La carezza della complicità. di Sten__Merry (/viewuser.php?uid=105947)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 8 ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 9 ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 10 ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 11 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Ciao a tutti!
Questa è una FF che ho iniziato un
paio di anni fa e poi ho impietosamente abbandonato. Ho deciso di
riprenderla in mano e vedere se riesco a tirarne fuori qualcosa di
dignitoso.
Buona lettura a tutti!
(inutile dire quanto facciano piacere
i commenti).
Baci,
Sten
PROLOGO
Domenica.
Sospirai: finalmente un giorno tutto per me!
Il programma giornaliero prevedeva una maschera esfoliante, un
bicchiere, o meglio una bottiglia, di Chardonnay, un buon libro
sull’importanza antropologica delle acconciature nelle tribù
amazzoniche e per finire un rilassante bagno caldo a cui avevo
attribuito l'arduo compito di sgrassare il mio corpo dall' odore della
morte e dalla mia mente il colorito pallido delle ossa.
Ero infatti appena tornata da un viaggio in Europa dove mi ero occupata
della catalogazione e l’identificazione delle ossa sepolte nelle
catacombe parigine ai tempi della Rivoluzione Francese.
Una cosa che ho imparato negli anni è che le ossa non mentono e mi
testimoniarono la terribile usanza della decapitazione nella Francia
delle diciottesimo secolo obbligandomi a passare quella settimana ad
esaminare minuziosamente ogni osso del corpo per aver la certezza
assoluta di associarlo al giusto cranio. Lavoro di routine, insomma.
Testa china e spalle ridotte a un fascio di nervi mentre due orbite
vuote d'una dama di compagnia di una nobildonna francese sembravano non
smettere di fissarmi.
La riuscivo a vedere: un metro e cinquanta, minuta, i riccioli biondi
ordinatamente fissati sul capo e un vestito rosso che le avvolgeva il
corpo.
Sedici anni e decapitata per la rivoluzione.
La mia schiena fu percorsa da brividi freddi.
Sì, ne avevo decisamente abbastanza di teste mozzate.
Erano le 8.45, lentamente aprii gli occhi e mi infilai nella vestaglia
di seta turchese. Mi trascinai verso la cucina e premetti il tasto di
accensione della macchinetta del caffé. Seduta al tavolo pensai a come
mi sarebbe piaciuto, in quelle mattine dolcemente solitaria, avere un
gatto, un siamese magari, da coccolare, l'avrei chiamato Birdie come il
randagio che da piccola vedevo passeggiare nella strada in cui vivevo
con i miei genitori, mi aveva sempre affascinata quel gatto regale che
nulla aveva ma che con un balzo era in grado di decidere le sorti degli
uccelli del quartiere. Mio fratello lo trovava crudele, io, invece,
interessante. Suppongo che fu proprio Birdie ad aiutarmi a
familiarizzare con la morte.
Ancora rievocando quel fantasma di un passato che altro non fu che una
bugia, mi alzai, raccolsi il "The Washington Post" dal pianerottolo e
iniziai a leggerlo sorseggiando il caffé.
Le prime pagine erano occupate dal testa a testa che si prevedeva alle
elezioni primarie del partito democratico tra Hilary Clinton e Barack
Obama, non riuscii neppure a raggiungere le notizie economiche che la
mia giornata idilliaca andò in fumo.
Quando suonò il telefono non avevo idea che proprio in quel momento,
dall’altra parte della città, un escursionista era inciampato su
qualcosa di bianco seminascosto nel terriccio, qualcosa di molto simile
a un osso.
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Capitolo 2 *** CAPITOLO 1 ***
Ecco il primo capitolo.
Enjoy,
Baci. Sten
CAPITOLO 1
Appoggiai delicatamente la paletta sul cumulo di terra smossa che
odorava di umido e morte, allungai la mano destra e sollevai lentamente
il cranio che avevo appena dissotterrato tenendolo con sacrale
delicatezza solo con pollice, indice e medio.
Prima di concentrarmi sull’osservazione, chiusi gli occhi qualche
secondo, la diga che impediva all’aria di entrare nelle mie narici
cadde e mi trovai completamente circondata dall’ormai familiare fetore
dolciastro della putrefazione, li riaprii di scatto sperando
irrazionalmente di poterlo in questo modo scacciare, ma non potei far
altro che constatare che ormai aveva pervaso ogni parte di me.
I tessuti molli erano quasi totalmente decomposti, vi era ancora
qualche brandello di pelle sullo scalpo da cui spuntavano dei lunghi
capelli corvini e un occhio rientrato quasi completamente nell’orbita.
Controllai la presenza di adipocera del terreno e per qualche secondo
mi si raggelò il sangue.
Sosipirai.
“Bones, tutto bene?” mi girai lentamente verso il mio partner, l’agente
Seeley Booth; Accovacciata sulle ginocchia fui costretta a piegare il
collo verso l’alto al limite del possibile per guardarlo in volto, mi
morsi il ladro scuotendo la testa
“qui non c’è il corpo.” Affermai, si inginocchiò accanto a me e
avvicinando il volto al mio orecchio osservò la scena da più vicino, si
ritrasse immediatamente quando l’odore gli scese nella gola
“Booth, che bisogno c’è di controllare?” borbottai seccata, lui si alzò
di scatto.
“faccio mandare tutto al Jeffersonian” disse, poi girò lentamente sui
tacchi e, badando bene a non salutare, salì sul suo SUV e se ne andò.
Io finii di imbustaree classificare i campioni di terriccio e gli
insetti poi mi diressi a bordo della mia vettura sportiva verso il
laboratorio.
Sulla mia scrivania avevo una pila di curricula di possibili assistenti
di Zack, ma, benché fossero passati più di tre mesi da quando lui si
era rivelato essere l’assistente di Gormogon, ancora non avevo trovato
qualcuno all’altezza.
Zack.
Spesso mi capitava di ripensare a lui con tenerezza quasi materna
ricordando i primi tempi in cui aveva lavorato per me, sogghignando
leggermente per gli indomabili capelli da teenager che portava con
noncuranza, rivivevo tutti i passaggi della sua permanenza al
Jeffersionian Institute: dal giorno in cui il ragazzino capelluto aveva
abbandonato la propria tesi per avere la garanzia di poter continuare a
lavorare al mio fianco il più a lungo possibile, a quello in cui aveva
ricevuto il dottorato in antropologia, al suo ritorno dall’ Iraq, fino
ad arrivare al suo più grande errore: offrire la sua malleabile mente
ad uno psicotico che divorava esseri umani. Eppure non riuscivo ad
avercela con lui, avrei dovuto, certo, ma non riuscivo.
Zack, come avrei potuto sostituirlo? Zack era unico e geniale.
Non sono una persona sentimentale, ma non potevo che ammettere che mi
mancava. Mi sentivo in colpa, avrei dovuto capire qualcosa: lavoravamo
gomito a gomito per 10 ore al giorno, come ho potuto non accorgermi che
qualcosa era cambiato?
Immersa nei miei pensieri non percepii la presenza leggera della mia
collega e amica Angela Montenegro che stava appoggiata allo stipite
della porta avvolta nel suo camice blu
“tesoro” sussurrò “sono arrivate le prove dalla scena del crimine”,
parlò con voce talmente bassa che la percepii solo lontanamente ma che
fu abbastanza per risvegliarmi dal mio stato di trance emotivo,
ricaccia il ricordo di Zack, del mio Zack in fondo a me stessa,
ripromettendomi di non pensarci più, almeno non in orario di ufficio.
“Angela, Ciao!” dissi senza alcun particolare entusiasmo
“ciao Bren. Com’è andata in Francia?” sorrise, alzai gli occhi al cielo
e ricambiai il sorriso
“al solito, ho dissotterrato ossa in una galleria sotterranea che
puzzava d’umidità e orina” si avvicinò e mi accarezzò una guancia
“Chèrie, tu devi imparare a vivere!” annuii, non c’era nulla che
potessi replicare.
Mi alzai e la seguii sulla piattaforma del laboratorio dove era stato
posizionato il cranio appena prelevato dalla scena del crimine.
Feci una stima approssimativa dell’età, del sesso e della razza della
vittima. Femmina, sulla trentina, caucasica.
In seguito lo pulii dai tessuti molli attraverso un attento processo di
ebollizione, li consegnai a Cam affinché potesse estrarne il DNA, nel
frattempo feci un calco dentale, lo consegnai a Angela cosicché potesse
controllare nella banca dati delle persone scomparse e, nel caso in cui
non avesse avuto successo, lo consegnasse a Booth perché potesse fare
ulteriori controlli esibendo prepotente il suo distintivo federale.
Mi assicurai che Hodgins avesse ricevuto i campioni di terriccio e gli
insetti e me ne andai, salutando velocemente i pochi presenti convocati
con urgenza nel pomeriggio domenicale.
In meno di mezz’ora arrivai a casa, guardai l’orologio. Le 19.30. Mi
stropicciai gli occhi per contrastare la stanchezza, mi fiondai in
bagno e optai per una lunga e rilassante doccia calda per togliermi il
puzzo della morte dalla pelle e dai capelli.
Quando uscii l’orologio segnava le 20.oo, avvolsi accuratamente il
corpo in un asciugamano rosso e lo fissai appena al di sopra della
linea del seno.
A seguito di un borbottio del mio stomaco mi diressi in cucina e
iniziai a sminuzzare la cipolla per farla soffriggere. Appena assunse
un colore dorato aggiunsi del riso e iniziai a farlo stemperare con del
brodo vegetale. Mi concentrai totalmente sulla preparazione della cena,
cercando di non pensare.
Ma inevitabilmente il campanello suonò. Aprii leggermente la porta e
vidi Booth.
“Che ci fai qui?” borbottai, fissandolo negli occhi con aria di sfida
“Devo parlarti”
“Vattene!”
“no, Bones, non me ne vado” rispose contraccambiando lo sguardo
“riguarda il caso?” lui annuì, così mi feci da parte e lo lasciai
entrare, solo in quel momento ricordai di indossare nient’altro che un
asciugamano che nascondeva a malapena le natiche.
Arrossii e andai in camera dove indossai una lunga vestaglia di seta
nera, intanto continuai a parlare
“allora? Chi era la ragazza?” chiesi
“Paulina Harris, figlia di un gommista che vive in Virginia” tornai in
salotto, Booth si era accomodato su una poltrona come se fosse a casa
sua “suo padre ha confessato l’omicidio, è risultato essere schedato
come individuo pericoloso dopo aver violentato quarant’ anni fa un
ragazzina che credeva fosse innamorata di lui.” Si fermò e sospirò un
secondo, da padre faticava a comprendere come un genitore potessa
togliere la vita la proprio figlio. “ aveva sviluppato un attaccamento
morboso nei confronti della figlia, e non appena lei aveva deciso di
andarsene di casa lui l’aveva uccisa, tenendone il corpo a casa.
Pazzesco, vero?” annuii mentre continuavo a far cuocere il riso
“assurdo” confermai. Poi Tacqui.
“Bones…” inziò lui, mi diressi verso la porta
“Booth, è meglio che tu vada” con un velo di delusione si alzò ed uscì,
sulla soglia si girò e mi fissò in volto pochi secondi
“Sono mesi che continuamo così, Tempe.” Annuii e chiusi la porta.
Non dopo quella discussione, non potevo perdonarlo.
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Capitolo 3 *** CAPITOLO 2 ***
Ecco il terzo capitolo!
Spero piaccia!
Baci!
CAPITOLO 2
Quella notte mi svegliai di soprassalto con la strana sensazione di
aver sognato qualcosa di terribile.
Occhi vacui che mi fissavano, mi accusavano di non essere stata in
gradi di attribuirvi un’identità.
Il mio incubo ricorrente: fallire nel mio lavoro. L’incapacità di dar
dignità alle persone nella morte, dar loro un volto, un sorriso, una
storia.
Scossi la testa, dovevo pensare ad altro e subito la mia mente volò
alla serata appena passata.
Tempe. Mi aveva chiamata Tempe. Aveva posto una silente barriera tra
noi, non ero più ‘la sua’ Bones, solo Temperance, Tempe.
Il mio corpo disteso su lenzuola di cotone rosso fu percorso da un
brivido. Scossi la testa intristita e riaffondai il viso tra i cuscini.
Sapevo che avevamo perso l’alchimia di una volta ed ero anche
consapevole del fatto che mi fosse impossibile recuperarla.
Mi morsi il labbro inferiore, rimuginando.
Se solo quella sera avessi taciuto. Se solo lui avesse taciuto.
Gettai un occhiata rapida alla radiosveglia che lampeggiava della sua
penetrante luce rossa: segnava le 4 e 45.
Dopo qualche vano tentativo di riprendere sonno, mi arresi all’evidenza
e mi alzai.
Armata di una tazza di caffè mi sedetti al bancone della cucina
incapace di fermare la mente dal tornare a rivangare il passato.
Io seduta su uno scalino del tribunale, lui accanto a me che mi offriva
silente conforto. Quelle parole, scivolate fuori dalle labbra come se
gli fosse stato impossibile controllarle, i miei occhi posati sui suoi.
“Bones, le dimissioni…” aveva detto con un filo di voce, io avevo
spostato lo sguardo volgendo alla punta delle sue inappuntabili scarpe
scure
“Ho semplicemente scelto di tornare alle origini, ossa più antiche, il
fascino del passato, Booth. Sono stufa dell’imprevedibilità delle
persone con cui siamo costretti ad avere a che fare, sono stufa di
omicidi, di assassini. Non sopporto più l’odore della morte
putrefacente. Ho bisogno di fare un passo indietro, scoprire la storia,
analizzare le culture del passo. ” la mia voce, un ottava più alta,
irriconoscibile
“smettila, Bones” aveva detto lui alzandosi “stai mentendo!” aveva
continuato col tono accusatorio che usava negli interrogatori, rimasi
in silenzio ma lui non smise di fissarmi.
Maledetti agenti dell’FBI!
“va bene, va bene!” sbottai, la mia voce stranamente rimbombante “sei
tu il problema, tu e nient’altro. Non voglio vederti più.” Mi ero
fermata un istante per guardarlo in faccia ed ero rimasta soddisfatta
dalla sua espressione sbigottita “non posso sopportare di essere
protetta da un uomo che si considera un supereroe.
Booth, saresti potuto morire. Quella pallottola era per me” lui aveva
sbuffato
“Bones, è stato puro istinto, è il mio lavoro”
“Ed il mio lavoro è quello di identificare cadaveri dalle loro ossa,
questo non vuol dire che voglio analizzarle a conformazione del tuo
osso pubico” avevo esclamato, poi con tono più sommesso “non mi sarei
mai perdonata se tu fossi morto”
“Bones..” aveva detto mentre allungava una mano per accarezzarmi. Mi
ero ritratta repentinamente.
“non toccarmi. Non voglio più aver nulla a che fare con te” lui aveva
spalancato la bocca, incapace di rispondere
“la prossima volta, ti lascerò morire” aveva urlato lui, il mio cuore
aveva saltato un battito, avevo scosso la testa e mi ero allontanata.
“Bones” aveva urlato lui quando stavo per uscire dal tribunale “davvero
non riesci ad essere onesta?” mi ero girata pochi istanti verso di lui,
entrambi sapevamo che il problema non era quello. Lo sparo era stato
solo un sintomo di un problema più ampio.
Avevo passato la vita ad estraniarmi dagli altri per raggiungere le più
alte vette d’efficienza, e poi era arrivato lui, cercando di cambiare
tutto, cercando di rendermi schiava di quei sentimenti che sempre ero
riuscita a chiudere fuori. Lui e il suo stupido vizio de
‘il-cuore-prima-di-tutto’ avevano rovinato tutto: aveva aperto una
falla.
“lo so” aveva detto lui a denti stretti
“non sai nulla, non hai mai saputo nulla” io, la voce stridula e i
pugni serrati tanto da rendere le nocche bianche.
Aveva aperto una falla e lo sapeva. Maledizione!
Me n’ero andata, ma senza guardare dietro di me sapevo che anche lui
stava facendo lo stesso.
Avevo conservato il posto al Jeffersonian solo grazie ai pazienti
consigli di Angela e continuavo a lavorare con Booth perché il nostro
terapista, il dottor Sweets, pensava che fossimo un duo vincente.
In quanto a me, non ne ero più così sicura.
La tensione nell’aria era chiaramente percettibile tanto che io e Booth
ci parlavamo appena. Erano lontani i tempi delle lunghe chiacchierate
nel suo SUV, delle risate al bancone di un bar con un paio di shots di
tequila, degli innumerevoli consigli sulle nostre vite private. Erano
lontani in tempi in cui io e Booth eravamo una squadra.
Ritornata al presente poggiai la tazza nel lavandino.
Il trillo del telefono.
“Brennan” risposi
“Ho un cadavere per te. Passo a prenderti fra dieci minuti.” Booth. Di
giorno in giorno la sua voce si faceva sempre più impersonale e lontana.
Poche ore più tardi mi trovavo china su un corpo semiputrefatto.
L’odore acre mi penetrava le narici.
Il corpo presentava ancora una buona quantità di tessuti molli, io ero
stata chiamata perché gli erano stati amputati gli arti.
Analizzai le estremità, là dove dovevano esserci le braccia.
“l’amputazione è avvenuta post mortem” dissi guardando la dottoressa
Saroyan, acuendo lo sguardo continuai “sono stati tagliati con uno
strumento appuntito con lama sottile. Spedite tutto al Jeffersonian!”
ordinai. Mi alzai con le ginocchia indolenzite imprecando leggermente
contro l’età, nostalgica di quando, ventenne, riuscivo a riottenere una
postura accettabile senza che le mie giunture emettessero rumori. Mi
ripromisi di fare più esercizio.
Mi avvicinai sommessamente a Booth
“c’è bisogno di controllare nel raggio di 300 metri. C’è la possibilità
che l’assassino si sia tenuto come souvenir gli arti, ma potrebbe anche
averli abbandonati qui nei dintorni e poi gli animali li potrebbero
aver trascinati lontani dal luogo del ritrovamento”
Lui annuì guardandomi negli occhi, poi, urlando ordini agli altri
agenti del FBI presenti sul posto, si allontanò.
Una volta arrivata in laboratorio mi fiondai nel mio ufficio spulciando
i curricula degli aspiranti assistenti, nessuno era degno di sostituire
Zack. Sweets mi aveva spiegato che, stando a quella pseudoscienza in
cui lui tanto credeva, il mio atteggiamento era un modo per non
ammettere che Zack non sarebbe potuto tornare, stavolta.
“Dolcezza…” alzai gli occhi e vidi Angela sulla porta dell’ufficio.
Portava i capelli scuri raccolti all’altezza della nuca, gli occhi
stranamente appesantiti e sulle labbra un sorriso triste
“Angela, che succede?” chiesi allarmata, lei entrò con aria furtiva
nella stanza e richiuse la porta a vetri dietro di sé.
“Bren, ho deciso di lasciare Jack”, la fissai qualche istante immobile
in attesa che lei continuasse
“dovresti dire qualcosa” mi esortò, sorrisi impercettibilmente
“sai che non sono molto brava in queste cose” borbottai
“chèrie, adesso dovresti chiedermi il motivo” disse mentre gli occhi le
si illuminavano per il divertimento che la mia asettica reazione le
provocava
“ok, perché?” acconsentii
“Sono incinta. Del mio ex. Di Grayson.” di nuovo, non seppi cosa
risponderle.
Sten
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Capitolo 4 *** CAPITOLO 3 ***
Ecco il prossimo!
STEN
CAPITOLO 3
“Ok, le ossa possono aspettare.” Borbottai guardando Angela, per la
prima volta guardandola davvero, sotto la superficie.
Vidi i suoi occhi sottili liberare il triste sentimento della
privazione, e non riuscii più a sostenerli. Vidi le sue labbra donarmi
un finto sorriso rassegnato. E non riuscii più a sostenerlo.
Guardai altrove.
Angela trascinò il suo esile corpo fino al divano porpora dello studio
di quella Temperance Brennan che per la prima volta aveva la
possibilità di comportarsi non più da collega, ma da amica, da
confidente. Non ero il suo capo, il suo superiore o che altro, ero solo
la fantomatica spalla su cui piangere.
Angela chiuse per un istante gli occhi circondati da profonde occhiaie
scure e leggermente arrossati, liberandomi dall’obbligo di doverne
leggere il dolore.
Quando li riaprì erano pieni di lacrime.
“Non so come possa essere successo, Temperance. Pensavo di essermi
sistemata, di essere felice con Jack. E invece sono il solito vecchio
spirito libero. Circa un mese fa, all’insaputa di tutti, ho raggiunto
Birimbau, ero decisa a fargli firmare le carte del divorzio, ma non
appena l’ho visto mi è sembrato di essere tornata indietro nel tempo.
Libera, come alle Fiji. Addirittura mi sembra di sentire l’odore e il
sapore del Kava. Era come se fossi di nuovo là, brilla, spensierata,
prima d’aver a che fare con tutti questi scheletri. Prima di toccare
con mano la Morte.
Stavo così bene” sospirò, poi piegò la bocca leggermente in quello che
faticosamente fui in grado di interpretare come un sorriso
“Non potevo distogliere lo sguardo dai suoi occhi scuri. Mi sentivo
quasi violata dal sublime odore della sua pelle scura.
Non ce l’ho fatta, Bren. Era cosi deliziosamente diverso da Hodgins che
mi sono buttata tra le sue braccia. Abbiamo fatto l’amore in maniera
travolgente, senza aver prima parlato, quasi senza respirare.
Far l’amore con lui è stato incredibile, talmente tanto che sono stata
così stupida di dimenticarmi di tutto. Di Hodgins, del matrimonio…” di
bloccò un secondo quasi faticasse a pronunciare le parole successive “…
e le protezioni”
“beh, è comprensibile. Antropologicamente parlando, il tuo
comportamento non è biasimabile. Hodgins non è certo un perfetto
esemplare di maschio Alpha e…” Angela alzò una mano scuotendo
leggermente il capo
“no, non posso farcela ad ascoltare le tue stronzate antropologiche”
sbuffò esasperata “Brennan, davvero non capisci? Ho una bambino che
cresce dentro di me, un bambino che non è frutto dell’amore che provo
per Hodgins. Non sarà il simbolo dell’amore, sarà l’effetto collaterale
di una scopata. Non voglio che mio figlio sia un effetto collaterale!”
Mi affrettai a sedermi accanto ad Angela poggiandole una mano sulla
spalla, riuscendo a stento a nascondere il disappunto che provavo per
la sua ultima risposta.
“Devi dire tutto a Jack, Angela” mi limitai a dire fissandola
insistentemente, poi sorrisi lievemente “credimi, è l’unica cosa
plausibile”
“ma il bambino…” iniziò lei, poi si bloccò come strozzata dalle lacrime
che dalle guance iniziavano a baciarle le labbra; nello stesso momento
cercai di interromperla, quasi meccanicamente, come facevo a lezione
con i miei studenti
“il feto”, il suo sguardo si fece duro
“Bren, fatti un bagno di sensibilità” si alzò di scatto e se ne andò
dimenticando di far scorrere la porta a vetri fino in fondo. Rimasi a
fissare la fessura per qualche secondo chiedendomi cos’avessi detto di
male. Non lo capii, e mi arresi.
Non potei far altro che tornare al lavoro.
Indossai il camice blu scuro e con passo svelto mi avvicinai alla
piattaforma, dopo aver strisciato il cartellino scrutai i tavoli da
autopsia cercando quello sui cui era stato adagiato il corpo mutilato
trovato solo poco ore prima.
Quando lo vidi rimasi colpita dal suo candore, difficile credere che
quell’ammasso di carne e ossa prima fosse stato un essere umano.
“Dio, Bones. Copri quel coso!” esclamò una voce dietro di me
leggermente ripugnata.
Non era questo l’effetto che ci aveva fatto nella palude in cui
l’avevamo trovato: quello sembrava decisamente il suo posto, l’odore
della morte si mischiava, si intrecciava e danzava con quello
dell’acqua stagnante; qui, invece, steso esanime, monco, in un ambiente
completamente sterile non poteva apparire più fuori luogo.
Mi girai un istante
“Devo ancora iniziare, fin’ ora se n’è occupata Cam, sai, la carne...
Ora tocca a me” dissi infilandomi i guanti con estrema cautela,
cercando di non romperli
“beh” disse lui impallidendo, incapace di distogliere lo sguardo dal
cadavere “allora inizierò con lei, chiamami quando finisci” annuii
mentre tiravo fuori un registratore dal taschino del camice.
Odiavo la parte che riguardava la bollitura delle ossa,
tendenzialemente era compito del mio assistente, ma dal momento che non
ne avevo uno toccò a me l’ingrata mansione.
Con un po’ di riluttanza e qualche ora di attesa, riuscii a predisporre
sullo stesso tavolo dove prima c’erano tessuti molli e fluidi corporei
una serie completa di ossa in ordine anatomico.
Accesi il registratore. Osservai l’osso pelvico.
“Maschio, approssimativamente tra i 22-28 anni” borbottai continuando
ad osservare il bacino dell’uomo, accuratamente poi presi un calco
dentale e lo inserii nel computer con l’intenzione di spedirlo a
Camille e a Angela.
Posi subito i marcatori sul cranio e lo feci portare a Angela in modo
che potessimo avere un identikit della vittima il più presto possibile.
Infine, passai ad analizzare la colonna vertebrale: la maggior parte
delle vertebre presentavano anomalie all’estremità, un deterioramento
dovuto a prolungate infezioni.
Terminai l’esame e spensi il registratore.
“Booth, la nostra vittima aveva la spondilite anchilosante” esordii.
Silenzio dall’altra parte
“arrivo, così mi spiegi di che diavolo stiamo parlando” riattaccò.
Archiviai questa conversazione come una delle più lunghe che avevamo
avuto nell’arco degli ultimi due mesi.
Booth arrivò col fiatone e non potei fare a meno di notare la macchia
di glassa di torta a livello del suo polsino, ciò mi fece constatare
che aveva messo su qualche chilo.
“Che diavolo ha, questo povero Cristo?” chiese fissando il tavolo,
visibilmente sollevato dalla sparizione dei fluidi corporei sia dal
tavolo che dal pavimento e dal canale di scolo.
“La spondilite anchilosante, un tempo più conosciuta come morbo di
Bechterew, è una malattia cronica, infiammatoria e degenerativa della
colonna vertebrale. Ha anche una forma reumatica e colpisce gli uomini
tra i 20 e i 50 anni.
Statisticamente la malattia, stando ai parametri della vittima, avrebbe
dovuto progredire per non più del 7% all’anno.
Qui la malattia era già piuttosto avanzata, aveva già fatto il 50% dei
danni che poteva fare, ergo supportata da questa tesi ti posso
confermare che la vittima aveva non più di 27 anni.
Inoltre, la spondilite anchilosante comporta un irrigidimento della
spina dorsale e del torace, con conseguente malformazioni, promuovendo
dunque così la formazione degli enfisemi polmonari trovati da Cam”
l’agente vestito in doppiopetto di fronte a me strabuzzò un po’ gli
occhi
“mi sono perso a morbo di Birimbau” faticai a trattenermi dal ridere al
suono di quel nome, apprezzando l’ironia del fatto che dopo mesi era la
seconda volta che sentivo quella parola, quel giorno. “ho afferrato
solo che la vittima era un maschio ventisettenne” annuii, alzando
leggermente le spalle
“è tutto ciò che devi sapere, a parte il fatto che forse ci converrebbe
cercare negli istituti per patologie vertebrali generative, e indovina
un po’?” aggiunsi smagliante “ce n’è solo uno in Virginia”.
Sorrise, ricambiai.
Ci battemmo il cinque, spontaneamente, dimenticando la nostra vecchia
lite.
Un brivido mi percorse la schiena quando i nostri sguardi si
incontrarono.
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Capitolo 5 *** CAPITOLO 4 ***
Ecco il nuovo capitolo!
I commenti sono mooooolto graditi!
BACI!
Sten
CAPITOLO 4
Erano passati mesi dall’ultima volta che mi ero seduta nella macchina
di Booth ed ero quasi riuscita a dimenticare la sua guida nervosa.
“Booth” lo chiamai “che ne dici di mettere il piede anche sul freno,
qualche volta? Non abbiamo nessuna fretta” lui mi lanciò un sorriso
malizioso e schiacciò ulteriormente l’acceleratore, sbuffai e scoppiai
a ridere.
Sembravamo due bambini che avevano tacitamente deciso che tutto era
tornato a posto. Poi d’un tratto
“Bones” mancai un battito sentendomi di nuovo chiamare così “mi
dispiace, ho sbagliato. Non avrei dovuto farti pressione in quel modo,
non so cosa volessi farti dire. Scusa.” mi girai leggermente verso di
lui sorridendo
“tranquillo, ti posso capire. Ti ho portato all’esasperazione, mi stavo
comportando come se fossi stata il centro del mondo.” Mi sorpresi delle
mie stesse parole, quasi fossero dettate da un implicita necessità di
tornare al nostro solito rapporto “ho avuto un atteggiamento
completamente irrazionale. Ho sorpreso anche me stessa. Non
preoccuparti, ho esagerato” terminai con un leggero rossore che si
faceva largo sulle mie guance, lo attribuii all’adrenalina per
l’imminente scoperta.
Per un attimo mi sembrò che l’angolo destro delle sue labbra si alzasse
impercettibilmente mentre il suo sguardo scorreva fugace e improvviso
sul mio viso insolitamente colorito.
Poi, immediatamente, cambiò espressione, l’occhio dapprima socchiuso in
una distesa espressione sollevata si aprì, grande e profondo, a
scrutare il paesaggio attorno a noi; le labbra si strinsero in un
impercettibile linea sottile.
Non fu necessario che seguire il suo sguardo per scoprire le radici di
quel suo nervosismo: il centro di cura patologie vertebrali
degenerative per cui tanto avevamo esultato quasi un’ ora prima
sembrava essere abbandonato: nessun movimento al di la’ delle finestre,
nessun rumore se non quelli dell’aperta campagna che ci circondava, il
giardino con l’erba incolta che probabilmente non veniva tagliata da
mesi.
Ci scambiammo un occhiata prima che lui estraesse la pistola.
“il solito, Bones” mi avvertì mentre scendeva dalla macchina, lo imitai
“perché per stavolta non lasci entrare me per prima, questo posto pare
abbandonato non dovrei correre particolari rischi, inoltre ormai sono
diventata un ottima tiratrice” protestai in un sussurro sperando che mi
consegnasse un’ arma mentre continuavamo a camminare verso la casa
“un uomo quasi morto e una pallottola nella mia gamba non fan di te
quel che l’FBI definirebbe una tiratrice provetta” aprii nuovamente la
bocca per ribattere ma mi precedette “ e ricorda Brennan, sul campo
comando io” alzai un sopracciglio in segno di disapprovazione mentre
lui iniziava a forzare la porta d’ingresso dell’edificio
“Oh, guarda Booth” dissi una volta che ebbe finito “ la porta è aperta”
sorrise velocemente, per poi tornare di nuovo allo stato di assoluta
concentrazione che aveva caratterizzato i momenti precedenti
“FBI, stiamo entrando!” urlò mentre con un calcio ben assestato
spalancò la porta.
“c’è qualcuno?” chiese entrando, lo seguii
“Booth, non so se qui ci sia o meno qualcuno” dissi allarmata “ma quel
che so è che qui ci sono dei cadaveri”
“Esci Bones! Chi mai ti ha detto di entrare? torna all’esterno e
controlla le uscite” obbedii, il mio quoziente intellettivo
straordinariamente alto sapeva che per quella volta lui era davvero il
capo.
Pochi minuti più tardi un Booth innaturalmente pallido uscì
dall’abitazione in legno bianco
“Bones, avevi ragione. C’è bisogno di te qua dentro, prendi
l’attrezzatura da Squint e entra. Preparati, sembra di stare in un
macello” risparmiai di ricordargli che avevo lavorato
all’identificazione delle vittime di genocidi in tutto il mondo e che,
in qualche modo, mi ero giù fatta le ossa e rafforzata lo stomaco.
Entrai con passo leggero, quasi per non violentare quel silenzio
pressoché sacrale, mi chinai sul primo cadavere, aveva un braccio semi
mozzato mentre gli altri arti erano stati rimossi con perizia chirurgica
“Donna. Presupponendo una patologia simile a quella del nostro John Doe
numero uno, al momento del decesso doveva avere 32 anni.” Mi fermai per
prendere fiato tramite la mascherina, Booth mi aspettava sulla porta
“come lo sapevi?”
“come sapevo cosa?” chiesi
“che avremmo trovato questo” spiegò con un filo di voce mentre deglutiva
“l’odore. Vedi Booth, l’olfatto di ognuno di noi è più sensibile a
certi odori piuttosto che ad altri. Io conosco meglio i cadaveri degli
essermi umani, lavoro con loro per più di 13 ore al giorno, li respiro
costantemente.
La morte ha un odore diverso da qualsiasi altro, è inconfondibile.
Impregna debolmente l’aria, ma lo fa in una maniera innegabile. Il suo
odore dolciastro si trasforma rapidamente in fetore non appena
riconosciuto, una volta che colleghi l’odore a ciò a cui realmente
corrisponde. Il definitivo degrado della vita” raramente mi concedevo a
lunghe chiacchiere mentre esaminavo i cadaveri, quella volta però era
diverso, per la prima volta vidi Booth, l’ex cecchino dell’esercito che
aveva sparato ad un uomo alla festa di compleanno del figlio,
completamente scosso.
“qui dentro fa caldo, l’odore è insopportabile. Esco, chiamo l’FBI e la
tua squadra del Jeffersonian” annuii e passai ad analizzare il secondo
cadavere.
Prima ancora che arrivassero i rinforzi avevo determinato i parametri
generali di sei corpi semi mutilati e semi scheletrizzati.
“Booth, qui è successo qualcosa di grosso” dissi allarmata uscendo
dalla porta per una pausa “ Nessuno dei cadaveri che ho analizzato oggi
può avere la data di morte in comune con un altro: sono stati uccisi e
mutilati a distanza di giorni” sussurrai quasi.
Mi sedetti sui gradini della veranda attendendo il resto della squadra,
tolti i guanti mi passai le mani sul viso facendole poi scorrere tra i
capelli. Tutta questa morte era troppa anche per me, aveva ragione
Booth, lì dentro sembrava un macello.
Rimasi lì un po’, immobile. Io. Booth. Un braccio sicuro attorno alle
mie spalle.
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Capitolo 6 *** CAPITOLO 5 ***
ecco qui il prossimo!
Se qualcuno legge mi faccia sapere xD
Sten
CAPITOLO 5
“E questo è quanto, ora, se mi volete scusare, ho l’ultima vittima da
esaminare.” borbottai respirando l’aria madida di tensione che
impregnava il mio studio al Jeffersonian.
Avevo appena terminato di spiegare alla mia equipe cosa fosse
esattamente successo a quei corpi.
La prima, una donna attorno alla trentina di nome Rose Fillings, era
stata brutalmente malmenata per giorni prima che incontrasse la morte.
Aveva riportato fratture ante mortem che avevano già iniziato ad
autoripararsi. Gli arti mancanti le erano stati asportati nei giorni
seguenti.
Lo stessto conclusi delle altre vittime.
Jack Fluth. Andrew Morkol. Victoria Steinfiel. Katherine Hook. Jason
Black. Alfred Colbridge, la prima vittima ritrovata.
Sette persone brutalmente uccise in un istituto di cura per patologie
vertebrali senza che nessuno s’accorgesse di nulla.
Appena strisciai il badge magnetico all’inizio della pedana sentii una
leggera pressione alla bocca dello stomaco per qualcosa che avevo solo
sfuggevolmente visto ma che il mio cervello avevo registrato.
La vittima era stata trovata completamente decomposta stesa sul
pavimento della soffitta, proprio al centro di una vastissima
pozzanghera di sangue essicato.
Rabbrividii contemplando l’ipotesi che già sapevo essere vera. Mi
avvicinai al cadavere osservando attentamente ciò che del femore era
rimasto.
L’estremità aveva assorbito il sangue fino ad assumere un colorito
porpureo. Brivido. Ed era lievemente levigato al’estremità. Respiro
profondo e accesi il registratore.
Descrissi la scena per qualche istante poi “ La vittima SM3267 era
ancora in vita quando le è stata amputata parte dell’arto inferiore
sinistro –compresa parte del femore –, conseguentemente la parte è
stata cauterizzata con ferri roventi. La vittima è deceduta due
settimane dopo l’operazione in seguito ad una tardiva infezione della
parte. SM3267 rimane privo di identità”. Appoggiai il registratore.
SM3267 aveva sofferto? Decisamente sì.
Mi toccai irrazionalmente la gamba sinistra e non potei far a meno di
chiedermi se la vittima aveva sofferto del fenomeno dell’arto fantasma
o se il dolore per l’infezione e la cauterizzazione era così forte da
sovrastare qualsiasi altra reazione.
Mi obbligai a rinsavire da quella digressione mentale lontana
dall’olezzo di morte; con precisione chirurgica appoggiai i marcatori
al teschio e chiesi ad Angela di tentare un’ identificazione. Io avevo
un compito ben più ingrato da assolvere.
*
“Abitano qui?” chiesi fissando una maestosa casa dalle tinte pastello
con un immenso giardino in cui in quel momento correvano due Golden
Retriever. Annuì e, come sempre in quelle circostanze, mi raccomandò
sensibilità e possibilmente silenzio.
Con tocco incerto della mano suonò il campanello una volta quasi
timoroso di ricevere risposta.
“Sì?” chiese una voce vagamente metallica
“Agente Booth e Dott.sa Brennan, FBI” si annunciò. Lanciai due colpi di
tosse in disappunto ma non lo contraddisi.
Non ci fu chiesto di mostrare il distintivo. Il cancello si aprì e una
donna scheletrica avvolta in un tailleur rosso ci accolse sul vialetto
principale, dopo che ricevette la notizia della morte del fratello
Victor si accasciò nel divano quasi sparendone tra le pieghe.
Nulla di utile da riferire. In quegli utlimi mesi non era andata a
trovarlo in clinica perché aveva avuto molto da fare con le recite
delle sue due figlie di sette e dieci anni.
Ci congedò incapace di muoversi dal suo tiepido nascondiglio.
“che ne pensi?” mi chiese non appena salimmo in macchina
“Trovo irrazionale la sua rezione” mi limitai a rispondere fissando i
cani che rincorrevano una palle multicolor “tu?” sovrappensiero. Non mi
interessava realmente.
“credo che menta. Troppa disperazione per un fratello abbandonato in
uno spizio per handicappati” borbottò rude lui
“Diversamente abili” lo corressi con l’ultimo eufemismo in vigore dopo
che l’ultimo aveva perso la sua sfumatura attenuativa.
Fuori disabile, dentro il politicamente corretto.
Antropologicamente non faceva una piega.
“e comunque è una struttura ideale per persone con problemi motori
simili, possono essere seguiti e compiere i loro esercizi giornalieri
senza sentirsi un peso per la famiglia. Per chi è affetto dalla
spondilite anchilosante, l’esercizio fisico è indispensabile per
conservare anche solo in parte la loro capacità motoria” conclusì
banale, fece schioccare la lingua contro il palato. Perplesso.
“sì, ed erano al sicuro, vedo”. Ironia.
Alzai un sopracciglio, involontariamente l’angolo sinistro delle labbra
si alzò in un nostalgio sorriso.
Mi era mancato.
Rude e gentile. Saggio e incredibilmente pieno di pregiudizi.
Influenzante e influenzato.
Eccolo, era tornato. Era lui, il mio ossimorico collega, il tempo non
l’aveva cambiato.
Sorrise allo specchietto retrovisore mentre osservava il suo riflesso.
Sì, eravamo decisamente una bella squadra. Una squadra che era stata in
grado, solo battendosi la mano, di dimenticare mesi di silenzio e
rancore.
Decisamente una bella squadra.
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Capitolo 7 *** CAPITOLO 6 ***
Ecco il sesto capitolo!
E' un po' macabro, ma che ci volete fare?
Se non sono estrema non sono contenta xD
Fatemi sapere, Sten
(vorrei precisare che non è una ff a più mani, ho sbagliato a clickare
quando ho creato la pagina e non so più come rimediare xD)
CAPITOLO 6
Il sole filtrava prepotente attraverso l’opaca finestra della clinica,
lasciando che la sua luce si proiettasse dritta nei bellissimi occhi
castani della ragazza che sedeva, quasi raggomitolandosi, su una
angusta sedia blu.
Angela non ci badò.
Io badai ai suoi occhi.
Il castano brillante era stato sostituito da una patina di tristezza
che assassinava ciò che di bello c’era nella mia amica.
“Angela, non devi farlo, se non te la senti” una frase completamente
vera, anche dal punto di vista antropologico. In fondo, l’interruzione
di una gravidanza era la cosa meno contemplata dalla natura e da molte
civiltà se non da quella moderna.
La mia opinione? Beh, diciamo solo che credo nel’evoluzione
intellettuale dell’uomo.
“Brennan, devo” annuii, in fondo la capivo.
“sicura di non volergliene parlare, prima?” la incalzai
“No, non posso perderlo”. La determinazione di Angela nel tener
all’oscuro l’entomologo di tutta la faccenda della gravidanza mi aveva
lasciato, da un lato, sbigottita, dall’altro squisitamente ammirata: mi
ero trovata di fronte una Angela meno Booth e più Brennan, più
razionale che emotiva.
Sorrisi per due secondi al pensiero che ero stata io a consigliarle di
parlare con Hodigins e non potei far altro che imputare la mia frase
all’influenza di Booth.
“Angela Montenegro” chiamò l’infermiera uscendo da una porta di metallo
verniciata in turchese, Angela mi strinse la mano e si alzò. Una
lacrima scendeva sul suo viso.
*
“Mangia qualcosa” dissi portando una ciotola con dello Jogurt alla
pesca, Angela era stesa tra le coperte di seta nera del mio letto
“Grazie” disse allungano le braccia, con un sorriso timido sulle labbra
“Non sarei riuscita a star sola” ricambiai il sorriso
“beh, ora devi pensare a come dirlo” alzai un sopracciglio “non potrai
tenerlo nascosto per molto.” Angela si toccò la pancia, un tocco
leggero e veloce
“non ora, Bren. Non ora” borbottò prima di scivolare in una tiepida
sonnolenza.
Il cellulare interruppe il momento, costringendomi ad alzarmi, risposi
“Brennan”
“Bones, abbiamo gli arti” sgranai gli occhi
“Arrivo” lasciai le chiavi sul tavolino e un biglietto in cui invitavo
Angela a fermarsi per quanto volesse, poi scesi e accesi la mia auto.
Raggiunsi il Jeffersonian venti minuti più tardi, Booth mi aspettava.
“dove sono?” con foga, mentre salivo sul SUV
“nel bosco dietro alla casa, disposte secondo uno schema particolare,
pare un rituale” concentrato sulla strada come poche volte l’avevo visto
“ti ricordi quando hai lavorato con Sully?” tutto d’un fiato, come se
avesse usato tutte le energie per pronunciare quelle poche parole
mi voltai sorpresa dalla domanda, annuii
“dove vuoi arrivare?” indagai
“avevi preso una giornata di ferie” puntalizzò lui, pareva stizzito
“tecnicamente non lavoravo più con lui” infastidita
“Beh, insomma. Non lo fai mai”
“A volte ne ho bisogno anche io” mi spazientii
“se non fosse partito, se io non fossi rientrato al lavoro e lui fosse
rimasto il tuo partner, sarebbe successo qualcosa tra voi?” lo fissai
“scusa?” arrossì leggermente
“Cercavo di fare conversazione, non volevo intromettermi” disse
“Si, sarebbe successo” affermai, quasi a dargli un contentino
“Antropologicamente non siamo fatti per resistere troppo ai nostri
istinti, siamo animali, in fondo” annuì velocemente.
Fermò il SUV e, senza una parola, scese e si addentrò nel bosco
“Booth, fermati” gli ordinai, si girò sempre con le labbra serrate
“Dove volevi andare a parare?” mi avvicinai
“Te l’ho detto cercavo di parlare un po’, era tanto che non lo
facevamo” fece per girarsi, lo fermai prendendogli un braccio. Il mio
viso a meno di dieci centimetri dal suo
“Booth!” lo rimproverai, in cerca della verità
“Bones” sbuffò lui alzando gli occhi al cielo “e pensare che sei la
persona con il quoziente intellettivo più alto che io conosca”
sorridendo, i centimetri erano ormai cinque.
Continuai a non capire.
“Portami dalle ossa” esclamai sorridendo.
Lui annuì tornando a farmi strada nella boscaglia. Un passo stranamente
pesante.
Da lontano iniziai a scorgere qualche poliziotto che girovagava armato
di una tazza di polistirolo contenente caffè
“ci siamo quasi” mi disse arrampicandosi su una piccola collinetta
Le ossa di gambe e braccia erano disposte in una forma pseudo circolare.
Seppi esattamente a che tipo di rituale ci trovavamo davanti.
“Booth” quasi allarmata “ siamo davanti a un gruppo di fanatici
convinti di riportare in vita i morti” alzò gli occhi al cielo
“beh, questa ci mancava” rispose lui stizzito.
Mi chinai ed iniziai ad analizzare le ossa.
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Capitolo 8 *** CAPITOLO 7 ***
Ecco il prossimo, questo è nuovissimo.
A me personalmente piace molto perché non vedevo l'ora di scrivere di
questo incontro.
Ci tengo tantissimo a sapere che ne pensate.
Grazie mille in anticipo!
CAPITOLO 7
“Ne avevo letto in un vecchio libro sul Voodo: questi stregoni
distribuivano le ossa in un certo modo, le cospargevano di un composto
complesso fatto di erbe e residui di pesce palla, in seguito, con un
complesso rituale, riuscivano a resuscitare i morti.” spiegai
sommariamente a Booth durante il viaggio di ritorno verso il
Jeffersonian
“riuscivano a resuscitare i morti?” chiese perplesso, alzando
lievemente il sopracciglio destro
“in realtà la cosa non è assurda come sembra” spiegai “ La polvere che
cospargevano sulle ossa è la stessa che somministravano alle vittime.
Nella polvere era presente quello che gli stregoni Voodo chiamavano
rospo marino, il Fogu giapponese e, come ti ho anticipato, il nostro
pesce palla” sospirò
“Bones, la versione per principianti, ti prego” borbottò. Alzai le
sopracciglia e sorrisi
“ok, ok. Insomma -continuai- il pesce palla ha nella pelle, nel fegato
ed in altre parti un potentissimo veleno: la tetradotoxina il cui
effetto è uno stato di paralisi totale e provoca quella che definiremmo
una morte apparente”
“Shakespeariani questi stregoni però” ironizzò lui
“Sia santificata l’evoluzione!” esultai “sei passato da Sports
Illusrated a Romeo e Giulietta?” scoppiò a ridere.
Restammo in silenzio per qualche istante poi:
“Sei incredibile!” disse con un sorriso quasi abbozzato ad illuminargli
il volto, mi voltai impercettibilmente verso di lui
“pochi giorni fa mi hai cacciato da casa tua quando ho cercato di
parlare di quello che stava succedendo, o meglio non stava succedendo,
tra noi ed oggi riesci a scherzare come se nulla fosse successo” non
capivo dove volesse arrivare, continuò “qualcosa è successo, per me
qualcosa è cambiato. Io ho capito che non ce la faccio senza averti
accanto” quasi un sussurro, sorrisi tranquillizzandomi e lo interruppi
“Sì, l’FBI non avrebbe potuto trovarti un’ altra partner capace come
me” confermai annuendo “il mio quoziente intellettivo e il mio
bell’aspetto non sono una combinazione così semplice da riscontrare”
scoppiò a ridere, una risata condita con una punta d’amarezza che non
riuscii a comprendere
“Bones, hai proprio ragione” esclamò “il tuo quoziente intellettivo è
decisamente troppo alto”, gli tirai un leggero pugnetto a livello del
bicipite destro e sprofondai il capo nell’ampio sedile del SUV scuro.
Pochi minuti più tardi avevo indossato il camice bluastro ed ero china
sugli arti amputati, gli animali e il caldo crescente li avevano
velocemente scheletrizzati eppure le ossa che mi accingevo ad
analizzare erano completamente ricoperte di un qualche composto
rispetto al quale già avevo formulato un’ ipotesi.
Estrassi il registratore, tolsi i guanti, registrai il mio nome, data e
descrissi le ossa concentrandomi sulla maniera in cui erano state
amputate. Poi passai a registrare le prime ipotesi che ero in grado di
formulare rispetto all’appartenenza delle braccia e delle gambe
riscontrate.
“Infine le ossa sono interamente cosparse di una sostanza grigiastra,
chiaro segno di una continua esposizione a animali e calore per un
periodo di circa due settimane prima che vi venisse applicato il
composto, probabilmente per scopi rituali”.
Spensi il registratore, e chiamai Booth
“questo caso si fa sempre più complicato” esclamai “pare che abbiano
ucciso gli occupanti della struttura in momenti diversi per poi
conservarne gli arti in maniera minuziosa, fino al momento in cui non
han deciso di estrarli e esporli al sole per ripulirli dai tessuti
molli. Solo allora li han coperti di quel composto, a proposito, ne ho
mandato un campione ad Hodgins per capire di cosa è fatto” sbuffò
“dovrei essere abituato alla follia della gente, eppure non smetto mai
di sorprendermene. Pare proprio che i pazzi sanguinari si nascondano
ovunque” smisi di ascoltare.
Stava forse facendo riferimento a Zack? Zack non aveva ancora ucciso
nessuno, ma presto o tardi l’avrebbe fatto se non l’avessimo preso.
Scossi la testa, Booth aveva ragione: quel lavoro uccideva dentro,
sterminava la fiducia verso gli altri anche verso le persone più vicine.
“Bones! Bones!” mi chiamò
“Scusa, mi ero distratta” mugugnai
“allora, ne parliamo a cena?”
“sì, alle 9 al Plume” dissi
“solo se offri tu”
“questa cosa si sta facendo imbarazzante, Booth” dissi ridendo
“Ricordami di non scrivere più libri di successo se voglio che qualcuno
provi ancora ad offrirmi la cena” guardai l’orologio “Booth, devo
proprio andare. A più tardi!” appoggiai il telefono, agguantai la borsa
e uscii in fretta e furia dal laboratorio.
Alzai una mano e fermai un taxi
“4228 Winsonsin Avenue, per piacere” ventitre minuti e nove chilometri
dopo scesi.
Mi fermai qualche istante a fissare la scritta “Psychiatric Institute
of Washington”, respirai a fondo ed entrai.
Pochi minuti dopo stavo lasciando ad un poliziotto tutto ciò che poteva
essere usato per far del male a me o agli altri.
“mi segua, Dottoressa Brennan” mi disse una guardia vestita di bianco,
annuii “si sieda qui” continuò aprendo una porta “lui arriva subito” mi
sedetti sulla sedia d’acciaio che mi aveva indicato l’uomo, accavallai
le gambe lisciando leggermente il pantalone beige all’altezza della
coscia. Mi guardai intorno. La stanza era buia, odorava d’umido ed era
spoglia di tutto se non del tavolo e le due sedie che lo circondavano.
Mi alzai e mi avvicinai alla minuscola finestra alla mia destra, la
vista del muro di cinta che circondava la costruzione non riuscii a
distendermi i nervi
“dottoressa?” una voce incredula risuonò per la stanza, sorrisi prima
ancora di girarci
“Zack!” esclamai sorridendo, feci cenno alla guardia di lasciarci soli
“dotteressa Brennan, che ci fa lei qui?” sorpreso, le labbra piegate
leggermente in un sorriso
“pare che io sia l’unica che ancora non è passata a trovarti. Ho deciso
che forse era arrivato il momento” annuì e si sedette
“sai” iniziai “non ho ancora trovato nessuno in grado di sostituirti”
“Dottoressa, non troverà molti assistenti in grado di mantenere i miei
standard” rimase zitto pochi istanti, poi abbassando la voce “pensavo
davvero di non sbagliare quando seguivo il Maestro” suonava come un
tentativo di chiedere scusa, lo fissai intensamente negli occhi
“la nostra razionalità a volte ci gioca brutti scherzi, mi dispiace che
tu abbia fatto un errore ma conosco la tua buona fede, Zack. Purtroppo
quando hai ucciso quell’uomo hai oltrepassato il limite, ci hai
impedito di salvarti da tutto questo” dissi facendo zampillare gli
occhi da un lato all’altro della stanza, impallidì leggermente
“Che c’è, Zack?” scosse la testa “Zack!” lo rimproverai “non lavori più
per me, ma abbiamo sempre avuto un rapporto molto diretto, manteniamolo
tale”
“non ho accoltellato io quell’uomo” spalancai gli occhi, sorpresa
“ho solo detto a Gormogon dove trovarlo” mi strofinai la fronte con il
palmo della mano
“oh, Zack!” imprecai.
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Capitolo 9 *** CAPITOLO 8 ***
Eccomi, sono resuscitata!
Ora posto l'ottavo capitolo però vi dico subito che non sono neppure
riuscita ad iniziare il nono quandi non so quando riuscirò a postare il
prossimo.
fatemi sapere che ne pensate!
CAPITOLO 8
A Washington ci sono due ristoranti dal nome pressoché identico, il
Plume e il Plumes. Quest’ultimo è un lussuoso ristorante minimalista
dal soffitto bianco e totalmente laccato di bianco e nero, il menù
copre un ampia gamma di cucine includendo elementi della cucina
francese fino ad arrivare alla cucina marocchina, il tutto servito da
impeccabili camerieri dal papillon rosso in piatti straordinariamente
elaborati.
L’altro ristorante, il Plume, è quasi una tavola calda. Ha tavoli in
legno e panche al posto delle sedie. I camerieri vestono casual e i
piatti sono molto semplici. In compenso è un posto intimo, dove
chiunque può sentirsi a proprio agio e non pesa troppo sul portafoglio.
Era proprio in questa piccola tavola calda che io e Booth avevamo
appuntamento. Guardai l’orologio. La lancetta corta aveva
abbondantemente superato il numero nove e quella più lunga si trovava
in prossimità del numero sei. Quasi le nove e trenta. Imprecai
spingendo la porta badando a non bagnarmi con l’acqua che scivolava
inesorabile dal mio ombrello scuro.
Vidi subito Booth seduto ad un tavolo di fronte alla vetrina. Mi
avvicinai a passo veloce
“Scusami per il ritardo. Fuori il tempo mi è avverso” sorridendo,
scosse la testa con l’angolo sinistro delle labbra leggermente alzato e
alzò gli occhi al cielo
“Bones, sei una pessima bugiarda” mi strinsi nelle spalle. Beccata!
“maledetti agenti del FBI” scherzai “non ve la si può mai fare”
radrizzò la schiena, si schiarì la voce e socchiudendo gli occhi
esclamò
“non si scherza con noi, baby” scoppiai a ridere e gli lanciai un
tovagliolino di carta rossa. In quell’istante arrivò la cameriera
“cosa vi posso portare?” non potei fare a meno di notare la macchia di
rossetto rosso su incisivo.
Io scelsi un vegeburger con contorno di insalata e carote, una porzione
di patatine fritte e dell’apple pie per terminare, lui un hamburger con
patatine fritte, anelli di cipolle e una fetta di torta alle noci.
“allora” iniziai “sei riuscito a scoprire qualcosa in più?”
scosse la testa leggermente
“poiché non han lasciato nessuna traccia biologica ci stiamo muovendo a
tentoni, abbiamo messo gli occhi addosso a coloro che sono stati
arrestati per crimini correlati e stiamo facendo una ricerca su
internet per vedere chi cura siti sull’argomento” roteò un istante gli
occhi “insomma” concluse “siamo ad un punto morto, per ora. Ci vorrebbe
un miracolo. Voi del Jeffersonian invece? Scoperto qualcosa?” mentre la
cameriera posava i piatti al tavolo con un cordiale sorriso mi strinsi
nelle spalle
“Hodgins ha confermato il mio sospetto sul pesce palla e mi ha
informato che le erbe usate sono erbe acquistabili in qualsiasi
erboristeria. Di fatto mi ha assicurato che è impossibile risalire al
negozio o al paese in cui son state comprate”
“Non ci rimane che sperare nel fato” schioccai la lingua
“tu forse!” sorridendo “io e il mio team siamo troppo bravi per
affidarci al destino” storse la lingua
“complimenti per la modestia, Bones”
“conosco le mie capacità”.
Diede un morso al suo Hamburger facendosi cadere sulla cravatta nera
una striscia di ketchup
“scommetto che Parker ti chiede di indossare la bavaglia quando esci
con lui” scherzai “mangi come un bambino.” sorrise del Suo sorriso.
Quel sorriso lieve, accennato solo da un lato della bocca, senza
mostrare i denti e socchiudendo gli occhi. Un sorriso che mi era
mancato da morire per mesi.
“che hai da fissarmi?” chiese incuriosito
“pensavo al tuo sorriso” accennai, correggendomi poi subito dopo, quasi
senza prendere fiato cercando di impedirgli di pensare “ la tua
struttura ossea...” mi bloccò
“lo so, lo so. Lo hai già detto ho un’ ottima struttura ossea e
antropologicamente blah blah blah” sbuffai
“quando capirai l’importanza dell’antropologia, Booth?”
“quando tu capirai che non tutto può essere vissuto con razionalità”
annuii e tornai ad addentare la mia cena.
Non sapeva quanto si sbagliava. Se c’era una lezione che avevo imparato
negli ultimi mesi era che non ero più l’essere razionale che ero quando
avevamo iniziato a lavorare insieme.
Booth e io non ci parlavamo più e irrazionalmente non avevo interrotto
i rapporti di lavoro, Zack aveva favorito uno spietato serial killer e
io continuavo a volerlo a lavorare con me. No, la Temperance di pochi
anni prima non l’avrebbe mai fatto.
Forse io avevo capito che non tutto è razionale e forse lui aveva
capito qualcosa del mio mondo.
Gli ultimi anni erano stati anni di scambio, un gioco di dare e riceve
continuamente, una sorta di danza intellettuale.
“Bones, ma che hai ultimamente? Ti distrai con una facilità
incredibile!” mi massaggiai il braccio destro con il palmo della mano
sinistra
“forse non avevi del tutto torto prima, quando dicevi che sono una
pessima bugiarda” borbottai. Sguardo interrogativo, ripresi fiato e
continuai “non ero in ritardo per via del tempo, sono stata da Zack”
spalancò la bocca e poi la richiuse come se le parole gli fossero
rimaste incastrate tra le corde vocali.
Lui non capiva che quello di Zack era stato un errore di valutazione,
che Zack non voleva far del male. Lui non sapeva che le mani di Zack
non erano macchiate di sangue.
“oh, non fare quella faccia, Booth!” sbottai “non puoi generalizzare in
questo modo! E’ Zack, accidenti, non un criminale qualunque” fece
roteare gli occhi lentamente, per un paio di secondo
“rimane un criminale!” esclamò, la vena sul collo pareva premere per
uscire curiosa di vedere il mondo
“perché ti scaldi tanto?” chiesi appoggiando la forchette che avevo in
mano nel piatto quasi lanciandola “Angela è andata a trovarlo. Hodgins
è andato a trovarlo. Addirittura la Dottoressa Soroyan è andata a
fargli visita e Sweets lavora con lui. Per loro non ti sei scaldato,
che diavolo ti prende?” abbassò la voce, arrossendo leggermente sulle
gote
“Mi preoccupo per te”
“ci risiamo?” chiesi “mi pare di averti già detto di saper badare a me
stessa” poi scrollai le spalle, facendo un respiro profondo e
recuperando la calma aggiunsi “Davvero Booth, non c’è nulla di cui
preoccuparsi”
“quando sei arrivata eri turbata quasi quanto lo eri il giorno in cui
abbiamo individuato il ruolo di Zack nel caso Gormogon. Non posso
crederti se mi dici che non c’è nulla di cui preoccuparsi” sorrisi
lievemente
“in realtà ho una buona notizia di cui ti volevo parlare”
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Capitolo 10 *** CAPITOLO 9 ***
Eccolo, scusate l'attesa. Non è gran ché, ma il prossimo l'ho ben in
mente, con una piccola sorpresa.
CAPITOLO 9
Rise sonoramente mentre addentava la sua torta, incurante del fatto che
i suoi pantaloni erano inondati da briciole marroncine
“ok, sei decisamente da internare!” esclamò, dischiusi leggermente le
labbra e feci schioccare la lingua contro il palato
“che c’è?” chiesi “non hai bisogno di una vacanza?”
“una vacanza a Boston? cosa c’è sotto?” sorrisi, quasi maliziosa
“potrei aver bisogno di te una volta là” elusiva
“Bones!” mi rimproverò, sbuffai
“ho bisogno che tu sventoli il tuo badge davanti a qualche avvenente
receptionist” alzò il sopracciglio sinistro, allusivo
“sei consapevole di quanto suoni male questa frase vero?” aggrottai le
sopracciglia e arricciai le labbra
“no” alzò ulteriormente il sopracciglio “ah!” continuai spalancando gli
occhi “tu hai colto un riferimento fallico. Davvero maturo, Booth!”
risi e poi mi portai alla bocca l’ultimo pezzo di torta
“non possiamo partire nel bel mezzo di un caso” puntualizzò, scossi la
testa
“ormai è deciso, ti han già dato le ferie e io ho prenotato”
“ma come? non ho mai chiesto...” sorrisi mostrando leggermente la
lingua, furba “Bones!” urlò, quasi paterno.
*
Tornata a casa mi sedetti al computer. Booth mi aveva avvertito che
l’FBI stava facendo ricerche sul Web e mi era parsa una buona idea così
apri Google e digitai: ‘riportare in vita i morti, fogu’
Sullo schermo comparve un’ immagine a fondo bianca con delle scritte
blu: un elenco di siti, prevalentemente raccontavano la storiella degli
stregoni Voodo che io stessa avevo raccontato a Booth pochi giorni
prima.
Scorsi le pagine, arrivata alla nona stavo per arrendermi quando il mio
cervello sussultò leggermente. Sapevo di dovermici fermare ed
analizzarla, avevo già visto qualcosa dovevo solo riuscire a
sintonizzare i miei occhi e il mio cervello. E poi lo vidi.
Era un forum, sfondo blu scuro e scritte turchesi. Le parole ‘The Magic
Den Forum’ capeggiavano. Un topic attirò la mia attenzione con il suo
titolo che recitava ‘riportare in vita i morti’, lo aprii.
L’autore del post era un utente che si firmava con nome di Nagikir,
chiedeva se esistesse un modo per riportare in vita i morti e quanto
fosse pericoloso l’eventuale rituale utilizzabile a quello scopo.
Alcune delle risposte non erano altro che moniti sul quanto fosse poco
saggio disturbare i defunti, altre erano delle semplici testimonianze e
descrizioni di rituali da loro compiuti tentando di compiere questi
riti. Molti sostenevano di non essere riusciti a portare a termine il
rituale per via del grosso quantitativo di energia necessario, altri
sostenevano di essersi spaventati di fronte al fatto che i morti
avrebbero necessitato di qualcosa in cambio, per altri ancora il
rituale era addirittura riuscito. Niente di utile per l’indagine. Solo
un gruppo di esaltati con qualche difficoltà nello scindere realtà e
finzione.
Rimasi sorpresa da quante persone credevano in queste cose. Con un
nuovo senso di inquietudine salvai la pagina nei segnalibri
promettendomi di tenerla d’occhio poi, esausta, mi gettai a letto
dimenticano ogni qualsivoglia forma di cura serale.
Lo pagai la mattina seguente: mi svegliai con il mascara che
m’intorpidiva le palpebre impedendomi di aprire agilmente gli occhi, la
bocca impastata più del solito e i vestiti della sera prima ancora
indossati.
Cercando di rimediare dimenticai di tener d’occhio l’orologio e arrivai
in ritardo al Jeffersonian.
Angela era nel suo studio impegnata nella ricostruzione del volto dello
sconosciuto SM3267, bussai battendo tre volte le nocche sullo stipite
della porta
“posso?” chiesi intimidita, annuì “ti ho portato del caffè” esordii
“l’ho detto a Jack” fredda, diretta, distaccata. Non da Angela. Si
stava estraniando da ciò che stava succedendo, chiaro segno del fatto
che le cose non stavano andando nel migliore dei modi. Continuò “se n’è
andato senza dire una parola ed oggi non è venuto al lavoro. Credo sia
davvero finita.” non staccò gli occhi dal cranio scheletrizzato che
teneva in mano mentre lo puliva con tocchi leggeri di pennello
“Angela mi dispiace davvero” per la prima volta mi guardò mostrandosi
vulnerabile, gli occhi gonfi e segnati di rosso
“grazie” sussurrò “sei stata la prima a non dirmi che sarebbe tornato
tutto a posto. Avevo bisogno di un po’ di sincerità” mi strinsi nelle
spalle, non comprendendo a pieno perché la gente si ostinasse a
mentirle. Pochi secondi dopo si era già riconcentrata su SM3267
mettendo ben in chiaro che il nostro colloquio era da ritenersi
terminato.
Le appoggiai il caffé accanto e uscii con passo veloce dalla stanza
“Dr. Soroyan, sa qualcosa di Hodgins?” chiesi incrociandola nel
corridoio principale dell’istituto. Scosse la testa
“non ha avvisato”
“troviamolo!” quasi un ordine “non può lasciare che i suoi problemi
personali influiscano sul suo lavoro” mi accorsi solo mentre
pronunciavo queste parole che tenevo le mani chiuse a pugno, le notte
bianche e le unghie conficcate nel palmo.
Annuì
“ha perfettamente ragione, Dottoressa” si allontanò ondeggiando
elegantemente nelle sue Christian Louboutins.
Andai a sedermi alla mia scrivania, raccolsi tutti i documenti sul caso
su cui stavamo indagando e li misi in una ventiquattr'ore color mogano.
Poco dopo estrassi il telefono e composi il numero di Booth
“ho raccolto tutto il materiale. Oggi lavoro sull’identificazione di un
corpo rinvenuto nell’africa settentrionale, ci vediamo a casa mia alle
5?” sbuffò
“La prossima volta che decidi di farmi guidare 9 ore, avvisami per
tempo!” risi sonoramente
“ho comprato oggi due biglietti aerei per questa notte”
“grazie a Dio!” sollevato
“no, grazie a me!” ovvia.
DITEMI VOI
baci,
Sten
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Capitolo 11 *** CAPITOLO 10 ***
SCUSATE il ritardo!
Sto preparando un paio di esami e mi sento in colpa quando faccio altro
nonostante lo studio non sta funzionando molto. xD
Però il capitolo è pronto, spero piaccia!
CAPITOLO 10
“I signori passeggeri sono pregati di mantenere le cinture allacciate
finché l’aereo non si sarà completamente fermato. US Airways vi
ringrazia di aver volato con noi” guardai l’orologio che segnava le
4:54 e svegliai Booth scuotendolo leggermente. Si pulì l’angolo destro
della bocca dalla saliva con il palmo della mano e con la voce
impastata mi chiese cosa volessi
“Siamo arrivati a Boston” annunciai, sbadigliò
“ancora non capisco perchè tu abbia voluto partire a queste ore della
notte” scrollai le spalle
“amo vedere le città illuminate che sfidano il buio imposto dalla
natura, muovermici, esplorarle al buio, annusarle quando non son sature
dello smog” alzò un sopracciglio
“e tutto questo lo vuoi fare nel tragitto tra l’aeroporto e l’hotel?”
mi strinsi nelle spalle
“beh, abbiamo il check in alle 11” annunciai, spalancò gli occhi e si
alzò di scatto. Percepii chiaramente l’imprecazione ‘Al diavolo’ mentre
toglieva il bagaglio a mano dall’ apposito scomparto. Ridacchiai
pensando alle camere d’albergo che ci attendevano nel giro di meno di
30 minuti. Guardandolo non potei che accorgermi di aver sviluppato
negli anni uno strano gusto nel prendermi gioco di lui.
“molto divertente, Bones! Davvero molto divertente” sarcastico,
pungente, infastidito
“e chi immaginava fossi tanto irascibile alle cinque del mattino?!”
esclamai, inaspettatamente divertita dalla sua reazione.
Quasi quaranta minuti più tardi eravamo al terzo piano del Taj Boston,
avevo prenotato due camere separate sullo stesso piano, consegnai una
chiave elettronica a Booth
“beh, ci vediamo domattina” alzò gli occhi al cielo
“domattina?” perplesso
“beh, tra qualche ora” precisai “verso le 9 potrà andar bene” stabilii
“diciamo verso le 11, Bones” sbuffai
“alle 10 in atrio” dissi fissandolo quasi con sguardo di minaccia
“prima o poi dovrai spiegarmi come diamine fai a dormire così poco ed
essere sempre così attiva” aprii la bocca per rispondergli “non ora,
Bones, non ora. Notte!”
ricambiai la buonanotte e infilai la chiave nel dispositivo elettronico
della stanza 187.
Studiai la camera per qualche istante dall’uscio respirando il profumo
di rosa che i fiori appoggiati sul tavolo emanavano prepotenti, poi
decisi di sprofondare nella poltrona di pelle bianca vicina al letto,
accompagnata da un buon libro. Solo quando il sole era ormai alto nel
cielo di Boston decisi di avvolgermi nelle morbide coperte color
salmone e abbandonarmi al sonno.
La mattina seguente incontrai il mio partner nella hall dell’hotel, una
tazza di caffé da asporto in mano.
“Buongiorno Booth” sorrisi nonostante avessi ricevuto solo un leggero
grugnito in risposta, decisi di continuare a parlare “devo riuscire a
parlare con Joseph Mayer in giornata, quindi come prima mossa ho
bisogno di andare alla sede dell’ FBI di Boston” sgranò gli occhi e
parve svegliarsi all’improvviso
“no, Bones, no!” esclamò “é il grande capo, non posso giocarmi la
carriera andando a sventolare il mio badge davanti a Dio solo sa quanti
impiegati per riuscire ad avere un colloquio con lui” roteai gli occhi
“non essere melodrammatico, Booth. Sono certa che stai esasperando la
situazione”
“vediamo se così riesco a farti capire: ho sentito di questo tizio che
ha perso il posto solo per averlo fatto contattare dopo le 10 di sera
ed aveva per le mani la risoluzione di un caso di omicidi seriali.
Mayer ha schioccato le dita e puff... Addio lavoro!” mi morsi il labbro
inferiore pensierosa
“Beh, immagino sarà più difficile del previsto” borbottai mentre mi
dirigevo verso l’uscita
“Bones, fermati”
“Ci vado con te o senza di te, a te la scelta” spavalda
“Buon Dio, vediamo di evitare di farci arrestare almeno” gli tirai un
buffetto sul braccio mentre ci incamminavamo verso la macchina.
Ci sedemmo sull’altro SUV nero che mi aveva obbligato a noleggiare e
dopo pochi minuti iniziammo a guizzare nel traffico
“Cerca di farci arrivare a destinazione tutti interi” urlai, la voce
stridula e le mani strette al sedile tanto che le nocche avevano
assunto un colorito cadaverico
“Bones, tranquilla” calmo, rilassato, un sorrisetto diabolico sul viso
“Frena, per Dio, frena!” stridetti allarmata quando lo vidi avvicinarsi
pericolosamente ad un’ automobile rossa che ci precedeva
“Qui non sanno guidare!” esclamò accostando il SUV di fronte alla sede
dell’ FBI, scesi sbattendo la portiera con tutta la forza che avevo in
corpo
“se tacessi mi faresti un grosso piacere” dissi seccata cercando di
fermare il tremolio delle mie gambe. Non riuscivo a capire se fossi
così agitata per la guida del mio partner o se lo fossi per la
richiesta, totalmente improbabile, che dovevo fare al capo dell’ FBI.
“ora mi dici che ci facciamo qui?” mi chiese Booth, un’ evidente punta
di curiosità gli colorava la voce, scossi la testa ed entrai
nell’edificio di vetrate e mattoni rossi.
Passai sotto il metal detector che, rimanendo silente, mi risparmiò un’
infinito numero di seccature, aspettai Booth che impiegò quasi un’ora
ad ottenere i necessari permessi per entrare nell’edificio perchè si
ostinava a non volersi separare dalla sua pistola.
“siamo in un edificio dell’ FBI, non credi che saresti stato al sicuro
anche senza la pistola?” seccata per il tempo perso
“Bones, è una parte di me! La mia piccola Pauline” disse accarezzando
la fondina della pistola
“Pauline? le hai dato un nome?” chiesi spalancando gli occhi
“sh” sussurrò “è stato questo che ha convinto l’ufficiale alla porta a
farla entrare con me” scoppiai a ridere scuotendo leggermente il capo e
mi avvicinai alla reception, dove una donna avvolta in un tubino scuro
era impegnata compilando un’ alta pila di moduli
“salve” salutai stampandomi un sorriso cordiale sul viso, alzò gli
occhi annuendo lievemente e si reimmerse nel suo lavoro, continuai
“abbiamo bisogno di vedere il signor Mayer” spiegai,
posò nuovamente lo sguardo su di noi, faticando a trattenere il sorriso
scettico, poi con una voce inumanamente pungente
“abbiamo un modulo virtuale per questo tipo di richieste, lo compili e
le faremo sapere” sbuffai e guardai Booth in cerca di aiuto, lui fece
un passo avanti e appoggio il suo distintivo dell’FBI sul bancone della
reception
“guardi, faccio parte anche io dell’FBI. E’ davvero urgente” sfoggiò il
suo sguardo ammaliatore, la donna dall’altro lato della scrivania
afferrò il distintivo stringendolo tra le dita dalle lunghe unghie
rosse e inserì dei numeri nel computer
“mi dispiace, Agente Booth” disse meno pungente di prima “ qui risulta
che è in vacanza quindi i suoi privilegi non valgono” sbuffai una
seconda volta
“al diavolo!” imprecai preparandomi ad una lunga opera di convincimento
affinché ci venisse fissato un appuntamento
“Bones, stai calma!” sibilò Booth, stringendomi il braccio destro con
la mano
“Booth!?!” una voce da dietro interruppe il nostro scambio di battute
con la segretaria, lui si girò lentamente e scoppiò in un sorriso
luminoso
“Dunham?” la voce più alta di qualche tono e una luce diversa negli
occhi.
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Capitolo 12 *** CAPITOLO 11 ***
Salve a tutti!!
Scusate per il ritardo!
Sono impegnata a lottare con la sessione di settembre uscendone
sconfitta (nel senso che non riesco a studiare, ergo continuo a
rimandare sti due esami del caspio) e mi sono buttata a capofitto nel
blog sulle serie tv ( a proposito se vi va di passare ci fa veramente
piacere! /momento pubblicità chiuso/).
Comunque sono resuscitata portando con me un capitoletto, let me know!
CAPITOLO 11
“Dunham, Bones. Bones, Dunham” biascicò Booth frettolosamente, sorrisi
educatamente e allungai la mano
“Dottoressa Temperance Brennan” lo corressi, in risposta ottenni un
sorriso caloroso
“Chiamami pure Olivia” disse lei con una voce un’ottava più grave di
quanto mi aspettassi. Annuii e mi affrettai a lasciare la presa, un po’
troppo, forse.
Qualcuno alle spalle della donna si schiarì leggermente la voce
costringendo i miei occhi a posarsi su un ragazzo avvolto in una
dolcevita scura e abbracciato da un cappotto nero lungo, alzai un
sopracciglio in attesa che parlasse
“Peter Bishop” allungai la mano e strinsi la sua balbettando
leggermente il mio nome. Un brivido in fondo alla schiena. Sorrisi.
“lei non è dell’ FBI, vero?” continuò, scossi la testa
“Antropologa forense” specificai, lo vidi aggrottare le sopracciglia
“eppure il suo viso non mi è nuovo” scossi le spalle
“magari ha assistito a qualche mia conferenza” mi accorsi solo in quel
momento che per tutto il tempo in cui avevo parlato mi ero torturata
una ciocca di capelli facendola passare un infinito numero di volte tra
l’indice e il medio della mia mano destra mentre ancora con la sinistra
stringevo la sua incapace si lasciarla andare, arrossii
impercettibilmente allargando lievemente le dita per liberarmi dalla
presa
“insomma, che ci fate qui a Boston?” chiese la ragazza dall’ampio
sorriso
“dobbiamo parlare con Mayer” spiegò Booth, inclinando la testa in mia
direzione e alzano gli occhi al cielo
“Auguri davvero” disse il ragazzo, lei lo guardò sbieco
“beh, ora noi torniamo al lavoro. Vedrò che si può fare. Vi va di
vederci per cena? Vi faccio sapere se riesco a farvi ricevere da Mayer”
propose lei, mi affrettai ad accettare prima che Booth potesse
lamentarsi del fatto di essere stanco per aver dormito poche ore la
notte precedente
“ci vediamo” disse l’uomo che si era presentato come Peter, guardandomi
fisso negli occhi
“non vedo l’ora” mi morsi il labbro quando quelle parole ancora non
avevano terminato di scivolare fuori dalla mia bocca. Non appena li
superammo mi voltai per lanciar loro un’ultima occhiata, vidi la donna
dargli una gomitata scherzosa all’altezza delle costole ed entrambi
scoppiarono a ridere fragorosamente. La voce di Booth mi riportò alla
realtà
“oh, oh!” esclamò “ci siamo prese una bella cotta” scossi la testa
“ma che dici, Booth?” le mie guance divennero presto paonazze
“hai le guance più rosse di un culo di un babbuino!” esclamò mentre
affrettavo il passo per uscire dall’edificio
“dacci un taglio!” sibilai cercando di non attirare l’attenzione delle
persone che ci stavano attorno
“e ammettilo, su!” mi esortò. Non appena fummo all’aria aperta mi girai
verso di lui
“ok, mettiamola così” dissi fissandolo con aria di sfida “sai che dico
sempre che hai un’ ottima struttura ossea? beh, la sua è decisamente
migliore” lo osservai quel tanto che bastava per riuscire a notare un’
ombra di delusione sul suo volto e poi aggiunsi “caffè? c’è una tavola
calda qui di fronte” annuì e mi seguì mesto.
Gli avevo mentito.
No, non sulla struttura ossea, quello era vero.
Gli avevo mentito perchè nel momento stesso in cui Peter mi aveva
sfiorato la mano, io avevo immaginato i suoi polpastrelli sfiorare
delicatamente i miei fianchi e la sua bocca appoggiata al mio collo.
“cosa prendi?” mi chiese Booth allontanandomi dalle fantasie che
stavano ottenebrano la mia mente
“un caffè nero, la ringrazio” dissi rivolgendo un sorriso amorevole
alla cameriera
“un vero colpa di fortuna aver incontrato Olivia, non trovi?” mi chiese
“già, non mi avevi detto di avere un contatto nell’FBI di Boston”
storse la bocca
“non sapevo fosse a Boston, anzi, a dirti la verità non sapevo
lavorasse ancora nell’FBI. Sicuramente non si occupa di omicidi o
rapimenti altrimenti negli anni mi sarebbe capitato di incontrarla”
improvvisamente sembrò pensieroso “a meno che...” si fermò e lasciò la
frase in sospeso
“A meno che, cosa?” chiesi, si allungo sul tavolo e si avvicinò a me
“ho sentito parlare di una divisione che si occupa di eventi
inspiegabili, cose veramente strane. Si chiamava qualcosa come Finge,
Tringe, Bringe.” schioccò la lingua rapidamente “no, proprio non
ricordo” scossi le spalle
“beh, se davvero fa parte di una divisione simile, magari avrà
familiarità con casi di occultismo. Potremmo chiedere loro una
consulenza sul nostro caso”
“loro?” chiese
“sì, a Olivia e al suo partner Peter” socchiuse gli occhi un istante
“e chi ti ha detto che è il suo partner?” chiese curioso
“solo così possono avere quell’affinità che dimostrano d’avere”risposi,
lui scoppiò a ridere
“questa è bella!” esclamò “Bones che analizza gli atteggiamenti delle
persone e ne trae conclusioni. Incredibile!”
sorrisi
“devo aver imparato dal migliore” esclamai portandomi la tazza alle
labbra. Avvolsi la ceramica bianca con le mani e continuai “Dunham,
eh?” chiesi allusiva, lui afferrò la forchetta che giaceva nel suo
piatto e inizio a giocarci nervosamente
“un’ amica dei tempi dell’accademia” alzai un sopracciglio, scettica.
Sbuffò poi
“sai?” disse “mi piaceva di più la vecchia Bones! Quella che non capiva
nulla di esseri umani ancora in vita, questa nuova te è decisamente
seccante!” scoppiammo a ridere
“sicuro fosse solo un’ amica?” lo incalzai, spinta da un’ immensa
curiosità
“beh, no, cioè sì, beh, noi abbiamo avuto una storia” sorrisi
mordendomi il labbro inferiore
“interessante!” esclamai “quindi il sorriso ebete che ti si è dipinto
sul volto poco fa significa che non è acqua del tutto passata?” chiesi
poi socchiudendo un occhio, cercando di dissimulare il mio interesse
trascinando l’intera situazione nell’ambito comico
“beh, devo dire che mi ha fatto un certo effetto”. Strinsi i denti un
po’ di più sul labbro e sentii il sapore del sangue che scivolava sulla
lingua.
Sten <3
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