Mio fratello è figlio unico.

di skonhet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** inizio? ***
Capitolo 2: *** fine? ***
Capitolo 3: *** prologo? ***



Capitolo 1
*** inizio? ***


Mio fratello è figlio unico.

Il vociare confuso che proveniva dalla vecchia TV, resa funzionante grazie a metri di magicscotch, si confondeva pallido con la luce flebile che illuminava una mediocre stanza quasi del tutto vuota, donandole un aspetto artificiale e alieno. Questo era un ottimo modo di passare il tempo se il tuo nome era Albus Severus Potter e la tua massima aspirazione di vita è quella di guardare qualche squallido programma babbano con schegge di popcorn e mais incastrato tra i denti e briciole di patatine attaccati alla pelle, steso su un divano malmesso e recuperato accanto a qualche cassonetto dell'immondizia. Giornate come quella, passate ad aprire impavido il frigo nonostante la presenza di sostanze risalenti a qualche fiorente epoca lontana, oppure a spulciare, più fiduciosi, cassetti ricchi di schifezze strapazza fegato, erano la vera essenza della sua esistenza, una difficile e faticosa esistenza, aggiungerei in onore del prode Albus.

Un pendolo stile imperio, assolutamente fuori luogo rispetto al resto dell'arredamento, segnava le sette di pomeriggio; l'orologio che aveva al polso, regalatogli dal padre, come di tradizione, al suo diciassettesimo compleanno, era fermo da ormai un secolo alle quattro di mattina. Albus sapeva anche che la piccola radiosveglia che accumulava polvere sul suo comodino, inutilizzata, segnava sempre almeno dodici ore in meno rispetto a quello da polso. Ma indubbiamente era notte fonda, considerando che le palpebre si facevano sempre più pesanti, fino a chiudere come serrande l'unica parte del corpo del ragazzo ad avere ancora un'apparente vitalità (o forse, erano stati proprio loro, gli occhi, a perderla prima) e la sua testa non era più in grado di formulare un pensiero coerente.

Sbadigliò, lasciando scivolare dalla mano il telecomando, il quale produsse più fracasso del dovuto. Si girò, mugugnando qualche parola di scoraggiamento, puntando la fronte allo schienale del divano, rannicchiato in posizione fetale quasi fosse in cerca di conforto da chissà cosa. Quando il grande pendolo fece risuonare il suo ottavo rintocco dissonante, un forte latrato seguito da un leggero miagolio attraversò il cortile della casa, giungendo fino alle orecchie di Albus. Poteva anche essere incatenato nella più profonda quiescenza, ma James, in un modo nell'altro, riusciva sempre a dare una presenza di sé. Lo sentì schernire e baciare e abbracciare la ragazza che era con lui; poteva essere Emily, Anna, oppure Jess, o magari tutt'altro, ma quello che pregò in quel momento è che non fosse così affascinante da arrivare alla camera da letto. Un tempo James si faceva parecchi scrupoli nel portare le ragazze in casa,preferendo di gran lunga la scelta di poter fuggire ogni mattina da un letto diverso, ma sopratutto per evitare di togliere il giaciglio al fratello. Ma da quando Albus si era piazzato a vita sul divano, questo problema non persisteva e dunque aveva tutta la camera per sé. Non che non avesse tentato di farlo desistere dal lasciare il letto, ma il giovane Potter aveva ormai fatto di quel divano parte integrante del suo corpo; non poteva abbandonarlo, malgrado dormisse da schifo tutte le santi notti.

Quella sera la sorte decise di essere clemente con lui, ed ecco che James congedò la ragazza, facendo il suo ingresso di scena vittorioso, ma si lasciò un certo riguardo nel chiudere il più delicatamente possibile la porta alle sue spalle, sollevando tuttavia un nuvolone di polvere. Sbirciò oltre lo schienale, per osservare il fratello, e sorrise limpido alla vista dei suoi occhi sbarrati nel buio «Ehilà Tigre!» ruggì, scompigliandogli delicatamente la zazzera scura, riuscendo a strappargli un sorriso «Hai visto che tipa? » gli chiese, entusiasta, e Albus mentì, annuendo flebilmente, immaginando il tipo. Magra, curve esagerate, risata squillante -quello l'aveva sentito eccome- e fastidiosa, bionda&senzacervello; James non era mai stato troppo originale nella scelta delle ragazze, a dirla tutta, anche se una volta o due aveva variato, riuscendo persino a creare una relazione più o meno seria. Ma neanche tanto.

Passò qualche minuto di silenzio, rotto soltanto dal fischiettare allegro del maggiore, impegnato alla ricerca di chissà quale prelibata pietanza.

Malgrado l'allegria di James fosse quasi equivoca in quell'atmosfera lugubre e taciturna, Albus non riusciva mai a decidere se preferisse o meno la sua presenza; quando c'era lui nei paraggi era impossibile pensare ad altro, aveva così entusiasmo e voglia di vivere da essere protagonista sempre e comunque. Senza di lui, tuttavia, Albus riusciva a ritrovare quel piccolo sedimento di autostima, senza sentirsi morto e sottoterra.

James interruppe quella situazione così statica saltando lo schienale del divano -atterrando preciso nello spazio che le gambe di Albus avevano lasciato vuoto rannicchiandosi contro lo stomaco- con stretto al petto un pacchetto gigante di pistacchi, fingendo inizialmente di prestare attenzione alla TV, per poi cambiare soggetto. Albus si lasciò osservare senza staccare lo sguardo dalla stoffa consunta e squallida di quel divano di merda, sperando fortemente che la smettesse di analizzarlo con quell'espressione d'un tratto così intelligente. James non aveva mai chiesto nulla al fratello riguardo la sua situazione, pur sapendo che dentro la tasca sinistra di tutte le sue camice bruciava sempre la stessa foto di donna,e sentendo bene, almeno nei primi tempi, i singhiozzi soffocati nel cuscino, ma nei suoi comportamenti era spuntata, da chissà quale recesso di parentela col padre, quella premura snervante. Era sempre stato un fratello maggiore normale, di quelli ordinari, fastidioso, rompiscatole e prepotente. E malgrado la differenza fosse sottile, Albus la percepiva benissimo, come un pugno sullo stomaco. La percepiva eccome, ed era un comportamento anomalo, insensato. Lo odiava.

«Piantala» ordinò allora, piatto, e l'altro obbedì, abbassando la testa sui suoi pistacchi. Ecco, in un'altra occasione l'avrebbe preso a parolacce, si sarebbero tirati addosso due cuscini ridendo come sguaiati per poi finire con una frase del tipo : «ci facciamo una birra?». Ma di certo, non quella notte. Albus si tirò su, stropicciandosi gli occhi, come a voler cancellare le tracce di notti insonni, sviando lo sguardo del fratello, stavolta decisamente corrugato «Al ,lasciati aiutare».

Disse proprio così: Lasciati aiutare. Entrarono nelle orecchie di Albus, sibilando. C'era suo padre in quelle parole, suo padre nel colpo di James. Di nuovo.

Ormai da tempo il leggendario Harry Potter non si preoccupava dei piccoli crucci dei figli, accontentandosi di sentirli una volta a settimana e credendo ciecamente alle loro bugie. “Sì papà, James lavora, sì è un po' inconcludente ma lo conosci, ci sa fare. Certo che va bene al lavoro, papà! Giusto ieri ho concluso una sessione di processi straziante...sì sì, saluta mamma, ti verremo a trovare presto, certo” ed ogni volta che attaccava, inerme, sentiva l'impellente bisogno di risollevare la cornetta e rivelargli ogni suo problema, dai più insignificanti ai peggiori, lasciandosi consolare dalle sue parole gentili e delicate. Si copriva dietro al suo finto lavoro di avvocato babbano nascondendogli il suo insuccesso al ministero della magia. Raccontava di donne mai esistite per non dirgli di essersi perdutamente innamorato di una donna irraggiungibile. Inventava scuse per non fargli visitare casa e non mostrargli che razza di mobili si erano scelti non appena trasferiti. Certo, a suo tempo sembrava la vera tana di due uomini tosti, tutti donne e birra, ma ormai non era nient'altro che lo specchio dell'animo depresso di Albus.

Deglutì, aprendosi in un sorriso tirato «E' tardi James, ho troppo sonno stasera, davvero.» e così dicendo ridiscese, spingendo con i piedi verso il fratello, reclamando il proprio spazio. Ascoltò in silenzio James lasciare a terra il barattolo di pistacchi, alzarsi e dirigersi con religioso silenzio verso le scale.

«Tu hai sempre sonno, Al, quand'è che non ne avrai più?»

I passi su ogni scalino arrivarono alle sue orecchie come i rintocchi del pendolo, che proprio in quel momento scoccava le diciannove. La luce filtrò dalla finestra, e Albus si sforzò di non ricordare neanche quella mattina.


 

Note dell'autrice.

Francamente non so se questa è una one-shot o troverà un continuo. Ci tenevo particolarmente a scrivere di loro due,e cambiare un po' la figura bonaria e ovvia di Al. Nel frattempo,fatemi sapere cosa ne pensate (:

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Capitolo 2
*** fine? ***


Mio fratello è figlio unico.


Checché se ne dicesse riguardo il primogenito della famiglia Potter, di certo non che fosse stupido; James, al contrario, era tutt'altro che stupido. Forse un po' sempliciotto, a tratti infantile e fin troppo scalmanato, ma aveva un ottimo cervello e, per giunta, lo sapeva usare in maniera ottimale. E così quella mattina, di fronte ai suoi cereali preferiti affogati in litri di latte, stringendo convulsamente la sua tazza con un grosso stemma dei Cannoni di Chudley, si ritrovò a pensare per quale assurdo motivo si ritrovava in casa con una specie di ameba senza averlo richiesto a nessuno, quando non appena trasferiti lui e Albus facevano la coppia più scoppiettante di Londra. Poi era iniziato -per Albus- tutto quel periodo di esco-vado-torno-quella-quell'altra-camerachiusa-nondisturbare-risate-cazzate che era inevitabilmente finito con un evento che James non aveva ancora ben visualizzato. Di certo si trattava di qualcosa non troppo grave (o che comunque, non lo riguardava direttamente) ma allo stesso tempo era davvero tragico, contando che per tre settimane di seguito James era stato costretto a sentire i lamenti notturni del fratello senza saper bene cosa fare.

Dunque, il suo problema, non era tanto la stupidità, quanto la comunicazione. Non era mai stato un grande oratore, o almeno non in campo sentimentale; certo, era stato in grado di convincere Albus a tingersi i capelli di viola, di tatuarsi un grifone sulla schiena, di puntare dieci galeoni sui Caerphilly Catapults, di uscire con Margareth Collins, di trasferirsi con lui in quel buco di casa, di fargli scegliere mobili usati e scialbi, di non comprare un pc, di restare senza un lavoro per più di due mesi (ma quella volta aveva vinto Albus, poiché ritrovandosi a digiuno era stato costretto a correre ai ripari) e di fare un sacco di altre cazzate che James lo aveva persuaso a fare tanto per svagarsi. Ma parlare di donne che non lo riguardassero...Mai! Era un argomento troppo profondo, troppo personale. Cosa avrebbe mai potuto dirgli? Sembrava così maledettamente indifferente alle donne che incontrava, quando invece, a quanto pare, una era riuscito a metterlo nel sacco. E quella situazione, da ormai troppo tempo, gli stava stretta.

James inizialmente aveva attuato la tattica non vedo non parlo non sento convinto che quella depressione così repentina sarebbe passata come era incominciata, senza lasciare tracce del suo passaggio o conseguenze future. Purtroppo, però, si trattava sempre di suo fratello, e di ignorarlo così spudoratamente lo faceva sentire un verme. Fu così che nacquero i primi tentativi di approccio, che assomigliavano tutti più o meno a quello della notte precedentemente descritta; tuttavia non era mai riuscito a cavargli nulla di bocca, anzi, l'aveva portato a trasferirsi su quel covo di pulci o chissà che altro per -così sembrava- il resto della vita, a costo di non subire più quegli interrogatori. James era certo che Albus lo considerasse invadente al limite del sopportabile, e la cosa che lo preoccupava era proprio che non aveva ancora minimamente protestato. La sua frase preferita era “non ora”, mai un vaffanculo o un fatti i cazzi tuoi. James sapeva che una volta sentite quelle parole avrebbe significato un miglioramento di quelli consistenti. Ma purtroppo, di improperi, neanche l'ombra.

Il nostro James si concentrò sul respiro pesante del suo coinquilino, finalmente abbandonato nel mondo dei sogni. Ormai il suo ciclo giorno/notte era fallato quasi quanto l'orologio che teneva al polso, ma James poteva scommettere che anche quella fosse soltanto una tattica per ignorare il fratello maggiore.

Lasciò vagare per un istante lo sguardo, concentrandosi su affari decisamente futili; circa il 60% degli appuntamenti che aveva nel corso di una giornata (che potevano essere visite mediche, riunioni di lavoro o incontri con donne) veniva smarrito all'interno della sua mente e rinvenuto sempre troppo tardi. Aveva rischiato il suo impiego così tante volte che ormai ne aveva perso il conto, ma cercava di trattenerlo con tutte le forze: da quando Al aveva perso il suo, di lavoro, le uniche entrate erano quelle di un normale impiegato al Ministero, che James detestava con tutto il cuore. Ma per amor del fratello, della fame e del padre, si accontentava di trascinarsi, tutte le mattine, all'odiato ufficio.

Proprio mentre meditava su come spendere il suo unico giorno di ferie settimanale, il suo sguardo incontrò il calendario, dove era segnato, su un sabato indefinito, una grande X. James restò qualche minuto a riflettere su cosa volesse mai significare quell'indicazione, che tra l'altro doveva aver fatto proprio lui, poiché Al non prendeva una penna in mano da secoli. Poi, con un lampo di genio che lo inondò di orgoglio, si rese conto che quel sabato segnato era proprio quello attuale, dunque voleva significare qualche evento importante.

Dopo qualche istante di vuoto cosmico, alzò le spalle, indifferente. Come recitava la sua filosofia di vita, le cose importanti l'avrebbero travolto, e così più o meno fu. Dopo qualche ora di totale ozio, passata vagando per casa senza meta e a guardare la tv il più basso possibile, per non disturbare Al, James finalmente ricordò cosa stava per accadere. Sbiancò, sentendo appunto un leggero scalpitio proveniente dai ciottoli del loro giardino, e un bussare ponderoso alla loro porta, che riportò Albus nel mondo dei coscienti.

Se c'era una cosa che i fratelli Potter temevano più al mondo erano le visite inaspettate. Questo, da come poteva ricordare James, era un timore avuto fin da quando si erano trasferiti; se solo Harry avesse scoperto il loro stato, di certo l'avrebbero seccato come non era riuscito in diciotto anni Voldemort. Poi, da quando Al aveva deciso di gettarsi nel burrone della depressione, quel timore era cresciuto ancora di più, dato che la casa era caduta in una decadenza ancora più portentosa.

Ma James sapeva chi era lo sgradito ospite, perché d'un tratto, appunto, ricordò il momento tragico che l'aveva portato a tracciare un enorme X su quel sabato 5 novembre. Se solo si fosse avvicinato al calendario avrebbe anche notato che, in uno spazio vuoto, c'era una piccola legenda che dichiarava “X=OSPITE INVADENTE”. E se solo avesse guardato le pagine precedenti, ad ogni primo sabato del mese avrebbe trovato la stessa X.

Si voltò verso il fratello minore, annuendo appena quando quest'ultimo mimò con la bocca la parola “cugina”, anch'esso abbastanza terrorizzato.

«James Potter, apri questa porta» il gelo, attraverso il piccolo spiraglio sotto la porta, entrò nello squallido salotto, portando Al a tirarsi su le coperte fino al mento e abbassando la temperatura di almeno dieci gradi.

Quel freddo non era dovuto alla stagione,bensì a Rose Weasley, temuta presenza e inarrestabile donna. Era stata la prima, forse anche prima di Lily, a venire a conoscenza della situazione di Albus, questo per la sua brutta -a suo tempo era persino piacevole- abitudine di visitare i suoi cugini. Mentre Lily si teneva spesso alla larga da quel posto, sensibile allo sporco più di quanto fosse necessario, Rose, la quale amava sparpagliare per il pavimento della sua casa libri, fogli e penne, si sentiva decisamente a suo agio in quel caos, malgrado fosse decisamente più ordinata e professionale dei due. E, da quando il suo cugino coetaneo aveva perso la via dell'amenità,le sue visite assomigliavano molto a quelle di un tenente alle stanze dei suoi cadetti.

James andò ad aprire, cosciente che farla aspettare sarebbe stata una pessima idea, e si ritrovò davanti la solita spietata Rose Weasley, piccola come una bambina, al tempo stesso, determinata come nessun altro avesse mai conosciuto. Rose gli sorrise beffarda, dandogli un pizzicotto amichevole (tanto volte James si chiedeva perché non riusciva più a strapazzarla come dovrebbe fare un cugino maggiore, e come faceva ad Hogwarts) e poi corse verso Albus, il quale tentava in tutti i modi di mimetizzarsi con la tappezzeria del divano. Se possibile, lui, era ancora più terrorizzato del fratello; se sfuggire alle domande di James era difficile, con Rose impossibile.

«Ciao Al» mormorò, fingendo di non vedere il suo patetico tentativo di sfuggirle. Poi si rivolse direttamente a James «Da quanto tempo non si schioda da questo lerciume?» assottigliando lo sguardo per cogliere eventuali menzogne. Questi cercò di fargli un resoconto di cosa era cambiato dal mese precedente, spiegandogli che malgrado si alzasse più spesso, dormiva altrettanto più tempo. Le labbra di Rose si strinsero, in disaccordo «Mhh» quell'unico suono le uscì dalla bocca con una tale fatica da sottintendere chissà quanti improperi nascosti.

Si sedette a gambe incrociate, e iniziò a cambiare canali a raffica, spazientita dalla lentezza di quel catorcio. Da quanto poteva ricordare James, il quale non faceva visita a casa di Rose da circa un anno, possedeva un arsenale di tecnologia non indifferente, incentivata dal suo lavoro di Caporeparto al San Mungo; ma non protestò, anzi, una volta trovato un canale di cucina, posò il telecomando soddisfatta «Jamie, hai una birra?» chiese, concentrata. Rose era una schiappa a cucinare; quello che non bruciava aveva sempre un sapore terribile, tanto da tenere lei stessa alla larga dalla propria cucina. Per questo amava veder preparare un buon pasto, sopratutto quando era costretta a ordinare da mangiare al fastfood sotto casa.

James annuì, prendendo tre bottiglie e portandole ad ognuno dei presenti. Ovviamente Albus non si mosse di un centimetro dalla sua posizione, evidentemente così terrorizzato dalla presenza della cugina da resistere anche al richiamo della birra.

Quello che successe per i successivi trenta minuti assomigliava in maniera inquietante a tanti altri sabati passati; James vide Rose fremere per un tempo indefinito, in silenzio, ignorando Albus; la vide poi alzarsi di botto e rovesciare la propria birra, prendere Albus per il colletto della maglietta e urlargli in faccia che puzzava e le ricordava il gatto obeso di zia Muriel; vide entrambi correre per la casa, Rose predatrice e Al preda, al suono di suppliche e ordini; vide Albus finalmente opporsi e tirare fuori il suo impeto antico, prendere Rose e urlarle che doveva farsi gli affari suoi; sentì «Ti stai rovinando!» e «Tornatene a casa!» e «Smettila di fare la vittima!» e «Non sai niente!» tanto forte da ronzargli le orecchie.

I due si fermarono giusto per mangiare qualche boccone, scambiandosi occhiate ricche di rancore, e poi riprendere la battaglia, mentre James, riscoprendosi inutile e quasi d'intralcio, tentava in tutti i modi di non trovarsi in mezzo e fingere che non stesse accadendo nulla.

Poi, con un finale inaspettato, Albus con un ultimo «VAFFANCULO!», corse nella sua vecchia camera che divideva col fratello e ci si chiuse dentro. Rose, con un sorriso di trionfo sul volto, si lasciò cadere sul vecchio giaciglio di Albus, stralunata. Passò qualche istante di silenzio, che lei interruppe con una risata roca «Non preoccuparti James, è tutto apposto» mormorò, per la prima volta dopo la battaglia del sabato totalmente rilassata.

Ma James non era del tutto sicuro; bé, il fatto che lui non stesse piangendo sulla spalla di nessuno e avesse reagito era buono ,ma non era del tutto certo che le cose sarebbero cambiate. Però osservando l'ospite, così soddisfatta e calma, si convinse che la sfuriata, questa volta, era servita a qualcosa. Rose finalmente si alzò, stiracchiandosi un momento, e dando un occhiata al proprio orologio. «Che ore sono?» chiese in fretta James. «Le quattro e venticinque» rispose lei, per poi avvicinarsi alla porta d'uscita «Scusa Jam se non mi trattengo, ma ho un affare da sbrigare. Se c'è qualche novità avvertimi, ci conto» e con un ultimo sorriso, questa volta caldo e cordiale, di quelli che solo lei, quando voleva, sapeva regalare, uscì, lasciando James interdetto, a meditare su cosa fare.

Così corse verso il pendolo, cambiò l'orario e si sedette sul divano, senza però dimenticare di pulire ciò che da tempo non veniva sistemato, e attese che Albus uscisse dalla stanza, per scherzare insieme, per vedere un po' di tv e sghignazzare senza pudore, per riprendere semplicemente la vita che il pensiero struggente di una donna gli aveva negato ed un'altra, decisamente più amabile, gli aveva riconsegnato.

 

Note dell'autrice.
Il seguito del capitolo precedente è stata voluta e inaspettata insieme. A dirla tutta sono stata incerta fino all'ultimo della presenza di Rose,però mi piace troppo come personaggio e dopotutto avevo bisogno di lei.
Bé! Alle poche anime che daranno retta a quello che scrivo,fatemi contenta,lasciatemelo un parere :')
Hile!

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Capitolo 3
*** prologo? ***


Mio fratello è figlio unico.

Tutto era cominciato in una giornata ordinaria, di un caldo insolito. Albus, concluso il suo turno di lavoro, aveva optato per un giro per Londra; per lui il mondo babbano godeva di un’immensa curiosità, permeato com’era di ordinarietà, noia e raziocinio. Quelle poche volte in cui Harry li aveva portati a cenare da Dudley, Albus non aveva fatto che ronzare intorno a tutti quegli oggetti curiosi, come centrini o porcellane o vetrinette che non aveva mai visto in vita sua. Finché era bambino queste sue indagini furono tollerate, ma lo zio Dudley ben presto ne ebbe abbastanza e magicamente gli inviti a cena cessarono, per grande rammarico di Albus. Harry al ricordo ne rideva sempre e gli accarezzava i capelli, pensando a quel vecchio mago che portava il suo nome e che si comportava esattamente allo stesso modo.

Quel giorno Albus, dopo aver sorriso ad ogni passante ed essere entrato in ogni negozio, finì per perdersi tra le vie più babbane e intricate di Londra, e così pensò bene di chiedere ad un uomo dove avesse potuto usufruire di un camino pubblico e tornare a casa via metro polvere. L’imbarazzante scambio di sguardi che seguì tra l'attempato signore (tra l’allucinato e l’offeso –questi ragazzi non hanno più rispetto) ed Al (sorridente e speranzoso) si interpose una ragazza dai lunghi capelli neri «Ooh ecco dov’eri Jack, ti ho cercato ovunque! Vieni con me, siamo in ritardo» e con un cenno all’uomo arpionò Albus e lo spinse velocemente via. Senza guardarsi indietro e continuando a camminare lo sgridò «Qui non siamo ad Hogsmade, ricordi? Loro usano l’autobus».

Miranda aveva gli occhi a mandorla, scuri come un pozzo, e la pelle calda delle Hawaii. Quei capelli le arrivavano fino al sedere e giurava di potersi difendere a frustate, quando li intrecciava. Aveva un tono sempre duro, polemico, non risparmiava nessuno, ma ad Al spesso sussurrava promesse e moine fluenti e potenti come acqua sugli scogli. Dopo che lei l’aveva salvato, Albus non le diede tempo di respirare e le propose di bere un caffè, ma lei optò per una burrobirra «Torniamo dai nostri che è meglio.» A casa Albus non tornava più, Miranda aveva una mansarda vicino al Ministero piena di poster e foto di mare, dove diceva fosse affondata la sua gentilezza. Albus la chiamava spesso per farla arrabbiare e sentirsi rispondere male, le piaceva da impazzire quel modo rude che aveva di apostrofarlo. Sapeva di essere la parte debole della coppia, di essere del tutto dipendente dal suo umore, ma era innamorato e l’amava più di ogni altra cosa. Albus portava sempre una vecchia polaroid con sé e le scattava centinaia di foto, di quelle statiche, babbane, e conservava anche quelle sfocate, e spesso le accarezzava inconsciamente nelle tasche. Quando sentiva la necessità di avere una ragazza come tutte le altre le portava un mazzo di fiori, e allora lei si faceva tutto uno zucchero, intrecciava i gambi e ne faceva una corona che indossava tutto il giorno: però poi Albus sentiva la mancanza della vecchia Miranda e allora cercava in tutti i modi di irritarla per riprendere a litigare. Passavano interi weekend insieme nella vasca da bagno a sognare di partire ed andare alle Hawaii, ma nel frattempo Albus aveva perso il lavoro e lei guadagnava l’indispensabile per sopravvivere. A volte riuscivano a racimolare l’indispensabile per un weekend nel triste mare dell’Inghilterra, che a Miranda ispirava sempre un po’ il suicidio ma che ad Albus ricordava Villa Conchiglia, quindi se lo facevano bastare. Dopo pochi mesi Al già immaginava bambini dalla pelle caffèlatte e gli occhi verdi, allegri ma cupi, mentre lei sognava ogni notte di tornare da dove veniva.

Era figlia di un ambasciatore inglese e una strega hawaiana, che aveva trasmesso a quella figlia di un amore segreto quel potere misterioso. Poi lei era fuggita con un santone indiano e quel buon vecchio di Greg aveva riportato il fagotto a Londra per farne parte integrante della sua famiglia. Per Miranda era stato difficile crescere sotto lo sguardo accusatorio di Miss Reed, che cercava tra i suoi lineamenti quelli del marito (che aveva spacciato Miranda per un’orfana senza identità che aveva adottato) e tre fratelli dispettosi. Le cose si erano fatte ancora più complesse quando risultò che era una strega e avrebbe studiando in un posto lontano non so dove: dopo molte visite mediche e le visite di decine di impiegati del ministero della magia che pregavano i suoi genitori di smetterla di violare lo Statuto Internazionale di segretezza della Magia, la situazione si risolse spedendo Miranda ad Hogwarts. Pur non avendo mai vissuto quel luogo esotico se non i primi mesi della sua vita, sognava di tornare a quelle spiagge, ritrovare la sua identità, e chissà magari anche sua madre.
Albus rileggeva la sua storia in quegli occhi a mandorla ma non troppo, e segretamente accumulava quei pochi spiccioli che ricavava –tra lavoretti, monetine cadute a terra, soldi lasciati in giro dal fratello- per portarla di nuovo a casa. Non parlò a nessuno di quell’amore viscerale, come se avesse timore di romperlo, di sgualcirlo. Inconsapevolmente fin dal principio sentiva un certo squilibrio, un pericolo imminente. Sentiva Miranda sempre troppo lontana, persino quando la stringeva, anche quando lei gli riservava quei rari momenti di tenerezza. Lo vedeva che metà Miranda era oltre oceano, lo sapeva, ma faceva finta di non capirlo.

Le cose cominciarono a declinare otto mesi dopo il loro incontro. Avevano vissuto quasi ogni secondo di quel tempo insieme, stretti, lontani solo qualche ora. Miranda cominciò ad essere sfuggente, a essere occupata, a dimenticarsi degli appuntamenti. Albus tornò ad abitare interamente nell’appartamento che condivideva col fratello, ma con serenità: sapeva che quel primo attaccamento degli innamorati era destinato a perire, che era iniziata la fase dell’amore maturo e duraturo, ed era contento di tornare allo squallore dei giovani Potter. Ma nelle vene di Miranda scorreva quello stesso sangue hawaiano materno, libertino e selvaggio, e così un giorno gli diede appuntamento a casa sua e gli fece trovare uno scatolone pieno della roba che aveva seminato qua e là «Tra noi è finita Al.» Per lei sarebbe stato sufficiente quello, ma alle urla di Albus la costrinsero a dare spiegazioni. Aveva conosciuto un connazionale di 31 anni, sposato con un’inglese frigida (questo lo disse con disprezzo, diverso dal suo semplice tono secco) e infelice. Aveva vissuto nella terra dei sogni per diciannove anni prima di arrivare a Londra, e ora contava di tornarci, con Miranda. Si frequentavano da due mesi, in segreto, inizialmente come amici ma poi qualcosa di antico li aveva uniti. Ora era incinta e contava di crescere suo figlio nella sua terra natia, come a lei non era stato permesso. Accompagnò un Albus sconvolto alla porta e lo chiuse fuori con un colpo secco.

Prima che partisse vegetò davanti la sua mansarda per tre giorni: una volta, nel dormiveglia, fu quasi sicuro di essere stato scavalcato da un aitante giovane abbronzato e capì di essere anche lui nel ruolo dell’inglese frigido. Lasciò un mazzo di fiori sul pomo della porta prima di lasciare quel posto per sempre.
All’inizio cercò di riprendersi, di svagarsi, si lanciò in avventure in giro per Londra col fratello, ma ben presto capì di essere un nulla, cominciò a immaginare quel bambino che cresceva dentro lei a cui era stato privato il bagaglio genetico del vecchio continente, che a malapena avrebbe ricevuto quello della madre –Miranda non aveva nulla di inglese- e pensava a quell’uomo tanto più grande di lei che se l’era portata via. Cadde nella depressione che già conosciamo, distaccandosi da tempo e spazio, sognava lei che bussava alla porta per vivere insieme e saltava dal letto convinto che quel rumore fosse reale, e tralasciò ogni minima cura per se stesso.
Quando Rose lo aveva esasperato e si era rinchiuso in camera, in preda alla rabbia aveva preso in ogni camicia ogni foto di Miranda e le aveva bruciata, calpestata, masticata, piangendo lacrime di rabbia e frustrazione e odio. Poi era crollato stremato a letto, sperando di svegliarsi senza memoria, e che a quel cazzo di hawaiano venisse un colpo.

James dopo qualche ora era salito in camera, a sentire se il fratello respirava ancora. Aveva delle accortezze da fratello maggiore di cui spesso si vergognava, ma di cui non poteva farne a meno. Osservò quelle foto bruciate e suppose che fossero dunque quella pelle d'ambra e quei capelli d'ebano ad aver ridotto Al così. Gli rimboccò le coperte, gli accarezzò i capelli e uscendo fece ben attenzione a mettere il piede sopra quelle labbra carnose stampate su carta.



Note dell'autrice:
Qualche neurone ribelle del mio cervello mi ha spinto a descrivere questo momento mancante della storia. Chiedo perdono per la brevità (brutto vizio la sintesi) e spero questo abbia risolto la curiosità di quei pochi che avevano letto i due capitoli precedenti. Per me è un traguardo aver scritto ben tre capitoli di una storia!
Baci :)

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