tutto il
tempo!”, obbiettò Jess. Sembrava furioso, ma non
sapeva nemmeno lui con chi. Forse con i genitori di Mary, che avevano
deciso proprio allora di separarsi! Non potevano aspettare? Non
potevano cambiare lavoro? Non potevano semplicemente lasciarla
lì, assieme a lui?
“Papà dice che mi lascerebbe con qualcuno in casa
la sera, e dice anche che ormai sono grande, quindi potrei anche
restare da sola quando avrò diciassette o diciotto anni, che
non sarebbe pericoloso. Molti ragazzi abitano da soli a diciotto
anni.”
“Ma… ma… questo non c’entra
niente.” Jess non sapeva nemmeno che dire, la notizia era
talmente inaspettata e la situazione tanto irrisolvibile che non
c’era nulla da dire, in realtà. “Ma tu
ora sei qui, no? Stai studiando qui, abiti da tuo nonno. Non possono
portarti via.” Guidato da chissà quale forza Jess
prese il viso di Rosemary, si chinò e avvicinò le
labbra della ragazza alle sue, e la baciò con forza. Ogni
volta che sentiva le sue labbra le sue viscere si contorcevano, la sua
bocca respirava il suo sapore e i suoi occhi vedevano un mondo intero
dietro le palpebre chiuse. Registrò ogni dettaglio, il
profumo che emanava, il suo sapore, il rossore sulle sue guancie e le
sue mani calde che lo stringevano a sé. Quando si separarono
le accarezzò i capelli e l’abbracciò.
“E’ solo che non voglio che te ne vada”,
disse piano osservando il prato buio e deserto.
Leslie gettò la penna sul tavolo, sconfortata. Dentro di
sé decretò: ho
il blocco dello scrittore. Alzò lo sguardo e
guardò l’orologio sulla mensola. Decise che prima
di andare alla casa sull’albero, dove avrebbero festeggiato
il dopo Natale -perché Natale si festeggia in famiglia-,
avrebbe fatto una doccia.
Mentre l’acqua scorreva rilassante ebbe modo di pensare. Non
erano passati molti giorni dal ballo, che si era tenuto il ventidue
Dicembre. Stare nella casa sull’albero adesso era diventato
complicato, perché faceva molto freddo, ma era una
tradizione, lei e Jess festeggiavano il dopo Natale, ogni 26 Dicembre,
fin dal primo anno in cui si erano conosciuti, e senza mai chiamarlo
Santo Stefano.
Quando si fu asciugata i capelli ed ebbe indossato dei vestiti
abbastanza pesanti, compresi guanti, sciarpa e cappello, si
recò di corsa al Ponte di Terabithia, dove ad attenderla
c’era Jess. “Andiamo?”, chiese lui
infagottato nei vestiti.
“Eccomi. A proposito, Buon Natale”, disse tirando
fuori un piccolo pacchetto.
“Grazie”, disse Jess. “Anche io ti ho
comprato un regalo, ma l’ho dato a Mary, con lei sarebbe
stato più al sicuro, io lo avrei scordato di certo a casa!
Ti piacerà un sacco.”
“Sul serio? Che cos’è?”,
chiese Leslie curiosa.
“Non te lo posso mica dire.”
“Mh, d’accordo. Allora almeno apri il tuo. Ne ho
fatti fare tre uguali per tutti quanti”, disse Leslie.
Jess aprì il pacchettino e vi trovò dentro un
braccialetto da uomo, d’argento, con un ciondolo a forma di
lettera T.
“Wow! Leslie ma è bellissimo!”,
esclamò. L’abbracciò forte e
indossò subito il suo nuovo bracciale, dopo di
ché attraversarono il ponte e valicarono i confini di
Terabithia.
Nella casa trovarono Mary, che aveva portato con sé tre
coperte di lana grossa che passò subito agli altri.
“Mi chiedo perché non ci sia venuto in mente
prima”, si chiese Jess mettendosi la coperta sulle spalle e
stringendosela addosso.
“Oh non preoccupatevi, solo ad una freddolosa come me
potrebbe mai venire in mente”, disse Mary, già
avvolta in quelli che parevano metri di tessuto. “Magari vi
va di venire a casa mia dopo? Sono con mio nonno, ma lui dorme tutto il
tempo, è molto stanco in questo periodo. Mia madre
è dovuta correre in ufficio perché si sta
occupando di un caso molto importante.”
“Ah, allora in questo caso faremo un brindisi”,
acconsentì Leslie. “Credo che questo sia
l’inverno più freddo che ci sia mai stato da
queste parti. No, Jess?”
“Probabile”, disse lui stringendosi nelle coperte.
“Chissà che cosa starà facendo la
Timmed a quest’ora?”, chiese poi con un ghigno,
ricordando la loro insegnante di lettere.
“Sarà assieme ai suoi nipoti neonati… a
leggergli l’Amleto”, disse Leslie ridendo.
“O magari Macbeth!”, esclamò Mary.
“L’iliade! Questa storia bambini narra di Achille,
fate la parafrasi dal verso uno al cento”, disse Jess
imitando la professoressa. Rimasero lì ancora un
po’ a prendere in giro la professoressa Timmed e ridere a
crepapelle, fin quando Rosemary non ripropose l’invito e vi
aggiunse una cioccolata calda.
“Magari”, disse Leslie stringendosi ancora addosso
la coperta.
Quando ebbero preso abbastanza coraggio per togliersi le coperte di
dosso si avviarono verso casa di Mary, tutti vicini e stringendosi
l’uno all’altro. Quando arrivarono dentro si
piazzarono subito in salotto, dove il fuoco del camino ardeva e
scoppiettava con allegria e di fronte al quale si scaldarono le mani.
Quando furono soddisfatti andarono in cucina e si adoperarono per
preparare la cioccolata calda, densa come quella che facevano nei bar.
L’aiuto di Leslie fu fondamentale, perché
preparò una buonissima panna montata che posarono con un
cucchiaio sopra ogni tazza.
“Non ho mai mangiato una cioccolata come questa”,
disse Jess quando gli ebbero servito la sua tazza.
“Davvero? Quando fa freddo mia mamma la fa sempre”,
disse Mary sedendosi al tavolo sorridendo e prendendo una generosa
cucchiaiata di panna.
“In Francia”, cominciò Leslie,
“io e i miei ci siamo fermati a mangiare il gelato, e
già mi sembrava strano che ci facessero scegliere il gusto
di gelato che volevamo seduti ad un tavolino, ma quando sono arrivati
erano dei gelati enormi! In coppe alte così”, e
fece un gesto con la mano, “tutte piene, con sopra pure la
panna. L’unico che è riuscito a finire la sua
è stato papà.”
“Erano buoni?”, chiese Jess.
“Buonissimi”, disse Leslie.
Non appena finirono di bere la cioccolata che scottava suonò
il telefono di casa. Rosemary scappò a rispondere, poi la
sua testa fece capolino nella stanza. “E’ per te
Leslie, è tua madre”, disse passandole la cornetta
del telefono.
Leslie scomparve un attimo, e quando tornò disse:
“Mi spiace devo andare. A quanto pare sono arrivati i miei
zii a trovarci. Ci vediamo domani”, disse agitando una mano e
sorridendo.
“Meglio che almeno metta questi nel lavandino, altrimenti mia
madre mi ucciderà”, disse Mary dopo che ebbe
accompagnato Leslie alla porta. Prese le tazze dal tavolo e le
depositò nel lavabo. Non appena si fu voltata si prese uno
spavento quasi mortale: dietro di lei c’era Jess, arrivato in
modo così silenzioso da far invidia ad un ladro.
“Jess!”, lo rimproverò.
Lui non rispose, invece la baciò. Le prese il viso fra le
mani e continuò a baciarla, mentre Mary gli cingeva le
spalle. Non era un bacio come gli altri, lo sapevano entrambi. Jess
strinse Mary a sé, le sue mani scivolarono lungo i suoi
fianchi morbidi. Quando si seprarano restarono a guardarsi negli occhi
per un breve tempo, esplorando il colore degli sguardi e sperando di
poter carpire solo da quello i pensieri dell’altro. Poi Mary
prese Jess per un braccio e cominciò a trascinarlo verso la
sua stanza.
“Dove andiamo?”, chiese lui con tono ebete. Non
capiva bene ciò che stava succedendo.
“Ma come sei acuto! Un altro al posto tuo mi avrebbe portata
in braccio! Stiamo andando in camera”, disse Rosmary ridendo.
“Fa’ silenzio.”
“E se torna tua madre?” chiese Jess, intimorito di
incappare nell’ira di un genitore.
“No, è uscita un’oretta fa, quello
è il tempo che ci mette per arrivare in ufficio.”
Mary lo spinse dentro e poi chiuse a chiave.
Come se avesse ripreso coraggio, Jess prese a fare il solletico a Mary,
che si contorse e rise come una pazza, gettandosi sul letto. Quando
Jess prese a darle piccoli baci sul collo la ragazza sentì
un brivido sulla schiena.
“Jess…”, tentò di dire
qualcosa ma la voce le morì in gola.
Jess sorrise, e le prese una mano nella sua.
“Allora l’hai fatto”, disse Leslie a Mary
guardandola eloquentemente.
“Hm, si”, rispose lei titubante.
“E com’è stato?”, chiese con
un sorriso furbo.
“E va bene, non terribile come pensavo”, disse Mary
sbuffando.
“Te l’avevo detto. In fondo è solo
questione di esercizio, la matematica è soprattutto
applicazione. Fare un po’ di esercizi per conto tuo non
può essere una tragedia. Hai fatto bene.”
In quel momento arrivò Jess. “Ciao,
eccomi”, disse sedendosi di fronte alle ragazze.
“Mary l’ha fatto!”, esclamò
Leslie alzando le braccia al cielo.
“Hai fatto gli esercizi da sola?”, chiese Jess.
“Si. Perché lo dite tutti come se fosse un evento
mondiale?”, borbottò la ragazza imbarazzata.
“Perché lo è!”,
esclamò Leslie ridendo. “Dovremmo fare un
annuncio”, disse poi con aria pensosa.
“Ma smettila”, disse Mary ridendo.
“Scusate devo andare”, disse Jess.
“Felicity mi aspetta. Ciao Leslie. Ciao”, diede un
veloce bacio a Mary e scappò via.
“A volte non sembra che la signora Grenike sia quasi sua
madre?”, chiese Mary.
“Un po’, vero? Dai ricominciamo. Questo, se ci va
bene, è l’ultimo test di matematica
dell’anno. Basta che prendi una B, e non avrai nessun corso
estivo”, disse Leslie.
Fra una cosa e l’altra era arrivato il nuovo anno. E
un’altra estate si dipanava di fronte ai ragazzi. Per tutto
l’anno scolastico avevano un po’ lasciato da parte
i loro sogni di grandi carriere, e riprendevano a sognare ad occhi
aperti solo quando avevano del tempo a disposizione. Nessuno aveva
dimenticato i suoi proprositi, li avevano solo accantonati per un
po’, per far fronte al lavoro scolastico. Jess era fortunato,
il professore di matematica gli aveva praticamente detto che aveva
già passato il suo corso con ottimi risultati, quindi lui
non si preoccupava molto del fantomatico ultimo test
dell’anno, dopo il quale non c’era modo di
rimediare.
Leslie e Marc da qualche mese uscivano assieme. Marc era un ragazzo
carino, anche se molto timido. Questa era una delle cose che a Leslie
piaceva di lui, pensava che ci avesse messo l’anima per
chiederle di uscire la prima volta. Si, le piaceva Marc, era un bravo
ragazzo.
Sembrava che tutto andasse alla perfezione in quel periodo. La scuola
stava per finire, si parava davanti a loro l’estate. Poteva
succedere qualcosa di brutto? No, si dicevano loro.
Perché ancora non sapevano che cosa stava per accadere.
Okayo. Ecchime qua.
Diciamo che
c'è da aspettarselo, cosa succederà, i
più loquaci (e silenziosi) potrebbero scoprirlo facilemnte!
XD
Comunque sia, su
questo capitolo non c'è troppo da dire, il prossimo invece
sarà carico di passioni! Uhuh...
Lady
Marion:
complimenti per aver riordinato le idee! XD Si, le tue motivazioni sono
più che comprensibili ma, se vorrai continuare a leggere, ti
consiglio di attendere ancora un po'. Leslie e Jess stanno vivendo la
vita esattamente come noi, e non tutto va come vorremmo in questa vita,
quindi nemmeno a loro andrà tutto bene. Ti assicuro quello
che, secondo me, è un lieto fine. Se hai letto questo
capitolo potresti già capire che cosa succederà
in seguito, comunque sia nessuno ti obbliga a leggere, e se quello che
leggi non ti piacerà sei tu che devi decidere che cosa fare.
A tutti gli altri che
sono contro questa storia: credo che i nuovi personaggi aiutino a
rendere la fic più dinamica. E' qualcosa che mi è
venuto in mente ora, quindi vi saluto. Al prossimo capitolo a tutti i
lettori! ^^
Patrizia
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Capitolo 8 *** Conseguenze di una partenza ***
8.Conseguenze di una partenza
Mary si torceva le mani e guardava Leslie
con aria preoccupata. Da parte sua Leslie non riusciva a crederci, era
semplicemente assurdo, non stava capitando a loro.
“E… si può sapere che cosa aspettavi a
dircelo?”, chiese Leslie burbera guardando altrove. Non aveva
la forza di osservare Mary, era come se fosse stata tutta una grossa
bugia.
“Non lo so, non lo so”, disse Mary
sull’orlo del pianto. “Non ne ero sicura fino a
l’altro ieri, quindi non volevo dirvi niente per non farvi
preoccupare.”
“Hey.” Leslie si sedette al suo fianco e
l’abbracciò. “Non ti preoccupare,
d’accordo?”, sospirò. “Lo hai
già detto a Jess?”
“No,” biascicò Mary, lo sguardo basso.
“Gli ho detto solo che c’era la
possibilità che me ne andassi, ma un sacco di tempo fa. Se
lo sarà già dimenticato.”
“Se conosco Jess non avrà smesso di pensarci un
solo secondo”, disse Leslie a voce bassa.
Proprio in quel momento sentirono il rumore di qualcuno che veniva
verso di loro. Le foglie secche si muovevano e si spezzavano sotto i
piedi di qualcuno. Leslie si alzò e scese dalla casa, Jess
la guardò interrogativo. “Perché quel
muso lungo?”, chiese con un mezzo sorriso.
Leslie non disse nulla e abbracciò Jess in silenzio.
“Io vado a casa”, mormorò allontanandosi
a grandi passi. Non voleva stare lì, non voleva essere
presente quando sarebbe successo.
Jess salì le scale a pioli della casetta
sull’albero e vi trovò Rosemary, seduta contro una
parete, che si teneva le ginocchia al petto. “Che
cos’è successo?”, domandò
serio.
Mary stirò le gambe e guardò Jess dal basso.
“Mio padre ha ottenuto l’affidamento. Sto partendo
per Seattle.”
Non si udì nulla se non il cinguettìo degli
uccelli e il fruscìo del vento fra gli alberi, una calma che
Jess aveva sempre adorato, ma che in quel momento non esisteva. Il
tempo si era come fermato nel suo cuore, il respiro mozzato e le
orecchie riempite di un rumore assordante che non esisteva. Nonostante
questo, fuori, tutto attorno a loro sembrava festeggiare
l’arrivo dell’estate, mentre Jess si chiedeva
perché mai. Perché avrebbero dovuto festeggiare
in un momento così triste?
“Quando?”, chiese a mezza voce.
“Fra tre giorni.”
“Bene.” Jess distolse lo sguardo. “Vado a
dire a Felicity che non potrò andare da lei
domani.”
“Come?”, chiese Mary osservandolo.
“Penso che dovremmo… che dovremmo passare un
po’ di tempo assieme”, disse lui guardando a terra.
Mary sorrise e si alzò da terra.
“Giusto”, approvò con vigore.
“Vieni, ti aiuto”, disse Jess mettendo per primo un
piede sulla scala a pioli e tendendole la mano per aiutarla a scendere.
“Non così, la mano dev’essere leggera.
Guarda il disegno da lontano per vedere tutti gli errori”,
disse Felicity passeggiando per la stanza. Jess sbuffò, lo
sguardo cupo rivolto a terra. Sciacquò il pennello nella
bacinella e l’acqua si tinse di azzurro. Di solito gli
piaceva guardare l’acqua che si colorava, ma quel giorno non
vi fece caso. “Allora, dicevamo… ah,
sì: L’Accademia
degli Incamminati. Devi sapere che prima aveva un diverso
nome. Inizialmente fu chiamata Accademia
del Naturale, perché rivolgeva tutte le sue
attenzioni alla copia dal vero, come non stai facendo tu, poi Accademia dei Desiderosi,
per il desiderio che c’era negli alunni di imparare, e infine
arriviamo alla famosa Accademia
degli Incamminati. Questo perché ogni artista
compie un percorso, una strada che non finirà mai.”
Felicity passò dietro a Jess e diede un’occhiata
al disegno. “Non così”, disse prendendo
il pennello dalle mani di Jess. “Il colore non va spalmato
come burro, sii delicato. E, per rendere un colore meno acceso meglio
mischiarlo con il blu, non con il verde, che lo rende
più… dolciastro.” Gli
riconsegnò il pennello e riprese a parlare, ma Jess non
stava ascoltando. Non stava neanche propriamente dipingendo.
A dirla tutta la sua mente era altrove. Era da appena una settimana che
Rosemary era partita, e anche se ogni tanto telefonava, sentirla lo
faceva solo stare peggio, tanto che alcune volte aveva lasciato detto a
sua madre che per lei non c’era, o a volte usciva di
proposito. Andava da Leslie, oppure se ne stava per i fatti suoi a
rimuginare su quanto la sua vita fosse ingiusta. In un primo momento,
siccome Leslie di sicuro non avrebbe smesso di vedere la madre, avevano
pensato di vedersi durante le vacanze estive, durante le quali Mary
avrebbe chiesto a suo padre di poter rimanere lì tutto il
periodo estivo. Ma il problema era che Jess non riusciva ad aspettare.
Non riusciva ad alzarsi la mattina. Anche senza un motivo apparente
sentiva sullo stomaco un peso, una forza che gli opprimeva il petto e
le viscere, che quasi gli impediva di pensare e di respirare. Si
svegliava infelice e si addormentava nello stesso stato. Desiderava
riavere Mary per poterle parlare, per poter ascoltare le sue canzoni,
per il tempo che passavano assieme a Leslie, per insegnarle a fare i
calcoli, per prenderla fra le sue braccia e baciarla e farla sua.
“Jess?”
“Cosa?”
“Che cosa ho appena detto?”, chiese Felicity
sistemandosi i grossi occhiali stravaganti sul naso.
“Er…”, Jess sospirò.
“Non lo so”, disse infine con gli occhi chiusi
sollevando le sopracciglia. Era così nervoso in quei giorni.
Scattava per ogni minima cosa. L’altro giorno si era beccato
un pugnetto spettacolare da parte di Joyce Ann, perché le
aveva urlato di andare fuori dai piedi a giocare con le barbie. Joyce
Ann, dopo averla picchiato, era andata via indignata, e Jess si era
sentito ancora peggio.
“Jess che cos’hai? C’è qualche
problema? E’ da giorni che sei così assente, che
cosa succede? Per caso c’è qualcosa che non ti va
giù in queste nostre… lezioni? Devi dirmi
qualcosa?”, chiese Felicity.
A quel punto Jess aveva perso la pazienza. “No, non
c’è niente che non va nelle lezioni!”,
disse a tono alto gettando via il pennello. “Lei non ha fatto
niente. Il mondo non gira attorno a te, sai?” E
così dicendo superò una sconvolta Felicity e
uscì. Pedalò verso casa ad una
velocità che non credeva possibile, sentiva i muscoli delle
gambe bruciare e la cosa lo faceva sentire quasi sano, quasi vivo. Non
appena fu di fronte a casa sua si rese conto che non aveva voglia di
vedere i suoi, né tanto meno Joyce Ann e May Belle. Fece
inversione a metà strada e si diresse a casa di Leslie.
In quel momento lei stava leggendo, ma vide Jess avvicinarsi dalla
finestra. Aprì la porta appena in tempo perché
lui entrasse come una furia e dicesse: “Non ce la faccio
più!”
“Leslie? Jess sei tu?”, chiese una voce proveniente
dal salotto.
“Mi scusi signora Burke”, disse Jess. In quel
momento anche lei lo irritava.
“Noi andiamo di sopra mamma!”, disse Leslie
correndo verso le scale.
“Tuo padre?”, chiese Jess salendo.
“Scrive. Non lo tira fuori nessuno dallo studio”,
rispose Leslie. Non appena furono in camera Jess si buttò
sul letto con un grosso sospiro. Dopo una piccola esitazione Leslie si
mise al suo fianco.
“Mi dispiace”, disse dopo un attimo di silenzio.
“Si. Manca anche a te?”
“Un sacco. L’altro giorno mi ha chiamata. Dice che
è da giorni che prova a parlarti a tutte le ore, ma tu non
ci sei mai. Perché non le rispondi, Jess?”, chiese
con un tono vagamente dispiaciuto.
Jess scosse la spalle. “Non lo so. Non mi va. Oggi ho
litigato con Felicity.”
“Cosa?”
“Non so che mi è preso”, disse Jess
sedendosi e ficcando la testa fra le mani.
“Jess, mi dispiace molto. Forse dovresti distrarti un
po’. Che ne dici di andare a fare un giro assieme uno di
questi giorni?”
“Terabithia?”, chiese lui.
“No, andiamo a fare un giro in città”,
propose Leslie. “Ti va?”
Jess ci pensò un po’ su. “Si,
d’accordo.” Forse uscire gli avrebbe fatto davvero
bene.
“Allora ci vediamo domani alla fermata. Alle nove meno un
quarto, okay?”
“Si, va bene. A domani. Ah e… chiedi scusa a tua
madre per prima”, disse Jess uscendo dalla stanza.
“Non ti preoccupare, capirà. Non se la
prenderà con te per una cosa come questa.” Leslie
fece strada fino alla porta e accompagnò fuori Jess.
“Mi chiedo se c’è qualcosa per cui i
tuoi si arrabbierebbero mai.”
“Non saprei, forse se facessi qualcosa di molto, ma davvero
molto grave, allora sì. Ma dev’essere di
proporzioni gigantesche.”
“Più grande di un troll”, disse Jess
sorridendo.
“Credi che i miei si lascerebbero scoraggiare da un
troll?”, domandò Leslie con viso scettico.
“Hai ragione. E poi c’è Prince Terrian
che vi difende, no?”
“Infatti. Ci vediamo domani Jess”, disse Leslie
agitando una mano.
“Non credi che dovremmo andare a chiederglielo?”,
chiese Leslie osservando la ragazza seduta ad un tavolino di fronte al
bar.
“Si, ma se poi ci sbagliamo che facciamo? Che
figuraccia!”, esclamò Jess. “Non la
guardare”, aggiunse poi.
“Solo per capire se è lei”, disse Leslie
distogliendo con rammarico lo sguardo.
“Forse potremmo urlare il suo nome, e vedere se si
gira”, tentò Jess lanciandole
un’occhiata. Erano dall’altra parte della strada e,
non ne erano del tutto certi, ma pensavano di aver appena visto Janis
Averis. Se davvero si trattava di lei, era radicalmente cambiata con
gli anni. Prima di tutto era dimagrita di qualche chilo, e il uo viso
era pieno ma tuttavia piacevole, poi si era fatta più alta,
i suoi capelli non erano più mossi e stopposi come prima, ma
lisci. Inoltre Leslie aveva individuato lungo le braccia e sulla
caviglia diversi tatuaggi.
“Credi che sia possibile che Janis sia diventata
una… punk a bestia tatuata, o qualcosa del
genere?”, chiese Jess guardando i tatuaggi da lontano.
“Non credo che sia lei”, concluse poi.
“Tu dici? Se solo restasse voltata per un po’
potrei vederla meglio”, disse Leslie aguzzando lo sguardo.
“E se passassimo di lì per caso?”
“Se anche fosse lei ci ignorerebbe, o ci darebbe un calcio, o
ci tirerebbe addosso qualcosa. Oppure…”
“Ho capito, grazie Jess. Però non ci ha
più dato fastidio dopo quella storia del bagno.
Poverina”, disse Leslie. Si alzò dagli scalini sui
quali erano seduti e si voltò verso Jess. “Dai,
andiamo a vedere se è lei”, disse indicando
l’altra sponda della strada con un movimento della testa.
“Ma veramente sta venendo lei da noi”, disse Jess
guardando dietro a Leslie.
La ragazza si voltò, e infatti vide la copia sputata di
Janis Averis da grande venire verso di loro. “Sta venendo da
noi? Davvero?”
“Boh”, disse Jess stringendosi nelle spalle.
Proprio in quel momento Janis sorrise e li salutò con una
mano. Li raggiunse sugli scalini e si sedette affianco a Jess.
“Ciao Leslie”, disse poi voltandosi verso la
ragazza.
“Ciao”, rispose lei sorridendo.
“L’ho detto a Jess che eri tu, ma lui non mi
credeva.”
“Ciao Jess”, disse Janis voltandosi verso di lui.
“Come va?”, chiese lui con un sorriso incerto.
L’ultima volta che aveva visto Janis Averis lei stava
strappando dalle mani una merendina a un bambino di seconda, quindi non
credeva fosse sicuro stare al suo fianco.
“Bene grazie. E voi? Che fate adesso, andate ancora a
scuola?”
“Si, l’anno prossimo in terza”, disse
Leslie sedendosi affianco alla ragazza. “E tu?”
“Io ho provato dopo aver finito le medie, ma qualche anno fa
ho cominciato a lavorare in un negozio di tatuaggi. Si chiama Tribal, se per caso
conoscete qualcuno che vuole un tatuaggio o un piercing ditelo in
giro”, disse lei. “Sta vicino al comune, nella
traversa di fianco.”
“Ah si, ho capito. Fai tatuaggi? E
com’è?”, chiese Leslie curiosa.
“Lungo, e complicato. Però ho cominciato con cose
piccole, e adesso riesco a fare anche tatuaggi grandi, e colorati.
Faccio anche piercing.”
“Quindi… devi essere brava a disegnare”,
buttò lì Jess con curiosità.
“Si, direi di si. Ma ad essere sincera, non so
perché, mi vengono molto meglio i tatuaggi dei disegni, non
li so usare i pennelli o cose così. A te piaceva disegnare,
vero?”, chiese poi a Jess. “Stavi sempre con quel
tuo quaderno in mano, me lo ricordo.” Non disse anche che
spesso e volentieri lei glielo aveva strappato dalle mani per prenderlo
in giro.
“Già”, disse Jess sorridendo.
“Sai, se ti va, in negozio cercano qualcuno che disegni
tatuaggi, su carta. Così la gente può prendere
spunto dai disegni per decidere che cosa vuole farsi tatuare.
E’ un lavoretto da niente, ma se vuoi mettere qualcosina da
parte…”
“Io non mi farei mai un tatuaggio”, intervenne
Leslie, “Ho troppa paura di sentire male. Ma suppongo che se
mai lo facessi mi tatuerei qualcosa di personale che significa qualcosa
d’importante per me. Quindi non avrei bisogno di prendere
spunto.”
“Si, ma ci sono anche determinati simboli o disegni che
vogliono dire qualcosa per la gente. Oppure c’è
anche chi se li fa fare solo per estetica”, disse Janis
scrollando le spalle. “B’è, io devo
andare.” Fece un sorrisetto nervoso e si alzò,
dicendo: “Mi ha fatto piacere rivedervi.”
“Si, anche a me”, disse Leslie con un largo sorriso.
“Ciao”, le disse Jess mentre la ragazza li salutava
con la mano. La guardarono andar via e quando sparì Jess
sospirò e disse: “Comunque non ha perso niente con
gli anni.”
“Che vuoi dire?”, chiese Leslie girandosi verso di
lui con sguardo interrogativo.
“Fa ancora abbastanza paura a vederla.” Si
guardarono un istante e scoppiarono a ridere.
“Ti ricordi della lettera?”, chiese Leslie.
“Si, certo che mi ricordo. Ma ancora non ho capito
perché non potevi scrivere tu”, disse Jess
aggrottando le sopracciglia.
“Te l’avevo già spiegato quando
l’abbiamo scritta: i maschi scrivono in modo diverso dalle
femmine. Si capisce dalla grafia se uno è maschio o femmina,
soprattutto quando si è piccoli.”
“Cosa vorresti dire, che i maschi scrivono male?”,
chiese Jess indignato.
“Non ho mai detto questo, ma… si è
così”, disse Leslie alzando le spalle.
“Che ci vuoi fare, è la natura. Le femmine sono
più svelte.”
“Ma quanto sei cattiva”, sbottò Jess.
Dopo qualche minuto si alzarono e andarono a fare un giro. Si
comprarono una granita, Jess alla menta e Leslie al limone, e andarono
a vedere che cosa c’era al cinema. “Andiamo a
vedere quello”, propose Leslie indicando un cartellone.
“Ah, ho visto la pubblicità. No, non mi va. Vai a
vederlo con qualcun altro quello.”
“Ma Jess”, si lamentò la ragazza.
“Non fare quella faccia”, disse cupamente il
ragazzo.
“Quale faccia?”
“La tua faccia da per
favore, non puoi tirare sempre fuori quella per convincere
le persone. Sei peggio di P.T.”, disse Jess sciogliendo un
po’ la sua granita smuovendola con la cannuccia.
“Quindi vuol dire che ti potrei convincere?”,
chiese Leslie con un sorrisetto.
“Forse. Ma solo se poi un altro giorno andremo a
vedere… hm, quello”, disse indicando un cartellone
di un film d’azione.
“Affare fatto”, disse Leslie tendendo una mano.
“La prossima volta vediamo quello.”
Jess le strinse la mano e disse: “Potrei chiamare Joyce Anne,
non posso credere che sto andando a vedere un cartone
animato.”
“Da quanto non ne guardi uno?”, chiese Leslie
avviandosi verso la cassa.
“Troppo. Leslie… parla di un topo! Mi vuoi
biasimare perché non voglio vederlo?”, chiese
indicando il cartellone pubblicitario.
“Non è un topo, è un
furetto”, disse Leslie. “Un intero”,
disse poi al commesso annoiato.
“Uguale”, disse Jess passandogli un biglietto da
dieci dollari.
“Non siete un po’ troppo cresciuti per vedere una
cosa del genere?”, chiese il brufoloso commesso contando il
resto.
“Non lo dica a me”, borbottò Jess
prendendo il suo resto e incamminandosi in sala. “I posti
sono numerati?”
“Non credo”, disse Leslie. Si sedettero nel mezzo,
e solo allora Leslie si accorse che la sala era piena di bambini con i
genitori. Guardò Jess e scosse le spalle: “Almeno
non ci sarà nessuno che ci copre la vista.”
Le luci si spensero e, dopo qualche minuto di pubblicità, il
logo della Pixar comparve in grande sullo schermo. Dopo qualche minuto
Jess dovette ammettere con sé stesso che il film non era
affatto male, anche se parlava di un furetto, che secondo il suo
modesto parere somigliava sempre più ad un topo. Ad un
tratto Jess sentì qualcosa colpirgli la nuca e si
voltò verso Leslie. “Sei stata tu?”,
chiese.
“Che cosa?”, bisbigliò lei.
“Qualcuno mi ha lanciato qualcosa. Hey! Ancora”,
disse Jess.
Leslie si sporse e tirò fuori dal cappuccio della felpa di
Jess un pop corn. Jess si voltò rabbiosamente verso i sedili
posteriori, dove c’erano due bambini che ridevano.
Guardò lungo la fila per assicurarsi che vicino non ci
fossero la madre o il padre, poi sibilò con aria rabbiosa:
“Se non la finite vi schiaccio come pustole.”
“Ci fai proprio paura”, sghignazzò uno
dei due bambini.
“Vuoi vedere quanto riesco ad essere pauroso?” I
bambini risero più forte, tentando di non fare rumore.
Leslie si voltò. “Jess lasciali stare, adesso a
loro ci pensa Frankie, l’ho visto qua vicino”,
disse indicando vagamente una parte del cinema.
“E chi sarebbe Frankie?”, chiese uno dei bambini
divertito.
“Non lo sapete?”, chiese Leslie innocentemente.
“Frankie era il guardiano di questo cinema, che rimase ucciso
a causa di un incidente causato da dei bambini proprio come voi. Ma
molti sostengono che non sia morto, e che vaghi ancora per le sale.
Adesso porta sempre una maschera, perché si è
scottato durante l’incidente e non vuole farsi vedere in
faccia da nessuno. E’ diventato pazzo. Mi hanno detto che va
a caccia di bambini piccoli per mangiarli, perché vuole
vendicarsi.”
“Non ci credo!”, bisbigliò uno dei
bambini con tono di sfida. “Sono cavolate.” Ma il
sorriso sulla faccia dei due era svanito.
“Come vuoi”, disse Jess. “Ma io da
piccolo non avevo il permesso di venire in questo cinema,
perché i miei genitori sapevano che c’era Frankie.
Eccolo, avete visto quell’ombra vicino allo schermo?
Dev’essere lui”, disse poi indicando una figura che
si muoveva furtiva, probabilmente solo uno spettatore che non voleva
disturbare gli altri.
“E’ stato un piacere avervi conosciuto. Buona
fortuna”, augurò loro Leslie, per poi voltarsi e
seguire il film.
“Bella storia”, le sussurrò Jess senza
distogliere gli occhi dallo schermo.
“Grazie.”
Quando il film finì uscirono dal cinema in mezzo alla scia
di persone, commentando il film. Ad un tratto videro i due bambini
lanciatori di pop-corn correre a perdifiato verso l’uscita,
in volto un’espressione terrorizzata.
“Dici che ho esagerato?”, chiese Leslie.
“Forse un pochino. Ma hai idea di quanto faccia paura il buio
ad un bambino? E poi è così facile lavorare di
fantasia. Al buio in un cinema con un pazzo assassino al loro fianco.
Li avrai terrorizzati”, disse Jess. Ma intimamente si disse
che aveva fatto bene quando si trovò in una tasca della
felpa delle bricioline di pop-corn. “Allora la prossima volta
vediamo quell’altro”, disse poi.
“D’accordo. Quando?”
“Non lo so, quando vogliamo. Ora siamo in vacanza”,
disse Jess allungando il sorriso.
“Oh, sai che c’è un altro concorso? Ho
intenzione di partecipare”, disse Leslie orgogliosa.
“Davvero? Su che cos’è?”
“Racconto fantasy, un massimo di venti pagine. E…
non mi ricordo quante parola per pagina”, disse Leslie
pensandoci.
“Wow.” Jess fece una piccola pausa, camminando
pensoso con le mani in tasca. “Dovrei andare a parlare con
Felicity. E’ da quando ci ho litigato che non le ho nemmeno
telefonato. Dovrei chiederle scusa, in fondo è solo grazie a
lei se sto imparando a dipingere come si deve.”
“Chiamala quando torni a casa. Magari puoi comprarle un
regalo”, disse Leslie. “In segno di pace.”
“Ma che cosa si regala ad una come Felicity?”
“Non lo so, sei tu che la conosci. Che cosa le
piace?”
“Boh”, Jess si strinse nella spalle. “Le
piace… non lo so. L’unica cosa che mi viene in
mente è che potrei farle un ritratto. Cioè,
potrei provare a farle un ritratto, non so come verrebbe
fuori.”
“Scommetto che ne sarebbe felice”, disse Leslie.
“Dimostragli quando sei migliorato, e falle notare che
è solo grazie al suo aiuto.”
“Hm… d’accordo, farò
così.”
“Sono a casa!”, annunciò Jess entrando.
“Jess!”, May Belle gli corse incontro e lo
guardò con aria di rimprovero. La somiglianza con sua madre
era impressionante, Jess si rese conto che era cresciuta molto
nell’ultimo anno.
“Che c’è?”, chiese il ragazzo
con un mezzo sorriso.
“Perché non hai mai detto a mamma e
papà che prendevi lezioni di disegno?”, chiese lei
alzando le sopracciglia.
“Cosa?”
“C’è la signora di là,
è venuta a parlare con mamma e papà a proposito
di qualcosa. Poi ha parlato delle lezioni, e… boh, non so
cos’è successo dopo, papà mia ha
mandata via dalla stanza”, disse alzando le spalle.
“Oh cavolo”, mormorò Jess andando in
salotto senza più degnare di uno sguardo May Belle.
Non appena entrò vide una delle scene che non aveva mai
pensato di vedere in vita sua. Seduti sul divano c’erano sua
madre e suo padre, stretti fra di loro, che lo osservavano a
metà fra lo stupefatto e il furioso. Sul tavolino
c’era del tè e alcuni biscotti, che a quanto pare
nessuno aveva toccato e infine, seduta sulla poltrona, c’era
Felicity Grenike, in tutta la sua stravaganza. Era incredibile come
fosse fuori posto in quella casa. Con i suoi vestiti di colori
sgargianti, i gioielli che le tintinnavano addosso ad ogni movimento,
la sua crocchia alta che legava i lunghi capelli bianchi come il latte.
Aveva sempre quell’aria severa che Jess non aveva visto
cadere mai, emanava una sorta di aurea di superiorità.
“Jess, perché non hai detto ai tuoi genitori che
desideri diventare artista?”, chiese la donna guardandolo
attraverso gli spessi occhiali dalla montatura rossa.
Buon salve...
Come saprete, da poco,
EFP ha attivato l'opzione rispondi
alle recensioni,
indi per cui, in questo spazio parlerò un po' del capitolo
(fra parentesi, credo che EFP stia apportando dei miglioramenti molto
comodi XD).
Allora, ripeto per la
centesima volta: se per caso voleste delle anticipazioni sui prossimi
capitoli, sul mio blog li troverete, di solito li posto il giorno dopo
aver postato un capitolo. Per andare sul blog trovate un link alla mia
pagina.
Detto questo... molti
di voi saranno felicissimi che Rosemary non ci sia più. So
di avervi fatto disperare, ma questa decisione era già stata
presa dal principio. A chi piace Rosemary... mmh, complimenti, sei uno
dei pochi! XD Jess è ovviamente molto triste, e reagisce
davvero male, ma non volevo farlo entrare in depression-mode, come succede nel film quando
Leslie muore, per questo gli ho fatto fare la sfuriata con la signora
Grenike, credo che si addica di più al suo personaggio, che
ora è cresciuto rispetto al libro, è
più maturo e i suoi errori comportano più
conseguenze.
La parte in cui Leslie
sarà più partecipe in questa storia
verrà presto, non vi preoccupate! ^^
Un saluto,
Patrizia
|
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Capitolo 9 *** Stanca immaginazione ***
9.Stanca immaginazione
Anche il solo fatto che Felicity Grenike
fosse lì nella sua casa era così assurdo che a
Jess inizialmente venne da ridere. Vedere una donna così
fuori dal comune in una casa delle più ordinarie del paese
non era certo una cosa che avrebbe mai immaginato. Poi Felicity gli
rivolse quella
domanda. Perché mai aveva dovuto chiederlo? Non era chiaro
il perché non aveva mai detto ai suoi genitori di non voler
vivere dei suoi dipinti? Non lo si leggeva negli occhi di suo padre? La
delusione e il disprezzo che provava per suo figlio, davvero non si
notava? In quel momento i suoi occhi mandavano fiamme, e Jess era
sicuro che, se solo avesse potuto, lo avrebbe ucciso con quello
sguardo. Invece sua madre era solo sbigottita, probabilmente
considerava anche lei quella faccenda come una delle cose
più improbabili che sarebbero mai potute succedere: una
vecchia, pazza signora in casa sua, e suo figlio che voleva diventare
pittore! Jess pittore?
Cose dell’altro mondo…
“Jess, perché non ci hai detto che prendevi
lezioni di… disegno!,
invece di lavorare per la signora Grenike?”, gli chiese suo
padre.
“I-io…”, balbettò il ragazzo
cominciando a sudare freddo.
“Oh, di questo non si deve preoccupare signor Aarons. Ho
troppi soldi da spendere e così pochi nipoti a cui
destinarli. E poi Jess ha lavorato, almeno finché
c’era da lavorare, mi ha rimesso a posto l’intera
casa, prima era un vero disastro. E adesso fa le commissioni che gli
dico di fare, e tiene in ordine”, annunciò
Felicity con noncuranza.
Restarono tutti ammutoliti, poi il padre di Jess riprese a parlare.
“Come sono andate esattamente le cose?”, chiese con
voce bassa e vibrante, che a Jess sembrò vagamente
minacciosa.
“B’è… il ragazzo mi ha detto
che voleva lavorare per potersi pagare un corso di disegno. In un
artista una volontà del genere va ripagata,” disse
Felicity con un vago sorriso, “e dopo un po’ mi
sono detta: perché no? Così, dopo circa una
settimana ho cominciato a dargli lezioni, e siccome un artista deve
avere sempre soldi per comprare il necessario ho continuato a fargli
fare i lavori di casa, c’è sempre bisogno di una
persona che si prenda cura della casa.”
“Tu hai sprecato quei soldi per comprare dei
pastelli?”, chiese il signor Aarons a Jess, e questa volta
nessuno, nemmeno la svampita Felicity, poteva avere dubbi sul suo stato
d’animo.
“N-no, io no”, disse Jess spaventato. Non aveva mai
visto suo padre così furioso: era rosso di rabbia, i suoi
occhi osservavano attenti Jess e le sopracciglia erano corrugate sulla
fronte, a fornirlo di rughe profonde. Non sarebbe sembrato strano
vedere il fumo uscirgli dalle orecchie. Nel frattempo Felicity guardava
da Jess a suo padre incredula. “Allora… queste
lezioni saranno interrotte, e tu”, disse l’uomo
puntando un dito addosso a Jess, “te lo scordi un corso di
disegno.”
“Cosa? Perché? Se me lo pago con i miei soldi
perché non posso?”
“Il denaro non è una cosa da sperperare
così alla leggera Jess! Non si usa per fare degli stupidi
corsi di disegno!” Jess strinse i denti e si morse la lingua
per evitare di rispondere.
“Come prego?”, chiese a quel punto Felicity.
“Mi spiace signora Grenike per averle fatto perdere tempo.
Jess non verrà più a darle fastidio.”
Felicity Grenike rimase un po’ stupita dalle parole
dell’uomo. Si sistemò sulla sedia e strinse la
borsa fra le dita affusolate piene di anelli. “Prima di tutto
vorrei precisare… che io non ho affatto perso tempo. Jess
è un ragazzo sveglio e un allievo modello. In tre mesi
è riuscito a raggiungere risultati che una persona normale
ottiene in un intero anno di studio in una scuola apposita. Ha una
forte memoria e si ricorda tutto quello che gli dico senza prendere
appunti, ha imparato la storia dell’arte meglio di qualunque
altro studente d’arte che io abbia mai incontrato.
“E non è finita qui. Quello che veramente volevo
dirvi è che Jess ha talento. Gli manca ancora molto da
imparare, questo è certo, ma aver appreso tecniche
pittoriche solo la scorsa estate lo scagiona da qualsiasi critica gli
si voglia muovere. Sono convinta che con un leggero impegno da parte
sua potrebbe anche entrare alla scuola d’arte di New York una
volta finiti gli studi. Jess ha l’anima… di un artista!”,
esclamò la donna rivolgendo una fiera occhiata a Jess, lo
riteneva una sua creatura, quasi come un quadro che aveva iniziato lei
e che però andava avanti da solo per ultimarsi da
sé. “Ero venuta a chiedervi il permesso per venire
a fargli lezioni a domicilio dal lunedì al
venerdì anche durante la scuola, sempre che questo non
compromettesse i suoi studi. Ma vedo che non sapevate neanche delle
nostre lezioni estive.”
“Non ne eravamo a conoscenza è vero, ed
è anche per questo motivo che Jess non farà
più lezioni, queste cose si dicono ai propri genitori. E io
non permetterò che diventi u-un… imbrattatele
squattrinato”, disse il signor Aarons con un leggero
disprezzo nella voce.
Felicity sospirò, ma mantenne la sua aurea di
superiorità e quel leggero senso di spaesamento, come se
fosse con la mente altrove. “Ora comprendo il motivo per cui
Jess non vi aveva mai detto della sua passione.”
“No, no non è vero”, esclamò
la signora Aarons, sentendosi punta nel suo orgoglio di madre e per di
più da una donna che conosceva Jess solo
dall’estate scorsa. “Jess ha sempre disegnato, fin
da quando era bambino. Noi sappiamo che gli piace molto,
ma…”
“E’ questo il punto. A lui non piace. Lui sente,
lui ama… diglielo tu Jess. Fagli capire una volta per tutte!
Digli quello che vuoi tu, non quello che vogliono sentirsi dire. Sono i
tuoi genitori, devono sapere!”, disse Felicity voltandosi
verso di lui con cipiglio severo.
Jess li guardò per un momento, poi maledisse Felicity per
quello che aveva appena detto.
“Hm!”, esclamò suo padre buttando aria
fuori dal naso. “Visto? Jess è ancora una ragazzo,
non sa cosa vuole.”
“Non è vero!”, urlò Jess.
Tutti si volsero verso di lui, e in ognuno di quel visi Jess
poté leggere un’emozione diversa. “Si
che lo so! Io… non potrei fare nient’altro nella
vita. Non potrei lavorare in ufficio, o in un negozio. E’
vero, è come ha detto Felicity: io amo la pittura. Vorrei
poter fare solo quello, senza pensare ad altro, io voglio vivere con
l’arte, nell’arte.
Voglio sentirmi totalmente parte di ciò che amo, voglio dare
all’arte quel che lei ha dato a me e voglio crearne altra.
Voglio essere una cosa sola con lei.”
Fece una piccola pausa. “Ma non posso, quindi mi
guadagnerò da vivere servendomi dell’arte.
E…”, esitò, “non
m’interessa quello che vuoi tu. Io ho il diritto di
scegliere, e ho scelto.”
Detto questo Jess si voltò e se ne andò di corsa,
diretto a casa di Leslie.
“Cavolo. E dopo?”
“Dopo niente. Gli ho praticamente detto che volevo diventare
un pittore e me ne sono andato.” Scoraggiato, Jess
gettò via la mela che stava mangiando, che cadde con un
secco thud
sull’erba alta che cresceva tutt’attorno alla casa
sull’albero.
“E ora che vuoi fare? Dovrai tornare a casa prima o poi, lo
sai vero?”, chiese Leslie guardandolo preoccupata.
“Si, lo so”, sbuffò Jess.
“E’ solo che non ho voglia di parlargli. Mi
arrabbierei e basta.”
“Jess sono i tuoi genitori, vivete assieme. Fagli capire
quello che vuoi fare davvero, tanto più di dirti che loro
non vogliono che cosa potranno fare? Vietarti di uscire di casa per
andare da Felicity?”
Jess rimase in silenzio. “Posso… posso venire a
casa tua per stasera?”, chiese piano.
“Certo”, rispose Leslie. “Però
solo se chiami i tuoi e gli dici che sei da me. Se li fai preoccupare
si arrabbieranno ancora di più.”
“Si li chiamo”, disse.
Non ci fu bisogno di chiamare nessuno, infatti, poco più in
là del ponte, trovarono May Belle, che aspettava Jess con le
braccia incrociate al petto e una fantastica espressione di disappunto
dipinta in volto. Non appena li scorse disse con tono severo:
“Jess se te ne scappi un’altra volta
così giuro che mi prendo la tua stanza.”
“Non sono ancora scappato via definitivamente”,
disse lui con una smorfia. “Non preoccuparti. Quando lo
farò verrò ad avvisarti.”
“Ah ah, divertente”, disse May Belle con un sorriso
ironico. “Stai tornando a casa?”
“No, stasera dormo da Leslie. Dillo tu agli altri”,
fece Jess senza guardarla incamminandosi assieme a Leslie.
“Ma papà si arrabbierà. La signora
Grenike se n’è andata un’oretta fa e lui
non fa altro che dire dov’è
Jess?”, disse May Belle imitando la voce grossa
del padre.
“Senti, tu diglielo e basta, okay? Ambasciator non porta
pena, non se la prenderà con te.”
May Belle sbuffò e se ne andò, mentre Leslie
seguiva la scena in silenzio.
Quando arrivarono a casa di Leslie era quasi ora di cena.
“Mamma! Jess può mangiare da noi?”
“Dovevi dirmelo un po’ prima Leslie!”,
disse la signora Burke dall’altra stanza. Arrivò
all’entrata asciugandosi le mani in un panno e sorrise
dicendo: “Ciao Jess, come va?”
“Bene grazie. Mi scusi se sono venuto qui così
senza preavviso.”
“Oh, in fondo non importa, vuol dire che servirò
porzioni più piccole, e poi mangieremo un bel gelato.
Aiutami ad apparecchiare Leslie”, disse poi tornando in
cucina.
“Arrivo. Puoi andare a mettere questa in camera mia? Io
arrivo subito”, disse Leslie passandogli la scatola dei
colori che c’erano a Terabithia, che, dopo tanti anni, si era
ammuffita a causa dell’umido.
Jess la prese e disse: “Non la butti?”
“No, si può riutilizzare.”
“E’ legno ammuffito”, insistette Jess con
sguardo eloquente.
“Di sopra”, disse Leslie con cipiglio talmente
severo che il ragazzo non osò replicare. Quando ebbe posato
sulla scrivania la scatola e buttato un po’ di tubetti di
colore finiti, foglie secche e ramoscelli nel cestino, Jess
gettò un’occhiata ad un pacco di fogli. Pensando
che fosse una delle storie di Leslie lo prese e iniziò a
leggere.
Ad ogni parola rimaneva sempre più a bocca aperta, e quando
arrivò Leslie le sventolò il foglio sul naso e
disse con un ghigno in volto: “Non sapevo che Marc usasse
tante belle parole.”
“Cosa? Ah! Hai letto la mia posta?”, chiese Leslie,
sorridendo suo malgrado.
“Pensavo fosse una storia”, ammise Jess
stringendosi nelle spalle.
“Si, e quando hai capito che non lo era non hai
smesso.” Leslie gli diede un pugno sulla spalla e si riprese
il foglio, mentre Jess ridacchiava.
“B’è non sembrava una cosa privata, era
lì sulla scrivania in bella vista. E se tuo padre
l’avesse letta?”, chiese Jess strofinandosi il
braccio dove era stato colpito.
“E’ vero, ma né lui e né la
mamma leggono le mie cose. E poi papà sta ancora scrivendo,
sembra posseduto te lo giuro”, disse Leslie piegando il
foglio e mettendolo in un cassetto.
“Ah. E vabè, quindi?”
“Quindi cosa?”
“Quindi che hai risposto a Marc? Siete fidanzati?”,
chiese poi con un pizzico di rammarico, pensando a Mary.
“Hm, si”, disse Leslie alzando le spalle.
“Cosa? E perché non me l’hai detto? Da
quando? E poi che vuol dire hm,
seh.”
“Allora, prima di tutto io non ho detto hm seh!, poi non te
l’ho detto perché sono successe tutte quelle cose
con Felicity, e ora con i tuoi”, disse Leslie sedendosi sul
materasso.
“Già. Però potevi dirmelo lo
stesso”, disse Jess imitandola. “Da quanto state
assieme?”
“Non molto in realtà, ufficialmente da una
settimana. Ma usciamo assieme da tanto, lo sai.”
“Già”, ripeté Jess. Si
guardò un attimo attorno poi chiese speranzoso:
“Credi davvero che poi tua madre ci farà mangiare
il gelato?”
Leslie rise e disse: “Si, se glielo chiedi tu
poi…”
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire che i miei ti adorano follemente.”
“Sul serio?”, chiese Jess compiaciuto.
“Se ti può far piacere anche tu piaci a mia madre,
e anche a May Belle e Joyce Ann.”
“Si, questo mi fa piacere”, ammise Leslie.
“Mio padre… in realtà non
saprei”, aggiunse poi stringendosi nelle spalle.
“Oh non importa. Non si può piacere a
tutti.”
Quella sera la signora Burke cucinò le lasagne, e Jess le
mangiò come un pellegrino appena tornato dal deserto. Il
signor Burke non si fece nemmeno vedere, e la moglie gli
portò nello studio un piattone di lasagne e un bicchiere di
vino rosso, di lui Jess poté udire solo una voce che diceva:
“Ciao Jess!” Il ragazzo salutò
educatamente. Dopo aver aiutato sua madre a sparecchiare
Leslie trascinò Jess di sopra.
“A proposito dei tuoi!”, disse lui allora,
“loro sanno di Marc?”
“Si, gliel’ho detto.”
“E loro?”
“B’è… non potevano essere
più imbarazzanti”, disse Leslie facendo una faccia
disgustata.
“Perché?”, chiese Jess ridendo.
“Perché mi hanno detto che devo stare attenta a
dove quel ragazzo
mette le mani, poi che si fidano di me e di essere responsabile e alla
fine, non contenti di avermi fatta vergognare così tanto,
hanno detto anche capiscono che sia grande e abbia gli ormoni in
subbuglio, ma che non devo fare cose avventate. Non l’hanno
detto chiaramente, ma si capiva benissimo di che cosa parlavano. I tuoi
non ti hanno mai fatto di questi discorsi, vero?”
“Fortunatamente no”, disse Jess con un sorrisino.
“Credo che sia perché sono un maschio, o forse
credono che abbia ancora cinque anni. E poi saranno più
preoccupati per May Belle, ha già quasi quindici
anni.”
“Hm, giusto”, disse Leslie stringendosi nelle
spalle. “Ai genitori non dovrebbe mai venire in mente di fare
discorsi così espliciti con i figli! Tanto queste cose si
sanno, anche se non te lo dicono loro.”
“E’ vero. Curioso, no?”
Leslie sbuffò. “Andiamo a dormire va’.
Ce l’hai un pigiama?”
“Già non ce l’ho”,
borbottò Jess, ricordando com’era praticamente
fuggito di casa -solo per andare nella casa affianco-.
“Non preoccuparti, ti presto qualcosa di mio padre.”
Quando furono entrambi cambiati e lavati si sedettero sul letto a gambe
incrociate. “Perché un giorno di questi non mi fai
un ritratto? Anzi, facciamoci una foto assieme, e tu fai il ritratto
della foto”, disse Leslie con un sorriso. “Poi me
lo regali”, aggiunse gongolando.
“D’accordo, ma anche io mi meriterei qualcosa da
appendere alla parete, non trovi?”, chiese Jess.
“Si giusto, allora a te toccherà la foto. Ne
farò fare un ingrandimento”, disse Leslie.
“Sono d’accordo. Allora va bene, facciamo la
foto”, disse Jess.
“Aspetta, devo cercare prima la macchina fotografica. Non so
mai dove la metto.” Leslie si alzò diede una
veloce occhiata nella stanza, poi decretò che doveva averla
lasciata da qualche altra parte. “Mamma, sai
dov’è la macchina fotografica?”, chiese
spuntando il cucina, dove sua madre stava parlando al telefono.
“Ah… dovrebbe essere da qualche parte nella stanza
mia e di tuo padre. Va’ a controllare.”
Leslie si affrettò alla camera e, cercando un po’
in giro, trovò la macchina. Quando tornò da Jess
si sedettero sul letto, Leslie passò sopra la spalla di Jess
un braccio e lui fece lo stesso. Sorridendo, i due si scattarono una
foto.
Prima di guardarla Leslie disse: “Aspetta, questa
è l’unica foto che faremo. Anche se è
brutta e siamo venuti da schifo non la cambieremo per nessuna ragione
al mondo.”
“Perché?”
“Perché poi elaboreremmo delle stupide strategie
per venire come si deve.”
“E se uno di noi è venuto con gli occhi chiusi? Io
un po’ li ho chiusi, il flash era accecante.”
“Solo in quel caso.”
“D’accordo”, disse Jess.
“Vediamo.”
“Il momento della verità”,
decretò Leslie con tono drammatico. Schiacciò un
tasto e comparve la foto. Rimasero un secondo in silenzio.
“Forse… forse è perché non
possiamo cambiarla, ma a me sembra di avere la faccia… un
po’ allungata”, disse Jess dopo
un’attenta analisi.
“Può darsi. Non ho le orecchie a sventola,
vero?”, chiese poi Leslie guardando la foto e portandosi una
mano all’orecchio, come per controllare.
“No, perché?”, chiese Jess.
“Eh, qui sembra che le ho”, rispose lei indicando
la foto.
“Nah. Non farti i complessi”, disse Jess
strappandogli di mano la macchina fotografica, spegnandola e posandola
a terra. “Piuttosto. Che facciamo adesso?”
“Boh”, disse Leslie. “Lo sai,
l’altro giorno mi è venuta un’idea, e
oggi abbiamo anche incontrato Janis Averis e ci ho ripensato.”
“E cioè?”
“Perché non facciamo una specie di ritrovo della
nostra vecchia classe?”
Jess ci pensò su. “Non è strano?
Abbiamo creato Terabitiha proprio per colpa loro, e adesso li vogliamo
rivedere.”
“Allora dovremmo andare a dire loro grazie. Senza di loro non
sarebbe mai esistita nessuna Terabithia”, affermò
Leslie convinta.
“In un certo senso…”
“Comunque che ne dici?”
“Mah, non mi pare una cattiva idea. Certo, rivedere Scott e
Gary sarà strano. Credevo proprio di odiarli
prima.”
Leslie ci pensò un po’, poi disse, con
l’ombra di un sorriso sul volto. “Jess, ma ti rendi
conto di quanto tempo è passato da quando ci siamo
conosciuti?”
“Sette anni, fra un po’ quasi otto”,
disse Jess annuendo con un sorriso.
“Già”, disse Leslie pensosa.
“Tu te lo immaginavi, da quando ci siamo conosciuti, che otto
anni dopo saremmo stati ancora amici?”
“Non ci ho mai pensato in realtà”, disse
Jess. “Chissà dove saremo di qui a tre o quattro
anni”, si chiese poi, quasi più a sé
stesso che a Leslie.
“Boh. Sarebbe bello avere uno spaccato della nostra vita
futura, no?”, chiese poi lei.
“Sarebbe molto strano”, disse Jess ridendo. Fece
una pausa, poi: “Non ti manca un po’
Terabithia?”
“Che intendi dire?”
“B’è, non so, prima era diverso. Ci
divertivamo molto di più, era un posto davvero
speciale.”
“Non credo che ti divertiresti come prima se ci mettessimo di
nuovo a giocare con gli scoiagher
e i troll giganti”, osservò Leslie.
Jess sospirò. “Suppongo che tu abbia
ragione.”
“Ma non significa nulla, Terabithia è e resta un
posto speciale, basta che tu lo voglia. Se vuoi che una cosa sia
speciale lo diventa. Basta…”
“…tenere la mente bene aperta”,
completò Jess. Ormai per loro era diventata una frase
comune, una specie di mantra che si ripetevano ogni tanto. Ma per tutti
e due era diventato facile ormai.
Ogni cosa che pensavano poteva benissimo realizzarsi nella loro
fantasia, e allora riuscivano a vedere interi eserciti marciare gli uno
contro gli altri, curiosi esseri volare loro intorno, con ali
così sottili da poterci vedere attraverso, ma
così forti che potevano causare un uragano. Potevano vedere
i loro sogni diventare realtà, mentre scrivevano
tranquillamente qualche appunto sul quaderno a scuola. Quando si
annoiavano immaginavano che cosa succedeva realmente fuori dalla
finestra della loro classe, e così, giù nei
giardini scolastici, scorgevano figure ammantate che complottavano fra
di loro, e spavaldi giovani apparire all’improvviso a
combatterli. Quando c’era un temporale i loro occhi potevano
benissimo scorgere i personaggi nascosti nelle nuvole, gli orchi che
vivevano sopra di esse e che lanciavano i raggi elettrici verso terra.
E quando c’era il sole vedevano gli spiriti che, allegri e
sorridenti, danzavano attorno alla grossa stella calda, e ridevano e
saltavano, e si tenevano per mano, in un’allegria senza fine.
Si, loro potevano vedere tutto questo. La loro immaginazione correva
veloce, e sembrava che niente l’avrebbe mai fermata. Al
contrario di come accadeva alla maggior parte delle persone quando
crescevano. No, non si stava fermando. Stava solo impercettibilmente ma
inesorabilmente rallentando, e chissà se prima o poi si
sarebbe arresa, con tutta la realtà che stavano vivendo, che
li colpiva a tradimento alle spalle e gli mostrava il mondo per
ciò che era veramente.
Bene, eccovi un altro capitolo.
Con questo ho
introdotto, spiegato e concluso uno dei temi più importanti
della fic u_u Credo che l'immaginazione sia una delle
facoltà migliori dell'uomo, senza di quella esisterebbero
ben poche cose. E poi, tutti possono fantasticare su qualcosa, su quel
che vogliamo, in qualsiasi momento, luogo, situazione, è un
sistema fantastico per non annoiarsi! XD Solo, spero che non sia vero
che l'immaginazione sparisce man mano che avanza l'età.
Chissà, forse gli adulti non hanno più tempo per
fermarsi ad immaginare le cose, oppure sono davvero troppo impregnati
di realtà per riuscire ad immaginarne una diversa, migliore,
una che loro hanno sempre sognato...
Be', con la speranza
che nessuno di voi, cari lettori, perda questa facoltà tanto
utile e meravigliosa, vi auguro una buona domenica e al prossimo
capitolo,
Patrizia
|
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Capitolo 10 *** Una serata fuori ***
10.Una
serata fuori
“Pronto?”
“Leslie,
sono io.”
“Marc, ciao!
Come va?”
“Tutto bene.
Allora stasera esci?”
“Si certo.
Ci troviamo davanti alla libreria, ti va?”
“D’accordo.
A che ora?”
“Verso le
otto”, disse Leslie. “Va bene?”
“Si, si va
benissimo. A stasera allora, e ricorda di non cenare”, la
ammonì Marc.
“Va bene.
Ciao.”
“Ciao.”
Leslie
attaccò il telefono e guardò l’ora. Se
voleva essere lì alle otto doveva iniziare a prepararsi. Non
che lei fosse una di quelle ragazze che passava il tempo davanti allo
specchio a truccarsi e perdeva tempo con i capelli, ma decise di fare
una doccia, si vestì con più cura del solito e
poi mise in tasca cellulare -che i suoi le avevano comprato per
sicurezza quando aveva iniziato le superiori¬- e portafoglio.
“Mamma,
papà! Io esco con Marc, vi chiamo per dirvi a che ora
torno!”, disse prendendo le sue chiavi di casa, posate dentro
una curiosa scultura in legno a forma di mano.
“Devo
venirti a prendere?”, chiese il signor Burke apparendo
nell’ingresso.
“No, la
settimana scorsa Marc ha preso la patente. Adesso che è
estate i sui genitori gli prestano la macchina dato che loro non la
usano tanto”, disse Leslie.
“Ah,
d’accordo. Metti la cintura”, la ammonì
suo padre.
“Si
papà.”
“E stai
attenta. In macchina succedono cose… strane”,
borbottò.
“Papà!”,
esclamò Leslie imbarazzata.
“Che
c’è? Ormai sei grande, io ti do soltanto un
consiglio”, disse il signor Burke stringendosi nelle spalle.
“Hmmm”,
brontolò Leslie uscendo.
“Mi
raccomando a…! Uff.” L’uomo scosse la
testa e tornò dentro casa.
Sua figlia andava alle
superiori, usciva con i ragazzi, diventava sempre più
grande… e lui diventava sempre più vecchio.
Quando Leslie fu
davanti alla libreria non dovette aspettare molto. In pochi minuti Marc
fu lì, sorridente come al solito. Era un ragazzo alto, aveva
gli occhi color azzurro chiaro e i capelli rossicci, un fisico asciutto
non troppo muscoloso. Aveva una forte passione per la musica, era il
più grande esperto di musica che Leslie avesse mai
incontrato. A sette anni aveva iniziato a suonare la batteria, e adesso
faceva parte di un gruppo. S’impegnava davvero molto per quel
gruppo, fino a quel momento avevano fatto solo cover di canzoni
più o meno famose, ma pensavano presto di scrivere delle
canzoni tutte loro. Quando parlava di musica Marc si emozionava
tantissimo, conosceva moltissimi gruppi a Leslie sconosciuti e le
masterizzava un sacco di dischi per, come diceva lui, ‘insegnarti qualcosa sulla musica
che conta’. Quando si parlava di musica non era
più così timido come appariva di solito.
Con un po’
di tempo Leslie aveva imparato a conoscerlo, ed aveva capito che in
realtà era una persona solare e simpaticissima. Ma si apriva
solo se conosceva qualcuno molto bene e la reputava una persona di cui
potersi fidare.
“Allora dove
andiamo?”, chiese Leslie una volta assieme.
“Non saprei.
So solo che mi andava di mangiare fuori. Ti va un cinese?”,
chiese Marc prendendola per mano.
“D’accordo.
Però non ho idea di dove trovare un ristorante
cinese”, disse Leslie.
“Nemmeno io.
Possiamo chiedere a qualcuno, oppure andare e basta.
Cerchiamo”, propose Marc mettendosi in cammino.
“Okay.
Andiamo… di là!”, esclamò
Leslie una volta giunti all’incrocio indicando la sua
sinistra.
“Perché
proprio di là?”
“Non lo so,
mi ispira di là”, disse Leslie.
“E se
sbagli? Dovrei darti un calcetto.”
“Non
oseresti.”
“Perché?
Perché sei una ragazza? Vuoi vedere?” Marc mosse
solo un poco la gamba all’indietro e le colpì
piano una coscia.
“Ecco, vedi?
Ma non ti vergogni a tirare un calcio ad una ragazza?”,
chiese Leslie divertita.
“Lo chiami
calcio quello?”
“Infatti,
ecco: non ti vergogni a tirare un calcio così moscio ad una
ragazza? Lo fai solo perché credi che non sappiano
difendersi, se facessi karate scommetto che ti batterei in un
secondo.”
“Certo come
no”, rispose Marc.
“Aspetta e
vedrai”, chiese Leslie ridendo.
Trovarono un
ristorante dopo appena venti minuti di pellegrinaggio, si chiamava Hong Kong Restaurant.
La cameriera consegnò loro gli eleganti menù ed
iniziarono ad esplorarli.
“Secondo te
che il pollo all’ananas è buono?”,
chiese Marc con gli occhi ancora dietro il libretto.
“Veramente
non ne ho idea. Provalo, alla fine è sempre pollo,
no?”, rispose Leslie girando le pagine.
“Tu cosa
prendi?”
“Credo…
gli involtini primavera e il riso ai funghi
bambù”, disse Leslie.
“Okay. Ho
deciso anch’io”, annunciò fieramente
Marc.
Era tutto buonissimo,
anche il pollo all’ananas. Quando fu il momento di pagare
Marc andò alla cassa e, prima che Leslie potesse anche solo
dire qualcosa, tirò fuori un biglietto da cinquanta dollari
e pagò tutto quanto. Assieme allo scontrino e al resto la
signora del ristorante diede loro due piccoli portachiavi a forma di
pagoda, e disse loro: “Passate una buona selata.”
“Grazie”,
disse Marc con un sorriso gentile sul volto.
“Grazie”,
ripeté Leslie uscendo.
Una volta fuori, in
mezzo alle luci del centro città e travolti
dall’aria fresca della sera, Marc disse con tono solenne,
osservando la strada: “Allora è vero.”
“Che
cosa?”
“Che i
cinesi non pronunciano la erre.”
“Scemo”,
disse Leslie ridendo. “Dove andiamo adesso?”
“Non lo so.
Che ore sono?”
“Sono
le…”, Leslie tirò fuori il cellulare,
“dieci e mezza”.
“Abbiamo
fatto tardi. Che facciamo? Vuoi che ti riporti a casa?”
“No, meglio
di no. Devo camminare un po’ per smaltire tutto quello che ho
mangiato, altrimenti scoppio.”
“D’accordo,
allora andiamo, facciamo un giro e vediamo cosa
c’è in città”, disse Marc. La
prese per mano e s’incamminarono. Mentre passavano in una via
affollata di gente e negozi, con ragazzi e ragazze, famiglie e bambini
che mangiavano il gelato, videro un grande cartello rosso, con il
disegno di una pagliaccio e di una contorsionista, che annunciava che
il circo sarebbe arrivato in città alla fine
dell’estate. “Andiamo a vederlo quando
arriva?”, chiese Leslie indicando il cartellone.
“Si,
perché no? Ci basta solo sapere dove dobbiamo comprare i
biglietti”, disse Marc.
“C’è
scritto il nome di un bar”, osservò Leslie.
“Welcome to
the Jungle.”
“Ah, come la
canzone dei Guns’n’Roses”,
disse Marc.
“Andiamo a
comprarli?”
“Non ho
più soldi”, disse Marc con un smorfia.
“Ce li ho
io. E poi tu mi hai offerto la cena. Io ti offro il circo. Anche se
arriverà di qui a due mesi.”
Andarono al Welcome to
the Jungle, un locale dove suonavano live gruppi di ragazzi,
prevalentemente rock, ma anche jazz e blues. Proprio mentre erano
lì c’era un piccolo concerto, così,
quando Leslie si avvicinò al bancone, dovette urlare per
farsi sentire dal proprietario.
“Mi
scusi!”, gridò all’indirizzo del barista.
“Si?”,
chiese quello avvicinandosi con uno straccio in mano.
“Qui vendete
i biglietti per il circo?” L’uomo fece segno di
sì con la testa, poi uscì da dietro il bancone e
disse a Leslie e Marc di seguirlo, il ragazzo lo fece quasi a
malincuore, osservando la band che si esibiva sul piccolo palco.
Andarono in una saletta meno rumorosa e, dopo essere entrato in uno
stanzino, l’uomo uscì con un pacco di biglietti in
mano.
“Due per
favore”, disse Leslie trafficando con il portafoglio.
“Sono venti
dollari”, disse l’uomo staccando due biglietti.
Leslie pagò
e ringraziò. Poi, per curiosità chiese:
“Come mai lei vende biglietti per il circo?”
“Perché
ci lavora mio fratello”, disse l’uomo lisciandosi i
grossi baffi lunghi.
“Davvero? E
che cosa fa?”, chiese Leslie estasiata.
“E’
un clown equilibrista. Si fa chiamare Mr. Squitter”, rispose
l’uomo con un sorriso in volto. “Ha fatto la scuola
per clown, e ha incontrato sua moglie, Sonia. Adesso lavorano insieme,
lei è la sua compagna negli show.”
“Davvero?
Che bello!”, esclamò Leslie sognante. Sembrava un
bellissimo romanzo d’amore.
S’incamminarono
verso l’uscita e quando Leslie stava per andarsene,
notò che Marc si era fermato a chiedere qualcosa al signore,
indicando la band che suonava sul basso palco. Poi tornò
verso Leslie soddisfatto.
“Perché
sei così contento?”, chiese lei sospettosa, mentre
un sorriso le si allungava sul volto. Era felice che Marc fosse
contento.
“Niente,
così.” Fece un attimo di pausa, per non far capire
che voleva assolutamente dirle che cosa era successo, poi non
resistette, e disse: “Ho chiesto al tipo come si fa per
suonare lì.”
“E che ha
detto?”
“Ha detto
che basta che prenotiamo e che gli diamo un logo o un volantino da
mettere sul sito del locale, e poi possiamo suonare”, rispose
subito Marc eccitato. “Quando lo dirò agli altri
di sicuro svengono, non abbiamo mai fatto un live. Suoniamo assieme
solo da qualche mese.”
“Wow,
sarebbe bellissimo se suonaste live, sai quante band sono state
scoperte in questo modo?”
“Già,
ma prima dovremmo inventare almeno un paio di canzoni nostre, sarebbe
bello suonarle davanti al pubblico. Tu non sei mai venuta alle prove,
vero?”
“No ma ti ho
sentito suonare.”
“Non ti va
di venire? Non conosci nemmeno tutta la band.”
“Ma so tutto
su di voi! Magari vuole venire anche Jess. Sai, gli ho passato alcuni
cd, e avete gli stessi identici gusti.”
“Ah
si?”, chiese Marc cingendo le spalle di Leslie.
“Già,
gli piacciono tutti i gruppi underground che ascolti tu.”
“Wow, non lo
sapevo”, disse Marc. Si chinò diede un bacio sulle
labbra a Leslie. “La prossima volta che suoniamo ti
avviso.”
Leslie sorrise fra
sé e sé e si strinse a lui.
“A che ora
scusa?”, chiese Jess per la centesima volta.
“Alle
cinque. Jess, ma che hai? Stai bene?”
Jess sbuffò
e disse: “Per niente. E’ da nemmeno due settimane
che non prendo lezioni e sto quasi cadendo in depressione!”,
esclamò il ragazzo sconfortato.
“Ma tutte le
cose che hai a casa? Hai tutti i tuoi colori, i
pennelli…”, disse Leslie.
“Sono a
casa, infatti, ma non ho nemmeno il coraggio di tirarli
fuori”, bofonchiò Jess. “Credo che se
mio padre mi vedesse prendere ancora in mano una matita sarà
la volta buona che mi dà un calcio.”
“Oh.”
“Hm.”
“Jess…”,
disse Leslie seria, mettendogli una mano sulla spalla,
“abbiamo promesso di non mollare mai, ti ricordi?”
“Si,
ma… è diverso. I miei non vogliono, i tuoi invece
sono scrittori”, disse Jess lanciando rabbiosamente a terra
una briciola di pane. Un uccellino che stava lì vicino
andò a posarsi a terra e la mangiò.
“Abbiamo
promesso Jess! E poi, tu di sicuro lo sai meglio di me, quanti artisti
ci sono i cui genitori non approvavano il loro lavoro? Devi fargli
capire che è quello che vuoi fare, è che
è l’unica cosa che puoi fare.”
Jess restò
pensoso per un po’. In effetti, forse se avesse insistito
ancora e ancora, i suoi si sarebbero rassegnati.
“Hm… d’accordo. Ma non credo che
funzionerà.”
“L’importante
è provare”, disse Leslie convinta.
“Già.
Allora andremo alle prove del gruppo di Marc? Come si
chiamano?”
“Your venom.”
“Non
è un po’ troppo… ragazzini adolescenti
ancora in fase puberale, per lo stile di Marc?”, chiese Jess.
“L’importante
è che piaccia a loro. E poi ci sono un sacco di gruppi con
nomi davvero ridicoli, e questo non è il peggiore che io
abbia sentito”, disse Leslie con tono diplomatico.
“Hai
ragione. Credo che andrò a chiedere a mio padre se posso
andare a seguire lezioni da Felicity, forse se glielo chiedo in modo
gentile, e gli prometto che non spenderò soldi e che
continuerò a studiare sodo, lui mi dirà di
si.”
“E se dice
di no?”
“Mica
può impedirmi di uscire. Ci vado lo stesso”, disse
Jess scrollando le spalle.
“D’accordo.
Non farli arrabbiare però. Allora ci vediamo
domani”, disse Leslie alzandosi e cominciando a scendere
dalla casa sull’albero.
“D’accordo,
ti porto io. In macchina.” Jess fece una faccia soddisfatta.
“Pure io
farò la patente fra un po’. Magari mi iscrivo a
scuola guida prima, così faccio la pratica subito appena
dopo il compleanno.”
“Ti posso
insegnare io quando vuoi. Basta che me lo chiedi. E poi da queste parti
c’è un sacco di spazio libero”, disse
Jess.
“D’accordo
grazie. Allora ci vediamo domani.”
Il giorno dopo Leslie
e Jess andarono in macchina fino ad un edifico dove si trovava una sala
prove molto bella, attrezzata e con diversi ragazzi a gestirla.
Trovarono lì Marc e altri ragazzi ad aspettare.
“Scusate il
ritardo, c’era traffico”, disse Jess scendendo.
“Niente
figurati, tanto stiamo ancora aspettandone uno”, disse Marc
indicando vagamente il parcheggio e controllando se per puro caso non
arrivava il ritardatario. “Allora loro sono Leslie e Jess. E
loro sono James”, un ragazzo dai capelli lunghi che suonava
la chitarra ritmica, “e Nicolas”, un tipo basso e
tarchiato che era la prima chitarra, “e manca solo la
bassista, che sarebbe… eccola. Lei è
Wanda.”
Leslie e Jess si
voltarono e videro una ragazza che veniva verso di loro a passo svelto.
Aveva capelli di un biondo slavato legati alla meno peggio, e portava
pantaloni molto larghi e una maglietta a dir poco aderente.
“Scusate, ciao”, disse poi rivolta ai nuovi
arrivati.
“Andiamo?”,
chiese James.
Dopo aver registrato
la loro presenza e pagato per un’ora di sala prova, li
indirizzarono dentro ad una saletta insonorizzata e i ragazzi si misero
subito a controllare gli strumenti e a parlare fra di loro di in un
linguaggio tecnico che né Leslie né Jess
riuscivano a comprendere. Si sedettero per terra, in un
angolino, e rimasero a guardare, scambiandosi ogni tanto qualche
occhiata e qualche parere sulla musica. Suonarono per circa
un’ora e venti, sforando di non poco l’orario
concesso. Non erano male, anche se a volte qualcuno andava troppo
veloce, o troppo lento, o magari sbagliava qualcosa. Ma nel complesso
non erano per niente male, Jess credeva gli mancasse solo un
po’ d’esperienza. Quando uscirono dalla sala prove
sia Jess che Leslie avevano le orecchie che quasi fischiavano, mentre
gli altri ormai sembravano abituati a quei volumi spaccatimpani.
“Ho trovato
un locale dove potremmo esibirci”, disse ad un tratto Marc
mentre si avviavano alle rispettive macchine, o biciclette.
“Ah
già, mi avevi detto qualcosa per telefono”, disse
Wanda.
“Si. Si
chiama Welcome to the
Jungle, ed è in una via minuscola, un
po’ imboscata. Il proprietario ha detto che dobbiamo solo
prenotare e fare un logo per la band, o qualcosa del genere.”
“Un
logo?”, chiese Nicolas. “E come facciamo? Il
massimo che so fare io è un omino stilizzato.”
Dopo un attimo di
esitazione Marc chiese: “Jess, senti… non
è che potresti…?”
“Io?”,
chiese Jess stupito.
“Perché
no? Disegni benissimo.”
“Oh, grazie.
Ma sul serio vuoi che disegni un logo per voi?”
“Si, si. Il
nostro nome è Your
Venom. Ci hai sentiti suonare, quindi, non so vedi un
po’ tu.”
“Hm,
d’accordo. Allora ti chiamo per quando…
sarà pronto.”
“Perfetto!”,
esclamò Marc.
Quando se ne andarono
in macchina, Jess cercò di non darlo a vedere, ma era
contentissimo di aver ricevuto una commissione. E non poté
impedire che un sorriso a trentadue denti gli si dipingesse in faccia
per tutto il viaggio.
Ed ecco qui un nuovo
capitolo! ^^
Bene bene... hmmm, una
piccola precisazione: spero che nessuno si sia offeso a morte per
quella battuta sui cinesi, ma ho sentito qualcuno dirla per davvero, mi
sono ricordata e, insomma, volevo scriverla (se qualcuno la ritiene
particolarmente offensiva può contattarmi e io la
eliminerò).
Detto questo -dovere- posso darvi un piccolo spoiler del prossimo
capitolo: come promesso un'altro compleanno per Leslie! XD Non
c'è niente da fare dev'essere stata una ribellione del mio
subconscio per non aver avuto nella storia vera un compleanno per
Leslie! XD Ripeto, per la centesima volta forse -ormai chi legge si
è stufato- che se volete degli spoiler sono solita postarli
sul mio blog il giorno dopo aver aggiornato.
Al prossimo capitolo a
tutti,
Patrizia
|
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Capitolo 11 *** Festa a sorpresa ***
11.Festa a sorpresa
Un serpente che si contorceva e sibilava
contro la persona che guardava.
Una scritta che diceva Your
Venom.
Un simbolo che riuniva la lettere ‘Y’ e la
‘V’.
“Allora, che ne dite?”, chiese Jess nervoso
mostrado i quattro disegni.
Marc e Wanda ci pensarono un attimo. “A me piace il
serpente”, disse lei.
“A me piace di più il simbolo con le due
lettere.”
“Forse… forse si potrebbero unire le due
cose”, tentò Jess. “Forse potremmo
provare a fare un serpente che forma un cerchio e sibila, e dentro al
cerchio il simbolo.”
“Si, si! Mi pare buono”, disse Marc.
“Anche a me. E i colori?”
“Veramente pensavo a qualcosa in bianco e nero”,
disse Marc.
“Ma il serpente sarebbe più bello verde, nero
sembrerebbe una… un’anguilla”,
osservò Wanda.
“Potremmo limitarci a due o tre colori”, intervenne
Jess, tentando di convincerli a tenere le sue idee per buone.
“Ad esempio, lo sfondo potrebbe essere nero, il serpente
verde e lasciare la scritta bianca. Anche se bianco e verde non mi
convincono.”
“E se facessimo il serpente rosso, lo sfondo nero e la
scritta bianca?”
“E’ che il bianco sta un po’
male.”
“Potremmo provare a fare una specie di sagoma del serpente, e
farla nera, così come la scritta. E poi lo sfondo bianco. Se
lo volete a colori potremmo fare il nero ed un colore, forse
è meglio il verde e il nero, siccome è un
serpente”, disse Jess.
“Okay”, osservarono Marc e Wanda
all’unisono.
Erano passati solo quattro giorni, ma già Jess aveva in
mente un sacco di idee e chiedeva il parere dei membri della band. Nel
frattempo si avvicinava il diciassettesimo compleanno di Leslie, e
aveva in mente un regalo anche migliore di quello dell’anno
precedente.
Un giorno in cui era sicura che Leslie non ci fosse si fece dare dalla
signora Burke la foto che avevano fatto assieme quella sera. Ne aveva
fatto una stampa e si accingeva a copiarla. Purtroppo mancavano ancora
pochi giorni al compleanno, e Jess proprio non riusciva a disegnare.
Avrebbe tanto voluto avere i consiglio di Felicity, le sue critiche
eleganti e distruttive, ma molto preziose nella loro dissacrante
verità.
Era in camera sua, tentava di disegnare quella maledetta foto ancora
per una volta ma tutto andava storito, la forma, il colore, la
sfumatura, l’ombra, la luce. Jess non sentì
nemmeno quando suo padre entrò nella stanza. Jess era
voltato di spalle alla porta e aveva le cuffie nelle orecchie, stava
seduto alla scrivania e teneva il foglio su un ripiano rigido, un
semplice pezzo di compensato di legno,
un’estremità poggiata alla scrivania,
l’altra sulle sue ginocchia. Inconsapevole di essere
osservato, con un gesto di stizza gettò i colori
sul letto, issò il disegno sulla scrivania e andò
alla finestra. Solo allora vide il riflesso di suo padre che lo
guardava. Si voltò, ma l’uomo non disse nulla.
Invece andò verso il disegno di Jess e scosse la testa, dopo
averlo guardato per un lungo minuto. Fu allora che Jess
s’infuriò come non gli era mai capitato prima in
vita sua. La rabbia cresceva dentro di lui come un virus, gli mangiava
la ragione dall’interno e ben presto lo avrebbe sopraffatto,
prendendo il posto della sua parte razione a domandando a suo padre se
provava il disprezzo che palesava con così
facilitò verso i suoi dipinti, anche verso di lui. Ma non
voleva arrabbiarsi con suo padre. Sapeva che lui era fatto
così, che aveva un carattere rude ma un animo buono, e
sapeva che voleva solo il suo bene. Forse però non
considerava che il suo bene non equivaleva alla sua felicità.
Jess andò verso il letto. Mise a posto i colori, prese la
foto e un paio di fogli arrotolati. Si schiarì le gola e
superò suo padre senza guardarlo negli occhi, dicendo:
“Devo andare.”
Pochi minuti dopo era a casa di Felicity, la bicicletta era buttata da
un lato e lui aveva il fiato corto per la corso forsennata che aveva
fatto. Quando la signora aprì la porta la prima
cosa che disse fu: “Buon Dio Jess! Hai idea di che ore
sono?”
“Si sono le… sette e dieci. Mi serve il tuo
aiuto”, rispose il ragazzo con sorriso.
Leslie entrò in casa, senza alcun presentimento di quel che
stava per accadere.
Quella mattina i suoi genitori l’avevano svegliata presto per
darle i suoi regali di compleanno, poi l’avevano portata in
giro tutto il giorno: erano andati ad una mostra, al centro
commerciale, erano entrati in una grossa libreria del centro dove le
avevano comprato un altro regalo, erano stati a mangiare al ristorante
e un sacco di altre cose. Quando tornarono a casa erano quasi le sei di
sera.
Leslie entrò per prima, e quando accese la luce un boato la
travolse. “Auguri!”
Quando Leslie guardò meglio vide una decina di persone.
Avevano arredato la stanza dorata con un lungo tavolo pieno di cose da
bere e da mangiare che avevano addossato alla parete, qualcuno aveva
portato uno stereo e lì vicino c’erano un sacco di
cd. Su un tavolino, che Leslie riconobbe come quello che una volta
stava nello studio, c’erano un sacco di regali, tutti
ammucchiati uno sopra l’altro.
L’unica cosa che Leslie riuscì a dire fu:
“Wow!” E tutti scoppiarono a ridere.
C’erano tutti i membri della band di Marc, ovviamente
c’era Marc, poi Jess assieme a May Belle, gli inaspettati
Janis Averis e Scott Hogart (che era diventato alto e dinoccolato, e
anche parecchio brufoloso) e, sorpresa delle sorprese, giunta da molto
lontano solo per il suo compleanno, Rosemary, che, con il suo solito
fare timido ed elegante, la attendeva con le mani giunte sul grembo,
con un sorriso eccitato che a malapena riusciva a nascondere.
“Mary!”, esclamò Leslie correndole
incontro. Le due si abbracciarono strette e Rosemary quasi stava per
piangere.
“Tanti auguri Leslie!”, esclamò troppo
vicino al suo orecchio.
“Grazie” Leslie si staccò da Mary e si
rivolse agli altri: “Grazie mille! E’ un regalo
fantastico! Scott, come stai?”, aggiunse alla fine
dirigendosi verso il ragazzo per abbracciarlo.
Scott Hogart la salutò con un largo sorriso e disse:
“Dovresti ringraziare Jess, è lui che ha avuto
l’idea.” Ormai nessuno se la prendeva
più con Scott Hogart, le loro
‘divergenze’ si erano appianate lentamente quando
erano cresciuti.
“Jess! Jess?” Leslie si guardò attorno,
ma non vide nessuno finché tutti si voltarono verso la
porta, dove c’era Jess, che reggeva una grossa torta al
cioccolato e meringa con diciassette candeline accese.
“Auguri”, disse a Leslie posando la torta al centro
del tavolo.
“Ma è bellissimo!”
I genitori di Leslie si dileguarono con molta discrezione, e la festa
iniziò. I regali erano tutti molto belli, e dopo averli
scartati la carta da regalo abbondava in tal misura che Jess e Scott
fecero una pallone con la carta e cominciarono a lanciarselo addosso,
alla fine divenne una specie di guerra tutti contro tutti. Wanda, la
bassista di Marc, tirò fuori dalla borsa una bottiglia di
whisky e disse: “Questo è un regalo in
più, ma lo dovrai dividere con tutti noi”, disse
ghignando.
Presero dei piccoli bicchierini e in poco tempo la bottiglia terminata.
Come, non lo sapevano neanche loro. “Adesso, siccome abbiamo
una bottiglia vuota dovremmo fare il gioco della bottiglia”,
disse May Belle portando la bottiglia di whisky al centro della
stanza. Era l’unica completamente lucida dato che
Jess non le aveva permesso di bere neanche un goccio, facendo la
guardia come se ci fosse stato il proibizionismo, ma May Belle non
poté fare a meno di rimproverarlo davanti a tutti, dato che
lui si era scolato due bicchierini pieni fino all’orlo!
“Tu non ci giochi al gioco della bottiglia, capito?!",
esclamò Jess fra l’ilarità generale,
lanciando un’occhiataccia a Scott e ai due membri della band
di Marc.
“Sta zitto tu”, lo rimbeccò May Belle
camminando con eleganza. In realtà erano tutti soltanto
brilli, altamente divertiti, anche perché la maggior parte
dei bicchieri erano stati abbandonati dopo un po’ e ve
n’erano diversi sul tavolo ancora mezzi pieni.
“Comincia Leslie”, disse May Belle una volta che
furono tutti seduti, passando alla festeggiata la bottiglia.
“D’accordo. Ma sono una donna fidanzata,
ricordatevelo! Chiaro?”, disse lei girando la bottiglia. E
ovviamente, venne fuori Jess. “Appunto”,
commentò Leslie.
“E se poi Marc mi picchia?”, chiese Jess.
Marc ridacchiò e disse: “Non ti picchio,
tranquillo. Però ci vediamo qui quando nessuno
guarda.”
“No, allora, facciamo così: la prima volta sulla
guancia, se capita ancora con la stessa persona allora
bacio”, disse Mary.
“Ma perché invece non facciamo un
bell’obbligo o verità?”, chiese Scott.
“Mi pare giusto!”, esclamò Jess.
“Chiedimi quello che vuoi”, disse poi rivolto a
Leslie.
“Hm, d’accordo… allora, hai mai guardato
un film… a luci rosse?”, chiese con tono solenne e
sguardo divertito.
“Cosa?! Che domanda è?”, chiese Jess.
“E dai, devi rispondere adesso”, disse Leslie.
“Uff, vabbé, tanto è no”,
disse Jess.
“Certo come no!”, disse Wanda, scatenando
un’orda di risate.
“Ora tocca a me”, disse Jess infastidito quando le
risate si furono spente. Prese la bottiglia, la girò, e
quella capitò su: “May Belle! So esattamente che
cosa chiederti.”
“No, aspetta! Io voglio obbligo, non
verità!”, esclamò lei.
“Va bene, allora ti obbligo a dirmi se
c’è qualcuno che ti piace”, disse Jess.
“Eh? No, questo è barare!”,
obbiettò May Belle.
“Rispondi”, la intimò il fratello con
sguardo omicida, puntandogli addosso una patatina.
May Belle fece un sorrisino e disse: “E va bene.
Si.”
“Come si?
Devi dirmi chi è!”
“No, tu mi hai chiesto solo se c’è
qualcuno che mi piace, non di dirti chi è”, disse
May Belle incrociando le braccia.
“Ah!”, esclamò Leslie. “Ti ha
fregato alla grande!”
Rimasero alzati fino a mezzanotte, poi pian piano tutti se ne andarono.
Rimasero solo Leslie, Marc, Jess e Mary.
“Ti aiutiamo a mettere a posto”, disse Jess
guardandosi attorno.
“D’accordo grazie”, disse Leslie.
“Però possiamo anche fare domani. Adesso
è tardi.”
“Ah… va bene”, disse Jess alzando le
spalle. “Allora torno domattina presto. Noi
andiamo.”
“Okay. Grazie mille è stata una festa
magnifica”, disse Leslie sorridendo e abbracciando sia lui
che Mary.
“Ciao Leslie, magari ci sentiamo”, disse Mary.
“Si, grazie per essere venuta.”
Quando furono usciti rimasero solo Leslie e Marc. “Che
facciamo adesso? Dove sono i miei genitori?”, chiese lei
dando uno sguardo distratto al salotto, dove sembrava fosse esplosa una
bomba.
“Non lo so. Sono usciti verso le dieci. Magari sono andati a
fare un giro”, disse Marc.
Leslie telefonò, e scoprì che i suoi genitori
erano andati a cena fuori, avevano incontrato un paio di amici e
sarebbero tornati entro un’oretta.
“Andiamo di sopra, dai”, disse Leslie. Andarono in
camera sua e si sdraiarono sul letto uno accanto all’altro.
“E’ stato bello quello che avete
organizzato”, disse poi. Si volse e diede un bacio a Marc
sull’angolo delle labbra.
“La maggior parte del merito va a Jess se dobbiamo essere
sinceri, e anche ai tuoi genitori che hanno collaborato”,
disse Marc voltando il viso verso di lei e sorridendo soddisfatto.
“Sei bellissima stasera”, disse, accarezzandole una
guancia.
Leslie sorrise e lo baciò. Pian piano il bacio divenne
sempre più intraprendente e caldo. Marc strinse Leslie a
sé, sentiva che le sue mani erano perfette lungo il suo
corpo longilineo. Ebbe un sussulto quando la ragazza le
infilò una mano sotto la maglietta.
“Hem… L-leslie”, balbettò.
“C’è qualcosa che non va?”,
chiese lei.
“No”, disse Marc sorridendo. “Volevo solo
dirti che ti amo”, e la baciò, ancora e ancora.
Per tutta la notte.
“Per quanto tempo pensi di restare?”, chiese Jess
con tono che sperava fosse noncurante.
Mary sorrise leggermente e disse: “Domani mio padre
verrà a prendermi.”
“Ah.” Rimasero un po’ in silenzio,
camminando automaticamente verso Terabithia. Quando ebbero passato il
ponte si avviarono alla casa sull’albero, vi salirono e si
sedettero con la schiena contro il muro.
“Forse potresti tornare per le vacanze”,
buttò lì Jess.
“N-non credo”, disse Mary evitando il suo sguardo.
“Scusa Jess, è che non voglio potervi vedere solo
durante le vacanze. Poter vedere te.”
“Capito”, disse Jess. Rimasero in silenzio per un
tempo indefinito. Improvvisamente, spinto da una forza più
grande di lui, il ragazzo si sporse e baciò Mary sulle
labbra, con rabbia, con forza e con passione, tutte mescolate
all’interno di quell’unico bacio. Poi
scappò, lasciando la ragazza confusa e triste.
Bene bene bene...
Avete visto un ritorno
di fiamma di Rosemary
ma, don't worry (per coloro che la detestano) era solo una comparsa! XD
Poi, Leslie è super-innamorata, e anche Marc, ma vi dico una
cosa: non aggrappatevi troppo al suo personaggio, perchè fra
poco-pochissimo accadrà qualcosa di mooolto grosso u_u
Poi... direi che ho
finito qui. Fra poco la fan fic finirà, al capitolo
quattordici, e... be', ringrazio chi segue (anche se un
commentino piccino piccino farebbe piacere, comunque vabbè).
Al prossimo capitolo,
Patrizia
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Capitolo 12 *** Colazione in camera ***
12.Colazione in camera
Si avvicinava l’ultimo anno di
scuola. L’anno dopo il quale avrebbero dovuto scegliere
l’università alla quale iscriversi. Sembrava per
tutti una scelta così complicata, dappertutto gli studenti
si angosciavano fra ciò che volevano fare, quello che
volevano i loro genitori e ciò che avrebbero realmente avuto
la capacità di fare. Tutti si arrabattavano su
facoltà e test d’ingresso, maledicendo
l’inventore di un esame tanto inutile quanto ingrato. Tutti
parevano indecisi, tutti... tranne Leslie e Jess. Loro erano
già sicuri di dove sarebbero andati, e sapevano anche che lo
avrebbero fatto ad ogni costo. Ma per andarci avrebbero dovuto prima
passare l’ultimo anno, e soprattutto gli esami di fine corso.
Rientrare a scuola per quello che sapevano essere l’ultimo
anno fu strano. Era come se avessero guadagnato qualcosa, la fine dei
lunghi anni passati a studiare duramente, un traguardo che sembrava
così lontano e così fosco al primo anno e che era
arrivato all’improvviso come a sorpresa. Ma sapevano anche
che stavano perdendo qualcosa, o meglio, che l’avrebbero
perso. I compagni e i professori, prima di tutto, ma anche una certa
protezione, un certo braccio che li difendeva dalla realtà e
li metteva da parte, tenendoli al sicuro nella scuola in cui agli
studenti veniva ancora detto che cosa dovevano fare, ma anche se a
volte si lamentavano di sentirsi dare ordini, almeno non erano dispersi
e lasciati a vagabondare soli. Si avvicinava la vita vera, nella quale
nessuno li avrebbe più guidati. Era la fine di una fase
della loro vita. Come avrebbero fatto poi? Cosa sarebbe successo?
Nessuno dei due lo sapeva, ma sapevano che cosa volevano, sapevano come
ottenerlo, e diavolo!,
ci avrebbero messo l’anima pur di riuscirci. Se ci sarebbero
riusciti, però, restava ancora un interrogativo.
“Ma perché non te lo radi quel
pizzetto?”, chiese Leslie.
“A me piace”, protestò Jess esibendo
fieramente quel poco di barba che gli cresceva sul mento.
“Piuttosto, dov’è Marc?”
“Non lo so, magari ha fatto tardi in classe.”
“Vabbè io mangio, ho fame”, disse Jess,
infilzando una delle strane patate della mensa. Fece in tempo a finire
le patate e mangiare un po’ della mela che aveva preso,
quando arrivò Marc.
“Eccomi, scusate per il ritardo”, disse sedendosi
affianco a Leslie.
“Non mangi?”
“Non ho fame.”
“E io che ti avevo pure aspettato”, disse Leslie
facendo una smorfia. Prese a mangiare con foga. “Oggi devo
studiare per il compito di algebra, mi aiuti?”, chiese a Jess.
“Si, tanto devo studiare anch’io, non ho ancora
guardato niente di niente”, disse lui.
“A che punto siete voi con il programma?”, chiese
Leslie a Marc. Lui non rispose, sembrava pensare ad altro.
“Marc? Ci sei?”
“Eh? Si, scusa.”
“Dove siete col programma di algebra?”,
ripeté.
“Ah, le funzioni”, borbottò lui.
“Hm… perché noi siamo sempre
più avanti degli altri? Perché non andiamo con
calma?”, chiese Jess. “Potremmo fare tutto meglio
con un po’ più di tempo.”
“Va’ a dirlo al prof”, disse Leslie. Jess
finì di mangiare e si alzò subito per andare in
classe a parlare con la professoressa di storia dell’arte a
proposito di una cosa che gli aveva accennato Felicity, e che poi lui
era andato a studiare con dovizia su un libro della biblioteca della
scuola.
Leslie guardò Marc di sottecchi e disse: “Ti va se
sabato usciamo?”
“Non lo so se posso mi dispiace”, disse Marc con un
sorriso dispiaciuto.
“Perché?”
“Devo andare da James. Vogliamo scrivere un’altra
canzone per la serata live.”
“Ah. Quand’è?”, chiese Leslie
piluccando le polpette di pollo.
“Il diciassette di Novembre”, disse Marc. Prese il
cellulare e lesse un messaggio.
“B’è… io vado okay?
Ciao.” Le diede un bacio sulla fronte e se ne andò
dalla mensa piuttosto frettolosamente. Leslie sbuffò,
gettò tutto il contenuto del piatto di plastica nel cestino
e andò in corridoio. Lì trovò Jess, si
trascinò verso di lui e si sedette a terra, accanto alla
porta della classe, poggiando la schiena sulla parete.
“Hey che c’è?”, chiese Jess
sedendosi al suo fianco.
“E’ Marc, è tutta colpa sua”,
mugugnò Leslie ad occhi chiusi appoggiando il mento alle
mani.
“Perché?”
“Perché è stupido.”
“Che cos’ha fatto?”
“E’ già una settimana che non ci vediamo
quasi per niente, nemmeno a scuola. Sono la sua ragazza, dovrebbe stare
con me almeno durante la pausa pranzo. Lo so che adesso è
preso con il suo gruppo, e che fra un po’ dovranno suonare
live in quel locale, però…”,
lasciò la frase in sospeso. Temeva di sembrare possessiva,
forse Jess le avrebbe detto che era una psicopatica rompipalle.
“Capito.”
“Tutto qui?”
“Che cosa vuoi che ti dica?”
“Mah, niente. Non lo so. Dimmi: Marc è stupido o
solo scemo?”
“E’ solo scemo.”
“E credi che sia idiota?”
“Un pochino”, disse Jess per
solidarietà. “Dai, non ti preoccupare, presto
tornerà tutto come prima. Probabilmente è solo un
po’ troppo preso per questa cosa del gruppo, è
importante per lui no?”
“Si, è vero”, disse Leslie quasi
controvoglia. “Va bene. Ma mi ha dato buca per sabato, ti va
se vengo a casa tua?”
“Certo”, disse Jess. “E’ da un
sacco che non vieni, mia madre comincia a sentire la tua
mancanza.”
“I pop corn sono pronti!”, annunciò la
madre di Jess mettendo tutto in un’insalatiera. Jess
spuntò in cucina e la prese fra le braccia con espressione
estatica.
“Grazie mille mamma.”
“Prego Jess, non sporcate e poi riporta di qua
l’insalatiera”, lo ammonì lei.
Jess tornò in camera e diede l’insalatiera a
Leslie, che stava guardando un suo album dei disegni seduta a gambe
incrociate sul letto. “Tuo padre li ha mai visti
questi?”
“No, no credo”, disse Jess prendendo una manciata
di pop corn e portandoseli alla bocca. Si sedette di fronte a Leslie a
gambe incrociate.
“Perché non glieli fai vedere?”
“Non gli interesserebbero”, Jess si strinse nelle
spalle.
“Hm, tu dici? A proposito, ho inviato un’altra
storia ad un concorso”, disse Leslie entusiasta.
“Davvero? E che si tratta?”
“Veramente mi sono ispirata un po’ a
Terabithia.”
“Ah. E quindi?” Jess era davvero interessato, ma
era anche impegnato a mangiare pop corn.
“Quindi è un racconto per bambini, molto corto,
perché la consegna diceva così. Spero che questa
volta vada bene. L’ho mandato appena in tempo sai? Mi daranno
una risposta a Gennaio. In pratica, se riesco ad arrivare fra i primi
tre, dovrei partecipare ad una specie di finale, e se vinco anche
quella ho un posto assicurato per una scuola dove insegnano a
scrivere.”
“Sul serio?”, chiese Jess strabuzzando gli occhi.
“Si!”, disse Leslie senza riuscire a contenere
l’emozione. “Il direttore della scuola è
l’autore di Alza
gli occhi al cielo, e anche di Viaggio e di un
sacco di altre cose bellissime! Sai chi è?”
“No, ma suppongo che ti piaccia”, disse Jess con un
sorrisino.
“Infatti. Se vuoi ti presto qualche suo libro.”
“Qualche
è troppo. Prestamene uno soltanto. Io non sono come qualcuno che legge
i libri di seicento pagine in una settimana. A proposito, sei
disgustosa, mi chiedo come tu abbia fatto.”
Leslie rise, ricordando come Jess fosse rimasto esterrefatto quella
volta. “Era un libro fantastico!”, cercò
di giustificarsi. “Comunque siamo d’accordo, te ne
presterò uno. A proposito, che facciamo adesso?”,
chiese Leslie. Si alzò e andò alla finestra a
guardare fuori, tenendo in mano l’insalatiera.
“Non lo so.” Jess la seguì per
continuare a mangiare i pop corn. Scostò una tenda e
rimasero a guardare fuori la strada sterrata che proseguiva dritta e si
univa allo stradone asfaltato. In fondo alla strada c’era un
ragazzino in piedi, sembrava che aspettasse qualcosa. Ad un tratto
sentirono distintamente che di sotto la porta si apriva, poi videro May
Belle correre fuori e andare in contro al ragazzino. Quando si
incontrarono si abbracciarono forte.
Jess rimase con una mano piena di pop corn a metà strada fra
l’insalatiera e la sua bocca, poi esclamò:
“Chi è quello?!”
“Boh. Mai visto”, disse Leslie masticando. Non
considerava la cosa così sconvolgente come lo era per Jess.
“Dove stanno andando?”, chiese poi il ragazzo
quando videro i due incamminarsi verso la strada.
“Dammi”, disse prendendo l’insalatiera
ancora mezza piena e posandola sul letto.
“Dove vai?”, chiese Leslie vedendolo uscire dalla
stanza.
“Vado a vedere che fanno. Perché May Belle non mi
ha detto niente? E poi scusa è troppo piccola per uscire con
un maschio.” Jess si pulì le mani dal sale con uno
dei fazzoletti che gli aveva dato sua madre.
“Ha quindici anni”, osservò Leslie.
“Io e te ci conosciamo da quando ne avevamo dieci.”
“Si, ma che centra? E’ una cosa diversa”,
disse Jess prendendo la giacca. In quel momento comparve Joyce Anne
accanto alla porta. “Joyce Anne! Tu sai con chi esce
May?”, chiese chinandosi sulla bambina.
Lei scosse la testa, poi disse, indicando il letto: “Posso
prendere le patatine?”
“Si”, sbuffò Jess scendendo.
“Mamma noi usciamo!”, gridò aprendo la
porta.
“E l’insalatiera?!”
“Ce l’ha Joyce Anne! Vieni Leslie”,
aggiunse poi tirando Leslie per un braccio. I due uscirono per strada,
e videro che May Belle e un ragazzino dai capelli rossi stavano salendo
in quel momento sul bus che li avrebbe portati in città.
Jess cominciò a correre, e Leslie non poté fare
altro che seguirlo, seppur alzando gli occhi al cielo esasperata.
I due salirono sul bus senza farsi vedere da May Belle e il suo amico,
che chiacchieravano senza sosta. Sedettero per tutto il viaggio con le
schiene curve per non farsi notare, e scesero alla stazione con un
sospiro di sollievo e qualche osso dolorante.
“Dove stanno andando secondo te?”, chiese Jess
mentre seguiva sua sorella da una debita distanza.
“E che ne so io? Ma scusa, perché ti scaldi tanto
ancora non l’ho capito”, disse Leslie con mani in
tasca. “Non ho nemmeno portato i guanti.”
“Metti le mani in tasca”, borbottò Jess.
“Si, l’ho già fatto
ma…”
“Shh! Stanno tornando indietro, se May Belle mi vede mi
ammazza.” Jess, atterrito, spinse Leslie dentro un vicolo,
poi si sporse per guardare fuori.
Non si rese nemmeno conto di quello che stava succedendo,
sentì solo Leslie gridare: “Marc!” Poi
la vide uscire dal vicolo e correre via. Jess si voltò a
guardare alle sue spalle senza capire, e vide Marc e Wanda assieme.
“Che ci fai qui?”, gli chiese. “Non
dovevi essere da James?”
“Si ma…” Marc sembrava in
difficoltà. Jess lanciò una sguardo a Wanda. La
vide leggermente sfatta, si passava una mano nervosamente fra i capelli
e si aggiustava i vestiti.
Giunto alla più ovvia conclusione, Jess si sentì
pervadere dalla rabbia. Si lanciò addosso a Marc, lo prese
per la collottola e lo sbatté forte contro il muro. Marc
cercò di toglierselo di dosso, ma Jess gli diede un pugno
che fece battere la testa al ragazzo contro il muro dietro di lui. Marc
se lo scrollò di dosso con rabbia e lo spinse via, facendolo
cadere. Prima che Jess potesse rialzarsi Marc era corso via, seguito da
Wanda.
“Hey”, disse Jess arrampicandosi sul tronco.
“Sapevo che eri qui”, disse sedendosi affianco a
Leslie, nella casetta sull’albero. Non disse niente, e le
cinse le spalle con un braccio. Leslie aveva gli occhi arrossati e
gonfi di pianto, si abbandonò sulla spalla di Jess e prese a
respirare piano, come per calmarsi. Sentiva gli occhi bruciare dalla
stanchezza, era rimasta spossata.
“Se…”, deglutì, “se
me lo avesse d-detto… sarebbe stato meglio. Ma non
dove…”, Leslie singhiozzò
più forte, senza riuscire a fermare il respiro affannato
tiico di un pianto, “non doveva”, concluse soltanto.
“Lo so che non ti potrà in alcun modo consolare,
ma gli ho dato un pugno. E credo di avergli fatto uscire del
sangue”, disse Jess annuendo.
“Grazie”, rantolò Leslie.
Jess sospirò. “Ti va di dormire a casa mia oggi?
Puoi chiamare i tuoi da me.”
“Si”, gracchiò la ragazza asciugandosi
gli occhi.
“Va bene allora. Andiamo quando hai voglia.”
Restarono lì fino a notte fonda. Ad un tratto sentirono la
voce di May Belle che li chiamava, così tornarono a casa
tutti assieme. Non appena Leslie si fu gettata sul letto di Jess si
addormentò, e il ragazzo la coprì con la coperta
di lana pesante. Dopo che l’ebbe osservata per un attimo
sospirò, prese una coperta, scese la scale e si stese sul
divano. Prese il telefono e chiamò a casa di Leslie
avvisando che lei avrebbe dormito lì, chiedendo scusa se
avevano avvisato così tardi e di non prendersela con Leslie
il giorno dopo. Poco dopo May Belle lo raggiunse e si
accoccolò al suo fianco, le gambe strette al petto.
“Che cos’ha Leslie?”, chiese.
“E’ colpa di Marc”, borbottò
Jess girandosi dall’altra parte per stare più
comodo, impresa dura in quel piccolo divano bitorzoluto. “A
quanto pare era bigamo, e stava anche con Wanda”, disse Jess.
“Quello stupido”, sibilò Jess con rabbia
stringendo le labbra.
“Sul serio? Li hai visti?”, domandò May
Belle sgranando gli occhi.
“Non proprio, ma erano in una strada deserta. Non appena li
ha visti Leslie è corsa via. Io non li ho visti ma suppongo
non fossero lì per caso. Perché altrimenti Leslie
sarebbe corsa via?”
“Hm”, fu l’unico commento di May Belle.
“A proposito. Chi era quel tipo con cui sei uscita?”
“Chi?”, chiese May Belle confusa.
“Quel tipo, quello là di oggi pomeriggio. Ti ho
vista sai?”, disse Jess torvo. May Belle lo guardava ancora
senza capire, così Jess aggiunse: “E dai, non fare
la finta tonta! Quel tipo con i capelli corti, rossi.”
“Ah!”, esclamò May Belle. “Ma
allora sei proprio scemo.”
“Cosa, perché?”, boccheggiò
il ragazzo.
“Quello non è un ragazzo, è una
ragazza! E’ la mia mica Joan.”
“Cosa?”, ripeté Jess.
“Si, un sacco di gente la scambia per un maschio, ma solo
perché è molto magra e perché ha i
capelli corti”, insistette May Belle. “E non ha una
faccia particolarmente femminile, è piena di
lentiggini”, aggiunse poi pensierosa.
Jess sbuffò e appoggiò la testa al cuscino.
Così era successo tutto solo per un suo malaugurato errore.
“Buonanotte”, borbottò.
“Notte Jess, sogni d’oro”, disse May
Belle con un sorrisino di scherno.
Al contrario di ogni augurio Jess non riuscì a dormire per
niente quella notte. Il divano era scomodo, era piccolo, e lui doveva
starci tutto schiacciato. Riuscì ad addormentarsi solo verso
le tre e mezza di mattina, e quando sua madre si alzò alle
sette la sentì distintamente muoversi fra il salotto e la
cucina. Non sarebbe più riuscito a dormire, lo sapeva,
così si alzò. Non sarebbe stata una tragedia,
dopotutto era abituato ad alzarsi presto anche lui, solo che quella
volta aveva tutte le ossa indolenzite. Si stiracchiò per
bene, e poté giurare di aver sentito qualche osso
scricchiolare in modo sinistro. Andò in cucina sbadigliando
un ‘buongiorno
mamma’.
“Giorno Jess”, disse lei senza alzare gli occhi dal
suo lavoro. “Credi che a Leslie piacciano i pan
cake?”, chiese poi guardandolo.
“Ma certo, a tutti piacciono i tuoi pan cake”,
disse lui con un sorriso largo. “Aspetta, non è
che potresti darmi una mano? Ho bisogno di cucinare una colazione da
portare di sopra.”
“A Leslie? Perché?”
“Ha passato una brutta giornata ieri”, disse Jess.
“Oh, d’accordo. Ma perché?”
“Fattelo spiegare da May Belle. Allora: che ne dici di un
latte caldo, i pan cake, la nutella, i mini panini
e…”, Jess ci pensò su.
“Ancora qualcos’altro? Non credo che Leslie mangi
così tanto.”
“No, infatti è anche per me. Che faccio, la lascio
mangiare là sopra da sola?”, chiese Jess
stringendosi nelle spalle. “Finirei per rubarle la
colazione.”
Sua madre sorrise e disse: “Va a mungere Bessie e torna qui,
io intanto preparo i pan cake.”
Quando fu tutto pronto Jess portò di sopra un grosso
vassoio, traballando ogni tanto lungo la strada. Quando fu davanti alla
porta posò il vassoio a terra e aprì la porta.
Leslie ancora dormiva, così poggiò il vassoio
sulla scrivania e si avvicinò al letto.
“Leslie”, la chiamò. Nessuna risposta.
“Leslie alzati” disse un po’
più forte. Ancora nulla. Jess la smosse un po’ e
disse: “Leslie, ti ho preparato la colazione.”
“Davvero?”, biascicò lei nel
dormiveglia.
“Si. Ti piacciono i pan cake vero?”
“Si.”
“Allora se ti alzi sono qui. Hai mai bevuto vero latte di
mucca?”
“No.”
“E alzati”, disse Jess dandole un’altra
spintarella.
Con un rantolo inumano Leslie si alzò e si
stropicciò gli occhi. Sbadigliò mostrando una
dentatura di cui andar fieri e chiese: “Il latte è
di Bessie?”
“Esatto. E’ il latte più pregiato che
c’è in questa casa, perché proviene
dall’unica mucca che abbiamo”, disse Jess prendendo
i due bicchieri di latte e porgendone uno a Leslie.
“E’ tiepido”, osservò.
“Se lo scaldi va via tutto il potere nutritivo”,
disse Jess con tono solenne.
“D’accordo.”
Mangiarono tutto quello che Jess aveva portato, e quando furono pieni
rimasero in silenzio. Leslie si sentiva come se un masso le stesse
sulla bocca dello stomaco, e come se un peso gigantesco le schiacciasse
l’anima. Non sapeva se avrebbe resistito. Aveva voglia solo
di piangere e di dimenticare tutto il resto. Non avrebbe mai potuto
continuare a vivere, sarebbe stato de tutto inutile. E poi... che senso
avrebbe avuto, senza Marc?
Dopo qualche minuto di silenzio, Leslie domandò:
“Credi che oggi dovremmo fare i compiti?”
Jess ci pensò su. “No, direi che oggi possiamo
anche prenderci anche un giorno di pausa.”
Lo so, ora mi odiate XD
Ma che vi devo dire? Certe cose accadono! Vedremo meglio come si sente
Leslie nel prossimo capitolo, e soprattutto come finirà con
Marc.
Allora, la lotta Jess/Marc forse non è molto eroica e di
sicuro non vede come vincitore indiscusso Jess (a causa della fuga
dell'avversario XD). Non volevo che fosse una super-rissa, in fondo
sono solo ragazzi...
Al prossimo capitolo,
Patrizia
|
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Capitolo 13 *** Successe il 26 Agosto ***
13.Successe il 26 Agosto
Leslie e Marc non si erano più
parlati dopo quell’episodio. In verità non si
erano neanche più guardati. Le rare volte che si
incrociavano nei corridoi si evitavano bellamente, o si scambiavano
sguardi furtivi tentando di non farsi vedere dall’altro.
Invece, chi non evitava Marc, era Jess, furioso dopo quel ch era
successo. Ogni volta che lo vedeva lo uccideva solo con lo sguardo, e
aveva smesso solo quando Leslie gli aveva pregato di farlo. Ma in
realtà il ragazzo aveva un prurito alle mani ogni volta che
ci pensava, dargli quell’unico pugno era stata solo una
piccola parte dell’odio che voleva riversargli addosso.
Le vacanze di Natale erano arrivate e passate, con il consueto rito di
festeggiamenti a Terabithia, e anche quell’anno morirono di
freddo. Erano tornati come prima: loro due, soli nella casetta
sull’albero.
Jess aveva ripreso ad andare da Felicity per le sue preziose lezioni di
disegno e di storia dell’arte. Leslie aveva ricevuto i
risultati del concorso al quale si era iscritta e, con sua grande
sorpresa, era arrivata seconda. I giudici le avevano detto che la sua
storia poteva anche arrivare prima, ma la prima classificata si era
aggiudicata la vincita grazie ad una punta di originalità in
più.
“Non è originale? Io pensavo di essere la persona
più originale del mondo!”, si lamentò
Leslie quando lo venne a sapere.
“Non esagerare adesso. Del mondo…”, le
aveva detto Jess.
“Per modo di dire”, si giustificò la
ragazza. Tuttavia era molto felice di essere arrivata seconda, si era
aggiudicata una possibilità ancora più grande per
ottenere un posto alla scuola di scrittura.
“Quando dovrai presentare la prossima storia?”
“Entro e non oltre il quindici di Giugno. E mi daranno i
risultati ad Agosto. Fine Agosto”, disse Leslie.
Si avvicinavano gli esami, e tutti, professori ed alunni, sembravano
sull’orlo della disperazione. I compiti in classe e le
interrogazioni si facevano sempre più frequenti, e non erano
rare le giornate in cui Leslie e Jess dovevano restare a studiare fino
a tardi. Tuttavia, nonostante questo, Leslie trovava sempre del tempo
per scrivere e, quando si avvicinò il compleanno di Jess,
trovò del tempo anche per andare a comprargli il regalo. Gli
comprò, come ormai era diventata sua abitudine, un libro di
un artista: questa volta toccava a William Turner.
Quando Jess scartò il regalo l’unica cosa che fu
capace di dire fu: “No!”
“Come no? Non ti piace?”, chiese Leslie.
“No! Voglio dire, si! Ma no, nel senso: no! Leslie mi ha comprato un
regalo bellissimo!”, disse Jess scorrendo le
pagine del libro.
Quando, pochi pomeriggi dopo, Jess andò da Felicity,
scoprì che anche lei gli aveva fatto un regalo.
“Jess, mi sono permessa di fare una cosa, spero che non ti
dispiaccia”, disse con tono austero.
“E cioè?”, chiese Jess, seduto di fronte
a lei bevendo tè. Avrebbe dovuto sapere che era qualcosa di
estremamente importante, ogni volta che Felicity parlava di cose serie
preparava del tè.
“Ho mandato alcuni tuoi disegni all’accademia di
Arte di New York, assieme ad un lettera nella quale spiego la tua
curiosa situazione. Se i tuoi disegni verranno ritenuti buoni allora
potrai vincere una borsa di studio per l’Accademia di Belle
Arti.”
Jess quasi si strozzò con un biscotto, uno di quelli che
preparava Felicity: per niente buoni e duri come la roccia; li mangiava
solo per farle piacere. Tossì un po’, poi chiese:
“Quale sarebbe la mia curiosa situazione?”
“Sarebbe un insegnamento dell’arte a singhiozzo
negli ultimi tre anni e, nonostante questo, il raggiungimento di
più che soddisfacenti risultati”, disse Felicity
incrinando leggermente le sopracciglia.
“Quindi… potrei avere una borsa di
studio?”, chiese Jess.
“Si, ma non ti montare la testa. La borsa di studio viene
data solo a pochi selezionati ogni anno. Per quanto ne so hai il 5% di
possibilità di riuscire.” Come al solito, Felicity
faceva un passo avanti e due indietro, ma ormai Jess era abituato a
quel suo modo di fare, e riteneva che si comportasse così
per spronarlo sempre di più.
“Quando lo saprò?”
“Ho lasciato il tuo recapito telefonico. Ti chiameranno per
darti i risultati verso la fine di Agosto.”
“La fine di Agosto? Così tanto?!”,
chiese Jess.
“Non credo sia una cosa sconveniente, ora come ora dovresti
studiare solo per conseguire il diploma”, disse Felicity
seria. “All’Accademia ti aspettano cinque anni
difficili, pieni di studio e d’impegno. Quello che stai
facendo adesso è la metà di quello che ti
toccherà fare una volta lì.” Felicity
si alzò e gli aprì la porta.
“Va’ a studiare Jess”, disse con tono
pigro.
Nel frattempo i mesi continuavano a passare, e gli esami si
avvicinavano sempre di più. Il tempo veniva quasi mangiato,
divorato voracemente senza lasciare la possibilità a nessuno
di tirare il fiato. Ma non erano quelle le maggiori preoccupazioni di
Leslie e Jess, piuttosto il loro vero esame sarebbe avvenuto solo verso
fine Agosto, anche se non sapevano precisamente quando.
“Allora com’è andata?”, chiese
Jess.
“Bene credo, e tu?”
“Boh. Speriamo bene. Cos’hai messo alla domanda
due?”
“La c”, rispose Leslie in fretta.
“Anch’io”, esclamò Jess
trionfante.
“Cavolo! Adesso devo mettermi subito a studiare per
l’orale”, disse Leslie.
“Giovedì vero?”, chiese Jess.
“Si. E tu?”
“Giovedì della settimana dopo.”
“Chissà se per il tuo compleanno avremmo
già i risultati. A proposito, che cosa vorresti come
regalo?”, chiese Jess salendo in macchina.
“Non lo so, quello che vuoi. Non devi farmi un regalo per
forza”, disse Leslie salendo nel posto affianco a Jess.
“Si ma, quando mai non ci siamo fatti il regalo?”,
chiese lui.
“E’ vero. Allora ci penso e te lo dico.”
Jess rimase pensoso. “No forse ho trovato.”
“Di già?”
“Ispirazione”, rispose lui inserendo le chiavi nel
quadro.
I risultati degli esami uscirono proprio il ventinove di Luglio. La
sera, per festeggiare, i genitori di Jess e quelli di Leslie vollero
andare tutti a cena fuori assieme. Andarono in pizzeria dopo aver
prenotato un tavolo per otto, e brindarono al compleanno di Leslie e ai
due neo-diplomati.
“Adesso non resta che aspettare la fine di Agosto”,
disse Leslie a bassa voce a Jess.
“Infatti. Lo sai che ancora i miei non lo sanno?”
“Non gliel’hai detto? Ma telefoneranno a
casa!”
“Lo so, lo so. Credi che si arrabbieranno molto? In fondo non
è colpa mia! E’ stata Felicity!”,
sbottò Jess senza farsi vedere dai genitori.
“Si ma dovevi dirglielo. Prometti che glielo dirai
presto”, disse Leslie.
“D’accordo”, sibilò Jess.
Nonostante la promessa Jess non lo disse ai suoi genitori. Per il
seguente mese stettero tutto il tempo rintanati nella casa
sull’albero, a fremere ed aspettare. Mai un estate era
passata così lentamente. Il tempo si trascinava
più lento solo per fare loro un dispetto.
Successe il 26 Agosto, alle nove e quarantadue di mattina.
Jess si recò, come tutti i giorni, a Terabithia.
Passò con noncuranza sul ponte e si diresse alla casa
sull’albero. Non appena fu lì lo accolse un
gridolino acuto.
“Jess! Era ora!”, esclamò Leslie.
“Guarda!”, esclamò passandogli una
lettera dall’aria ufficiale. “Sono loro! Sono
loro!”
“Quando è arrivata?”, chiese Jess
boccheggiando.
“Stamattina. Ho detto ai miei che l’avrei aperta
con te. Ora la apro”, disse guardando la lettera con
soggezione.
“Apri”, ripeté Jess.
A Leslie tremavano le mani per l’emozione. Ruppe con gesti
secchi la busta e aprì la lettera. La dispiegò e
lesse in silenzio. Jess la osservava ansioso quasi quanto lei. Leslie
lesse due volte per intero tutta la lettera, la prima lettura era stata
incomprensibile, la seconda le servì per capire il verso
significato delle parole. Quando finì si mise le mani nei
capelli e si accasciò alla parete, gli occhi fissi sul muro.
Jess la guardò un secondo e disse: “Hey, ci
saranno altre occasioni, ne sono certo.”
Leslie alzò lo sguardo, gli occhi spalancati, e disse in un
sussurro: “Ce l’ho fatta.”
Corsero fino a casa di Leslie per dare la notizia ai suoi genitori.
Loro abbracciarono indiscriminatamente sia la figlia che Jess, poi la
signora Burke cominciò ad elencare un sacco di cose che
avrebbe dovuto comprare per Leslie, che andava a studiare
dall’altra parte del paese.
Il signor Burke invece cominciò a dargli un sacco di
consigli sul college, e raccontò un sacco di storie di cose
che gli erano capitate a scuola quando era giovane.
Successe il 26 Agosto, alle diciassette e tredici di pomeriggio.
Il telefono squillò in casa Aarons. “Tesoro
squilla il telefono!”
“Vai tu io sono con le mani nella farina!”,
gridò la signora Aarons al marito.
“Pronto?”
“Pronto, casa Aarons?”, chiese una voce da uomo
dall’altra parte.
“Si, dica pure.”
“Chiamo dall’Accademia di Belle arti di New York.
Volevamo avvisare che Jess Oliver Aarons ha ottenuto la borsa di
studio. E’ il primo della lista e, come da programma,
riceverà tutti i materiali scolastici dalla scuola,
avrà un posto nel collegio e riceverà come
supporto una borsa di studio di cinquecento dollari.” Quelle
improbabili parole restarono sospese a mezz’aria per alcuni
secondi. “Pronto?”, disse la voce al telefono.
“Si, mi scusi. Vuol dire mio figlio Jess? Jess
Aarons?”
“Si certo. Sa, ho visto poche persone con un talento grande
come il suo, lei è suo padre?”
“Si, si.”
“Dovrebbe essere fiero di suo figlio. Presto le invieremo i
documenti che Jess dovrà firmare, c’è
scritto tutto ciò che dovrete sapere, e per qualsiasi
domanda c’è anche il numero di telefono e
l’indirizzo e-mail dell’Accademia”, disse
l’uomo. “A presto signor Aarons”, e
riattaccò.
Quando Jess tornò a casa vide suo padre seduto pensoso sulla
poltrona, che guardava gli album da disegno di Jess. Negli anni erano
accumulati, ed erano diventati circa una decina, pieni di scarabocchi
senza senso ma anche di veri e propri disegni e dipinti.
“Che cosa fai?”, gli chiese Jess con occhi sorpresi.
L’uomo alzò gli occhi dai fogli e disse:
“Quindi è questo che vuoi fare.”
Sospirò. “Jess… io non sono uno che
s’intende di arte, o di queste cose, e ad essere sincero le
ho sempre considerate sciocchezze. Ma se è questo che vuoi,
e se ci sono persone che pensano che tu valga come artista,
allora dovresti davvero farlo.” Jess restò a
guardarlo senza capire. Era stupito da un così improvviso
cambiamento, non capiva come poteva essere successo. “Hanno
chiamato da… New York, per dirmi che eri stato ammesso
all’Accademia di Belle Arti. Con una borsa di
studio”, disse il signor Aarons. “Dicono che sei
stato il migliore.” Il signor Aarons deglutì, gli
si stava formando un fastidioso groppo alla gola.
Jess cercò di dire qualcosa, ma non gli riusciva di emettere
un suono. Era diviso, non sapeva che cosa fare. Era felice
perché era stato ammesso ad una delle più
prestigiose scuole d’arte del paese e forse addirittura del
mondo intero. Ma l’angoscia gli morse la gola quando si rese
conto che non avrebbe mai potuto frequentare, perché non
aveva detto assolutamente nulla ai suoi genitori, aveva mentito, aveva
fatto le cose di nascosto. Alla fine disse solo, con voce stentorea e
rotta: “Scusami.”
Suo padre si alzò e lo raggiunse, abbracciandolo forte.
“Sono io che dovrei scusarmi Jess.”
Per un secondo, solo un attimo che parve fermarsi nel tempo, a Jess
sembrò di tornare bambino. Abbracciò forte suo
padre e si ricordò da quanto tempo era che non lo faceva.
Sentì la sue braccia ruvide che lo stringevano, e
immaginò il suo volto, sempre così impenetrabile,
aprirsi in quell’espressione che riservava così di
rado alle persone. E che adesso era solo per lui. Per Jess. Non per May
Belle, non per Joyce Anne.
Solo per Jess, suo figlio Jess.
Quando Leslie guardò fuori dalla finestrella della casa
sull’albero lo vide di nuovo. Era scomparso da tanto tempo.
Anche Jess lo vide, inizialmente dovette aguzzare lo sguardo, ma poi si
rese conto che era proprio lui.
“Jess guarda!”, esclamò Leslie
indicandolo.
“Il Troll Gigante!”, gridò Jess
scendendo dall’albero con foga, seguito subito da Leslie.
Si precipitarono verso di lui, correndo assieme come non facevano da
molto tempo, mentre lui li aspettava mansueto seduto in riva al grosso
Fiume del Drago, che passava per tutta Terabithia. Non appena il Troll
Gigante li vide li salutò con un sorriso timido e fece loro
segno di sedersi affianco a lui. I due ragazzi si sdraiarono e alzarono
gli occhi verso il sole che splendeva sopra il loro regno immaginario,
ma quella volta era più vero che mai.
“Quindi finisce così?”, chiese ad un
tratto Jess.
“Finisce cosa?”
“Finiamo noi. Non ci vedremo mai più?”,
chiese Jess con un leggero tremito nella voce.
“Dobbiamo mantenere la nostra promessa, non ricordi? Ce la
metteremo tutta per perseguire il nostro obbiettivo, e adesso ce
l’abbiamo fatta. Abbiamo mantenuto la promessa.”
“Infatti. Ma dovremmo farne una nuova”, disse Jess
risoluto.
“E cioè?”, chiese Leslie, con le mani
sullo stomaco.
“Prometti… che ci terremo sempre in contatto, e
non appena potremmo ci incontreremo di nuovo.” Jess si
voltò verso di lei.
“Prometto”, disse Leslie senza esitazioni.
I due si guardarono negli occhi per un po’.
Leslie si alzò a sedere.
“Dov’è andato il Troll?”,
chiese, notando la sua assenza.
Jess guardò ancora una volta l’orizzonte. La
sagoma alta e scura del Troll Gigante camminava lenta lungo il fiume.
Quando lo guardavano lo videro voltarsi, alzare una mano e salutarli.
Lo salutarono anche loro, agitando le mani freneticamente.
Penultimo capitolo! Con il
prossimo ci salutiamo...
Comunque voglio dire
riguardo a questo capitolo che è uno dei miei preferiti.
Tutti e due i personaggi portano due diversi aspetti della storia, a
mio parere. Leslie deve infatti confrontarsi con moltissime persone
più in gamba di lei, e con l'impegno riesce a farcela.
Invece Jess deve convincere i suoi genitori, che non è poi
da meno. La sperazione fra Leslie e Jess con la metafora del Troll
Gigante mi piace un sacco, non so nemmeno come mi sia venenuta in mente
._.
Be', al prossimo e
ultimo capitolo, un grazie a tutti i preferiti, le seguite e tutti
coloro che leggono! ^^
Buon Natale
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Capitolo 14 *** Tieni la mente bene aperta ***
14.Tieni la mente bene aperta
Il signor Aarons e sua moglie facevano
inutilmente la fila, quando un ragazzo alto dai capelli un
po’ lunghi e la barba leggermente incolta si
avvicinò a loro di corsa, sorridendo. “Mamma!
Papà!”, esclamò Jess abbracciandoli.
“Vi stavo aspettando.”
“Alla fine siamo arrivati”, disse il signor Aarons.
“Non immagini che caos all’aeroporto!”
“Ma non potevamo certo arrivarein ritardo”, disse
sua madre sorridendo. “La tua prima esposizione”,
disse carezzandogli la guancia con fare tenero.
“Venite, entrate da qui, non dovete mica fare la fila, siete
miei ospiti”, disse facendoli passare per una seconda entrata
molto più piccola e meno fastosa. La mostra era stata
organizzata nel migliori dei modi, grazie ad una delle più
capaci curatrici della città, nonché fidanzata di
Jess, Penny.
“Salve signori Aarons!”, esclamò Penny
andando loro incontro sorridendo. Si erano incontrati poche volte,
soprattutto quando Jess tornava a casa per le vacanze di Natale a
festeggiare assieme alla famiglia. “Jess mi ha detto che
avreste fatto di tutto per venire. E’ molto felice che siate
qua.”
“Come stai Penny?”, chiese la signora Aarons.
“Ti ha fatto disperare ad organizzare tutto
questo”, disse ridendo la donna facendo segno al grosso
locale nel quale si trovavano.
“Oh, si figuri! Se sgarra lo sgrido. Come state
voi?”
“Come al solito, stiamo bene”, rispose il signor
Aarons. “Si va avanti.”
“A proposito di star bene. Io e Penny dovremmo dirvi una
cosa”, disse Jess cingendo la ragazza per le spalle e facendo
un sorriso che non poté trattenere.
“Ecco… Penny è incinta.”
La sinora Aarons si portò le mani alla bocca, poi
esclamò: “Ma è bellissimo! Una notizia
fantastica! Oh mio Dio Jess!” Non poté resistere e
abbracciò forte il figlio e la fidanzata. In pochi secondi
riuscì a trascinare via Penny e coinvolgerla in una
conversazione fitta fitta, lasciando soli Jess e suo padre.
“Complimenti Jess”, disse l’uomo dandogli
una sonora pacca sulla spalla.
“Grazie”, disse Jess abbassando lo sguardo e
sorridendo.
“Ah figliolo…”, disse sospirando,
“sei così grande adesso. Hai venticinque anni, ti
stai affermando come pittore, e stai anche per avere un
figlio!” Rimase pensieroso, in silenzio.
“Già”, disse Jess alzando le
sopracciglia e mettendo le mani in tasca.
“Lasciami dire una cosa Jess”, disse il signor
Aarons fermandosi e mettendogli le mani sulle spalle, “Sono
davvero fiero di te”, concluse abbracciandolo.
“Grazie papà”, fece Jess sorridendo.
La mostra ebbe un buon successo per essere una prima esposizione.
Vennero diverse persone, e Jess parlò con alcuni dirigenti e
altre persone importanti. Ad un tratto vide una ragazza che lo
osservava. Era visibilmente incinta, e indossava un vestito largo,
azzurro a fiori, ma ai piedi aveva dei curiosi stivali di tutti i
colori. Il suo viso aveva qualcosa di conosciuto, ma Jess non seppe
dire cosa. Si guardarono per diverso tempo, poi Jess si
avvicinò.
“Jess Aarons”, disse la ragazza, separandosi dal
suo accompagnatore, un ragazzo alto dai capelli biondissimi che
osservava un quadro. “Allora ce l’hai
fatta.”
“Leslie?”, chiese lui stupito sgranando gli occhi.
Aveva i capelli lunghi, ma il solito sorriso solare e sereno dipinto
sulle labbra, che illuminava tutto ciò che c’era
attorno a lei.
“Mi dispiace che non siamo riusciti a mantenere la nostra
promessa, ma non potevo mancare ad una tua mostra”, disse lei
sorridendo.
“Leslie!”, esclamò Jess abbracciandola.
“Sono contenta di rivederti”, disse lei.
“Allora, che cosa mi racconti?”
“B’è…”, Jess si
guardò attorno e allargò le braccia,
“questa è la mia prima mostra. E sono abbastanza
soddisfatto direi”, disse guardandosi attorno e passandosi
una mano sulla nuca. “Sai, ho letto tutti i tuoi
libri”, disse tornando a guardarla. “Li ho letti
tutti.”
“Sono solo tre”, disse Leslie sorridendo.
“E sono tutti molto interessanti, aspetto il seguito di Il segreto della
città di Dehar… di Leslie
Burke”, aggiunse poi con fare teatrale.
Lelie rise e disse: “Te ne farò avere una copia
omaggio. Al momento è in fase di scrittura. Allora, dove
abiti adesso? Come sono andati gli studi, raccontami un po’
dai.”
“Io? Tu dovresti raccontarmi piuttosto, sei
così… incinta.”
Leslie rise e si portò automaticamente una mano al pancione.
“Già, strano rivedermi così eh? E tu?
Fai l’artista scapolo?”
“A dir la verità adesso sto a casa della mia
fidanzata, ma vorremmo trasferirci in un appartamento più
grande. Qui a New York sarebbe grandioso. E, se proprio lo vuoi sapere,
anche noi siamo in attesa, anche se solo da due mesi. Mi devo
ancora…”, Jess rise nervoso, “abituare
all’idea.”
Leslie sorrise. “Quante cose sono diverse ora, non
è vero?” Jess annuì.
“Comunque, sai… se volete vi posso
aiutare.” Leslie indicò il ragazzo alle sue
spalle, “Mio marito Dominic ha un’agenzia
immobiliare, vi potrebbe trovare un appartamento buono a poco prezzo.
Anche noi abitiamo a New York.”
“Tuo… tuo marito”, osservò
Jess alzando le sopracciglia.
Leslie rise un po’ e disse: “Già. Sono
successe un bel po’ di cose negli ultimi anni.”
“Dovremmo parlarne un giorno, dobbiamo… riprendere
il tempo perduto adesso che siamo tutti qui. Magari quando saremo
vicini di casa, a New York. Ti offrirò un
caffè.”
“Per me va bene”, disse Leslie sorridendo.
“Stavolta però dovremmo davvero mantenere la
nostra promessa.”
“Hai ragione. Dovremmo stringerci la mano, tanto per far
sembrare la cosa più ufficiale”, disse Jess.
“Allora va bene.”
Leslie tese la mano, e Jess la strinse. Quella di lei aveva le dita
affusolate, mentre quelle di lui erano grosse e ruvide. Mentre si
stringevano la mano il resto del mondo sparì attorno a loro.
Tutto era più confuso e irreale, tranne loro due.
Quando si separarono Leslie disse: “Ma quando te lo tagli
quel pizzetto, Jess?”
Jess si portò una mano al mento e si strofinò.
“A me piace”, replicò. “Fa
tanto artista
noncurante del suo aspetto.”
Leslie si incamminò in mezzo ai quadri. “Sai, ho
ancora il braccialetto Terabithia”,
disse mostrandogli il polso, con il braccialetto a forma di T.
“Anche io!”, esclamò Jess alzando un
braccio.
S’incamminarono fra i vari corridoi del palazzo espositivo
parlando del più e del meno, ricordando il passato e
scoprendo cos’era successo all’altro in tutto quel
tempo che non si erano visti.
Entrambi sapevano che quella volta avrebbero mantenuto la promessa, per
sempre.
A kilometri di distanza due bambini correvano lungo un bosco.
“Guarda! Un ponte!”, esclamò uno di loro
indicando il fiumiciattolo.
“Wow. Andiamo a vedere”, disse l’altro.
Passarono su per un ponte leggermente traballante, assaporando il
brivido di qualcosa di più antico di loro. Poco
più in là c’era una macchina
abbandonata, poi una casa costruita su un albero.
“Wow, saliamo!”, propose il ragazzino. La bambina
lo seguì, arrampicandosi sulla corteccia vecchie e saggia.
Quando furono dentro alla casa si guardarono attorno, studiando con
attenzione il legno vecchio e le travi inchiodate con una certa
abilità.
“Ma lo sai dove siamo?”, chiese la bambina ad un
tratto.
“Dove?”
“Siamo nel castello delle fate. Dove vive la Regina di tutte
le Fate, assieme a tutti i suoi servitori.”
Il ragazzino si guardò un po’ attorno.
“Dovremmo stare attenti però. Presto il castello
verrà invaso dagli gnomi e dai soldati del regno accanto.
Noi siamo le guardie del regno, dobbiamo proteggerlo”, disse
con enfasi.
“Giusto! Noi siamo le guardie di…”, la
bimba si guardò attorno e scorse un foglio consunto a terra.
Lo raccolse. C’era un mappa disegnata sopra, con scritto a
grandi lettere solenni Terabithia. “Noi siamo le guardie di
Terabithia”, concluse.
“Dobbiamo andare! Il Principe
dell’Oscurità ha mandato le sue truppe alate per
spiarci. Annientiamole, la regina conta sul nostro aiuto!”,
gridò il bambino scendendo dall’albero.
La bambina lo seguì e raccolse alcune pigne da terra.
“Se gli lanciamo questi incantesimi se ne andranno.”
“D’accordo!”
Rimasero a giocare tutto il pomeriggio, tra fate, gnomi, soldati
valorosi e spietati guerrieri.
Perché Terabithia esisteva per davvero. Per chiunque tenesse
la mente bene aperta.
Fine
Questa storia non
è stata scritta a fini di lucro. I personaggi sono fittizi e
appartengono per la maggior parte a Katerine Paterson, scrittrice di Un ponte per Terabithia
e detentrice di tutti i diritti del libro. Ogni coincidenza con fatti o
persone reali (scomparse o in vita) è puramente casuale.
E qui si
conclude la storia.
XD che solennità! Be', a parte gli scherzi, so che non sono
molte le persone che hanno seguito ma, come si dice: pochi ma buoni XD
Vi ringrazio molto per aver letto, e ringrazio chi ha lasciato una
recensione ^^
Questa storia è una delle mie preferite, mi ha dato
parecchie soddisfazioni scriverla e spero che ai lettori sia piaciuta
almeno la metà di quanto è piaciuta a me.
Mi piace pensare che questa storia parli di vita reale, sebbene molte
persone dicano che diventare artisti o scrittori, o musicisti o
quant'altro sia più unico che raro, ma io credo che con
l'impegno, la fatica (eh si c'è anche quella! XD), la
fantasia e qualcuno che crede in te e ti supporta si possano
raggiungere più che ottimi risultati ^^ Quindi auguro a
tutti di riuscire a realizzare il proprio sogno, anche se il cammino
sarà irto di ostacoli.
Grazie ancora a tutti e buone
feste!
Patrizia
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