Falling From Wonderland di RubyChubb (/viewuser.php?uid=11150)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Eccomi
tornata tra di voi con la mia nuova storia :) Non è un caso che la
pubblichi proprio in questo giorno... Vabbè, poche storie, in quanto
neodottoressa posso fare tutto quello che voglio oggi [yep]
e visto che
mi sento poco bene [la tensione lascia spazio al mal di gola e alla
tosse], che ho sonno e che sono in ferie per molti giorni... Beh,
eccovi questa nuovissima storia.
E'
un po' che la scrivo, c'è che la conosce già e che mi ha dato una mano
ad concluderla. E' una Alternative Universe dall'inizio alla fine,
quindi è stata molto strano per me trattare questi conosciutissimi
personaggi per chi non erano veramente, nonostante avessi già tentato
di tramutarli in qualcun altro, ma per la durata pochissimi capitoli.
Ecco, la versatilità delle AU è alquanto sconvolgente xD Dà molta
ispirazione, ma finisce per essere piuttosto pericolosa.
Il
preambolo non è servito nient'altro che a riempire questa piccola
introduzione che voglio farvi. Una piccola immagine della controparte
femminile, Alicia,
mentre non ne inserisco alcuna del protagonista maschile [perchè in
fondo questa storia è incentrata su di lui, anche se non può non
sembrare]. Ripeto, in quanto AU, vi troverete davanti ad un Danny Jones
piuttosto diverso... Sia fisicamente che caratterialmente xD
Non posso fare altro che ringraziare tutti quelli che la leggeranno e/o
che la commenteranno, senza dimenticare chi ha commentato "Somwhere in
the same hotel" :) grazie ragazzeeeeeeeee!!!!
Aggiungo
che la storia è di mia invenzione, non ci sono riferimenti a fatti né a
cose accadute e i McFly non mi appartengono. Tutte le citazioni ad
opere altrui [canzoni, libri, film e così via] non verranno riportate
con scopi di lucro, così come questa storia.
Falling
From Wonderland
What
happens when Alice and the White Rabbit fall for each other?
PROLOGO
I’m
RATLEG scrive:
Suppongo
che dovresti dirlo a tuo padre (come ti ho già detto migliaia di
volte…)
BecauseTheNight
scrive:
Mio
padre non mi crede (come ti ho già detto migliaia di volte…).
Pensa che sia una bugiarda gelosa…
I’m
RATLEG scrive:
Ma
alla fine lo convincerai
BecauseTheNight
scrive:
Sì,
certamente…
I’m
RATLEG scrive:
Vedrai
che ho ragione
BecauseTheNight
scrive:
Ratleg,
caro mio, mi duole dirtelo, ma la vita è molto più dura di quanto
pensi…
I’m
RATLEG scrive:
Anche
più di un sistema di disequazioni di terzo grado?
BecauseTheNight
scrive:
Decisamente
sì! XD Adesso vado a letto, sono piuttosto stanca… Domani la prof
mi interrogherà sicuramente… Altra insufficienza in matematica,
che pacco…
I’m
RATLEG scrive:
Fossi
nella mia stessa classe, ti aiuterei molto volentieri!
BecauseTheNight
scrive:
Il
classico secchione sfigato con gli occhialoni e l’apparecchio per i
denti… XD
I’m
RATLEG scrive:
Offendi
pure :P Buona insufficienza e buonanotte ci sentiamo domani?
BecauseTheNight
scrive:
Solo
se il tuo augurio non si avvererà! Notte notte!
Sorrise.
Chiuse
la finestra di conversazione e, come tutte le altre sere, spense il
suo portatile. Si stiracchiò, sbadigliò e si tolse gli occhiali da
vista, appoggiandoli sul comodino accanto al letto.
Un
altro giorno se n’era andato, finito come tutti gli altri, immerso
nella solita routine. Scuola, studio, computer e letto, poi di nuovo
scuola, studio, computer e letto. Indossò il suo pigiama grigio a
righe blu, sua sorella gli diceva sempre che un carcerato era molto
più alla moda di lui. Passò dal bagno, doveva lavarsi ed indossare
l’apparecchio notturno per la dentatura inferiore, per quella
superiore ci pensava quello fisso. Fortunatamente aveva avuto la
possibilità di nasconderlo all’interno della bocca, cosicché il
suo sorriso non si mostrava di ferro come quello di alcuni suoi
compagni.
Si
infilò sotto le coperte e chiuse gli occhi.
La
routine avrebbe avuto un nuovo inizio, con tutti i pro ed i contro
che la sua vita gli riservava.
.*.*.*.
Entrò
nella classe di matematica, si sedette al suo solito posto ed
appoggiò lo zaino alla gamba sinistra del banco. Il silenzio
eccessivo non gli dette alcun fastidio, era abituato ad arrivare
prima di tutti gli altri, e in quel tempo passato da solo dava sempre
una lettura veloce alla lezione del giorno precedente per non
farsi cogliere impreparato. Non gli piaceva dare il peggio di sé con
una scena muta.
“Giorno!”,
una voce squillante fece alzare la sua fronte dal libro su cui era
chinata.
Una
musichetta elettronica sottolineò l’entrata nella classe del suo
amico e compagno di corso di matematica, e proveniva sicuramente dal
videogioco elettronico tascabile che si portava immancabilmente
appresso al culo.
“Buongiorno
Dougie.”, rispose Danny, “A che livello stai?”
“Penultimo.”,
disse l’altro, sedendosi sul banco alle sue spalle e lasciando che
lo zaino cadesse con un tonfo sul pavimento.
“Ma
lo hai comprato tre giorni fa…”, gli fece notare Danny, che scosse
la testa rassegnato.
“Non
ci dormo la notte!”, si giustificò Dougie, “Questo livello mi dà
dei veri grattacapi. Non riesco proprio a distruggere il nemico
finale, ho provato tutte le combinazioni di tasti ma è praticamente
impossibile. Ho cercato soluzioni on line, ma niente…”
“Ci
riuscirai…”, lo consolò con fare pacifico e tornò sul suo
quaderno per gli appunti.
Si
isolò e non lasciò che la musichetta del videogioco di Dougie gli
trapanasse le orecchie. Comunque, tra poco sarebbe arrivato anche
Tom, quindi i secondi rimasti per il ripasso stavano lentamente
finendo. Infatti, dei passi pesanti e veloci lo interruppero subito.
La
faccia trafelata di Tom apparve sulla soglia della classe: era sudato
e stava ansimando.
“Ma
che cazzo!”, esclamò, entrando con calma, “Dove cazzo sono tutti
gli altri!”
“Rapiti
dagli alieni.”, rispose Dougie con tono monotono, troppo impegnato
sul suo livello.
“Tom,
mancano venti minuti all’inizio della lezione…”, disse Danny,
sollevando le sopracciglia.
L’altro
controllò subito l’orologio.
“Cazzo!”,
esplose, “Si è fermato ancora! Ma porca puttana!”
“Compratene
un nuovo…”, gli consigliò Dougie.
Mossa
sbagliata, si disse Danny. L’orologio di Star Wars di Tom non si
criticava mai.
Lo aveva comprato che aveva solo sette anni e stava ancora lì al suo
polso, sempre attivo e pronto ad essere soccorso dal suo amato -e
ossessionato- padrone.
“Fatti
i cazzi tuoi, Poynter!”, sbuffò subito Tom, quella mattina in vena
di numerose e ripetitive parolacce, “Se cambio la pila, vedrai che
torna come nuovo!”
Il
giocatore alle sue spalle prese a borbottare.
“Se
cambi il cervello, Tom Fletcher rimarrà sempre il solito sfigato…”
“Se
gli togli i videogames, Dougie Poynter si ammazzerà dalle seghe!”,
si vendicò Tom.
“Basta!”,
li fermò Danny, “Ogni mattina avete da becchettarvi come le nonne
al supermercato!”
I
due contendenti si scambiarono un’occhiata di ulteriore sfida, poi
Tom sistemò il suo gigantesco blocco per disegni nel ripiano sotto
al banco e si sedette davanti a lui. Come ogni mattina il terzetto si
completò ed occupò le ultime tre postazioni della seconda fila di
banchi, a partire dalle finestre laterali dell’aula di matematica.
Attendevano l’arrivo di tutti gli altri compagni che, uno dopo
l’altro, occuparono i posti rimanenti.
“Sai
una cosa, Dad?”, gli si rivolse Tom.
Sentì
una punta di fastidio pungergli il collo.
“Lo
sai che odio quel soprannome.”, gli disse, senza distogliere
l’attenzione dai sistemi di disequazioni di terzo grado.
Era
l’acronimo del suo nome, Daniel Alan David, Dad.
C’era anche chi lo chiamava Daddy Jones, solitamente erano i
bastardi che popolavano tutte le scuole del mondo, nessuna esclusa,
ma se erano i suoi migliori amici ad appellarlo così, allora era
tutta un’altra cosa. Non gli piaceva, ma andava bene.
“Ti
dicevo…”, lo ignorò Tom, “Ho notato che ogni sera protrai ad
oltranza la tua permanenza on line anche dopo la dipartita mia e di
quel coglione seduto dietro a te.”
“Già,
è vero.”, si accodò subito Dougie, che aveva intercettato la
conversazione.
“E’
vero cosa?”, si preparò Tom, “Che sei un coglione o che lui
rimane troppo tempo davanti allo schermo del suo pc?”
Non
lo vide, ma Danny si immaginò il suo amico alzare il dito a
Fletcher, con tanto di sguardo inviperito.
“E’
perché leggo degli articoli e dimentico di disconnettermi.”, si
giustificò Danny.
“Quali
articoli?”, si incuriosì Tom.
“Beh…
Scienza, cose così…”
“Su
quale sito?”
“National
Geografic.”, sparò al primo colpo.
“Scienza
dell’accoppiamento animale?”, domandò anche Dougie.
Danny
si spazientì, sospirò infastidito e non rispose. I due parvero
accontentarsi, ma molto presto sarebbero tornati in argomento e
avrebbe dovuto inventarsi qualche altra scusa. Non gli andava di
parlare delle lunghe chiacchierate a cui loro non partecipavano. Un
fracasso li distrasse in gruppo, un rumore di risate grasse e
forzatamente sguaiate entrò nella classe insieme ai corpi a cui
appartenevano.
“Cristo
santo!”, esclamò Jake O’Connor, “Gliel’hai fatta proprio
grossa!”
“Puoi
dirlo forte!”, rispose il ragazzo che era con lui, il biondo e
tanto affascinante Chris Sandman.
Danny
nascose la faccia nelle disequazioni di terzo grado che stava
ripassando, era meglio non farsi vedere.
Ecco
Harold Mark Christopher Judd, o meglio, Harry-Grande-Pezzo-di-Merda, come lo chiamava personalmente.
Era il tipico ragazzo che faceva pentire di aver posato gli occhi su
di lui, di averlo guardato, di avergli detto ‘buona giornata’…
Ed infine di essere nato. I tipi come Danny, quelli con la divisa
scolastica sempre perfettamente a posto, gli occhiali da vista e la
media dei voti troppo alta, attiravano la sua antipatia come le
caldarroste richiamavano il languorino delle persone che amavano
mangiarle d’inverno. Un paragone ancora più semplice? Danny Jones
stava a Harry Judd come il miele stava alle api… E cambiando i
fattori della proporzione il risultato era sempre quello, era
destinato a rimanere perfettamente invariato.
Nei
secoli dei secoli, amen.
Fortunatamente,
quella mattina Harry sembrava avercela con qualcun altro che non era
lui, il suo bersaglio preferito dell’ora di matematica, e Danny
sospirò di sollievo. Fu però una cosa temporanea.
“Daddy
Jones!”, esclamò Harry mentre si sedeva, guardandolo con occhi
felici e bocca spalancata, “Ma come siamo belli oggi! E anche tu,
Fletcher… E Poynter, che massa di fotomodelli!”
La
classe scoppiò in un boato di risate, cosa più tipica della neve
d’inverno, e i tre fecero finta di non aver sentito. La loro vita
era in quel modo da quando i loro genitori li avevano messi al mondo,
c’erano più che abituati. Danny era il parafulmine, quello a cui
venivano scoccate le prime frecce; dopo di lui, veniva
direttamente Tom, detto anche FletChin,
per via della prominenza del suo mento, ed infine Dougie, più
propriamente definito Handjob Station.
Tutti quei soprannomi avevano il copyright Made in Judd, ovviamente, era stato lui ad averli inventati. Quello stronzo se lo erano portati dietro dal
primo anno di scuola elementare, non potevano liberarsene fino al
termine di quell’ultimo anno scolastico di liceo.
Eppure,
in fin dei conti Danny lo invidiava un po’. Aveva una vita
facile, piaceva alle ragazze ed aveva tutto quello che voleva. Se ne
fregava dei voti, del suo futuro, aveva il papà che lo
aspettava a braccia aperte.
Sentì
qualcosa bussare alle sue spalle e si voltò verso Dougie. Con un
gesto veloce del dito indice il suo amico gli indicò la porta.
Oh
no… Ci risiamo.
Palpitazioni,
sudore freddo, balbuzie incessante. Erano quelli i sintomi della sua
degenerazione fisica e mentale…. E sentimentale. Tutta colpa di
quel maledetto giorno, il primo di quell’anno scolastico, in cui
era entrata candidamente in classe accompagnata dal preside. Era
nuova e si era persa, non era stata capace di interpretare la cartina
del liceo e di trovare la classe di matematica.
Alicia
Kristen Eva Lewis.
Capelli
scuri, occhi scuri, pelle chiara. Libri sotto braccio, zaino sulle
spalle, sguardo basso ed indifferente. La osservò segretamente
sedersi vicino alla finestra in silenzio, alla sua sinistra, davanti
al banco parallelo al suo. Sistemò i capelli dietro alle orecchie,
allacciò le stringhe sfilacciate dell’anfibio destro, prese un
libro dalla piccola pila appoggiata sul suo banco e si mise a
leggere.
Uno
scappellotto atterrò sulla nuca di Danny.
“E
piantala!”, esclamò Dougie.
“Fatti
i cazzi tuoi!”, lo rimbeccò prontamente, massaggiandosi la testa.
Provò
a concentrarsi sulle regole per la soluzione di un sistema di
equazioni di terzo grado ma, sebbene le conoscesse a memoria, non
riusciva più a rammentarle.
“Signorina
Lewis! Vorrebbe essere invitata a cena???”
Un’altra
bomba di risate, ma stavolta furono prevalentemente di provenienza
femminile.
“Fotti
tua sorella, Judd.”, gli rispose subito Alicia, senza neanche
voltarsi a guardarlo.
“No,
è te che si fotte!”, incalzò Chris Sand, l’amico più fidato di
Harry, il suo cane da combattimento ed emulatore professionista.
Altre
risate, altre palpitazioni.
Li
odiava, li odiava tutti. Perché
non la lasciano in pace?,
si chiese Danny, come ogni volta. Non c’era alcun divertimento
nell’offenderla, lo trovava piuttosto disgustoso e senza senso.
Eppure lei sembrava non farci caso, li lasciava perdere e continuava
tranquillamente la sua vita.
Alicia
lo aveva colpito come un fulmine spezzava in due la querce più alta
e più vecchia. Era entrata nella classe di matematica e, bum!,
aveva ucciso il cuore del re degli sfigati e dei secchioni. Non
poteva farci niente, era innamorato di lei. Completamente,
stupidamente, incondizionatamente innamorato di lei, e se ne fregava
di quello che le persone raccontavano sul suo conto. Non dava peso a
quanto potesse sembrare stronza, altezzosa, presuntuosa… E facile.
Dicevano che era una facile, una che ci stava, ma non poteva essere,
no, ne era pienamente convinto.
Era
stato Harry a mettere quella voce in giro, era sicuro anche di
quello.
.*.*.*.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
Eccomi
qua con il primo capitolo di questa storia :) Spero che vi sia
piaciuto anche il prologo e ringrazio _Blackisavampire per aver
commentato <3 E tu Ciry, acqua in bocca!
Da questo in poi, ogni capitolo
avrà un piccolo sottotitolo, nonostante non esista alcun titolo.
E' un verso della canzone "The heart never lies",
dei McFly, che uso senza alcuno scopo di lucro... Maledetti, ogni
volta che vedo quel video mi viene da piangere. Comunque, vi lascio
alla storia :) Per il momento i capitoli saranno piuttosto corti, datemi il tempo di ingranare! Spero che di appassionarvi almeno un pochino tanto da
spingervi a lasciare un commento, di qualsiasi tipo, ne sarei felice.
<3
Alla prossima!
RubyChubb
CAPITOLO
1
Some
people laugh and some people cry
Chiuse
il libro di geologia e si stropicciò gli occhi. Ne aveva abbastanza
di falde, zolle tettoniche, provvedimenti anti sismici e magmi vari.
Voleva dedicarsi ad altro.
Aveva
bisogno
di dedicarsi ad altro.
Poteva
dire che la giornata era stata nella norma, non erano
successe cose molto spiacevoli. La professoressa di letteratura,
quella vipera, aveva provato a fregarlo rifilandogli una domanda
piuttosto difficile su Walt Whitman, chiedendogli a quale poesia
fosse appartenuto il verso 'Emetto
il mio grido barbarico sopra i tetti del mondo'.
Ci aveva pensato un po’, sentendosi gli occhi di tutti su di sé,
ma aveva risposto senza un tremito nella voce.
“Canto
di me stesso.”, aveva risposto con sicurezza.
“Ovviamente
corretto.”, aveva detto lei, la signorina Jackson.
Un
brusio si era levato in sottofondo ed aveva distinto tra le tante
voci il classico ‘secchione
gran figlio di puttana’,
ma non ci aveva fatto caso. Di solito, però, quando tornava a casa e
si chiudeva nella sua stanza, quelle parole tornavano a suonargli
nella testa…
Si
disse di non pensarci, che quelli erano solamente degli stupidi e che se avessero fatto quello che la professoressa aveva detto
loro avrebbero potuto rispondere con la medesima facilità. Non
capiva il perché di tutto quell’odio nei suoi confronti, in fondo
faceva solamente il suo lavoro di studente. Non era nemmeno uno di
quelli che alzava la mano per rispondere ad una domanda posta alla
classe, piuttosto preferiva spararsi, lo faceva solo se era
direttamente interpellato. Non era colpa sua se teneva alla sua
carriera scolastica, se si sentiva bene quando il suo nome era
corredato da dei bei voti. Era fatto così, sua madre gli aveva
insegnato quello e non gli pareva di nuocere al mondo.
Fine
della storia.
Sistemò
il libro dentro allo zaino, gli sarebbe servito per la lezione del
giorno dopo. Sbadigliò e dondolò la testa, la cervicale gli doleva
sempre alla sera. Prese il suo portatile, fece attenzione che il filo
non si scollegasse dalla presa elettrica, si sedette sul letto ed
allungò le gambe sul materasso.
Lo
accese e, prima ancora che il logo del sistema operativo illuminasse
il centro buio dello schermo, tre colpi alla porta lo disturbarono.
“Vieni
pure.”, disse.
“Daniel?”,
lo chiamò sua madre, affacciandosi in camera.
“Che
c’è, mamma?”, le domandò.
Le
sorrise grattandosi la testa e si sistemò gli occhiali sul naso.
“Tutto
bene a scuola?”, gli domandò, come faceva sempre dopo cena.
Kathy,
sua madre, aveva un sesto senso: veniva sempre a porgergli quella
domanda pochi secondi dopo che aveva chiuso il libro, senza vederlo
compiere quel gesto. Appariva così, dal niente, e voleva sapere come
era andata la sua giornata.
“Bene.”,
le disse.
“Perfetto.”,
rispose lei.
Gli
sorrise e se ne andò, non chiedeva mai niente di più, aspettava che
fosse lui a parlarle dei suoi problemi, il che capitava praticamente
quando lo stress non gli permetteva di vivere tranquillamente.
La cosa non era frequente, era un tipo piuttosto calmo e remissivo,
non eccedeva mai in grandi esplosioni di rabbia.
Tornò
al suo portatile, che si era ormai quasi completamente acceso, digitò
la password e il sistema operativo si avviò da solo.
Bussarono
ancora.
“Mamma?”,
la chiamò.
La
porta si aprì.
“No,
cretino, siamo noi due!”, si presentò Dougie, seguito da Tom.
I
suoi due migliori amici assediarono la camera e, come una rivelazione
venuta dall’alto, si ricordò che era martedì, la serata che
usualmente passavano insieme lì dentro.
“Mi
ero quasi dimenticato.”, disse ai due, che si erano già
accomodati, “Fatemi comunque sistemare una cosa.”
Tom
era seduto per terra, sul grande cuscino rossastro di cui si sentiva
quasi il proprietario; Dougie si era appollaiato sulla sedia che sua
madre aveva trasformato in una piccola poltrona rivestita di velluto
scuro.
Lui,
sul suo letto, si connetté alla rete; in automatico, partì il
programma che lo collegava al resto del mondo. Ma soprattutto ad una
persona in particolare.
La
trovò già on line e la contattò.
I’m
RATLEG scrive:
Ci
sono i due scemi, arrivo più tardi.
La
risposta arrivò pochissimi secondi dopo
BecauseTheNight
scrive:
:-)
Meglio tardi che mai… A dopo!
Cambiò
il suo stato personale in ‘non al computer’ e si dedicò ai due.
“Cosa
facciamo stasera ragazzi?”, domandò loro, “Avete portato
qualcosa da vedere?”
“Ho
dimenticato il film a casa…”, disse Dougie, scuotendo la testa.
“Però
il tuo videogame ce l’hai nella tasca dei pantaloni!”, sbuffò
Tom infastidito.
Danny
rise. Erano così diversi e così uguali da come li aveva lasciati
quella mattina. Innanzitutto, si erano tolti la divisa scolastica,
mentre lui era ancora in camicia e pantaloni di stoffa. Si era
liberato della cravatta ed aveva arrotolato le maniche ai gomiti.
Dougie, nei suoi abiti larghi, poteva nascondere quello che voleva
nelle tasche dei pantaloni. Tom, invece, preferiva non tradire il suo
status di incorreggibile sfigato indossando quelle t-shirt tutte
colorate, con i loghi dei suoi film e manga preferiti.
Erano
decisamente un trio di deficienti male assortiti.
“Beh…”,
disse Danny, sistemandosi i capelli spettinati sulla fronte, unica
pecca del suo modo di essere, “Possiamo anche dedicarci a qualche
altra cosa che non sia la visione di un film…”
“Ma
questa è la serata dei film!”, protestò ancora Tom, visibilmente
scocciato dalla dimenticanza di Dougie, “Non possiamo rimandare!”
“E
allora cosa vogliamo fare?”, chiese Danny, stringendosi nelle
spalle.
I
tre si guardarono con aria interrogativa, aspettando una proposta
decente.
“Sfigati!”,
si sentirono chiamare.
La
voce squillante di Vicky, sua sorella, stroncò in due il silenzio.
Era apparsa sulla soglia della porta.
“Pronti
a masturbarvi in gruppo?”, chiese ridendo.
Danny
scosse la testa, Vicky riusciva sempre a metterlo in imbarazzo con la
sua eccessiva esuberanza. Erano l’uno all’opposto dell’altra:
Vicky poteva assordare chi aveva la sfortuna di capitare sotto il
tiro della sua conversazione; lui preferiva starsene zitto ed
ascoltare gli altri. Lei era individuabile a centinaia di metri di
distanza, per via dei suoi capelli sempre di colore diverso; lui
odiava letteralmente farseli tagliare tanto che quando capitava sua
madre, parrucchiera di professione, doveva quasi legarlo alla sedia.
Era per quello che lasciava che i suoi capelli crescessero e
diventassero quei ricci spettinati. Tutta colpa di quando, da
piccolo, Kathy aveva cercato di spuntargli i capelli e, per poco, non
gli aveva tagliato un orecchio.
Insomma,
lui e Vicky non sembravano nemmeno fratelli, se non fosse stata per
la somiglianza del loro viso.
“Se
vuoi darmi una mano…”, le disse Dougie, ironizzando e facendoli
ridere.
“No,
grazie.”, rispose lei, “Non saprei dove cercarlo.”
Sebbene
ogni volta volesse provarci, Dougie non riusciva mai a farla zittire.
“Non
sapresti cosa farne, è diverso!”, insistette lui, che sicuramente
pensava di aver vinto.
“Lo
darei al cane.”, sbuffò lei, “Che lo sputerebbe subito! Buona
serata segaioli.”
E
se ne andò, la sua era sempre una toccata e fuga.
“La
posso sposare?”, domandò Tom, “Così me la porto dietro per
zittire questo cretino.”
Ebbe
inizio la loro serata. Dougie sproloquiò per mezzora sul suo
videogioco, informandoli che lo aveva concluso dopo un’illuminazione
avuta in seguito ad un Big Mac alto quattro piani. Tom, invece, aveva
passato il pomeriggio a cercare di concludere il suo lavoro per la
valutazione mensile del corso di disegno.
“Ho
sputato il sangue, ma ce l’ho fatta.”, disse, “Volete vedere?”
Si
era portato il tubo porta-disegni appositamente per quello.
Ovviamente gli dissero di sì e pochi attimi dopo un foglio formato
A3 venne srotolato davanti ai loro occhi. Danny impiegò qualche
attimo, ma quello che vide fu inconfondibile.
Deglutì
un carico di saliva grosso quanto l’Oceano Pacifico.
“Uh!
Colpo basso, FletChin!”, esclamò Dougie scoppiando a ridere.
Tom
fece altrettanto e lo mise inevitabilmente in imbarazzo. Incrociò lo
braccia e lo fulminò con lo sguardo.
“Andiamo,
l’ho fatto per te!”, cercò poi di scusarsi il suo amico, “Lo
appendi come un poster e te la puoi vedere quando vuoi!”
“Non
sei divertente, Tom.”, gli fece.
“Non
hai proprio senso dell’umorismo!”, lo brontolò Dougie, “E’
un capolavoro e Tom te lo ha donato. Sai che non si guarda in bocca
ai cavalli, se ti vengono regalati…”
Dougie
aveva ragione, quel ritratto era semplicemente perfetto, Tom aveva
del talento da vendere e i suoi disegni lo dimostravano. L’aveva
riprodotta con matite e carboncino, seduta al suo posto con il mento
appoggiato sulla mano e lo sguardo perso fuori dalla finestra. Lei
soltanto, gli altri banchi erano vuoti.
Lo
osservò ancora, chiedendosi se appenderlo oppure no.
Non
poteva farsi ossessionare da Alicia all’ennesima potenza.
“Grazie
Tom.”, gli disse, arrotolandolo ancora e appoggiandolo sulla
scrivania, “Appena troverò una bella cornice lo appenderò da
qualche parte.”
Come
rovinare la serata con un disegno. Di lì a poco, infatti, i suoi
amici se ne andarono e lo lasciarono solo. Dette un’ultima occhiata
ad Alicia.
Forse
le aveva rivolto la parola per tre volte in quei quattro mesi, ed in
tutte quelle occasioni aveva iniziato a balbettare come un cretino,
finendo per dirle solamente ‘c-c-c-ciao’. A nulla erano valsi i
tentativi dei suoi amici di avvicinarlo a lei, che sembrava sempre
distante e distaccata. Vicky l’aveva vista una sola volta,
Danny gliel’aveva indicata di soppiatto, trovandola in giro per il centro commerciale.
“Lasciala
perdere.”, gli aveva detto lei, che in quanto più grande e donna
doveva saperne molto più di lui, “Ha l’aria della ricca
perfettamente stronza.”
Se
quel monito fosse servito a qualcosa. Ripose
il disegno e tornò sul suo letto, al suo portatile.
I’m
RATLEG scrive:
Eccomi!
Se ne sono andati.
BecauseTheNight
scrive:
Stavo
quasi per andarmene… Sono tremendamente stanca.
Guardò
l’ora, erano già le undici passate. Di solito erano già nel vivo
della discussione, ma per quella sera non avrebbero parlato molto.
I’m
RATLEG scrive:
Com’è
andata l’interrogazione di matematica?
BecauseTheNight
scrive:
Non
mi ha beccata, fortunatamente… L’ho scampata bella!
I’m
RATLEG scrive:
Quindi
niente insufficienza… Cazzo, non me ne va bene una!
BecauseTheNight
scrive:
Oh,
bell’amico che sei Ratleg! XD Dovresti essere felice quanto me!
I’m
RATLEG scrive:
Stai
tranquilla, lo sono! Allora, cosa mi racconti?
Incrociò
le mani sotto al mento ed attese il lungo resoconto della giornata di
Allie, la ragazza con cui passava le sue serate sul web. L’aveva
conosciuta su uno dei tanti forum dedicati al suo musicista
preferito, il Boss, il cui poster riempiva la parete sopra al suo
letto. In
una discussione, lei aveva scritto che le sue due canzoni preferite
erano Because
The Night,
da cui aveva preso il suo nickname, e If
I Should Fall Behind,
a cui lui stesso era molto legato. Un topic dopo l’altro erano
arrivati lì, ad aspettarsi davanti alla finestra di un programma per
la conversazione istantanea.
Di
lei sapeva molto poco: era sua coetanea ed abitava nei dintorni di
Londra, frequentava un liceo uguale a tutti gli altri. Oltre a quei
piccoli particolari nient’altro, tranne tutto il resto. Quello di
cui parlavano non riguardava i loro voti a scuola, né il loro gioco
preferito da piccoli, ma era loro stessi, quello che avevano dentro.
Entrambi
venivano derisi a scuola per quello che erano, entrambi odiavano il
mondo intorno a loro, entrambi volevano essere lasciati in pace da
tutti. Non volevano essere più giudicati, ma solo rispettati.
Era
un piacere trovare qualcuno disponibile a capirlo alla perfezione, lo
faceva stare bene.
BecauseTheNight
scrive:
Ti
racconto che per un solo momento ho quasi provato la voglia di
prendere mio padre e raccontargli tutto, TUTTO. Sono piuttosto stufa
di quello che mi sta succedendo… Odio questa casa, odio questo
posto, odio questa famiglia… Odio tutto e non va bene, mi fa venire
l’ulcera. Odio la mia scuola, odio i miei compagni di classe…
I’m
RATLEG scrive:
Calmati
Allie… Perché poi non gli hai parlato?
BecauseTheNight
scrive:
Perché
quando ho chiesto di starmi a sentire, lui ha ricevuto una chiamata
sul suo cercapersone ed è dovuto fuggire. Sono rimasta sola… O
meglio, sola e chiusa dentro la mia stanza.
Danny
rabbrividì, come ogni volta che leggeva quelle parole.
I’m
RATLEG scrive:
Potresti
anche decidere di non sbarrare la porta di camera tua… Non viene ad
infastidirti spesso.
BecauseTheNight
scrive:
Conosci
la guerra preventiva?
I’m
RATLEG scrive:
Piuttosto
bene…
BecauseTheNight
scrive:
E
dire che mi piaceva quando l’ho conosciuto.
I’m
RATLEG scrive:
Non
sentirti in colpa, non ne hai alcuna.
BecauseTheNight
scrive:
E
invece sai che ne ho una, una soltanto. Averli fatti conoscere, sono
stata io. Se quella sera mi fossi fatta i cazzi miei, a quest’ora
mio padre non si sarebbe mai trasferito qui ed io non avrei mai
conosciuto quella grandissima testa di cazzo di mio fratellastro.
Di
nuovo altri brividi scorsero lungo la sua schiena. Poteva non sapere
il suo cognome, dove abitasse e che scuola frequentasse, ma sapeva
tutto di quello che accadeva dentro le mura di casa sua.
BecauseTheNight
scrive:
Questa
situazione sta diventando insostenibile… Prima o poi scappo di
casa.
I’m
RATLEG scrive:
E
dove vorresti andare?
BecauseTheNight
scrive:
Ho
abbastanza soldi per andarmene. Sono maggiorenne e posso fare quello
che voglio.
I’m
RATLEG scrive:
La
Allie che conosco non è così infantile e dispotica.
BecauseTheNight
scrive:
Beh,
allora tanto piacere Ratleg, sono la nuova Allie!
Si
disconnetté d’un colpo e lo lasciò fissare lo schermo con aria
interrogativa. Era stato tutto così improvviso che non si era reso
conto di niente. Era stata forse una litigata quella che si era
appena conclusa così bruscamente? Se voleva essere fedele alla sua
visione del concetto di litigio, la risposta era no: un litigio si
svolgeva tra due persone che si urlavano in faccia senza ascoltarsi,
come facevano i suoi genitori prima che divorziassero, quando lui
aveva dieci anni e sua sorella dodici. Tra lui ed Allie non era accaduto
niente di tutto quello: l'aveva semplicemente avvertita
dell’immaturità della sua decisione, non gli era sembrato di aver
commesso alcun crimine, ma doveva essersi offesa, vista la sua netta
reazione.
Il
pensiero lo torturò finché non si addormentò: se Allie fosse
davvero scappata di casa, non se lo sarebbe mai perdonato. Avesse
saputo dove abitava, sarebbe andato da lei per farla ragionare, per
convincerla a confessare a suo padre quello che stava sopportando: la
presenza di un fratellastro, il figlio della compagna del padre, che…
Sentì
il sangue bollire nelle vene, cercò di pensare alle disequazioni di
terzo grado e si addormentò.
.*.*.*.
La
mattina successiva fu esattamente uguale a quella precedente, le
uniche variabili erano le lezioni che seguiva. Prese appunti a
letteratura, evitò l’interrogazione di geologia, fece fatica a
districarsi con alcune date storiche e, con suo grande piacere, l’ora
di matematica arrivò.
Non
si ricordava, a quel tempo era troppo piccolo, ma ci fu qualcuno che
lo vide giocare con le sue automobiline su un grande tappeto
disegnato con numeri e formule matematiche, che adesso doveva
trovarsi nella soffitta di casa. Non sapeva se quel tizio fosse stato
un conoscente di famiglia o un parente, ma quello gli chiese quante
macchine avrebbe avuto se avesse raddoppiato le due con cui stava
giocando. Oggi nella sua mente la domanda suonava troppo difficile
per un bambino di quattro o cinque anni, molto probabilmente
gliel’aveva posta in tutt’altre parole… Eppure Danny aveva
risposto quattro, alzando le dita della mano sinistra, e quello gli
aveva regalato un cioccolatino.
Doveva
avere i numeri nel sangue, nei geni, ed era comunque l’unico nella
sua famiglia a capirci qualcosa.
Sentì
tamburellare alle spalle e voltò la testa di pochi millimetri,
giusto per inquadrare Dougie con la coda dell’occhio, che gli
passava un bigliettino.
Il
disegno?
Danny imprecò
silenziosamente mentre leggeva quelle parole.
Sta
dove deve stare.
Gli
rispose e gli passò il pezzetto di carta di soppiatto. La
professoressa Gambler era entrata da pochi minuti, si stava prendendo
il tempo comodo per sistemarsi sulla sua sedia ma la classe doveva
comunque rispettarla con il silenzio.
Pochi
attimi e vide una pallina atterrare sul suo quaderno.
Lo
trovo perfettamente uguale alla realtà…
Non
rispose e infilò il biglietto nella tasca della sua giacchetta. Non
fece nemmeno in tempo a prendere la penna tra le dita che un’altra
pallina volò sul suo banco.
Se
sa fare quello che dicono, saresti proprio fortunato!
Non
si voltò e non gli ringhiò semplicemente perché la prof si stava
impegnando nell’appello. Un nome dopo l’altro vennero chiamati
tutti e gli assenti annotati sul registro.
“Bene.”,
disse l’insegnante, una volta concluso il suo rito, “Tra i tanti
ho visto un nome che fa al caso mio.”
Diciotto
teste si abbassarono, diciotto paia di occhi vollero evitare di
sfiorare anche lievemente la figura della donna per paura di essere
scelti per l’interrogazione. Tutti diventarono improvvisamente
interessati al contenuto delle loro unghie, alle doppie punte,
all’orlo della gonna, agli scarabocchi sui banchi…
“Lewis.”,
chiamò poi la Gambler.
Un
sospiro di sollievo collettivo ed Alicia fu costretta ad alzarsi.
Danny vide subito la sua espressione scocciata ed individuò nel
mormorio generale qualche battutaccia nei suoi confronti, ma Alicia
se ne stava già alla lavagna con il gesso in mano. Incrociò le
dita per lei, che di numeri ne capiva tanto quanto lui di disegno.
Come Tom, Alicia aveva talento con le matite ed i colori, mentre lui
solo con le calcolatrici. Aveva avuto modo di vedere alcuni suoi
lavori per puro caso, quando qualche tempo prima una vecchia e grossa
cartella marrone le era caduta da sotto il braccio ed il suo
contenuto si era sparso per il corridoio. Le aveva dato una mano
solo perché si era trovato quei fogli sui piedi, altrimenti si
sarebbe voltato dall’altra parte per la paura. Aveva addirittura
provato a complimentarsi con lei per la sua bravura, aveva visto
delle riproduzioni di paesaggi campestri che sembravano quasi delle
fotografie, ma da una parte aveva preso a balbettare come un’idiota
e dall’altra Alicia lo aveva a malapena ringraziato.
Tornò
con la mente al presente e si focalizzò sull’interrogazione,
mentre la classe intorno a lui prese a farsi i fatti propri. Una
volta scelto il capro espiatorio, il resto dei sospettati di omicidio
era sempre pronto a cantare il proprio inno alla libertà.
“Il
teorema di Pitagora.”, le propose la professoressa e le dette campo
libero.
“In
un triangolo rettangolo”, spiegò Alicia con sicurezza, “l'area
del quadrato costruito sull'ipotenusa è pari alla somma dell'area
dei quadrati costruiti sui cateti.”
Brava,
esultò Danny, anche se era piuttosto facile, lo insegnavano alle
elementari. L'insegnante le chiese quindi di enunciare la sua teoria
tramite dei grafici e, una linea dopo l’altra, una formula dopo
l’altra, Alicia dette la dimostrazione chiara e palese del teorema
di Pitagora. Gli venne quasi da sorridere, sebbene le mani sudassero
freddo.
Alicia
indossava sempre quegli anfibi neri, i cui lacci apparivano ogni
giorno più consumati. I capelli bruni se ne stavano comodi sulle
spalle e sulla schiena, lievemente mossi, qualche ciocca più chiara
li colorava qua e là. Dalla tasca destra della sua giacchetta
spuntava una cuffia, sicuramente collegata ad un i-pod, mentre dal
taschino sul petto faceva capolino un paio di occhiali da sole di
buona marca. Danny non
sapeva niente di lei, tranne quello che aveva dedotto osservandola e
traendo ipotesi dalle voci che correvano nei corridoi della scuola.
Famiglia piuttosto ricca, viveva con i suoi a qualche chilometro da
lì, in una villetta della campagna circostante la cittadina di
Watford: molto probabilmente si era trasferita da quelle parti per
motivi di lavoro dei suoi, così supponeva Danny, dopo aver vissuto
in un quartiere centralissimo di Londra.
Nel
frattempo l’interrogazione era andata avanti.
“Adesso
dimostrami ancora l’esattezza dell’ipotesi di Pitagora”, le
fece la professoressa, “con il teorema di Euclide.”
Altrettanto
facile, si disse Danny, ed attese la risposta. Nessuna parola.
Alicia
si mordeva le labbra e non rispondeva.
“Avanti…”,
la esortò la Gambler, “Cosa devi fare innanzitutto?”
Alicia
guardò il gesso che teneva tra le dita, sembrava in cerca di
ispirazione o di un suggerimento che non sarebbe mai venuto.
Doveva
soltanto tracciare l’altezza sull’ipotenusa c
partendo dal vertice del triangolo rettangolo, la quale avrebbe
diviso l’ipotenusa stessa in due segmenti, detti p
e q.
Di seguito, i due cateti a
e b
elevati alla seconda erano uguali alla somma tra p
e q,
moltiplicata per c,
ed infine il tutto risultava essere uguale a c
alla seconda, cioè all’ipotenusa al quadrato.
Semplice,
ma non altrettanto scontato per Alicia. Non poteva aiutarla, quindi cosa fare?
La
professoressa sospirò.
“Lewis,
non puoi imparare la formuletta a memoria per poi essere incapace di
dimostrarla…”, disse la donna scuotendo la testa, “Significa
che non hai capito niente di quello che abbiamo spiegato negli ultimi
mesi.”
“Ma
professoressa”, cercò di difendersi lei, “questi concetti si
riferiscono al programma del mese passato!”
“A
dire la verità è del programma del primo anno…”, disse l’altra,
“Ma non per questo devi scordarteli.”.
Alicia
era un caso perso, purtroppo. Qualche risatina rianimò la classe.
“Non
ho voglia di spiegarti ancora queste cose.”, disse la donna,
“Jones, fallo tu al posto mio.”
Una
bastonata sulla nuca, ecco cosa avrebbe preferito. Un calcio nelle
palle, un pugno in un occhio, uno schiaffo sulle labbra. Essere
investito da un auto, da un bus, da un camion, piuttosto che
alzarsi e raggiungere la lavagna, fare fronte alla causa di gran
parte dei suoi problemi ormonali e lasciarsi deridere da mezzo mondo.
La
classe era in stand by, in molti lo fissavano chiedendosi se avrebbe
scollato il culo dalla sedia. Se al posto di Alicia ci fosse stata
una pianta grassa, Danny non avrebbe esitato un attimo nello spiegare
in tutto e per tutto come Euclide era riuscito a dimostrare che la
somma dell’area dei quadrati costruiti sui cateti era uguale
all’area di quello costruito sull’ipotenusa. Avrebbe soltanto
guadagnato ulteriori prese per il culo dai suoi compagni, ma lo
avrebbe fatto per piacere personale.
Con Alicia al posto della pianta grassa era diverso. Molto diverso.
“Jones?”,
lo chiamò la Gambler, “Daniel Jones?”
“S-Sì?”
“Verresti
alla lavagna ad illustrare alla sua compagna di classe il teorema di
Euclide che spiega la veridicità delle affermazioni di Pitagora?”
Tom
si voltò verso di lui, la sua espressione era tutto un dire.
Non
aveva scampo.
“Va
be-bene…”
Premette
i palmi delle mani sul banco e si alzò. Testa bassa, sguardo fisso
sul pavimento, e presto fu davanti alla lavagna, così vicino che
poteva vedere solo quella, e non Alicia accanto a lui. Cercò un
pezzo di gesso, ma ne trovò solo uno, microscopico, sulla piccola
soglia di legno.
“Tieni.”
Alicia
gli allungava la mano con quello che cercava. Lui non seppe cosa
fare.
“Prendilo.”,
disse ancora lei.
Le
avvicinò la mano lentigginosa e attese che Alicia posasse il gesso
sul palmo, non aveva certo il coraggio di sfiorare le sue dita,
avrebbe rischiato l’infarto. Tornò sul grigio della superficie
della lavagna e cercò di concentrarsi. Sapeva cosa doveva fare: il
triangolo rettangolo era disegnato davanti a lui, doveva solo
cancellare quello che Alicia aveva già scritto e iniziare di nuovo
da capo.
Prese
la spugnetta con mano tremante e la fece cadere a terra, sollevando
una nuvoletta di polvere. Le prime risatine nacquero alle sue spalle.
La raccolse, tolse l’inutile e si preparò a scrivere. Il gesso
stridette sulla lavagna, gemiti di dolore furono seguiti da altra
ilarità.
“Signor
Jones, per cortesia, si sbrighi.”, disse la professoressa,
spazientita, “Non è mia intenzione prendere la pensione alla fine
di questa dimostrazione.”
Inghiottì
la poca saliva che la sua bocca era ancora capace di produrre. Prese
un profondo respiro e si concentrò.
“Se
tra-tracci una linea che va da-dal vertice…”, la sua voce ebbe un
picco stridulo.
I
compagni esplosero in una risata di gruppo.
“Fino
alla ba-base, cioè dall’angolo formato dai due cateti chiamato C
all’ipotenusa, an-anch’essa c…”
Disegnò
la linea, che risultò piuttosto storta e tremolante.
“Ottieni
l’altezza del tri-triangolo rettangolo.”
Gli
occhi erano fissi su quello che aveva prodotto, mentre sentiva quelli
di Alicia su di sé. Era terrorizzato e si faceva una gran pena.
“Oliate
la bocca di Daddy Jones…”, Harry consigliò ad ignoti ascoltatori
che subito risero di lui.
“Judd,
silenzio!”, lo zittì la Gambler, ma ormai era troppo tardi.
Danny
sospirò e lasciò il braccio cadere lungo il fianco. Era un caso
perso, clinicamente irrisolvibile.
“Jones,
continua pure.”, gli disse la professoressa.
Si
fece coraggio.
“Que-questa
linea divide l’ipotenusa in due parti.”, scrisse una p
e una q lungo le due sezioni della base del triangolo, “Se sommi queste due
se-semirette e le moltiplichi per l’ipotenusa...”
“Perchè
dovrei farlo?”, lo interruppe Alicia, “Che senso ha sommare pe q per poi moltiplicarle per c?”
“Beh…”,
si grattò la testa, “Pe q sono le due parti di c.”
Le
indicò le lettere e Alicia sembrò annuire.
“P più q mi dà c…
E quindi cmoltiplicato per se stesso mi dà c al quadrato.”
Gli
occhi di lei si stringevano in fessure.
“E
come hai de-detto tu-tu prima…”, le ricordò, “I due cateti a e b del tri-triangolo elevati al quadrato e so-sommati tra di loro sono
uguali all’ipotenusa al quadrato… a alla seconda più b alla seconda uguale c
alla seconda…”
La
fronte di Alicia si aggrottò.
“Quindi…”,
fece lei, fregandogli rapidamente il gesso tra le mani.
Danny
si ritrasse così velocemente che lei non se ne accorse. Alicia
disegnò alla perfezione i tre famosi quadrati sui vari lati del
triangolo rettangolo.
“Euclide
mi dice la stessa cosa di Pitagora.”, disse la ragazza, “La somma
dei due quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito
sull’ipotenusa… Solo che si inventa questa storia della linea tra
il vertice dei cateti e l’ipotenusa.”
“C-che
si chiama altezza.”, le evidenziò.
Lei
annuì, guardando con soddisfazione il disegno alla lavagna.
“Forte!”,
esclamò poi.
“Visto
che non era così complicato?”, disse la professoressa con aria
sconsolata, “Andate a posto. Lewis, un’altra insufficienza del
genere e non passi l’anno scolastico.”
Alicia
sembrò non ascoltarla; gli porse il gesso e gli sorrise con calore e
riconoscenza, prima di voltarsi e tornarsene al suo posto.
Danny
ebbe una tripla ischemia, quattro infarti al miocardio e sei o sette
embolie polmonari.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
Eccomi qua! Di nuovo per voi <3
Ringrazio _Blakisavampire
per il commento :) non chiedo critiche costruttive, anche se sono ben
accette! L'importante è dire sempre la verità, il proprio
parere. Altrimenti che ci sto a fare qua? FAccio ballare la scimmia xD
Grazie ancora <3... E anche _Vergessenes Kind_:
sì, lo so che è difficile immaginarsi quei due con queste
vesti... Non dirlo a me che li ho fatti nascere così xD abituata
a vedere Jones che fa lo scemo ovunque e quell'altro che... Non mi far
commentare Judd. Non lo sopporto xD
Un ringraziamento anche a saracanfly! Ti ho visto nei preferiti <3 grazie ancora!
Un grazie anche a chi leggerà.
Dimenticavo! "Because the night",
nickname del personaggio virtuale, è una canzone vera e propria,
che non utilizzo con scopo di lucro. Ve la linko, un grazie a Patti Smith per averla interpretata ed al Boss per averla scritta insieme a lei. Altra citazione: "Born to run", sempre del Boss, no scopo di lucro.
Fine del prologo, a voi!
CAPITOLO
2
Some
people live and some people die
Lo
stava studiando da un pezzo, il suo amico Dad Jones. A mensa, Tom
spelacchiava la sua purea di patate e lo osservava con un sorriso
soddisfatto, l’altro era ignaro di quello che era riuscito a
combinare per lui.
Tre
giorni prima Danny aveva quasi salvato il suo amore angelicato
dall’ennesima insufficienza in matematica e, sebbene il suo sforzo
fosse andato a vuoto, aveva guadagnato un sorriso che lo aveva fatto
sbiancare, poi arrossire ed infine violettizzare, se così poteva
definire lo stato in cui Danny riversava ogni volta che
Alicia gli passava accanto, sebbene lei non gli avesse più rivolto
parola né sguardo da quell’episodio.
Era letteralmente un caso perso, lo era da sempre e lo sarebbe stato
fino all’eternità. Per lui esistevano solo i suoi libri, gli
appunti, il pc e la musica, quella era la sua quotidianità ed
aveva vissuto bene finché il testosterone non si era impennato alla
vista di Alicia. In un primo momento Tom ne era rimasto quasi
contento, aveva quasi supposto che il suo migliore amico di sempre
fosse stato omosessuale, data il suo scarso interesse verso il genere
femminile. Ma poi…
Dio,
proprio di Alicia Lewis doveva andarsi ad innamorare!
Non
sapeva se tutto quello che si diceva su di lei fosse stato vero, ma
stentava a lasciar perdere alcune voci. Tutto era partito da quel
cazzone di Harry Judd, era stato lui a rivendicare la cosiddetta ‘iniziazione’
di Alicia, essendo uscito con lei poche settimane dopo il suo arrivo
in città. Ne dubitava, ma se fosse stato vero? Se Alicia fosse stata
davvero la ragazza di cui si parlava? Danny
si era innamorato della persona sbagliata, aveva bisogno di qualcuna
alla sua portata. Tom faticava a dire che non fosse una ragazza
carina… Molto carina, ed ammetteva tranquillamente a sé stesso che
i suoi pensieri su di lei non erano stato propriamente puri, ma non
era il suo tipo ideale di ragazza, come sembrava esserlo diventato
per Danny.
E
se i problemi sentimentali del suo amico fossero finiti lì, allora
poteva mettersi l’anima in pace e attendere che si disinnamorasse
di Alicia, ma non era così. Per essere breve, durante i martedì passati a
guardarsi qualche film, a Dougie era capitato
un paio di volte di approfittarsi dei momenti di sua assenza
per ficcanasare nel portatile di Danny. Avevano così scovato con stupore le lunghe
conversazioni che intratteneva con una certa BecauseTheNight,
di cui non erano riusciti a leggere il nome perché il tempo a loro
disposizione era sempre stato molto esiguo. Sembravano essere
diventati molto intimi, si psicanalizzavano a vicenda con la
tranquillità di due persone vissute insieme per anni ed anni.
Loro due non ne sapevano niente, Danny aveva tenuto tutto nascosto.
I suoi due migliori amici non erano a conoscenza di questa ragazza.
La cosa li aveva preoccupati e si erano decise ad indagare, ma Danny si era
dimostrato sempre reticente nel parlarne, ed alla fine avevano
accantonato la questione. La curiosità di leggere cosa si dicevano
quei due, però, non era mai morta e trovavano ogni occasione per
scacciarlo via dalla stanza, spesso con la scusa di mandarlo a fare i
pop-corn.
Ad
ogni modo, Alicia era il problema del suo presente, quello in carne
ed ossa. Era capace di togliergli ogni capacità umana, dal pensiero
alla parola e alla mobilità degli arti inferiori e superiori.
Doveva
fare qualcosa per aiutarlo ed aveva trovato una soluzione, cadutagli
sotto il naso ed approvata all’unanimità da Dougie.
“Piantala
di fissarmi!”, esclamò Danny infastidito, lasciando perdere le sue
patatine fritte, “Ho una caccola che pende dal naso?”
“Scusami.”,
gli rispose, “Non volevo farti innervosire.”
Tom
prese il suo vassoio e, dopo averlo sistemato nello scaffale insieme
ai vassoi dei suo compagni di scuola, se ne andò. Lo attendeva il
corso di disegno, che frequentava insieme ad Alicia.
Sul
suo volto apparve un ghigno soddisfatto.
.*.*.*.
“Daniel!”,
si sentì chiamare da sua madre, “La cena ti aspetta!”
Chiuse
il manuale di storia e si sgranchì il collo, le gambe e la schiena.
“Arrivo!”
Si
lavò le mani e scese al piano inferiore, dove il profumo di carne al
forno lo trascinò al suo posto. Vicky non li aveva ancora raggiunti
e, nonostante avesse un buco al posto dello stomaco e fosse piuttosto
tardi, la attesero.
“Com’è
andata al lavoro mamma?”, le domandò.
La
donna gli sorrise, una ruga stanca apparve sulla fronte.
“Bene,
ma sono distrutta dalla fatica e dal raffreddore.”, disse e
sbadigliò, “Tua sorella non sta meglio di me.”
La
videro apparire avvolta in una lunga sciarpa, con il naso gonfio e
gli occhi arrossati. Influenza in arrivo, pensò Danny. Cenarono tra
i lamenti, gli starnuti e le soffiate di naso di Vicky, ma fu
comunque piuttosto piacevole.
“Stasera
tocca a te.”, disse poi lei, riferendosi ai piatti sporchi, “Penso
che andrò a letto e morirò per un’overdose da aspirine.”
“Va
bene.”, acconsentì subito.
“Non
ti lamenti neanche un po’?”, fece Vicky, sorpresa, “Non hai da
studiare? Né da chattare con quegli sfigati?”
“Tom
e Douglas non sono degli sfigati.”, la riprese subito Kathy, “Sono
dei bravi ragazzi.”
“Uno
si ammazza tra videogames e computer, l’altro si perde nel
disegnare fumetti idioti… Non so la tua, ma la mia generazione li
chiama sfigati!”, le spiegò Vicky con naturale schiettezza, “E
mio fratello ne fa parte!”
“Basta!”,
si ribellò Danny, “Vai a spargere i tuoi microbi altrove!”
Per
l’affronto, Vicky gli starnutì in pieno viso e se ne andò
inviperita. Danny guardò sua madre e scosse la testa, a volte sua
sorella era proprio una prima donna insopportabile. Sparecchiarono la
tavola in silenzio e, quando il lavello fu colmo d’acqua calda,
Danny vi spruzzò del detersivo. Sebbene la camicia che indossava
fosse stata da lavare, indossò un grembiule ed arrotolò le maniche
ai polsi; immerse le mani nell’acqua calda ed evitò così che lo
facesse sua madre, che aveva lavato teste per tutto il giorno e ne
doveva avere abbastanza.
“E
com’è andata oggi?”, gli domandò Kathy, passandogli i primi
piatti.
“Bene.”, le rispose.
“Non
è accaduto niente di particolare?”
Danny
si strinse nelle spalle. Le cose particolari erano fuori dalla sua
vita, a parte i momenti imbarazzanti che la scandivano
quotidianamente, ma non credeva che a sua madre interessassero.
“No,
tutto è filato liscio come l’olio.”
Non
amava particolarmente lavare i piatti e vide sua mamma sorridere alle
sue facce disgustate. Preferiva fare tutt’altre cose, i lavori di
casa non gli andavano generalmente a genio ma la collaborazione era
fondamentale, altrimenti la sporcizia e le stoviglie sporche
avrebbero preso il sopravvento. Sua
madre lavorava duramente per mantenere entrambi i figli e il tempo
rimanente per le pulizie lo spartiva con loro. Vicky la aiutava economicamente con
il suo impiego al pub dietro l’angolo ma aveva una carriera
universitaria da portare avanti e faceva già troppo. Dal canto suo e
del suo cervello pallottoliere, Danny cercava di amministrare con
coscienza e razionalità le finanze di tutta la baracca. Di
loro padre nessuna traccia, stava bene con l’altra sua famiglia e
non allungava un centesimo nemmeno se era il tribunale a spingerlo.
C’erano così abituati che avevano rinunciato a ciò che spettava
loro, preferendo mantenersi da soli piuttosto che aspettare l’assegno
familiare che loro padre avrebbe dovuto staccare ogni mese.
“Aspetto
il giorno in cui mi dirai che…”, disse sua madre, ma il
campanello la zittì.
Si
chiesero con lo sguardo chi fosse il visitatore, dato che non
aspettavano nessuno alle nove di quella sera.
“Sarà
Mary.”, disse sua madre, riferendosi alla vicina di casa, “Ha
sempre problemi con quella maledetta macchina per cucire. Vado a
sentire cosa vuole.”
“Ok,
finisco io.”, le fece..
Sua
madre lasciò perdere lo straccio per i piatti appena risciacquati e
sparì nel corridoio. Danny si impegnò così nella scrostatura della
teglia da forno, dandoci sotto con l’olio di gomito e una buona
spugnetta di ferro, ma stando però attento a non rigare la
superficie antiaderente.
“Daniel?”,
si sentì chiamare, “Puoi venire?”
Si
chiese il perché.
“Un
attimo!”, le rispose.
Si
asciugò frettolosamente le mani e si presentò da sua madre.
Un
colpo apoplettico coincise con un aneurisma ed un ictus.
“Ciao
Jones.”, lo salutò Alicia, sulla soglia della porta.
La
fissava come un cretino, occhi e bocca spalancati per l’accidente
che gli era preso. Alicia aveva una borsa nera a tracollo, le dita
giocherellavano con le cuffie dell’i-pod e sembrava in attesa di
qualcosa. Jeans chiari, una maglioncino a collo alto, un paio di
strani orecchini e un sorriso amichevole.
Accanto
a lei sua madre, che lo guardava perplessa.
“Cia-Ciao…”, le rispose con un filo di voce, “Che… Che ci f-fai
qua?”
Lei
sembrò ancora più stupita di sua madre.
“Sono
venuta a prendere ripetizioni di matematica da te…”, rispose lei.
Ripetizioni?
Matematica? Alicia?
“Beh…
Io…”
“Fletcher
mi ha detto che ti sei offerto di aiutarmi… E dato che mi hai fatto capire quella cosa sui triangoli, ho voluto
cogliere l’occasione!”, si spiegò lei.
“Se
è così allora vieni pure!”, esclamò sua madre con un sorriso, e
le fece cenno di entrare, “Per puro caso ho fatto un dolce, ve ne
porto subito una fetta!”
Alicia
sorrise a sua madre, ripose l’i-pod nella borsa e mise il primo
piede in casa sua. Danny sentiva il suo cuore trapanargli il petto,
sfondarlo e cadere per terra, continuando a battere impazzito.
“Carino!”,
esclamò Alicia, fermandosi e sorridendogli.
Ebbe
un corto circuito lievemente fatale.
“Daniel!”,
lo chiamò sua madre, “Togliti quel grembiule!”
Si
guardò indosso.
Una
valanga infinita di imprecazioni travolse ogni suo pensiero e, a
velocità supersonica, si liberò del grembiule . Gli occhiali
sbalzarono via dal viso, ma fu abile nel riprenderli e indossarli di
nuovo. Appallottolò la stoffa biancastra e umida e la nascose alle
sue spalle.
“Molto
piacere, mi chiamo Kathy.”, sua madre si presentò ad Alicia.
“Alicia
Lewis.”, le rispose lei, stringendole la mano con educazione.
“Mio
figlio non mi ha mai parlato di te.”
“Sono
praticamente nuova.”, le rivelò Alicia, “Sono arrivata
quest’anno ed abbiamo in comune solo l’ora di matematica.”
“Capisco…”,
disse sua madre, “Beh, la vuoi ancora la fetta di torta?”
Alicia
mangiava la crostata al lampone, Danny non la guardava. Era troppo
impegnato ad immaginarsi che cosa avesse pensato quando lo aveva
visto apparire con quel cazzo di grembiule legato al collo. Perchè Vicky
aveva dovuto scaricargli i piatti proprio quella sera? E
Tom… Tom! Tom Fletcher!
Se avesse potuto prenderlo in quel momento, gli avrebbe ficcato su
per il culo il servizio da dodici di porcellana. Ma che cazzo gli era
saltato in mente, dire ad Alicia che poteva darle ripetizioni senza
il suo consenso, consigliandole di presentarsi alla sua porta così
non avrebbe potuto cacciarla via! Che grandissimo figlio di pu…
“Vi
lascio soli.”, disse sua madre, “Finisco di riassettare la
cucina.”
“Grazie
per la torta.”, fece Alicia, alzandosi e porgendole il suo
piattino, “ Era veramente deliziosa!”
“Troppo
gentile…”, rispose la donna, ricevendo la stoviglia dalle sue
mani.
…ttana!
Stronzo che non era altro! Bastardo dalla a alla zeta, anzi, dallo
zero al più o meno infinito!
Era
un suicidio, dirle che poteva darle ripetizioni era un harakiri vero
e proprio.
“Allora
Jones.”, lo chiamò Alicia, “Mi vuoi aiutare?”
Fece
lo sforzo di alzare gli occhi e guardare i suoi per una frazione di
secondo.
“Ma
sì che lo è!”, esclamò sua madre al posto suo, “Andate pure in
soggiorno, spero di non disturbarvi!”
Alicia
si alzò, come per esortarlo. Non era stupida, stava sicuramente
afferrando il senso del suo terrore e Danny dovette fare fronte alla
situazione davanti alla quale Tom lo aveva messo, sicuramente in
combutta con Dougie, organizzata dopo quel fottuto teorema di
Pitagora secondo Euclide.
Danny
decise così di alzarsi e le fece cenno di seguirlo, ma sulla soglia
della porta della cucina Vicky gli si parò malauguratamente davanti.
Fu impossibile nasconderle la vista di Allie, che la salutò subito.
“Ciao!
Mi chiamo Alicia.”, e le porse la mano alla velocità della luce.
Vicky
la guardava con occhi sbarrati, la visione di lei era più aliena di
un extraterrestre. Soprattutto, la visione di lei accanto a lui era
più strabiliante di un miracolo divino. Qualsiasi ragazza nei pressi
di Danny Jones, che non si trovasse lì per errore o che non fosse
sua sorella né sua madre, era un film di fantascienza.
“Vicky…”,
rispose lei presentandosi.
“Le
do ri-ripetizioni.”, le spiegò frettolosamente Danny.
“Certo…
Buona fortuna.”, gli augurò scansandosi dalla loro strada ed
osservandoli per tutto il breve tragitto che percorsero nel raggio
della sua visuale.
Quando
entrarono nel salotto e se la lasciarono alle spalle,
tutto l’entusiasmo di Alicia si spense improvvisamente. Quel cambiamento lo disarmò
e, per qualche attimo, Danny non seppe cosa fare. Se ne stava seduto
all’altro capo del divano, cercava di trovare le parole giuste per
iniziare ma non sapeva come fare.
“Senti…”,
le fece, “Beh… Da cosa vuoi pa-partire?”
“Non
lo so, dimmi tu.”, rispose lei.
Accavallò
la gamba e la lasciò tentennare nel vuoto, impersonando la stessa
Alicia che condivideva con lui l’ora dei numeri e delle formule.
“Beh…
Io…”, balbettò ancora.
La
borsa a tracolla di lei gli venne in aiuto.
“Hai
po-po-portato qualche libro?”, le domandò.
“Quello
di matematica, ovviamente.”, rispose lei.
Incantato
e disincantato allo stesso momento dalla stupidità della domanda che
le aveva posto, Danny si sentì infinitesimamente stupido ed
insignificante. Nel mentre la sua disperazione aveva preso piega,
Alicia aveva preso il suo libro e glielo porgeva. Lo prese senza
nemmeno volgerle lo sguardo e sfogliò le pagine, tentando di
afferrare un appiglio numerico a cui aggrapparsi.
“Hai
in mente qualcosa che non hai capito?”, le domandò, stupendosi di
non aver balbettato per una sola volta.
“Tutto!”,
esclamò lei, esplodendo in una risata genuina che quasi lo stuzzicò,
ma non ci riuscì fino in fondo.
“Riprendiamo
Pitagora?”, le disse.
“Ok,
Jones.”, rispose lei, avvicinandosi paurosamente.
Si
sentì come un gatto impaurito: non poté inarcare la schiena e
drizzare il pelo, ma se avesse potuto lo avrebbe fatto.
“Mi
chiamo… Da-da-Danny!”, la corresse, veloce come uno sparo.
Alicia
aggrottò la fronte, lo osservò come un esperimento malriuscito e
rise ancora con genuino divertimento, portandosi la mano davanti alla
bocca e chiudendo gli occhi in una fessura. Stava ridendo di lui, era
palese. Danny non resistette e la accompagnò, ma solo per
pochissimi attimi.
“Da…
Da-Danny!”, ripetè Alicia, che stava quasi piangendo.
Danny
attese che si calmasse.
“Scusami.”,
le disse, “Non volevo farti perdere tempo.”
“No,
mi piace ridere.”, rispose lei, cercando di cancellare le lacrime
dagli occhi senza disfare quel po’ di trucco che li
abbelliva, “Comunque, Danny…”
E
stette quasi per ridere ancora.
“Danny…”,
disse Alicia, calmando il sorriso che era di nuovo nato sul volto,
“L’ho fatto solo perché Fletcher ha insistito… Ma anche
perché, se non rimetto a posto i miei voti in matematica, rischio
davvero di finire nei casini.”
“Ok.”,
le disse, sforzandosi di non perdere il senno, “Va bene…”
“Iniziamo?”
Danny
annuì.
Era
troppo impegnato su di lei, su tira e molla del suo atteggiamento. Un
attimo era conciliante, quello dopo sembrava avercela con qualcosa…
Ok, erano stati burattini nelle mani di Tom e di Dougie, entrambi
avevano i loro buoni motivi per avere le palle girate: certa di essere attesa e non di piombare dal cielo come un
meteorite imprevisto, Alicia era
stata spedita da un coglione balbuziente come lui, che l’aveva
accolta con le mani insaponate ed un grembiule macchiato di sugo. Danny aveva capito che cercava di fare buon
viso a cattivo gioco, sapeva che avrebbe colto la prima occasione per
fuggire ed infilarsi tra la mischia di coloro che lo prendevano in giro per ciò che era.
Un
perdente.
Tom
l’avrebbe pagata molto cara, una cosa del genere non avrebbe mai
dovuto fargliela. Danny non avrebbe mai avuto più il coraggio di
guardarla in faccia, e già prima di quella serata le occasioni che
si era concesso per qualcosa del genere risicavano lo zero assoluto.
Non
seppe come successe ma la fine arrivò, sebbene il tempo trascorso
tra l’inizio di quelle ripetizioni e la loro conclusione, dettata
dallo squillo cellulare di Alicia, gli fosse parso di una lunghezza
esasperante. Sulla soglia dell’ingresso la salutò, lei gli
sorrise e la lasciò avviarsi verso la grossa auto nera, pulita e
lucida, che l’attendeva sul marciapiede. Alicia salì su di essa e
sparì voltando l’angolo.
Danny non
perse altro tempo e si chiuse in camera. Accese il portatile, era
piuttosto tardi ma Tom era ancora in linea e non era l’unico. Non
volle parlargli e lasciò che il suo stato rimanesse invisibile, ma
non per lui.
Tirando
le somme, Alicia era sicuramente rimasta così disgustata da Danny
Jones che non sarebbe più tornata a prendere ripetizioni ed
il pensiero lo faceva quasi stare meglio. Era già un problema
affrontarla a scuola da lontano, l’averla a distanza così
ravvicinata era praticamente impossibile da gestire. Soprattutto, non
era riuscito a capire se lei aveva capito... Insomma, nessuno aveva
capito niente.
I’m
RATLEG scrive:
Allie,
ci sei?
Ci
volle molto prima che lei gli rispondesse, il piccolo orologio
disegnato accanto al suo nickname stava a significare che non doveva
essere nei pressi del computer. La attese mordendosi le unghie,
mentre Tom se ne andò poco dopo.
BecauseTheNight
scrive:
Cinque
minuti e me ne vado a letto, sono morta dalla stanchezza....
I’m
RATLEG scrive:
Cosa
stavi facendo di bello?
BecauseTheNight
scrive:
Sono
stata fuori… Ma non è quello il problema.
I’m
RATLEG scrive:
E
qual è? Non dirmi lui.
BecauseTheNight
scrive:
Lui.
Mi ha riportato a casa. Dio, è stato un travaglio.
Danny
scosse la testa. Non le raccontò delle ripetizioni e di Alicia: potevano
discutere di come la musica riusciva ad estraniarli dal mondo intero,
permettendo loro di sopravvivere al mondo esterno, oppure di come suo
fratellastro la torturava con
complimenti e apprezzamenti sconvenienti, mentre i rispettivi
problemi sentimentali non erano mai stati tirati in ballo.
Avrebbe
potuto iniziare quella sera, ma Allie aveva tra le mani una patata
bollente più grossa di lui, che decise di eclissarsi e darle lo spazio
che si meritava.
I’m
RATLEG scrive:
Dimmi
tutto…
BecauseTheNight
scrive:
Non
ce la faccio… Mi fa schifo. Mi fa vomitare.
I’m
RATLEG scrive:
Chiudi
gli occhi e pensa alla canzone più bella del mondo.
BecauseTheNight
scrive:
Because
the night belongs to us! YEEEEEEHHHHH!!! E voglio dormireeeeeeee
I’m
RATLEG scrive:
XD
ti saluto allora!
BecauseTheNight
scrive:
Te
ne parlo domani sera, prometto…
I’m
RATLEG scrive:
Dormi
bene Allie :-)
BecauseTheNight
scrive:
Anche
tu. Un bacio….
.*.*.*.
I’m
RATLEG scrive:
Dormi
bene Allie :-)
BecauseTheNight
scrive:
Anche
tu. Un bacio….
Chiuse
la finestra di dialogo asciugando le lacrime che piangeva da quando
si era seduta davanti al computer, nella sua stanza tutta colorata.
Si era chiusa lì dentro, come ogni volta che lui
si tratteneva sotto il suo stesso tetto.
Odiava
suo fratellastro, odiava Mark.
Odiava
Judith, la sua matrigna, e quasi odiava Adrian, suo padre.
Ma
soprattutto odiava se stessa per averli fatti incontrare.
L’ultimo
ricordo felice risaliva a circa dodici anni prima, lo rammentava
ancora come se fosse accaduto qualche secondo fa. Al tempo aveva una
mamma vicina a sé, si chiamava Melissa, e profumava di menta
piperita. La portava sempre al parco vicino casa, la lasciava giocare
sul grande scivolo e l’attendeva sempre a braccia aperte alla fine
della veloce discesa. Le comprava il gelato alla panna, sua mamma lo
prendeva sempre al cioccolato, e si sedevano a mangiarlo l’una di
fronte all’altra.
Un
giorno non la vide più.
L’ultima
immagine di lei che ancora conservava nella memoria, confusa e
piuttosto sbiadita, era un’istantanea che la ritraeva sdraiata sul
letto, con indosso la sua comoda vestaglia di spugna, e suo padre
le toccava la testa ed il collo. Poi era stata spedita fuori
dalla stanza e qualche tempo dopo la casa si era trovata piena di
persone: fuori in giardino, aveva visto una grossa auto con dei
lampeggianti.
Accettò
così di vivere con suo padre e con il surrogato di mamma che aveva
cercato di propinarle appena ne avesse avuta l’occasione. Una dopo
l’altra quelle donne se n’erano andate: alcune per colpa
sua, si era impegnata a fondo nel farsi odiare dalle
fidanzate di papà; le altre, invece, si erano stancate di essere
soltanto una tata per la problematica figlia e volevano essere delle
mogli, mentre suo padre sembrava non interessarsi ad indossare una
nuova fede all’anulare sinistro.
Se
n’erano andate tutte tranne una, Judith.
Judith
diventò presto quello che le altre non erano mai state, la seconda
moglie di papà. Li aveva presentati lei stessa, ogni volta che ci
pensava voleva prendere a testate il muro davanti a sé.
Al
tempo abitava ancora a Londra ed ogni martedì e giovedì
frequentava un corso di pittura, Judith era la sua insegnate. Dopo
uno di quegli incontri suo padre non si presentò con il suo
macchinone sportivo e Judith si offrì di
accompagnarla, vedendola in difficoltà nel percorrere a piedi le
strade dei quartieri che la dividevano da casa sua. Erano zone
abitate da famiglie benestanti, ma la notte cittadina non era mai
sicura per una ragazzina di quindici anni. Una volta sotto casa,
chiese a Judith di salire per prendere un tè e riscaldasi un po’:
la stimava e le piaceva molto come insegnante, perché non avrebbe
dovuto ringraziarla con un gesto così semplice?
Rincasò,
trovando il tavolo di cucina occupato da una quantità esorbitante di
libri e fogli di carta scritti o appallottolati. Adrian doveva
essersi portato di nuovo il lavoro a casa, aveva pensato, molto
probabilmente uno dei suoi pazienti si era presentato con un caso
clinico che non era stato capace di risolvere subito e stava
impegnando la sua serata sui libri di medicina per trovare una
soluzione.
Si
malediva ogni giorno della sua vita per quell’invito, ma
soprattutto per aver abbassato le difese su se stessa e su suo padre.
Se fosse stata vigile, se non avesse pensato di trovare in Judith una
buona amica, non sarebbe mai arrivata ad odiare tutto e tutti.
Judith
aveva un figlio, Mark, più grande di lei di cinque anni. Non lo
aveva conosciuto fino a pochi giorni prima del matrimonio, aveva
saputo che viveva da qualche parte con suo padre, ad est di Londra, e
che vi sarebbe rimasto perché non distava molto dalla facoltà che
frequentava. Se n’era letteralmente disinteressata: era figlia
unica e lo sarebbe rimasta anche dopo quel matrimonio, ne era certa. Quando
lo conobbe ne rimase piuttosto colpita, era certamente un bel
ragazzo, uno di quelli che sembravano fatti apposta per popolare le
commediole per teenager. Simpatico, bel sorriso e battuta sempre
pronta, era un intrattenitore nato e somigliava molto a sua madre.
Fecero amicizia presto, adorava le persone che la facevano ridere dal
niente e sentiva che si sarebbe presto affezionata a Mark,.
Ma.
Il
giorno del matrimonio. La
cerimonia fu anche troppo pomposa e floreale per i suoi gusti,
avrebbe preferito qualcosa di più sobrio per suo padre, ma non era
il suo di matrimonio. D’altronde, entrambi gli sposi potevano
permettersi quelle spese, quindi perché vietarle? Pranzarono,
ballarono e cantarono, a metà dei divertimenti erano quasi tutti
ubriachi, le cravatte e le scarpe con i tacchi furono abbandonati in
disordine sopra o sotto i tavoli circolari. Lei non era da meno,
aveva iniziato a ridere al secondo bicchiere di vino e a camminare
scalza al terzo. Aveva passato tutto quel tempo in compagnia delle
sue cugine Betsy e Clara, erano loro le colpevoli della sua
ubriacatura e tra i ricordi di quel giorno c’era anche la ramanzina
che sua zia, la sorella di papà, fece a quelle due, che al tempo
erano già maggiorenni, mentre lei ancora minorenne.
Mark
era venuto insieme ad un paio di suoi amici, rammentava sempre gli
apprezzamenti che Betsy e Clara facevano nei loro confronti.
“Meno
male che il sesso tra cugini non è mai stato un reato!”, disse
Clara.
“Un
tempo nemmeno quello tra fratelli!”, le rispose Betsy.
Lei
scosse la testa: i ragazzi non le erano mai interessati più del
poco, era sempre stata piuttosto impegnata a far impazzire le
fidanzate di papà; sebbene non avesse fatto altrettanto con Judith,
la fauna maschile che popolava la sua scuola era composta solamente
da decerebrati insensibili, cosicché aveva respinto molti inviti e
non aveva mai avuto uno straccio di fidanzato. Oltretutto il pensiero
di quello che quelle due avevano detto la faceva rabbrividire.
“Dai!
Venite con noi!”, chiese loro Mark, qualche ora dopo quelle battute
infelici, quando la notte era già inoltrata e la festa proseguiva
per le lunghe, “Vi portiamo via di qui!”
“E
dove volete andare?”, domandò a sua volta Betsy.
“Dove
ci si può divertire senza essere brontolati dai genitori!”
Lei
aveva storto il naso ma si era lasciata convincere dalle sue cugine.
Salirono sulla grande monovolume straniera di Mark e si misero in
viaggio. Seduta davanti, sentiva i quattro occupanti dei sedili
posteriori ridacchiare e schioccarsi qualche bacio.
“Lasciali
fare.”, le disse Mark, “Non sono sempre così sessualmente
attivi!”
Risate
di gruppo, e lei si stringeva in un sorriso imbarazzato.
“Mi
porteresti a casa?”, gli chiese con un filo di voce, “Sono
piuttosto stanca.”
Un
coro di disapprovazione.
“Ma
no! Ti giuro che ti divertirai!”, provò a convincerla Mark, “Te
lo prometto!”
Vedeva
solo fonti di guai e nessun divertimento. Non aveva ancora capito
dove si sarebbero diretti, né cosa avrebbero fatto… Ed erano tutti
visibilmente ubriachi. Suo padre non le avrebbe mai perdonato una
pazzia del genere, lo sapeva, quindi perché rischiare una punizione
eterna per qualcosa che non voleva veramente fare?
“Per
favore.”, gli disse, “E poi sono ancora minorenne.”
“Va
bene, ma prima lascio i miei amici al locale.”, Mark si piegò alla
sua volontà.
Accettò
quella clausola.
Circa
quarantacinque minuti dopo erano sotto casa sua. Inaspettatamente,
quello che Mark fece non fu semplicemente scaricarla davanti alla
porta, con le scarpe dal tacco fine in mano e il cappottino intonato
al vestito appoggiato sulle spalle. Si
misero a parlare. Passarono due ore di fila a raccontarsi della
propria vita, di chi erano, di cosa avevano fatto, di quello che
avrebbero voluto dal futuro e di quante ne avevano combinate ai
propri genitori.
Si
ricordava perfettamente di aver pensato: [i]avrei
sempre voluto un fratello come te.[/i]
Al
terzo palese sbadiglio, Mark le lasciò il via libera.
“Quei
quattro mi hanno dato per disperso!”, esclamò, “Sarà meglio che
li raggiunga.”
“Certo!”,
gli disse.
D’istinto,
le venne di allungare le braccia e stringerle intorno al suo collo,
dandogli così il benvenuto nella sua vita. Non si era mai sentita
del tutto accettata dal resto del mondo ed aveva sempre sofferto di
solitudine. Ora che suo padre aveva trovato una nuova moglie e lei un
fratello, la sua vita poteva dirsi migliorata all’ennesima potenza.
Mark
ricambiò il suo abbraccio stringendola con altrettanto calore, la
fece piuttosto felice. Dopo
qualche attimo, le venne più che naturale distaccarsi da lui, senza
alcuna cattiveria, ma Mark la teneva ancora stretta a sé. Iniziò a
sentirsi a disagio, ma cercò di non dimostraglielo.
Poi le mani di
Mark si mossero sulla sua schiena. Stava quasi per sospirare di
sollievo e, nonostante fosse stata lei a cercarlo, quell’abbraccio era
durato un po’ troppo per i suoi gusti.
Mark non sembrava aver
finito.
Le
dita si spostarono sui suoi fianchi, poi scorsero la linea delle
gambe.
Rabbrividì
e si paralizzò al tocco delle sue labbra sulla pelle del collo.
Pensò
di impazzire quando lui le accarezzò il petto e la bocca si avvicinò
pericolosamente alla sua.
Toc
toc toc.
“Posso
entrare?”
Trasalì
e cercò di arginare il fiume in piena che sgorgava dagli occhi.
“Un
momento.”, disse.
Si
alzò dalla scrivania ed andò ad aprire la porta a suo padre.
“Ti
sei chiusa un’altra volta dentro la tua stanza?”, le chiese.
“Sì…”,
gli disse, senza mostrarsi in viso.
“Devi
smetterla.”, le fece, “Questo atteggiamento non funziona più con
me.”
Non
le aveva mai creduto, mai.
Si
sentiva tradita dalla persona che amava di più al mondo, quella che
aveva cercato di salvare dalle persone sbagliate presentate come le sue nuove mamme. Aveva adorato suo padre
fino allo spasmo, fino ad essere gelosa perfino della donna delle
pulizie, e ora che protestava perché la verità su Mark venisse a
galla, lui non la ascoltava più. Aveva gridato troppe volte ‘al
lupo, al lupo!'.
Adrian
entrò nella sua stanza toccandosi la fronte e sospirando, era il suo
modo per dire indirettamente che era al culmine delle sue capacità
di sopportazione.
“Com’è
andata a scuola?”, le chiese.
La
guardò in volto ed ignorò i segni del suo pianto.
“Bene.”,
gli rispose, tagliando corto.
“Matematica?”
Alzò
le spalle. Adrian sbuffò ancora.
“Spero
che serviranno a qualcosa.”, disse suo padre, massaggiandosi il
viso con le mani.
“Non
te lo so dire adesso.”
“Finora
le ripetizioni che ti ho pagato sono state del tutto inutili.”, sottolineò lui, non perdendo
l’occasione di farla sentire un’incapace.
Doveva
essere la sua vendetta per avergli detto che il figlio della sua
perfetta moglie aveva provato -più volte- ad approfittarsi di lei, della
sua figlia di sangue.
“Vedremo.”,
gli rispose, “Adesso sono stanca, vorrei dormire.”
Adrian
si alzò ed andò alla porta.
“Buonanotte,
Alicia.”, le disse, e chiuse la porta.
Tornò
al portatile, era ancora acceso sulla scrivania, lo screensaver
riproduceva una serie di fotografie scattate durante i viaggi fatti
in passato. Se ne stette a fissare il desktop, come se sforzandosi avesse potuto trovare la
risposta a tutti i suoi problemi nella confusione delle icone che lo
popolavano. Sì, doveva fare un po’ di pulizia in quel computer,
era pieno di robaccia e forse anche di virus, ma
non era il momento di cancellare le scansioni dei suoi disegni. Decise invece di aprire la posta elettronica.
Davanti
alla pagina bianca scrisse quello che aveva in testa, senza fermarsi
né tornare indietro a correggere i suoi pensieri, espressi a ruota
libera.
Li
inviò alla persona più improbabile del mondo, quella che sapeva
tutto di lei, ed al contempo niente.
Aveva
avuto tanti amici, un paio di amicissimi, tre psicologi, e nessuno di
questi aveva saputo di Mark.
Ma
Ratleg sì, ed Alicia non sapeva nemmeno che faccia avesse, dove
abitasse, quale fosse il suo cognome. Forse era proprio per quello
che glielo aveva confessato, perché chi sapeva tutto di lei, suo
padre, aveva rifiutato di crederle. Ratleg non aveva mosso alcuna
obiezione e l’aveva compresa nel modo in cui lei aveva bisogno di
sentirsi capita. Gli aveva mentito sul proprio nome, dicendogli di
chiamarsi Allie, ma fu una cosa dettata dal caso: quando lui, che al
secolo era Daniel, le aveva chiesto il nome, aveva risposto di getto
rammentando il modo in cui era solita chiamarla sua mamma.
In
fondo, conosceva il suo segreto più grande, che cos’era a
confronto una piccola bugia involontaria?
Si
chiedeva spesso che tipo di persona fosse nella realtà, se fosse
stato alto, basso, biondo o moro, fratelli o figlio unico, patentato
o no, libero o fidanzato… Non lo sapeva e spesso aveva avuto voglia
di togliersi quelle curiosità, ma ogni sera la conversazione verteva
su uno di loro, altrimenti parlavano di musica o di film, lasciando
fuori i particolari che componevano la loro vita quotidiana.
Stimava
profondamente quel ragazzo, non c’erano dubbi.
Guardò
il poster di Bruce appeso sopra al suo letto e gli strizzò un occhio
stanco. L’aveva conosciuto grazie a lui, e per ringraziarlo accese
il suo fedele i-pod, si infilò le cuffie nelle orecchie e si mise a
scrivere.
.*.*.*.
Si
alzò e cedette il suo posto ad una signora e a suo figlio, poteva
starsene in piedi, l’autobus non gli poneva problemi di equilibrio
ed era forte abbastanza per aggrapparsi alle maniglie e non cadere.
Si sistemò lo zaino sulle spalle e cercò di concentrarsi sul
paesaggio urbano, ma il tragitto fu troppo breve: non era in grado di
staccare la spina della sua mente con cinque minuti di autobus, tanto
era il tempo che gli serviva per andare da casa a scuola durante le
mattine in cui la pioggia sembrava aver voglia di affogare tutta la
città.
Non
era Tom a tormentarlo, né il calcio nelle palle che il suo amico
avrebbe ricevuto come ringraziamento per quello che aveva combinato
alle sue spalle. Era bensì quello che aveva trovato nella sua
casella di posta elettronica. Quella
mattina, poco prima di lasciare casa, aveva acceso il computer
perché, nella piena pazzia della serata precedente, si era
dimenticato di stampare alcuni articoli di giornale dal Financial
Times per il corso di economia, e nell’attesa che la vecchia
stampante producesse qualcosa di buono aveva dato un’occhiata alla
casella di posta, senza alcun interesse. Aveva cestinato la spam
proveniente da Dougie, che gli girava ogni sorta di catena di mail su
raccolte di fondi, sfiga a valanga ed amore infinito, insieme alle
newsletter a cui non sapeva di essersi iscritto.
Il
mittente era Allie_from_Wonderland.
Sto
ascoltando ‘Born to run’ e la voglia di scappare via correndo è
così grande che sto tenendo sott’occhio il borsone sotto al letto.
Non lo faccio solo perché ho abbastanza buon senso da sapere che
sarebbe inutile. E non perché me lo hai detto tu…
Ok,
sei stato tu a convincermi a non fuggire di casa, te lo concedo.
Credo
di doverti molto più di una semplice e-mail in cui ti spiego come lo
Stronzo mi abbia raccontato di come si è scopato la sua ultima
conquista, tanto per farmi rabbrividire dall’orrore, e di come il
Padre mi abbia fatto sentire incapace.
E’
tutta colpa mia…
Ma
ormai non posso cambiare le cose, non è così? Devo imparare a
conviverci, e rassegnarmi.
Forse
avrò la fortuna di andarmene a studiare lontano da casa e da questo
incubo. Dovrei davvero pensare a qualche borsa di studio per la
Francia, la Spagna o l’Italia…
Qual
è la cosa giusta da fare, Ratleg?
Dimmela,
perché non sono in grado di capirla. Ci ho provato, credimi, ma non
vedo molte vie d’uscita. Odio questa claustrofobia.
Aiutami,
ti prego.
Allie.
Ps:
farei meglio ad andare a letto, altrimenti ti direi che ti voglio
bene <3
Nascose
la mail nel libro di matematica, da quando l’aveva stampata l’aveva
letta così tante volte che il foglio era tutto stropicciato.
Altrimenti
ti direi che ti voglio bene <3
Sentì
una risata gracchiare davanti a lui e quella sorta di bolla di sapone
esplose. La faccia di Tom gli si apriva davanti come un tiro al
bersaglio sguaiato.
“Fletcher…”,
gli disse, quasi ringhiava, “Tu e Poynter siete i più grossi figli
di puttana che conosca.”
“E
dai!”, esclamò l’altro, “Ti abbiamo fatto un favore!”
“Favore
un bel cazzo!”, gli rispose, sentendosi sempre più animato, “Mi
avete fatto fare una figura di merda che non la raccomanderei nemmeno
a Judd!”
“Se
non fosse stato per noi, non vi sareste mai rivolti la parola!”, si
difese Tom, “Ogni volta che si avvicina, inizi ad iperventilare!”
“Fanculo
Tom!”, gli rispose e tornò a scartabellare il suo libro di
matematica.
Nello
sfogliare animatamente le pagine, la mail di Allie volò via ed
attirò l’attenzione di Tom che, molto più veloce di lui, allungò
una mano e la bloccò, prima che potesse cadere a terra.
“Cos’è
questo?”, fece, allontanandosi dal raggio di azione delle mani di
Danny.
“Ridammelo!”
“Oh!
Una mail della tua amica di laptop!”, ridacchiò Tom.
Era
la fine.
Perse
dieci minuti nel ricorrerlo per la classe vuota, Tom si arrese solo
quando entrò uno dei loro compagni e, per evitar domande e ulteriori
prese in giro, decise di restituirgli la mail e tornare a
sedersi. Per tutta la lezione gli riservò occhiatine e battute, a
cui si unì Dougie, appena li raggiunse.
Ma
non dette ascolto a quei due.
Alicia
non venne, né la scorse nei corridoi, a mensa ofuori l’edificio
scolastico. Quel giorno non si presentò a scuola.
Ecco
si disse Danny, l’hai
traumatizzata.
Ci
volle il lunedì per vederla di nuovo.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
CAPITOLO
4
Some
people hide their every desire
Fletcher
e Dougie. Imbronciati.
“Dacci
il tempo che ci meritiamo!”
“Non
siamo più amici come una volta!”
“Il
martedì era una nostra prerogativa!”
“Non
sei più quello di una volta!”
“Rivogliamo
il Daddy Jones che conoscevamo!”
Tutte
quelle scenate da donnicciole erano state scatenate dall’aver
saltato uno dei loro storici incontri cinematici del martedì. E lui
cosa avrebbe dovuto dire loro, che non erano accorsi in sua difesa
quando Harry aveva cercato di provocarlo? Niente, non rinfacciava
alcunché, non sarebbe stato giusto, ma quelli gli tenevano il muso
da due giorni, tanto che avevano anche rimandato la partita a
biliardo al pub mamma di Dougie, gioco che occupava i loro sabato
sera.
Se
n’era rimasto a casa davanti al computer, anche sua mamma si era
preoccupata, ma qualcuno lassù doveva avergli voluto bene. Nemmeno
Allie era uscita ed aveva così colto subito l’occasione per
chiederle un parere sul rapporto con i suoi due migliori amici. Non
era entrato nel merito della preoccupazione che lo aveva tenuto sul
filo del rasoio per qualche giorno, lei aveva ribadito la sua volontà
di non parlargliene e l’aveva voluta rispettare sul serio. Prima o
poi sarebbe stata lei stessa ad affrontare l’argomento, ne era
certo, bastava aspettare.
BecauseTheNight
scrive:
Sono
due scemi, ma ti capiranno. Sono gelosi di te, lasciali crescere un
po’.
I’m
RATLEG scrive:
A
volte sembrano dei bambini…
BecauseTheNight
scrive:
Ti
perdoneranno presto. Devono solo capire che è finito il tempo dei
giocattoli.
I’m
RATLEG scrive:
Hanno
diciotto anni… Tanti quanto me! Non capisco, non ho fatto niente di
male. Ho accettato di dare un aiuto ad una persona, non ho mica
tradito la loro fiducia.
BecauseTheNight
scrive:
E’
come se lo avessi fatto… Per loro quel giorno alla settimana
passato insieme era sacrosanto.
I’m
RATLEG scrive:
Va
beh… Li lascio fare.
Per
diversi minuti Allie non rispose, né Danny rinnovò la conversazione
con altre parole. Si stava crucciando con il comportamento di Tom e
Dougie: non era stato lui a proporsi ad Alicia, era stata una loro
idea, perché se ne lamentavano? Forse erano stati sicuri che la cosa
non sarebbe durata per più di una volta o due? In fondo avrebbero
dovuto essere contenti per lui, sapevano quello che provava per
Alicia. Doveva parlare con loro, farsi capire e capirli. Sì, era
quella la soluzione.
Danny
era comunque contento, nonostante non potesse pretendere altro che
quelle ore dedicate alla matematica, in aggiunta all’ignorarsi a
scuola. Era più di quando avesse mai chiesto!
BecauseTheNight
scrive:
Ratleg?
I’m
RATLEG scrive:
Scusami,
stavo pensando a come risolvere questo problema… Com’è che non
sei uscita stasera?
BecauseTheNight
scrive:
Beh…
A
dire il vero non esco mai il sabato sera!
Impossibile,
si disse Danny.
I’m
RATLEG scrive:
Non
è vero, non ti ho mai trovato on line!!!
BecauseTheNight
scrive:
C’ero
eccome, ma non mi facevo vedere… Mi vergogno a farti supporre di non avere un cavolo di vita sociale…
Ecco, ora mi hai scoperto, sei contento?
I’m
RATLEG scrive:
Molto
XD
A
volte Allie era particolarmente buffa. Danny la conosceva come una
persona straordinariamente forte, ma debole allo stesso tempo.
Avrebbe voluto davvero conoscerla, vederla e stringerle la mano, ma
era quasi certo che non sarebbe mai accaduto. Molto probabilmente lei
lo immaginava completamente diverso da come era veramente, quindi
perché deluderla? No, era l’ultima cosa che voleva farle. Forse
si sarebbero presto stancati e l’amicizia
avrebbe iniziato ad affievolirsi con il passare del tempo. Forse
avrebbero realizzato che non erano molto utili l’uno all’altra e
che sarebbe stato meglio trovare un confidente vero, in carne ed
ossa, da guardare negli occhi, da poter abbracciare.
Il
nickname di Allie prese a lampeggiare sulla barra delle applicazioni.
BecauseTheNight
scrive:
Rat,
lo Stronzo lo ha fatto ancora.
Chiuse
lo schermo del portatile che erano le due passate. Aveva un paio di
occhi gonfi ed arrossati che la facevano sembrare un clown. Aveva
pianto come una scema, tanto che spesso non era riuscita a vedere lo
schermo del computer. Era stanca, si sentiva svuotata ed aveva
bisogno di dormire come non aveva mai fatto prima di quel momento. In
altre parole, avrebbe voluto passare la notte senza pensare ed era
certa che ci sarebbe riuscita.
Aveva
rimesso tutto nelle mani di Ratleg, quella volta come centinaia di
altre, e si sentiva enormemente leggera. Il tenerlo a nascosto di
tutto le aveva appesantito il fardello sulle spalle, tanto che era
diventato praticamente insostenibile ed Alicia aveva fatto fatica a
nasconderlo.
Allontanò
il pc e si sdraiò sotto le coperte. Piuttosto che pensare a Mark e
rabbrividire, pensò al viso di Ratleg.
Non
sapeva perché, ma doveva avere i capelli scuri. Corti? Sì, corti,
magari però non più di tanto… Un po’ lunghetti. Liscì? Sì,
lisci. E gli occhi? Marroni… Forse chiari? Più alto di lei, spalle
ampie e belle mani. Modellò il viso fino ad ottenere una bella
bocca, carnosa e sorridente, le guance solo velatamente rotonde.
Provò
a visualizzarlo, nonostante i particolari fossero piuttosto scarni.
Il risultato le piacque molto, chissà quanto quell’immagine si
fosse avvicinata alla realtà. Poteva quasi innamorarsi
di un viso del genere.
Eppure
le ricordava qualcuno…
.*.*.*.
Le
due settimane successive passarono veloci come un battito di ciglia.
Entrambi ebbero poco tempo da perdere: interrogazioni, verifiche e
compiti saturarono le loro giornate, tanto che furono costretti a
dimezzare i loro incontri. Quella ragazza aveva una bella testa dura,
Danny doveva ammetterlo: afferrava i concetti più semplici come
caramelle sulla folla, mentre faceva fatica ad alzare la mano per
quelli più difficili. Danny si armava di pazienza, cercava di capire
se era lui a sbagliare tattica e provava a visualizzare il problema
da un’altra prospettiva. Era una bella faticaccia, non aveva mai
dovuto spiegare ad altri quello che lui imparava così facilmente, ma
era una sfida che lo stimolava, soprattutto perché Alicia era ancora
più carina quando faceva quelle sue facce che dimostravano
palesemente il non aver capito di cosa le stesse parlando. Sì, era
cretinamente innamorato ed ogni volta si chiedeva se
potesse diventare ancora più scemo per lei, che nemmeno lo guardava.
Ma
era comunque convinto che lentamente si stesse migliorando: trovava
sempre più facile passare oltre alla sua balbuzie e starsene
comodamente seduto, senza dover scattare ogni qual volta Alicia
faceva un movimento per lui troppo inconsulto. A scuola fingevano
semplicemente di non conoscersi, tornavano ad essere
i due estranei dell’ora di matematica. Harry la piantò di
dar loro fastidio, non trovando pane per i suoi denti, ma comunque
non abbassò le armi e tornò a trattarli separatamente.
Danny
cercò di ritagliare uno spazio anche per i suoi amici, scegliendo il
mercoledì come serata dedicata al loro piccolo trio squinternato, e
comprese che quei due avevano voluto solo fare le donnicciole gelose.
Gli avevano voltato le spalle per modo di dire, come se avessero
voluto metterlo alla prova, per testare la forza della loro amicizia.
Che deficienti, aveva pensato Danny, si erano spaventati perché per
una volta su un milione non c’era stato per loro. Comunque stentava
a crederci: era sempre convinto che fossero un pochetto gelosi ed
invidiosi. Di cosa, in fondo? Di un bel niente.
Per
punizione li aveva costretti a vedersi un live del Boss. Lui, che
quel dvd lo conosceva a memoria, se ne stava sul letto a sferruzzare
con il suo pc, prendendoli in giro insieme a Allie. Cercava di
distrarla il più possibile, ma lei tornava spesso in argomento, significava che voleva parlarne fino in fondo. Gli
disse di averne discusso ancora con suo padre, ma che lui non le
aveva creduto, quella volta come tutte le altre. Danny
le aveva consigliato allora di cercare un aiuto in qualche soggetto
esterno e le propose lo psicologo della sua scuola. Ci mancò poco
che lei non lo mandasse a fanculo per sempre.
Lei,
così come Alicia, erano donne: un universo a lui estremamente
lontano.
Mordicchiava
la matita e si crucciava, chiedendosi per quale motivo il significato
della matematica le fosse stato così trascende. Se fosse stata brava
come suo padre, non avrebbe mai dovuto prendere quelle ripetizioni da
Jones, tentando di far finta di capire. Ma se ci pensava bene, quelle
due serate erano positive sotto molti punti di vista.
Non
tralasciava il fatto che Jones fosse molto più bravo della Gambler,
quella professoressa di cartapesta che doveva aver pagato il preside
per ottenere il suo posto; da quando si faceva aiutare da lui
le restava più facile capire le dimostrazioni impossibili che quel
fantoccio di insegnante tracciava sulla lavagna.
Lasciare
la serra in cui viveva, quell'ammasso di mattoni di finta
felicità su cui la sua villetta era stata costruita, le
permetteva di staccare la spina dall’alta tensione che la legava ad
una situazione che non voleva vivere. Entrava dai Jones, in quella
calda casetta dall’altra parte di Watford, salutava Kathy e Vicky,
si immergeva in un mondo pieno di strani segni e parentesi quadre e si
faceva due risate all’ombra del Boss… Interrompeva il flusso
costante del medesimo pensiero.
Fuggi
fuggi fuggi fuggi fuggi.
La
allontanava dal suo assassino, da Mark.
La
allontanava da colui che preferiva credere a chi non faceva parte
della sua famiglia, piuttosto che alla figlia.
Anche
se poi era costretta a tornare alla sua realtà quotidiana,
in quelle due ore passate con Jones niente di tutto quello esisteva.
E stava bene, un
po’ come quando chiacchierava con Ratleg. Il
viso che aveva creato per lui era lo schizzo su uno dei tanti
fogli del suo blocco per disegni. Ogni volta aggiungeva un
particolare, ne cancellava un altro e lo migliorava, ma rimaneva
fondamentalmente una bozza, così come il lavoro sulla foto che la
ritraeva con sua madre, da piccola. La sensazione che somigliasse a
qualcuno che conosceva non l’abbandonava, ma si affievoliva sempre
di più e forse era il suo inconscio a lavorare in quel senso. Nella
sua testa il volto continuava a suggerirle di trovare la persona
reale a cui apparteneva, mentre sul foglio sembrava di un individuo
ex-novo.
Provò
a definire il mento.
Non
fu evidente, ma tracciò una linea piuttosto visibile tra le labbra
morbide e la rotondità del mento. Poi si spostò sul collo, dove il
pomo d’Adamo trovò la sua posizione. Scese più giù e apparve il
colletto di una camicia sbottonata. Tornò sul viso, più
precisamente sul naso, che uscì fuori con un taglio deciso. Aumentò
la consistenza dei capelli, che si mossero sulla fronte ed andarono a
coprire le orecchie. Un ultimo dettaglio, gli occhi e le labbra, che
erano già stati abbozzati ma necessitavano realtà: sopracciglia e
due piccole onde appuntite sul labbro superiore.
Osservò
il risultato e aggrottò la fronte con preoccupazione.
A
forza di pensare alla matematica, aveva disegnato il volto di Jones.
Simpatico ragazzo, si disse, chiudendo il blocco e posandolo sulla
scrivania. Una strana novità, ecco come era pronta a definirlo.
Una
strana novità.
Si
rese conto dell’ora tarda e decise di andare a letto. Sotto le
coperte si chiese quale fosse stato il colore degli occhi di Jones.
Chiuse i suoi e provò ad immaginarli, ma non seppe darsi una
risposta. Poi si addormentò.
.*.*.*.
Era
pronto per l’harakiri.
Scese
dall’auto e seguì sua sorella nel centro commerciale.
Accompagnarla a fare compere era peggio che condannarsi a
fustigazione seriale, significava passare ore ed ore dentro ai negozi
di biancheria e di scarpe ed uscire senza comprare niente, trovare le
sue amiche ed invecchiare ascoltando gli ultimi pettegolezzi.
“Ripetimi
il motivo per cui non c’è la mamma con te.”, le chiese.
“Sta
facendo volontariato alla casa di cura.”, rispose Vicky, scocciata.
Entrarono
nel centro commerciale.
“Perché
non ti compri qualcosa?”, gli consigliò Vicky.
Si
fermarono davanti ad un negozio di abiti per uomini alla moda, Danny
storse il naso.
“Il
tuo abbigliamento fa schifo.”, cercò di convincerlo lei, “Dovresti
abbandonare quelle camicie quadrettate da contadino.”
“A
me piacciono!”, protestò Danny osservandosi, “E poi non sono
costose come quella roba!”, ed indicò la merce esposta in vetrina.
“Ma
quella roba è più bella da vedere.”, insistette lei, “Alla
gente non piaci conciato così.”
“Chi
te lo dice?”, le domandò.
Incrociò
le braccia ed attese una risposta. Vicky sbuffò e proseguì oltre,
lasciandolo perdere. Non la capiva, a lui piaceva vestirsi in quel
modo, era così abituato ad indossare la camicia della sua divisa che
non riusciva a fare a meno di mettersi qualcosa di simile quando non
si trovava a scuola. Quadretti sopra e jeans sotto, cosa c’era di
male? Non si permise di criticarle il top pieno di paillettes, i
tacchi alti e i jeans attillati che Vicky provò e poi acquistò. Se
era così che le piaceva vestirsi, cosa poteva fare lui?
Dopo
un’ora e mezza, Vicky aveva speso metà dei suoi risparmi e non
sembrava intenzionata a fermarsi. Danny si annoiava a morte e
sfogliava gli abiti femminili appesi in perfetto ordine in uno dei
tanti negozi del centro commerciale. Aveva visto qualcosa di suo
gradimento ma, com’era ovvio che accadesse, Vicky aveva stroncato
ogni possibilità di acquisto da parte sua.
Afferrò
la stampella di una t-shirt su cui era stata stampata la scritta ‘Yeah!
I’m a Bitch!’…
Carina, ma troppo appariscente.
“Chissà
se c’è la tua taglia…”
Trasalì
e si voltò.
“Ciao
Jones!”, esclamò Alicia sorridendo, “Che ci fai nel reparto
della biancheria femminile?”
Biancheria
femminile? Danny si guardò intorno e notò quello che i suoi occhi
appassiti non avevano visto prima: una quantità industriale di
completini intimi, e la maglietta di un pigiama tra le sue mani.
“Beh…
Io…”, balbettò, affrettandosi a rimettere a posto la stampella e
finendo per farne cadere a terra altre quattro, “Sono con…
Vicky.”
“Lo
supponevo.”, rispose lei, “L’idea di saperti interessato a
certi capi d’abbigliamento non è compatibile con l’immagine che
ho di te.”
“Gra-grazie…”,
le fece, una volta ripristinati i danni causati a quella porzione di
reparto, “Tu… Tu cosa ci fai?”
Lei
gli mostrò il cestino di ferro che reggeva con la mano destra.
“Un
po’ di acquisti.”, disse lei, rovistando tra le mutandine e i
reggiseni, e non accorgendosi del suo colorito violaceo, “E tu? Fai
compagnia a Vicky?”
“Sì…
Deve essere… Da qualche parte…”, le disse, cercando sua sorella
con gli occhi, ma doveva essersi cacciata in qualche camerino.
“Sono
qua con mio padre.”, continuò lei, “Vieni che te lo faccio
conoscere!”
Fu
più svelta di un fulmine o di un ladro sulla metropolitana. Alicia
lo prese per mano e lo trascinò via dal reparto biancheria
femminile. Danny, fuori fase per quella stretta forte su di sé che
gli mandava contemporaneamente in il tilt sistema nervoso, quello linfatico
e motorio, si trovò in mezzo a camicie e cravatte eleganti.
“Papà,
questo è Daniel Jones, il ragazzo che mi dà ripetizioni di
matematica…”, sentì dire da molto lontano, “Jones, questo è
Adrian, mio padre.”
Un’altra
mano, più grande e più forte di quella di Alicia, afferrò la sua e
la scosse con energico vigore. Focalizzò un volto giovanile,
mascherato da baffi e pizzetto, capelli ricci e brizzolati, occhiali
rettangolari, che lo guardava con un sorriso, al pari della sua
altezza.
“Molto
piacere, Daniel.”, disse suo padre, “Deve essere un bell’impegno
insegnare la matematica ad un tavolo di marmo.”
“Papà!”,
esclamò Alicia.
“Beh…
A dire il vero… Sua figlia impara molto in fretta…”, disse,
ancora scosso per la rapida successione di tutti quegli avvenimenti.
“E’
un bene.”, rispose lui, “O mi costerai una fortuna…”
Danny
abbozzò un sorriso, non seppe dire se l’altro fosse stato ironico.
“Andiamo,
papà…”, disse ancora Alicia, “Jones, stava scherzando, è che
ha voglia di litigare con me. Vero papà?”
Rimase
spiazzato dall’atteggiamento di Alicia nei confronti del padre,
così diretto e privo di mezzi termini, quasi irrispettoso.
“Beh…
E’ stato un piacere conoscerla, Signor Lewis, ma devo proprio…
Andare.”, disse Danny, pronto a togliersi dall’imbarazzo.
“Buona
giornata.”, gli rispose l’uomo, rinnovando la stretta di mano.
Salutò
Alicia con un gesto della mano e si affrettò ad uscire dal loro
raggio visuale. Individuò Vicky alla cassa, intenta ad allungare il
collo oltre gli appendiabiti per cercarlo a sua volta. Alzò una mano
e lei lo vide, ricambiando subito.
“Jones.”
Una
mano sul suo gomito. Si voltò e trovò di nuovo Alicia, inaspettata
come prima.
“Scusalo,
per favore.”, disse lei, “Non voleva trattarti in questo modo.”
Le
sorrise.
“Non
ci pensare.”, la rassicurò, “Posso capire.”
“Non
è per i soldi.”, disse Alicia, “Lasciamo perdere…”
Sospirò
e lo riempì di domande e di dubbi. Come ogni essere umano, anche
Alicia aveva avuto i suoi momenti di distrazione in cui Danny l’aveva
vista assente, con la mente da tutt’altra parte, forse in una terra
popolata da tutti gli scheletri del suo armadio. Doveva trovarcisi
anche in quegli istanti.
“Vuoi
un gelato?”, gli scappò dalla bocca.
“Come?”,
chiese lei.
“Vuoi…
Vuoi un… Gelato?”, le ripeté, con notevole difficoltà.
Lei
alzò un sopracciglio.
“Perché
no?”, disse poi sorridendo.
Alicia
si avvicinò ad uno dei tanti ripiani e posò lì il suo cestino
pieno dei suoi prossimi acquisti.
“Tanto
non ne avevo bisogno.”, si giustificò con candida serenità.
Un
piacevole cambio di programma, ecco cosa aveva chiesto quando aveva
aperto gli occhi e suo padre le aveva ricordato di doverlo aiutare
nella scelta di nuove camicie e cravatte. C’erano stati tempi in
cui non aveva aspettato altro che momenti del genere, quando suo
padre mandava all’aria il lavoro, la faceva salire sul suo
macchinone e la portava ovunque, dove potevano divertirsi insieme. Non accadeva spesso ed Alicia passava molto
tempo con May, la paffuta nonna paterna e dalla risata pungente che
la accudiva quando il figlio non c’era, tanto che qualche volta le
era capitato di chiamarla mamma. Era ancora viva e vegeta, da
due anni si trovava da qualche parte nella Provenza francese a
respirare il profumo della lavanda e l’aria di mare, che
notoriamente faceva bene alle vecchiette come lei, ed era stata May
stessa a dirglielo, poco prima di partire, sorridendole per
consolarla.
Fu
anche peggio di quando era stata sua mamma ad andarsene: May le
credeva, ma nemmeno lei era stata capace di convincere suo padre di
quello che il figliastro la costringeva a sopportare. Come ogni
persona importante nella sua vita anche la nonna l’aveva lasciata,
e le rimanevano solo i cosiddetti cocci.
Nonostante
tutto non ce la faceva ad odiare suo padre, ma pensava di
esserne più che capace. Negli attimi in cui erano soli e distanti da
tutto sembravano tornare ad essere la piccola famiglia Lewis, che
abitava all’ultimo piano di un palazzo del centro di Londra, dal quale
potevano vedere il Big Ben segnare l’ora con una precisione
matematicamente impossibile da infrangere. Erano ancora la stessa
famiglia che se ne andava in vacanza in campagna, ad ovest nelle
Midlands, o che alla domenica pranzava guardandosi i cartoni animati
della Walt Disney; la stessa che, dopo quei pranzi, andava fino allo
stadio di Selhurst Park dove giocava il Crystal Palace, la squadra
preferita di entrambi, che per poco non aveva dato un posto di
giocatore a suo padre, quando ancora non aveva avuto vent’anni e
non aveva deciso di diventare medico. Ma le cose erano troppo
cambiate e quei momenti, come era stato quello vissuto fino
all’inaspettato incontro con Jones, sembravano solo una
stiracchiatura dei ricordi del passato.
Dopo
aver informato entrambi i loro accompagnatori dell’invito per il
gelato, scelsero insieme tre gusti in una coppetta media e si
sedettero nel giardinetto interno del centro commerciale, dove la
luce del sole arrivava grazie alla rifrazione dei raggi sul vetro che
rivestiva l’edificio. L’aria era deliziosamente più calda di
quanto Alicia si aspettava e si stava bene, molto bene.
“Quindi
conosci Fletcher e Poynter da sempre.”, disse lei.
“Sì.”,
rispose Jones con tranquillità, “Poynter me lo trascino dietro
dalle elementari, mentre Fletcher si è trasferito a Watford una
decina anni fa… Abita a tre passi da me.”
“Siete grandi
amici?”, chiese lei.
“Molto.”,
gli rispose lui sorridendo, “Ne abbiamo passate tante insieme…”
“Dai,
racconta!”, lo esortò.
Jones
esitò, poi si fece coraggio e la accontentò.
“Non
c’è bisogno di spiegare quante ne abbiamo prese… E quante ne
prenderemo!”, disse ridendo, “Più che altro ci siamo parati le
spalle, o meglio, loro hanno parato la mia.”
“Non
mi sembra sempre stato che sia così.”, si permise di contraddirlo,
“Judd l’ha avuta vinta, loro non hanno mosso un dito.”
“Beh…
Abbiamo diciotto anni, e non tredici.”, rispose lui, “E Judd è
uno di quelli che te la fa pagare…. Sul serio.”
Oh
sì, Alicia sapeva di come aveva denunciato una delle sue stesse vittime per
lesioni, quando quel povero ragazzo aveva solamente rigato la sua
auto, a fronte di una scarica di pugni in pieno stomaco.
“E’
fortunato ad avere un padre avvocato.”, disse Alicia, “E’
sempre stato il figlio di puttana che ho conosciuto?”
Danny
sbuffò in una risata.
“Anche
lui ha un cuore, che io sappia.”, fece, con aria sarcastica.
“E
anche una testa…”, avanzò Alicia, tacendosi.
“Di
cazzo.”, aggiunse Danny.
Alicia
strabuzzò gli occhi stupita, e lui avvampò. Pochi secondi e risero
insieme.
“Questa
era bella, Jones!”, si complimentò con lui.
“Grazie…”,
le rispose.
Ci
fu del silenzio, Jones sembrava avere la sua domanda ma gli mancava
la volontà di porgerla.
“Posso…
Posso sapere…”, disse, “Insomma…”
“Cosa
è successo tra me e Judd?”
Lui
si morse le labbra, colto di nuovo di sorpresa, poi disse di sì.
“Un
bel niente.”, gli rispose con semplicità.
Jones
non era il suo confidente, l’aver disegnato involontariamente
disegnato a sua somiglianza il volto di Ratleg non cambiava
alcunché,
ma Alicia gli concesse comunque di sapere quei particolari. In
fondo, le aveva detto di non credere a quello che veniva detto su
di
lei e, con quella ed altre mosse, si era conquistato un po’ della
sua fiducia.
“Voglio
dire…”, si spiegò lei, “Siamo usciti insieme un paio di volte,
è sempre stato molto carino e gentile con me… Come se gli fossi
piaciuta veramente.”
Faceva
ancora male pensare a quel periodo, ma sapeva che era solo una mera
questione di orgoglio ferito. Judd l’aveva presa in giro sotto il
suo naso e lei c’era cascata con entrambe le scarpe, era quello che
ancora la infastidiva.
“Una
sera ha preteso di più.”, gli disse, “Io non volevo, e lui è
sparito. Due giorni dopo sono comparse le risatine alle mie spalle e
le occhiate malevoli delle amiche che mi ero fatta. Tutto qui.”
Jones
annuì, poi terminò l’ultima cucchiaiata del suo gelato.
“E
tu?”, gli chiese, era il turno di sfamare la sua bestiaccia
curiosa, “Avventure con le ragazze?”
Per
poco Jones non ingoiò la paletta di plastica.
“Io?!”,
esclamò poi.
“Sì,
con quanti altri Jones sto parlando?”, rise Alicia, scuotendo la
testa.
Era
proprio buffo.
“Io…
No… Io…”
Balbettava,
torturava le sue mani e le negava lo sguardo. Ormai era abituata: la
faceva ridere, mentre le prime volte si chiedeva se avesse detto o
fatto qualcosa di sbagliato. No, era soltanto facile metterlo in
imbarazzo.
“Niente.”,
disse poi.
“Niente?”,
domandò lei allora.
Lui
alzò le spalle.
“C’è…
C’è la verifica semestrale di matematica.”
Alicia
non lo comprese, il cambio di argomento era stato così repentino che
doveva settare la mente.
“Verifica
semestrale?”
“Sì…
Verifica semestrale.”, ripetè Jones, “In matematica così come
in tutte le altre materie… Faresti… Meglio ad impegnarti…”
Un
momento. Matematica, verifica semestrale. Ok, era arrivata.
“Dici
che farei meglio ad impegnarmi con quello che mi spieghi o a scavarmi
una fossa?”, domandò preoccupata.
“Sarà…
Piuttosto difficile.”, disse lui, che ancora non aveva accennato a
diminuire l’intensità del colore della sua carnagione.
“Quando?”
“Mercoledì…
Prossimo, mercoledì prossimo.”
Alicia
si guardò intorno. Si trovava in un centro commerciale, doveva
semplicemente entrare in una ferramenta e prendersi una pala, del
legno, chiodi e martello. Si sarebbe costruita da sola il suo
feretro, ma poteva anche trovare una soluzione più pratica e meno
faticosa.
“Beh,
visto che comunque devi preparati per la medesima verifica…
Facciamolo insieme.”, propose, senza pensarci due volte.
“Cioè?”,
chiese lui, già perplesso.
“Martedì
pomeriggio e sera, full immersion, triplo della paga pattuita.”
A
Jones caddero gli occhi fuori dalle orbite.
.*.*.*.
“Vado
a prendere del caffè.”, disse Danny.
“Ok.”,
rispose Alicia, sbadigliando vistosamente.
Lasciò
la camera e, una volta distante, allungò le braccia più che potè,
aveva bisogno di stirarsi. Danny era quasi sicuro di non farcela a
ripassare i sei mesi di programma su cui sarebbero stati chiamati a
risolvere problemi e quesiti, ma si sentiva piuttosto tranquillo. Era
Alicia che aveva i problemi maggiori. Quando aveva detto ai due scemi
che avrebbe passato un intero pomeriggio insieme a lei, chini sui
libri a studiare per la verifica semestrale, i due avevano avuto un
moto di ribellione. Erano soliti prepararsi insieme per quegli
eventi, ma quella volta non sarebbe stato disponibile.
“Sei
un traditore!”, aveva esclamato Tom, “Un fottuto traditore!”
“Sei
stato tu a dirle di venire da me, la prima volta!”, si era difeso
prontamente Danny, “Quindi è colpa tua, io non c’entro niente!”
“Ma
se falliremo la verifica, lo giuro su Dio…”, si preparò a
minacciarlo Dougie.
“La
fallirai comunque.”, lo rimbeccò Danny, “Se continui a passare
il tuo tempo a smontare vecchie carcasse di computer ed a giocare con
quel coso, non avrai mai il tuo diploma!”
“Avevamo
giurato che le donne non ci avrebbero mai diviso!”, tornò presto
Tom alla carica.
“Infatti
non sta accadendo!”, concluse Danny, “Siete voi a creare il
problema!”
Va
bene, a distanza di un giorno da quella litigata si era pentito di
tutto quello che aveva detto. Si era fatto cogliere impreparato da
Alicia, che gli aveva chiesto con spudorata prontezza di aiutarla in
quella full immersion di matematica, come l’aveva chiamata, e non
aveva saputo dirle di no. Forse avrebbe dovuto invitare anche Tom e
Dougie a studiare con loro, oppure dire di no ad Alicia. Forse, ma col senno di poi tutti diventavano dei bravi
giudici.
Una
volta in cucina preparò la macchinetta del caffè ed attese che ce
ne fosse abbastanza per almeno tutta la serata. Non uscivano dalla
sua stanza da tre ore, dovevano proprio prendersi una pausa. Salì
con due tazze di liquido fumante e nero. Aprì la porta.
“Il
caffè è…”
Le
braccia incrociate sulla scrivania, sotto di esse il libro di
matematica. La testa era nascosta in quell’incavo, Alicia si era
addormentata. La svegliò dopo una mezzoretta, dicendole che aveva
riposato per soli cinque minuti, ma non la gabbò, il caffè
si era ormai freddato nella sua tazza.
Fecero
fatica a riprendere il ritmo spedito con cui avevano studiato durante
tutto il pomeriggio e, tra un problema e l’altro, passarono il
tempo a chiacchierare.
“Perché
non andrai al concerto?”, le chiese Danny, riferendosi allo show
del Boss, in arrivo nel mese prossimo.
Era
quasi sicuro che Alicia glielo avesse già detto, ma non del tutto.
“Cade
esattamente il giorno del compleanno di mio padre.”, spiegò lei,
“E dato che compierà cinquanta anni, ha voluto organizzare una
poiccola vacanza per tutta la famiglia.”
“Ah…
E dove andrai di bello?”, le domandò.
“A
Stoccolma, in Svezia.”
Cavolo,
e la chiamava piccola vacanza. Il posto più lontano dove gli era
capitato di andare era Edinburgo, in gita alle elementari. La sua
famiglia non sembrava navigare nell’oro e le vacanze le passavano
dai parenti: una settimana dalla nonna a Bolton, dove lui stesso era
nato ma non vi aveva vissuto se non per pochi mesi, e poi un’altra
settimana dalla zia, la sorella di sua madre, che abitava poco
lontano dalla sua città natale. Anno dopo anno le sue vacanze non
cambiavano mai.
“Sei
piuttosto fortunata.”, le disse, “Forse la vedrò solo sulle
piantine geografiche.”
“Se
vuoi, puoi prendere il mio posto.”, disse subito Alicia, “Non ne
ho assolutamente voglia.”
Il
suo tono lievemente duro e quasi risentito lo fecero riflettere, ma
non ne ebbe il tempo.
“Andrai
al concerto con Vicky, vero?”, domandò lei.
Teneva
gli occhi bassi e sembrava aver intenzione di cambiare presto
argomento, Danny si dispiacque per averla fatta innervosire, non era
assolutamente nella sua intenzione.
“Sì,
con lei…”, rispose.
“Che
posti avete?”
“Beh…
Sugli spalti… Vicino al palco.”
“Fortunati.”
Danny
spostò il viso verso il libro di matematica e ne sfogliò una
pagina. Forse era meglio tornare a pensare ai numeri, piuttosto che
brancolare nel buio stando attenti a dove si andava a sbattere la
testa. Non gli sembrava di aver detto alcunché di inappropriato, ma
l’averla chiamata una ragazza fortunata doveva averle guastato il
buonumore. Perché?, si chiese. Forse doveva essere scocciata per
essere costretta a fare altro, invece che vedersi il concerto… Il
Boss era il Boss, ma un viaggio in Svezia, anche se non poteva
competere, non era un’alternativa da buttare nella spazzatura.
“Alicia…”,
le disse, “Mi dispiace che tu non possa venire.”
“Non
è colpa tua.”, rispose lei, abbozzando un sorriso mentre gli occhi
sembravano opporsi, “Credo che mi divertirò in Svezia.”
Che
enorme bugia, si disse Danny, ma non parlò.
“Dimmi
un po’, Jones…”, gli fece Alicia, “Sai tirare quattro calci
ad un pallone?”
Percepì
il sopracciglio alzarsi e vide un mezzo sorriso di sfida sul volto di
Alicia.
“Quattro?”,
le chiese, “Propongo un numero compreso tra la radice terza di otto
e il quadrato di due, così perderemo meno tempo.”
“Io
sto al pallone come tu stai alla matematica.”
“In
che proporzione pensi di battermi?”
“In
scala due a uno.”
Alicia
vinse davvero, ma con un distacco molto più ampio.
Nel
piccolo giardino sul retro della casa, Danny le affidò il vecchio
pallone di cuoio dai rombi scuciti, ma ancora buono per giocare. Ci
si divertiva con Tom e Dougie durante l’estate, ma quei due erano
proprio schiappe nel calcio. Lui se la cavava bene, fino a tre anni
prima aveva giocato in una delle tante squadre locali di Watford, ma
aveva dovuto rinunciare perché l’impegno che doveva mettere negli
allenamenti e nelle partite lo costringeva a togliere tempo a tutta
la restante parte della sua vita.
Lanciarono
lanciato una moneta e la sorte scelse di destinare Alicia
all’attacco, lui in difesa. Fu più uno scontro ai rigori, dato lo
spazio piuttosto esiguo: si tolsero il cravattino della divisa
scolastica e le maniche della camicia vennero arrotolate fino ai
polsi; Alicia si sistemò i lunghi calzini neri fino al ginocchio e
la partita iniziò. Alla fine del primo tempo Danny si sentiva
piuttosto soddisfatto dell’aver cercato di bloccare le azioni
svelte e furbe della ragazza, che aveva segnato ben sette gol, ma lui
ne aveva parati almeno il doppio.
Dopo
una breve sosta ristorativa e una tamponata alla fronte imperlata,
invertirono i loro ruoli per il secondo turno: Alicia in difesa, lui
in attacco. Si sbalordì della prontezza di riflessi che lei
dimostrava ogni qual volta lui decideva di giocare d’astuzia, per
prenderla in contropiede, e la partita si fermò sul sette a tre per
Alicia, che ne uscì vittoriosa.
“Cavolo…
Mi spieghi dove hai imparato a giocare così bene?”, le fece, una
volta tornati in casa.
“Non
lo so!”, rispose lei ridendo, “Non ho mai giocato davvero a
calcio.”
“Quindi
mi stai dicendo che io, che ho fatto parte di una squadra per anni,
sono stato battuto da una principiante!”, esclamò Danny, non
capacitandosi ancora della sconfitta, ma comunque contento per
essersi divertito con lei in qualcosa di così genuino.
“Quale
squadra?”, domandò lei, subito interessata.
“Watford
Rangers.”, le spiegò, “Ma era una cosa fatta alla buona…”
“Non
è quella squadra che ha come mascotte una scimmia di nome Dylan?”,
chiese lei.
Danny
strabuzzò gli occhi.
“Come
fai a saperlo?”, le chiese.
“Non
l’hai capito che mi piace il calcio?”, disse Alicia ridendo,
“Sono una tifosa del Crystal Palace!”
Caricò
la voce, alzò le mani e intonò le note dell’inno di una delle
tante squadre di calcio di Londra.
“E’
una squadra di perdenti!”, le disse, “E’ molto meglio il
Bolton!”
“Non
potevi scegliertene una più a nord?”, ironizzò lei, “Che ne so…
Potevi tifare per la Groenlandia!”
“Guarda
che tutta la mia famiglia viene da lì!”, le spiegò, ridendo con
lei, “E poi parli tanto bene tu, Alicia! Il Crystal Palace!”
“Mio
padre giocava nelle giovanili!”
Erano
come due bambini delle elementari, pronti a prevaricare sull’altro
con una nuova vanteria, ma li interruppe l’arrivo di sua madre,
accompagnata da Vicky a fare la spesa.
Invidiosa,
ecco come si sentiva. Invidiosa della serena tranquillità che
riuniva i Jones attorno ad un tavolo, all’ora di cena. Non esisteva
niente del genere a casa sua: mangiava da sola, suo padre rincasava
così tardi dall’ospedale che spesso non cenava. Judith aveva il
suo orario e se Mark era nei dintorni stava con lei, mentre Alicia si
rifugiava in camera sua. Talvolta, in quei casi saltava direttamente
alla mattina successiva, oppure sgattaiolava fuori dalla camera a
notte inoltrata. Alicia era così invidiosa che le si chiuse la bocca
dello stomaco, ma mangiò lo stesso. Più che invidiosa, era triste.
Triste
perché lei non aveva niente di tutto quello. I Jones erano tre, ed
anche se la quarta parte mancava sembravano uniti e felici. Alicia
stirava sorrisi, ringraziava, li ascoltava raccontarsi quello che era
capitato loro in quella giornata, ma rimaneva in silenzio.
Scoprì
così che Kathy era una parrucchiera e lavorava a qualche isolato di
distanza: Alicia era passata più volte davanti al suo negozio, ma
non aveva mai saputo che fosse stato suo. Vicky, invece, studiava per
diventare farmacista, e nel poco tempo libero che rimaneva lavorava
in un pub. Di Jones sapeva tanto quanto le bastava.
“E
tu?”, le chiese Kathy, rompendo il suo silenzio, “A quale facoltà
vorresti iscriverti?”
“Beh…
Non lo so con certezza.”, rispose e prese un altro boccone di
carne.
“Cos’è
che ti piace fare?”, le domandò allora Vicky.
Ci
pensò su, ma la risposta fu ovvia.
“Mi
piace disegnare.”, disse con un sorriso.
“Che
bello!”, esclamò ancora la ragazza, “Non sono nemmeno capace di
tener su una matita!”
“E’
molto brava.”, sottolineò Jones, “E’ nella classe di disegno
di Tom.”
“Lui
ha del vero talento, non io!”, si affrettò a dire Alicia, in
imbarazzo.
“Non
è vero, ho visto i tuoi lavori, una volta.”, la contraddisse lui,
“E sono davvero molto belli.”
“E
quando?”, si incuriosì, “Non me lo ricordo.”
“Beh…
Ti caddero i disegni dalla cartellina, ed io ti aiutai a
raccoglierli.”
Alicia
rimase interdetta, non c’era niente del genere nella sua memoria,
ma mentì.
“Ah!
Sì, è vero!”, esclamò.
Lui
rimase alquanto perplesso, poi le sorrise.
“Da
chi hai preso questo talento?”, le domandò Kathy, “Di solito
l’essere bravi in qualcosa è una dote di famiglia…”
“Allora
Danny è stato adottato, ammettilo!”, esclamò Vicky,
“Non c’è alcun Jones che capisca qualcosa di
numeri!”
“Smettetela!”,
protestò lui.
Risero,
Alicia cercò di unirsi a loro ma non ce la fece.
“Da
chi hai preso?”, le domandò ancora Jones.
“Da…
Mia mamma.”, rispose, concentrandosi sul suo pasticcio di spinaci,
“Ho preso da lei.”
“Ti
ha fatto un bel regalo, allora.”, le disse Kathy, sorridendole.
Alicia
non era in grado di corrispondere e la conversazione si gelò. Se ne
dispiacque, non voleva farli sentire come se avessero detto qualcosa
di troppo, ma non poté evitarlo. Per qualche secondo il rumore delle
loro posate sui piatti fu l’unico percepibili.
“Anche
se, forse, lo zio Thomas… Non era lui che faceva il contabile?”,
disse Vicky, cercando di sbloccare la situazione.
Salirono
in camera, pronti per riprendere il loro studio. Alicia non ne aveva
assolutamente voglia ma doveva farlo, anche se avrebbe comunque
chiesto a Jones una mezzora di tranquillità per digerire con calma
l’ottima cena che aveva preparato sua madre. Lui acconsentì, non
sembrava molto propenso a rimettersi subito sui libri, e si
dedicarono alla ‘pennichella’ del dopocena.
Danny
si sedette alla sua scrivania, lasciandole così la comoda poltrona
rivestita vicino al suo letto. Alicia prese una rivista di musica
vecchia di molti mesi, un numero scaduto del Rolling Stones che lei
stessa aveva posseduto, prima di darlo a suo padre per i suoi
pazienti in attesa. Jones, invece, accese il suo portatile e molto
probabilmente si occupò della sua casella di posta elettronica.
“Mi
dispiace…”, esordì lui, ad un tratto.
Distolse
gli occhi dall’articolo sui Kaiser Chiefs e si dedicò a lui.
“Per
cosa?”, gli chiese.
“Per
prima, quando cenavamo.”, le spiegò, “Non era mia intenzione
metterti in imbarazzo.”
“Non
ti preoccupare.”, lo tranquillizzò, “E’ tutto a posto, non è
colpa tua.”
Lui
alzò le spalle, poi tornò al suo pc. Alicia cercò di concentrarsi
di nuovo sull’intervista ai Kaiser, ma non ci riuscì.
“Mia
madre è morta.”, gli disse, “Ero piccola quando è successo.”
Danny
si voltò, la sua espressione era mortificata.
“Non
lo sapevo…”, disse lui, con un filo di voce, “Pensavo che…
Insomma, vivessi… Con i tuoi.”
“Sì.”,
gli rispose, sospirando, “Vivo con mio padre e con la sua compagna.
E con suo figlio.”
Jones
annuì, poi abbassò lo sguardo.
“Ha
avuto un attacco… Di cuore.”, Alicia continuò nei particolari,
“Ed è morta.”
Lui
si mordeva le labbra, non sapeva cosa dire. Alicia se ne dispiacque
ma era giusto che sapesse, proprio per evitare quei momenti muti
apparentemente inspiegabili.
“Non
vedo mio padre da quasi otto anni.”, aggiunse poi lui, “E per me
è come se fosse morto.”
“Come
mai?”, gli chiese.
“I
miei hanno divorziato e lui ha un’altra moglie, altri figli.”, le
disse, “Non so dove sia con certezza.”
“Che
belle famiglie che abbiamo…”, disse, con amarezza, “Almeno la
tua sembra felice.”
Jones
si strinse di nuovo nelle spalle.
“Siamo
tutti bravi a tenere dentro quello che ci fa star male.”, disse
poi, “E la tua?”
Alicia
roteò gli occhi e sbuffò.
“Lasciamo
perdere.”, disse.
Di
lì a poco ripresero a studiare, ma nessuno dei due fu capace di
trattenere i propri pensieri dall’affiorare sul loro viso.
Ne
aveva abbastanza di geometria! Jones sembrava aver ritrovato la sua
solita concentrazione e non se la sentiva di chiedergli un po’ di
pausa. Si erano dedicati alla soluzione separata di alcuni problemi
di geometria algebrica e, dato che sentiva di aver imparato
abbastanza da lui per poter arrivare da sola al risultato corretto,
Alicia si era sistemata sulla poltrona, dove poteva stare più
comoda. La
scrivania di Jones era troppo stretta per essere occupata da entrambi
e, una volta tolti i suoi anfibi, aveva ritratto le gambe a sé e
si
era dedicata alla geometria. Ma quando era troppo, era troppo.
Alicia
chiuse il quaderno e lasciò perdere la lezione, era molto più
interessante mordicchiare la penna. Jones gli dava le spalle, era nel
suo mondo fatto di rette e assi cartesiani, non si sarebbe mai
accorto di lei. Certo che era davvero strano. Bastava dargli un
quesito da risolvere e lo si accontentava; per lei era sufficiente
una superficie bianca ed una matita. Quel pensiero le fece tornare in
mente il disegno con cui lo aveva inconsapevolmente ritratto e la
domanda che si era posta.
Di
che colore erano gli occhi di Jones? Ancora non ci aveva fatto caso,
ma durante tutto il giorno aveva comunque notato
tante altre piccole cose. Alicia aveva già visto la grandissima
quantità di lentiggini che coprivano la sua pelle, non aveva mai
pensato che una persona potesse averne così tante. I suoi incisivi
erano lievemente storti, ma tutto sommato era carino quando
sorrideva; la sua capacità di diventare paonazzo era da Guinnes
World Record, ma una volta sbloccato era un tipo divertente. Tifava
per la squadra sbagliata, ma nessuno era perfetto. Aveva anche delle
belle mani, lo aveva notato mentre si sfidavano a calcio. Riusciva a
tenere il pallone tra le cinque dita aperte, più di una volta glielo
aveva restituito lanciandolo in quel modo.
Lo
vide lasciare la sua penna sulla scrivania ed allungare le braccia
verso il soffitto. Aveva forse deciso di prendersi una pausa? No, si
era sbagliata, lui tornò subito chino sul suo foglio. Alicia alzò
gli occhi al cielo ed aprì il quaderno, niente geometria, ma solo un
po’ di sano scarabocchiare. La penna si muoveva sulla carta,
tracciando immagini a caso.
Forse,
se si fosse deciso ad abbandonare quel suo riconoscibile
atteggiamento da secchione, sarebbe stato un bel ragazzo. Alicia alzò
un sopracciglio al pensiero. No, non la convinceva. Buttò gli occhi
sul suo lavoro, una riproduzione piuttosto scarna del nome Ratleg.
Sorrise, pensando a come Ratleg era capace di spuntare fuori al
momento più inaspettato. Negli ultimi giorni non si erano sentiti,
entrambi erano stati piuttosto impegnati, ed un po’ lui le mancava,
doveva ammetterlo. Si chiese cosa stesse facendo in quel momento, se
si fosse connesso e se la stesse aspettando.
“Vuoi
mettere un po’ di musica?”, disse Jones, cogliendola totalmente
di sorpresa.
Si
era voltavo verso di lei, che invece si era persa nell’immagine
sfocata del volto di Ratleg e non si era accorta che lui si era
distratto dallo studio.
“Oh…
Sì, certo!”, gli fece, con entusiasmo.
“Scegli
pure.”, disse Jones, indicandole con un gesto della testa il porta
cd pieno di album, alto quasi quando lei.
Lo
aveva già notato ma non vi si era mai soffermata per osservarla da
vicino. Scartò ogni album del Boss, sarebbe stato troppo scontato, e
si soffermò su una vecchia ed alquanto graffiata copertina:
Who’s
Next
dei The
Who.
“Che
ne dici di questo?”, domandò a Jones, mostrandoglielo.
“Se
funziona ancora…”, rispose lui, “E’ il primo disco che ho
comprato, molto probabilmente è illeggibile…”
“Proviamo!”
Lo
infilò nella bocca dello stereo e premette play. Non aveva quel
disco, dei The Who possedeva solamente Tommy
e si era affezionata all’inverosimile a Pinball
Wizard,
contenuta in quell’album. Scelse una delle canzoni, esattamente la
penultima, perché le rivelò qualcosa. Era Behind
Blue Eyes.
Come il colore degli occhi di Jones.
Appena
le note partirono, lui si oppose.
“No,
non quella canzone.”, disse, “Non mi piace.”
“Andiamo,
Jones, è bellissima.”, gli fece.
No
one knows what it’s like to be the bad man, to be the sad man
behind blue eyes
No one knows what it’s like to be hated, to be
fated to telling only lies
“Perché
non ti piace?”, gli domandò, incuriosita.
“Perché...
Perché non passi alla prossima?”, disse lui.
Era Won’t
Get Fooled Again.
“Se
proprio insisti.”, disse Alicia, premendo ancora sul pulsante skip
e selezionando la canzone successiva.
La
bestiaccia curiosa, stuzzicata da rapido cambiamento di espressione
di Jones, chiedeva di essere soddisfatta. Prese di nuovo sulla sedia
che aveva occupato accanto a lui e volle chiederglielo.
“Cos’ha
quella canzone?”, gli disse, “A me piace.”
Jones
era tornato sul suo foglio: Alicia sbirciò alle sue spalle e lo
trovò pieno di scarabocchi e disegni, piuttosto che di formule
matematiche. Anche lui doveva essersi distratto come lei.
“E’
troppo triste.”, rispose lui, scrollando la testa come se non
avesse voluto parlarne.
“Invece
è una bella canzone.”, si oppose lei, incrociando le braccia.
“Ne
preferisco altre.”
“Canzoni
d’amore?”, ironizzò lei.
“Ovvio
che no!”, esclamò Danny.
Alicia
alzò il sopracciglio. Evidentemente, quel ragazzo doveva avere avuto
qualche problema con l’altro sesso.
“Cosa
ti abbiamo fatto di male?”, gli chiese, “Puoi parlare liberamente
con me.”, pose la mano destra sul petto e l’altra rimase alta ed
aperta, “Prometto che non ne farò parola con nessuno!”
Il
colorito acceso di lui stava a significare che doveva aver davvero
premuto un tasto dolente, ma la bestiaccia curiosa era la bestiaccia
curiosa. Non sapeva resistere, se una cosa la interessava cercava di
saperne tutti i particolari.
“Niente.”,
rispose lui, mentre una mano disegnava cerchietti sul foglio e
l’altra sosteneva la testa, “Niente.”
“Sicuramente
stai mentendo.”, gli fece, dandogli una pacca sulla spalla, “Non
farti problemi con me, non sentirti in imbarazzo.”
Jones
sospirò, la pressione della matita sul foglio aumentò.
“Magari
posso aiutarti in qualche modo.”, lo esortò ancora.
“No,
meglio di n-no.”, disse lui.
Le
nascondeva qualcosa, ne era certa, ed i tentativi di Jones di
mascherarsi la facevano fremere.
“Da-da-Danny…”,
gli fece, “Posso romperti le scatole per tutta la vita…”
Lui
rise.
“Andiamo,
smettila…”, disse, “Non ne voglio parlare.”
“Non
è vero, te lo leggo in faccia. C’è una ragazza che ti piace,
vero?”
Alicia
sapeva di essere come un cane: una volta trovato il suo osso
preferito non lo mollava più. Jones premeva quella matita così
forte che la punta si spezzò.
“E
va bene!”, esclamò poi, “Co-cosa vuoi sapere! Basta che poi mi
lasci in pace.”
Alicia
gongolava dalla felicità. Jones lasciò perdere il suo disegno ed
incrociò le braccia, badando bene al prestarle attenzione senza
guardarla negli occhi.
“Come
si chiama?”
“No-non
te lo dico.”
“Andiamo!”
“No.”
Come
ogni volta in cui si violettizzava, Jones evitava di incontrare
qualsiasi tipo di sguardo. Alicia comprese che doveva prenderla alla
larga.
“La
conosco?”, gli chiese.
Lui
ci pensò.
“No…
Non la co-conosci.”
“Viene
nella nostra scuola?”
“No…
E’ di un altro li-liceo.”
“Jones,
dimmi la verità!”
“E’
vero!”, protestò lui.
Ok,
gli credeva. Non molto, ma gli credeva.
“Le
hai chiesto di uscire?”
Per
un solo attimo, lui la guardò in viso, poi sbattè gli occhi e tornò
verso il pavimento.
“Certo
che no!”, esclamò Jones.
“Dovresti
farlo.”, disse Alicia, annuendo.
Jones
scosse la testa.
“Mi
direbbe di no.”
“Ma
se non ci hai nemmeno provato!”, fece Alicia, ridendo, “Come puoi
sapere già la risposta?”
Jones
temporeggiò ancora.
“Credimi…
La so be-be-benissimo.”
Quell’incespicatura
la fece ridere.
“Non
prendermi in giro…”, si lamentò lui.
“Scusami.”,
si affrettò a farsi perdonare, “Non farti frenare da un possibile
no, chiediglielo.”
Jones
si negò ancora.
“Non
avrei p-più il coraggio di guardarla in faccia.”
Doveva
sentirsi piuttosto patetico, ma almeno si sforzava di parlare. Era
divertente ascoltare un ragazzo parlare di quelle cose, capire come
la pensava sul mondo delle ragazze. Non le era mai capitata
un’occasione del genere, non era mai stata molto a contatto con
l’universo maschile e quegli argomenti non venivano mai sfiorati
quando era con Ratleg. Era piuttosto interessante, Jones aggiungeva
quel tocco di comicità involontaria che la faceva ridere.
“Avanti,
provaci!”, lo spinse ancora, “E poi il mondo è pieno di
ragazze!”
Lui
la guardò come per dirle ‘la
fai facile…’.
“Ti
assicuro che, se quella ragazza ha del buon senso, non ti dirà di
no.”, lo incoraggiò.
“Co-co-come
fai ad esserne si-si-sicura?”
Dietro
a quegli occhialoni non c’era una faccia inguardabile. Con un po’
di restyling, Jones poteva essere un ragazzo piuttosto carino, anche
se le riusciva sempre difficile convincersene. Ci voleva un bel
taglio ai capelli, che erano colpevoli insieme alle lenti spesse di
oscurare i suoi occhi chiari -ecco
perché non li ho mai notati-
e poi un modo diverso di atteggiarsi con il mondo. Basta con le
spalle basse, lo sguardo sfuggente e la balbuzie. Sì, forse si
poteva ottenere qualcosa di buono.
“Beh…
Non sei male, Jones.”, disse Alicia, sorridendogli, “E se ti
sciogli un po’, diventi pure simpatico.”
Diventò
così rosso che Alicia temette di vederlo iperventilare e cadere ai
suoi piedi.
“Gra…
Gra… Gra…”
“Prego!”,
gli disse ridendo, “Adesso torniamo agli esercizi?”
Gli
tremavano le mani, che oltretutto sudavano copiosamente. Sentiva
caldo, troppo caldo, e decise di aprire un po’ la finestra della
camera. Per poco non cadde a terra alzandosi, il piede era rimasto
intrappolato nella gamba della sedia di Alicia. Si appoggiò al
davanzale e prese una boccata d’aria fresca, doveva gelare la
mente.
Beh…
Non sei male, Jones. E se ti sciogli un po’, diventi pure
simpatico.
Quando
Alicia aveva iniziato ad insistere, chiedendogli di parlargli della
ragazza che gli piaceva, avrebbe preferito prendere una pala, andare
in giardino e scavarsi una buca. Si sarebbe poi dato una botta in
testa ed avrebbe atteso che sua sorella, dall’alto della sua
generosità, lo avesse sotterrato. Non
sapeva come aveva fatto ma aveva mantenuto una certa dose di
autocontrollo, e non gli era scappato niente di censurabile. Con la
storia di quella canzone si era messo in un bel pasticcio, spingendo
Alicia a domandargli tutte quelle cose, ma se l’era cavata bene. O
almeno così credeva.
Beh…
Non sei male, Jones. E se ti sciogli un po’, diventi pure
simpatico.
Perché
non chiedeva alla ragazza di cui era innamorato di uscire con lui?
Perché Alicia non gli avrebbe mai detto di sì. Prese una lunga
boccata d’aria, doveva calmare il battito del cuore. Si asciugò la
fronte lievemente imperlata di sudore e comprese che era meglio
tornare sui libri e scacciare ogni pensiero.
Beh…
Non sei male, Jones. E se ti sciogli un po’, diventi pure
simpatico.
No,
non le sarebbe mai piaciuto. Alicia era uscita con un tipo come Judd,
tra lui ed Harry ci correvano mille miglia di distanza. Gli aveva
detto quelle parole solo per incoraggiamento… Era del tutto
inutile, non le avrebbe mai chiesto di uscire. Mai.
Non
avrebbe trovato la forza per farlo. Certamente Alicia si sarebbe
sentita a disagio e non avrebbe più potuto darle quelle ripetizioni,
in altre parole non avrebbe più potuto godere di quei momenti
insieme a lei, sebbene avessero avuto pochissima importanza. Alicia
lo considerava come un compagno di scuola ed un amico.
Fratellino,
se lei ti vede come un amico, puoi abbassare le armi,
gli aveva detto Vicky qualche giorno fa.
Lo
sapeva da solo, non era uno stupido. Sospirò ancora, si dette una
pacca sulla fronte. Era un idiota.
“Jones.”,
lo chiamò Alicia, “Mi devi aiutare con questi cosi… Com’è che
si chiamano?”
“Disequazioni.”,
le fece, sovrappensiero, il viso ancora volto verso il giardino sul
retro.
“No,
non quelle…”, disse Alicia,
“Già,
stavamo facendo…”, e non si ricordava più niente.
“Ti
senti bene?”, domandò lei.
Era
felice come una pasqua.
“Sì,
non ti preoccupare.”, le rispose.
Sentì
i passi di Alicia alle sue spalle.
“Sei
strano, Jones.”, fece lei, avvicinatasi, “Se ti sei stancato,
possiamo concludere. Ormai so che non passerò questa
verifica, quindi posso anche mettermi l’anima in pace.”
“No,
la passerai, stai tranquilla.”, volle calmarla.
“Non
sei convincente, Jones.”, obiettò lei sorridendo, “So quali sono
i miei limiti, ed anche se ho capito tutto quello che mi hai
spiegato, chi mi dice che il compito di domani sarà su quello che
abbiamo studiato insieme?”
Aveva
ragione, ma non voleva impaurirla. Era comunque sicuro che ce
l’avrebbe fatta, non era poi così male in matematica; le serviva
solo qualcuno che sapeva spiegarle tutti quei concetti complicati
nella maniera più semplice possibile, Alicia era una ragazza molto
intelligente.
“Chiamo
mio padre.”, disse Alicia, “Così viene a prendermi.”
“No.”,
le fece, d’impulso, ma si corresse subito, “C’è ancora…
Un’ultima cosa…”
L’impulso
lo aveva spinto ancora.
“Basta
numeri, ti prego!”, esclamò lei, alzando le mani in segno di
sconfitta, “Mi arrendo!”
Di
nuovo quell’impulso.
“No…
Non c’entrano i numeri.”
“E
allora cos’è?”, domandò lei, incuriosita ma perplessa.
“Beh…
Insomma… E se…”, l’impulso si fece più forte, “Quella
ragazza… Se mi dicesse di sì?”
Alicia
si toccò la punta del naso con la matita, poi si appoggiò al
davanzale della finestra, accanto a lui.
“La
porti fuori.”, rispose, “Al cinema.”
“Al
cinema?”
“Sì…
Così non avrete molto da parlarvi!”, e rise, “E ovviate
all’imbarazzo di non sapere cosa dire!”
Già,
era vero. Buona idea, si disse Danny, doveva tenerne di conto.
“E
poi?”, le domandò.
“Poi…
Le offrirai qualcosa da mangiare, come un hamburger… E poi la
riporti a casa. Ti piace come programma?”
“Sì…
S-sì, sembra buono.”
“Con
quello che guadagni con le ripetizioni, potresti anche portarla in
hotel a cinque stelle!”, esclamò Alicia ridendo, “Ma credo che
sia un po’ troppo presto…”
Infatti,
per lui il cinema e la cena fuori erano concetti situati al di là
dei confini del mondo. Se si metteva a pensare a quello,
rischiava di cadere di fuori dalla finestra. Comunque, c’era ancora
una cosa che doveva chiederle.
“Ma
se… Che ne so, io… E lei….”
“Un
bacio?”, anticipò lei, guardandolo dritto negli occhi e
causandogli un embolia cerebrale.
“Beh…
Ecco… Quello.”
“Se
deve accadere, lascia che accada, ma non affrettare le cose, cerca di
capire se anche lei è disponibile.”, gli spiegò, “Di solito non
ci si bacia al primo appuntamento, o meglio, non è quello che farei
io.”
Bene
a sapersi, era un altro appunto da scolpire nella memoria.
“E
se… Se accadesse?”
Era
importante per Danny saperlo, anche se non si sarebbe mai e poi mai
avverato.
“Vuoi
chiedermi come si fa?”, esclamò lei ridendo.
Ecco,
Alicia stava ridendo di lui. Era un caso clinico inguaribile. Danny
sentì la fronte diventare calda e bagnata.
“Avanti,
Jones, non hai mai baciato nessuna ragazza?”
Se
si escludeva Emily, la sua fidanzatina dei tempi dell’asilo… Sì,
nessun’altra.
“Stai
scherzando!”, continuò lei, leggendogli la risposta negli occhi.
Danny
si sentì davvero imbarazzato. Non sapeva cosa dire, cosa fare,
voleva solo tornare indietro nel tempo ed evitare quel momento.
“Andiamo,
non è proprio la fine del mondo.”, lo consolò lei, una volta
terminate le risate.
Infatti,
non era la fine del mondo. Era bensì l’apocalisse, l’armageddon,
il giorno del giuidizio. Danny vedeva in lontananza i
quattro Cavalieri della Morte venirgli incontro, con le loro falci
pronte a togliergli la vita.
“E’
una cosa… Piuttosto dolce.”, disse ancora Alicia.
Diciotto
anni, vergine e senza aver mai dato un bacio… Non ci vedeva niente
di dolce! Rientrava in quell’un percento di sfigati totali che non
aveva avuto nessuna esperienza, nemmeno Tom e Dougie ne facevano
ormai più parte. Forse era l’unico in tutta la scuola ad essere
ancora in quello stato.
“Vieni,
ti insegno qualche trucco.”
Alicia
prese per le mani quella stranezza vivente di Jones e lo portò al
centro della stanza. Al contrario di lui qualche ragazzo lo aveva
baciato, ma ancora… Insomma, non le era sembrato proprio il caso di
perdere la verginità con quel coglione di Judd, al tempo ci aveva
visto lungo e attualmente ne pagava il prezzo: lui che raccontava in
giro quanto fosse disinibita,
per parlarne in buoni termini.
“Allora,
innanzitutto devi avvicinarti a lei nel modo giusto.”, gli disse,
passando oltre all’espressione sbarrata e violacea di Jones.
Prese
le sue mani e le posò sui suoi fianchi. Sentì il calore penetrare
in pochi attimi il tessuto dei suoi vestiti. Jones era molto agitato,
ma non aveva niente di cui preoccuparsi. Alicia non lo avrebbe
mangiato, né tantomeno baciato, non era sua intenzione, voleva solo
che lui capisse come fare.
“Stai
calmo.”, gli disse, ridacchiando.
“O-o-ok.”,
rispose lui.
Il
prossimo passo era fargli capire che doveva guardare la ragazza,
altrimenti sarebbe stato del tutto inutile.
“Jones,
se non la smetti di sfarfallare gli occhi ovunque, quella penserà
che sei strabico!”, gli disse ridendo.
“Scusa…”,
rispose lui.
“Ecco,
ricordati che devi lasciar perdere il resto della stanza.”, gli
disse, “Poi, quando senti che il momento giusto è arrivato, chiudi
gli occhi e la baci. Capito?”
Ma
quello non era proprio tutto, forse gli occhiali potevano anche
andarsene. Alicia avvicinò le mani alle aste e, nonostante un
movimento brusco di lui, riuscì a privarlo delle lenti. Chiuse gli
occhiali e li appese ad uno dei bottoni della sua camicia. Sistemò
anche il ciuffo, spostandolo a sinistra, cosicché poté davvero
vedere il blu delle sue iridi.
Jones
seguì il suo consiglio e la guardò, mordendosi con costanza il suo
labbro inferiore.
Blu.
Erano
davvero dei bei occhi.
Alicia
si sentì persa per un attimo. Le mani di Jones erano ferme sui suoi
fianchi, le trasmettevano calore e sembravano quasi avvolgerla del
tutto. Si chiese che cosa avrebbe provato nel sentirsi accarezzare il
viso da quelle mani.
E
se al suo posto ci fosse Ratleg?
Il
pensiero la mandò in tilt. Le era guizzato in mente, fuggito da una
scatola chiusa e sigillata da cui non avrebbe mai dovuto uscire, ma
le piacque. Sentì formicolare il petto all’idea di Ratleg che la
baciava, che le diceva di aver immaginato quel momento da sempre.
Ratleg la conosceva così bene che avrebbe saputo come baciarla, come
accarezzarla. Nella sua mente lo vide distintamente avvicinarsi,
prenderle il viso con le mani e…
Qualcosa
di caldo premette contro le sue labbra, stupendola.
Le
ci vollero molti secondi prima di rendersi conto che Jones la stava
baciando. Moveva le labbra sulle sue con impaccio, ma Alicia non
poteva sbagliarsi: era un bacio, anzi, molti più di uno. Alicia non
sapeva come reagire, si sentiva bloccata, incapace di smuoversi.
L’unica parte di lei che ebbe il coraggio di fare qualcosa furono
gli occhi.
Si
chiusero. Poi anche le labbra si mossero.
Scambiò
il bacio senza sapere perché volesse davvero farlo. Era da Ratleg
che voleva essere baciata, non da Jones, ma non sembrava esserci una
sintonia tra la sua mente e le sue labbra, e rispondeva a Jones
mentre il suo pensiero era bloccato su Ratleg. Circondò il collo di
lui con le sue braccia e dischiuse la bocca. La punta della lingua
toccò le sue labbra, che si aprirono subito, ed incontrò la sua. Le
veniva quasi da ridere, Jones era così imbranato che non sapeva
proprio come fare. Ratleg sarebbe stato molto più bravo, molto più
dolce, molto più… Da Ratleg.
Eppure
ad ogni nuovo bacio prendevano dimestichezza l’uno dell’altro. Imparavano. Jones la avvicinò a sé stringendola, ed Alicia
approfondì istintivamente l’abraccio. Nella sua mente Ratleg era
imprigionato tra le sue braccia, sentiva il battito del suo cuore a
tempo con il proprio. Era il bacio dei suoi sogni… Ma qualcosa
interruppe presto l’incantesimo.
Era
la realtà. Jones la baciava ed Alicia lo ricambiava, stretti l’uno
all’altra. Tra le sue braccia non c’era nessun Ratleg, ma il
corpo del suo compagno di scuola e di ripetizioni. E quel corpo era
sensibilmente… Eccitato?
Gli
occhi di Alicia si spalancarono, la bocca si ritrasse, le braccia si
sciolsero e molti centimetri furono interposti tra lei e Jones. Non
poté resistere, e lo sguardo cadde… Proprio lì. Jones le dette
istantaneamente le spalle.
“I-io…
Io… Io…”, balbettava incessantemente.
“Sarà
meglio c-che vada.”, rispose Alicia, che non fu da meno.
Raccolse
velocemente la propria roba senza permettere ai propri occhi di
cadere su di lui. Fu un lampo. Un saluto veloce alle altre due donne
di casa, che le chiesero subito perché se ne stava andando così di
fretta.
“Mio
padre mi aspetta, è venuto prima del tempo.”
Grossa
bugia. Uscì di casa e percorse tutto l’isolato. Quando fu
abbastanza lontana lo chiamò e si fece venire a prendere.
Eccomi qua, dopo una valanga di tempo :) Non ho molto da dire, tranne
un grazie a chi mi leggerà e un grazie a chi ha commentato in
passato <3
Alla prossima!
Ruby
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
CAPITOLO
5
But
we are the lovers
Danny
è strano, si diceva Dougie.
Seduto
dietro di lui, durante l’ora di matematica, Dougie si chiedeva cosa
potesse essere successo. Era molto più interessante che stare
attento alla consegna della verifica semestrale, corretta e riveduta
dalla prof. Aveva già ritirato la sua: si era preso una sufficienza
proprio scarsa, aveva sbagliato la metà dei quesiti e la
professoressa Gambler gli aveva voluto piuttosto bene. Danny era
strano, troppo taciturno, troppo tendente al triste per essere il
Jones di sempre. Non doveva essere per la pesantezza delle battute di
Judd e dei suoi amici, né per colpa sua o di Tom, che ultimamente
gli tenevano un po’ il muso. Rimaneva solo un’altra persona a cui
pensare.
Danny li
aveva tenuti aggiornati sugli sviluppi -o meglio, sulle stasi- che
c’erano tra lui e la sua Alicia, raccontando delle chiacchierate
che si facevano nelle pause tra un esercizio di matematica e l'altro.
Sapevano dell’accordo nato tra i due, cioè il reciproco ignorarsi
durante le lezioni, visto il piccolo casino creatosi qualche tempo
prima. Le mura della scuola non erano mai fertili per la nascita
delle amicizie, che invece crescevano forti una volta fuori da esse.
Per quello, Danny sembrava voler dedicare più tempo ad Alicia che a
loro, e personalmente si sentivano entrambi messi da parte. Sì,
erano gelosi di lui, ma non lo avrebbero mai ammesso realmente. Erano
sempre stati insieme: loro tre, Poynter Jones e Fletcher dalla notte
dei tempi, e l’entrata di Alicia in quel triangolo aveva apportato
notevoli cambiamenti. Innanzitutto, l’istituzione del mercoledì a
serata per i film e la conseguente rinuncia del martedì; a ciò si
aggiungeva il ripasso della verifica semestrale di matematica. Danny
non avrebbe dovuto farlo, quella era una loro prerogativa: la
matematica era la matematica, e non era rilevante l'aver comunque
passato il test.
Il pensiero
di quello sgarro gli stuzzicò la mente.
Non aveva
per caso notato che le stranezze di Jones erano iniziate proprio dal
giorno della verifica di matematica? Dougie si impose di adoperare il
suo cervellino bionico: doveva essere successo qualcosa nel martedì,
il giorno che aveva preceduto il compito in classe e che Danny aveva
passato con Alicia. Attualmente era il lunedì della settimana
successiva, erano quasi passati sette giorni, durante i quali il suo
amico era sembrato lo straccio da pavimenti del bidello mummia.
Doveva
chiederne conferma a Fletcher.
Scrisse
velocemente un bigliettino, ma quando chiese a Danny di passarlo al
loro amico, che occupava il banco davanti al suo, Tom fu chiamato a
ritirare il suo compito: anche per lui la sufficienza fu risicata.
Osservò l’altro riposare il test e dedicarsi al suo biglietto, che
poi Danny gli passò indietro senza insospettirsi di niente.
Non
ti facevo così attento, Handjob Station.,
rispose Fletcher.
Aveva
fottutamente ragione, quel gran figlio di una buona donna di Jones
aveva combinato qualcosa e non aveva detto niente, non aveva
confessato nulla ai suoi amici, così come per la storia di quella
tipa su internet. Danny fu chiamato in quello stesso momento dalla
professoressa e ritirò il solito voto che sfiorava l’ottimo,
accompagnato dalla lode della professoressa; durante il tragitto di
ritorno si attirò tutti gli sguardi malevoli dei suoi compagni.
Subito dopo
venne il turno di Alicia.
“Complimenti,
signorina Lewis, con questo voto ha stroncato in due la sua media.”,
disse la Gambler.
Vide Tom
voltarsi verso Danny e lanciargli uno sguardo complice, ma Dougie non
seppe la reazione di Jones, vedeva solo la sua nuca riccioluta.
“Si vede
che le ripetizioni che le dà il signor Jones servono pure a
qualcosa.”
Notò subito
lo sguardo perso di Alicia: i compagni di classe presero a
bisbigliare e, tra questi, percepì la voce di Harry.
Ecco,
è la fine, si disse
Dougie.
E
la fine iniziò all’ora di pranzo.
Danny se ne
stava seduto accanto a Dougie, Tom si era accomodato davanti a loro:
era stato felice del fatto che Poynter si fosse accorto come lui del
comportamento piuttosto strano di Jones, e ciò stava a significare
che non era un pazzo paranoico ed apprensivo. Mangiavano in silenzio,
o almeno erano soltanto lui e Dougie a scambiarsi quattro parole.
Come tutti
gli scherzi, anche quello durò poco, sebbene uno scherzo vero e
proprio non fosse mai stato.
“Jones,
andiamo, dimmi cosa è successo tra te e Alicia.”, gli chiese Tom,
cogliendolo mentre cercava di inforcare un pezzo di verdura lessa.
L’altro lo
guardò con l’aria di colui che niente sapeva, ma non lo fregava.
“Niente,
non è successo niente.”, rispose Danny e tornò a mangiare.
“Parlaci.”,
esclamò Tom, in coro con Dougie.
Incrociarono
le braccia e si misero in attesa. Danny prese il suo tempo, ma alla
fine posò la forchetta e li accontentò.
“Ci siamo
baciati.”
La mandibola
di Tom cadde nel suo piatto così come gli occhi di Dougie, che
presero a penzolare fuori dalle orbite.
“Contenti
adesso?”, sbuffò l’altro.
“E… Dai,
racconta!”, lo esortò Dougie, “Dicci i particolari!”
“Cosa vuoi
che ti dica, Poynter!”, sbottò Danny, “Che mentre la baciavo io…
Io…”
“Tu che?”,
disse allora Tom, sempre più curioso.
Danny lo
guardò con aria abbattuta.
“Che hai
combinato?”, domandò Dougie, “Ti puzzava l’alito? Ti sudavano
le ascelle? Hai ruttato?”
Tom represse
una risata, non era il momento di scherzare, per Danny sembrava
essere una situazione molto delicata.
“
Io? Io… Sostanzialmente non ho fatto niente…”, disse Danny, a
testa bassa, “Il problema è… Cosa ha combinato… Lui…”
Dougie
impiegò molto più tempo di Tom a comprendere, e comunque arrivarono
entrambi alla soluzione con un discreto ritardo.
“Insomma!”,
esclamò Danny, stanco di essere osservato da due pesci lessi, “Mi
sono... Eccitato!”
Tom si
concentrò sul suo piatto, non trovava la forza per non ridere.
Dougie, invece, dal basso della sua stupidità…
“Mio
Dio!”, esclamò ridendo, “Che coglione che sei!”
Prima che
Danny potesse arrabbiarsi e gridargli che era un cretino insensibile,
qualcosa li bloccò. O meglio, qualcuno.
“Daddy
Jones!”, sentirono Harry Judd esclamare dal fondo della sala mensa,
accerchiato da tutti i suoi amiconi, “Che sapore ha l’amichetta
di Lewis?”
Il silenzio
tombale cadde su gran parte del corpo studentesco. Tom cercò subito
Alicia con gli occhi, ma sembrava non essere nelle loro vicinanze. Si
trovava al loro opposto, forse non lo aveva nemmeno sentito.
“Avanti!
Diccelo!”, continuò ad insistere Judd, le sue parole sottolineate
dalle risate dei compagni, “Così ti dirò se è la risposta
giusta!”
“Danny,
non starlo a sentire.”, gli disse Tom.
Il suo amico
cercava invano di prendere gli ultimi rimasugli delle sue verdure, ma
più che altro sembrava voler trapassare il tavolo con la forchetta.
Intorno a loro tutti ridacchiavano e lo guardavano, indicandolo con
scherno. Che vita di merda.
“Daddy
Jones!”, tornò all’attacco Judd, “Lo sappiamo che vi divertite
tanto insieme… Altro che ripetizioni!”
Valanghe di
risate.
Ma qualcosa
di piuttosto inaspettato accadde.
“Avanti,
Jones, diglielo pure che sapore ha la mia amichetta!”
Centinaia di
occhi si voltarono verso la cima della sala mensa. Alicia se ne stava
in piedi, le braccia incrociate sul petto ed il piede che
picchiettava sul pavimento. Ci fu più silenzio di quanto Judd era
stato capace di creare nella confusione assordante della mensa.
“Avanti,
parla pure, non ti vergognare.”, ripeté lei.
Mosse un
passo, poi un altro, e percorse lentamente parte del corridoio sotto
gli occhi di tutti. Si fermò davanti al loro tavolo.
“Jones,
non mi far incazzare. Parla.”, gli impose, “Così poi potrò dire
la mia.”
“E cosa
avresti di tanto intelligente da dire, sentiamo!”, si presentò
allora Harry, non intenzionato ad uscire dalla cerchia protettiva dei
suoi amici, ma forte della loro presenza.
“
Tante cose.”, disse lei, “Innanzitutto, parlerei della
microscopica grandezza del tuo
amichetto.”
Una
selvaggia massa di risate in sottofondo, ma furono piuttosto tenui.
“Mi sa che
ti sbagli con qualcun altro!”, le rispose Harry, “Con tutti
quelli che hai conosciuto, sicuramente ti stai confondendo!”
“No, non
mi sbaglio affatto. E’ stato un po’ come il primo bacio. Non si
scorda mai!”
Anche se
aveva pensato male di lei, così come Dougie e tutti gli altri
compagni di scuola, Tom prese a stimarla profondamente. Lui non
avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa del genere, tanto che,
qualche giorno prima, non aveva nemmeno protetto il suo migliore
amico e l’aveva fatto finire dal preside per la prima volta in
tutta la sua vita. Danny, ancora seduto, sembrava non volerla nemmeno
guardare. Per qualche attimo la voce di Harry non si fece sentire,
stava caricando il colpo.
“Allora,
visto che la tua fidanzata l’ha già sparata grossa, perché ora
non parli tu, Daddy Jones?”
“Judd,
piantala, finiscila di scaricare le tue frustrazioni da pisello
piccolo su chi non ne ha colpe.”, gli fece Alicia, con aria
piuttosto ironica ed incazzata.
“Tornatene
a posto, il tuo spettacolino patetico è finito!”, provò a
zittirla Harry.
“No, è il
tuo che dovrebbe concludersi, pezzo di idiota!”
“Vieni
qua, ti mostro come sono capace di accontentarti!”, la esortò lui.
Tom la vide
partire veloce come una scheggia, gli altri si prepararono ad
accoglierla. Harry si alzò, pregustando la sua ennesima vittoria con
un sorriso soddisfatto.
“La dolce
gattina prodiga!”, esclamò poi.
“Non ti do
un calcio nelle palle perché non saprei dove cercarle.”, disse
Alicia.
Dio, era
ufficiale, anche Tom l’amava.
“Allora
cosa ne dici se io…”, tornò all’attacco Harry, ma un pugno
pieno sul naso lo costrinse a chetarsi.
Il ragazzo
barcollò all’indietro, sotto la spinta di una mano chiusa ed
appartenente ad una ragazza, alta almeno dieci centimetri meno di
lui, che aveva avuto la forza di fronteggiarlo davanti ad una scuola
intera.
“Ma…
Brutta troia!”, gridò Judd.
Jones sfuggì
dal controllo visivo di Tom. Veloce come era stata Alicia, andò da
lei e la allontanò da Harry. Lo osservò dirle qualcosa, forse
voleva calmarla, ma il borbottio confuso generale annebbiò le sue
parole.
“Fottuti
bastardi!”, esclamò ancora Judd, prima di avventarsi su Danny.
Danny fu
meno pronto e si prese un bel pugno nello stomaco. Boccheggiò,
piegato in due, ma si rialzò presto. Spinse Harry, che era tornato
ad importunare Alicia e non si era accorto di lui, e lo fece cadere a
terra.
Merda, una
rissa in sala mensa…
“Lewis!
Judd!.... Jones! ”
Il preside
li guardava, tutti e tre: gli occhi trapassavano le mani, unite
davanti al viso, ed attendeva che qualcosa rompesse il silenzio.
“Signor
Judd, se ne vada.”, disse l’uomo, quasi con disprezzo, “Penserò
personalmente ad avvertire suo padre.”
L’altro,
che tamponava l’emorragia al naso con un fazzoletto, ebbe da
protestare.
“Ma non è
giusto! Io non ho fatto niente!”, esclamò con voce nasale.
Dio,
poteva anche togliersi quel cazzo di fazzoletto dal culo,
il sangue non colava più da un pezzo, ma doveva fare scena. Doveva
impietosire il preside.
“Un'altra
parola e ti butto fuori dalla scuola.”, disse l’uomo.
Judd
trattenne ogni parola: si alzò e se ne andò.
“Per
quanto vi riguarda…”, disse poi il preside, riferendosi a lei ad
a Jones, “Vi avevo detto di non farvi più vedere.”
Se ne
stavano entrambi ad occhi bassi, non avevano il coraggio di alzarli,
o forse farlo era tutt’altro che saggio.
“Signor
Jones, certe compagnie non fanno per lei. Se ne liberi.”, si prese
una pausa, “Signorina Lewis… I pugni sono da maschi stupidi, e
lei non è un ragazzo… Forse è solo stupida.”
Alicia
poteva bissare e dargli un cazzotto sul naso, ma era l’ultima cosa
al mondo che voleva fare.
“Metto una
nota di demerito ad entrambi.”, disse l’uomo, prendendo la sua
bella stilografica d’oro e disegnando uno scarabocchio sull’agenda,
“Ora andatevene a casa, le lezioni sono finite per voi due… E se
vi vedo ancora qua dentro, giuro che vi espello!”
La punta
stridula della voce dell’uomo causò l’apparire di un risolino
sulle sue labbra, ma Alicia si guardò bene dal farglielo notare.
Entrambi si alzarono, lo salutarono ed uscirono dall’ufficio. Ci fu
una notevole dose di mutismo tra loro, che camminarono lungo i
corridoio senza scambiarsi una sola parola. Si separarono, lui era
diretto verso il suo armadietto, lei verso il proprio.
Si trovarono
ancora all’uscita, come se si fossero accordati implicitamente di
incontrarsi.
“Mi
dispiace.”, disse lei.
“Non ti
preoccupare.”, rispose lui.
Alicia non
era in grado di guardarlo negli occhi, temeva di arrossire fino
all’inverosimile. In quei giorni aveva fatto di tutto per evitarlo,
tanto che aveva anche rimandato la lezione di giovedì sera, ed a
scuola non gli aveva nemmeno rivolto un cenno nascosto di saluto.
Niente, come se non l’avesse mai conosciuto. Come se non l’avesse
mai baciato.
“Beh…
Devo andare.”, gli disse e percorse i primi scalini.
Al quarto si
fermò, bloccandosi. C’era qualcosa che mancava. Si voltò verso di
lui.
“Grazie,
Danny.”
Lui strinse
le labbra in un timido sorriso.
“Di
niente, Lewis.”
Alicia
annuì, pensando all’ironia dell’aver invertito i loro modi di
chiamarsi.
“Ci
vediamo?”, gli domandò.
“Ci
vediamo.”, rispose lui.
.*.*.*.
I’m
RATLEG scrive:
Ultimamente
le cose non mi vanno tanto bene
BecauseTheNight
scrive:
Perché?
Cosa c’è?
I’m
RATLEG scrive:
Non
ho più molta voglia di studiare… Ho troppi pensieri per la testa
BecauseTheNight
scrive:
Posso
saperli?
Ci volle un
po’ prima che Ratleg terminasse il suo lungo digitare sulla
tastiera del suo computer.
I’m
RATLEG scrive:
Beh,
sai… Ho avuto l’occasione di fare una cosa che… Boh,
sinceramente non mi sarei mai aspettato di fare. Ovviamente ho
combinato un casino pazzesco, però ho preso un’iniziativa…
Iniziativa di merda
BecauseTheNight
scrive:
Domando
traduzione simultanea
I’m
RATLEG scrive:
Ho
baciato una ragazza…
Alicia
strabuzzò gli occhi e rimase a fissare lo schermo con aria ebete e
sorpresa.
I’m
RATLEG scrive:
Una
ragazza… Che mi piace davvero tanto.
Ancora
doveva riprendersi.
BecauseTheNight
scrive:
Wow,
Ratleg! Cazzarola!
Non
sapeva cos’altro dire, al posto del cervello aveva una linea retta
piatta ed infinita. Ratleg aveva baciato un’altra, il farlo era
un’azione normale e perfettamente sana, quindi perché doveva
starsene come un’idiota a pensare ‘cazzocazzocazzocazzo’?
Non importava che lei avesse fatto lo stesso, non importava che lei
avesse baciato Jones pensando a Ratleg.
Non
importava affatto, era stata tutta colpa dei suoi ormoni impazziti.
I’m
RATLEG scrive:
Non
so nemmeno come sia riuscito a farlo… E comunque non ho ottenuto
alcunché…
BecauseTheNight
scrive:
Cioè?
I’m
RATLEG scrive:
Siamo
amici, almeno credo… Ci vediamo spesso, però solo per motivi di
scuola… Abbiamo delle cose in comune, ma lei non sa che mi piace…
Beh, ora lo sa per forza, dato che l’ho baciata XD Però… Non le
piaccio, lo so, a lei piacciono altri tipi di ragazzi
BecauseTheNight
scrive:
Chiedile
di uscire
Si morse la
lingua, ma l’aveva scritto. Non avrebbe potuto fare altrimenti.
I’m
RATLEG scrive:
Credo
di aver già fatto abbastanza con quel bacio… E comunque non c’è
mai stato niente tra di noi… A scuola non ci parliamo, recuperiamo
quando ci incontriamo fuori… Ma non credo che succederà più
BecauseTheNight
scrive:
E’
un mostro
I’m
RATLEG scrive:
Non
credo XD
Di
lì a poco preferì tagliare la conversazione e lasciarlo con una
scusa alquanto stupida. Chiuse il portatile e lo ripose sulla
scrivania, poi tornò sul letto. Si sdraiò, unì le mani dietro la
testa e sospirò profondamente. Che cosa aveva imparato da quella
breve conversazione? Ratleg, chiamato da tutti Daniel ma non da lei,
provava dei sentimenti per una persona -una
ragazza- ed aveva provato a baciarla. Aveva
baciato una ragazza che gli piaceva davvero tanto, sue testuali
parole.
Alicia
chiuse gli occhi.
Quella
ragazza che Ratleg aveva baciato non era lei stessa ed Alicia era
altrettanto certa che lui non avesse mai pensato ad Allie mentre
premeva le labbra contro le sue, nemmeno per un solo attimo. Non si
sentiva gelosa, non aveva alcun motivo per provare qualcosa del
genere nei suoi confronti, però si sentiva un po’… Non sapeva
definirlo, ma non le andava giù quello che lui le aveva detto.
Non
cercava niente in Ratleg, tranne quel sostegno da amico che le dava
da lontano, ma che sentiva più vicino di qualsiasi mano tesa per
aiutarla. Però… Un po’ le dispiaceva, ecco, era dispiacere ciò
che Alicia provava dentro di sé. Le dispiaceva perché avrebbe
voluto che Ratleg la pensasse come una persona speciale nella sua
vita. Speciale… Anche un pizzico in quel
senso. Evidentemente si sbagliava, era l’unica a provare quella
piccolissima sensazione.
Alicia si
voltò su un fianco e nascose la mani sotto al cuscino. Si sentiva un
po’ merda, doveva ammettere anche quello. Aveva baciato Jones
pensando a Ratleg, non era molto lodevole nei suoi confronti. Magari
a quello scemo piaceva davvero… Davvero tanto, come Ratleg con la
sua ragazza. Altrimenti perché l’avrebbe baciata? Perché avrebbe
avuto quella… Reazione?
Alicia aveva sospettato qualcosa del genere ma non aveva dato peso,
supponendo che Jones fosse stato strano a modo suo, e non per causa
sua. Non ci capiva niente. Tornò supina, incrociò le dita sul
petto. Ripensò a quel bacio e si rese conto di quanto fosse durato.
Molto, davvero molto. Forse non lo aveva realizzato perché si era
lasciata prendere dal pensiero di Ratleg, forse perché aveva atteso
finché Jones non avesse baciato nel modo giusto…
Forse
perché ti è piaciuto.
Strizzò
le palpebre fino a vedere le milioni di stelline bianche pungere il
nero. Ok, le stava bene, ammetteva anche quello. Le era piaciuto. Un
po’. Un pochino. Tanto così, si disse, avvicinando il pollice
all’indice. Jones era stato un principiante, ma aveva imparato in
fretta.
.*.*.*.
Dart
Fletcher scrive:
Vogliamo
i particolari, ancora non ce li hai dati
PoynterentyoP
scrive:
Sganciaci
la nostra parte
Cosa aveva
da dire? Il fondamentale lo aveva snocciolato il giorno prima, a
mensa, e per tutta la giornata aveva evitato di parlarne. Danny si
era sentito di malumore, scorbutico e scostante, oltretutto sua madre
si era infuriata come non mai dopo che le ebbe raccontato di essere
finito di nuovo dal preside. Pensava e pensava, immerso in una specie
di catatonia laboriosa della mente. Per il momento era al computer
con Tom e Dougie, in attesa l’arrivo di Allie che sembrava
ritardare più del solito, ed i due avevano preso a tartassarlo di
domande.
I’m
RATLEG scrive:
Niente…
Le ho detto di una ragazza, che mi piaceva, che non sapevo come
invitarla fuori….
Dart
Fletcher scrive:
E
poi?
I’m
RATLEG scrive:
E’
venuto fuori che non avevo… Insomma, lo sapete…
PoynterentyoP
scrive:
Sapete
cosa?
Danny
sbuffò, a volte doveva proprio imboccare quei due per far capire
loro dove fosse voluto arrivare.
I’m
RATLEG scrive:
Sapete
che io e le ragazze… Insomma, niente di niente!
Dart
Fletcher scrive:
Dalle
tue parti si va molto di mano
PoynterentyoP
scrive:
LOL
I’m
RATLEG scrive:
Vedetela
come volete…
PoynterentyoP
scrive:
Non
siamo noi a portare i fondi di bottiglia
Danny si
spazientì e li salutò con fretta, scegliendo di rimanere invisibile
per poter comunque notare quando Allie sarebbe arrivata. Si era
sentito strano quando le aveva detto di aver baciato Alicia, molto
probabilmente perché non avevano mai affrontato nessun argomento del
genere… Non sapeva definirlo propriamente, ma era accaduto qualcosa
di strano dentro la cornice di quella finestra di conversazione.
“Daniel?”,
si sentì chiamare da sua mamma, al di là della porta di camera
ancora chiusa.
“Entra
pure.”, le fece, aprendo una cartella a caso e fingendo di cercare
qualcosa.
Sentì il
legno scricchiolare.
“Com’è
andata al lavoro?”, le chiese, senza voltarsi.
Era ancora
un po’ arrabbiato per la discussione del giorno precedente e
perseverava nell’essere freddo nei suoi confronti. Kathy gli aveva
detto che l’aveva delusa, che non si sarebbe mai aspettato che suo
figlio continuasse a sbagliare usando violenza contro altra violenza;
non era servito niente dirle che lo aveva fatto per difendere Alicia.
Danny capiva perché sua madre era stata così dura nei suoi
confronti, ma lui non aveva fatto niente di male. Si era addirittura
preso un pugno nello stomaco, ma non le importava.
“Bene.”,
rispose lei.
Danny aprì
un vecchio foglio excel, dimostrandosi fintamente interessato a
quello che conteneva, i vecchi conti economici del mese di maggio
dell'anno scorso. Voleva farle capire di aver concluso quel breve
incontro.
“Daniel?”,
lo chiamò ancora sua madre, che evidentemente non si era arresa.
“Che
c’è!”, le chiese con aria scocciata, voltatosi di scatto.
Cinque dita
lo salutarono timidamente, accompagnate da un piccolo sorriso
imbarazzato. Appartenevano ad Alicia, che sostava dietro sua madre.
Danny non poté fare a meno di fermare gli occhi su di lei e
guardarla con stupita insistenza, privo di qualsiasi pensiero e
parola.
“Ciao…”,
disse lei.
“Ciao…”,
le rispose, con il medesimo tono.
“Ti ho
chiamato tre volte, dal piano di sotto.”, li interruppe Kathy, “Non
sei andato ad aprirle, chiedile scusa!”
Danny
inghiottì un gran magone.
“Scusami,
Alicia.”, le disse, abbassando gli occhi sul baratro d’imbarazzo
verso cui sua mamma lo aveva volontariamente spinto.
“Non ti
preoccupare.”, rispose lei, “Non fa niente.”
Kathy
sospirò vistosamente, poi si volse ad Alicia.
“Vuoi
qualcosa da bere, tesoro?”, le domandò, “Una fetta di torta?”
“Grazie
mille, ma sono a posto così.”, disse Alicia, con un sorriso caldo.
“Se hai
bisogno di qualsiasi cosa, chiedi pure a Daniel.”, si raccomandò
Kathy.
“Lo farò,
grazie ancora.”
Sua madre li
lasciò ad affrontarsi. Con educazione, Danny si alzò dalla sua
solita posizione curva sulla scrivania e se ne rimase in piedi, a
torturarsi le dita. Dopo il bacio, dopo quei giorni passati ad
ignorarsi del tutto, anche più di quanto avevano concordato tra di
loro, si sarebbe aspettato di trovare chiunque sulla soglia di camera
sua, tranne Alicia.
“Cosa…
Cosa fai qua?”, gli venne spontaneo chiederle.
“Beh… E’
martedì.”, rispose Alicia, osservando con costanza le pareti.
Sì,
era un sacrosanto martedì sera,
ma lei non avrebbe dovuto essere nella sua stanza da letto. Avrebbe
dovuto starsene nella propria, a pensare a quel cretino di Jones che
si era approfittato di lei, quando non aveva voluto altro che
mostrargli alcuni piccoli consigli.
“Sì…
Però…”, balbettò Danny, “Beh… Io credevo che…”
“Ok, ho
capito.”, disse Alicia.
Si voltò e
scomparve nel corridoio.
“Lewis!”,
la chiamò, d’istinto.
I passi sul
parquet scricchiolante si fermarono.
Forse
non era stato molto saggio presentarsi da Jones. Alicia ne era quasi
certa. Occupavano i lati opposti della sua scrivania, Danny gli
spiegava alcuni concetti di trigonometria, nella distanza lei
riusciva a vedere tranquillamente le formule che scriveva sul foglio,
che poi le passava per farle capire ciò che diceva. No, non era
stato per niente saggio, soprattutto perché non riusciva a
concentrarsi. Alicia si trovava nel bel mezzo di un conflitto:
voleva uscire di lì, sapeva di aver sbagliato nel decidere di
tornare a prendere quelle ripetizioni, ma non aveva voluto seguire il
consiglio che si era data. Dopo tutto, se voleva interromperle
avrebbe dovuto chiarirlo con Jones e metterlo al corrente, era così
che le avevano insegnato, ma ora che si trovava con lui, Alicia non
sapeva cosa fare. Era troppo l’imbarazzo che provava, troppo.
Ricordava
il bacio, lei che pensava a Ratleg.
Jones
la stringeva, lei lo abbracciava… Quello.
Pensava
anche al bacio che Ratleg aveva dato all’altra.
“Alicia?”,
la chiamò Jones.
La
riprendeva dalla sua disattenzione e la guardava con espressione
abbattuta. Alicia nascose il viso tra le mani, le dita presero a
massaggiarle le tempie. Quello che stava facendo non era
assolutamente giusto nei confronti di Jones.
“Scusami…”,
gli disse, “Ti sto facendo perdere tempo.”
Jones annuì
con un leggero movimento della testa.
Basta, era
l’ora di smettere di comportarsi irrazionalmente, senza pensare a
ciò le sue azioni potevano causare nell’altro. Aveva vissuto tutta
la vita facendosi muovere dall’istinto ed i risultati spaziavano in
tutti i campi: bastava guardare a suo padre, a tutte le donne che
aveva fatto fuggire a gambe levate, e a lui che non credeva più alle
sue richieste di aiuto.
“Senti,
Jones, forse è meglio se…”, volle informarlo, “Se non prendo
più queste ripetizioni.”
Pronunciò
quelle parole osservando il suo mento, scorrendo poi lungo la linea
del collo, fino alla pelle libera dai lembi della camicia sbottonata.
Le sue mani, le cui dita si muovevano intrecciandosi nervosamente,
attirarono la sua attenzione, ma solo per brevi attimi.
Alicia non
evitò di guardare anche le labbra morbide.
Ti
è piaciuto, ammettilo.
“Come
vuoi.”, rispose lui, sorridendole con quelle stesse labbra.
Era
un’espressione triste.
“E’
che... Sai, mio padre…”, Alicia accampò la prima scusa che le
venne in mente, “Dice che… Insomma, secondo lui non sono utili.”
“Certo,
non ti preoccupare.”, rispose Jones, “Lo capisco.”
“Già…”,
borbottò lei, “Grazie comunque… Grazie di tutto.”
Alicia sentì
il bisogno di alzarsi e mettere in ordine le proprie cose.
“Ti… Ti
do una mano.”, si propose Jones.
Le prese la
borsa a tracolla e gliela porse, aprendola per permetterle di
riempirla con i suoi libri.
“Tieni
quello che ti devo.”, disse Alicia, prendendo dal portafoglio i
soldi per pagarlo.
Jones si
ritrasse subito.
“Non li
voglio.”, disse.
“Per
favore, prendili.”, insistette Alicia, “Era il nostro patto.”
“Non ti ho
aiutato per soldi.”, si oppose ancora lui, “Ma perché volevo
farlo.”
“Prendili.”
“Va bene
così, Alicia.”
Appoggiò la
mano sulla sua e la allontanò. Alicia sentì ancora il calore che
aveva attraversato la stoffa della sua divisa e le era entrata dritto
sotto la pelle. Ripose il denaro nella borsa, ma in un modo o
nell’altro glielo avrebbe comunque fatto avere.
Sospirò.
“Vado.”,
disse Alicia, “Ci vediamo a scuola.”
Si sarebbero
visti dove non potevano nemmeno salutarsi senza essere presi di mira
da qualcuno, benché quel medesimo qualcuno se ne fregasse del loro
reciproco ignorarsi ed approfittasse di qualsiasi momento per sfogare
la sua frustrazione su chi non voleva aver niente a che fare con lui.
Peccato, si disse Alicia, Jones avrebbe potuto essere un buon amico.
Prima di
andarsene mosse uno sguardo verso il poster del Boss, poi se ne andò
verso la porta.
“Alicia?”,
la chiamò Danny.
Si voltò di
nuovo verso di lui.
“Beh…
I-Io…. Pe-pensavo…”
Attese che
si calmasse.
“Pe-pensavo
che… Non so… Magari…”
“Che vuoi
dirmi, Jones?”, gli fece, sbuffando una risata.
“Pensavo
che… S-se ti va… Sabato po-pomeriggio…”
Alicia
aggrottò la fronte.
“P-potremmo
andare al ci-cinema… Vederci un f-film… E p-poi mangiarci un…
Un hamburger?”
.*.*.*.
Tom sbatté
gli occhi ripetutamente, poi si accorse della mandibola penzolante di
Dougie: mosso da un sentimento di altruismo, la risistemò al suo
posto. Erano a mensa: seduto come ogni giorno davanti a loro, Danny
aveva appena dato la notizia ed era pacatamente euforico.
“Ti ha
detto… Di sì?”, chiese ancora Tom.
Danny annuì
masticando una patatina fritta.
“Wow…
Non rimedio un appuntamento da tre mesi…”, sottolineò Dougie con
aria mesta.
“E… Cosa
farete?”, domandò Tom.
“Beh…
Andremo al cinema, sabato pomeriggio.”
“A vedere
cosa?”, si incuriosì Dougie.
“Non lo
so, farò scegliere a lei.”
Gli
posero tremila domande, ma Danny non sembrava volerli ascoltare.
Doveva essersi perso nel mondo dei suoi sogni, stava realizzando che
alcuni di questi si erano realizzati e gongolava al pensiero. Alicia,
la prima ragazza a fargli perdere quella testa tutta calcoli e
studio, aveva accettato il suo invito. Sarebbero andati al cinema,
poi avrebbero mangiato qualcosa ed infine sarebbero tornati a casa:
un programma piuttosto tranquillo, perfetto per Danny e per la sua
capacità supersonica di cadere in imbarazzo. A quei due non sembrava
vero che tutto quello fosse reale. Si erano guardati più volte negli
occhi in cerca di sostegno, increduli: Danny aveva preso
un’iniziativa con Alicia, Danny aveva baciato Alicia, Danny aveva
pomiciato con Alicia…
E ora sarebbero usciti insieme.
“Non
sono ottimista…”, disse poi Jones, “Per ora è solo un’uscita…
Tra amici.”
“
Siamo noi i tuoi amici.”,
esclamarono i due, quasi in contemporanea.
Dovevano
metterlo in chiaro. Tom Fletcher e Dougie Poynter erano i migliori
amici di Danny Jones, mentre Alicia Lewis sarebbe stata solo la sua
fidanzatina. Fine della già chiara questione.
“Lo so,
dementi.”, rispose lui, “Però… Insomma… E se qualcosa
andasse storto?.”
“Daddy, in
queste situazioni devi essere semplicemente te stesso.”, lo
consigliò Tom.
“Te
stesso.”, ripetè Dougie, “Ma con le ascelle pulite e l’alito
profumato.”
“Devi
stare calmo e non farti prendere dalla balbuzie.”, continuò
Fletcher.
“Lascia
perdere le bevande frizzanti, fanno venire i rutti.”, riprese
Poynter.
“Prima di
passarle un braccio intorno alle spalle, chiedile il permesso.”
“E’
anche per questo che ti devi lavare.”
“Appoggia
il viso contro i suoi capelli, falle sentire che le sei vicino.”
“Non
prenderla per il culo se si mette a piangere per una scena d’amore.”
Danny
muoveva i suoi occhi su entrambi i suoi amici, due giocatori di
tennis che sparavano consigli utili per passare quella serata nei
migliori dei modi. Non sarebbe mai stata perfetta, ma entrambi
sapevano di poter fare qualcosa per Danny, che di donne ne sapeva
molto poco. L’altro sembrava piuttosto interessato, spesso anche
divertito: c’erano tanti piccoli particolari che potevano abbellire
un appuntamento, oppure peggiorarlo all’infinito, bastava solo
stare attenti e saper leggere tra le righe.
“E
soprattutto…”, concluse Tom, pronto a dargli il suggerimento più
importante, “Ricordati della regola che sta alla base di ogni primo
appuntamento con una donna.”
“Qual è?”,
si interessò subito Danny.
Dougie
accolse la occhiata d’intesa di Tom e comprese.
“Quella
che ti può salvare da una figura di merda storica.”, disse
Poynter.
“E che hai
già commesso.”, aggiunse Tom.
Jones
si turbò, aveva afferrato a cosa
si stessero riferendo.
“E’
anche stata citata in un film.”, disse Dougie, con aria solenne.
“Insomma,
mi dite cosa devo fare?”, sbuffò Danny, teso e scocciato.
Tom
gli fece cenno di avvicinarsi, voleva spiegargli i dettagli senza
dover alzare troppo il tono della voce. Erano cose da maschi, ma
c’era comunque una sorta di silenzio riservato su certi…
Argomenti. Danny si
approssimò a lui, altrettanto fece Dougie, che sorrideva malizioso.
“Cinque
minuti prima di uscire di casa.”, gli disse, “Scaricati.”
Danny
aggrottò la fronte.
“Cosa?”,
chiese subito.
“Scaricati.”,
ripeté Tom, “Pensa a un’immagine, focalizzala… E scaricati.”
“Scaricarmi?”,
fece l’altro, ancora dubbioso.
Tom sospirò,
il loro amico era un caso perso.
“Pensa al
bacio che vi siete dati… E fatti una sega.”, concluse Dougie,
ermetico come sempre ma efficace, a vedere dal rosso magenta delle
guance di Danny, “Così eviti di spaventarla.”
“Sai
com’è…”, disse Tom, alzando le spalle, “Al primo
appuntamento c’è sempre il rischio di sparare a caso.”
BecauseTheNight
scrive:
Wow…
Cacchio Ratleg!
I’m
RATLEG scrive:
Dieci
minuti in attesa per dirmi wow cacchio ratleg? XD
BecauseTheNight
scrive:
Ero
andata a prendermi da bere… Scusamiiiii
Ma
quale bere e bere.
Era
rimasta come una cretina a fissare quelle parole -Le
ho chiesto di uscire e lei mi ha detto di sì-
per un totale di minuti che a Ratleg era sembrato infinito. Non
sapeva come si sentiva, c’era solo un piccolo buco nero nel suo
petto che si allargava sensibilmente ad ogni ticchettare della
lancetta dei secondi.
I’m
RATLEG scrive:
Ti
prego, dammi qualche consiglio, quelli che mi hanno dato i miei amici
sono piuttosto patetici…
Ecco, ci
mancava solo quello, che Alicia dovesse consigliare il suo Ratleg su
come far sì che la fortunata di turno diventasse la sua ragazza!
Doveva sviare, non si sentiva in grado di essere lucida.
BecauseTheNight
scrive:
Cosa
ti hanno detto?
I’m
RATLEG scrive:
Cazzate.
Ora voglio che mi aiuti, perché non so cosa fare ^^
Alicia
lasciò il portatile per qualche attimo e si distese sul letto,
aprendo braccia e gambe per abbracciare tutta la stanza.
No, non
poteva essere.
No, non
poteva succedere.
No, Alicia
doveva calmarsi, Alicia doveva mettere il piede sul freno, Alicia
doveva sviscerare se stessa per comprendere che cosa le stava
accadendo. Non era razionale essere gelosi di una persona mai vista
in volto, di cui si sapevano i sentimenti più profondi senza
conoscerne il cognome, la data di nascita e l’indirizzo di casa.
Alicia non poteva nemmeno pensare di essere invidiosa della ragazza
in carne ed ossa con la quale Ratleg voleva uscire, per poi
innamorarsi e stare insieme.
Alicia
era solo una
confidente lontana di Ratleg.
Alicia
non era quindi autorizzata a niente di tutto quello che stava
provando per lui.
E poi,
quello stesso venerdì Alicia sarebbe uscita insieme a Jones…
BecauseTheNight
scrive:
Sai,
anche io ho trovato qualcuno con cui uscire…
La risposta
fu più rapida di quanto si aspettava. Fu la conferma di ciò che
sapeva ma che nascondeva.
I’m
RATLEG scrive:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
BecauseTheNight
scrive:
Già!
Sono molto contenta!
I’m
RATLEG scrive:
Anch’io
sono molto contento per te :-) sono sicuro che questo ragazzo sia una
persona splendida… Altrimenti non avresti accettato, non è così?
Alicia
sospirò. Cosa poteva rispondergli?
Effettivamente
Jones è carino e simpatico… Ma non sei tu?
Represse
il magone che le soffocava il respiro e si impose di essere realista
e concreta. Entrambi avevano una vita lontana e distante, conoscevano
persone, approfondivano amicizie e incontravano ragazze/ragazzi con
cui stare insieme. Niente li accomunava, tranne quegli account
virtuali. The End.
I’m
RATLEG scrive:
Cacchio,
sono arrivati gli scemi, è mercoledì :-( Ci sentiamo domani sera?
BecauseTheNight
scrive:
Non
ci sono mai il giovedì, lo sai…
I’m
RATLEG scrive:
Vero,
scusami… Allora ci sentiamo venerdì! Voglio sapere tutto di questo
ragazzo e, non scordartelo, devi aiutarmiiiiii
BecauseTheNight
scrive:
Ci
sarò! Buon divertimento scemo!
I’m
RATLEG scrive:
Buona
serata anche a te… E grazie :-) Ti voglio bene!
Gliene
voleva anche lei, e molto. Comunque, quel venerdì non ci sarebbe
stata per lui, non si sarebbe connessa. Sentì improvvisamente fame,
aveva voglia di gelato al cioccolato, di una valanga di gelato al
cioccolato, di un barattolo con un grande cucchiaio con cui sfogarsi.
Sì, avrebbe concluso la serata con del gelato. Scese le scale e si
rifugiò in cucina: le ci volle un po’ prima di raggiungere il suo
obiettivo, scovando quel barattolo in fondo a tutto lo scompartimento
dei surgelati.
Cercò anche
il grande cucchiaio. Tornò in camera
“Cerca di
non finirlo tutto.”
La voce di
Judith la fermò sul primo gradino della rampa di scale.
“Ne vuoi
un po’ anche tu?”, le chiese con falsa gentilezza.
“No,
grazie.”, si negò la donna, “Ti posso parlare un attimo?”
Ulteriori
guai in vista, si disse Alicia. Fu costretta a riporre il gelato ed
il cucchiaio, se ne avesse avuta ancora voglia li avrebbe ripresi
dopo la chiacchierata con la sua matrigna, e la seguì in salotto.
Judith era nel suo solito abbigliamento, doveva essere tornata delle
sue lezioni di disegno e non si era ancora cambiata: completo con
giacca e gonna al ginocchio del medesimo colore, camicia bianca e
qualche gioiello. Col senno di poi, Alicia si chiedeva cosa avesse
potuto trovare suo padre in una donna con abiti così spenti. Judith
era piuttosto giovane, aveva solo trentanove anni, ne correvano ben
undici tra lei e suo padre, eppure ne dimostrava molti di più. Non
era per colpa della sua pelle, perfettamente curata e senza una ruga
di troppo, ma era proprio per il suo modo di porsi, di vestirsi. Era
una bella donna, aveva un gran sorriso e maniere molto educate, ma
sua nonna May aveva molto più gusto di lei.
Si sedettero
l’una di fronte all’altra ed Alicia attese che Judith le
parlasse. Sapeva già quale argomento avrebbero affrontato.
“Tuo padre
mi ha detto…”
“Lo so.”,
la interruppe Alicia.
“Lasciami
parlare.”, la riprese subito la donna, “Sono piuttosto stufa dei
tuoi tentativi di mettere a repentaglio il mio matrimonio.”
Non ebbe da
controbattere, qualsiasi risposta adeguata non avrebbe fatto altro
che gettare benzina sul fuoco, che era già alto e forte.
“Non
capisco perché tu abbia deciso di prendere di mira mio figlio… Ed
accusarlo di compiere gesti inimmaginabili!”
Alicia
incrociò le braccia e non affrontò il suo sguardo arrabbiato.
“Mark è
un bravo ragazzo!”, esclamò Judith, nel pieno della sua furia, “Ha
degli ottimi voti, tra un mese e mezzo avrà la sua laurea, poi un
lavoro rispettabile! Che cosa c’è che ti disturba di lui? Sei per
caso invidiosa di mio figlio?”
Alicia era
muta, quelle parole le erano già note.
“Avanti!
Rispondimi!”, la esortò Judith, “Cerca di difenderti, dimmi
qualcosa!”
La donna
scosse la testa, stremata dal suo silenzio.
“Io… Non
voglio dirtelo, Alicia, ma il tuo comportamento ha raggiunto un
limite.”, disse ancora la donna, “Credo che ci siano delle ottime
scuole che potresti frequentare, si trovano a diverse centinaia di
chilometri da qui. Ne parlerò con tuo padre.”
Sì, spedire
la figliastra problematica in un collegio era la soluzione per ogni
tipo di problema. Avrebbe dovuto sottoporre la teoria di Judith
all’attenzione della commissione svedese per il premio Nobel e, se
le fossero avanzati dei francobolli, anche a quella per l’Academy
Award.
Collegio?
Piuttosto che stare ancora in quella casa, avrebbe accettato in
quello stesso momento.
.*.*.*.
Arrivò il
giovedì e passò velocemente. Troppo velocemente…
Durante la
pausa pranzo, Alicia gli si avvicinò e gli disse che quella sera non
sarebbe venuta perché avrebbe dovuto terminare un lavoro importante
per il corso di disegno, Danny non ebbe nemmeno il tempo di
realizzarlo. Le disse che andava bene, che anche lui aveva da fare,
da studiare per l’interrogazione di letteratura per il giorno
successivo. In quello stesso istante, di proposito o per coincidenza,
Harry Judd passò nelle loro vicinanze e scoccò una delle sue
frecciatine: Alicia lo ricambiò alzandogli il dito medio sotto al
naso, lui ironizzò dicendole che aveva lo stesso odore della sua
amichetta e poi si allontanò.
Danny, che
come al suo solito era seduto con Tom e Dougie, le chiese se voleva
unirsi a loro ma Alicia rifiutò. Lo salutò con un sorriso ampio e
caldo che mandò in tilt il suo cuore ed andò a sedersi qualche
tavolo più in là, dove iniziò a mangiare il suo pranzo mentre con
l’altra mano disegnava.
Anche il
giorno successivo sembrò un colpo di pistola. Si incontrarono di
nuovo durante la pausa pranzo, graziati dalla mancata presenza di
Judd. Danny stava ancora aspettando Tom e Dougie, erano in ritardo e
non li vedeva nemmeno tra le persone in fila al bancone. Le chiese
quindi di sedersi, come aveva fatto anche il giorno precedente.
“No, mangi
sempre con Poynter e Fletcher, non voglio disturbarvi.”, disse
Alicia.
“Non ti
preoccupare.”, la tranquillizzò, “C’è posto per tutti.”
Alicia si
accomodò davanti a lui.
“E’
riuscito bene il disegno?”, le chiese.
“Oh…”,
disse lei, sorpresa, “Sì, molto bene. Vuoi vedere?”
“Certo!”,
esclamò Danny.
Alicia gli
sorrise e prese a rovistare tra le tavole contenute nella sua solita
vecchia cartellina marrone. Una volta individuato il disegno, glielo
mostrò. A tratti semplici di matita e carboncino, aveva riprodotto
una donna con in braccia una bimba di pochi anni, seduta su
un’altalena: non c’era niente di più semplice e realistico.
“Wow… E’
molto bello…”, le disse, osservandolo stupito, “Non so come ci
riesci…”
“Nemmeno
io…”, rispose lei.
Danny notò
subito l’inflessione della sua voce.
“Perché
dici così?”, le fece.
Alicia alzò
le spalle, poi allungò un dito ed indicò la donna, che sorrideva.
“E’ mia
mamma.”, poi indicò la bambina, “E questa sono io.”
Danny non
seppe cosa dire, tranne che ribadire quanto fosse brava nel disegno.
“Grazie…”,
rispose lei, arrossendo un po’.
Ripose il
lavoro nella cartella e si concentrò sul suo pranzo, lui fece
altrettanto. Passarono i successivi momenti in silenzio, Danny si
stupì della relativa calma che provava. Non gli tremavano le mani,
non aveva balbettato e il suo corpo non aveva avuto sbalzi di
temperatura.
“Ti posso
chiedere una cosa, Jones?”, domandò lei.
“Fai
pure!”, le sorrise.
“Mi
daresti il tuo numero?”, gli domandò, “Così domani possiamo
metterci d’accordo.”
Era vero, il
giorno successivo sarebbe stato sabato.
Sabato…
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
CAPITOLO
6
If
you don't believe me then just look into my eyes
E
sabato arrivò.
Danny
bussò alla porta di camera di Vicky, la trovò china su un libro di
chimica. Odiava ammetterlo ma aveva bisogno del suo aiuto e non
appena si spiegò, sua sorella digrignò la bocca in un sorriso
diabolico ed incrociò le dita con soddisfazione. Danny se
ne stava seduto sul letto, intento a guardarla sventrare il suo
guardaroba alla ricerca della giusta camicia, del giusto maglioncino
e del giusto paio di pantaloni e di scarpe. Ci volle mezzora di
tempo, poi altri minuti per trovare l’abbinamento più consono.
Alla fine, dopo un paio di furiose litigate, Vicky approvò una
camicia con piccoli quadretti celesti, pantaloni e scarponcini scuri.
Danny ebbe poco da ridire, ma si preoccupò quando vide lo sguardo di
lei concentrarsi sui suoi capelli.
“Che
ne diresti se prendessi un paio di forbici e…”
“Assolutamente
no!”, abbaiò Danny, “Nessun taglio ai capelli!”
Portò terrorizzato le mani alla testa e coprì istintivamente le
orecchie.
“Li
posso almeno sistemare per il giusto verso?”, disse Vicky,
“Sembrano solo una massa spettinata e senza senso!”
“Ma
non li tagliare!”, la avvertì ancora, “O ti giuro che vengo in
camera tua, prendo i tuoi trucchi e li metto al sole!”
“Solo
una spuntatina al ciuffo sulla fronte…”, lo pregò lei.
“No!”,
si oppose ancora.
“Ad
Alicia non piaci, con quei capelli…”
Aveva
cercato di evitare il ritardo, ma non le era stato possibile. Suo
padre le aveva fatto un sacco di domande su Danny, aveva voluto farsi
dire dove abitava, si era fatto dare il suo numero di telefono e le
aveva negato il permesso di prendere la macchina. Non c’erano state
parole di Alicia che avrebbero potuto convincerlo, tanto che alla fine
fu costretta a farsi accompagnare da lui. Adrian l’aveva torturata
nello stesso esatto modo anche l’ultima volta che era uscita con un
ragazzo, ma era accaduto quando era stata una bambinetta di quindici
anni, non avrebbe mai pensato che avrebbe bissato le sue
paranoie di genitore.
Aveva
diciotto anni e Jones era un ragazzo a posto.
Ma
non è Ratleg…
Accantonò
il pensiero. Vide Danny seduto su una panchina nei pressi del cinema
e disse a suo padre di fermare il suo grande monovolume a lato della
strada.
“Mi
raccomando, comportati bene.”, le disse Adrian, muovendo il suo
indice da ramanzina, “E non farmi stare in pensiero, chiamami
appena puoi.”
“Ok,
papà.”, disse Alicia stancamente.
Raccolse
la sua borsa.
“Me
lo dai un bacio?”
Voltò
il viso verso suo padre, seduto al volante, che sembrava attendere
una sua risposta positiva.
Alicia
esitò.
Ogni
volta si chiedeva come potesse quell’uomo farsi perdonare con lo
sguardo, con le sue grandi iridi marroni, i capelli brizzolati
di quasi cinquantenne, gli occhiali e la barbetta incolta. In quei
momenti Alicia poteva passare ore a chiedersi cosa stesse accadendo
nella mente di Adrian. Avrebbe voluto sapere cosa pensava, se si
sentiva orgoglioso di lei, se mamma era ancora nella sua testa. Talvolta,
quando litigavano e, in un modo o nell’altro, si trovavano soli e
facevano pace, Alicia aveva notato una certa espressione dipingersi
sul volto di Adrian, a cui lei stessa somigliava molto. Si era
chiesta spesso cosa potesse significare ed una voce lontana sembrava
dirle: ti
crede, ma
era solo un’illusione. Nonostante si sentisse tradita dall’unico
familiare che le era ancora vicino, Alicia non riusciva ad odiarlo.
Chiuse le braccia intorno al suo collo e gli dette un bacio sulla
guancia spinosa.
In
lei c’era ancora la flebile speranza che, prima o poi, Adrian
sarebbe stato dalla sua parte.
“Fai
la brava.”, le disse suo padre, “E non farlo impazzire…”
Prese
quell’ultima raccomandazione e scese dall’auto. Jones la notò
non appena il potente motore si allontanò e la salutò con un cenno
della mano. Alicia lo osservò attentamente finché non gli fu
abbastanza vicina da notare che il grande e spesso ciuffo sulla sua
fronte era stato ridimensionato.
Gli
occhi chiari di Jones erano ben visibili, contornati dal solito paio
di occhiali dalla montatura scura.
Non
è Ratleg…
Ma
era comunque Jones.
Si
sedettero ai posti che erano stati assegnati loro e si prepararono
per la visione del film. Dopo aver scoperto una comune passione
per i popcorn ne avevano comprato una confezione gigante,
accompagnata da grandi bicchieri di coca cola che, sebbene Dougie lo
avesse ammonito sulle bevande gassate, era ottima per dissetarsi dal
sale che mettevano in quantità industriali sui fiocchi di mais.
Avevano scelto un sofisticato thriller fanta-psicologico il cui
protagonista era Denzel Washington, attore che andava a genio ad
entrambi. Danny
si sentiva piuttosto tranquillo, ma degli aghi mostruosi premevano
contro il suo fondoschiena dal primo momento in cui l’aveva vista.
In semplici jeans e in un maglioncino chiaro a collo alto, Alicia era
seduta accanto a lui e guardava lo schermo con aria attenta, infilava
la mano nel grande contenitore e prendeva popcorn, che poi
sgranocchiava lentamente. Anche Danny era molto interessato alla
pellicola, che si stava dimostrando complicata e coinvolgente, ma lei
lo distraeva involontariamente.
Erano
quasi alla fine del primo tempo e si chiedeva quando sarebbe arrivato
il momento giusto per abbracciarla. Voleva davvero farlo, ne sentiva
quasi il bisogno, poi le luci si accesero e lo schermo si abbuiò.
"Abbiamo proprio scelto bene!”, esclamò Alicia, “Questo film mi
piace davvero tanto!”
“Oh,
bene, piace molto anche a me!”
Chiacchierarono
sui possibili risvolti della trama, chiedendosi cosa
sarebbe succedesso al protagonista, quando l’intervallo
finì. Insieme alla
riproduzione del film, tornarono i suoi tormenti. Erano piuttosto
vicini, ma soltanto perché le poltroncine non lasciavano molto
spazio
tra un posto ed un altro; le loro mani si erano incontrate così
tante volte alla ricerca di una manciata di popcorn. Forse non
avrebbe mai avuto il coraggio di chiederle il permesso di
abbracciarla, ma dopotutto aveva preso decisioni molto più
impegnative.
Si
avvicinò ad Alicia.
“P-posso…
Posso…”, le disse, prima di riprendere la concentrazione, “Posso
abbracciarti?”
Alicia
lo guardò, il suo viso era così vicino al proprio che per un attimo
ebbe l’impulso di baciarla, ma si trattenne. Lei gli sorrise.
“Certo.”
Con
un certo impaccio, Danny alzò il suo braccio sinistro e la circondò,
la testa di Alicia si appoggiò sulla sua spalla. Come gli aveva
consigliato Tom, appoggiò il mento sui suoi capelli e ne respirò il
profumo dolce. Chiuse gli occhi, rubò quell’istante e se lo stampò
nella mente, era geloso che qualsiasi cosa potesse cancellarlo come
del gesso sulla lavagna. Era un’emozione bellissima, non avrebbe
mai potuto sperare in qualcosa di meglio. Forse Alicia riusciva a
sentire il suo cuore battere all’impazzata, così forte che avrebbe
potuto lacerargli il petto, spezzare in due lo sterno come in un
vecchio horror di serie B. Da quel momento il film non esisté più.
Se
pensava a poco più di un mese prima, a quando la osservava di
nascosto durante l’ora di matematica pensandola così lontana e
estranea… Era stupido, ma Danny sapeva che una volta usciti da quel
cinema sarebbero ritornati ad essere Jones e Alicia. Voleva godersi
quell’abbraccio fino in fondo e non scordarlo mai più.
I
titoli di coda apparvero e le luci si accesero. L’abbraccio di
Jones l’aveva scaldata per tutto il secondo tempo e si sciolse,
lasciandola lievemente infreddolita e quasi stordita. Alicia si
accomodò sul sedile e sbadigliò, poi si rivolse a lui.
“Gran
bel film.”, disse, mentre si stiracchiava, “Washington al suo
meglio.”
Jones
impiegò qualche attimo per risponderle, Alicia notò subito il
colorito vivace delle sue guance.
“Già…
Sono pienamente d’accordo con te.”, disse poi.
Si
alzarono impacciati ed uscirono gettando via i bicchieri vuoti. Era
diventato buio, durante la proiezioni aveva anche piovuto, potevano
vederlo dall’acqua che bagnava ogni millimetro della città, e lei
non aveva uno straccio di ombrello nella sua borsa.
“Cosa
facciamo adesso?”, gli chiese Alicia, mentre indossava la giacca
che si era portata con sé.
Jones
fece altrettanto, infilandosi il maglioncino e sistemando il colletto
della camicia.
“Hai
fame? Perché la serata prevedeva anche un hamburger.”
“Ho
già detto che non torno a casa per cena.”, gli disse sorridendo.
“Allora
andiamo.”
Si
chiusero in uno dei più famosi fast food del mondo, salutarono il
vecchio clown tutto scarabocchiato ed ordinarono il menù più
classico di tutti. Si sedettero e parlarono. Parlarono, parlarono,
parlarono.
Ma
non è Ratleg.
Ogni
volta che Jones la faceva ridere, Alicia si ricordava quella frase di
quattro parole, poi la ricacciava in fondo alla mente. Era un
memento, un post-it lasciato sulla superficie lucida del frigo, un
fazzoletto legato.
“E
poi Dougie mi disse che dovevo controllare attentamente, ma proprio
attentamente!”
Alicia
scoppiò in una risata più grossa delle altre.
“Io
gli dissi: ma non vedo niente! E lui: coglione, non lo vedi che sei
cieco!”
E
rise ancora, tanto che la famiglia del tavolo accanto si voltò con
aria scocciata. Gli episodi buffi di Jones e la risata di lui, ancora
più stridula e gracchiante della sua, erano un cocktail micidiale.
“Dio,
Jones, ma siete un trio di deficienti!”, esclamò allora Alicia,
una volta che si fu asciugata le lacrime.
“Sì,
lo sappiamo, è per questo che ci divertiamo tanto.”, rispose lui.
Nell’attimo
di silenzio che seguì, Alicia si chiese chi fosse veramente Jones.
Quando era entrata per la prima volta nella classe di matematica non
lo aveva nemmeno visto, era rimasto confuso con il bianco sporco che
ricopriva le pareti. Quando era stato interrogato, oppure quando
aveva ritirato il suo compito in classe, Alicia aveva sempre emesso
uno schiocco di disappunto nel sapere i bei voti che collezionava
uno dopo l’altro, tanto che una volta lo aveva silenziosamente
mandato a fanculo. Poi
l’aveva soccorsa alla lavagna e con semplici passaggi le aveva
fatto capire quello che né il libro né la professoressa Gambler
erano stati in grado di spiegarle con chiarezza. Fletcher le aveva
proposto di andare a farsi aiutare da lui, aveva accettato solo
perché ne aveva avuto veramente bisogno e perché suo padre aveva
dimostrato da subito dubbi sull’utilità di quelle ripetizioni.
Una
lezione dopo l’altra Jones aveva smesso di balbettare, aveva fatto
uscire un po’ di quella parte di lui che non era mai stata messa in
mostra per nessuno dei suoi compagni di scuola, compresa lei ed
esclusi Poynter e Fletcher. Con una specie di tranello, l’aveva
baciata, e poi invitata fuori.
Ma
non è Ratleg!
No,
non era lui.
“Cosa
mi racconti della tua vecchia scuola?”, le chiese Jones,
guardandola sorridente.
Alicia
era ancora sintonizzata su quel pensiero, tanto che anche lui se ne
accorse.
“E’
tutto ok?”
“Sì,
pensavo solo che dovrei mandare un messaggio a papà, così si
tranquillizza.”, gli disse.
“Certo,
fai pure.”, disse Jones, “Intanto mi assento per qualche minuto.”
Si
alzò e la lasciò sola, Alicia prese il cellulare e disse realmente
ad Adrian che la serata stava procedendo bene e che sarebbe tornata
sana e salva. Lui le rispose che nel giro di mezzora sarebbe stato da
lei.
Ed
Alicia si maledisse.
Con
tutta sincerità, non aveva pensato di passare una serata del genere,
non con Jones, con lo strano balbuziente mago dei numeri. Aveva
accettato di uscire con lui quasi d’istinto, senza riflettere.
Jones era gentile, simpatico, divertente… E dolce, molto dolce.
L’aveva tenuta stretta al suo corpo, caldo e profumato di buono,
durante tutto il film. Si era sentita felice, tanto che aveva
rischiato di addormentarsi. Per molto aveva perso il filo della trama
ma non le era importato assolutamente niente.
Ma
non è Ratleg.
Perché
doveva rovinare tutto con quel pensiero? Perché doveva lasciarsi
ossessionare da qualcuno che, in fin dei conti, non esisteva?
Il
tocco sulla sua spalla la fece trasalire.
“Alicia,
non stai bene…”, disse Jones.
Si
sedette accanto a lei sfruttando la poltroncina libera, ed il
braccio che l’aveva tenuta le circondò ancora la vita. Alicia
incontrò i suoi bei occhi blu, quelli nascosti dalle lenti degli
occhiali, e non riuscì ad essere ancora triste.
Ma
non è Ratleg.
“Sto
bene.”, gli rispose, “E’ che papà mi tiene un po’ il muso…”
“Mi
dispiace.”, disse Jones, “Non voglio crearti dei problemi…”
“Ma
no, non preoccuparti!”, lo calmò, “Non c’entri niente, è solo
tanto geloso di me.”
La
cena era ormai finita, potevano anche andarsene. Uscirono dal fast
food e si incamminarono verso il luogo in cui suo padre sarebbe
passata a prenderla.
“Se
non è sconveniente, posso accompagnarti a casa”, le disse Jones,
una volta sul marciapiede, “Così tuo padre non si scomoderà.”
“Una
volta che si è deciso, è meglio non contraddirlo.”, rispose
Alicia.
“Va
bene!”, esclamò lui, alzando le mani in segno di arresa.
Le
insegne erano accese, altre persone passeggiavano per quella stessa
strada e l’acqua si era quasi del tutto asciugata. Il cielo
prometteva altra pioggia ma, a vedere dagli sprazzi stellati, avrebbe
concesso loro una tregua di qualche tempo. Metro dopo metro, le
parole tra di loro erano le uniche a mancare.
“Non
mi sono ancora complimentato con te per il risultato della verifica
semestrale.”, disse ancora Danny, sciogliendo l’attimo di
silenzio, “Quindi complimenti, sei stata molto brava.”
“E’
tutto merito tuo.”, ed era le verità, “Altrimenti non avrei
saputo rispondere a nessuna delle domande.”
“Diciamo
che grazie al ripasso fatto con te, mi sono salvato il culo.”
Alicia
lo guardò di sbieco.
“E
perché?”
“Se
non ci fossi stata tu, gran parte degli argomenti su cui siamo stati
esaminati li avrei saltati a piè pari… E mi sarei segato le gambe
da solo.”
“Che
gran bugiardo che sei!”, esclamò allora Alicia, “Tu sai tutto
della matematica!”
“Non
è vero, andiamo!”, si difese lui, “Non sono il genio che
credete!”
“Ma
piantala!”
Alicia
rise ancora, si coprì la bocca con la mano. Forse stavano camminando
troppo vicini, ma quando quella cadde lungo il suo fianco incontrò
le dita di Jones. Timidamente si intrecciarono tra loro ed Alicia
sentì le sue guance più calde.
“A-Alicia…”,
la chiamò Danny.
Quel
piccolo balbettio la costrinse a fermarsi ed a osservarlo
attentamente. Ecco il vecchio Jones, quello strambo.
“Devo…
Devo dirti una cosa.”
Percepì
le dita della mano di Jones stringersi alle sue ed Alicia prese a
preoccuparsi. L’espressione di Jones era bassa e sfuggente, c’era
qualcosa che non andava?
“Dimmi
pure, Jones.”, lo esortò.
“Beh…
Ecco… Vedi…”, borbottò lui.
Le
dita libere andarono a sistemare gli occhiali sul naso, poi si
intrufolarono tra i capelli e li spettinarono, come se prima non
fossero già stati completamente fuori posto. Jones sospirò
profondamente e sembrò rilassare le spalle: per quel poco che lo
conosceva, Alicia comprese che stava per arrendersi.
“Avanti.”,
gli fece, “Dimmi.”
“Non
ci riesco, è stupido.”, sentenziò lui.
“Fammi
giudicare.”
Jones
scosse la testa.
“No,
lasciamo perdere.”
La
bestiaccia curiosa insorse e protestò.
“Se
è una cosa che mi riguarda, ho il diritto di saperlo.”
Lui
esitò, poi sospirò ancora.
“Alicia…
Io… A me…”
Forse
era solo un'impressione, ma la mano intrecciata alla sua stava
lievemente tremando.
“Mi
piaci… Da sempre.”, sparò lui nel bel mezzo del silenzio.
Alicia
si sentì immobilizzare, pietrificare.
“Io…
Era questo… Quello che ti volevo dire.”, aggiunse Jones, con voce
traballante, “Mi piaci… Non posso farci niente…”
Inaspettatamente
lui lasciò la sua mano e la nascose nella tasca dei jeans scuri,
insieme all’altra. Sfuggì lo sguardo e scrollò le spalle.
“C’è
tuo padre che ti aspetta.”, disse poi, “Si arrabbierà.”
Alicia
era ancora lì, con un palmo di naso, e lo guardava senza essere in
grado di far caso al resto. In fondo lo aveva sempre saputo, ma non
aveva mai voluto pensarci veramente. Solo così spiegava il suo
impaccio, l’arrossire ingiustificato e tanti altri particolari che
aveva notato ed attribuito a quel suo essere strano, alla maniera in
cui solo Jones poteva essere.
Anche
lei mise le mani nelle tasche della giacca ed abbassò lo sguardo,
non sapeva cosa dire.
Ti
piace, ma non è Ratleg.
“Alicia,
tuo padre ha acceso l’auto, vuole andarsene.”, disse ancora
Danny.
Se
lo ripeteva ancora, lo avrebbe schiaffeggiato. Sapeva che quella non
era l’auto di suo padre, c’era caduta anche lei, ma il suv
sportivo della famiglia Lewis non aveva il paraurti anteriore
graffiato. Difatti, l’auto partì con una poderosa sgommata,
lasciandoli soli nella via. Danny si perse.
“Jones,
io…”
Alicia
non aggiunse altro ed alzò le spalle.
Ti
piace, ma non è Ratleg.
“Te
l’avevo detto che era una stupidata.”
No,
non lo era.
“No,
non lo è.”, lo contraddisse subito.
Lo
guardò in viso, trovando il timido Jones che l’aveva accolta in
camera sua, pieno di paura. Nell’incavo vuoto tra le sue braccia e
i fianchi Alicia vi infilò le mani, che si chiusero alle sue spalle;
appoggiò la testa al suo petto e lo trovò pulsante e vivo, come al
cinema. Jones fece altrettanto e la abbracciò.
Ti
piace, ma non è Ratleg.
Non
è Ratleg.
Ti
piace.
“Anche
a me.”, disse Alicia, piano piano.
Qualche
attimo.
“Co-come?”
“Anche
a me… Piaci anche a me.”
Alicia
alzò il mento e lo guardò: era un bel po’ più alto di lei, la
sua fronte arrivava a fatica oltre il profilo delle spalle di Jones.
Si
chiese perché non la stesse baciando.
Perché
non è Ratleg.
Jones
esitò, poi avvicinò le labbra alle sue e le sfiorò. Le baciò
ancora, poi un’altra volta, e di nuovo.
“Vuoi…
V-vuoi stare con me?”
Alicia
gli rispose con un sorriso, poi con un bacio vero.
Non
è Ratleg.
Ma
le piaceva e voleva vivere quell’opportunità.
.*.*.*.
Un
mese dopo quella domanda, Danny era ancora incapace di crederci.
Alicia aveva risposto sì per un’altra volta ed era diventata la
sua ragazza. Alicia Lewis era tuttora la sua ragazza. Poteva
abbracciarla, baciarla quando voleva… Pura e reale fantascienza.
Chiuse gli occhi e lasciò che il cuore si riprendesse dal piccolo
sbalzo che uno dei tanti sorrisi di Alicia aveva causato in lui. Era
quello l’effetto Lewis, la quotidianità che lei era in grado di
dargli e di cui non avrebbe potuto più fare a meno.
L’aveva
davvero desiderata, in ogni modo, ed ora che era la
sua ragazza
Danny avrebbe fatto di tutto.
Di tutto
per lei.
Quando
si era confessato con i suoi amici, Tom e Dougie lo avevano
consigliato di mettere un piede sul freno e calmarsi. Ma
come si può calmare un cuore innamorato?,
si chiedeva Danny. Avrebbe voluto condividere ogni momento con
Alicia, dalla scuola fino ai compiti, alle serate ed ai fine
settimana, ma era realista. La scuola lo costringeva distanziarsi da
lei: vuoi per Judd, che sembrava non aver capito di essere sull’orlo
di un baratro profondo. Vuoi per Tom e Dougie, i due cani bastonati.
Ogni tanto gli rivolgevano occhiati tristi e sconsolate, ricordavano
i momenti felici passati insieme, tanto che la loro amicizia pareva
ormai sul viale del tramonto. Eppure niente era cambiato: il martedì
era tornato ad essere la loro serata cinematica, il sabato lo
passavano davanti ad un tavolo di biliardo. Il tempo che rimaneva lo
dedicava ad Alicia ed a lei soltanto. Al lunedì ed al venerdì
veniva a prendere le solite ripetizioni, stavano insieme, poi
passavano la domenica al parco.
Quindi
perché i suoi due migliori amici continuavano ad avere quei musi
lunghi? Sinceramente non li capiva… Erano forse invidiosi di lui?
Danny
scrollò le spalle.
E
non era gli unici a preoccuparlo…
BecauseTheNight
scrive:
Mi
sta suonando il cellulare :-) e sono anche piuttosto stanca… Ci
sentiamo presto, Ratleg!
I’m
RATLEG scrive:
Ah…
Ok, va bene :-) a presto! Ciaooooo!
Alicia
concluse frettolosamente quella chiacchierata e spense il pc. Era
quella la sua tattica: ogni volta che Ratleg iniziava a parlare di
quanto adorava quella sua cavolo di fidanzata e di come le voleva
bene, Alicia ne approfittava per inventarsi la scusa più stupida e
piantarlo in asso. Prima o poi avrebbe capito che quell’argomento
le stava sullo stomaco.
Non
le interessava alcunché di quello che poteva dirle di lei, Alicia
voleva solo tornare a parlare con il vecchio Ratleg. Voleva provare
di nuovo quella sensazione di sollievo e delicato benessere che aveva
sentito in passato, poco dopo avergli dato la buonanotte ed essersi
accoccolata nel suo letto. Ora, ogni volta che Ratleg appariva on
line, Alicia percepiva la tensione salire, nell’attesa del momento
in cui lui avrebbe tirato fuori la sua splendida e meravigliosa
ragazza. Ratleg, voleva il vecchio Ratleg.
Il
cellulare prese davvero a vibrare, c’era un messaggio in arrivo per
lei. Sorrise e lo aprì, sapeva già chi fosse il mittente.
Che
fai di bello? Mi sento piuttosto solo…’
Erano
anni che Alicia si sentiva sola, sapeva benissimo quello che il suo
ragazzo stava provando. Il suo ragazzo… Jones era squisitamente
perfetto, adorabile e premuroso, tanto che a volte lo rimproverava di
essere troppo stucchevole e poco uomo. Niente a che vedere con le
misere esperienze precedenti.
Stava
bene con lui e, in fondo, gli voleva bene, anche se era presto per
dirlo con certezza. Solo che il solito refrain si presentava nella
sua testa, pronto a ricordarle di quello che stava facendo a quel
povero ragazzo troppo innamorato. Si diceva che prima o poi gli
avrebbe parlato di Mark, ma era certa che non lo avrebbe fatto
presto, soprattutto perché era altrettanto sicura che non sarebbero
durati a lungo. Non poteva essere crudele, ma non era facile stare
con lui e ricordarsi che ogni sorriso, ogni bacio ed ogni carezza
appartenevano a Jones, e non al ragazzo che avrebbe voluto accanto a
lei.
Era
vero che si stava affezionando a quel timido Daniel che le teneva la
mano stretta nella sua, che le cedeva sempre il passo con galanteria
e che le baciava i capelli perché era troppo alto e lei non aveva
sempre la voglia di alzarsi sulle punte e baciarlo sulle labbra…
Sì, si stava affezionando, ma non avrebbe mai saputo corrispondere a
pieno i sentimenti che Jones provava per lei con estrema evidenza.
Non
sei solo, ci sono io con te’,
gli rispose.
Anche
se pronunciava quelle parole con sincerità… Per quanto altro tempo
era in grado di continuare ad illuderlo?
Ad
illudersi?
Alla
fine era successo, l’inimmaginabile si era avverato e tutti
sembravano essere felici e contenti. Tutti.
Danny
era contento, aveva raggiunto la ragazza dei suoi sogni e l’aveva
fatta sua, come piaceva tanto dire agli scrittori romantici di un
tempo. Alicia era contenta… Contenta per fatti suoi. Cosa ne
potevano sapere loro di quello che girava nella mente della ragazza?
Kathy e Vicky erano contente. Il figlio-fratello era uscito dal suo
guscio, pronto a diventare un uomo, questione di giorni. Judd era
contento. I due fidanzatini riempivano la sua giornata.
Gli
unici totalmente scontenti erano loro due, Tom e Dougie. Da buoni
amici non avrebbero dovuto esserlo: dovevano invece sentirti
orgogliosi di se stessi, in fondo erano stati proprio loro due a
mettere Danny sulla strada giusta, quella che lo portava dritto da
Alicia… Ma non era proprio così, non era la verità. Il trio era
il trio e quello che accadeva ad uno accadeva anche agli altri.
Non
si sentivano trascurati o messi da parte, no, fondamentalmente non
era quello il loro problema. Quello che a loro mancava era la luce
che si accendeva negli occhi di Danny non appena Alicia gli era
accanto, o quando veniva anche solo pronunciato il suo nome. Erano un
pochetto invidiosi: sebbene avessero avuto le loro storielle, non
avevano mai conosciuto quella particolare sensazione… Era piuttosto
frustrante non essere al passo di Danny, dovevano innamorarsi anche
loro!
Martedì
sera, la luce era spenta in camera di Jones. Seduto a terra sul
grande cuscino, Tom si sentiva infastidito dallo sguardo insistente
di Dougie, comodo sulla poltrona, che lo osservava da diversi secondi
a quella parte.
“Che
vuoi, cretino…”, borbottò Tom.
“Ti
amo, Fletcher.”
“Prendi
un dito , ficcatelo in culo ed estraiti il cervello”, fu la
risposta del biondo.
“Così
mi ferisci…”, si lamentò Dougie.
“No,
ti farai più male da solo con quel dito.”
“Piantatela
di prendermi indirettamente per il culo.”, li rimbeccò Danny, con
aria monotona, “Voglio vedere il film.”
.*.*.*.
Avevano
disteso la vecchia coperta sull’erba scaldata dal sole, al parco
comunale di Watford, dove passavano quasi tutte le loro domeniche
insieme. Danny aveva portato con sé il suo vecchio pallone e, con
poca modestia, si era rifatto della sconfitta sonora che Alicia gli
aveva inflitto un po’ di tempo fa. Stanchi ed accaldati,
abbandonarono il pallone per stendersi: Danny le circondò le spalle
ed Alicia si accomodò sul suo petto. Non poteva chiedere niente di
meglio.
“Sai
una cosa?”, esordì Alicia, quando entrambi i respiri si furono
calmati, “Mi sa che non vado più in Svezia.”
Danny
cadde dalle nuvole.
“Cosa?”,
le domandò di ripetere.
“Sì…
Non ti ricordi?”, gli fece lei, “Ci sarà presto il compleanno di
mio padre… Ed io me ne dovrei andare con lui per qualche giorno in
Svezia, in vacanza.”
Ora
ricordava tutto: Svezia, compleanno e concerto… E lui che doveva
andarci con Vicky, con sua sorella.
“Come
mai non vuoi andare?”, le domandò.
“Perché…
Mi annoierei.”, rispose Alicia, “Sarò sola con la mia famiglia…”
“Beh,
ma ci saranno tanti posti da vedere.”, si permise di consigliarla,
“I musei, i paesaggi… La città, Stoccolma. Dicono che sia
bellissima e che la gente sia molto accogliente.”
Alicia
non rispose.
“Voglio
andare al concerto.”, disse poi, con espressione imbronciata e
scontenta.
“Possiamo
scambiarci il posto!”, le propose, tanto per farla ridere un po’,
“In fondo, ci somigliamo abbastanza!”
Non
sortì l’effetto sperato. Alicia sospirò, si mise seduta ed
abbracciò le ginocchia. Danny la seguì subito, preoccupato. Per un
attimo aveva pensato ad una reazione troppo infantile da parte sua:
Alicia si rifiutava di partire per un viaggio con suo padre solo per
un concerto. L’aveva quasi stupito, non si era aspettato quel
[i]‘Voglio
andare al concerto…’[/i]
detto con una voce piccola e quasi piangente…
Ad
ogni modo, Danny poteva dire di conoscerla almeno un poco e quello
che il linguaggio non verbale gli trasmetteva era piuttosto evidente.
No, non poteva essere solo per un concerto.
“Allie…”,
la disse.
Alicia
alzò un sopracciglio.
“Scusami…”,
le fece prontamente, forse non le piacevano essere chiamata così.
Gli
era uscito spontaneamente, era solo un nomignolo innocente che non
aveva assolutamente niente a che vedere con la Allie che aveva
conosciuto on line, ma con l'assonanza tra i due nomi.
“Non
ti preoccupare.”, rispose lei, sorridendogli, “Allie va bene.”
Quel
piccolo sorriso lo rincuorò, ma solo per un breve istante.
“Allie,
se c’è qualcosa che non va, puoi parlarmene.”, le disse e la
abbracciò ancora, “Se potrò aiutarti, credimi, lo farò.”
La
sentì sospirare.
“So
che ci sei, Jones. Questo è sufficiente per me.”, rispose lei, “E
comunque sono solo stupidi problemucci familiari.”
“Ne
sei sicura?”, volle accertarsene.
“Certo.”,
rispose Alicia, “Te ne parlerei.”
Sì,
non gli stava mentendo. Le dette un bacio sulla fronte e le sorrise.
“Non
voglio comunque andarci in vacanza con loro.”, ripeté Alicia.
“Vuoi
venire al concerto con me?”, le chiese, “Posso dire a Vicky di
darti il suo biglietto… In fondo non è così entusiasta…”
“Ecco,
sì!”, esclamò lei, senza però togliersi dal viso quel broncio
così carino, “Verrò al concerto con te!”
“Ed
invece andrai in vacanza.”, la ammonì Danny dolcemente, “Vedrai
tanti bei posti e tornerai piena di fotografie.”
Alicia
scosse la testa.
“E’
il compleanno di tuo padre.”, aggiunse Danny, “Starai con lui,
devi farlo.”
Non
avrebbe mai cambiato le sue idee.
“Pensa
a me, che non so nemmeno dove sia il mio!”, le disse comunque
Alicia
schioccò le labbra.
“Scusami,
non volevo offenderti.”, disse poi.
“Ci
sono abituato.”, la rassicurò, “Non sento nemmeno la sua
mancanza. Ma tu che un padre ce l’hai, tienilo stretto.”
“Mi
manca la mamma.”, mormorò lei.
Danny
non seppe cosa dirle. Appoggiò il mento sulla spalla di Alicia e
rimasero così per gran parte di quel pomeriggio. Avrebbe voluto
farla stare meglio, ma non sapeva come.
“Che
belle famiglie che abbiamo, Jones.”, disse ad un tratto lei,
cogliendolo di sorpresa, “Almeno la tua sembra felice.”
“Te
l’ho già detto una volta.”, le rispose, “Sappiamo nascondere
bene quello che ci fa star male.”
“Vorrei
poterlo fare anch’io.”
“Non
devi nasconderti, non con me.”
“Sto
bene, Jones, sto bene.”
Danny
non la capiva. Sembrava voler parlare ma poi si ritraeva, gli
concedeva una parte della sua vita per poi sottrargliela
improvvisamente.
“Come
si chiama la compagna di tuo padre?”, le domandò.
Invece
di rispondergli, Alicia si alzò e gli sorrise.
“Torniamo
al nostro pallone?”, propose, “Voglio la rivincita!”
L’urlo
animale di Vicky squarciò la tranquillità di quella cena. Sua madre
rabbrividì e chiese loro di abbassare i toni, ma non sarebbe stato
per niente facile.
“Toglitelo
dalla testa, pezzo di cretino!”, abbaiò Vicky, “Voglio venire a
quel concerto, costi quel che costi, e non me ne frega un bel niente
se ci vuoi portare la tua fidanzatina!”
Danny
non insistette: si dava il caso che, comunque, Alicia non sarebbe
potuta venire.
“Vicky,
andiamo…”, disse Kathy, “Potresti anche…”
“Non
sapete che cosa mi sono costati quei due biglietti!”, esclamò sua
sorella, incrociando le braccia.
“Avanti,
diccelo!”, Danny la costrinse a parlare, “Così potrò ripagarti
della perdita!”
“No,
scordatelo.”
Con
fare da diva scalpitante, Vicky li abbandonò in cucina e si chiuse
in camera sua. Era come parlare con un muro di cemento armato, e
comunque il calcestruzzo aveva più orecchie di lei. Danny sospirò e
si arrese, ma almeno ci aveva provato, anche se non sarebbe comunque
servito a nulla.
“Come
va con Alicia?”, gli domandò sua madre, cercando di recuperare le
fila della cena, ormai miseramente stracciate e perse.
“Beh…
Piuttosto bene.”, le rispose.
Le
sue parole avevano una capacità di convinzione quasi nulla e lo notò
dall’espressione ovvia di Kathy.
“Non
è vero…”, disse infatti la donna, “Lo so quando mi menti,
Daniel.”
Danny
sbuffò, gettando il tovagliolo sul tavolo.
“Non
lo so cos’è che non va, mamma.”, le disse, in vena di essere
totalmente sincero, aveva bisogno di un suo consiglio, “Non lo so,
credimi.”
“Lo
capisco.”, rispose sua mamma, “C’è qualcosa che non ti
convince.”
“Sì…
Ma non lo so… Non la so focalizzare.”
“Provaci.”
Sospirò
e tentò con tutte le sue forze.
“Per
esempio…”, esordì Danny, “Non capisco se vuole andare al
concerto perché… Perché è il concerto, o se voglia andarci
perché vuole farlo con me.”
Kathy
annuì ma sembrava non bastarle.
“E
poi non potrebbe comunque andarci… C’è il compleanno di suo
padre ed hanno organizzato un viaggio, ma non vuole unirsi alla sua
famiglia.”
“Deve
farlo.”, rispose allora sua madre, “La famiglia è la famiglia.”
“E’
quello che le ho detto anch’io ma…”, Danny si grattò la testa,
come se quel gesto avesse potuto schiarirgli le idee, “Non so,
sembra quasi che ci sia qualcosa che non vada… Intendo, nella sua
famiglia.”
Kathy
si appoggiò allo schienale della sua sedia.
“Beh…
Le mie clienti, al negozio…”, disse, citando una tra le fonti
assolute dell’opinione pubblica di Watford, “Mi hanno detto che
vive con suo padre, che si è risposato.”
“Questo
lo sapevo anch’io.”, le fece, “Sua madre è morta…”
“Oh,
mi dispiace!”, esclamò Kathy, “Questo non me lo hanno detto...”
Danny
le annuì, dispiaceva davvero anche a lui.
“Comunque,
la nuova moglie ha un figlio, di qualche anno più grande di lei.”,
aggiunse sua madre, “Poi non ne ho idea… Magari Alicia va poco
d’accordo con quella donna.”
“Può
essere…”, disse Danny, che non aveva pensato a quella
eventualità.
“Chi
sa la verità, se non lei?”, concluse Kathy.
Suo
padre aveva cosparso lo studio con libri aperti e carte stracciate;
camminava su e giù per la stanza, che somigliava tanto all’ufficio
del preside del liceo, e teneva un vecchio volume tra le mani. Era il
suo modo per riflettere.
“Papà?”,
lo chiamò Alicia.
Si
voltò e chiuse il libro.
“Posso
parlarti?”, gli chiese, “O magari ti disturbo…”
Adrian
le sorrise.
“Certo
che no, entra pure.”
Si
affrettò a liberare il divanetto dall’occupazione abusiva che i
volumi di medicina generale stavano perpetuando ad oltranza e le fece
cenno di accomodarsi accanto a lui.
“Cosa
vuoi dirmi?”, le chiese, sempre sorridente.
Alicia
si concentrò, era andata lì per dirgli del viaggio, del fatto che
non voleva andarci e sapeva in anticipo che suo padre si sarebbe
imbestialito.
“Beh…
Il prossimo venerdì partiamo… Per la Svezia.”, gli anticipò con
tono insicuro.
Suo
padre chiuse gli occhi e strinse i denti, come faceva quando cercava
di trattenere la rabbia ed imporsi al calma. Guai in vista, enormi
guai in vista.
“Vuoi
dirmi che non vuoi venire con noi, ma che vuoi andare al concerto di
Bruce Springsteen?”, le disse.
Alicia,
impaurita, rispose con un cenno positivo della testa.
“Lo
fai perché Mark si è aggregato a noi e non perché ti interessa
davvero il concerto, non è così?”, le chiese ancora suo padre.
“No,
è che vorrei davvero andarci…”, gli disse, “Danny ha un
biglietto per me, sono dei posti stupendi…”
Suo
padre scosse la testa.
“Ok,
vai a questo cazzo di concerto.”, e si alzò dal divano.
“Ma…
Papà…”
Adrian
riprese il volume che stava studiando con attenzione.
“Hai
ottenuto quello che volevi, adesso fammi lavorare.”
Alicia
lasciò il divano, suo padre e lo studio. Andò verso la sua stanza
con viso basso ed occhi pieni di lacrime. In fondo se l’era
cercata, quella reazione rabbiosa di Adrian era pienamente
giustificata: era la fonte di delusione più grande per suo padre,
era giusto che la trattasse in quel modo.
“Brutta
giornata?”, e una risatina ironica.
Lasciò
perdere Mark, lo Stronzo, e si chiuse in camera. Prese il suo i-pod
ed ascoltò tutte le canzoni che conteneva, almeno finché non si
addormentò
________________________
Eccomi di nuovo qua, con un nuovo capitolo :) Grazie a chi legge e
segue questa storia! Sono graditi commenti, di qualsiasi tipo :P
Ruby
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
CAPITOLO 7
‘Cause the heart never lies
Non c'era bisogno di
possedere il dono fortuito della lettura del pensiero femminile per
capire che Alicia aveva qualcosa che non andava. Ad essere sincero,
Alicia aveva sempre avuto
qualcosa che non andava per il verso giusto. Era venerdì
sera, lei e Danny avevano chiuso i libri e stavano guardando gli ultimi
cinque minuti di una sit-com che piaceva da morire ad entrambi. Quella
volta, però, ad Alicia non era mai sfuggita una risata, tranne
che in qualche sporadica occasione. Danny aveva già chiesto
spiegazionie, ma era venuto fuori il solito ‘non ti preoccupare, sto bene’. Era
dallo scorso fine settimana che gli mentiva spudoratamente, si sentiva
preso in giro ma non era capace di arrabbiarsi con lei. Forse avrebbe
dovuto farlo, almeno per il suo bene, ma piuttosto che litigare con
Alicia avrebbe preferito vivere in quella sorta di limbo per sempre. La
sua mano sostava sulla spalla di lei e andò ad accarezzarle i
capelli. Sperava che quei piccoli gesti la aiutassero ad aprirsi con
lui ma ogni volta sembravano del tutto inutili.
“Pronta per il viaggio?”, le chiese, poi le baciò i capelli scuri.
“Non molto.”, rispose lei.
Danny attese che quel suo piccolo amo raccogliesse anche un’alga, al massimo un vecchio scarpone.
“Sarei dovuta partire oggi.”
Strabuzzò gli occhi.
“Oggi?!?”, le fece.
“Sì, hai capito
perfettamente bene.”, disse Alicia, “Avrei dovuto prendere
il volo alle dieci di questa mattina, ma non sono partita…”
“E… E perché?”, chiese Danny, ancora del tutto scioccato.
“Te l’ho
già detto. Voglio andare al concerto! E anche se so che non lo
farò, potrò almeno avere del tempo tutto per me.”
Non era possibile.
“Ma… Allie, perché hai buttato al vento questa opportunità?”
“Opportunità?”
Il tono risentito fu
accompagnato da un rapido liberarsi dal suo abbraccio: Alicia fu presto
in piedi, già con le mani sulla sua borsa, pronta per andarsene.
“Quel viaggio non era
un’opportunità, era un suicidio.”, disse,
infilandosi frettolosamente il sui giubbotto di pelle.
“Dove vai?”, le chiese Danny, allarmato.
“A casa.”, rispose Alicia, seccamente, “Non sono di buon umore.”
“Calmati, potremmo parlarne.”, cercò di convincerla ma conosceva la sua testardaggine.
“No, non adesso.”, si oppose subito lei, “Non ne ho voglia.”
“Ma Allie… Io volevo solo…”
“E non chiamarmi Allie!”, sbottò lei
Le sue mani guizzarono verso la testa e tapparono le orecchie, per poi
cadere lungo i fianchi con la medesima rapida velocità.
“Non lo sopporto!”
Danny si ritrasse impaurito.
La reazione di Alicia lo stava mettendo letteralmente fuori gioco e non
sapeva come arginare la sua rabbia. Avrebbe voluto fermarla, afferrarla
per le braccia ed imporle di calmarsi, di ragionare, di parlargli. Non
ce la faceva, aveva troppo timore di quello che lei avrebbe potuto
riversargli addosso.
“O-ok… Va bene.”, le disse, annuendo a volto basso.
“Va bene!”, ripeté lei, senza diminuire di un tono la sua voce.
Aveva anche paura di
guardarla, si sentiva pateticamente cretino. Era la sua ragazza, doveva
sapere come farla stare bene, ma invece se ne rimaneva lì, con
le mani in tasca, superfluo come un palo della luce con la lampadina
rotta. Alicia era in piedi, a pochi passi dalla porta, pronta per
andarsene e dimostrargli quanto potesse esserle inutile. In tutta
quella settimana Danny non aveva fatto altro che notare la sua
stranezza, niente di più, non aveva mosso un dito.
Poi Alicia passò una mano tra i capelli e prese un profondo respiro.
“Scusami…”, disse, “Ho solo… Bisogno di dormire…”
“Vuoi che ti accompagni a casa?”, le propose, “Lasci qui l’auto e ritorni a prenderla domani.”
Alicia lo guardò con occhi stanchi.
“Jones, sono venuta in taxi.”, disse lei, “Mio padre ha nascosto le chiavi dell’auto.”
“Ah… Ma se vuoi, io…”
“Non ti preoccupare. Adesso chiamo e mi faccio venire a prendere.”
“Come vuoi.”
Alicia scosse la testa ed incrociò le braccia.
“E’ sempre tutto come voglio io.”, disse poi.
“Che… Che vuoi dire?”
“Non ti opponi mai a quello che voglio, lo fai perché hai paura di me, non è così?”
Danny si sentì pietrificare.
“Ho davvero bisogno di
andarmene e di dormire.”, si riprese subito Alicia,
“Buonanotte Jones e scusa per la brutta serata.”
Aveva già aperto la
porta. Prima che Alicia potesse uscire, la mano di Danny bloccò
il legno e lo costrinse a tornare al suo posto, lineare con la parete.
La serratura si chiuse di nuovo, Alicia non aveva permesso di uscire,
non in quel modo.
“Non voglio farti
dormire da sola.”, le disse con voce sicura e sguardo fermo,
“Per stanotte rimani qua, mi sposto nel salotto.”
Lei scosse subito la testa.
“Non se ne parla.”, disse Alicia.
“No.”
Voleva vederla piegarsi, finora era stato lui a farlo ed Alicia se n’era giust’appunto lamentata.
“Rimani qua.”,
le disse, sempre nel medesimo tono tranquillo, “Non posso stare
tranquillo sapendo che sei completamente sola.”
“Non sarebbe la prima volta.”
“Alicia, resta. Non mi creerai nessun tipo di problema.”
“No.”
Danny strinse gli occhi e si
toccò la radice del naso, stava perdendo la pazienza come
raramente gli era capitato prima e non andava bene. No, non andava
assolutamente bene.
“Perché non mi
lasci andare?”, domandò lei, incrociando le braccia e
assumendo un’espressione irritante e supponente.
C’erano mille milioni
di risposte a quella domanda così stupida ed infantile. Doveva
rimanere perché era inconcepibile che dormisse da sola, senza
nessuno pronto a soccorrerla se avesse avuto bisogno di aiuto. Doveva
farlo perché non era altrettanto comprensibile il motivo per cui
non avesse voluto unirsi alla sua famiglia, preferendo abitare per una
settimana in una casa completamente vuota e spoglia. Lui sarebbe
impazzito.
“Non voglio che ti
accada niente di male.”, le rispose fluidamente, “Qua
dentro sei al sicuro, ci sono io. Sarò solamente al piano di
sotto, se avrai bisogno di me basterà chiamare…”
Vide le sue certezze infrangesi nel suo sguardo.
Kathy rimase piacevolmente
sorpresa nel saperla sua ospite per quella notte, tanto che si
preoccupò subito di darle asciugamani puliti e cambiare le
lenzuola del letto del figlio. Vicky le concesse tranquillamente di
usare il suo bagno: ce n’erano due al piano superiore ed uno di
quelli era totalmente suo, mentre l’altro era condiviso tra sua
madre e suo fratello, che non ne avevano tanto bisogno quanto lei.
Oltretutto le prestò anche un suo pigiama ed un paio di comode
pantofole, mentre Jones si preparò il divano letto in soggiorno.
Tutto quel trambusto per una sola notte da loro, Alicia non avrebbe
accettato di pesare per una sera di più. Jones poteva opporsi
quanto voleva, poteva toccare tutti i suoi punti deboli per
costringerla a rimanere, ma sarebbe stato per una sola notte.
Una sola notte…
Si sentiva stranamente bene
sotto quelle coperte, completamente diverse da quelle a due piazze che
la scaldavano ogni notte. Avrebbe potuto chiudere gli occhi e
ricordarsi i particolari lontani e sfuocati di quando abitava nella
comoda villetta dalla facciata rossa, con un grande giardino sul retro,
pieno della confusione dei suoi giocattoli lasciati in giro, e che
aveva dovuto abbandonare pochi mesi dopo che sua madre l’aveva
lasciata.
Si sentiva così tanto
a casa che le sembrava di aver sempre vissuto lì, e mai da
nessuna altra parte. La sua famiglia erano i Jones e dentro quelle
quattro mura non esistevano secondi matrimoni, fratellastri o padri
ciechi. C’era solo lei, il calore della stanza in cui stava per
addormentarsi e tante persone che le volevano bene, dalla prima
all’ultima, incondizionatamente. Il comodo pigiama che indossava
non era di Vicky, ma suo, glielo aveva regalato mamma Kathy qualche
anno prima. Aveva addirittura litigato con suo fratello, Jones, per
appropriarsi di quel poster alle sue spalle. Era stata a tutti i
concerti del Boss, senza mancarne uno per colpa di stupide vacanze
piene di falsi sorrisi e divertimenti vuoti.
Alicia aprì gli occhi
e tutte quelle bellissime fantasie volarono via. Si distese su un
fianco e osservò la parete bianca davanti a lei, il letto la
costeggiava per tutta la propria lunghezza. Notò dei minuscoli
segni, come se la vernice fosse stata grattata via: d’istinto,
premette l’unghia contro al muro e lasciò una piccola
traccia, piccola piccola, che quasi non si vedeva.
Almeno questa casa si ricorderà di me…
Sarebbe rimasta una sola
notte, ma avrebbe voluto farlo per tutta la vita.
Tre colpi alla porta
la distrassero ed Alicia si pose seduta.
“Posso entrare?”, le domandò Jones.
“Certo.”, rispose lei, che ancora non aveva spento la piccola lampadina sul comodino alla sua destra.
La porta scricchiolò
ed il pigiama a righe di Jones fece ingresso nella stanza. Alicia rise
sotto i baffi, vestito così sembrava suo nonno.
“Non ridere del mio
pigiama.”, la colse Jones in flagrante, che le sorrideva poco
offeso, “E’ comodo.”
“Figurati.”, gli rispose.
Le aveva portato un
bicchiere d’acqua, cosa di cui non aveva bisogno, ma Alicia
apprezzò comunque il pensiero. Erano quei piccoli gesti a fare
una famiglia, si disse, non una grande casa piena di oggetti costosi,
come la sua. Erano il buongiorno alla mattina, la cena consumata
intorno al solito tavolo, i passi sul pavimento, i sorrisi prima di
addormentarsi.
“Ecco a te.”, le disse, appoggiando il bicchiere sul comodino, “Non avrai sete, stanotte.”
“Grazie.”, gli sorrise.
“Per qualsiasi altra
cosa…”, continuò lui, mostrandole il suo cellulare,
“Fammi uno squillo, così non devi alzarti.”
“E così ti
disturberò più di quanto non stia già
facendo.”, lo corresse lei con aria ironica.
Danny si sedette sul bordo del suo letto e la prese per il naso.
“Dillo un’altra volta e lo staccherò.”, la minacciò.
“Prendilo pure.”, rispose Alicia con voce chiusa.
Invece di accontentarla, Danny la liberò e le dette un piccolo bacio a fior di labbra.
“Notte, a domani.”
“A domani…”, gli rispose.
Le sorrise un’ultima
volta e la lasciò sola, chiudendo la porta dietro di sé.
Alicia non tornò sotto le coperte finché non si spense
anche la striscia di luce sotto al legno scricchiolante. Una volta che
quella svanì, premette il pulsante della piccola abat-jour e
aspettò di addormentarsi.
.*.*.*.
Le ci volle molto per
realizzare che quello non era il suo letto e che i colori intorno a lei
non appartenevano alla sua camera. Fu così che Alicia si
ricordò di essersi piegata alle preghiere di Jones.
Non voglio che ti accada
niente di male. Qua dentro sei al sicuro, ci sono io.
Sbadigliò e si
stiracchiò, cavolo se aveva dormito bene. Così bene che
doveva essere mattina inoltrata, a guardare dalla luce potente del sole
che si intrufolava tra le imposte della finestra. Controllò
sullo schermo del telefono, erano più delle dieci. Fece un
piccolo trillo al numero di Jones e, come se fosse stata una
ricchissima signora d’oriente e lui il suo servetto personale, lo
vide apparire sulla soglia della porta in trenta secondi netti.
Si era completamente
cambiato, i vestiti che indossava non erano i soliti della sera
precedente, doveva essersi intrufolato nella stanza mentre lei dormiva,
ma la cosa non la disturbò affatto. Non era casa sua, e poi
Jones non l’aveva nemmeno svegliata, aveva dormito così
pesantemente che non avrebbe sentito nemmeno una fanfara che suonava in
strada.
“Buongiorno.”, la salutò lui, “Ti sei riposata?”
“Certo…”, e sbadigliò ancora.
“Vuoi fare colazione?”
Controllò il suo
stomaco e sentì di non avere nemmeno un briciolo di fame. Di
solito, infatti, la colazione non era un pasto incluso tra i suoi
istituzionali. Alicia scosse la testa.
“Qualcosa dovrai pur mettere nello stomaco.”, disse Jones, aprendo le tendine e la finestra.
“No, non ti preoccupare.”
Scansò le coperte e posò i piedi a terra, inforcando subito le pantofole.
“Cosa vuoi fare oggi?”, le domandò lui, incrociando le braccia.
Il suo corpo doveva ancora carburare ma la mente era stranamente già attiva.
“Non lo so…”, rispose, “Chiedimelo tra cinque minuti…”
Finirono al centro
commerciale, accompagnati da una lunga lista della spesa firmata da
Kathy. Tra un pacco di cornflakes e una flacone di detersivo per i
piatti, il carrello si riempì anche delle loro risate. Era
divertente fare la spesa, Alicia non era abituata a gesti del genere,
c’era sempre stato qualcuno che aveva fatto tutto quello per la
sua famiglia: dalla governante che si occupava della casa alla nonna
May, fino a tutte le altre persone che suo padre aveva assunto con la
speranza che avessero potuto badare sia alla casa che alla figlia
dispettosa e viziata. Poteva sembrare assurdo ma Alicia non aveva mai
dovuto spingere un carrello, né combattere con la scelta tra
qualità e prezzo, ma soprattutto non aveva mai dovuto alzarsi
sulle punte dei piedi per poter raggiungere i prodotti negli scaffali
più alti.
“Non ci credo.”,
le disse infatti Jones, che guidava il carrello, “Fare la spesa
è una cosa normalissima! Tutti vanno nei supermercati a
comprarsi le cose!”
“Beh… Io
no.”, rispose lei, alzando le spalle e nascondendo le mani nella
giacchetta, infreddolite dall’aria gelata del banco dei
surgelati, “C’è sempre stata una persona che lo ha
fatto per noi.”
Jones la guardò con occhi strani, Alicia non poté evitare di sentirsi aliena.
“E’ vero…”, ripeté ancora cercando di essere convincente, ma risultò soltanto patetica.
“Mi sembra inconcepibile.” , disse allora Jones, “Tua madre non…”
Lo osservò mangiarsi le parole e proseguire senza terminare il discorso.
“Mia madre cosa?”, lo esortò a parlare.
“No,
niente…”, si negò lui, poi le mise sotto il naso
una confezione di gelati, “Ti piacciono questi?”
“Sì, mi piacciono.”, rispose falsamente, “Però finisci il discorso.”
Danny sospirò.
“Dicevo… Tua madre… Non lo ha mai fatto?”, disse, “Voglio dire…”
“No,
nemmeno mia madre.”, gli spiegò con tranquillità,
“Né ho mai pulito la mia stanza, il bagno o il
salotto.”
Era definitivo, doveva sembrargli una extraterrestre proveniente dalla galassia più lontana.
“Nonostante tutto, mio
padre si è sempre potuto permettere di farsi pulire casa e
riempire il frigorifero da qualcun’altra che non fosse stata mia
madre o la sua seconda moglie.”
“Beh…
Wow…”, disse lui, strabuzzando gli occhi, “Non sai
quanto possa ritenerti fortunata!”
Alicia aggrottò la fronte.
“Fare la spesa è di una noia assoluta… E odio lavare i piatti!”, esclamò Jones.
La fece ridere. La fece decisamente ridere.
Si concessero uno strappo
alla regola ed andarono al parco durante quel sabato pomeriggio. Non
avevano avuto voglia di studiare, sebbene il lunedì successivo
sarebbero stati entrambi interrogati rispettivamente in letteratura e
chimica. Così, dopo aver riconsegnato la spesa, mangiarono al
fast food dove erano stati altre volte, quello vicino al cinema; poi,
si distesero al parco, in attesa di aver digerito abbastanza per
giocare un po’ a pallone.
Il tepore del sole li
scaldava fin dentro le ossa, riempiendoli di una dolce sensazione di
quasi primavera, cosa piuttosto rara da quelle parti, dove il tempo
regalava spesso nuvole e umidità. La televisione lo diceva
già da un pezzo, quell’anno sarebbe stato più caldo
di tutti gli altri e gli effetti si stavano facendo già sentire.
Era così piacevole starsene distesi in silenzio che per
ciò che Alicia poteva osservare dal movimento lento e regolare
del suo petto, Jones si era sicuramente addormentato accanto a lei. Non
doveva aver riposato a sufficienza su quel divano letto, tutta per
colpa sua, e se ne rammaricò.
Notò gli occhiali
spostarsi di qualche millimetro: Alicia li tolse con cautela, Jones li
aveva appesi tra un asola e un’altra, e provò ad
indossarli. Il suo ragazzo non era una talpa: tutto sommato lei, che
aveva la vista piena, riusciva a vedere piuttosto bene anche con quelle
lenti., che le erano sembrate molto più spesse. Lasciò
gli occhiali in un posto più sicuro e si sistemò vicino a
lui, dove sperò che si sarebbe presto addormentata.
Prima di chiudere gli occhi
si pose in riflessione. Stava insieme a Jones da quasi un mese, Alicia
fece un rapido calcolo dei giorni che ancora mancavano allo scoccare di
quella ricorrenza.
Se non ricordo male…
Contò i giorni sulla
punta delle dita e si rese conto che quello che stava attualmente
vivendo distava esattamente trenta giorni da quello precedente. Nessuno
dei due se n’era ricordato, ma non era poi così
importante… Doveva ammetterlo, un po’ le dispiaceva, ma
cosa poteva farci?
Non se lo è ricordato perché non è Ratleg.
Alicia sbuffò pesantemente.
Ratleg se lo sarebbe ricordato.
Avrebbe potuto rammentarlo personalmente a Jones, non sarebbe cambiato niente.
Ma Ratleg avrebbe preparato qualcosa di speciale.
Allora lo avrebbe fatto lei.
Che cosa aveva Jones che non
andava? Assolutamente niente. La faceva ridere, le stava accanto e la
riempiva di attenzioni, era dolce. L’aveva fatta sentire a casa
sua dentro mura che non le appartenevano, protetta da ogni pericolo.
Perché la sua mente doveva quindi continuare a porle quella
cazzo di domanda?
“Alicia?”, si sentì chiamare.
Voltò il viso verso
Jones, che si era svegliato, e gli dette un piccolo bacio sulle labbra.
Lui sorrise e chiuse di nuovo gli occhi, dopo averle circondato i
fianchi con un braccio. Alicia osservò tutte le lentiggini che
macchiavano la sua pelle e le trovò divertenti, tanto che
passò la punta del proprio dito con delicatezza sul suo braccio.
“Mi fai il solletico…”, le disse Jones, senza tradire il suo stato semi-dormiente.
“Anche qui?”, gli chiese.
Un attimo dopo Jones rideva
sotto il formicolio che le sue dita veloci gli provocavano ovunque.
Sotto le braccia, sul collo, sulla pancia.
“Smettila!”, esclamava lui cercando di allontanarla, ma non faceva altro che farla avvicinare di più.
Le piaceva sentirlo ridere.
E comunque non è Ratleg…
Prima che quel pensiero la tradisse, le sue mani vennero bloccate dalla presa decisa di Jones,
che le unì sopra la sua testa. Respirava con affanno e non aveva
ancora finito di ridere.
“Basta, te l’ho detto!”, le disse, “Non mi piace il solletico!”
Alicia non riuscì a
liberarsi, non aveva forza a sufficienza per sopraffare Jones, tanto
che si arrese. Erano entrambi piuttosto accaldati, il sole ed il
solletico avevano colorato le loro guance di un tono piuttosto intenso.
Alicia non sentiva il peso del corpo di Jones sopra il suo, sebbene
riuscisse a percepirlo pienamente, era come se non la disturbasse
affatto. Le venne di baciarlo, le loro labbra produssero uno schiocco
altisonante. Lui le sorrise, poi le lasciò finalmente le mani:
le dita percorsero il suo mento, si infilarono tra i capelli.
“Oggi è esattamente un mese che stiamo insieme.”, le disse, interrompendosi.
Alicia non trattenne un sorriso.
“Lo so.”
“E martedì ci sarà il concerto.”, continuò Jones.
Quella non era una notizia altrettanto bella.
“So anche questo.”, gli disse, “Mi racconterai com’è stato…”
“Ti voglio con me.”
Non nascose a se stessa che
quella frase l’aveva fatta più felice di qualsiasi altra
notizia, ma non poteva accettare.
“No, quei biglietti sono per te e Vicky.”
“Si accontenterà di rimanere a casa.”, disse Jones, “E non farà molte storie.”
Non ce la faceva a
trattenersi, Alicia lo abbracciò più forte che
poté. La sua resistenza era stata piuttosto effimera.
“Era il minimo che potessi fare.”, continuò Danny, stretto nella sua morsa.
Anche le parole che gli disse furono difficili da tacere.
“Ti voglio bene.”
Le guance di Jones
diventarono di quel particolare viola che era tipico di lui. Il
contrasto che si creava con i suoi occhi profondamente blu era sempre
piacevolmente buffo e carino.
“T-ti voglio bene anch’io.”, le rispose.
Non è Ratleg.
Infatti, fino a prova
contraria Daniel Jones e Daniel Ratleg non erano la stessa persona,
sebbene avessero avuto lo stesso nome.
Quindi vaffaculo.
“Inoltre, vorrei che
rimanessi da me finché i tuoi non tornano.”, aggiunse
Jones, “ Puoi restare quanto vuoi, mia mamma non ha niente in
contrario. Anzi, dice di essere meno in pensiero sapendoti a casa
nostra, e non da sola. Sempre che a tuo padre vada bene, ma soprattutto
che tu sia d’accordo…”
Non era il caso di
approfittarsi di tutte le sue attenzioni, ma Alicia voleva vivere quel
momento, quelle sensazioni di famiglia e di affetto che le mancavano da
anni, ormai.
“Certo, siamo entrambi favorevoli.”
Che bugia grande e grossa,
si disse Alicia, che non sentiva suo padre dal giorno precedente,
quando era partito accompagnato dalla bella moglie e dal figliastro,
del quale erano tanto orgogliosi. Jones non riconobbe il falso e le
sorrise contento.
“Quando decidiamo di
andarcene da qui, ti accompagno a prendere le tue cose.”, le
disse ancora, prima di darle un bacio, seguito da molti altri.
Jones aveva un modo tutto
suo di baciarla. Non riusciva a farlo senza toccarle il viso, scorrere
le dita sulle guance fino al collo e poi nei capelli, come se tenendole
il volto tra le mani avesse potuto assicurarsi che non gli fuggisse da
sotto il suo naso. Tra le sue belle mani. Erano grandi e forti,
eppure sembravano innocenti ed innocue. Jones le usava per gesticolare
mentre parlava, per indicarle le formule quando le spiegava la
matematica, per tenere con fermezza la penna tra le dita mancine, per
coprirsi la bocca quando rideva sguaiatamente, o quando sbadigliava.
Per accarezzarla, per sottolineare i suoi baci.
Quella volta però,
c’era qualcosa di diverso. Alicia lo sentiva, c’era
qualcosa di più… C’erano il fare a meno di
respirare, il corpo di Jones sopra il suo, il calore che nasceva dentro
di lei. C’erano le mani di lui che erano andate oltre il suo viso
ed erano scese fino ai suoi fianchi, sostando sui pochi centimetri di
pelle libera dalla maglietta che indossava. C’era che baci del
genere non erano facili da gestire.
In quei baci c’era tutto, c’era anche… Quello.
Alicia non pensava, non ci
riusciva, sentiva un solo istinto dentro di lei che non aveva mai
provato prima e che non conosceva. La spaventava, ma non era in grado
di fermarsi. Era come giocare con il fuoco ben sapendo che si sarebbe
scottata, e voleva scottarsi. Una musica lontana suonò nelle sue
orecchie e non le dette ascolto. L’unica cosa che sentiva era il
caldo delle dita di Jones, il freddo che lasciavano sulla poca pelle
nuda quando si spostavano altrove sul suo addome, anche se per soli
pochi millimetri. Poteva percepire anche tantissimi altri tipi di
calore, provenienti dai loro corpi.
La musica si fece sempre
più vicina, così tanto che entrambi furono costretti a
fermarsi. Si guardarono negli occhi, i loro volti dimostravano tutti i
segni dello stupore di chi si svegliava da una specie di vita
telecomandata dall’alto.
“Ehm… Il mio… Telefono.”, balbettò Jones.
Rapidamente la liberò dal suo peso e si mise seduto.
“Pronto?”, disse al suo interlucotore, “Ah… Dougie… No, nessun disturbo.”
“Cosa stai facendo?”, gli domandò Poynter con voce squillante.
Cosa stava facendo? Bella
domanda. Stava cercando di farsi passare una sbandata pazzesca, le
peggiore che aveva mai avuto da una vita a quella parte. Cercò
la concentrazione che non era capace di trovare in nessun luogo di se
stesso e prese il tempo per rispondergli.
“Beh… Sono con Alicia.”, gli disse.
“Oh… Cazzo, allora vi ho disturbato davvero...”
“Ma no, andiamo!”, volle tranquillizzarlo, “Cosa vuoi da me?”
“Solita ora, solito posto?”, propose Dougie, intendendo il biliardo al pub di sua madre.
“Volentieri.”, gli rispose, “Si aggiungerà anche Alicia, non è un problema, vero?”
Supponeva di aver posto una domanda retorica, ma si sbagliava.
“Sì che lo è!”, esclamò Dougie, “E’ la serata del trio!”
Danny roteò gli occhi e cercò di mascherare la rispostaccia ricevuta.
“In questi giorni Alicia sta da me, i suoi non ci sono.”, gli spiegò.
“Chi se ne frega! Lei sta fuori!”
Non seppe come reagire e se ne stette in silenzio, troppo amareggiato dalle parole di Dougie.
“Ci troviamo al solito posto alla solita ora.”, disse poi, interrompendo il silenzio di entrambi.
“Non ci saremo. Ciao.”
Allontanò il telefono senza distogliere gli occhi dal vuoto in cui li aveva puntati.
“Biliardo stasera?”, disse Alicia, sbucando sulla sua spalla.
Gli fece quasi paura.
“Sì, con Tom e Dougie.”, le rispose, celando tutto.
“Bene!”, esclamò lei, sembrava contenta e il suo sorriso lo rilassò.
Se Dougie non avesse
disturbato, forse Danny avrebbe perso la testa. Si corresse,
l’aveva già persa. Per lei. Non sapeva quale specie di
entità si fosse impossessata di lui, ma gli effetti erano ancora
piuttosto visibili. La spina di collegamento tra cervello e corpo era
stata completamente disconnessa, ogni parte di lui aveva acquisito
autonomia ed indipendenza, tanto che tuttora faceva fatica a
coordinarsi.
Forse era accaduto per la
prolungata esposizione alla vista di Alicia, forse per il calore di
quella giornata quasi primaverile… Non lo sapeva, ma le conseguenze stavano lentamente allentando la pressione del
sangue nelle sue vene. Presto avrebbe riacquistato ogni sua
capacità intellettiva e corporea, ma per il momento si trovava
ancora in un purgatorio dove i diavoli continuavano a spingerlo verso
l’inferno. Un posto estremamente profondo dove non esisteva
niente, tranne sensazioni intime e a lui sconosciute, che lo avevano
guidato in ogni mossa ed in ogni bacio. In quell’inferno era
diventato cieco, aveva dovuto imparare ad ascoltare se stesso per
sapere dove andare, e come arrivarci.
“Giochiamo un po’?”, gli chiese Alicia.
Rispose subito di sì, doveva scrollarsi di dosso quei pensieri.
Non si sentiva contento di
quello che le stava proponendo per il loro primo mese insieme, ma
c’erano stati troppi cambiamenti di programma. Aveva supposto di
trovarle qualcosa di carino da regalarle mentre lei era via in vacanza,
ma tutto era saltato. Era addirittura caduto dalle nuvole quando Alicia
gli aveva rivelato di non essere partita con i suoi: non era mai stata
chiara sul giorno esatto in cui avrebbe preso il volo per Stoccolma e
Danny aveva ritenuto opportuno attendere maggiori e spontanee
informazioni da parte sua, piuttosto che domandargliele di persona,
come ogni essere umano dotato di un quoziente intellettivo nella norma
avrebbe fatto.
Avrebbe potuto portarla a
cena fuori, ma non ci aveva pensato. Avrebbe potuto accompagnarla in un
negozio e farle scegliere ciò che voleva, ma era un pensiero
troppo astratto. Insomma, si sentiva un perfetto idiota: le aveva regalato solo una cena con la sua famiglia, un tetto
sotto il quale passare delle notti al sicuro e una partita di biliardo.
Che bel programma del cazzo.
Le aprì la porta del
pub e le cedette il passo. Il calore umano che riempiva il locale gli
entrò subito nelle ossa: era cresciuto lì dentro, vi
aveva passato alcuni splendidi e divertenti momenti all’insegna
del trio e non esisteva altro locale a Watford dove preferiva passare
il suo tempo libero.
“Vieni, ti presento la mamma di Poynter.”, disse ad Alicia, che si guardava intorno.
La accompagnò fino al bancone, passando tra i tavoli di legno e la gente seduta con le loro birre.
“Non ci posso
credere!”, esclamò Sam, la mamma di Dougie, vedendolo in
compagnia di Alicia, che si teneva stretta alla sua mano.
Sembrava intimorita, timida, stava ad un passo dietro ai suoi.
“Il piccolo Daniel Jones… E la sua ragazza!”
La donna si portò le
mani alla bocca per lo stupore, Danny non nascondeva un sorriso ampio e
luminoso. Sam lasciò il bancone al suo barista e andò da
loro.
“Sono Sam.”, si presentò subito ad Alicia, “E tu chi sei?”
“Mi chiamo Alicia.”, rispose lei, facendosi piccola e avvicinandosi a lui più che aveva potuto.
Si strinsero la mano.
“Sicuramente conosci
mio figlio, si chiama Douglas, è un amico d’infanzia di
Daniel.”, continuò Sam.
“Sì, frequentiamo la stessa classe di matematica.”, disse Alicia.
“Insieme a Tom ed a me.”, si intromise lui, “Come stai, Sam?”
“Molto bene.”,
rispose la donna, sempre solare e giovanile nell’aspetto,
“Siete venuti per giocare con Douglas?”
“Sì.”, le
disse, anche se sapeva già che non lo avrebbero visto per tutta
la sera, né lui né Tom.
“Mi dispiace, Daniel,
ma Douglas mi ha detto che non sarebbe venuto. Ho supposto che lo
avessi saputo…”, lo informò la donna.
“Sì, mi aveva
detto che non era certo di venire, ma fa’ lo stesso.”, e
nascose la delusione che riaffiorava, “C’è un tavolo
libero per noi?”
“Il sette.”, disse la donna, “Andate pure, vi faccio portare le stecche.”
Sam si allontanò
velocemente e rimasero in compagnia di tutti gli altri clienti intorno
a loro. Volle fare buon viso a cattivo gioco, Alicia non doveva
assolutamente venire a conoscenza del pessimo comportamento di Dougie,
era inconcepibile che lo avesse trattato in quel modo al telefono.
“Vieni.”, le disse, “Da questa parte.”
Alicia non sapeva giocare a
biliardo, si poteva vedere da come teneva la stecca, ma non c’era
nessun problema, le avrebbe insegnato lui. Non era poi così
difficile. Ci voleva un cervello matematico, che fosse in grado di fare
calcoli rapidi, ma non era strettamente indispensabile essere capaci di
frazionare i numeri per trovare la giusta direzione e spedire le palle
in buca. Per il momento era sufficiente che Alicia imparasse a
colpirle, un gesto che tutti potevano afferrare senza troppi sforzi
intellettuali.
Danny sistemò il
triangolo colmo di palle colorate sul verde vellutato del tavolo,
illuminato da una luce forte, ma comunque bassa e per niente
fastidiosa.
Si posizionò lungo
la sponda più corta del tavolo, da dove avrebbe letteralmente spaccato le palle, come si diceva in gergo.
“Ti spiego alcune
regole fondamentali.”, le disse, “Vedi come
sono colorate le bilie?”
Ferma lungo il lato
più lungo, Alicia non poteva dare la risposta sbagliata, lei che
era così brava con i colori. Danny appoggiò la stecca a
terra, ferma dalle dita della sua mano sinistra, mentre le altre
sostavano sul suo fianco.
“In mezzo alle altre c’è la numero otto, quella nera.”, disse Alicia, partendo dall’evidenza.
“E poi?”
“Poi… Alcune hanno le righe bianche, alcune no.”
“Bravissima!”, le applaudì e la fece sorridere compiaciuta, “Adesso scegli uno dei due tipi.”
“Voglio quelle senza le righe.”
“Perfetto, saranno
quelle che dovrai imbucare durante tutta la partita.”, le disse,
“Le altre sono mie, e se le imbucherai mi darai un punto ed il
diritto di fare un tiro in più.”
“Capito.”, disse lei, con un secco gesto di consenso.
“La otto non deve mai
andare in buca.”, le spiegò, “Altrimenti la partita
è persa. Quella bianca ti serve per colpire le bilie ed il tuo
turno dura finché non sbagli ad imbucare…”
“Ok!”
“Altre domande?”, le chiese.
“E se rompo il rivestimento del tavolo?”
Danny rise.
“Cercheremo di evitarlo.”, la rassicurò, “Iniziamo?”
“A lei il primo tiro.”, disse Alicia con un inchino reverenziale.
Danny sistemò la
palla bianca perpendicolare alla punta del triangolo, che dopo qualche
attimo venne scomposto con uno schiocco secco e forte. Una volta che il
caos delle bilie trovò la sua pace, il gioco
poté iniziare.
“Ora sta a te.”, le disse, indicandole il tavolo.
Alicia si mosse con imbarazzo.
“Non so nemmeno da dove iniziare…”, disse, mentre cercava di dare un senso al come impugnare la stecca.
“Allora ti mostro.”, le fece.
Prese la sua mano destra e
la posizionò sul manico della stecca. La sinistra, invece, la
fermò sul verde: il pollice disteso, le altre dita leggermente
inarcate. L’incavo avrebbe fornito l’appoggio alla stecca,
il dorso dell’indice invece la direzione.
“Ecco, prova a colpire
la palla due.”, le consigliò, “E’ piuttosto
vicina alla buca. Ci puoi riuscire.”
“Ok…”, disse lei titubante.
Era piuttosto goffa e
divertente da vedere: Danny le lasciò lo spazio che le serviva e
la osservò provare il suo primissimo tiro, che mancò di
netto la palla bianca.
“Cazzo!”, esclamò Alicia, “Pensavo fosse più facile!”
Non trattenne una risata.
“Con un po’ di pratica lo diventerà.”, le fece.
Fu spontaneo avvicinarsi a
lei e mostrarle come fare. Il proprio corpo aderì al suo nel
tentativo di mostrarle la posizione corretta che avrebbe dovuto
assumere nel tiro. Strinse la mano intorno a quella di Alicia, che
già impugnava il fondo della stecca, e mentre l’altra
finì sul tavolo, sopra la sinistra di lei.
Frequentando la sala
biliardo con continuità da molti anni a quella parte, Danny
aveva colto tantissime persone in quegli atteggiamenti: spesso erano occasioni manifeste per provarci con la bella ragazza di turno, altre
volte il gesto conteneva poca malizia, e dopo il primo imbarazzo Danny
non vi aveva fatto più caso, era diventata la normalità. Per lui, però, quello
non era affatto un evento normale: fino ad un mese prima, Daniel Alan
David Jones non avrebbe mai potuto farlo senza tremare al solo
pensiero. Non sentiva di essere più lo stesso diciottenne di
appena trenta giorni fa, qualcosa in lui doveva essere cambiato.
Sebbene il cuore battesse forte in lui, vicinissimo ad Alicia,
così tanto da tornare con la mente agli attimi nel parco e
doversi sforzare nel mantenere la calma, le mani di Danny erano ferme e
stabili.
“Ora punta la bilia.”, le disse, le labbra vicine al suo orecchio.
Sistemò la stecca tra le dita di Alicia.
“E colpisci.”
Il gesto fu rapido, la punta
gessata colpì la palla bianca. Questa sfiorò la numero
due che, con una lentezza esorbitante, cadde in buca. La osservarono
finché non scomparve, ma Danny non era concentrato sulla sorte
della palla bluastra. Una briciola del vecchio Jones fece capolino e si
ritrasse velocemente dalla posizione, diventata troppo scomoda.
“Vi-visto?”, le disse balbettando, “Ce l’hai f-fatta!”
Per il resto della serata
evitarono di avvicinarsi troppo e nessuno dei due parve dispiacersene
molto. Ci furono momenti in cui si trovavano a guardarsi, come se
l’altro non avesse potuto accorgersi degli occhi puntati nella
propria direzione: finivano per arrossire ed abbassare lo sguardo
sorridendo.
Danny si sentiva felicemente stupido.
Il viaggio di ritorno fu
molto silenzioso. Alicia sbadigliava con una notevole frequenza ed
anche lui si sentiva piuttosto stanco. Il divano letto non era il
massimo della comodità ma si sarebbe abituato molto presto: la
sua non era generale difficoltà nell'addormentarsi, era che quel
coso scricchiolava ad ogni suo minimo movimento e lo distraeva dal
sonno incombente. Inoltre, la stanza si trovava direttamente sotto a
quella di Vicky, l’insonne della famiglia, che rimaneva in piedi
fino a tardi e lo disturbava con le sue passeggiatine rumorose.
Rientrarono che la casa era
completamente vuota. Sua sorella era al lavoro, sua madre doveva essere
dalla vicina, oppure ad una delle tante riunioni delle volontarie, non
si ricordava con precisione.
“Mi catapulto sul letto.”, disse Alicia, “Sto morendo di sonno.”
“Anch’io.”, non le mentì.
Salirono al piano di sopra e
trovarono la propria privacy nei due bagni. Uscirono che erano
già in pigiama, pronti per darsi la buonanotte. Danny
notò ancora l’espressione ironica malcelata di Alicia, che
doveva avercela con i suoi abiti da notte, così come Vicky, ed
anche sua madre… Forse era davvero arrivato il momento di
gettare via quei vecchi pigiama. In una maglietta larga e pantaloncini,
Alicia aveva tutto il diritto di ridere di lui e delle sue righe da
carcerato.
“Buonanotte?”, le domandò, davanti alla porta della camera.
“Buonanotte.”, rispose lei, “E grazie della bella serata.”
“Avrei potuto fare di meglio.”, le fece, alzando le spalle.
“E’ stata perfetta.”
Alicia si alzò sulle
punte dei piedi, nascosti da un paio di calzini di spugna, e gli dette
un piccolo bacio sulla guancia.
“Ci vediamo domattina.”, gli disse.
La salutò portando una mano sulla fronte.
“A presto. E ricordati che per qualsiasi cosa devi farmi uno squillo.”
“Certo.”
Gli sorrise e lo lasciò solo.
C’era tanto, troppo
profumo nelle sue narici. Le faceva venire a mente il dopobarba di suo
padre, ma non era la stessa esatta fragranza, qualche elemento di
sottofondo era diverso. Doveva esserci anche della musica
nell’aria, ma non riusciva a distinguere le note: sentiva solo il
pizzicare confuso di una chitarra e le note stridule di
un’armonica, niente di più.
Si voltò, aveva sentito una presenza alle sue spalle.
Vi trovò Jones.
“Ratleg!”, lo chiamò, poi nascose la bocca tra le mani per cancellare quella gaffe mostruosa.
Jones si portò l’indice sulle labbra, come per dirle di stare in silenzio. Poi le sussurrò qualcosa.
“Non gridare troppo… Ti troverà.”
Alicia non lo capì.
“Puoi alzare il volume della voce?”, gli chiese, “Non ti sento!”
“Fai silenzio…”
“Non riesco a capirti!”
“Ti troverà. Prima o poi ti troverà.”
L’immagine di
Jones/Ratleg si dissolse, cancellata da un rumore strano. Alicia fece
fatica a mettersi in contatto con la realtà, il cellulare stava
vibrando sul comodino con una certa insistenza e l’aveva
disturbata nel bel mezzo di una fase rem piuttosto pesante. Aveva gli
occhi così impastati che non controllò il mittente di
quella chiamata, poteva essere solo suo padre a cercarla nel bel mezzo
della notte, non avendola trovata disponibile a casa. Sperò che
si stesse divertendo tanto in Svezia…
“Pronto?”, disse, con voce piccola e roca.
“Dove sei di bello, sorellina?"
La voce di Mark la prese per i capelli e la sbatté al muro.
“Non sei a casa mia, vero?”
Alicia non ebbe la forza di rispondere, ma ebbe un solo pensiero.
Ti troverà. Prima o poi ti troverà.
“Peccato che tu non
sia venuta con noi, sorellina.”, continuò Mark,
“Ci sono dei posti magnifici qua.”
Alicia non parlava, ma era
certa che non gliene sarebbe fregato nulla. Anzi, molto probabilmente
il suo respiro impaurito lo faceva stare addirittura meglio.
“Mi dispiace davvero tanto, sorellina. Ti sei persa tantissime belle cose.”
Doveva trovare la
volontà di chiudere quella chiamata, ma non ci riusciva.
Controllò l’ora nella sveglia sul comodino: erano le due
passate da ben venticinque minuti.
“Sai che avremmo
diviso la stessa camera? Io e te, insieme… Ci saremmo potuti
divertire tantissimo, sorellina.”
“Smettila…”, lo implorò sussurrando.
Come per incanto, Mark si zittì.
“Prima o poi
riuscirò a cancellare quel tuo sorriso del cazzo, e stai sicura
che lo farò, in un modo o nell’altro. Un’idea ce
l’ho già, anche tu sai quale sia. Sarebbe un immenso
piacere per me fott…”
Trovò la
concentrazione giusta per terminare la telefonata e gettare il
cellulare sul letto. Si nascose sotto le coperte ed attese che il
tremito finisse di scuoterla.
Scattò
sull’attenti non appena il cellulare emise un piccolo suono. Non
stava dormendo, sua sorella l’aveva svegliato rientrando una
mezzora prima, doveva ancora ritrovare il sonno. Controllò, la
sua immaginazione poteva avergli giocato un tiro mancino, ma non si era
sbagliato. In punta di piedi andò al piano superiore, camminando
vicino alle pareti per non fare troppo rumore, ed entrò nella
camera. Alicia era seduta sul letto, teneva le gambe al petto e la
schiena era appoggiata al muro, la illuminava la piccola luce
dell’abat-jour.
“E’ tutto ok?”, le chiese a bassa voce, vedendola estraniata.
“Oh sì, certo.”, rispose lei sussurrando e con un piccolo sorriso.
Si sedette accanto ad Alicia ed assunse la sua medesima posizione.
“Scusami se ti ho disturbato.”, disse ancora Alicia, senza alzare di un tono la sua voce.
“Non stavo effettivamente dormendo.”, disse Danny, “Ho sentito Vicky rincasare.”
“Ah… Io no!”, e ridacchiò.
Doveva avere un sonno bello
e pesante: Vicky aveva svegliato pure sua madre, che l’aveva poi
sgridata ricordandole della presenza di Alicia.
“Beh… In cosa posso esserti utile?”, le domandò.
Alicia non rispose, bensì abbracciò le gambe e appoggiò il mento sulle ginocchia.
“Uhm?”, le fece Danny, perplesso, “C’è qualcosa che non va?”
Scosse la testa con un gesto secco e veloce.
“E allora perché mi hai chiamato?”
Non c’era posto in cui
voleva stare tranne lì con lei, ma doveva esserci pure un motivo
per cui Alicia aveva fatto suonare il suo telefono ed evidentemente non
riusciva a parlarne. Le passò un braccio intorno alle sue spalle
e l’abbracciò, dandole il solito piccolo bacio sulla testa.
“Vuoi che rimanga un po’ qui con te?”, le propose.
Alicia si mosse, dicendogli di sì con un cenno.
“Ok.”, acconsentì senza alcun ripensamento, “Vuoi che ti racconti il sogno strano che ho fatto?”
“Sì…”, giunse come un suono piccolo e lontano.
“Ero con Tom e
Dougie.”, le spiegò, inventando tutto di sana pianta,
“Eravamo al cinema e la sala era stracolma di gente, così
piena non l’avevo mai vista… Poi le pareti iniziavano a
restringersi ed era tutto un fuggi fuggi generale…”
Le sue fantasie facevano proprio schifo.
“Allora gli altri due
ed io siamo entrati nello schermo e ci siamo ritrovati dentro al
film… Poi… Poi c’era una signora… Tutta
vestita di giallo…”, Danny stesso alzò un
sopracciglio nel sentirsi descrivere quel particolare, “Una
signora in giallo.”
Non sapeva cos’altro aggiungere, non era mai stato bravo nell’invenzione delle storie.
“E quella signora… La signora era…”
Non si zittì di sua
spontanea volontà, fu lei ad ammutolirlo: voltò
velocemente il viso verso il suo e lo baciò. In quel breve lasso
di tempo Alicia strinse il suo viso tra le mani, come lui era solito
fare. Danny venne colto di sorpresa, tanto che non riuscì a
dischiudere le labbra. Ebbe bisogno di qualche attimo per realizzare
tutto quello, poi non esitò a fare altrettanto.
Come era accaduto al parco,
Danny lasciò che le sensazioni scatenatesi dentro di lui lo
guidassero in ogni mossa. Lo prendevano dall’interno, lo
agitavano come un burattino, il suo corpo era legato a fili invisibili
che sapevano come dirigerlo. Non c’era spazio per
nient’altro, tranne per quello che l’istinto comandava loro
di fare.
Forse fu per volontà
di Alicia, forse fu la sua: si sedette su di lui, che la teneva per i
fianchi morbidi. I baci furono anche più intesi, più
profondi, più vivi. Poi, all’improvviso,
s’interruppero. Danny provò ad avvicinarsi di nuovo alle
labbra di Alicia, ma queste si allontanarono. Si rese conto che le
proprie mani erano finite sotto la maglietta del suo pigiama, toccavano
la sua schiena liscia e sentivano i muscoli tesi sotto la pelle. Non
provò imbarazzo, nemmeno per una sola briciola.
I piccoli bottoni del
pigiama di Alicia si allontanarono dalle loro asole. Lentamente, la
pelle sotto di essi si stava scoprendo. Ebbe paura e chiuse gli occhi,
Danny non seppe spiegarsene il motivo. Passò qualche attimo di
vuoto totale, di silenzio assoluto, e dentro di esso trovò il
coraggio per alzare le palpebre. La pelle chiara del suo seno era
riscaldata dalla luce flebile dell’abat-jour, la maglietta che la
contornava di lì a poco cadde inerte e si fermò
all’altezza dei suoi gomiti.
Danny si sentì
incatenato. Quasi si ritrasse quando si accorse che Alicia stava
sollevando la sua mano con l’intenzione di posarla sul proprio
corpo. La toccò, nella testa di Danny accadde come
un’esplosione. Il brivido fu così intenso che
spezzò in due la spina dorsale, e sopportarlo fu doloroso.
Caldo.
Anche i suoi bottoni presero
a sganciarsi sotto la pressione delle dita di Alicia. Uno dopo
l’altro, il sopra del suo pigiama si aprì e due dita
timide accarezzarono il suo petto, fermandosi poco sopra
l’ombelico. Le labbra di Alicia si posarono sul suo collo, sul
profilo delle spalle, e il tocco di Danny su di lei divenne più
forte, come la sensazione che lo comandava.
Appoggiò la testa al
muro, non era più in grado di sostenerne il peso. Il respiro di
Alicia era forte, udibile e caldo, si condensava sulla pelle e ghiacciava.
Continuava a toccarla, entrambe le mani erano bloccate su di lei, come
se fosse stata un magnete vivente -lo era sempre stato- e ad
ogni passaggio delle sue dita un piccolo gemito soffocato sparava un
proiettile nell’aria. Non avrebbe mai immaginato che
l’unione combinata di tutti i suoi sensi avesse potuto essere
così intensa
Danny aprì gli occhi
ancora chiusi, lei era sempre lì, su di lui. Non lo stava
baciando, lo stava solo guardando. Si chiese quanto potesse sembrarle
ridicolo: era sudato, respirava faticosamente e non sapeva più
cosa fare.
Lo sai.
Ebbe ancora paura, molta paura. Soprattutto perché anche Alicia sembrava sapere cosa fare.
Le piccole dita
oltrepassarono lentamente l’elastico dei pantaloni. Poi quello
dei boxer. Danny trattenne il respiro, lo rilasciò e le sorrise,
aspettandosi un’espressione simile in ricambio, ma quella non
arrivò. Alicia si morse le labbra e quel gesto ebbe
l’effetto di una spugna sulla lavagna, di un panno sul vetro
bagnato, di una gomma sull’errore di calcolo.
Danny si prese quel momento per porre il piede sul freno e riflettere.
Cosa stiamo facendo?
In un forte ed improvviso
senso di razionalità, la guardò realmente negli
occhi. Poteva essere completamente deviato dalle mani sul suo seno,
dal tocco di Alicia, ma c’era qualcosa che non andava. Dovette
sbattere più volte le palpebre per realizzare di non essersi
equivocato, che non era la luce bassa a tradire l’espressione di
Alicia.
C’è qualcosa che non va, Daddy Jones.
Ma cosa?
“Alicia…”, le disse.
Fu come aver schioccato le
dita ed aver acceso magicamente la luce più luminosa del mondo.
Tutto si gelò, si fermò, come se qualcuno dall’alto
avesse premuto un tasto chiamato reset. Prese i due lembi della sua
maglietta e li unì, coprendola. Tutte le mani si ritrassero,
tutta la pelle tornò a nascondersi e rimasero solo loro due,
imbarazzati e tristi.
“Non adesso.”
Alicia annuì con un
breve cenno del viso, poi tornò seduta nella posizione in cui
Danny l’aveva trovata quando era entrato. In quel momento avrebbe
voluto chiederle il perché di tutto quello. Perché si
erano spinti fino a quel quasi traguardo, quando era chiaro che nessuno
dei due non voleva ancora attraversarlo? Perché Alicia aveva
voluto spingerlo?
“Mi dispiace…”, le disse Danny.
Voleva farlo, lo voleva con tutto il cuore, ma non pensava di essere pronto. In
quella giornata passata con lei aveva provato emozioni e sensazioni che
lo avevano privato di tutto, per poi ridarglielo indietro e
toglierglielo ancora. Era stato su una montagna russa, su e giù,
e sarebbe stato pronto a salirci in ogni momento, ma non poteva giocare
adesso. Si alzò, non riusciva a sopportare di rimanere lì
dentro, e non era solo questione di imbarazzo.
Era colpa della rabbia, della frustrazione di avere l’ennesima prova di quello che immaginava da qualche tempo.
Alicia non era sincera con lui.
Rimase sola. Dentro di
sé ringraziò Jones, lo ringraziò di cuore.
Aveva solo voluto provarci, quella era l’unico merito per lei.
L’aveva guidata un unico pensiero, la voglia di liberarsi di Mark
e della sua ossessione. Si era detta che se si fosse tolta di dosso
quello che lui voleva, allora sarebbe tutto finito. Se fosse tornato
dalla Svezia e gli avesse detto di non possedere più quel
particolare ‘regalo’ da dargli, Mark l’avrebbe
lasciata in pace per sempre.
Per sempre.
Ci aveva pensato tante di
quelle volte, ma non aveva mai trovato la forza di impegnarsi fino in
fondo come quella sera. Era stata colpa di ciò che era accaduto
nel pomeriggio tra lei e Jones, non solo della telefonata in piena
notte, ne era certa. Se non fossero stati quasi sul punto di
oltrepassare la linea, se al pub Jones non si fosse avvicinato
così tanto, Alicia non avrebbe mai inoltrato la chiamata per
farlo salire da lei.
Non voleva ancora farlo sul
serio. Non si sentiva ancora abbastanza… Innamorata di
Jones. Forse non lo era affatto, si era solo affezionata a lui. Non lo
sapeva, era così confusa. Aveva bisogno di parlarne con
qualcuno, ma non trovava nessuno nelle sue vicinanze. Nemmeno Ratleg
avrebbe potuto esserle d’aiuto, non più ormai. Non aveva
amiche, non aveva sorelle. Non aveva una madre.
Era colpa sua.
Si sentiva così patetica.
______________________________
Ed eccomi qua :) Beh, non ho molto da dire, tranne che ringrazio tutti quelli che si soffermano a leggere questa storia :)
E grazie anche a Fra, che l'ha commentata!
Ruby
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
CAPITOLO
8
Some
people fight and some people fall
Non
appena terminò la colazione, Alicia chiese subito di essere
riportata a casa. Disse di voler studiare, di aver paura di prendere
una sonora insufficienza all’interrogazione del giorno dopo e
di
aver bisogno di casa sua, delle quattro mura della sua stanza. Danny
non poteva contraddirla: non riusciva a guardarla, a parlarle senza
balbettare, a combinare danni in sua presenza.
Il
giorno precedente si era sentito un’altra persona,
completamente
diverso dal suo vecchio modo di essere, ma adesso era tornato
indietro di anni, a quando ne aveva avuti undici, con alla paura di
mettere il naso fuori di casa, dove il mondo era un grande mostro
pronto a divorarlo in un sol boccone.
“Ti
accompagno io!”, esclamò subito Vicky,
“Così ti scollo mio
fratello di dosso, ci stai?”
La
proposta di sua sorella fu una doccia fredda accompagnata da un
grande assegno da un milione di sterline. Era stato il regalo
più
brutto e più bello che Vicky poteva fargli. Alicia
cercò una
risposta guardando nella sua direzione, Danny non fece altro che
rispedire la richiesta al mittente.
“Ok…”,
disse, “Vado a prendere le mie cose.”
Alicia
uscì dalla cucina e salì le scale, Danny si
occupò di sgomberare
il tavolo dalle loro tazze vuote e sporche. Mentre le posava nel
lavello, Vicky gli si avvicinò.
“Cosa
è successo?”, gli domandò a bassa voce.
“Niente.
Fatti i fatti tuoi.”, la zittì subito.
“Danny,
puoi parlarmene.”, insistette sua sorella, “Si vede
lontano un
miglio che avete litigato.”
“Non
abbiamo litigato.”, disse Danny, sottolineando con uno
sguardo
deciso e fermo ogni sua parola.
“Va
bene, ma qualcosa è successo ed entrambi ne
soffrite.”
Era
chiaro che non voleva parlarne, mA Vicky vedeva solo ciò che
le
piaceva di più. Comunque, Danny la conosceva abbastanza bene
da
doversi rassegnare ed accontentarla, era un cane che non mollava mai
il suo osso.
“So
cosa c’è che non va nel mio caso.”, le
disse, “Ma non so cosa
c’è che non vada per lei.”
“Ho
capito.”, disse Vicky, “Per caso uno dei due ha
detto di no
all’altro?”
Danny
sospirò. Era proprio così evidente? Altrimenti,
avrebbe fatto
meglio a trovarsi una maschera per nasconderlo. Le rispose annuendo.
“Ok…”,
fece lei, grattandosi la testa, “Ed è per questo
che vi tenete il
muso?”
“Non
è proprio… Per quello.”, le rispose,
“Ma lascia stare, non
puoi capire.”
“Credimi.”,
Vicky passò un braccio intorno alle sue spalle,
“Posso capire più
di quanto pensi.”
“Solo
perché la mamma ha fatto la spia e ti ha detto tutto quello
che le
ho confessato qualche giorno fa.”
“Solo
perché sono tua sorella e ti voglio bene.”, disse
Vicky, “E non
voglio vederti soffrire.”
“Non
è colpa di Alicia.”, si preparò a
difenderla, ma non seppe come
farlo, “Deve esserci… Qualcosa che non
va.”
“Vedrò
cosa posso scoprire mentre la accompagno.”
Sua
sorella gli dette un bacio sulla guancia.
“Ho
scelto farmacia perché non mi posso permettere di diventare
dottore.”, disse Vicky, alla guida dell’auto, il
cui modo di
parlare e gesticolare era così uguale a quello di Jones che
Alicia
ne fu impressionata, “Tu hai qualche progetto per il tuo
futuro?”
“Beh…
Non so.”, le rispose, sebbene non avesse avuto molta voglia
di
parlarne.
“Se
sei davvero brava con il disegno, perché non provi con
qualche
accademia di belle arti?”
“Ci
ho pensato.”, le rivelò senza alcuno scopo,
“Ma non è così
facile accedervi…”
“Sarebbe
magnifico studiare anche in altri paesi.”,
continuò Vicky, “In
Francia, in Italia...”
“Puoi
dirlo forte, lo sogno da quando avevo dieci anni.”
Svoltarono
a sinistra dell’incrocio.
“Mia
nonna abita in Provenza.”, aggiunse Alicia.
“E
dove sarebbe?”, chiese Vicky, “Scusa la mia
ignoranza in materie
geografiche…”
“E’
nel sud della Francia. Hai presente Cannes, Nizza…
Montecarlo?”,
provò a spiegarle, nominando le città
più conosciute di quella
zona meridionale del paese.
“Wow!
Favoloso!”, esclamò Vicky, “Voglio
conoscere tua nonna,
indipendentemente da come andranno le cose con mio fratello!”
Poi
rise. Rise come Jones, sguaiatamente, con le mani alla bocca. Alicia
non poté resistere e si lasciò sfuggire una
smorfia che volle
assomigliarle, ma che risultò essere solo una patetica
riproduzione
di un sorriso.
“Ma
dimmi”, si riprese Vicky, “ti ha davvero aiutato
con la
matematica? Ogni volta che ha cercato di spiegarla a me, il mio
cervello è imploso! Meno male che alla fine riesco a
cavarmela da
sola…”
“Sì,
mi ha aiutata abbastanza.”, le disse, guardando fuori dal
finestrino.
Ci
fu un breve minuto di silenzio.
Stavano
uscendo dalla città ed entrando nella periferia vicino alla
campagna, era là che Alicia viveva. Aveva forti dubbi sul
rimanere
un’altra notte da Jones, forse avrebbe fatto meglio a
restarsene a
casa propria. Si sentiva stranamente vuota e passiva, come se tutto
il resto del mondo avesse potuto scorrerle sulle spalle e fermarsi
sul pavimento, senza toccarla in alcun modo.
“Non
tornerai stanotte, vero?”, le chiese Vicky a bruciapelo.
Alicia
si voltò, volle vedere l’espressione sul volto
della ragazza.
Vicky le dimostrava comprensione.
“Penso
di no.”, le rispose senza mentirle.
“Va
bene, ma non farci stare troppo in pensiero.”, disse
l’altra,
“Spero che la tua decisione non sia dovuta alla scarsa
capacità di
mio fratello di farti sentire come a casa tua.”
“Non
ti preoccupare, sono stata molto bene.”, la
tranquillizzò con un
sorriso.
Era
la pura verità.
“Ci
fa piacere averti con noi.”, continuò Vicky,
“Soprattutto perché
da quando ci sei tu, mio fratello sembra un’altra
persona.”
Era
stata Alicia stessa a notare quel cambiamento, figuriamoci la
famiglia Jones. Vide il tetto della sua villetta spuntare in
lontananza, erano quasi arrivate.
“La
mia è la terza casa sulla destra.”, le
spiegò, così Vicky potè
prepararsi ad accostare l’auto.
“Vivi
in un posto niente male!”, esclamò
l’altra.
“Già…”,
le rispose.
Le
zone residenziali sembravano belle a tutti gli occhi del mondo. Erano
pulite, tutte le case avevano un bel giardino curato che confinava
con i bei giardini curati dei vicini, e chi vi abitava aveva sempre
un bel sorriso per gli stranieri di passaggio… E tutti
erano
felici[/i].
L’utilitaria si avvicinò al marciapiede.
“Bene,
ci siamo.”, disse Vicky, tirando il freno a mano.
“Grazie
mille per il passaggio.”, le fece Alicia.
“Figurati,
è stato un piacere.”, rispose l’altra,
“Tornerai, vero?”
“Sì…
Certo.”, ma non sembrava convincente.
“Voglio
essere sincera con te, Alicia.”, disse allora Vicky,
togliendosi la
cintura di sicurezza ed accomodandosi sul sedile, “Quando ti
ho
detto che mio fratello sembra un’altra persona…
Sul serio, Danny
è cambiato da quando ci sei tu.”
Alicia
si sentì lievemente atterrita da quelle parole, ma
soprattutto dallo
sguardo diretto e fermo di Vicky.
“Sta
davvero bene.”, continuò lei, “Non ti
sto dicendo questo per
convincerti di alcune cose… Non ho nessuno scopo da
perseguire. Era
solo per dirti che… Anche se è da poco che state
insieme, sei
diventata parte della famiglia.”
Famiglia.
Parte della famiglia.
“Benvenuta.”
Accese
il computer, doveva assolutamente distrarsi. Lo studio non gli era
utile, non era capace di isolargli la mente dal mondo esterno e se ne
fregò della prossima interrogazione. Non avrebbe saputo
rispondere
alle domande ed avrebbe fatto una brutta figura, ma non sarebbe morto
per quello. Alle spalle il letto, davanti a lui lo schermo del pc. Si
concentrò sul suo desktop e, dopo che la connessione fu
avviata, si
stupì di chi trovò in linea.
Allie.
I’m
RATLEG scrive:
Allie!
Non pensavo di trovarti!
Molti
attimi prima di una timida risposta.
BecauseTheNight
scrive:
Ciao
Rat… Come va? :-)
I’m
RATLEG scrive:
Da
schifo. A te?
BecauseTheNight
scrive:
Non
meglio.
I’m
RATLEG scrive:
Sfogati
:-) Come ai vecchi tempi… Non perdiamo tempo
Si
guardò indietro e si rese conto di quanto avesse ignorato
quella
lontana amica, sebbene non lo avesse fatto con cattiveria.
BecauseTheNight
scrive:
E’
che… Uff… Niente, lasciamo stare. Cosa ti
è successo?
Ecco.
Aveva passato la palla a lui, ma Danny non poteva risponderle, sapeva
già che cosa sarebbe successo. L’aveva notato, da
un bel pezzo a
quella parte, benché non si fossero sentiti molto: ogni
volta che le
parlava di Alicia, Allie ne approfittava per andarsene oppure
rispondeva con monosillabi trasmettendogli il chiaro messaggio
‘non
me ne frega assolutamente niente’.
Danny
non era uno scemo, l’aveva capito.
I’m
RATLEG scrive:
L’ho
chiesto prima io :-)
Altri
lunghi minuti prima che pervenisse una risposta.
BecauseTheNight
scrive:
Beh…
Per farla molto breve… Ho un ragazzo, gli voglio
bene… Ma non
riesco ad essere sincera con lui.
Danny
fu felice di sapere che anche Allie aveva trovato come lui qualcuno
di speciale con cui condividere il proprio tempo, quella ragazza si
meritava di essere davvero felice. Fu un po’ sorpreso, nelle
ultime
conversazioni lei non aveva accennato molto a questa persona, doveva
essere una cosa nata non molto tempo prima.
I’m
RATLEG scrive:
Perché?
BecauseTheNight
scrive:
Perché…
Non posso dirgli di Mark… Non ce la faccio, ho paura che non
mi
creda
I’m
RATLEG scrive:
Con
il tempo lo farai, ne sono certo, e lui ti crederà, non
è come tuo
padre… Da quanto tempo vi vedete?
BecauseTheNight
scrive:
Da
un mese ormai…
I’m
RATLEG scrive:
Tra
poco troverai il coraggio, Allie :-) E’ una cosa difficile ed
ha il
suo carico di emozioni con sé, ma gliene parlerai e tutto
andrà per
il verso giusto… Anche perché questa persona ha
sicuramente
qualcosa di speciale… Non è così?
BecauseTheNight
scrive:
Sì,
è così… Con lui sto bene, mi sono
affezionata… Però…
I’m
RATLEG scrive:
Però?
BecauseTheNight
scrive:
E’
che… C’è anche un’altra
persona… A cui non riesco a smettere
di pensare.
Ahia,
pensò Danny.
BecauseTheNight
scrive:
Ci
sono dei lunghi momenti in cui sto tremendamente bene con questo
ragazzo… E non penso a nient’altro, a nessuno…
Però mi capita anche di dirmi che non è
l’altro… Non lo so, è
difficile da spiegare…
I’m
RATLEG scrive:
Dovresti
prenderti del tempo per capire a chi tieni di più tra i
due…
BecauseTheNight
scrive:
So
già rispondere a quella domanda
I’m
RATLEG scrive:
E
allora qual è il problema? Non capisco…
BecauseTheNight
scrive:
Ogni
tanto l’altro salta fuori e mi rovina…
E’ questo il problema,
insieme al fatto che non riesco a parlargli dello Stronzo…
Ratleg,
cosa devo fare?
Danny
si prese il suo tempo per pensare. Quella situazione poteva sembrare
per certi versi simile a quella che stava vivendo con Alicia, forse
aiutando Allie poteva anche dare una mano a se stesso. Si chiese cosa
sarebbe stato più giusto fare.
I’m
RATLEG scrive:
Non
lo so, devo essere sincero… Mi verrebbe da dirti di
allontanarti da
entrambi… Però… Scusami, non so
aiutarti, sono una frana
BecauseTheNight
scrive:
Non
preoccuparti :-) risolverò questa cosa… Ora tocca
a te
I’m
RATLEG scrive:
Niente,
la mia è solo una cavolata…
BecauseTheNight
scrive:
Parlamene,
Rat
I’m
RATLEG scrive:
Beh…
Lasciamo stare, tanto devo tornare sui libri e studiare…
BecauseTheNight
scrive:
Come
vuoi…
I’m
RATLEG scrive:
Spero
di trovarti presto… Ti mando un grosso bacio
BecauseTheNight
scrive:
Prendi
bene la mira! Ciao Ratleg!
Perché
stava andando tutto a puttane? Con Alicia, con Allie, con Doug e Tom.
Tutte le persone per lui importanti si stavano allontanando da lui, e
non sapeva capire dove aveva sbagliato. Danny chiuse il pc e
appoggiò
la fronte tra le mani. Doveva trovare una risposta, altrimenti
sarebbe impazzito. Non riusciva a privarsi di quelle persone, non
voleva stare male, non poteva. Soprattutto, non era più
capace di
stare lontano da Alicia. Tra loro non era successo niente di
irreparabile, a cui non esisteva una soluzione, ma sembrava proprio
così. Quando era uscita di casa gli era parsa lontana mille
miglia,
come quando l’aveva conosciuta.
C’era
qualcosa che non andava tra di loro. Era quella la sua tortura.
Non
sei innocente.
Quella
voce suonò amplificata dal fondo della sua testa, come
gridata da un
grandissimo megafono. Alicia gli teneva nascosto qualcosa, ed anche
lui. Danny non era innocente.
Pensa.
Era
difficile, era troppo difficile pensare. Lei non era innocente e lui
anche, entrambi erano colpevoli di qualcosa. Colpevoli della stessa
cosa.
Danny non gliene avrebbe mai parlato, o almeno era così che
aveva
deciso, perché se lo avesse fatto sarebbero cambiate molte
cose. Tante
cose.
Danny
odiava perdere coloro che cambiavano la sua vita. Danny era realmente
Danny solo insieme a quelle persone, tra cui c'erano Tom e Dougie,
Allie, ed infine Alicia. Con loro smetteva di essere il ragazzo che
tutti vedevano e conoscevano, a scuola così come in
qualsiasi altra
parte del mondo, escluse le mura di casa. Diventava se stesso, un
Danny senza il suo guscio protettivo. Stava male al solo pensiero che
qualcuno di loro poteva andarsene e non fare più ritorno,
sebbene
non fosse successo chissà quante altre volte; era bastata
una sola
occasione per segnarlo all’infinito.
A
dieci anni aveva perso un genitore, a quanti altri bambini era
capitato? A tantissimi, ad una marea di suoi coetanei, c’era
addirittura chi non aveva mai conosciuto il proprio padre. Danny
aveva passato tantissimo tempo con lui: era stato Alan, suo padre, ad
iscriverlo alla squadra di calcio, ad insegnarli a pescare, ad usare
un martello senza farsi del male. Era stato suo padre a mettere la
regola: in
camera quando i toni si fanno alti.
Era stato suo padre a fare del male sua madre, per poi andarsene in
una sola notte, senza più tornare.
Era
stato suo padre a scatenare in un bambino di dieci anni la rabbia che
solo un adulto poteva provare. A quell’età non
riusciva a bere un
bicchiere d’acqua senza farlo cadere a terra, per colpa delle
sue
mani che tremavano senza un’apparente ragione. A dieci anni
si era
ritrovato ad essere tremendamente aggressivo con chiunque avesse
avuto la sfortuna di passargli accanto e sfiorarlo. A dieci anni
aveva litigato con Vicky per una stupidata, per un camioncino che lei
aveva rotto senza volerlo: era stato lui stesso a dimenticarlo in
mezzo al corridoio, al piano di sopra, e lei vi aveva solo
inciampato. A dieci anni si era ritrovato a scaricare la sua furia
contro sua sorella, che aveva avuto i riflessi abbastanza pronti da
tenersi stretta al passamano, o sarebbe rotolata giù dalle
scale.
Era stato lui a spingerla.
Quando
sua madre era arrivata, spaventata dalle urla di Vicky, lo aveva
guardato e lo aveva odiato. Forse era stato quello sguardo a farlo
cambiare, forse era successo molto tempo prima, Danny non lo sapeva.
Ad ogni modo, la rabbia si trasformò in paura.
Diventò terrore di
esplodere ancora, ed ancora. E di nuovo ancora.
A
scuola, dove i suoi compagni lo prendevano continuamente in giro,
tutti potevano diventare il suo prossimo bersaglio. Dougie e Tom lo
erano già stati in più di una occasione. Per due
anni consecutivi
Danny studiò a casa con mamma, aiutati entrambi dalla figlia
di uno
dei suoi vicini. Si fece curare e ci volle un sacco di tempo prima di
riuscire ad entrare in classe senza avere un attacco di panico, e
comunque non era più il bambino di prima. Timido, riservato,
quasi
muto, ma comunque diligente nel suo lavoro di alunno.
Negli
anni era migliorato, aveva concluso la terapia perché si era
sentito
soddisfatto dei risultati raggiunti. Aveva ripreso a giocare a
calcio, Tom e Dougie gli erano stati accanto in ogni modo ed era nato
il trio.
Danny si era diviso tra il suo modo di essere con tutti e
l’adolescente comune, che conosceva solo una ristretta
cerchia di
persone. In quegli stessi anni aveva deciso di mantenere
così
segreta questa parte della sua vita che Danny era diventato la
cassaforte di se stesso. Vicky, Kathy ed il trio potevano accedervi,
il resto del mondo ne rimaneva escluso ed andava perfettamente bene
così. Quando diceva ‘siamo
tutti bravi a tenere dentro quello che ci fa star male’,
Danny comprendeva tutto quello. Aveva
dato una copia della chiave ad Allie, molto probabilmente
perché la
lontananza gli aveva facilitato le cose, ma non era altrettanto
sicuro di volerlo fare con Alicia. Si sarebbe spaventata, pensando
certamente che avrebbe potuto farle del male, ed era l’unica
cosa
al mondo che Danny non voleva che accadesse. Non avrebbe mai
mosso un dito contro di lei, che era la persona a cui teneva di
più
al mondo.
Era
quello il loro problema: non volevano essere reciprocamente sinceri,
ognuno per i propri motivi.
Erano
più di sei mesi che Danny non tornava con la mente ai suoi
dieci
anni, per il momento gli stava costando solo
un buco nel petto e le lacrime agli occhi. Non era ancora in grado di
guardarsi indietro nel tempo e lasciarsi tutto alle spalle, come
poteva essere capace di tradurre tutto in parole e pretendere di
essere capito?
Guardò
l’ora, erano quasi le cinque. Alicia non lo aveva mai
chiamato, né
gli aveva mandato un messaggio. Prese il cellulare e lo fece al posto
suo.
“Pronto?”,
rispose Alicia, dopo molti squilli andati a vuoto.
“Hey…
Ti stavo disturbando?”, le domandò.
“No…
Studiavo, ma non riesco a concentrarmi.”
“Nemmeno
io…”, e sospirò.
“Senti…
Per stasera, non penso di tornare da te.”, disse
Alicia.
In
fondo Danny lo sapeva, lo sospettava.
“Va
bene.”, rispose lui, “Non ti preoccupare.
Terrò sempre il
cellulare acceso, sai cosa devi fare.”
“Certo.”
La
chiamata sembrava destinata a chiudersi così, ma Danny non
era
capace di salutarla.
“Io…
Alicia…”, balbettò, e
rinunciò.
Sentiva
un nodo alla gola, una mano che premeva sulla sua trachea e non gli
permetteva di respirare.
“Ci
vediamo domani.”, disse lei.
La
linea venne chiusa. Avrebbe solo voluto dirle che le voleva bene, che
gli mancava e che avrebbe voluto mettere fine a quella situazione.
Non riusciva a perdere Alicia, così come sarebbe morto senza
tutte
quelle altre persone che gli permettevano di essere il vero Danny
Jones, e non un fantoccio senza spina dorsale, con la paura del
mondo.
.*.*.*.
Danny
non riuscì a chiudere occhio per tutta la notte, vuoi
perché si era
scatenato un temporale che aveva troncato in due il suo sonno, senza
mai smettere di riempire la città di pioggia, lampi e vento;
vuoi
perché Alicia era a casa da sola e lui non riusciva a stare
tranquillo. Si svegliò che sembrava uno zombie, la faccia
riprodotta
dallo specchio del bagno lo spaventò a morte: il naso era
gonfio e
rosso, così come gli occhi, solcati da profonde occhiaie.
No,
non aveva pianto.
Non
aveva fame, mangiò due fette biscottate e lo stomaco si
chiuse,
rifiutando il latte e qualsiasi altra cosa che Kathy aveva preparato
per la sua colazione. Si vestì con lentezza, prese il bus
perché la
pioggia non aveva intenzione di andarsene e scese davanti alla
scuola. Non rivolse un saluto a nessuno, tranne nel caso in cui venne
obbligato dall’iniziativa degli altri.
Non
era facile trovarlo di quell’umore così pessimo ed
i suoi due
amici lo notarono subito. Li incontrò all’entrata
della scuola,
erano insieme e sembravano aspettarlo.
“Cosa
è successo?”, gli domandò subito Tom.
“Niente.”,
lo zittì.
Non
voleva parlare con loro, con cui aveva ancora in sospeso la questione
del sabato scorso, né con nessun altro. Dougie non
provò neanche a
guardarlo, Tom si accontentò di quella risposta e Danny se
li lasciò
alle spalle, dirigendosi verso l’aula di letteratura. Era
lunedì,
quindi niente matematica, e non avrebbe visto Alicia, forse nemmeno
durante la pausa pranzo; molto probabilmente lei se n’era
rimasta a
casa, come per evitarlo. Si sedette al suo banco e, dopo pochi
minuti, la lezione iniziò.
Alicia
arrivò con un’ora di ritardo, non aveva sentito la
sveglia
suonare. Il bello era che aveva passato la notte completamente
insonne a guardare il soffitto sopra di sé. Si era
ovviamente
addormentata di prima mattina e lei, che aveva sempre avuto notevoli
difficoltà nell’essere destata da una sveglia,
aveva tirato dritto
fino alle otto e mezza.
Si
fece accordare il permesso di entrata posticipata dal preside e si
sedette all’unico banco libero rimasto nell’aula di
chimica.
Proprio accanto a Judd. Sfortunatamente, infatti, non condivideva con
lui solamente l’ora di matematica ma anche quella di chimica.
Nella
normalità dei casi occupavano angoli opposti della classe ma
quel
giorno, evidentemente, i suoi antenati avevano voluto punirla per
aver ritardato.
“Buongiorno
santarellina.”, la accolse lui con un sorriso,
“E’ un piacere
averti accanto a me.”
“Sono
così contenta che sto per morire.”, volle zittirlo.
Se
ne stette sugli attenti per tutta la lezione, pronta a scattare nel
caso in cui lui avesse avuto l’intenzione di avvicinarsi
troppo o
importunarla, ma stranamente non accadde niente del genere. Judd se
ne stava tranquillo sul suo sgabello, seguiva la lezione con pacato
interesse e non la infastidì mai.
Si chiese quale alieno si fosse impossessato di lui, quale fatto lo
stesse spingendo a lasciarla in pace, ma quei dubbi la tormentarono
per poco tempo. Si concentrò sui composti acetati e su tutte
le
altre questioni della sua vita.
Doveva
parlare con Jones, chiedergli scusa per ciò che aveva fatto,
e
doveva farlo al più presto. Non voleva stare così
male, non voleva
soffrire. Ratleg glielo aveva detto: dovresti
prenderti del tempo per capire a chi tieni di più tra i
due…
Era
Jones quello a cui teneva, nonostante tutto. Cosa poteva darle
Ratleg? Solo il sostegno di qualcuno che sapeva,
nient’altro,
ed Alicia lo aveva già capito. Ma non era quello il fuoco
della
questione, non più ormai…
Si
passò la matita sulle labbra, il foglio davanti a lei si era
riempito di disegni e scarabocchi. Lettere e parole.
“Jones.”,
sentì dire
Si
voltò verso Judd, che aveva allungato gli occhi sul suo
pezzo di
carta, ed Alicia lo guardò con rabbia, non si doveva
permettere di
ficcanasare.
“Fatti
i fatti tuoi.”
L’altro
alzò le spalle e tornò alla lezione, lei ai suoi
pensieri.
Come
aveva potuto essere così stupida da pensare che avrebbe
potuto
liberarsi di Mark in quel
modo? Alicia avrebbe potuto scopare con chiunque, con tutta la
scuola, con tutto il mondo, lui sarebbe comunque rimasto il suo
incubo. L’unico modo di liberarsi di lui era farsi credere da
suo
padre, ma Adrian era cieco e Mark troppo bravo a nascondersi dietro a
grandi sorrisi e maniere educate.
Alicia
aveva anche pensato alla tattica del mantenere il controllo e non
farsi spaventare, esattamente come accadeva con i tipi come
Judd…
La coda del suo occhi destro cadde sul suo compagno di banco. Alicia
lo colse a guardarla, Judd ricambiò con un sorriso. Un
sorriso amichevole.
Non uno dei suoi, sprezzanti e pieni di boria.
Se
ne stette a fissarlo stupita e perplessa, incapace di reagire, ma la
campanella la svegliò: suonava ad intervalli regolari di un
secondo
l’uno, e non era ancora arrivata la fine dell’ora.
Significava
una sola cosa.
“Ragazzi,
esercitazione anti incendio!”, esclamò il
professore di chimica.
Alicia
sbuffò pesantemente e scese dal suo sgabello con
l’intenzione di
uscire dalla classe, trascinando i piedi.
“Cosa
stai facendo?”, le domandò Judd.
“Vado
verso il punto di ritrovo.”, gli disse con tono ovvio,
“Cosa
dovrei fare?”
“Darmi
la mano e starmi accanto, come da regolamento.”, rispose
l’altro.
Era
fuori discussione.
“Scordatelo.”
“Lewis…”,
la chiamò lui, alzando le ciglia e adocchiandola nel suo
vecchio
modo, “Questa classe contiene acido a sufficienza per
disinfettarti, una volta che tutto sarà finito.”
“Judd!
Lewis!”, li sgridò il professore, erano rimasti
gli ultimi.
Con
riluttanza infinita, Alicia allungò la mano e prese quella
di Judd,
ed uscirono insieme.
Ci
mancava solo l’esercitazione anti incendio. Danny si
alzò ed in
automatico afferrò la mano della persona più
vicina a lui, Debra
Baker, una ragazza che aveva la sfortuna di avere un grosso
apparecchio per i denti. Anche Danny ne aveva uno, pagato con
l’ultimo assegno familiare che suo padre aveva spedito loro,
ma
fortunatamente non si vedeva, era montato all’interno della
sua
dentatura. Alicia lo aveva notato baciandolo, altrimenti sarebbe
passato inosservato. Ogni cosa lo faceva pensare a lei, era una
tortura.
Debra
strinse la sua mano e gli mandò un mezzo sorriso
imbarazzato, Danny
ricambiò con stanchezza. Si misero in fila indiana e, una
coppia per
volta, uscirono dalla classe. Si ritrovarono in mezzo ad un fiume in
piena, tutti gli alunni stavano marciando come automi verso la
palestra del complesso scolastico, che li avrebbe accolti tutti.
Avrebbero dovuto andarsene nel cortile esterno, ma fuori continuava a
piovere e non potevano rischiare di prendersi una polmonite a causa
di una stupida esercitazione.
Ci
volle del tempo, ma con grande calma tutti entrarono nella palestra.
Era immensa, potevano starci contemporaneamente otto classi diverse e
non disturbarsi, era il complesso sportivo scolastico più
grande di
tutta Watford e continuava anche all’esterno. Quel liceo non
ospitava più di settecento studenti, poteva sembrare uno
spreco
colossale, ma veniva utilizzata anche dai gruppi sportivi della zona.
In piedi su una serie di materassi, il preside ed il suo vice si
rivolgevano alla massa con un megafono e richiedevano silenzio,
praticamente un’utopia. L’unica cosa che gli
studenti
rispettavano era l’imposizione di starsene seduti e la prima
metà
della palestra era per gran parte già occupata.
“Che
palle queste esercitazioni.”, disse Debra, toccandosi di
capelli
fulvi e mossi, “Fanno perdere un sacco di tempo e non servono
a
niente…”
“Già…”,
le rispose con poco interesse.
“Come
ti va la vita, Daniel?”, gli chiese.
Non
aveva voglia di conversare, ma non voleva passare da maleducato.
“Bene.
A Te?”
“Non
c’è male, non mi lamento.”, disse Debra,
“Ma sai, è tempo di
verifiche semestrali e…”
La
lasciò parlare, la conosceva come una gran chiacchierona e
finché
continuava a sproloquiare da sola, a lui non dispiaceva. Vide
arrivare Tom e Dougie, si tenevano la mano e scherzavano, la
campanella li aveva colti nel bel mezzo della lezione di informatica,
che seguivano insieme. Si sedettero qualche fila davanti a lui e lo
notarono, rivolgendogli un breve cenno di testa e un mezzo sorriso.
Danny fece altrettanto, ma li abbandonò subito.
Non
era loro due che voleva.
“Danny?”,
lo chiamò Debra.
“Sì?”,
si voltò verso di lei, colto nel pieno della sua distrazione.
“Ti
ho chiesto cosa fai per questo fine settimana.”
“Mi
vedo con la mia ragazza.”, le rispose, poi si
spostò di nuovo alla
ricerca di Alicia.
“Ah…
Non sapevo che ne avessi una.”, disse lei,
“E… Chi è?”
“Alicia.”
Pregò
che fosse l’ultima cosa detta tra di loro.
“Alicia?!”,
esclamò invece Debra, “Alicia Lewis?”
Danny
si voltò spazientito.
“Sì,
perché?”, le chiese,
“C’è qualcosa che non va?”
Fu
sufficiente per zittirla: Debra alzò le spalle e
abbracciò le
ginocchia, disinteressandosi e volgendo l’attenzione altrove.
Danny
ringraziò il cielo per aver avuto la faccia così
di bronzo da
trattarla male senza alcun rimorso, ma ebbe poco da essere contento.
“Guarda,
ecco la tua ragazza.”, disse di nuovo Debra,
“E’ con Harry
Judd, il
suo ex.”
Gliela
indicò con un sorriso piuttosto sprezzante.
Danny
non poté fare a meno di ammutolirsi: Alicia stava facendo il
suo
ingresso nella palestra, teneva la mano di Harry e lo seguiva, in
fila indiana come tutti gli altri intorno a loro. Si sedette nei
pressi di Tom e Dougie e lì rimase, in compagnia di Judd.
Danny non
riusciva a toglierle gli occhi di dosso: la vide sorridere e tutto il
mondo si frantumò. Cadde in frammenti sul pavimento e si
fermò,
diventando polvere. Ogni cosa saltò: piani, idee, progetti
prossimi.
Tutto venne cancellato perché non sarebbero stati niente
senza di
lei, Danny li aveva pensati per Alicia. Il concerto venne annullato:
era ormai già lontano anche se vicinissimo, ci sarebbe stato
il
giorno seguente.
Forse
fu il caso, forse si sentiva osservata, ma Alicia si accorse di lui
ed interruppe la sua bella espressione, che pareva contenta. Danny
voltò gli occhi altrove, dove il dolore era più
lieve. Sentì il
vecchio vuoto rabbioso crescere dentro di lui e si impose di
calmarsi, nel mentre il preside era in consulta con i capoclasse per
controllare la presenza di tutti gli alunni nella palestra.
Gli
fu impossibile non tornare da lei, non resisteva, doveva vedere:
Harry gli dava le spalle, non poteva notarlo, ma Alicia sì.
Judd le
parlava, gesticolava animatamente, c’erano alcuni dei suoi
amici
più stretti intorno a lui. Alicia lo ascoltava e sorrideva,
ma non
era lui che guardava. Teneva gli occhi dentro ai suoi, a quelli di
Danny, e li lasciava per pochi attimi, solo per posarli sul suo
fastidioso interlocutore. Danny non sapeva quale espressione
potesse mostrare il proprio viso, ma se ritraeva anche un solo decimo
del malessere che aveva dentro, sperò che Alicia lo stesse
notando.
“Potete
lasciare la palestra e tornare nelle vostre aule!”,
tuonò il
preside con il suo megafono, “Tornate in aula! Se non lo
farete, vi
sospendo per un giorno! Mantenete la posizione, il compagno e siate
ordinati!”
“Andiamo!”,
gli disse Debra, con la solita voce squillante, “E’
l’ora di
tornare al lavoro.”
“Sì…”,
le rispose.
Lei
tese la mano e lui la propria. Si alzò e si mise in fila con
il
resto del corpo studentesco.
“Credi
che l’abbia vista?”
“Certo,
cretino. E’ trasfigurato quando è arrivata con
Judd.”
“Proprio
a lui doveva darla la mano!”
“Poynter.”,
lo calmò Tom, “Vedrai che si risolverà
tutto.”
Entrambi
avevano osservato ogni particolare, o meglio, Tom ne aveva notati
più
di Dougie. Insieme, però, avevano deciso di fare qualcosa
per il
loro amico. Non sapevano cosa fosse successo tra lui ed Alicia, ma
qualcosa doveva pur essere capitato, altrimenti non Danny li avrebbe
trattati come sconosciuti, quella mattina. Avevano messo il loro
zampino nel malumore del loro amico, era ovvio, la scenata al
telefono del sabato precedente era stata solo una patetica messa in
scena guidata dalla loro gelosia. Se n’erano pentiti il
giorno
immediatamente successivo, quando la mamma di Poynter aveva detto ai
due che Danny era venuto comunque al locale, anche se in compagnia di
Alicia.
Erano
gelosi marci di Jones, e allora? Oltretutto anche infantili e
stupidi, ma troppo legati al vecchio Jones per poter rovinare tutto.
Avevano passato troppe cose insieme, superato tante
difficoltà.
Danny era stato accanto ad entrambi, senza alcuna condizione: a Tom,
quando i dottori avevano diagnosticato un tumore al seno a sua madre;
a Dougie, quando aveva rischiato di ripetere l’anno
scolastico. Non
potevano voltare le spalle al loro migliore amico solo
perché lui
voleva passare del tempo insieme alla ragazza di cui era innamorato.
In aggiunta, Danny non si era mai comportato come loro: era sempre
stato contento e felice quando avevano trovato delle ragazze con cui
uscire e divertirsi.
Cosa
potevano fare allora per farsi perdonare? Chiedere scusa era troppo
facile e banale, mentre l’occasione giusta si stava
presentando
davanti ai loro occhi. Danny ed Alicia sembravano aver litigato,
potevano mettersi di buona lena e farli riappacificare!
“Rimaniamo
indietro.”, disse Tom, stringendo forte la mano di Dougie,
“Ho in
mente un’idea.”
“Se
continui a togliermi il sangue alle dita, ti do un calcio nelle
palle.”, protestò Poynter.
Senza
alcuna dolorosa rivoluzione, i due si intromisero nella folla ma
restarono in disparte. Cercarono di non dare nell’occhio e
contemporaneamente di non perdere di vista i due, Alicia e Judd,
contornati dal gruppo di amici di lui, che sembravano avere tutti la
loro solita intenzione, cioè uscire per ultimi. Danny era
invece
ormai fuori da ogni campo visivo.
Fecero
modo di non farsi inghiottire dalla massa e per qualche momento
persero il contatto con Alicia, poi videro il suo gruppo in
avvicinamento.
“Che
stanno…”, borbottò poi Dougie.
Tom
si voltò, scavalcò quella dozzina di persone con
gli occhi. Nel
frattempo varcarono la soglia della palestra, spinti dai chi alle
loro spalle.
“Vieni.”
Poynter
lo strattonò ed uscirono dal fiume di studenti. Finsero di
dirigersi
verso i bagni, nessuno degli amici di Judd li notò. Una
volta che
furono tutti ad una certa distanza di sicurezza, i due si
affacciarono nella palestra. Sandman, uno dei tanti bracci destri di
Harry, se ne stava appoggiato all’entrata degli spogliatoi.
C’era
tanta gente intorno ad Alicia, tante persone che l’avevano
disprezzata e che certamente non avevano cambiato idea durante quella
esercitazione anti incendio, nonostante avessero cercato di fare i
simpaticoni. Dal primo all’ultimo, i ragazzi e le ragazze
appartenenti al gruppetto di cui in principio anche lei aveva fatto
parte, prima di rifiutare Judd, erano tornati improvvisamente ad
essere suoi amici. Tutti.
Semplicemente perché era apparsa mano nella mano con lui.
Era
seduta tra loro: ridevano, scherzavano, si prendevano in giro e
c’era
chi si baciava, chi progettava per il fine settimana e chi la
invitava alle prossime feste. Judd, accanto a lei, non voleva
lasciarle la mano. Parlava con i suoi amici, si univa ai momenti di
ilarità, ma le dita erano ancora intrecciate alle sue.
E
Jones la guardava, da lontano, e vedeva i suoi occhi pieni di
delusione. Alicia aveva trattenuto ogni sentimento, ogni voglia di
alzarsi e correre da lui, ogni lacrima.
“Potete
lasciare la palestra e tornare nelle vostre aule!”, sentirono
la
voce metallica del preside, amplificata dal megafono,
“Tornate in
aula! Se non lo farete, vi sospendo per un giorno! Mantenete la
posizione, il compagno e siate ordinati!”
“Forza,
su!”, esclamò Judd, che con un gesto rapido era
balzato in piedi e
l’aveva costretta ad alzarsi con altrettanta
rapidità, “La
chimica ci aspetta!”
Si
trovò di nuovo circondata ed un’alta marea di voci
entrò nelle
sue orecchie; Alicia, che non era più alta del metro e
sessantasette, si trovò nascosta tra decine di persone.
Individuò i
riccioli di Danny e volle seguirli, ma la sua mano era stretta in
quella di Judd e lui non accennava a muoversi. Tutto il gruppo degli
amici lasciò il resto del corpo studentesco uscire dalla
palestra e
si avviarono per ultimi. Judd aveva intavolato una conversazione con
quel cazzone senza cervello di Sandman e, come previsto, non le
permise di andarsene con gli altri.
Poi,
quasi inaspettatamente si mossero, Alicia tirò un sospiro di
sollievo. Camminarono verso l’uscita ma, prima di varcarne la
soglia e lasciare la palestra, un’altrettanta improvvisata
deviazione la fece ripiombare nel panico. Quasi senza accorgersene,
Alicia si trovò all’interno degli spogliatoi
maschili. Non ebbe il
tempo di aggrapparsi a qualcosa né di gridare, fu tutto
troppo
veloce. Il buio di uno dei tanti sgabuzzini sopraffece la luce
esterna.
“Mi
perdonerai per il cambio di programma.”, disse Judd,
chiudendo la
porta ed accendendo la piccola lampada, “Ma
c’è una questione
che devo sistemare.”
“Judd,
lasciami andare.”, disse Alicia con tono secco, che cercava
di
mascherare la sua paura.
“Non
voglio farti niente di male.”, si difese lui, con calma,
“Voglio
solo parlarti.”
“Non…
Non ho niente da dirti.”
“Alicia,
non ho la minima brutta intenzione!”, ripeté Judd.
“Va
bene, parla e lasciami andare.”
Invece
di accontentarla, l’altro si spazientì ed
alzò il volume.
“Cazzo!
Voglio solo parlarti e mi tratti come se volessi
violentarti!”,
Judd si infervorò, poi esitò, una mano sulla
bocca, l’altra ferma
sul fianco.
Alicia
sentiva il proprio respiro aumentare di frequenza, e ad ogni boccata
d’aria faticava ad incamerare ossigeno. Quella era la
materializzazione del suo incubo, del terrore che la assaliva non
appena Mark metteva piede dentro casa. Doveva uscire, trovare una via
di fuga, scappare. I piedi erano dentro ad un blocco di cemento
già
fossilizzato, Alicia trovò solo la forza di indietreggiare
ed
appiattirsi al muro. Comunque, se non si fosse mossa da sola sarebbe
stato Judd a costringerla: le venne incontro e la baciò, in
un gesto
rapido che Alicia non riuscì per l’ennesima volta
ad evitare.
Scosse
la testa, raccolse le forze e lo allontanò con una spinta.
L’altro
indietreggiò sorpreso.
Alicia
sentì un rumore lontano, uno che pareva somigliare tanto al
suo nome
di battesimo. Judd si fece ancora avanti e ci provò di
nuovo, ma lo
respinse per la seconda volta. Alicia sentì a propria
guancia
colpita da una mano piena, da cinque dita aperte che le arrossarono
il viso, e si trovò a boccheggiare contro la parete.
“L’ho
sempre saputo che eri solo una stronza.”, le
vomitò addosso, “Una
stronza puttana.”
Quel
rumore lontano sembrò avvicinarsi.
“Lewis?
Sei lì dentro?”
La
voce apparteneva ad uno degli amici di Jones, non riusciva a
distinguere chi dei due con precisione. Nell’attimo in cui
realizzò
di conoscere quella persona, la stessa mano che l’aveva
schiaffeggiata si fermò sulle sue labbra e la
privò di ogni
capacità di parlare. La bocca di Judd era vicina ai suoi
occhi,
Alicia poteva percepire la paura crescere in lui.
“Te
l’ho detto, Fletcher.”, era Sandman,
“L’amichetta del tuo
consorte sfigato non è qua.”
“Fottiti,
pezzo di merda.”
“Hey!
Metti giù le mani!”
“Alicia!”
Alicia.
Fece
appello al coraggio che le mancava. Urlò così
forte che fu come
farsi tagliare la gola, ma quelle che uscì fu solo un
rantolo
strozzato. Nessuno l’avrebbe mai sentita.
“Alicia!”
La
porta si mosse e si aprì, la luce degli spogliatoi
entrò insieme
alla faccia di Poynter, accompagnata dai suoi capelli biondastri e
spettinati. Judd la liberò dal peso del proprio corpo.
“Che
gran figlio di puttana!”, esclamò Dougie,
“Cosa cazzo volevi
fare, Judd!”
Arrivò
anche Fletcher.
“Alicia!”,
le fece.
Era
stato lui a chiamarla, lo riconobbe; Tom riuscì a smuoverla
dalla
situazione di immobilismo in cui si trovava. Gli andò
incontro
ancora confusa e spaventata.
“Dove…
Dov’è Danny?”, gli chiese, trattenendo a
stento le lacrime.
“Dovrebbe
essere rientrato in classe ma non lo so.”, le rispose,
“Vuoi che
ti accompagni?”
Annuì
con un cenno di testa. Scortata dai migliori amici di Danny, Alicia
uscì dalla palestra a viso basso, dietro di sé
sentiva i passi di
Judd e di Sandman. Vedeva i ragazzi guardarsi spesso indietro,
controllare che gli altri non si avvicinassero troppo, mentre lei era
occupata a proteggere se stessa stringendo le braccia al petto.
Stava
per esplodere.
“Danny!”
L’esclamazione
forte di Dougie, alla sua sinistra, la obbligò a guardare
davanti a
sé. Jones era sulla soglia dell’aula, stava per
entrare. Esitò
nel vederli.
“Danny!
Aspetta!”, rinforzò allora Tom.
“Sta
per iniziare la lezione.”, disse lui.
Alicia
sentì una mano amica premerle contro la schiena ed i passi
aumentarono di velocità. Erano vicini, mancavano meno di
cinque
metri. Si voltò per un breve istante: Judd era sulla loro
scia,
sempre accompagnato da Sandman. Era come un incubo che non poteva
finire.
“Signor
Jones!”, ascoltarono la voce di una professoressa che Alicia
non
conosceva, “Entri in classe o la lascio fuori.”
“Danny,
cazzo!”, insistette Poynter, “Fottitene della
lezione!”
Jones
fu incerto per la seconda volta. Alicia lo vide distintamente
chiudere gli occhi, mordersi le labbra e abbandonare la soglia
dell’aula. Venne loro incontro ma non sembrava comunque
contento
della decisione presa.
“Non…
Non potevate aspettare?”, chiese loro.
Le
mani erano ferme sui fianchi, era scocciato. Alicia non era in grado
di dire alcunché, ogni parola le moriva in gola, bloccata
dal magone
che la strozzava e che le impediva quasi di respirare. Era
sull’orlo
del baratro, doveva fare qualcosa. Doveva fargli capire.
Si
avvicinò a lui, tese le mani e l'abbracciò.
Scoppiò a piangere.
“Ma…
Cosa le avete fatto?”, chiese Jones ai suoi due amici.
“Judd.”,
disse Fletcher, ma Alicia non li ascoltava più.
Sentì
la campanella suonare ancora, segnava la fine della lezione, ed il
rumore assordante della confusione si riversò ancora nei
corridoi.
Tom
e Dougie li avevano visti andare verso gli spogliatoi, Sandman era
rimasto a fare il palo. Si erano avvicinati, avevano cercato di
entrare ma li aveva ostacolati. Due contro uno, alla fine Sandman si
era piegato. Il resto della storia stava scatenando in lui
l’impulso
di alzarsi dal tavolo su cui era seduto, andare da Judd e riempirlo
di pugni in viso. Sedutagli accanto, Alicia se ne stava davanti al
suo vassoio, colmo di cibo ed ancora inviolato, così come il
suo,
quello di Tom e di Dougie. Nessuno dei quattro aveva fame, ma avevano
comunque deciso di pranzare insieme a tutti gli altri.
Il
braccio sinistro di Danny stringeva il fianco di Alicia, che fissava
la sua bottiglietta d’acqua.
“Vuoi
andare a casa?”, le chiese.
Lei
annuì con un breve cenno.
“Ok,
andiamo.”, la esortò ad alzarsi.
“No,
non ti preoccupare.”, disse Alicia con un sorriso,
“Mi faccio
venire a prendere.”
“E
da chi? Da un taxi?”
“Danny,
sto bene.”
Era
inconcepibile.
“Ti
porto a casa mia.”, le fece, “Ti farai un bel bagno
caldo e poi
cercherai di dormire.”
“Ma
Danny…”
“Dimmi
di sì.”
Danny
sentiva su di sé gli occhi dei suoi amici ma non badava
loro. Alicia
sospirò e si piegò alla sua volontà.
“Ok…”
“Bene.”,
le disse sorridendo.
Si
alzarono entrambi, ma prima che potessero allontanarsi insieme, Tom
lo chiamò. Disse ad Alicia che l’avrebbe raggiunta
al più presto
e si trattenne con i suoi amici, tornando seduto davanti a loro.
“Senti…”,
disse Dougie, “Mi dispiace.”
“Ci
dispiace.”, lo corresse Tom, “C’ero
anch’io quando Doug ti ha
chiamato.”
“E’
che… Lo sai… Il trio…”,
balbettò l’altro.
“Siamo
dei coglioni, abbiamo sbagliato.”, aggiunse Tom, “E
ci dispiace…”
“Ci
perdoni, vero?”, volle accertarsene Doug.
Danny
rimase perplesso, ma non perché non avesse voluto
perdonarli: lo
aveva fatto già da tempo, anche prima che si fossero presi
cura di
Alicia. La sua incertezza era dovuta semplicemente a quei due scemi:
ci sarebbero cascati ancora, ne era certo, ma li avrebbe scusati
sempre.
Il trio era il trio.
“Siete
due cretini.”, disse loro alzandosi, ma ridendo,
“Se lo fate
un’altra volta, vi castro.”
Tom
si rivolse allora a Poynter.
“Tieniti
le palle.”, gli disse, “Quello fa sul
serio.”
Li
salutò con una pacca sulla spalla e raggiunse Alicia, che lo
aspettava all’uscita della mensa. Una volta al sicuro, a
casa,
lasciò il bagno a sua completa e le disse di prendersi il
tempo di
cui aveva bisogno, di fare con calma. Nessuno tranne lui avrebbe
potuto disturbarla: sua madre era al lavoro, Vicky a lezione, e Danny
non aveva di certo l’idea di infastidirla.
Si
sedette sul proprio letto e provò a rilassare i nervi. Per
tutto il
tempo passato in mensa aveva sentito gli occhi di Judd piantati sulla
nuca, o forse era stata solo una sua stupida sensazione; non aveva
fatto caso alla sua presenza, era stato troppo preoccupato per
Alicia. Fortunatamente aveva avuto il buon senso di impedire a se
stesso di scoppiare.
Accese
lo stereo, vi infilò un cd a caso ed ascoltò. La
musica aveva
sempre avuto un buon effetto su di lui.
You
know, a woman like you should be at home, that's where you
belong
Watching out
for someone who loves you true, who would
never do you wrong
Just how
much abuse will you be able to
take?
Well,
there's no way to tell by that first kiss
What's a
sweetheart like you doin' in a dump like this?
Caro,
vecchio Bob Dylan.
Qualche
tempo dopo sentì lo scricchiolio del vecchio pavimento di
legno ed
alzò la testa verso la porta di camera, Danny si era disteso
comodamente sul suo letto.
“Già
fatto?”, chiese ad Alicia.
“Sì…
Beh, non mi piace sprecare acqua.”, rispose lei, entrando
nella
stanza ed appoggiando la sua divisa sulla spalliera della
poltroncina.
“Non
sarebbe stato uno spreco.”, la rimproverò.
“Zitto,
Jones.”, lo chetò Alicia, aggiungendo poi un
sorriso.
Danny
si sedette sul materasso e le fece segno di accomodarsi accanto a
lui; lei lo seguì ed incrociò le gambe sulla
coperta, ormai
spiegazzata.
“Se
vuoi parlarne…”, le fece, “Ti ascolto
volentieri.”
Alicia
scosse la testa, ma poco dopo parlò.
“Judd
mi ha colto alla sprovvista.”, disse lei, guardando
l’orlo
lievemente sciupato della felpa che indossava.
“Non
ti ha fatto… Fatto del male, vero?”
Esitò
ancora.
“Mi
ha… Mi ha…”, nascose il viso tra le
mani ma non pianse, “Mi
ha baciato… E mi ha dato uno schiaffo.”
Danny
evitò di nascondere la rabbia in crescita esponenziale.
Doveva
controllarsi davanti a lei, era assolutamente necessario non perdere
il controllo.
“Non
ti preoccupare.”, cercò di tranquillizzarla,
“Ora è tutto
finito.”
Ebbe
quasi l’impressione di mentirle, non sapeva giustificare
quella
sensazione, ma l’abbracciò comunque.
L’unica cosa certa di tutto
quello era che Judd l’avrebbe pagata, prima o poi. Non sapeva
dove
avrebbe trovato il coraggio, ma era fiducioso: il solo pensiero di
quello che le aveva fatto mandava in tilt le sue capacità
razionali,
cancellava ogni freno.
“Ho
davvero bisogno di dormire.”, disse Alicia.
“Anch’io…”,
le fece, “Ti lascio il letto, me ne vado di sotto.”
“No…”
Danny
rimase interdetto.
“Vuoi
che rimanga?”, le chiese, doveva aver capito male.
“Sì.”
Li
svegliò un’esclamazione piuttosto colorita di
Vicky, almeno
quattro ore dopo.
_______________________
Nota dell'autrice.
Dopo millenni aggiorno :D spero che qualcuno di voi si ricordi ancora
cosa sta succedendo... Ringrazio comunque tutti quelli che mi hanno seguito finora! Prometto che aggiornerò con più costanza!
Ad ogni modo, la canzone citata qualche paragrafo sopra è Sweetheart like you,
di Bob Dylan. Cercatela su YouTube, è eccezionale.
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 ***
CAPITOLO
9
Others
pretend they don't care at all
Scese
dall’autobus insieme ad Alicia, la pioggia batteva ancora sul
loro
mondo, ed entrarono nella scuola nascosti sotto lo stesso ombrello.
Si salutarono e si divisero, ognuno diretto verso la propria
destinazione. Prima di quel momento uno soltanto
era stato l’argomento delle loro conversazioni.
Il
concerto.
Occupava
ogni pensiero, briciola libera di loro stessi, ogni attimo. Così
come il giorno precedente, avrebbero entrambi saltato le lezioni
pomeridiane e sarebbero saliti in auto diretti verso la grande
Wembley Arena. Vicky, nonostante la sua ritrosia iniziale, non ebbe
niente da ridire sul cedere il suo biglietto ad Alicia. Danny aveva
giocato d’astuzia, mettendola con le spalle al muro durante la
cena
della sera precedente: riuniti intorno al tavolo, aveva chiesto alla
sorella di lasciare cortesemente il suo posto numerato lato palco, e
Vicky non aveva potuto dire di no, trovandosi in presenza di Alicia.
Le stava bene, si era detto Danny, così imparava a moderare i
suoi
modi dittatoriali.
Le
lezioni erano quasi terminate, mancavano solo un altro paio di ore,
poi avrebbero mangiato ed infine sarebbero tornati a casa. Matematica
stava per iniziare, la classe era ormai del tutto piena.
“Gran giorno oggi, vero?”, gli
domandò
Tom, seduto come sempre davanti a lui.
“Già!”,
esclamò Danny entusiasta, “Non sai quanto abbia aspettato
questo
concerto!”
“E Vicky?
Cosa ha detto?”, gli domandò Dougie, che dal banco alle
sue spalle
si era spostato su quello di Tom, accomodando il suo fondoschiena su
di esso.
“Assolutamente
niente.”, rispose lui, “Non poteva dire di no di fronte ad
Alicia.”
“Che gran
bastardo che sei!”, esclamò Fletcher, dandogli una sonora
pacca
sulle spalle.
“Si
chiama istinto di sopravvivenza.”, gli rivelò, “Tu
non puoi
capire di cosa sto parlando.”
Fletcher,
così come Dougie, aveva una sorella più piccola e non
poteva
afferrare lo strazio del subire in silenzio tutte le angherie che
erano toccate a lui, come a tutti i fratelli minori del mondo. Danny
vide Alicia spuntare nell’aula e fargli cenno di uscire: non
seppe
cosa poteva volere da lui ma la raggiunse subito.
“La prof di letteratura mi trattiene per
un’interrogazione fuori programma.”, gli spiegò,
“Quindi
niente matematica per oggi.”
“Va
bene.”, le disse, “Ci vediamo a mensa allora.”
“Perfetto!”, esclamò lei, che
doveva
essere piuttosto contenta di quel cambio di programma.
Si salutarono con un veloce bacio sulla
guancia, a nessuno dei due piaceva dimostrare al pubblico quello che
c’era tra loro, e Danny tornò dai suoi amici.
Ignorò volutamente
l’arrivo di Judd, imponendosi calma sotto lo sguardo deciso dei
suoi due amici, e la lezione iniziò.
Ebbe
poco da fare, la Gambler interrogò due cognomi a caso, Poynter e
Fletcher, che ne uscirono con una sufficienza non del tutto piena.
Tornarono a posto con l’aria da cani bastonati, ma Danny sapeva
che
dentro esultavano: finché si trattava di un voto del genere, i
suoi
due amici erano più
che
contenti. Nel caso in cui fossero scessi
sotto la media, ricorrevano a lui che era subito pronto ad aiutarli.
Si chiese cosa avrebbero fatto
senza il loro sostegno reciproco.
La
campanella suonò e la classe prese lentamente a svuotarsi.
“Facci sapere come va il concerto!”,
gli
disse Dougie, “E, nel caso in cui ci fosse un dopo
concerto…”
“Certo,
nella tua testa!”, rispose Danny ridendo.
“Hey, sono un pervertito ma non mi metto a
fantasticare su vuoi due!”, si difese l’altro, che se ne
andò
tenendogli un finto broncio.
“Jones.”,
lo chiamò Tom, “Spero che Alicia abbia una sorella o una
cugina
disposta a dargliela, altrimenti il nostro Dougs se lo consumerà
fino all’ultimo centimetro…”
“Digli
di lasciar perdere quel cavolo di videogioco e di uscire di
più!”,
lo consigliò.
Danny
stava lasciando l'aula in compagnia di Tom, quando venne trattenuto.
La mano sul suo braccio era quella di Fiona Young: non la conosceva
ma sapeva a quale cerchia di persone appartenesse, e l'idea di
perdere del tempo con lei non gli piaceva affatto.
“Scusami, Danny, posso chiederti una
cortesia?”, gli domandò
in tono cordiale.
Salutò
Fletcher e ascoltò la richiesta di quella ragazza, come
l'educazione
lo obbligava.
“E’
evidente che sei bravo in matematica e che fai dei miracoli anche con
chi non capisce niente di numeri…”, esordì Fiona
con un chiaro
ed immediato riferimento, “Non è che saresti così
gentile da dare
una mano anche a me?”
“Beh…
Io non…”, si preparò a rifiutarla con garbo.
“Andiamo, ti pagherei davvero bene!”,
insistette lei, “So che Lewis ti ringrazia con qualcosa come
dieci
sterline ogni sera, te ne posso dare quindici!”
“Fiona, non credo che…”
“Dimmi quando sei disponibile!”, lo
interruppe ancora.
“No!”,
esclamò Danny, subito pentito di aver alzato la voce,
“E’ molto
gentile da parte tua, ma no, non posso.”
“Ah…
Ok.”, disse l’altra, fintamente dispiaciuta, “Va
bene, chiederò
a qualcun altro.”
Senza
un saluto né un prego,
Fiona se ne andò. Danny si massaggiò gli occhi stanchi
sotto alle
lenti: non volle sapere con quale coraggio si fosse rivolta a lui
quando il resto del suo tempo lo passava a dire male della
sua ragazza. Evidentemente
le persone potevano arrivare più in
basso
di quanto lui si aspettava. Tornò sulla sua via, ma lo
bloccarono
ancora.
“Jones.”
Una puntura di ape
era più benvoluta di quella voce.
“Harry, lasciami in
pace.”, gli disse.
Un’altra
presa sul suo braccio lo costrinse a voltarsi contro la sua
volontà.
“Volevo
solamente dirti
che è stata la tua ragazza a trascinarmi lì
dentro.”, ebbe il
coraggio di affermare.
Danny
si liberò dalla sua mano.
“E’
una bu-bugia bella e bu-buona.”, rispose balbettando.
Danny voleva andarsene, voleva ignorarlo.
Voleva essere lasciato in pace.
“E’
la ve-verità.”, lo prese in giro Harry.
I
piedi esitarono sulla soglia della porta. Judd sembrò esserne
contento, così tanto parlare ancora.
“Ci
hai visti entrare, eravamo mano nella mano… Ma io non ho fatto
niente, sono innocente, è stata una sua iniziativa.”, ed
alzò le
mani in aria, sottolineando la sua dichiarazione, “Pensa bene a
quello che fai, Jones, lei non è esattamente quella che tu
pen-…”
Le mani si impossessarono del colletto
sbottonato della camicia di Judd, Danny spinse indietro l’intero
peso del suo corpo. Li fermò soltanto il frammento di muro
compreso
tra la lavagna e l’armadietto, pieno di libri e scartoffie varie.
La nuca di Harry colpì il cemento, un’esclamazione di
dolore uscì
dalla sua bocca.
Ecco
cosa Danny intendeva con rabbia incontrollata ed improvvisa. Ecco
cosa lo spaventava di se stesso, l’incapacità di
trattenersi e la
vera possibilità di fare del male al prossimo suo. Fissò
le pupille
dentro quelle di Harry, che venivano velocemente nascoste dalle
palpebre.
“Ascoltami
bene, Judd.”, gli disse, resistendo ai suoi tentativi di
liberarsi,
“Lasciala in pace.”
“Fottiti!”,
gridò l’altro.
Danny
non aveva muscoli, quelli che si era fatto giocando a calcio erano
scomparsi, ma l’adrenalina che circolava in lui lo riempiva di
forza. Judd era incapace di togliersi le sue mani di dosso, Danny si
sentiva mosso da qualcosa che aveva dimenticato.
“Lasciala in pace, ti è
chiaro?”, gli
ripeté.
“Sei solo uno
sfigato.”, rispose Harry, rinunciando alla lotta.
“E tu un figlio di puttana. Chi sta meglio
tra noi due?”, lo sfidò ancora.
“Io,
perché la mia ragazza non è una puttana come la
t-…”
Lo sbatté ancora contro il muro: Judd
sentì
il doppio del dolore, il suo urlo strozzato lo confermava, e Danny ne
fu così contento che volle farlo ancora.
“Lascia
in pace Alicia.”, gli disse per la terza volta, “Riversa le
tue
frustrazioni del cazzo su di me, ma lasciala in pace.”
L’altro non ribatté, Danny sentiva
solo il
suo respiro veloce e affannato.
“Bene.”,
e lo lasciò, puntandogli contro l’indice, “Ti
avverto, non sto
scherzando.”
Gli voltò
le spalle e lasciò la stanza. Aveva provato piacere
nell’usare
violenza contro Harry.
Male,
molto male.
Attendeva
Jones sulla soglia della mensa ma sembrava non arrivare, con lei
c’erano Poynter e Fletcher. Li aveva già ringraziati per
averla
tolta dai guai, e comunque doveva loro molto più che una
semplice
parola di sei lettere.
“Eccolo!”,
disse Fletcher, sbuffando, “Jones! Stiamo morendo di fame!”
Li raggiunse, ma ben prima che fosse vicino
da notarlo con evidenza, Alicia vide che c’era qualcosa che non
andava. Lei come i suoi due amici si preoccuparono subito per lui.
“Niente. Sto bene.”, disse Jones,
“Ci
mettiamo in fila? Altrimenti ci rimarranno solo le briciole.”
Passò oltre e li lasciò chiedersi
quale
fosse stato il suo problema. Presero i loro vassoi, camminarono lenti
verso la fine del lungo bancone e, con il cibo tra le mani, trovarono
un tavolo per loro. Danny non proferì parola, si buttò
sul suo
pranzo e si chiuse in se stesso. Alicia cercava risposte negli occhi
dei suoi due amici, ma anche loro sembravano essere all’oscuro di
tutto.
Non si aspettava
quel cambio di umore. Avevano una delle migliori giornate di
tutta la vita davanti a loro ed Alicia si
stava sforzando di cacciare indietro ogni pensiero negativo; aveva
ringraziato il cielo quando era rimasta bloccata a letteratura, non
si sentiva ancora in grado di affrontare Judd, sebbene non avesse
avuto più nulla da temere.
Danny
non poteva farle quello… Almeno lui doveva riuscire a sorridere.
Alicia non aveva il coraggio di chiedergli ancora cosa avesse avuto,
aveva paura di porgergli una
semplice domanda. Danny guardava il suo vassoio e mangiava,
nient’altro, tanto che Tom cercò di attirare
l’attenzione di
Alicia.
“Mi è piaciuto
il tuo ultimo lavoro.”, le disse Fletcher, “Quello che hai
consegnato per la verifica di disegno.”
“Ah…
Grazie.”, gli rispose, “Mi ci è voluto un po’
per finirlo…”
“E’ venuto ottimo, credimi.”,
disse
l’altro.
“Che cosa
hai disegnato?”, le domandò allora Poynter.
“Un ritratto… Una mamma con un
bambino in
braccio.”, gli spiegò molto sinteticamente.
“L’effetto dei colori morbidi sul
carboncino davano un senso di… Non so…”, disse Tom,
puntando il
mento con la forchetta e lasciando così quattro piccoli buchetti
sulla pelle, “Non è una critica, ma mi metteva
tristezza.”
Non seppe cosa rispondere, e non fu perché
l’aveva lasciata senza parole. Non aveva voglia di parlarne.
“Jones.”, lo chiamò Tom,
“Ho perso la
mia password per accedere all’aula informatica. Mi presti la
tua?”
“Te la segno su un foglietto.”,
rispose
lui brevemente.
“Era un
modo cretino come un altro per farti alzare il culo da quella
sedia.”, si chiarificò senza troppi giri di parole,
“Quindi
vieni con me e dimmi cos’hai.”
“Fletch,
non insistere, ti prego.”, disse Jones, “Lasciami in
pace.”
“Jones, alzati.”, gli impose
l’altro.
Alicia non ci pensò due volte. Era lei il
problema, poteva inventarla personalmente un’idea idiota per
togliersi dai piedi.
“Vado
in bagno.”, disse.
Scansò
la sedia e si allontanò.
Due
paia di occhi si puntarono su Danny, erano
pieni di rimprovero, domande e fastidio. Tom avrebbe voluto prenderlo
a schiaffi, anche Dougie sentiva
un fastidio alle mani. Insieme, avrebbero
voluto gonfiargli
il viso.
“Jones, per piacere, smettila di fare il
coglione.”, lo consigliò Dougie, “Dicci cosa
c’è che non va.”
“Ha a che vedere con Judd?”, gli
domandò
allora Tom, “Se non erro siete usciti per ultimi dalla classe di
matematica.”
I due
avevano chiaramente visto un Danny alterato lasciare l’aula e
infilarsi in quella immediatamente successiva, e di lì a poco
Harry
aveva fatto altrettanto, dirigendosi però nella direzione
opposta.
Non sapevano cosa fosse successo tra i due, ma qualcosa
era capitato. Si erano fatti
un’idea… E si
erano preoccupati.
“Non
ne voglio parlare.”, si oppose Danny, “Basta.”
“Sono sincero, non ce ne importa un
cazzo.”, disse Dougie, “Ma credo che Alicia meriti una
spiegazione.”
“Non mi
è sembrato che sorridesse quando se n’è andata in
bagno.”,
aggiunse Tom.
“E va
bene!”, esclamò allora Danny, le provocazioni erano
servite al
loro scopo, “Volete sapere cosa è successo? Ho appeso Judd
al muro
perché sparlava su Alicia, siete
contenti
adesso?”
Alcuni dei
loro vicini si voltarono incuriositi, attirati dalle parole forti di
Danny. Il trio attese che la curiosità scemasse, rimpiazzata
dalla
solita confusione che popolava la mensa. Jones tornò alla
tortura
della sua carne grigliata, i due si guardarono con comprensione.
“L’ho preso per il collo e l’ho
sbattuto contro la parete.”, aggiunse Danny, con tono più
moderato.
“Hai fatto
bene.”, disse Tom.
“Dici?”,
chiese retoricamente l’altro, “E’ un bene prendere
una persona
e malmenarla?”
“Non
lo hai fatto, Danny.”, si mosse allora Dougie, “Hai reagito
ad
un’offesa, si chiama
legittima difesa.”
“Mi è stato insegnato che non si usa
violenza contro altra violenza.”, ripeté Danny.
“Lei
lo sa del problema che hai
avuto?”
La
domanda doveva arrivare, prima o poi, e Tom non si sentì in
colpa
per avergliela posta.
“No.”
“Dovrebbe.”, ancora Tom.
“Si spaventerebbe.”
“Capirebbe.”, lo corresse Dougie.
Jones esitò
“No.”,
disse poi, “Avrebbe paura che le possa fare del male.”
“Sai che non accadrà mai.”,
volle convincerlo Dougie, pienamente sicuro delle sue parole,
“Danny,
lo sappiamo tutti e tre che non lo farai.”
“Sei altrettanto sicuro che Alicia la
penserà allo stesso modo?”, lo sfidò Jones.
“Sì.”, risposero Tom e Dougie,
in coro.
Danny scosse la testa, era fermo della sua
posizione e non sarebbero mai riusciti a fargli cambiare idea, a meno
che non fosse stato lui stesso a tornare sui suoi passi.
“Cerca
almeno di non pensarci.”, disse Tom, “Avete il concerto
stasera…”
“Non ho più molta voglia di
andarci.”
I due rimasero con un palmo di naso. Stupidi,
esterrefatti, idioti.
“Io…”,
disse ancora Danny, “Non voglio andarci
perché…”
Si bloccò. Videro la sua mano sinistra
chiudersi in un pugno stretto.
“Perché
stavo bene.”
Non lo
capivano.
“In quale
senso?”, domandò Tom.
“In
un unico senso, Fletcher.”, lo seccò Danny, “Stavo
bene nel
fargli del male.”
“Era
perché gli stavi dando una lezione.”, disse l’altro,
“Credimi,
è così.”
“Danny,
adesso è tutto ok.”, Dougie rincarò la dose,
“Non è più come
prima…”
“E se ti
stessi sbagliando?”, ringhiò Danny.
Poynter
lasciò il tavolo, dimenticando di proposito il suo vassoio.
Stava camminando per il corridoio
a tutta velocità, dritto verso l’aula di informatica.
Doveva
ancora finire di aggiustare un vecchio pc: lo aveva smontato e
rimontato almeno sette volte, ma non c’era niente di meglio che
sfogarsi su di una carcassa di metallo e circuiti per rilassare la
mente. C’era chi ascoltava musica, chi leggeva, chi scriveva o
disegnava: a lui bastava un computer, oppure il suo videogioco.
“Poynter…”
Si
voltò per scrupolo, non perché avesse avuto la vera
intenzione di
farlo.
“Oh… Alicia…”,
disse fermandosi, non l'aveva riconosciuta.
Le
andò incontro. Lei gli sorrideva debolmente, ferma sulle scale
che
portavano alla sala opposta a quella verso cui era diretto. Si
sedette accanto a lei.
“Pronta
per il concerto?”, le chiese, come se nulla fosse successo.
Come se fossero sempre stati amici, come se
non l’avesse mai odiata per avergli rubato
Jones.
Alicia
alzò le spalle, la risposta era alquanto scontata.
“Tranquilla, Danny non ce l’ha con
te.”,
le fece, “E’ che… Ogni tanto ha questi momenti, ma
passano
presto.”
“Lo spero.”,
disse la ragazza, guardando le proprie mani che si intrecciavano tra
di loro.
“Il fatto di
Judd lo ha scosso un po’. Dagli il tempo di riprendersi. In pochi
minuti starà meglio.”
Lei
annuì con un cenno della testa ed un piccolo sorriso. Sì,
era molto
carina, Dougie doveva ammetterlo, e capiva perfettamente perché
Danny ne era stracotto. Non la conosceva bene, ma alcune
dimostrazioni della sua personalità gli avevano fatto capire che
doveva essere una ragazza forte, una che sapeva quello che voleva, ma
non in quel momento.
Ogni
medaglia aveva due facce.
“E’
che…”, stette per dire Alicia,
ma non continuò.
“Puoi
parlarmi tranquillamente.”, la rassicurò, “So quando
un segreto
deve rimanere tale.”
“Vedi… Vorrei andare al concerto
senza
pensare a… A niente.”,
la vide chiudere gli occhi e la sentì sospirare, “Solo che
non ci
riesco.”
“Beh, se
quel coglione continua a comportarsi come un bambino, lo credo bene
che tu non possa riuscirci.”, le fece, “Vorrei tanto
prenderlo a
calci in culo… Col tuo permesso, ovviamente.”
Alicia rise, lo fece involontariamente stare
meglio.
“Fai pure.”,
disse poi.
“Non
ti capisco, Danny.”
“Non
importa che tu lo faccia.”
“E
invece vorrei.”
Anche
Danny si alzò dal tavolo e lasciò lì il suo
vassoio, sebbene
il regolamento
lo vietasse con severità.
“Jones,
dove stai andando?”, gli chiese Tom, ma non gli rispose.
Uscì dalla mensa, sentiva il suo amico
camminare dietro di lui e non gli importava.
“Jones, fermati!”
Era la terza volta in quella giornata che
qualcuno lo prendeva per un braccio e lo costringeva a fermarsi.
Nella
maggioranza
dei casi non sopportava il
gesto, tanto meno in
momento in
cui l’unica cosa che avrebbe voluto fare era cancellare se stesso.
“Ragiona!”, gli disse Tom,
guardandolo
dritto negli occhi, “Stai facendo del male ad Alicia.”
“Non l’avete mai potuta
soffrire.”,
disse al suo amico, “Perché ora tenete tanto a lei?”
“Ti fa stare bene. Qualunque persona che ci
riesca è la benvenuta.”
“Non
essere ipocrita.”
Quello
che vide quasi lo spaventò. Tom prese il respiro più
profondo che i
suoi polmoni gli permisero, chiuse gli occhi ed attese che la rabbia
passasse. In quell’aspetto erano profondamente simili e diversi:
entrambi cercavano di non dare mai in escandescenza per due motivi di
basilare importanza. Danny lo faceva per necessità, Tom era
naturalmente diplomatico. Era la classica persona che attendeva mille
anni per un grido.
“Danny,
piantala con queste cazzate.”, gli disse.
Entrambe le mani si posarono sulle sue
spalle. Le pupille premevano contro le sue.
“Devi convincerti che non c’è
niente di
male in quello che hai fatto a Judd. Quel figlio di puttana ha messo
le mani su Alicia, è stato tuo dovere fargli capire che non deve
più
azzardarsi. Se lo è meritato
e sei stato bene perché hai
finalmente
dato sfogo alla pressione che ti aveva messo sulle spalle…”
Jones non era capace di controbattere.
“Adesso dimmi.”, si riprese Tom,
“Ti
sembra giusto che Alicia stia seduta sulle scale dell’ala ovest a
parlare con quell’imbecille di Poynter, mentre tu stai qui a
discutere sul fatto che sia
giusto o non giusto mettere le mani addosso a Judd, che non
esiterebbe un secondo a fare altrettanto con te, senza motivo?”
Danny si voltò verso i gradini: a molti
metri da loro Alicia e Dougie parlavano
e ridevano. Non fu
gelosia quella
che provò, ma profonda vergogna.
“Ecco!”, esclamò Tom,
“Adesso va’ da
Alicia, salvala da quel cazzone e portala a questo cazzo di concerto,
prima che dica talmente tante volte la parola cazzo da costringermi a
lavare la bocca con il sapone.”
Danny
aggrottò le sopracciglia. Tom ansimava per le troppe parole
dette
senza riprendere un briciolo di fiato.
“Cazzo?”,
gli fece.
“Cazzo!”,
rispose Fletcher, “E togliti dal cazzo, Jones!”
“E mi raccomando, fai delle
fotografie decenti o ti distruggo il poster.”
“Provaci e mescolo
i tuoi smalti.”
Era
buffo vederli becchettarsi tra loro,
Alicia era figlia unica e non aveva mai
potuto godere della presenza
di qualcuno così vicino a lei .
“Lasciami andare o rimarremo imbottigliati
nel traffico.”, disse Danny, liberandosi dalle raccomandazioni
della sorella.
In fin dei
conti Alicia si sentiva un po’ in colpa per averle preso il
biglietto, ma
non più di un
tanto, doveva essere sincera. Salutarono anche sua madre, che
augurò
loro buon divertimento, e salirono in auto
pieni di trepidazione. Avevano i
biglietti, il motore sotto al culo, mancava solo di arrivare alla
Wembley.
Si ritrovarono
davvero in mezzo al peggior traffico della storia londinese, ma erano
comunque sorprendentemente tranquilli: nonostante la partenza in
largo anticipo, quei due posti lato palco erano per loro e nessun
altro avrebbe potuto occuparli. Bloccati sotto la pioggia, mentre lo
stereo riproduceva una stazione radio qualunque, ebbero il momento di
fare il punto della situazione. Da quando si erano ricongiunti,
davanti alle scale dell’ala ovest, nessuna parola era stata spesa
su quella mattinata.
“Uhm…
Alicia.”, le fece Jones, cogliendola soprapensiero, “Mi
dispiace
per oggi.”
“Non ti
preoccupare.”, rispose lei con un sorriso sincero,
“Può
capitare.”
“Non
succederà più, te lo prometto.”
Le
prese la mano ed incrociò le dita con le sue.
“E’ che Judd… Mi ha
infastidito.”, si
spiegò Jones, “Mi ha…”
Il
trillo del suo
cellulare lo
interruppe. Si
scusò e recuperò quel coso infernale nella tasca della
giacchetta.
Sullo schermetto esterno era illuminato il nome di suo padre.
“Pronto?”
“Ciao,
Allie…”
“Ciao
papà.”, rispose, e lanciò uno sguardo a Jones.
“Come stai?”,
le chiese lui.
“Bene,
me la cavo… La vacanza?”
La stretta delle dita di Jones si fece più
forte.
“Alla grande.
E il concerto?”
“Stiamo…
Per entrare. C’è… Un sacco di gente.”
“Lo
credo bene.”, rispose Adrian, “Beh…
Comportati educatamente. Ciao!”
“Ciao…”
Chiuse il cellulare e lo ripose. Era stata la
telefonata più breve di tutta la sua vita.
Non lo sentiva da quando
era partito, tra di loro non c’era stata alcuna telefonata,
né un
messaggino. Niente, come se lei fosse stata orfana ed Adrian non
avesse mai avuto una figlia.
“Cosa
ti ha detto?”, le domandò Danny.
"Niente,
che in Svezia va tutto bene.”, disse con brevità.
A Danny non bastò quella patetica bugia e
le
chiese di essere sincera.
“Parliamone
dopo… Ci stai?”, gli disse.
In
quella serata esisteva una sola cosa: il concerto. Tutto il resto era
bandito e l’emozione concessa era soltanto
la gioia di assistervi. Nient’altro.
“Ok.”,
Jones accettò quell’accordo, “Ne parliamo
dopo.”
Alicia scoppiò in lacrime appena
Springsteen salì sul palco. Divenne una fontana, singhiozzava e
rideva, era uno spettacolo comico a cui Danny si era imposto di
resistere, una volta raccolto tutto il suo self-control. Forse
reagiva in quel modo per la scarica di adrenalina positiva, forse
perché durante tutta l’attesa la sua agitazione non aveva
fatto
altro che aumentare esponenzialmente. Danny non poteva dirlo,
riusciva solo ad osservarla e a chiedersi se
prima o poi smesso di piangere, una
volta
iniziata la prima canzone. Ce ne vollero cinque, tanto che gli
spettatori vicini si preoccuparono per il suo stato emotivo.
“Tranquilli!”, gridava Danny,
oltrepassando i decibel della musica, “E’ felice di essere
qua!”
“Sembra una pazza del manicomio!”,
esclamò uno di loro.
Quel
tizio non aveva pienamente torto, ma si beccò comunque
un’occhiata
torva. Springsteen era davvero vicino. Vicinissimo.
Così vicino che Danny, quando lo aveva visto camminare dal retro
del
palco fino al suo microfono, era rimasto senza fiato. Mettersi a
gridare e sbraitare non era cosa da lui, né da persona sana di
mente, così si era limitato a fissarlo con occhi spalancati fin
quando il pensiero di Alicia piangente al suo collo non era tornato a
fare capolino nella sua mente.
In
tutti i concerti precedenti, Danny e sua sorella si erano sempre
dovuti accontentare di posti in piccionaia: ultima gradinata, ultimo
anello, ultimi degli ultimi, e non importava quanta velocità avevano
impiegato
per comprare
i biglietti. Si chiese come Vicky avesse potuto avere quei due posti,
l’Arena era andata completamente sold out a mezzora
dall’apertura
delle vendite.
Davanti a loro nessuno, soltanto
la balaustra, e sotto di essa il palco.
“Oddio!!!”, Alicia gridò nel
suo
orecchio.
“Calmati!”,
sbraitò Danny ridendo, “Non sta succedendo niente di
male!”
“Sta venendo qua!!! Sta venendo
qua!!!”
Il boato della folla annientò ogni altro
suono. Springsteen, accompagnato dalla sua chitarra e
dall’armonica
al collo, stava camminando verso la curva sinistra dell’arena,
loro
si trovavano proprio al suo inizio. Alicia prese a sbracciarsi e a
gridare il suo nome, tanto che Danny dovette stare attento ad evitare
il suo gomito destro, sempre in potenziale collisione con i suoi
occhiali.
Dalla sesta
canzone in poi il temperamento schizofrenico ed agitato di Alicia
prese a scemare, lasciando lo spazio ad una visione più calma e
regolare dello spettacolo, che fino a quel momento era stato comunque
magnificamente fuori da ogni sua aspettativa. Springsteen non era da
solo, c’era tutta la E-Street Band al completo, e l’arena
cantava
con loro.
“Ti sei
calmata?”, chiese ad Alicia, che tra una canzone e l’altra
si
stava asciugando le lacrime.
“Sì…”,
rispose lei, “Scusami… Ma non riesco a trattenermi!”
“Non ti preoccupare… Lo terrò
a mente!”
Tranquillizzati entrambi, le loro voci
tornarono ad unirsi ai cori. Abbracciò Alicia e si
dondolò insieme
a lei al tempo della successiva ballata. L’emozione che Danny
provava era indescrivibile, mai come quella volta aveva assistito ad
un concerto con il cuore martellante in gola, da far fatica a
respirare. Era felice di essere lì con lei
e di averla resa
a sua volta felice. Sentiva di poter fare qualsiasi cosa, di poter
sconfiggere tutte le paure, la carica che aveva dentro era così
forte da sentirsi come drogato.
“Oh
mio Dio!”, tornò Alicia alla carica.
“Che
succede?”, le fece.
“Jones,
ascolta!!!”, disse lei, “E’ la mia canzone
preferita!”
Comprese. Se escludeva i dvd degli shows, non
aveva mai sentito Because The Night
suonata dal vivo con le proprie orecchie.
“Ho un’amica a cui piace
molto!”, le
gridò a pieni polmoni, ma era sicuro che Alicia non lo stesse
assolutamente ascoltando, “Chissà se è qua con
noi!”
L’evidenza era tale che Danny lasciò
perdere Allie, tenendola per sé. Non si ricordava se sarebbe
venuta
al concerto, quasi se ne rammaricò, avrebbe potuto essere una
buona
occasione per incontrarsi per la prima volta. Molto probabilmente non
avrebbe gioito della presenza della
sua ragazza, ma cosa poteva farci?
Nel frattempo, Alicia era incontenibile e
cantava così forte che Danny fu costretto a riderle in faccia.
Era
troppo divertente!
Il
concerto stava volgendo al termine. Due ore e un quarto di musica,
cori e mani alzate, accendini,
flash e telefoni sventolati in aria.
L’arena al completo stava chiedendo un bis e loro due non erano
da
meno. C’era una voce unica che chiedeva un’altra canzone,
ma
Springsteen ne aveva già cantate quattro in più rispetto
alla
scaletta ufficiale, non li avrebbe mai accontentati. Si trovava sul
palco, stava discutendo con alcuni dei suoi musicisti: il pubblico si
trovava in un rumoroso silenzio di trepidazione, c’era davvero la
possibilità che lasciasse tutti a bocca asciutta.
Tornò a grandi passi verso il microfono,
un’alta marea di flash impazziti illuminò la Wembley.
“Ok, Londra, un’altra
canzone.”, disse.
Non potevano chiedere di meglio e tutti lo
ringraziarono con urla ed applausi.
“Ma
una soltanto.”, aggiunse.
Una
o cento, era lo stesso. Il concerto sarebbe durato il tempo di
un’altra canzone. Alicia strepitò, saltava
ed applaudiva,
Danny non era da meno. Durante tutto lo show avevano cantato, si
erano tenuti per mano, si erano baciati… Lui ed Alicia, come non
avrebbe mai pensato che sarebbe successo nella sua vita. Né con
lei,
né con un’altra ragazza, ma a Danny cosa importava? Era
lei che
aveva sempre voluto. Prima di Alicia non aveva mai aperto abbastanza
gli occhi ed il cuore per qualcuna: non ne aveva avuto il coraggio,
né aveva incontrato una persona che fosse riuscita in un attimo
a
trapassarlo da parte a parte, come la freccia scoccata
dall’arciere
esperto verso il centro bersaglio più lontano.
“Cosa c’è?”, gli chiese
Alicia.
Danny si riprese, accortosi che per tutto
quel lasso di tempo l’aveva fissata con aria stupidamente
innamorata.
“Oh…
Niente.”
“Qualcosa
che non va?”, si preoccupò lei.
Ascoltò
le note riprodotte dalle grandi casse che circondavano tutto il palco
e le riconobbe subito.
We
said we'd walk together, baby, come what may
that come the twilight should we lose our
way
Alicia lo
guardò con occhi felici.
“E’
la tua canzone!”, esclamò.
Evidentemente
sì. Alicia si avvicinò e lo baciò.
“Non
sei contento?”
Sì, lo
era, ed anche molto.
“Ha
suonato entrambe le nostre canzoni preferite!”, strillò
ancora
Alicia, incontenibilmente euforica.
We
swore we'd travel, darlin', side by side
we'd help each other stay in stride
but
each lover's steps fall so differently
Si
sedette, poteva tranquillamente vedere ogni particolare dello show
anche da lì, sebbene avesse passato tutto il tempo in piedi.
Nonostante quello, non
era la vista quello a cui lui teneva. Danny notava lo sguardo
impensierito di Alicia, ma non c’era assolutamente niente di cui
preoccuparsi. Non stava male, non era triste.
Era la sua reazione naturale a quella
canzone, niente di più.
Now
everyone dreams of a love lasting and true
but
you and I know what this world can do
So
let's make our steps clear that the other may see
Voleva
solo ascoltare.
Fece
cenno ad Alicia di sedersi, ma non accanto a lui, bensì sulle
sue
gambe. Lo accontentò, passando un braccio sulle sue spalle, e la
guancia di Danny si fermò accanto alla sua. Non lo affermava con
estrema precisione, ma doveva essere una delle prime canzoni di cui
aveva ricordo. Tantissimi fatti erano legati a quelle note, non uno
meno importante dell’altro, compreso l’attimo che stava
vivendo.
Così come era abitudine di Danny, Alicia gli dette un bacio
sulla
testa, su quell’ammasso scomposto di ricci, che poi
scompigliò con
le dita. Gli sorrise.
“Grazie.”, lesse poi sulle sue labbra.
Ricambiò con un sorriso, poi tornò
alla
visione del concerto. Non si accorgeva del piccolo muoversi costante
del propri corpo, che stava cullando entrambi.
Se questa è la
felicità, la voglio vivere per sempre,
si
disse Danny. Non aveva mai chiesto troppo alla Vita, forse niente, e
allora quella sarebbe stata la sua unica richiesta.
Da due mesi a quella parte, un giorno dopo
l’altro gli era stato regalato qualcosa
di inaspettato, sorprendente, che spesso lo aveva
spaventato a morte. In quegli stessi due mesi, tra alti e bassi era
successo qualcosa che
aveva stravolto il suo modo quotidiano di vivere. Avvolse con maggior
calore quel qualcosa,
che sedeva sulle sue gambe e lo ricambiava con un abbraccio
altrettanto caldo.
I suoi
amici potevano prenderlo in giro, dirgli che si stava comportando
come una ragazzina e che i veri uomini non lasciano se stessi
perdersi in quei momenti di esasperato quanto diabetico romanticismo.
Lo avrebbero accusato di essere composto al novantanove percento di
disgustosa melassa primordiale
e consigliato
invece di cercare nell’altro sesso qualcosa di più
soddisfacente e
meno appiccicoso. Danny accettava tutti i loro suggerimenti, da
quelli più stupidi a quello più intelligenti, se mai quei
due
fossero stati in grado di produrne
almeno uno; voleva loro bene e li
rispettava, si fidava di loro come nemmeno di se stesso. Ma i suoi
amici, fino a prova contraria, non erano lui.
Non erano Danny Jones, un diciottenne
all’ultimo anno di liceo pateticamente innamorato di una sua
compagna di classe, spuntata da Londra uno giorno come un altro.
Attorno alla sua testa potevano volare tutti i cuoricini del mondo,
lui non li avrebbe di certo scacciati, non gli davano quel fastidio
che sembravano creare nel suo prossimo più vicino. Oltre a
quello,
oltre ad Alicia tra le sue braccia ed al suo cuore impazzito,
c’era
Springsteen che suonava dal vivo la sua canzone preferita. C’era
che se ne fregava di chi lo prendeva in giro. C’era che avrebbe
voluto fare qualsiasi cosa per premere il pulsante pausa
e rimanere sospeso in quell’istante.
C’era
che Alicia gli sorrideva e gli dava un bacio sulle labbra.
C’era che il futuro non lo spaventava, se
aveva lei accanto.
C’era
che i suoi sentimenti stavano per esplodere.
Ancora inebetito, Alicia tornò a
sorridergli. Danny posò un dito sulle labbra fini di lei.
Darlin’,
I'll wait for you
If
I should fall behind wait for me
Era
il verso più importante di tutta la canzone. Il concerto si
concluse
con l’ultimo accordo, la Wembley esitò nel silenzio e lo
premiò
con un lungo applauso a cui non si unirono.
Non
era facile farlo baciandosi.
Ci
vollero diversi chilometri prima che il silenzio tra loro
scongelasse, erano ancora troppo immersi nelle emozioni per parlarsi.
Fu Danny a farlo.
“Alicia?”,
la chiamò.
Lei si voltò.
Si guardarono con complicità e si sorrisero.
“Senza parole.”, disse lei, e
scoppiò in
una risata genuina che lo travolse all’istante.
Le parole arrivarono quando la macchina si
fermò davanti a casa di Alicia: Danny l’aveva convinta a
rimanere
ancora una notte da lui, si erano fermati per farle prendere qualche
altro vestito di ricambio. Dopo due ore, milioni di ‘ti
ricordi quando…’,
‘hai visto'…, ‘e
quando lui…’,
Alicia
si assentò ed entrò nella villetta di famiglia. In quei
centoventi
minuti avevano passato in rassegna ogni attimo dello spettacolo,
sottolineando i momenti epici, quelli divertenti, quelli che
sarebbero rimasti per sempre nel loro cuore. Insomma, il concerto
venne rivissuto da entrambi sotto forma di parole, emozioni sulla
pelle e canzoni rivisitate in coppia. A Danny non piaceva cantare in
presenza di altri, ma data la poca ritrosia di Alicia
nell’intonare
la musica, anche lui non si fece troppi problemi.
Non avrebbe mai potuto chiedere di meglio.
Mai.
Nonostante alcune fini gocce di pioggia
avessero iniziato a bagnare il parabrezza, Danny uscì
dall’auto e
osservò il posto in cui lei viveva, era la prima volta che lo
vedeva; anche se, quando uscivano
assieme, era lui a passarla a prendere,
era sempre rimasto sulla strada. Certo, la sua famiglia doveva
passarsela proprio bene: in confronto, casa sua sembrava una topaia.
Non era esageratamente grande e maestosa, affatto, ma non aveva
niente a che vedere con le comuni case inglesi. Due piani, grande
tetto spiovente che la rendeva visivamente più bassa di quanto
fosse
stata in realtà, finestre ampie con infissi chiari. Non riusciva
a
capire a quale gusto architettonico si fosse ispirato il costruttore,
era una casa piuttosto strana e fuori dal comune. In compenso, era
circondata da una siepe alta e spessa, così come tutte quelle
intorno a loro, ed un alto cancello sbarrava la strada a chiunque.
Non comprendeva se il giardino sconfinasse al di là della
costruzione, ma era molto probabile che fosse in quel modo: case del
genere avevano sempre dei grandi spazi verdi sul retro, mentre la sua
aveva una specie di tappeto verdastro secco. Non c’era cancello
dai
Jones, la sua abitazione dava direttamente sul marciapiede.
Provenivano da due
estrazioni sociali completamente diverse, ma Danny non percepiva
assolutamente quella differenza.
“Hey!”,
lo chiamò Alicia, “Ci sono.”
Chiuse
il portone di legno massiccio e si avvicinò all’auto.
Danny si
apprestò ad entrare di nuovo nell’abitacolo, ma una strana
espressione nel volto di Alicia lo distrasse dalla sua intenzione.
“Ma… Cos’ha
quest’auto?”, la sentì
dire.
“In che senso?”,
le domandò.
“Non so…
La ruota…”
Lasciò lo
sportello aperto e fece il giro dell’auto. Vide subito quale
fosse
stato il problema: la ruota anteriore destra era completamente
sgonfia, il cerchione toccava terra.
“Cavolo…”,
disse Danny, osservandola.
“La
sai cambiare?”
Come in
tutte le situazioni parallele vissute in tv, le gocce di pioggia,
prima fini e impercettibili,
iniziarono ad appesantirsi, Danny le poté sentire bagnare la sua
fronte ed appannargli la vista.
“Sì,
l’ho già fatto una volta.”, rispose, ignorando la
pioggia, “Non
ci vorrà molto.”
“Sicuro?”,
chiese Alicia, “Perché sta mettendosi a piovere.”
“Tranquilla, ci metterò solo
diec-…”
Non fece in tempo a terminare la frase,
grosse secchiate li colpirono entrambi.
“Entriamo in auto!”, disse Danny ad
Alicia.
“Macchè!”,
esclamò lei, “Andiamo in casa!”
“Chiamo
e ci facciamo venire prendere!”, la trattenne fuori.
“Sono le due passate! C’è
l’auto di
mio padre!”
“Ma non
hai le chiavi, te le ha nascoste, non ti ricordi?”, le fece.
“Le cercheremo!”
“E
se non le troviamo?”
Alicia
si spazientì.
“Sta
piovendo, piantala di opporti e vieni in casa!”
Entrarono che sembravano essere caduti in una
piscina, erano entrambi fradici.
“Seguimi.”,
gli disse Alicia.
Lasciò
una scia d’acqua e di impronte che, se fosse accaduto
casa sua, Kathy avrebbe iniziato a sbraitare come un’indemoniata.
Il pavimento di piastrelle
rigettava ogni goccia d’acqua
piuttosto
che assorbirla.
“Rimango
qua.”, si oppose ancora, “Sporco tutto.”
“Fregatene, Jones!”
“Ma dovrai pulire…”
Alicia roteò gli occhi e ripercorse il
breve
tratto, lo prese per un braccio e lo costrinse a seguirla. Si
guardò
indietro, due coppie di impronte
visibilissime andarono a macchiare le piastrelle bianche. Si chiese
dove stessero andando.
“Le
chiavi dovrebbero essere qua, in cucina.”, gli spiegò
Alicia.
Non ebbe nemmeno il tempo di guardarsi
intorno, lo catapultò in una stanza di mobili in acciaio e legno
bianco.
“Tu guarda
dentro ai cassetti.”, gli ordinò Alicia, con decisione,
“Io
dentro agli scompartimenti.”
“O-ok…”,
rispose Danny, che trovava piuttosto sconveniente andare a frugare in
casa d’altri, conoscendone a malapena gli occupanti.
Esitò, poi aprì il primo cassetto e
lo
trovò pieno di posate argentate.
“Muoviti!”,
esclamò Alicia, che era salita sul ripiano della cucina per
arrivare
più in alto, e le ginocchia bagnate toccavano il lato del
lavello di
marmo.
Iniziò a
rovistare qua e là, alla ricerca di un possibile mazzo di
chiavi. Si
ricordava del SUV che aveva accompagnato Alicia al cinema, la prima
volta che erano usciti insieme, molto probabilmente avrebbe trovato
una di quelle grosse chiavi nere, magari completamente in
plastica…
“Qua non ci sono.”,
disse Alicia, saltando giù dal ripiano, “Vado a cercarle
altrove.”
E sparì in un lampo, diretta chissà
dove.
Danny continuò nella sua piccola ricerca, ma una volta conclusi
i
cassetti non se la sentì di infilare
le mani altrove. Stava iniziando ad
infreddolirsi, i vestiti bagnati si erano
appiccicati alla pelle e non voleva ammalarsi, era meglio trovare un
modo per tornare a casa. Preferì così muoversi tra le
stanze alla
ricerca di Alicia: andò a colpo sicuro, la sentì
imprecare
sonoramente dietro ad una porta di legno e vetro colorato.
“Alicia.”, le fece, “Non
l’ho
trovata…”
“Nemmeno
io!”, esclamò lei, “Deve essersela portata dietro,
ma io contavo
di recuperare almeno quella di scorta!”
“Non
preoccuparti.”, volle calmarla, “Chiamo mia sorella e mi
faccio
venire a prendere con la sua auto.”
“Jones,
sono le due passate, le troncherai il sonno in due.”, disse lei.
“E cosa vuoi che sia, è praticamente
insonne.”
“Appunto,
metti che è riuscita ad addormentarsi, la disturberai.”
“Alicia, non pensarci.”, insistette,
“Chiamo Vicky.”
“No.”,
si oppose lei per l’ennesima volta, “C’è anche
un’altra
soluzione.”
Danny non
comprese, aggrottò la fronte ed attese con le mani sui fianchi.
“Potresti… Rimanere qui,
perché no? E’
quasi una settimana che dormo da te, potrei ricambiare il favore.”
Poteva… Ma no, era meglio di no. Non aveva
nemmeno un pigiama con sé.
“Non
ho niente per dormire, e poi non devi per forza sdebitarti con
me!”
“Beh…
Dove sta il problema?”
Doveva trovare un’argomentazione valida ed
inconfutabile al più presto, altrimenti Alicia avrebbe avuto la
meglio.
“Jones, prendi
il telefono ed avverti. Te ne stai qua.”, lei interruppe ogni
dibattito, “Ti darò un pigiama di mio padre.”
“Non se ne parla!”
“Ok, va bene.”, rispose lei,
incrociando
le braccia ed annuendo.
Danny
si fece perplesso per la seconda volta.
“Ok…
Va bene?”, le fece.
“Sì,
va bene.,”, rispose Alicia, con tranquillità,
“Vattene fuori e
cambia la ruota sotto il temporale. Fammi sapere quando torni a
casa.”
Alicia
spuntò dalla camera di suo padre con uno dei tanti pigiama di
Adrian
tra le mani. Stava rabbrividendo dal freddo.
“Quella
là è la stanza degli ospiti.”, indicò a
Jones la porta
verdognola, “Puoi farti una doccia, quello che vuoi, hai un bagno
tutto per te.”
“Non è
che tuo padre si arrabbierà?”, le fece, ancora insicuro.
“No, fidati.”
Lo
obbligò a voltarsi e lo spinse, per incoraggiarlo a seguire i
suoi
dettami.
“Adesso devo
cambiarmi. Ci troviamo in soggiorno tra quale minuto.”
Sparì nella propria stanza e, dopo essersi
tolta velocemente ogni vestito da dosso, si chiuse nel proprio bagno
e si fece una doccia caldissima, tanto che quando ne uscì
dovette
lottare contro la condensa formatasi ovunque. Conoscendo Adrian, se
fosse venuto a conoscenza delle decisioni prese da lei in
quell’ultima settimana, avrebbe sollevato un putiferio
così alto
da impedire la vista del sole per settimane. In quel mese con Jones
le sue paranoie da genitore apprensivo non l’avevano mai
lasciata,
tanto che si erano entrambi abituati a telefonate improvvise,
richieste di messaggi ad una determinata ora della serata… Dopo
poco avevano
smesso di farci caso.
Se
avesse saputo che se n’era andata a dormire da Jones,
l’avrebbe
chiusa in casa per almeno un anno. E se avesse saputo che Jones era
rimasto nella villetta, o che vi aveva anche solo messo piede senza
il suo consenso, sarebbe stata spedita realmente in un collegio del
nord dell’Inghilterra.
Nel
mentre l’asciugacapelli compiva il suo dovere, Alicia venne presa
da un dubbio atroce.
Dove
sei di bello, sorellina? Non sei a casa mia, vero?
Mark
doveva aver capito qualcosa, o anche tutto. Se avesse fatto la spia?
Finì di asciugarsi i capelli con quel pensiero in testa. Mark
sarebbe stato capace di smascherarla senza alcun rimorso, non ci
pensava due volte a darle la colpa di ogni cosa se ne aveva
l’occasione. L’importante era umiliarla e liberarsi di
lei…
L’importante era farla impazzire.
Uscì
dal bagno e si rivestì con un pigiama pulito. Il pensiero di
quello
stronzo non aveva il diritto di rovinarle la serata, c’erano
ancora
tanti episodi del concerto che non erano stati tirati fuori e la
notte era aperta ancora davanti a lei. Prima di quella volta, non
aveva mai avuto nessuno con cui condividere tutti i ricordi;
esplorarli ancora le permetteva di inchiodarli nella mente, e non
dimenticarli più. Era stato lo show più bello a cui aveva
assistito
e lo aveva apprezzato fino in fondo. Si vergognava un po’ al
pensiero della sua reazione alla vista di Springsteen, ma non aveva
potuto farne a meno… Fortunatamente Danny l’aveva capita,
non
l’aveva derisa e l’aveva sostenuta, sebbene quello che
aveva
provato non era stata
nient’altro che un’esplosione incontrollata di gioia.
E poi.
If
I Should Fall Behind.
Non
riusciva a descriverlo. Non ne era capace.
Una
cosa doveva però confessarla. Aveva pensato a Ratleg. Anche lui
adorava quella canzone, anche lui era stato presente al concerto,
Alicia non sapeva dove, ma in quella folla c’era stato anche lui.
Gli aveva dedicato un attimo, uno soltanto, poi l'aveva riposto in un
cassetto e,
una volta chiuso, aveva messo
la chiave in un luogo sicuro ed era tornata da Jones. Era lì che
doveva stare ed Alicia era contenta di avergli trovato una
casa.
Danny
aveva ascoltato la canzone ad occhi chiusi, la guancia appoggiata
contro la sua.
Now
everyone dreams of a love lasting and true but you and I know what
this world can do
So
let's make our steps clear that the other may see and I'll wait for
you
If I should
fall behind, wait for me
Alicia
doveva capire che cosa il suo cuore aveva contenuto in quel momento.
Lasciò la sua stanza e
scese al piano inferiore. Sentiva il rumore della tv accesa, Jones
doveva essersi accomodato e, infatti, lo trovò davanti allo
schermo.
Proiettava una partita di calcio e riconobbe subito quale squadra
stesse giocando.
“In
casa Lewis è vietato tifare per il Bolton!”, lo colse alle
spalle.
Danny sussultò e si voltò.
“Non è colpa mia se ti hanno educata
nel
modo sbagliato!”, le rispose ridendo, “Avanti, siediti
accanto a
me e guarda come giocano i grandi!”
I
grandi… Una squadra di bifolchi del nord. Alzò le
sopracciglia e
lo raggiunse, senza esprimere alcun pensiero al riguardo della sua
ultima affermazione.
“Ecco,
vedi.”, le disse, indicando la televisione, “Avessi uno
schermo
del genere a casa mia e la pay-tv come hai tu, potrei stare ore ed
ore a guardarmi queste partite.”
“Sei
solo un maschio.”, lo rimbeccò, come se quella parola
fosse stata
un’offesa, “Staresti sul divano con una
maglietta piena di macchie, la birra in mano e il rutto pronto.”
“Quello è Dougie con la sua Play
Station.”, la corresse lui ridendo, “Io me ne starei
composto.”
Jones era un tipo di ragazzo precisino e
perfettino, ma nessuno resisteva alla potenza de decivilizzatrice del
calcio. Né lui, né Alicia: prima che Adrian si
risposasse, aveva
avuto da suo padre il nullaosta per le parolacce, ma solo se gridate
durante le partite di calcio.
“Andiamo,
non ti capita mai di insultare l’arbitro?”, gli fece,
provocandolo, “O di urlare 'porca puttana' ad un corner tirato da
cani?”
“Sì, beh…
Che c’entra!”, esclamò l’altro,
“Però non me ne sto a
ruttare come un maiale!”
Alicia
volle stupirlo.
Da
piccola ci riusciva, poi Adrian si era lievemente arrabbiato con lei.
Inghiottì un po’ d’aria, attese, e poi il resto
venne da solo.
Jones sgranò gli occhi, lei incrociò le braccia ed attese
la
prossima reazione.
Fu una
risata isterica travolgente
___________
Note dell'autrice:
If I should fall behind di Bruce
Springsteen è citata senza alcun scopo di lucro. Polpettone
diabetico.
Ringrazio
Ciry e Queen F per la recensione, nonchè tutti quelli che
leggeranno e/o recensiranno questo capitolo!
Ruby
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