Miraggio

di Kourin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo ***
Capitolo 2: *** Secondo ***



Capitolo 1
*** Primo ***


Miraggio

 

 

Oggi su Aprilius fa molto caldo. Come accade per tutte le università, un tempo anche per l'Accademia di Zaft questi erano giorni di vacanza. Ma non quest'anno, non nell'anno del San Valentino di Sangue. Nessuno osa prendersi una pausa, non ora che le battaglie infuriano ai confini della patria, non ora che noi Coordinator siamo stati investiti del compito di fermare la guerra. Il tempo è già corso troppo avanti lasciando dietro di sé migliaia di vittime. E' come se un dio della morte, per gioco, gli avesse regalato una falce e che il tempo, ansioso ma incapace di liberarsene, avesse iniziato una corsa folle in mezzo agli esseri umani. Il mio compito è quello di raggiungerlo e disarmarlo e lasciare che torni a scorrere innocuo. In realtà, una volta afferratolo, mi piacerebbe riportarlo indietro e cambiare quel giorno. Oppure potrei tenerlo fermo, e continuare a vivere per sempre i miei tredici anni in un mondo dove i ciliegi della Luna sono sempre in fiore e i petali portati via dal vento rinascono di continuo senza percepire il dolore provocato dal distacco. Mi rendo conto che mi sto perdendo nella fantasia di un bambino e so che non va bene. Io ho quattordici anni. Sono il figlio del Presidente del Comitato per la Difesa Nazionale.

Questo pomeriggio non ci sono lezioni. Gli istruttori sono stati convocati alla base per seguire gli ultimi aggiornamenti e le esercitazioni sono state sospese. Dopo aver pranzato in mensa sono tornato subito nella mia stanza, ma ero inquieto e non riuscivo a concentrarmi su nulla. Me ne sono andato per non disturbare Nicol, tutto intento a comporre le sue musiche. Lo invidio per la sua capacità di mettere se stesso in un pentagramma. Io invece, oggi, questo me stesso non so dove metterlo. Ho camminato nei corridoi vuoti in mezzo alle aule, mi sono seduto tra i banchi della biblioteca, ho rallentato i miei passi davanti ai simulatori e infine sono ritrovato qui all'aperto, nel parco, dove la luce è intensa e confonde la mia vista. Mi sposto sotto l'ombra scura e compatta di una magnolia, e mi accorgo che sulla panchina accanto sono sedute due mie compagne di corso. Parlano a voce bassa, commentano alcune foto scattate con il cellulare, ridono. Mi sento fuori posto tra gli echi delle loro acute risate femminili. Per fortuna non si sono accorte della mia presenza e così, senza dire nulla, proseguo sul selciato di ciottoli tondeggianti, dove i raggi di luce del primo pomeriggio cadono obliqui per poi rimbalzare dritti nei miei occhi.

Più in là c'è un gazebo. Tra le colonne bianche che sorreggono il tetto che si confonde col cielo, scorgo un gruppo di ragazzi stesi sulle panche ad oziare. Qualcuno borbotta frasi incomprensibili che si perdono nel frinire delle cicale senza che nessuno si preoccupi di raccoglierle. Riconosco i capelli rossi e arruffati di Rusty, che se ne sta seduto in maniera scomposta mentre si fa rotolare sulla fronte una lattina ghiacciata presa dal distributore automatico. Si accorge di me e fa un cenno di saluto. Io ricambio, senza però fermarmi.

Attraverso tutto il parco fino a raggiungere il suo limitare. Lo scintillio abbagliante di una recinzione di fili metallici intrecciati mi intima di fermarmi. Solo adesso mi rendo conto di quanto sono andato lontano. Sono completamente sudato e il mio respiro inizia a farsi affannoso. Mi volto nuovamente verso l'Accademia. La mia schiena brucia, come se il reticolato reso incandescente dal calore mi stesse spingendo all'interno del suo perimetro.

Mi guardo intorno e scorgo un albero solitario. E' un salice: qui su Aprilius, dove l'acqua abbonda, ce ne sono molti. La rigogliosa chioma verde chiaro scende come una cascata fino a lambire gli steli riarsi del prato estivo. Un vento caldo fa oscillare lentamente i rami leggeri: non sembrano affaticati dal peso delle innumerevoli, piccole foglie argentate che assorbono avidamente la luce che mi tormenta.

Realizzo all'improvviso che quello è il posto che stavo cercando. Mi dirigo verso il salice correndo, mentre il tappeto di erba incolta assorbe il suono dei miei passi.

Quasi con timore, scosto le fronde pendenti per accedere all'ombra che mi è necessaria. Ma appena i miei occhi si liberano dalla violenza del sole, si stagliano netti i contorni di una figura che colpisce a tradimento il mio animo. Senza rendermene conto indietreggio, stupito e quasi spaventato.

E' lui, il mio rivale. Io aspiro alla pace, lui non mi fa trovare altra via d'uscita se non la guerra. Io mi sforzo di considerarlo un compagno, lui ricambia odiandomi apertamente. Io esco vittorioso, lui riesce a farmi sentire sconfitto. E' l'unico testimone di una parte di me che nemmeno io so se corrisponda a verità o menzogna e così resto prigioniero di un legame inscindibile, succube di un inspiegabile e muto ricatto.

Ora sta dormendo e non si accorge della mia presenza. La schiena è appoggiata all'albero, la testa è reclinata di lato e alcune ciocche di capelli bianchi si posano sul viso dai lineamenti delicati. Per la prima volta vedo le sopracciglia fini distese, la fronte pallida senza cipiglio, le labbra sottili socchiuse. Penso che il mio rivale è una strana creatura capace di mutare forma per ingannare chi la circonda. Mi chiedo se l'inganno è quello che vedo ogni giorno, o quello che ho davanti ora. Scuoto il capo per risvegliarmi. Penso di nuovo alle favole, mi comporto ancora come un bambino.

Non capisco perché lui sia venuto fin qui. Credevo che la sua unica occupazione fosse quella di esercitarsi fino allo sfinimento per riuscire a battermi. Però, a pensarci bene, oggi è arrivato prima di me e ha occupato il mio posto. Incrocio le braccia sul petto, rifletto e concludo che l'ombra è abbastanza grande per entrambi. Non c'è motivo per lasciarla tutta a lui: andarmene altrove sarebbe come accettare una sconfitta.

Mi siedo dalla parte opposta del tronco grigio, vi appoggio la schiena e slaccio il colletto della divisa. Respiro meglio. Che stupido, chissà perché non l'ho fatto prima. Davanti a me c'è una parete di piccole foglie appuntite che tremano al soffio impercettibile del vento. Ogni tanto si scostano lasciando filtrare minute e innocue schegge di chiarore pomeridiano che finiscono per imprimersi sulla mia retina. Quando chiudo gli occhi, dapprima diventano sfocate e poi svaniscono insieme alla mia inquietudine. Scivolo in un torpore insolito e leggero che mantiene vivi i miei sensi, facendomi sentire parte di un luogo in cui mi piacerebbe stare per sempre.

 

Sbatto le palpebre e vedo che lui è in piedi accanto a me, la mano affusolata appoggiata sulle scanalature brune della corteccia, intento a fissarmi con i suoi occhi azzurri.

Una fresca brezza mi accarezza il viso, ho la sensazione che provenga dalla sua figura sottile traboccante di limpido orgoglio. E' così pulita, quasi trasparente, mi pare di riconoscervi l'immagine speculare di un me stesso sereno ed incredulo. Non so che cosa fare e resto così, col naso all'insù, intento a mia volta a fissarlo. Forse è il miraggio della pace che cercavo, la proiezione di una dimensione generata da qualcuno che è riuscito ad arrestare lo scorrere di questo tempo di guerra. Sento che sta accadendo qualcosa di nuovo, di importante.

Le labbra del mio rivale si muovono impercettibilmente come se volesse dire qualcosa. Che sia la risposta che bramo sentire? Il mio corpo freme, trepidante di attesa. Senza accorgermene stringo fra le dita lo stelo fragile di un fiore di trifoglio. Si spezza. Sento che c'è qualcosa che non va, io non volevo ferire nessuno. Lui gira la testa di scatto puntando gli occhi ai confini dell'ombra. Il miraggio si increspa, il vento soffia più forte, un brivido sale lungo la schiena ancora madida di sudore. Mi accorgo che i suoi pugni serrati stanno tremando e, come se stessi assistendo a qualcosa di indecente, abbasso gli occhi a mia volta. Restiamo immobili, mentre il fruscio delle foglie e il frinire di una cicala scendono nel fossato di silenzio che abbiamo appena scavato con la tensione dei nostri sguardi.

La campana delle lezioni risuona a vuoto. I primi rintocchi mi appaiono irreali, lenti, come se giungessero da un luogo remoto. Il ritmo accelera. Mi avvedo con orrore che il tempo ha ricominciato la sua corsa. Il mio unico pensiero è prendere in mano la situazione, fare qualcosa. Mi rialzo, tendo la mano come se potessi afferrare l'eco dei rintocchi che si fanno via via più serrati. Dalle mie labbra forse sono uscite delle sillabe, non ne sono sicuro, ma ormai non importa perché il mio rivale mi ha già voltato le spalle. A quella schiena, fiera e impettita, non posso più chiedere nulla. In un gesto pieno di lucida crudeltà scosta le fronde e scompare dalla mia vista passando attraverso una porta di luce che spazza via in un istante tutte le mie illusioni.

Yzak, resta qui” riesco finalmente a mormorare, ma serve solo a farmi sentire più stupido e inutile. Se alzo gli occhi, vedo solo dei rami che si intrecciano a spirale verso il cielo in un disegno contorto che non fa altro che confondermi. Mi chiedo che cosa sto facendo qui. La mia patria non ha bisogno di un bambino che passa il pomeriggio a nascondersi tra gli alberi. Esco dalla chioma del salice allontanando con violenza le foglie che sfioravano le mie spalle. Sento uno strappo che continua fin dentro di me, ma io lo fermo prima che possa lacerarmi. Riallaccio la mia uniforme da cadetto, torno da dove sono venuto. Plant è un paese in guerra. Io ho quattordici anni. Sono il figlio del Presidente del Comitato per la Difesa Nazionale.

 

 

***

 

 

Questa fanfic non la volevo scrivere, ma l'ho scritta. Non avevo nemmeno intenzione di pubblicarla, ma l'ho pubblicata. L'ho concepita come one-shot, ed è diventata una multi-capitolo. E' una cosa dotata di vita propria, non sono in grado di gestirla. Forse il prossimo capitolo racconterà gli stessi avvenimenti (se così vogliamo chiamarli) dal punto di vista di Yzak. Forse.

Questa fanfic vi ringrazia per aver letto. Io resto in disparte: ho paura.

 

Kourin

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Capitolo 2
*** Secondo ***


Miraggio

 

 

Ci hanno detto di rilassarci, di approfittare di questo pomeriggio per non pensare alla guerra perché siamo giovani e abbiamo questo diritto. L'istruttore aveva un sorriso bonario sulle labbra, come di affetto, e io ci sono cascato come un bambino che ascolta una bella storia. Sono passate due ore e la realtà mi ha già fatto capire che questa è una giornata inutile.

Sono andato in mensa, ma non avevo appetito. Stare in mezzo a quel vociare di stupidaggini non ha fatto altro che aumentare il mio nervosismo. Ho seguito Dearka e Rusty nel parco. Un commento sul look di una idol è stato il primo anello di una catena di argomenti sempre più futili che hanno finito per sciogliersi nel silenzio dell'ozio. No, lì proprio non ci potevo stare. Mi sono alzato dalla panchina e me ne sono andato.

Sono tornato indietro dirigendomi verso l'edificio centrale. Le sue ampie vetrate verde-azzurro riflettono il cielo estivo di Aprilius dove non passano né uccelli, né nuvole. Potrebbe essere una trappola: lì il vuoto mi attende per ingoiarmi e io non voglio rischiare. Lascio la strada principale e imbocco un sentiero lastricato di ciottoli bianchi. In principio è scuro, avvolto dall'ombra di una volta di ciliegi ornamentali. In primavera i rami, già appesantiti all'inverosimile dalle gemme, grondano di petali rosa e non c'è studente che non spenda una parola per decantare la bellezza di quella che a me pare solo una densa melassa. Quella stagione è passata da un pezzo. Ora i ciliegi sono creature grottesche vestite di anonime foglie seghettate. Incombono ricurve, per obbligarmi ad abbassare il capo e riconoscere quella grandezza che io ho sempre negato. Non mi voglio piegare. Mi faccio strada scostando le foglie con le braccia finché non giungo alla fine del viale e mi imbatto in un gazebo di legno. E' piccolo, in stile orientale. All'interno un corvo è intento a beccare qualcosa. Si accorge di me, piega il collo per scrutarmi, vola via.

Decido di attraversare il prato estivo non ancora falciato. Con il caldo che fa oggi è una follia, ma il caldo non deve influenzare le mie decisioni. So bene che il mio posto è la luce. La luce forte, intensa, che non si mescola all'ombra.

La trovo al centro di una radura vicino ai confini del parco. In lontananza sento il frinire delle cicale ma qui, intorno a me, non vi è nessuna forma di vita. Si sono arrese, tutte. Pianto i piedi per terra e mi soffermo a contemplare il mio regno assolato. Sento i raggi del sole che scaldano i miei capelli e che iniziano a bruciare la pelle del mio viso. Potrei togliermi la giacca, ma non lo faccio, non sono mica un codardo. Chi vincerà stavolta? Io, oppure il sole? Allargo le braccia e mi metto a ridere. Che stupido. Vedo già Dearka che mi trascina in infermeria pensando che il caldo mi abbia dato alla testa.

Giro su me stesso, osservo gli alberi che mi circondano. Sono belli, in essi non vi è traccia di malattia o sofferenza. In autunno perdono le foglie, riposano in inverno, fioriscono in primavera e in estate tornano rigogliosi ad assorbire questi raggi. Vivono. La loro linfa mescolata al mio sangue dà vita a questo Plant. Sono certo che i Natural bramano di cancellarli. I Natural vogliono donare loro il dolore che ancora non provano. Io devo difenderli, devo difendere Aprilius, devo difendere Plant.

Per quanto ci pensi, non riesco a capire questo mondo che continua a colpire noi Coordinator in modo così vigliacco. Non ha senso. Vogliamo essere un'umanità migliore. Ci proviamo anche attraverso la genetica, perché la conoscenza è la nostra più grande forza. Un mondo blu e puro che cosa sarebbe? Un mondo che accetta la violenza ma che rifiuta la conoscenza? Non ha senso. I Natural devono comprendere la nostra superiorità. Non possiamo continuare a subirli con l'unico pretesto che loro costituiscono le nostre radici.

Mia madre è il Consigliere di Martius e si batte ogni giorno per il futuro. Io non posso stare a guardare, ormai ho quindici anni e ho il pieno diritto di combattere in prima linea. Voglio essere presto lì, a tutti i costi, e voglio essere davanti a tutti. Non mi basta sentirmi dire che sono bravo perché faccio del mio meglio. Quella è la favola che si racconta ai bambini stupidi. Io non sono più un bambino e soprattutto non sono stupido.

Inizio a camminare tra gli alberi e i cespugli che circondano la radura. Le loro ombre scure mi invitano a deporre la sfida personale che ho iniziato con la luce di questo pomeriggio, ma io le evito di proposito. Voglio dimostrare loro che io sono forte, che sono il cavaliere legittimo di questo Plant. L'unica cosa che ho in mano è il secondo posto in Accademia e so che in guerra non vale nulla: voglio il titolo che mi spetta.

Davanti a me si apre una nuova distesa d'erba. E' leggermente in salita e termina con una recinzione metallica. Pare che la sfida avrà presto fine. Mi guardo intorno: alla mia sinistra c'è un salice. E' un albero alto e rigoglioso. La chioma verde argentato scende come un mantello fino a toccare il prato che la circonda. Intorno non c'è nulla: chi potrebbe reggere il confronto?

Decido che quel salice è il mio traguardo. Se riuscirò a superare a testa alta la distanza che mi separa da lui avrò vinto. Mi metto a correre, sento il cuore battere velocemente nel torace, che passo dopo passo si svuota di ogni peso. Il mio corpo riceve la forza della luce, la assorbe, la trasforma nella volontà che trarrà in salvo la mia gente.

Arrivo davanti all'albero. Respiro profondamente. Lo osservo e vedo che la chioma imponente è fatta di piccole foglioline appuntite. Un vento caldo e leggero le accarezza e il loro fruscio sembra dire "Bravo, ce l'hai fatta". Entro nell'ombra. La assaporo. Me la sono meritata.

Mi siedo sul soffice tappeto di trifoglio che cresce intorno alle radici e appoggio la schiena sulla corteccia grigia. E' il mio trono, mi pare più morbido e prezioso del velluto. Ascolto ancora le foglie mosse dalla brezza. Nel seguire le loro lente oscillazioni, le mie palpebre divengono pesanti e, inspiegabilmente, mi assopisco.

 

Non so quanto tempo sia trascorso. Al di là della coltre di foglie che mi separa dal resto del parco la luce è ancora intensa. Ho fatto dei sogni: erano strani, non li ricordo chiaramente. Una persona camminava accanto a me. Non era mia madre, eppure ero felice di esserle vicino. Non avevo più un obiettivo da raggiungere, forse l'avevo già raggiunto, oppure non aveva più importanza.

Un po' a malavoglia mi rialzo. Sono intorpidito e ci metto qualche istante per realizzare che c'è qualcuno. Arretro quasi spaventato, mi metto in guardia, ma l' istinto mi dice che non ho nulla da temere. Faccio un passo in avanti. Il terreno è morbido, non produce alcun rumore. Appoggio la mano sul tronco del salice e mi sporgo per osservare.

E' un ragazzino dai capelli blu. Il suo corpo è sottile, la sua bellezza è particolare, discreta. La testa è inclinata di lato, la divisa slacciata lascia scoperto il collo. Mi appare vulnerabile. Lui sente il mio sguardo. In qualche modo me ne dispiaccio, io non volevo fargli nulla. Si sveglia, sbatte le palpebre, ha l'aria di non capire dove si trova. Alza la testa verso l'alto, i suoi occhi smeraldini incrociano i miei. Pare quasi che non mi abbia riconosciuto.

Come se mi trovassi ancora in un sogno, cerco nella memoria il suo nome. Lo trovo, ma come le mie labbra si muovono per pronunciarlo, in me si risveglia una scia di emozioni che non riesco a toccare. E' come se quel nome si trovasse all'altro capo di una fune fatta di un groviglio di fili spezzati e taglienti.

E' ovvio, non può essere altrimenti: lui è il mio rivale. Quando lo sfido lui mi batte ferendomi a morte, ma io guarisco ogni volta, come vittima di una maledizione. Il mio orgoglio è così sfigurato da essere irriconoscibile, ma mi scaglio ancora contro di lui nella speranza di essere ridotto a brandelli. E poi? E poi non lo so, mi chiedo che cosa io voglia ottenere. Forse solo dimostrare al mondo che lo ama ciecamente quanto lui sia in realtà spietato e crudele. Perché altrimenti sarebbe qui, se non per usurpare ciò che credevo solo mio?

Distolgo lo sguardo, lui fa lo stesso. Sembriamo uno specchio, come quando lottiamo. Anche lui vede in me quella sembianza d'angelo che ho davanti io? Anche lui la vuole distruggere? Non capisco dove mi stiano portando i pensieri, non hanno più un senso. I miei occhi si fissano su un fiore. E' bianco e forte, ma la corolla è incisa da cicatrici irregolari. Provo a metterle a fuoco, il fiore scompare. Una cicala inizia a frinire, lo stridore penetra nelle mie orecchie. Stringo i pugni per resistere, il suono si impossessa del mio cervello.

La campana delle lezioni risuona a vuoto. Mi appiglio tenacemente ai rintocchi che, uno dopo l'altro, diventano sempre più nitidi e chiari. Distinguo di nuovo i petali di trifoglio, l'intreccio di rami, gli spiragli di luce che si aprono al soffio del vento tiepido. Il luogo da cui me ne sono andato mi richiama indietro.

Mi volto verso la via del ritorno, di scatto, perché nessun dubbio deve seguirmi. Il mio rivale si alza, sulla schiena sento il suo sguardo che mi tiene sospeso in un'ombra che non avrei mai dovuto cercare. Non è ostile, è limpido e calmo come l'illusione in cui mi ero assopito. Il vento spira più forte. Le foglie tremano, un brivido che corre lungo la spina dorsale mi libera dall'ultima incertezza.

Scosto le fronde con un braccio. Subito il calore del pomeriggio torna ad avvolgermi, ma continuo a sentire freddo. Muovo pochi passi, poi inizio a correre. E' diverso da prima: le gambe, le braccia, il cuore, tutto in me è pesante. Perché? Inciampo, cado sul prato, mi ferisco, provo vergogna.

"Athrun che tu sia maledetto," dico finalmente. Spero che ogni creatura qui intorno mi abbia sentito. Spero che lui, di me, stia dicendo lo stesso. Alzo gli occhi verso il cielo di Aprilius come per chiedere una conferma. Ma il cielo tace e i miei occhi iniziano a lacrimare. Di certo è a causa del sole.

Mi rialzo e proseguo sulla strada che ho scelto di percorrere.

 

 

***

 

 

E così arrivò anche la seconda versione dei fatti, se di fatti si può parlare. Finire nel mondo di Athrun non è stato facile per nessuno, nemmeno per Yzak che pure è un tipetto tosto. Chiudo questa fanfic sperimentale in modo che non possa più nuocere, riprendo il mio ruolo di autrice e ringrazio i coraggiosi lettori. Un grazie con cuoricino allegato va ad Atlantislux per le belle parole con cui recensisce e commenta questi piccoli ghirigori narrativi ^^

Kourin

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