Time is running out

di _Bec_
(/viewuser.php?uid=62129)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Hey Jude ***
Capitolo 3: *** Like dogs and cats ***
Capitolo 4: *** Back to school ***
Capitolo 5: *** Misunderstandings ***
Capitolo 6: *** Serious&Stupid things to talk about ***
Capitolo 7: *** FACIN (Fai Amicizia Con Il Nemico) ***
Capitolo 8: *** Adesso però mi piace ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Creative Commons License
Time is running out by Rebecca S. is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Italy License.
Based on a work at www.efpfanfic.net.
Permissions beyond the scope of this license may be available at http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=582065.


Time is running out
r

 

Prologo

 

Guardava il paesaggio fuori dal finestrino scorrere sempre più velocemente, senza vedere realmente ciò che aveva davanti.

Era assurdo quello che gli era successo, assurdo il fatto che avesse dovuto accettare quell'imposizione a 19 anni.

Suo padre l'aveva avuta vinta alla fine, aveva giocato su dei sentimenti che credeva sopiti sotto la facciata da “menefreghista”: compassione e, non lo avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura davanti ad altri, amore. Perché era inutile e sciocco credere di non provare affetto per sua madre. Affetto, mischiato ad odio per quella madre che se n'era andata quando era ancora piccolo. Quella madre che non vedeva più da sei anni, che si faceva sentire sempre più raramente e solo in occasioni particolari.

-Daniel, ti prego.- La voce di suo padre uscì smorzata; gli costava molto tutto quello, gli costava molto, tutto sommato, separarsi dal suo unico figlio per qualche mese.

-Fallo per me, per lei.- Proseguì distogliendo un attimo lo sguardo dalla strada per puntarlo sul ragazzo.

Daniel scosse la testa, sorridendo amaramente; i capelli castani ondeggiarono lievemente a quel movimento.

Non capiva. Nessuno capiva come si sentiva. Deluso, amareggiato, incazzato. Incazzato con lei per il suo non esserci mai stata, incazzato con se stesso per averla scostata e allontanata sempre di più dalla sua vita e incazzato con quella...cosa che ora rischiava di portargli via un pezzo della sua vita, un pezzo che lui aveva cercato di rinnegare con tutte le sue forze ma che c'era. C'era e si faceva dannatamente sentire.

Non si dissero più niente per tutto il resto del viaggio, fino all'arrivo. Un arrivo che Daniel volle considerare solo come un punto di partenza; non vedeva già l'ora di andarsene di lì, di tornarsene nella topaia schifosa che era l'appartamento di suo padre, di tornarsene alla sua vita di sempre.

Suo padre lo abbandonò su quel vialetto senza dire niente, accennando appena un saluto con la mano. Non c'era molto da dire, non si erano mai detti molto. La conversazione più lunga l'avevano avuta appena una settimana prima, quando lui l'aveva convinto ad andare a casa della madre per alcuni mesi. Per quanto tempo si sarebbe dilungata la sua permanenza non si sapeva, dipendeva tutto dalle condizioni di sua madre.

Imprecò un paio di volte fra i denti prima di trovare il coraggio di suonare al campanello.

In quei pochi secondi di attesa, si accorse di essere ansioso come non lo era da tempo. Il suo cervello valutò l'ipotesi di scappare; se sua madre fosse stata diversa da come la ricordava, più spenta a causa della malattia, non avrebbe saputo cosa fare, come reagire. A dire il vero non sapeva comunque come reagire, cosa dire...dopo tutto quel tempo...

Ad aprire la porta fu proprio lei: era come la ricordava, pensò Daniel con un certo sollievo. Solo un po' dimagrita, ma sempre con quel sorriso...materno dipinto in faccia.

-Daniel...- Mormorò con occhi lucidi, prima di correre ad abbracciarlo con forza. Una forza che un corpo così magro non sembrava essere in grado di generare.

Lui non si mosse, rimase impassibile davanti a quello che gli sembrava solo un chiaro gesto d'apparenza, di facciata. Non era mai stata una vera madre, non aveva mai azzardato nemmeno una carezza per quanto ricordava. Solo botte. E parole cattive, più taglienti di una lama.

Maledetto il giorno in cui sei nato, ti odio!

Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo; ancora si chiedeva che cosa diavolo ci facesse lì.

Dopo aver adempito al suo “compito” di madre, si spostò di lato per farlo entrare, tutta entusiasta di mostrargli la casa.

Nessuno osò sfiorare l'argomento “tumore”, né lei, né tantomeno Daniel.

-Le valigie lasciale pure qui, voglio prima mostrarti una cosa.-

Il ragazzo la guardò incerto, chiedendosi che cosa potesse rendere la madre così radiosa. La sua presenza forse? Ne dubitava. Ricordava di averla vista sempre e comunque indifferente. La seguì con lo sguardo mentre si avvicinava al camino e prendeva un portafoto.

-Ecco, questo è Richard. È un uomo meraviglioso Dan, sono sicura che andrete d'amore e d'accordo.-

Perché glielo stava dicendo con tutto quel trasporto? Cosa gliene importava a lui?

Daniel prese in mano la foto, giusto per non lasciarla cadere in terra, non perché realmente interessato a vedere l'uomo che faceva brillare gli occhi di sua madre.

Tanto poi tradirai pure lui, come hai fatto con papà, pensò con cattiveria.

-E questa...- Sua madre esitò, sorridendogli maliziosa nel porgergli un'altra foto, -È Judith, sua figlia.- Sembrava ancora più elettrizzata se possibile.

Dan scrollò le spalle e, dopo aver depositato l'altra foto, prese ad osservare quella fra le mani della madre.

Non vi prestò nemmeno troppa cura nell'esaminare la ragazzina dall'aria perfetta raffigurata, solo il vestito bianco e confettoso che indossava lo aveva disgustato ancor prima di arrivare al viso.

Si limitò ad annuire, mordendosi il labbro per risparmiarsi qualche battuta stronza, degna di lui.

Un fidanzato perfetto. Una figlia femmina perfetta. Sua madre aveva tutto quello che aveva sempre desiderato, constatò stringendo le mani a pugno. Di nuovo si chiese che diavolo ci fosse andato a fare lui lì. Il ragazzo ribelle e strano che a soli diciannove anni aveva deciso di andare a lavorare senza laurearsi in qualche college prestigioso, di sicuro stonava in quella casa.

-Vieni, ti faccio vedere la tua stanza.- Quel silenzio doveva essere diventato parecchio imbarazzante per la donna, che non sapendo bene che cosa stesse passando per la testa del figlio, cambiò argomento.

Daniel la seguì, neanche troppo interessato a vedere la stanza dove si sarebbe rinchiuso ed isolato in quei mesi. Perché una cosa era certa: non avrebbe mai assecondato quella stronzata, non avrebbe mai giocato alla famigliola felice con quei tizi, non ne aveva nessuna voglia.

Sua madre si arrestò titubante, davanti ad una porta dove la scritta “Non disturbare” spiccava sfacciata. La aprì con un gesto veloce ma debole, tanto che la porta non si spalancò del tutto.

-Questa sarebbe la camera di Jude.- La donna aggrottò la fronte, chinando il capo di lato, -Purtroppo non abbiamo una camera per gli ospiti. Lei dormirà in camera con noi durante la tua permanenza qui.- Spiegò tutto d'un fiato, stupendo sempre di più il ragazzo che non riusciva a credere a quello che sentiva. Gli avrebbero lasciato la camera della figlioletta perfetta? A lui? L'avrebbero sfrattata dalla sua stanza...per lui? Immaginava di dover dormire sul divano o in uno stanzino più simile ad una specie di soffitta, di certo non in una camera munita di tutti i comfort possibili. Televisione, Pc, stereo. Certo, era tutto decisamente troppo femminile per i suoi gusti, ma avrebbe anche potuto sopportare il rosa in cambio di una televisione al plasma e di un pc d'ultima generazione.

-E alla tipa sta bene?- Non riuscii a fermare il sopracciglio, che si alzò e confermò lo scetticismo presente nella voce. Troppo strano che la Barbie avesse acconsentito a lasciargli la sua stanza così.

-A Jude?- Sua madre calcò non poco il nome della ragazza, -Certo che sì. Te l'ho detto, è una ragazza d'oro e...-

-Sé sé.- Fece scocciato, interrompendola con un gesto brusco della mano.

-Le tue cose te le porterà su Richard, se vuoi riposare adesso...-

Quella frase lo fece scattare come un felino contro la sua preda, -Assolutamente no.- Sibilò gelido, uscendo dalla stanza con l'intento di prendere da solo le sue valigie. Non voleva nessun favore da parte di quell'uomo.

Le afferrò con stizza, risalendo rabbioso le scale ed ignorando i richiami flebili di sua madre.

-Dan...-

La ignorò di nuovo, richiudendosi con un gesto secco la porta della stanza alle sue spalle. Appoggiò le sue cose vicino al letto e vi si sdraiò sopra esausto. Storse il naso non appena si accorse di quell'odore così...nauseante che aleggiava nella stanza. Cazzo, i suoi vestiti avrebbero assorbito quella puzza di...fragola e...qualcosa di dolce non ancora definito.

-Ceniamo alle sette,- Riprese sua madre da dietro la porta, dopo un sospiro rassegnato, -Cerca di essere puntuale, per favore.-

Per favore. Gli chiedeva pure per favore! Con quel tono da povera madre maltrattata e ferita! Avrebbe voluto mandarla più che volentieri in un posto, ma si morse la lingua e rimase zitto, voltandosi dall'altra parte senza dire nulla.

Non si accorse che, pian piano, stanco e provato dal viaggio, finì per addormentarsi.

 

 

Una macchina bianca si fermò appena due ore dopo davanti allo stesso vialetto. Al suo interno erano ben visibili due sagome: una più imponente, robusta e marcata; l'altra più esile, fine e delicata.

-Per Delia è molto importante.- Ribadì con voce autoritaria l'uomo, spegnendo il motore e restando in silenzo, in attesa di sentire una risposta che non tardò ad arrivare.

-Papà...- La voce, nonostante il tono basso, era decisa, pulita e seria. -Lo so che è importante per te la felicità di Delia e lo è anche per me, credimi.- Posò la sua piccola mano su quella del padre, ancora appoggiata al volante, -Specie in questi mesi.- Quella stessa voce, perse un po' della sua sicurezza e si incrinò. -Ma...- Sospirò, cercando di non far trapelare il suo disappunto in modo troppo brusco, -Non sono d'accordo con questa vostra decisione. Io ho bisogno della mia stanza per tutto. Ci sono tutte le mie cose lì! E dove potrò studiare poi? Lo sai che ho bisogno di un posto tranquillo dove concentrarmi!- La ragazza riprese fiato e si spostò i lunghi e ricci capelli neri irritata: si era ripromessa di non aggredire troppo il padre, non dopo tutto quello che stava passando, ma non era proprio riuscita a trattenersi.

-Questo è l'anno del diploma...- Piagnucolò poi, in tono quasi implorante.

-Lo so cucciola, lo so. Ma Delia ci tiene. Lo sai, è un suo desiderio. Vuole trascorrere del tempo con suo figlio e noi non possiamo essere così crudeli da impedirglielo.- L'uomo scese dalla macchina, seguito dalla figlia, e si avviò a grande falcate verso la sua abitazione.

-Sì, ma non c'era alcun bisogno di dargli la mia stanza!- Sbottò ancora una volta lei, odiando il fatto che uno stupido, puzzolente e cavernicolo maschio avrebbe intaccato la sua preziosa e piccola dimora personale.

-Non puoi mica lasciarlo dormire sul divano. È questo il tuo concetto di ospitalità? È così che vuoi trattare il figlio della mia donna?- La guardò con rimprovero, prima di infilare la chiave nella serratura della porta.

-No, ma...- Sbuffò, incrociando le braccia al petto contrita. Le avrebbe dato fastidio la presenza di una ragazza estranea in camera sua, figuriamoci di un ragazzo! Chissà quali porcate avrebbe potuto fare in camera sua, sul suo letto! 
-È solo per poco.- La voce del padre si addolcì, insieme ai lineamenti del suo viso.

Avrebbe voluto ribattere con un acido “Lo spero”, ma se lo avesse detto, avrebbe involontariamente augurato una possibile e veloce morte alla povera Delia, a cui lei comunque teneva molto. E quello, ne era certa, avrebbe ucciso di rimando anche suo padre. Sarebbe uscito distrutto da tutta quella faccenda.

Doveva rassegnarsi al fatto che quell'essere malefico mandato dall'Inferno come punizione per qualche stronzata che doveva aver fatto, avrebbe vissuto con loro fino...alla morte o alla guarigione di Delia.

 

 

Note dell'autrice

 

Non so che cosa mi stesse passando per la testa mentre scrivevo questa cosa. Ho talmente tante altre cose da scrivere, non ho proprio tempo per questa...eppure non sono riuscita ad impedirmi di farlo, in quel momento l'ispirazione mi è venuta e non ho saputo chiuderle la porta in faccia...

Ci tengo a precisare che non trascurerò nessuna storia per questa. Probabilmente questa la continuerò a scuola sul quaderno o nei momenti in cui il mio pc non è a portata di mano.

Questa storia potrà sembrare scontata, banale, monotona e simile alle altre che ho scritto, lo so. Però...era da un po' di tempo che volevo provare a scrivere qualcosa del genere -non solo in terza persona-; mi è arrivata più di una critica riguardo i sentimenti della protagonista di Kidnapped by Love (altra mia storia per chi non la conoscesse), mi han detto che i suoi sentimenti ed il suo modo di agire non sembrano reali e coerenti. Ebbene, con questa storia ci riprovo a scrivere qualcosa di reale. Non sarà semplice descrivere i sentimenti di Daniel, non sarà semplice descrivere un qualcosa che non ho mai vissuto grazie al cielo e che si distacca completamente dalla mia vita. Non sarà come descrivere la sofferenza in amore di Alice (Tra l'odio e l'amore), non sarà come descrivere la paura di Allison dopo essere stata rapita (Kidnapped)...si tratterà di descrivere la rabbia ed il dolore di un figlio. La storia non ruota attorno alla madre però, questa è una storia d'amore.

Non vi spaventate quindi! Ci saranno litigi, scene comiche/demenziali e -più avanti- romantiche fra Dan e Jude, dopotutto, questa è una storia romantica. Anche se sarà dura far combaciare questi due! xD

Non so ogni quanto riuscirò ad aggiornare, non molto spesso purtroppo...spero solo che vi possa piacere ed interessare :) Grazie a chiunque abbia letto e a chiunque commenterà =)

Un bacione grande! Bec

 

PS: Ci tengo tantissimo a ringraziare Sharon (vampistrella) per aver trovato un titolo perfetto a questa storia! Grazie mille carissima! :)

 

 

Altre mie storie:

 

Tra l'odio e l'amore c'è la distanza di una bacio

Kidnapped by love

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Hey Jude ***



Time is running out


r

Capitolo 01. - Hey Jude

 

Salutò frettolosamente Delia, troppo intenta a guardare le sue telenovelas per fermarla e parlarle, e corse al piano di sopra.

Fece per aprire la porta della sua stanza e gettare la borsa sul letto come d'abitudine, quando si ricordò che per un indeterminato periodo di tempo non avrebbe più potuto farlo. Non senza bussare.

Sbuffando stizzita, si diresse a passo di gorilla verso la camera di Delia e suo padre, dove constatò con rabbia che i suoi vestiti invernali fossero già stati spostati nell'armadio di Delia.

Sfrattata.

Quella parola si insinuava sempre di più dentro di lei, scorreva nelle sue vene proprio come il veleno del morso di un serpente.

Un non tanto lieve rumore la distrasse dai suoi pensieri e la costrinse a ritornare in corridoio. Dalla sua camera proveniva della...musica? Il ritornello di una canzone rock, punk, o quello che era...Probabilmente prima non ci aveva fatto caso perché i toni della canzone erano più bassi.

Si gonfiò come un pescepalla, pronta ad entrare nella sua stanza e ad insultare il perfetto idiota sconosciuto che aveva osato toccare il suo stereo.

Proprio quando aveva deciso di esplodere tutto d'un botto e di fargli una bella ramanzina, si sgonfiò lentamente come un palloncino bucato ricordando le parole del padre. Doveva sopportare.

Ospitalità.

Giusto. Annuì da sola, prima di girare i tacchi per andarsene.

Ad un passo dalle scale, però, si fermò e fece nuovamente dietrofront. Ospitalità o no, quello non poteva permettersi di toccare il suo stereo! Avrebbe potuto rovinarglielo! E poi nessuno gli aveva insegnato a chiedere quantomeno il permesso?

Sporse la mano per afferrare la maniglia, ma appena la toccò la ritrasse indecisa. In che modo avrebbe potuto dirglielo? Gentilmente? Del resto non aveva idea di che razza di persona fosse il figlio di Delia, poteva sempre essere un tossico-dipendente violento! E poi...avrebbe dovuto presentarsi prima? Dicendo cosa?

Incrociò le braccia al petto e si prese qualche secondo per pensarci su.

-Ok.- Disse fra sé e sé, finalmente decisa a farsi rispettare in un modo o nell'altro. Aprì la porta lentamente e diede una lieve sbirciatina al suo interno.

-Cerchi uno psichiatra?-

Cacciò fuori un ridicolo urletto stridulo dallo spavento ed indietreggiò per constatare da dove fosse arrivata quella voce.

Stava già per dare l'allarme e gridare “al maniaco”, quando si ricordò nuovamente di quella presenza estranea e sgradita in casa. Presenza che si era materializzata a pochi passi da lei, con solo un paio di jeans slacciati addosso.

Sgranò gli occhi sorpresa e disorientata; Daniel King era decisamente...diverso da come lo aveva immaginato.

Aveva visto una sua foto di qualche anno prima e lo aveva trovato solo un bamboccio con ancora la bocca sporca di latte, ma...davanti non aveva di certo lo sfigatello che pensava di ospitare, aveva...un uomo a tutti gli effetti!

Era appoggiato al muro del corridoio e la fissava curioso; dedusse dall'asciugamano che aveva in mano e dai capelli bagnati che fosse appena uscito dal bagno dopo essersi fatto una doccia probabilmente, ma...da quanto tempo era lì?

Si irrigidì non appena comprese che tutta la sua scenetta patetica davanti alla porta aveva avuto un pubblico. Ricapitolando, era andata avanti e indietro come una scema, aveva parlato ed annuito da sola e...altro?

Divertente comunque il tipo. Come il pizzico di un granchio sul fondoschiena. Lo aveva pure provato a cinque anni ed era tutt'altro che divertente, giusto per precisare ulteriormente.

Inghiottì la reale risposta che avrebbe voluto propinargli, per nulla ospitale e poco, poco fine, e si presentò, cercando di non ringhiare come il peggiore dei cani.

-Tu devi essere Daniel.- Sperò con tutta se stessa di averlo almeno spaventato un pochino con quel sorriso omicida, -Io sono Jude.-

Si sforzò di non mostrarsi per nulla a disagio, anche se, dovette ammetterlo, fu comunque molto difficile concentrarsi sul viso del suo interlocutore e non sulla parte sprovvista di maglietta. La cosa la irritò ancora di più perché si rese ben presto conto del fatto che il corpo del ragazzo fosse fastidiosamente magnetico. Ma non abbassò lo stesso lo sguardo, no, non si soffermò sugli addominali di Daniel, piuttosto che dare quella soddisfazione al nemico, avrebbe preferito bere il vomito di un gatto.

Presa com'era dai suoi pensieri, non si accorse del fatto che lui si fosse avvicinato. Arretrò di poco…per sicurezza, non per paura.

-Ti immaginavo più piccola.- Commentò lui, limitandosi ad alzare un sopracciglio. Difficile dire se fosse divertito o irritato. -E con un tutù.- Svelato il mistero; era chiaramente divertito.

Capì immediatamente a che cosa si riferisse l'idiota che aveva davanti: la foto in salotto, quella che raffigurava il suo saggio di danza classica qualche anno prima. Non tollerava il fatto che Delia l'avesse mostrata a chiunque era entrato in casa, postino compreso.

-Quella foto è di cinque anni fa.- Essere gentile era molto più difficile di quanto pensasse. 
In genere lei non si sforzava mai di esserlo, se una persona non le andava a genio lo diceva senza farsi troppi problemi. E quel Daniel non le andava a genio proprio per niente.

Lui si limitò ad alzare le spalle e a sorpassarla come se non avesse parlato, gesto che le mandò ulteriormente il sangue al cervello. Odiava essere ignorata, raramente qualcuno usava quel genere di trattamento con lei e quando succedeva...Jude diventava decisamente fastidiosa. Perché lei era contorta: se qualcuno le riservava troppe attenzioni, lo cacciava via infastidita, se qualcuno la ignorava, invece, faceva di tutto per farsi notare.

 

 

-Senti un po'!-

Oh cazzo, la voce di questa ragazzina è a dir poco insopportabile.

Così stridula, pungente, sarcastica...non aveva avvertito un briciolo di gentilezza nemmeno quando si era presentata, doveva starle proprio antipatico.

Non che la cosa gli desse fastidio, meno ci parlava con quella meglio era...già gli stava venendo il mal di testa dopo appena pochi minuti di conversazione.

Entrò nella sua camera e si girò; non poté fare a meno di ghignare non appena notò l'espressione sconcertata di lei. Finalmente si era zittita.

Chissà come sarebbe esplosa non appena avrebbe realizzato OGNI cambiamento alla sua stanza. Si accorse di attendere stranamente impaziente e curioso la sua reazione; una ragazza così strana non poteva che avere una reazione strana.

Prese una delle tante sue magliette sparse per terra -decisamente non era ordinato- e se la infilò, sotto lo sguardo sempre più sbigottito di lei.

-Tu...cosa? Dove?- Boccheggiò per qualche secondo, portandosi teatralmente una mano alla fronte. Quante scenate!

-Puccy!- Sbraitò poi, correndo verso la sua scrivania ed accucciandosi per terra, -Tu hai buttato Puccy nel cestino?!- La ragazza gli puntò contro in modo quasi minaccioso il suo “Puccy”, che altro non era che un enorme tigrotto di peluche.

-Era fastidioso. A momenti mi soffocavo con tutto quel pelo.- Dan si accigliò, ricordando ancora il suo “dolce” risveglio con la faccia nel ventre del peluche ed i suoi peli in bocca.

-Io...dormo con Puccy da anni!- Strillò quella isterica, per nulla imbarazzata dalla sua stessa confessione.

Lui si sdraiò sul letto disinteressato, senza togliere le scarpe, cosa che fece scattare all'insù il sopracciglio della ragazza. -Mi sembra ora di crescere.- Commentò ironico, portando poi le braccia dietro la testa.

Il labbro di Jude tremò pericolosamente per parecchi secondi prima di fermarsi. Chissà quanti insulti stava trattenendo, si disse Dan.

-E la bambola che c'era lì?-

Dan schioccò la lingua seccato, -Spostata.- Rispose semplicemente.

La bambola di porcellana a cui si riferiva era a dir poco ingombrante, oltre che inquietante. E poi lui doveva far spazio alle sue cose.

-Dove?- Non aspettò nemmeno la risposta, subito riprese ad aggredirlo, -Hai fumato! Qui c'è odore di fumo! Tu hai fumato nella mia stanza?!-

Non era mai stato un tipo troppo loquace, né paziente...odiava parlare, specie con le persone che lo innervosivano. E quella Jude iniziava a seccarlo davvero.

-Senti, carina, finché io sono qui, questa stanza è mia.- Si alzò e la vide, non senza un certo orgoglio personale, indietreggiare come poco prima, -Perciò vedi di metterti l'anima in pace e di non rompere i coglioni.- Socchiuse gli occhi e la fissò truce. Non bastava il fatto che si fosse trasferito in quello schifo di posto controvoglia, non bastava il fatto che fosse lontano da casa sua, dai suoi amici, dal suo lavoro...doveva pure aggiungersi quella rompicoglioni?

Lui voleva solo essere lasciato in pace, voleva solo che quei mesi passassero il prima possibile, non vedeva l'ora che fosse tutto finito. Così, si sarebbe messo l'animo in pace, così sarebbe potuto tornare alla vita di sempre, così avrebbe potuto far finta di niente...

-Questo non ti dà il diritto di fare quello che ti pare con le mie cose.-

Dio, ma quella tipa aveva sempre la risposta pronta?

-Se mi rompi o perdi qualcosa...- e gli puntò il dito al petto, -Sappi che te la farò pagare.-

La rabbia scemò in un attimo nel vedere quell'espressione così incazzosa. Evitò di scoppiarle a ridere in faccia solo perché non voleva che riprendesse a parlare di nuovo con la sua vocetta odiosa, ma trattenersi fu davvero difficile per lui. Specie perché la sua faccia imbronciata da “grande donna vissuta”, che secondo lei avrebbe dovuto incutergli chissà quale paura, ricordava più quella di una bambina offesa per qualche torto fatto al suo ridicolo peluche.

Dopo quel terribile avvertimento, se ne uscì dalla stanza come una furia, portando Puccy con sé, ma lasciandosi dietro un ragazzo, suo malgrado, divertito da quel comportamento bizzarro.

 

 

La sua amica Maggie non aveva smesso nemmeno per un attimo di ridere e la cosa, a lungo andare, aveva iniziato ad irritarla.

-Meg!- La rimproverò accigliata.

-Scusa! Solo...è che sono contenta per te Jude!- Rispose quella, fra una risata e l'altra.

-Che c'è da essere contenta! Avresti dovuto vedere la mia stanza Meg...- Piagnucolò ripensando a tutte le sue cose buttate a destra e a manca, -Uno schifo. E c'era un odore di fumo!- Arricciò involontariamente il naso: proprio non riusciva a sopportarla quella puzza.

-Ma io non mi riferivo alla stanza! Mi riferivo a lui...- Il tono dell'amica si fece improvvisamente malizioso, cosa che non sfuggì a Jude.

-In che senso?- Domandò, immaginando già che l'amica avrebbe sparato qualche cavolata.

-Non capisci? Vivi sotto il suo stesso tetto, sotto lo stesso tetto di un bel ragazzo, beata te!-

-Ah, sono proprio fortunatissima guarda!- Fece Jude ironica, -E poi come fai a sapere che è bello, scusa?- Si morse la lingua quando si rese conto di aver appena confermato alla sua amica che sì, effettivamente Daniel era bello.

Pff, bello, insomma…non è malaccio, ecco!

-Perché hai detto che ti sei sentita attratta da lui, no?- Replicò candidamente l’amica.

-Ma certo che no!- Aumentò la stretta sul telefono sbalordita, -Non ho detto niente del genere io! Ho detto solo che...-

-Che è stato difficile non guardarlo...aspetta che lo sappia Molly! La smetterà di dire che sei strana perché non ti interessa nessun ragazzo!-

Jude sospirò, lasciandosi ricadere indietro su quello che era il suo nuovo letto...o brandina.

La sua amica non lo sapeva, ma c'era un ragazzo che le faceva battere il cuore, che la faceva andare a fuoco solo guardandola e che la faceva sorridere da sola nel buio della sua stanza come una patetica bambina alla sua prima cotta ogni notte; suo fratello Evan. Ma come avrebbe potuto dirlo a lei che era sua sorella? O anche solo a qualcuno? Evan aveva 29 anni e un matrimonio alle porte con la sua storica fidanzata. Lei era solo una bambina per lui, la “piccola” Jude cresciuta insieme alla sua sorellina.

Continuava a sperare che un giorno si accorgesse di lei…pian piano si stava trasformando, stava diventando una donna e presto sarebbe andata al college. Cos’aveva in meno rispetto alla sua fidanzata Michelle? Nulla, era anche più giovane e carina.

Non aveva mai nemmeno avuto un ragazzo a causa di quell'amore impossibile. Non faceva che ripetersi che andava bene così, che in fondo un ragazzo idiota, pervertito ed immaturo non le serviva, che a lei importava solo uscire con le amiche ed andare bene a scuola. Certo, tutto vero, solo che...si sentiva spesso sbagliata, a volte sentiva che c'era qualcosa che non andava in lei. Era sempre scontrosa ed antipatica con i suoi coetanei maschi, proprio non riusciva ad andare d'accordo con il sesso opposto. Evan era una rara eccezione, ma solo perché più grande e maturo.

Era carina e desiderata da più di un ragazzo nella sua scuola, il problema era che nessuno di loro la entusiasmava, nessuno di loro le aveva mai scatenato una qualche...reazione ormonale? Niente. E quindi finiva per essere antipatica con chiunque ci provasse.

Meg le aveva più volte detto che poteva essere perché lei partiva prevenuta, pensando che tutti i ragazzi della loro età fossero degli emeriti cretini...cosa che in effetti si ritrovava a pensare sempre più spesso. Per lei sarebbe andato bene un ragazzo molto più grande, forse sui trenta...tipo Evan.

-Non mi importa di cosa pensa Molly, lo sai...- Borbottò nervosa. Quell'oca poteva pure pensare quello che voleva, di certo il suo pensiero non l'avrebbe scalfita.

-Lo so, lo so...Però...Jude c'è da festeggiare!- Niente da fare, niente avrebbe tolto il buon umore a Meg, -Questo Daniel dev'essere proprio da stupro se è riuscito ad imbarazzarti e a zittirti!-

-Ma se non l'ho neanche guardato!- Aveva accuratamente evitato di soffermarsi sul suo petto nudo, sentendosi stranamente nervosa. Era vero, in genere non lo era, aveva visto più di un ragazzo a petto nudo durante le feste in piscina a casa della sopraccitata oca Molly, e nessuno di loro l'aveva fatta mai sentire a disagio...però quello non significava assolutamente nulla, per così poco! Forse proprio perché si era ritrovata davanti un perfetto sconosciuto si era sentito un attimino disorientata nell'affrontare un “campo” che non conoscesse. Tutto lì però.

-Descrivilo su! Com'è, biondo, moro…?-

-Blu.-

-Jude! Seriamente…com’è? Così tanto figo?-

-Molto, guarda.- Alzò gli occhi al cielo, -Come il culo di un asino.- Ed ecco la finezza di Jude. Quando si innervosiva...

-Gli asini sono carini tutto sommato! Quindi la prendo come una conferma, è molto figo.- Ovviamente Meg interpretava le sue uscite a modo suo.

-Certo, certo...vedrai che impazzirò Meg in questi mesi..- Si lamentò rassegnata...doveva sopportare, poteva solo sopportare. Per Delia e per suo padre, si disse.

-Hey Jude, don't make it bad, take a sad song and make it better...-

-Meg...- La richiamò lei sorridendo, ascoltando assorta il suo canticchiare. Adorava quella canzone e non solo perché era come se nominasse lei ogni volta, ma anche perché la calmava e le dava al tempo stesso una carica pazzesca. Poco importava che i Beatles l'avessero dedicata ad un ragazzo, quella per lei restava la sua canzone.

-Remember, to let her into your heart...Hey Jude, don't be afraid...-

-Non ti ricordi le parole!- La accusò Jude ridacchiando. Aveva saltato più di una strofa.

-Eh va beh! Solo tu la ricordi a memoria!-

-Ovvio, è la mia canzone!-

Dopo aver parlato un altro po' di scuola ed altre cose, mise giù un po' più tranquilla e, giusto per rilassarsi ancora di più, mise le cuffiette e schiacciò play sulla sua canzone del cuore. Cantata dai Beatles era decisamente meglio.

Chiuse gli occhi rasserenata ed in pace con il mondo. Aveva bisogno di tutta la quiete possibile prima di affrontare l'imminente cena con il nuovo membro “provvisorio” della sua famiglia. Una quiete che solo la sua canzone poteva darle.

 

 

*Note dell'autrice*

 

Beh questo essendo il primo capitolo è un po' cortino...diciamo che è un'altra prova, per vedere se questa storia ha o no un futuro...

Il capitolo è dedicato al personaggio di Jude come penso si sia capito...nello scorso avevamo capito qualcosa in più sul carattere di Dan: menefreghista, di poche parole e sprezzante verso la madre.

In questo si conosce meglio Jude. Sono dell'opinione che o la si ama o la si odia.

La canzone Hey Jude è dei Beatles ;)

Per quanto riguarda Dan...pian piano si scoprirà meglio anche lui nei prossimi capitoli e soprattutto si spiegherà meglio il perché del suo odio verso la madre...

Spero di avervi incuriosite e fatto sorridere almeno un po' con questo capitolo :)

Vi ringrazio tantissimo per i commenti e per i preferiti/seguiti/ricordate*_* Grazie mille per la fiducia e per i complimenti!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Like dogs and cats ***



Time is running out
r


                                            


                                       Capitolo 02. - Like dogs and cats





Una pesante atmosfera aleggiava nella sala da pranzo di casa Parker: a rompere il silenzio, solo il rumore delle posate e dell'acqua versata dalla brocca nei bicchieri.

Richard Parker era astemio da anni e non tollerava nessun tipo di bevanda alcolica in casa sua, per la “gioia” di Dan che invece sentiva proprio il bisogno di buttare giù un bel bicchierino di Vodka.

-Io sono vegetariana, sai?- Fu la vocetta irritante di Judith a fargli rimpiangere quel bruciore in gola che solo qualcosa di alcolico avrebbe potuto procurargli.

A Dan non era affatto sfuggita l'occhiata silenziosa che Richard aveva lanciato alla figlia per esortarla a parlare, così, indispettito, evitò volutamente di risponderle.

Non voleva parlare con nessuno, ma, soprattutto, non voleva che nessuno si sentisse obbligato a coinvolgerlo in patetiche quanto inutili conversazioni. Stava bene chiuso nel suo mutismo, non vedeva semplicemente l'ora di ritornarsene in camera “sua”.

-Ti piacciono gli animali, Daniel?- La ragazza parlò ancora più controvoglia di prima se possibile e pronunciò il suo nome come il peggiore degli insulti.

Non considerava Dan degno di tante attenzioni, per lei era solo un fastidioso intruso; avrebbe tanto voluto che se ne andasse di sopra a mangiare, lasciandola libera di poter raccontare la sua giornata al padre.

Dan, dal canto suo, quasi si strozzò con l'acqua a quella domanda. No, decisamente non li sopportava proprio gli animali. Forse non era il caso di raccontare di quando una volta, da piccolo con i suoi amici, aveva lanciato dei petardi contro dei gatti randagi.

-Non molto.- Rispose, suo malgrado, impietosito dallo sguardo implorante e stanco della madre.

Il silenzio ripiombò nella stanza e questa volta nemmeno le occhiate di Richard servirono a far parlare Jude.

-Ti piace il baseball, Daniel?- Esasperato dalla figlia, fu l'uomo a prendere le redini della conversazione.

-No.- Le sue risposte erano sempre monosillabiche o il più corte possibile, specie se era quell'uomo a parlargli. Forse era un comportamento immaturo e infantile, ma del resto, chi erano quelle persone per giudicarlo? Sua madre era praticamente un'estranea, dubitava persino che si ricordasse il nome della scuola da lui frequentata. Non sapeva nulla di suo figlio, probabilmente conosceva meglio Judith.

-Lui...preferisce il basket.- Intervenne Delia, esitante.

Il ragazzo spostò velocemente lo sguardo su di lei sorpreso: se lo ricordava. Come poteva, dopo tutto quel tempo?

-Giocava nella squadra del suo liceo.- Concluse sorridendogli amorevolmente.

Daniel distolse lo sguardo con la stessa velocità di poco prima, infastidito da quello che era riuscito a leggere negli occhi della madre.

Giocava, appunto. Si parlava di un anno prima, si parlava di un passato più lontano di quanto sembrasse, di una speranza di vita migliore, di un futuro migliore. Prima che rifiutasse di andare al college, prima che iniziasse a lavorare per potersi comprare quello che voleva e per aiutare il padre a pagare l'affitto.

A lasciarlo ancora più basito, però, fu la reazione della ragazza seduta di fronte a lui che iniziò a tossire convulsamente.

 

Ecco perché! È destino! Si disse Jude, dopo essersi ripresa ed aver bevuto un po' d'acqua.

Lei li aveva sempre odiati i giocatori di basket, odiava l'intera squadra della sua scuola, a partire dal capitano: Edward Russo.

Da mesi quel poveretto ci provava disperatamente con lei senza successo, da mesi, ogni mattina, salutava Jude cantandole canzoni d'amore, ogni giorno una diversa. Era passato da “It's gonna be love” a “BleedingLove”, dove le faceva capire, poggiandosi una mano sul cuore, quanto stesse male per i suoi continui rifiuti. E ogni volta lei, prontamente, gli rispondeva sempre alla stessa maniera: “Vai a cantarla da un’altra parte, idiota”.

A Jude quelle continue dichiarazioni pubbliche avevano sempre dato fastidio, trovava Edward solo rozzo e fastidioso.

Era l'unica ragazza della scuola a pensarlo, ovviamente. Edward si era trasferito dall'Italia qualche mese prima ed era il pettegolezzo più ghiotto dell'intero istituto. Giocava a Milano prima, nella squadra giovanile di basket dell'Armani Jeans, motivo per cui molte ragazze lo avevano adocchiato ancor prima che entrasse nella squadra del liceo.

-Oh basket!- Fece entusiasta suo padre, sperando così, si vedeva, di risultare almeno un briciolo più simpatico agli occhi del figlio della donna che amava.

Povero papà, pensò amaramente. Non sarebbe mai riuscito nel suo intento, si vedeva lontano un miglio che a Daniel non importava andare d'accordo con loro, né voleva conoscerli. Stranamente, riusciva a capirlo. In fondo, sua madre...era malata, quindi il suo mutismo poteva anche essere normale e giustificato, probabile che a modo suo stesse soffrendo. Non era comunque giustificata la sua scortesia.

-Jude, tesoro...- Ecco che la interpellava di nuovo, -Perché non mostri a Daniel la città domani? Sono sicuro che gli piacerà, ci sono molti bei negozi e...- Nient'altro. Non si poteva nemmeno definire una città la loro, era un buco. Due Starbucks, quattro boutique di vestiti in croce, un negozio di elettronica, qualche altro inutile di cianfrusaglie varie, un Mc Donald's, qualche ristorante, un cinema solo, due supermercati e due licei, rivali fra di loro, ovviamente. E tante, tante case.

-Non c'è niente da vedere, non c'è nemmeno bisogno che lo accompagni.- Lo interruppe bruscamente lei. Non avrebbe fatto da balia al moccioso, aveva di meglio da fare. Il fatto che il “moccioso” fosse più grande di lei di un anno era solo un dettaglio, lei non voleva assolutamente averci a che fare. Più stava lontana da lui e dalla sua camera -la sua povera camera! Non voleva assolutamente sapere come l'avrebbe ridotta-, meglio era.

-Jude!- Odiava quello sguardo indignato. -È un ospite!-

-Non fa niente, lasci stare.-

Si ritrovò silenziosamente a ringraziare il ragazzo, anche se mantenne ostinatamente la sua precedente espressione sprezzante.

-Me la caverò meglio da solo.- Si alzò da tavola, senza nemmeno aspettare che sua madre avesse finito di mangiare. Che maleducato!

-D-Dan...- Povera donna, stava cercando con lo sguardo di fargli capire che non era educazione comportarsi in quel modo.

-Se non vi dispiace me ne vado in camera mia.- Non solo ignorò la madre, ma ghignò in sua direzione nel pronunciare l'ultima parola della frase! La sua camera?! Ma come osava?!

Non ebbe il tempo di ribattere perché il ragazzo le diede le spalle subito dopo, ma si appuntò di farlo non appena lo avrebbe incontrato di nuovo il giorno dopo a colazione.

Aveva già limitato i suoi incontri con lui a tre volte al giorno; colazione, pranzo, cena. Avrebbe fatto il possibile per evitarlo per tutto il resto della giornata, a costo di restare fuori con i suoi amici tutti i pomeriggi.

Finirono di mangiare, più serenamente e senza conversazioni forzate, pensò Jude, una mezz'oretta dopo.

Aveva raccontato l'intera giornata a suo padre fra un frutto e l'altro, come faceva ogni sera. Le piaceva vederlo sorridere, le piaceva tirarlo su di morale, le piaceva distrarlo dal pensiero della malattia di Delia. Così come le piaceva che anche Delia la ascoltasse e intervenisse pacatamente, preoccupandosi di non essere ingombrante nel loro rapporto.

Era piacevole quella situazione e le sarebbe dispiaciuto che…se Delia fosse morta, non avrebbero più potuto rivivere quello scenario familiare. E la irritava il fatto che ci fosse Daniel in quella casa, lo vedeva come una “pecora nera”, una macchia che sporcava la sua quiete, la sua routine giornaliera, le sue cene tranquille in famiglia.

Finito di mangiare, Jude aiutò a sparecchiare e lavò i piatti; aveva imparato a cavarsela con le faccende domestiche e a prendersi cura di suo padre molto prima dell'arrivo di Delia, per quello non sentiva ragioni quando la donna si offriva di aiutarla a fare qualcosa.

Suo malgrado, non riusciva a smettere di pensare a Daniel e al suo modo di fare. Conosceva parecchie persone così, l'esperienza le insegnava che quel modo di fare serviva solo a proteggersi dal mondo esterno, ad estraniarsi. Eppure, per quanto da una parte avrebbe voluto essere più comprensiva e gentile, dall'altra non riusciva a fare a meno di pensare a quanto fosse odioso e maleducato. Insomma, avrebbe almeno potuto sforzarsi di comportarsi civilmente, per sua madre se non altro!

A passo strascicato e stanco, si diresse verso la sua nuova stanza, che poi di nuovo non aveva proprio nulla. L'idea di fare la terza incomoda e di assistere a patetiche smancerie fra Delia e suo padre la disgustava, ma sapeva di dover imparare a conviverci.

Passando davanti alla porta socchiusa della sua stanza, si bloccò pensierosa: dopotutto, avrebbe potuto dare il buon esempio al nuovo arrivato, non costava nulla augurargli una buonanotte. Magari avrebbe cercato di non distruggere le sue cose se fosse stata un pochino più gentile.

Diede una sbirciatina al suo interno e si accorse stranita che la camera fosse vuota. Aprì del tutto la porta con una mano ed esaminò inorridita i vestiti e le scarpe del ragazzo sparse a terra. Era un porcile!

Quando rischiò di rompersi l'osso del collo per dribblare quegli insulsi stracci, alzò lo sguardo infuriata, pronta a rimproverare quella beota scimmia del paleolitico.

-Ma che...!- Fu tutto quello che le sue labbra riuscirono a dire. Si era bloccata nel momento esatto in cui lo aveva visto, sdraiato sul suo letto, gli occhi chiusi, un braccio abbandonato sulla fronte, l'altro a penzoloni giù dal materasso, le cuffiette dell'Ipod all'orecchio e le labbra socchiuse. A rompere il silenzio prima e dopo la sua mezza frase, solo il rumore della musica troppo alta e del suo respiro leggero e regolare.

Oh. Non riuscì a pensare ad altro. 

Rimase impalata al centro della stanza, indecisa sul da farsi.

Per qualche strano motivo, non riusciva a distogliere lo sguardo come sarebbe stato giusto fare.

Doveva ammetterlo almeno a sé stessa, Daniel King riusciva quasi ad essere carino quando dormiva. Nessun broncio, nessun sorrisetto odioso, nessuna smorfia altezzosa. Solo...un bel viso rilassato. Finalmente rilassato.

Eppure non era solo il suo viso a catturare la sua attenzione, c'era anche dell'altro: la ciocca di capelli che ribelle gli copriva la fronte, il petto che si alzava ed abbassava lentamente, gli addominali perfetti lasciati scoperti dalla maglietta, le gambe lunghe, snelle e muscolose da giocatore di basket...nel complesso, si ritrovò con vergogna a pensare che Meg avesse ragione: Daniel non le dispiaceva affatto dal punto di vista fisico. Ed era la prima volta che le succedeva, in genere un corpo della sua stessa età non aveva mai attirato il suo interesse, tendeva sempre a guardare uomini più maturi. Anzi, un uomo più maturo, Evan. L’uomo della sua vita, l’uomo di cui si era innamorata da quando aveva dodici anni.

Sbuffò: ok, Daniel poteva anche non essere male fisicamente, peccato però che avesse l'intelligenza di una nocciolina ed i modi di fare di una scimmia, doveva essere ancora rimasto all'età della pietra con il cervello.  

-Sai, dovresti imparare a bussare.- La voce del ragazzo la fece sobbalzare e quelle labbra che prima -ahimé- si era fermata ad esaminare, si piegarono in un sorrisetto molesto.

-Sai, dovresti imparare a leggere; questa è la mia stanza.- Indicò con il pollice il cartello sulla porta che mostrava sfacciato il nome della proprietaria della camera.

Dan si slanciò con le gambe per sedersi, fissandola con un misto di irritazione e divertimento, -Non finché qui ci sono io.-

Si morse il labbro con stizza, diventando rossa per la rabbia. Non poteva ribattere a quella frase, sapeva che lui aveva ragione.

-Bene.- Sbottò alzando il mento, -Dato che io sono una persona educata, sono venuta solo per augurarti una buonanotte.- Aveva perso con onore se non altro.

Lui sollevò il mento a sua volta, soddisfatto e vittorioso: gli aveva appena offerto una risposta con i fiocchi. -Dato che sei una persona educata...impara a bussare, tesoro. A meno che tu non venga per intrattenermi piacevolmente, in quel caso saresti comunque la benvenuta.-

Era più forte di lui: avrebbe voluto evitare tutti in quella casa, starsene per conto suo e parlare il meno possibile...ma con lei proprio non ci riusciva, vedere le diverse tonalità di rosso che stava assumendo il suo viso era quanto di più stuzzicante e divertente avesse visto negli ultimi mesi. Senza contare che era stata lei ad entrare nella sua stanza, era stata lei a cercarlo, lei lo aveva fissato in silenzio per almeno un minuto buono. Lei lo stava provocando, stava stuzzicando il can che dormiva.

Lui? Lui le rispondeva e basta.

-Lo prendo come un invito, cavarti gli occhi dalle orbite con un cacciavite mentre dormi sarà senza alcun dubbio un piacevole passatempo.-

Lei sorrise dell'espressione stupita di Dan e, con un piccolo inchino chiaramente derisorio, si congedò ed uscì dalla stanza.

Però, pensò il ragazzo una volta rimasto solo, ha sempre la risposta pronta la bimba.

Si sfilò le scarpe annoiato, pensando tuttavia che forse era meglio dormire con un occhio aperto per sicurezza. Mai dubitare delle parole di una pazza del resto.

 

*

La mattina dopo, Jude si alzò presto nonostante fosse domenica, decisa a pulire –igienizzare- la sua stanza e a mettere in lavatrice i suoi vestiti.

Esitò un attimo davanti al cartello “Non disturbare” appeso da lei stessa sulla porta della sua camera, poi, dopo aver sospirato profondamente, entrò a passo spedito.

Si era aspettata di trovare la stanza al buio, un odore nauseante di sudore e piedi –l’odore che lei ormai aveva associato a qualsiasi uomo- ad aleggiare nell’aria e i vestiti ancora sparsi per terra; invece trovò la finestra spalancata, la tapparella alzata, i vestiti riposti –male- sulla sedia e l’aria fresca e gradevole del mattino a pizzicarle il viso. E il letto vuoto.

Mosse incerta qualche passo fino a calpestare il tappeto al centro della stanza. 

Doveva ammettere che Daniel era riuscito a stupirla: si era alzato prima di lei. E probabilmente stava gironzolando già per casa.

Storse il naso irritata: non era abituata a vivere con qualcuno che la precedesse la mattina, era abituata ad essere la prima, a pulire tutto quanto senza nessuno fra le scatole, a preparare la colazione prima che suo padre e Delia si svegliassero.

Abbandonò il suo proposito di lavare in terra quando sentì la porta d’ingresso sbattere. Era uscito? O rientrato?

-Potresti evitare di sbattere la porta, c’è gente che dorme!- Sbraitò scendendo di corsa al piano di sotto.

Lo trovò ai piedi delle scale, lo sguardo stralunato di chi non aveva capito una parola di quello che gli avevano appena detto, le guance arrossate, la fronte imperlata di sudore e i capelli scarmigliati.

A Jude bastò lanciare una rapida occhiata alla tuta da ginnastica che indossava per ipotizzare che fosse andato a correre.

Questo ragazzo è veramente strano…si alza presto la domenica mattina per andare a correre e oltretutto ci va…d’inverno?

-Che cosa?- Daniel si sfilò le cuffiette dell’ipod e la guardò dubbioso.

-La porta.- Spiegò più tranquilla di quanto fosse, -Hai sbattuto la porta e ci sono mio padre e tua madre che stanno dormendo di sopra.-

Il ragazzo scrollò le spalle noncurante, prima di sorpassarla per salire al piano di sopra.

-Vedi di far meno rumore la prossima volta, o la porta te la sbatto in faccia, capito?-

Di nuovo, lui non le prestò nessun tipo di attenzione, proseguì tranquillo fino a quando non sparì del tutto dalla sua visuale.

Jude ringhiò peggio di un felino selvatico, -Dove credi di andare, sto parlando con te!- Si aggrappò alla ringhiera e salì a sua volta le scale, a passo pesante e furioso.

Non poteva ignorarla così, ma chi si credeva di essere? Lei era stata la padrona di casa per mesi, lei si era occupata di gestirla da quando sua madre se n’era andata, lei aveva sgridato suo padre quando le sporcava il pavimento di fango o quando le rompeva i piatti, e nemmeno Delia aveva mai messo in discussione la sua autorità da quando era arrivata, nemmeno Delia si era mai permessa di ignorarla.

Lo raggiunse un attimo prima che aprisse la porta del bagno per entrarci, probabilmente per farsi una doccia o per fare Dio solo sapeva cosa.

Stava per gridargli contro che non si doveva più permettere di comportarsi in quel modo, quando Daniel si girò e, dopo aver sorriso in un modo che non le piacque per nulla, le posò un dito sulla bocca.

Sussultò e si sentì andare a fuoco le guance. Per qualche strano motivo, non riuscì a spostarsi, né a tirargli un ceffone sulla mano per allontanarlo.

Non riusciva a muoversi, sentiva solo qualcosa di indefinito svolazzare –e anche piuttosto freneticamente- dentro il suo stomaco.

È per lo schifo, si disse.

-Shh! Tuo padre e mia madre dormono…-

Il suo sorriso a così pochi centimetri dalla sua faccia, ebbe su di lei lo stesso effetto del vino rosso che aveva bevuto una volta a Natale, le fece girare la testa e sentire caldo dappertutto.

Ma non era solo quello ad averle tolto la sua solita e acida risposta pronta: aveva ancora quel dito sulle labbra, e un’infimissima e minuscola parte di lei immaginò come sarebbe stato schiuderle e assaporare...Oh Dio

Jude rabbrividì per il disgusto. Che dannatissimo scherzo della sua mente era mai quello? Che diavolo le prendeva? Lasciarsi sfottere così da quel deficiente senza reagire!

Irritata da sé stessa, alzò di scatto la mano destra e colpì con forza il polso di lui per scansarlo, -Primo: se ti alzi prima delle dieci in questa casa devi fare SILENZIO, lo capisci o il tuo cervello non ci arriva?-

Lui sollevò un sopracciglio divertito, senza tuttavia ribattere.

Gli conviene, pensò Jude furiosa.

-Secondo: io pulisco, io cucino, io lavo e stiro, quindi, a meno che tu non sia capace da solo di fare tutto questo…e non credo,- Sottolineò con un orgoglio tutto femminile quelle ultime tre parole, -Ti conviene fare quello che ti dico se non vuoi restare senza cena e con i vestiti sporchi…anche se non penso che questa seconda cosa ti turberà più di tanto, potresti persino trovarti a tuo agio.- Sfoderò la migliore espressione da stronza del suo repertorio.

Nemmeno quella, però, servì a scalfirlo. Continuava a fissarla dall’alto in basso con un’espressione annoiata che la faceva andare su tutte le furie, probabilmente non la stava nemmeno ascoltando.

Credeva davvero che non sarebbe stata capace di mettere in atto le sue minacce?

Oh, ma chi voleva prendere in giro, lui sapeva benissimo che le sue erano solo parole al vento, Delia sarebbe stata sempre e comunque dalla parte di suo figlio, non lo avrebbe mai lasciato a digiuno. 

-Terzo,- Digrignò i denti e strinse le mani a pugno, -Prova ancora a toccarmi e ti prendo a calci nei coglioni, capito?- Sorridere le costò un certo sforzo, specie ricordando le reazioni avute dal suo stesso corpo poco prima. Era decisamente frustrante, maledizione.

Daniel fece roteare gli occhi per la stanza, prima di soffermarsi di nuovo su di lei, -Posso andare a farmi una doccia, o hai intenzione di seguirmi anche lì?- Una luce maliziosa accese gli occhi del ragazzo che, nonostante lo schiaffo sulla mano, non si era allontanato ancora di un millimetro da lei.

Solo in quel momento, infatti, Jude realizzò quanto Daniel fosse effettivamente vicino, così tanto che le sarebbe bastato allungare un braccio per toccarlo. La cosa sconvolgente era che il pensiero non la schifava per niente, come invece avrebbe dovuto.

Prima che il suo cervello potesse dare altri segni di squilibrio, indietreggiò e annuì piano, -S-sì, muoviti. Puzzi.- Finse un’espressione nauseata e si portò una mano al naso per nascondere in realtà un altro allarmante rossore. Non più allarmante del passo in avanti che fece Daniel un attimo dopo però.

-Comunque, per la cronaca…-

Avvertì le dita del ragazzo fare lievemente pressione su una sua guancia per spingerla a guardarlo bene in viso.

Bastardo, mi sta volutamente toccando di nuovo per provocarmi, in barba a quanto gli ho appena intimato di non fare.

-Io non mi faccio dire da nessuno quello che posso o non posso fare…-

Jude fece per scansarsi, ma non appena ci provò, la presa di Daniel si fece leggermente più forte, giusto quanto bastava per evitare che lei si spostasse.

O che scappasse?

-Sono un ospite qui,- Fece un mezzo sorriso sfrontato, -E non ho intenzione di rispettare il punto uno o il punto due…- La lasciò andare di colpo nel momento in cui Jude cercò di morderlo.

Sembrò riflettere per un attimo su qualcosa, poi ghignò e si voltò, aggiungendo, come se nulla fosse, -E nemmeno il punto tre.-

Idiota.

-A tuo rischio e pericolo.- Ribatté prontamente Judith, mentre posava, senza essere vista, una mano sul petto per cercare di regolarizzare il battito impazzito del suo cuore.

Merda, era nervosa. Grazie al cielo non aveva balbettato, sembrava più sicura di quanto in realtà non lo fosse.

Quel ragazzo era un degno rivale, non le era mai capitato di trovarsi così in difficoltà nel rimettere al suo posto un poppante.

-Io starei attento ai “gioielli di famiglia”.- Lo avvertì con tono petulante.

In risposta le arrivò una sonora risata, sovrastata dal rumore di una porta che si chiudeva alle sue spalle.

 

 

                                              

*

L’acqua scivolava sinuosamente sul suo corpo da almeno una buona decina di minuti e aveva formato, nonostante le porte scorrevoli in plastica, una bella pozza fuori, sul pavimento.

Daniel si passò una mano sui capelli per tirare indietro un fastidioso ciuffo ricadutogli sulla fronte, appoggiandosi, con l’altra mano, sulla maniglia della doccia per interrompere il getto.

Sulla sua pelle si erano formate tante piccole increspature dovute al freddo, ma lui non se ne curò.

Era abituato al freddo di New York, al freddo della città e al freddo della sua casa senza riscaldamento. O meglio, c’era il riscaldamento, ma era sempre stato rigorosamente spento.

-Ho avuto qualche problema questo mese…- si giustificava sempre suo padre, grattandosi la testa, -Per il prossimo dovrei riuscire a pagare la bolletta.-

Ovviamente quel “prossimo” non era mai arrivato. Finito il liceo, era dovuto andare a lavorare lui, se non altro per poter fare la spesa e pagare almeno l’affitto.

Si chiese inevitabilmente come se la stesse cavando suo padre senza i suoi soldi.

Allungò una mano per afferrare il primo asciugamano che gli capitò a tiro ed incominciare a frizionarsi i capelli.

Sicuramente bene, Thomas King era il tipo di persona che sarebbe sopravvissuta anche in mezzo ad una tempesta di neve. Esattamente come lui e a differenza di sua madre.

Lei era più il tipo da casa calda e accogliente, esattamente come quella in cui si era andata a rifugiare dopo averli abbandonati.

Ricordava ancora quando lo prendeva in braccio da piccolo per coccolarlo:

-Ma sei un piccolo rettile!- Esclamava sempre, ad occhi sgranati, quando si accorgeva delle sue mani perennemente fredde.

Strinse con forza l’asciugamano e lo buttò nel cesto dei capi da lavare con stizza. Odiava ricordare il passato, ricordare sua madre con quel sorriso amorevole e materno…prima che se ne andasse e lo lasciasse da solo, con un padre completamente incapace di occuparsi di lui.

Non aveva avuto il coraggio di chiederle nulla dello stato della malattia, né quante probabilità ci sarebbero state di guarire. Non voleva sapere nulla, non era pronto ad affrontare un discorso del genere.

Uscì dalla doccia senza ricordarsi di quella pozza d’acqua ai suoi piedi e finì con il pestarla in pieno.

‘Fanculo.

Imprecò più volte a bassa voce. Chi l’avrebbe più sentita quella noiosa e petulante rompiballe se avesse lasciato delle impronte per casa?

Si sporse per afferrare un secondo asciugamano dal mobiletto lì accanto e se lo passò su tutto il corpo per evitare di gocciolare.

Porco cazzo, qui è tutto così…rosa.

Pensò schifato, sollevando la salvietta con un dito per esaminarla meglio. Se avesse dedicato un secondo in più di attenzione al pezzo di stoffa, probabilmente si sarebbe accorto di quella “J” ricamataci sopra.

Scrollò le spalle e se lo legò in vita, guardandosi intorno con l’intento di trovare qualcosa di adatto ad asciugare tutta quell’acqua.

Optò per il tappetino al centro della stanza; lo prese e lo buttò letteralmente sulla pozza.

Al diavolo, andava bene così, chissene importava della riccia schizzata, aveva già fatto anche troppo.

Anche se…doveva ammettere che stuzzicarla era diventato probabilmente il suo passatempo più divertente in quella casa.

Quando le aveva poggiato quel dito sulla bocca e l’aveva vista sussultare ad occhi sgranati…non avrebbe saputo dire se fosse maggiore la voglia di scoppiarle a ridere in faccia o quella di fare una leggera pressione con l’indice per farle schiudere le labbra.

Avrebbe di sicuro visto quegli occhioni color nocciola spalancarsi ancora di più e avrebbe avvertito il calore e l’umidità di quella piccola cavità sul polpastrello.

Il solo pensiero lo fece fremere violentemente e fu abbastanza certo del fatto che non c’entrasse nulla il freddo quella volta.

Non riusciva ancora a spiegarsi il perché di quell’ultima sua precisazione…

-Non ho intenzione di rispettare il punto uno o il punto due…E nemmeno il punto tre.-

Cosa importava, in fondo, a lui di toccare quella schizofrenica del cavolo?

Si sarebbe solo rimediato un bel calcio nei coglioni oltretutto, non ne valeva decisamente la pena.

Probabilmente era stata solo la voglia di precisare che lui non si faceva di certo comandare da una petulante ragazzina uscita da chissà quale manga per ragazze, a fargli rispondere in quel modo. Non faceva più quello che gli dicevano da quando aveva all’incirca 13 anni.

Scosse appena la testa sorridendo: non era più stato sgridato in quel modo da quando aveva 13 anni.

Non aveva ancora smesso di sorridere una volta uscito dal bagno, ma un urlo agghiacciante e una ciabatta dritta sul naso, furono sufficienti a distrarlo da quel pensiero e a farlo sbraitare con un: “Ma che cazzo…?!”

-Levati subito il mio asciugamano di dosso, schifoso maniaco!-

Jude si portò le mani fra i capelli disperata ed incominciò a snocciolare una serie di infiniti: “Che schifo! Che schifo! Che schifo!” fra sé e sé.

La rabbia per la ciabatta lanciatagli poco prima passò in secondo piano, Daniel era nuovamente in procinto di riderle in faccia.

Quella ragazza se ne usciva con frasi maliziose senza nemmeno accorgersene.

Vuole che me lo tolga? E va bene…

Sbuffò e alzò gli occhi al cielo, portando con nonchalance le mani all’estremità superiore dell’unico pezzo di stoffa che lo ricopriva, -D’accordo, come vuoi.-

-No!- Quello strillo, oltre a spaccargli i timpani, fece uscire allarmati anche Richard e Delia dalla stanza accanto.

-Che succede?- Chiesero entrambi mezzi addormentati.

Jude arrossì violentemente e scosse la testa scoraggiata, -N-Niente, io…io non intendevo dire quello!- Stava per avere un esaurimento nervoso, povera principessina, -Non azzardarti a togliere quel coso e brucialo quando hai finito di usarlo!-

Si congedò così, voltandosi dall’altra parte e scendendo a passo svelto le scale per dirigersi al piano di sotto.

-La ciabatta, Cenerentola!- Le gridò contro divertito, ma di lei non vide più nemmeno l’ombra.

Sua madre e Richard ancora lo guardavano interrogativi e lui, dopo essersi stretto nelle spalle, se ne andò tranquillo in camera sua a cambiarsi.

Che famiglia di psicopatici lo ospitava…eppure non ricordava di essersi divertito così tanto da…un bel po’.

 

 

*Note dell’autrice*

 

Dopo più di un anno eccomi qui, mi dispiace tantissimo per questo immenso ritardo, non c’è nessuna giustificazione che possa discolparmi.

Vi ricordate ancora di Daniel e Jude? Spero di sì, perché ho ripreso a scrivere di loro e non ho intenzione di smettere tanto presto :)

Sono di corsissima, ma avevo detto nel gruppo di facebook che avrei postato oggi e così eccomi qui.

Non sono riuscita a rispondere alle recensioni ma, come per la nuova storia “The unexpected lifeof Emma Wimsey”, lo farò man mano. Sarò lentissima probabilmente, ma non disperate, arriverò a ringraziarvi singolarmente perché è una cosa a cui tengo.

Vi lascio con un immenso, gigantesco GRAZIE per l’affetto dimostrato a questa storia solo agli inizi, l’ho apprezzato tantissimo.

Un bacione grandissimo!

Bec

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Back to school ***



Time is running out

r

                               

Capitolo 3: Back to school

 

 

La convivenza con Daniel le stava causando più problemi del previsto.

Contava di passare le giornate ad ignorarlo, salutarlo solo se strettamente necessario ed augurargli una forzata buonanotte la sera.

Aveva purtroppo capito che sarebbe stato più difficile del previsto, specie se Daniel continuava a farle saltare in quel modo i nervi.

Era lì da solo un giorno e mezzo e già lei non ne poteva più di quel suo modo strafottente di fare e dei suoi sorrisi sfacciati.

Oltretutto…quel pervertito schifoso aveva osato toccare il suo bellissimo e preziosissimo asciugamano ricamato!

Non sarebbe bastato lavarlo per pulirlo dallo schifo, avrebbe dovuto buttarlo, e tutto perché Daniel-faccio-quello-che-mi-pare aveva sentito l’improvviso bisogno di lavarsi e di utilizzare, fra tutti gli altri asciugamani presenti, proprio il suo!

La mattina dopo, uscita dalla doccia, Jude fu costretta ad avvolgersi nell’orribile e vecchio accappatoio color topo di sua nonna, morta dodici lunghi anni prima. Quello la diceva lunga su quanto tempo quel pezzo di stoffa fosse stato chiuso nell’armadio.

Poteva ballarci la samba lì dentro, era talmente largo da coprirle interamente le mani.

Sospirò affranta e tirò su il cappuccio per frizionarsi i capelli umidi: l’orologio segnava le sei e venti, così, avvolta nel calduccio di quel tessuto così odiato, scese al piano di sotto con l’intento di mettere a scaldare del latte per lei e Delia e preparare un buon caffé a suo padre.

Cacciò un urlo tremendo quando si accorse che la cucina non fosse vuota; il suo peggior incubo –Dio, quale adolescente disoccupato si alzava così presto la mattina?!- stava sfogliando il giornale del giorno prima e sorseggiava tranquillo una tazza di…qualcosa di scuro che Jude classificò come “ignoto”, caffé probabilmente.

Quando la sentì urlare in quel modo, alzò lo sguardo per squadrarla infastidito, -Sbaglio o sei stata proprio tu a dire che bisogna fare silenzio la mattina?-

Jude ringraziò tutti i suoi santi protettori per il fatto che il ragazzo non avesse fatto qualche battuta di cattivo gusto sul suo ridicolo abbigliamento da Puffo. Ci mancava solo quello, era colpa sua se si trovava quel coso spelacchiato di sua nonna addosso!

-Che cavolo ci fai alzato a quest’ora?- Sbottò punta sul vivo, abbassando il cappuccio per rendersi, per quanto possibile, un tantino più presentabile. Non che le importasse di apparire più carina ai suoi occhi, lo avrebbe fatto anche se avesse avuto Delia di fronte.

Lui indicò ironicamente il giornale, -Secondo te? Ho intenzione di uscire e di cercarmi un lavoro, non ci tengo ad essere mantenuto da tuo padre.-

Il sopracciglio di Jude si arcuò, mentre le sue mani lottavano contro le maniche troppo lunghe dell’accappatoio, -Quello è di ieri.- Disse semplicemente, riferendosi al giornale.

La verità era che era rimasta piuttosto sorpresa dalla risposta del ragazzo, non lo faceva così…in gamba.

Avrebbe potuto vivere a scrocco in casa di sua madre –perché Delia era proprietaria di quella casa almeno quanto suo padre-, invece si stava già dando da fare per dipendere il meno possibile da loro.

Con sommo disappunto, si trovò a pensare che fosse un comportamento da ammirare il suo.

Si chiese, inevitabilmente, perché Daniel, più grande di lei di un anno e quindi già diplomato, non si fosse informato per frequentare qualche college, visto e considerato che non le sembrava affatto stupido. Odioso magari, ma non stupido.

Ne conosceva lei di ragazzi stupidi, conversare con loro era come parlare ad un bambino di due anni, non capivano metà di ciò che lei diceva. Senza contare che i loro arguti discorsi senza senso vertevano sempre sulle stesse parole volgari, ripetute e biascicate almeno una volta in ogni frase, come se ometterle fosse stato un crimine.

-Lo so.- Daniel tornò a sfogliare le pagine del quotidiano con meticolosa attenzione, per non perdersi nessuna allettante proposta d’impiego, -Ma quello di oggi non l’hanno ancora recapitato e io ho intenzione di uscire prima che si sveglino i tuoi.-

La ragazza sbatté le palpebre allibita: aveva detto i tuoi. Era come se…se lui si fosse appena dissociato da tutti loro, persino da sua madre, era come se si sentisse un completo estraneo lì.

-Un lavoro.- Solo quando richiuse la bocca di scatto si accorse di averla spalancata alla rivelazione di poco prima, -Stai cercando un lavoro, il secondo giorno che sei qui, su un giornale vecchio, alle…- controllò l’orologio di sfuggita, -sei e mezza del mattino? Sai di non essere normale?-

Lui la guardò di sottecchi divertito, -Sono abbastanza sicuro di essere più normale di te, anche se non è una vera e propria rassicurazione.-

La ragazza decise per una volta di lasciar correre quella provocazione bella e buona, dopotutto era stata lei ad insinuare per prima che lui avesse qualche problemino mentale, -Non troverai un lavoro qui, è tutto desolatamente deserto.- Non c’erano locali per giovani, cinema, centri commerciali…era una piccola cittadina con il minimo indispensabile, non sarebbe riuscito a trovare tanto facilmente un’occupazione.

Daniel fece una smorfia e si alzò, -Ci sarà un bar che ha bisogno di aiuto a gestire i tavoli, no?- Sciacquò la sua tazza nel lavandino e sorpassò la giovane per dirigersi all’ingresso.

Jude lo seguì con lo sguardo pensierosa; era abbastanza certa del fatto che, se anche ci fosse stato qualche posto disponibile, avrebbero di sicuro dato la precedenza ai disoccupati del posto, non ad un ragazzo che se ne sarebbe andato nel giro di qualche mese.

-Non credo, ma puoi sempre chiedere allo spacciatore qui in fondo alla strada se ha bisogno di un collega.- Fece ironica, aggrottando appena le sopracciglia.

Lui si voltò e le regalò il primo vero sorriso da quando era lì, cosa che per un attimo la destabilizzò.

Maledetto Daniel King, che diavolo di sorriso da pubblicità del dentifricio aveva?!

-Vuoi dire che la droga è arrivata anche in questo buco di posto?- Il suo tono di voce fintamente incredulo la fece ridere suo malgrado. Quando se ne accorse, smise subito e si schiarì la voce imbarazzata, -Incredibilmente sì, i ragazzi l’hanno scoperta la settimana scorsa insieme al fuoco, è la novità del momento.-

No, un attimo, fermi tutti. Stava davvero scherzando con lui? Dov’era finita l’acidità? Doveva riprendersi il prima possibile!

Il ragazzo le restituì un’occhiata compiaciuta che durò qualche secondo di troppo e Jude iniziò a sentirsi vagamente a disagio.

Perché mai la stava fissando in quel modo? Aveva forse qualcosa di strano addosso –accappatoio ridicolo a parte s’intendeva-? Stava per incavolarsi di nuovo e gridargli contro che fissare le persone era da maleducati, quando lui distolse lo sguardo e scosse la testa sorridendo, -Divertiti a scuola Judith.-

…Judith?

Jude aprì la bocca per dire qualcosa, ma si ritrovò a boccheggiare come un pesce, in cerca di una replica che il suo cervello non le suggerì.

Si riscosse da quello stato di trance solo quando vide una bassa ragazzetta dai capelli rossi finire addosso a Daniel, che nel frattempo aveva aperto la porta di casa per uscire.

-Oddio, scusa!-

La sua migliore amica, Maggie, aveva portato le mani al viso rossa per la vergogna, gesto che compiva sempre quando era nervosa.

-Ehi, nessun problema, tranquilla.- Daniel scrollò le spalle e accennò un mezzo sorriso, prima di scansare la sua esile figura e riprendere a camminare.

Con una piccola nota di irritazione, Jude si rese conto che un sorriso così gentile non lo aveva praticamente mai rivolto a lei, nemmeno quando si era presentata a lui educatamente. Che cavolo di problema aveva con lei?

-Ok, chi era quello?- Maggie riprese a respirare a fatica ed indicò la porta appena richiusa ad occhi sbarrati.

Non fosse stata la sua migliore amica, Jude l’avrebbe definita patetica.

La guardò scettica, prima di sbuffare un po’ scocciata, -Secondo te?-

Era assurdo, illogico e stupido, ma…era irritata dalla presenza di Meg. Non tanto perché, come al solito, era arrivata quarantacinque minuti prima per scroccare da lei la colazione, quanto per il fatto che, in parte per colpa del suo arrivo anticipato, non aveva potuto rispondere nulla a Daniel. Anche se…a dire il vero non è che fosse sul punto di farlo, Meg le aveva solo evitato di continuare a boccheggiare come una scema in cerca di qualsiasi cosa da dirgli.

Grazie? Buona fortuna per il lavoro?

Non era riuscita a capire se il tono in cui aveva pronunciato il suo nome era derisorio o semplicemente…amichevole.

Divertiti a scuola Judith.

Le era sembrato più la seconda, ma non lo avrebbe comunque dato per certo.

-Quello è il figlio di Delia?- La sua amica era a dir poco sconvolta.

-No, guarda, era il postino…l’ho fatto entrare per farmi sbattere sul tavolo, sai…- Si spostò i capelli indietro e si fece aria con una mano fingendo un’improvvisa vampata di calore, -Certo che era il figlio di Delia, Meg! Quale altro idiota potrebbe uscire da casa mia a quest’ora del mattino?!-

Era quasi certa di aver perso la sua amica a metà del discorso, non aveva smesso per un attimo di fissare la porta, -Oh porca miseria, non scherzavi quando dicevi che era figo, per forza hai gli ormoni a mille!- Strillò Meg estasiata, coprendosi la bocca con una mano. Per asciugarsi la bava? Probabile, pensò Jude.

Storse il naso contrariata, -Quali ormoni a mille? L’unica in calore qui sei tu.- Si diresse in cucina per mettere a scaldare del latte per lei e per Delia e Maggie la seguì senza smettere di fare domande.

-Che vi siete detti fino ad ora? Quanti anni ha? Da dove viene? Ma…-

Finalmente si era fermata! Jude sollevò lo sguardo al cielo e ringraziò chiunque fosse stato così generoso da aiutarla.

-Jude, ti sei fatta vedere così?- Meg spalancò la bocca e la indicò con un indice piuttosto tremolante.

Ok, l’accappatoio di sua nonna non era bello e setoso come il suo prezioso asciugamano rosa ricamato, ma non faceva nemmeno così schifo da meritare una reazione del genere!

-Così come?- Abbassò lo sguardo stranita e solo in quel momento si rese conto della tragedia.

-Oh…merda!- Fu tutto ciò che riuscì a dire, mentre guardava terrorizzata il blu del suo reggiseno fare capolino dall’orrendo tessuto grigio topo che indossava.

Non aveva stretto abbastanza bene l’accappatoio in vita e quel misero nodo fatto frettolosamente in bagno si era pian piano allentato, lasciandole scoperta buona parte delle gambe e i bordini in pizzo del reggiseno.

Maledizione, ecco perché aveva sempre odiato gli accappatoi! Ed ecco perché…oddio, ecco perché Daniel l’aveva fissata tanto a lungo prima di uscire! E non aveva detto niente il bastardo, si era goduto in silenzio lo spettacolo!

-Ammazzami.- Si schiaffeggiò la fronte da sola per la sua scemenza, -Chissà quanto ci riderà su quello stronzo.- Mugolò avvampando al solo pensiero.

Meg si sedette sullo sgabello di fronte a lei e si lasciò scappare una risatina, -Su su, non essere così melodrammatica. Scommetto invece che ci penserà su parecchio, avrà poco da ridere.- La rossa sospirò sognante e appoggiò il mento al palmo della mano, -Cosa darei per avere anche io un fisico come il tuo…di te i ragazzi non ridono, ci fossi stata io al tuo posto avrebbe riso sì.-

-Piantala di dire le tue solite idiozie.- Non le piaceva quando Meg si autocriticava così, era una bella ragazza ma era troppo, troppo insicura. –Vorrei averle io le tue forme, sono piatta come una tavola, di che ti lamenti tu?!- Giacché faceva bella mostra di sé, Jude indicò eloquentemente il suo reggiseno molto imbottito. Merito di quel meraviglioso push up se la sua seconda scarsa sembrava quasi una seconda piena.

-Potresti fare la modella…- Borbottò semplicemente l’amica in risposta.

Judith sbuffò, già stanca di quel discorso da bambini delle elementari su chi fosse messa meglio fisicamente, molto simile all’infinito “no, ti amo di più io” di due fidanzatini schifosamente smielati.  

-Lasciamo perdere va.- Schioccò la lingua rassegnata, -Allora, che ti faccio stamattina?- Ormai era diventata una specie di bar di fiducia per Meg; i suoi genitori non facevano che litigare dalla mattina alla sera, per questo lei, appena poteva, scappava a casa della sua migliore amica Jude, anche la mattina presto per fare una colazione decente e in santa pace.

-Le frittelle.- Maggie sporse il labbro come una bambina piccola, -Lo sai che le adoro.-

Jude ridacchiò divertita, mentre scuoteva la testa davanti alla golosità della sua amica, -Lo so, lo so. Frittelle in arrivo!-

 

 

                                      

***

 

Non lo credeva possibile, eppure non era riuscita a sentire neanche una parola della lezione di geografia, non aveva smesso nemmeno per un secondo di pensare a…coso. Si rifiutava categoricamente di pensare persino al suo nome, chiamarlo “coso” la faceva sentire meno stupida.

Chissà se aveva trovato un lavoro…non ce lo vedeva sinceramente a contatto con i clienti, in un negozio come commesso o in un bar a servire ai tavoli. Anche se…quando voleva –raramente- sapeva essere gentile tutto sommato, se avesse sorriso spontaneamente e con la stessa dolcezza riservata a Maggie quella mattina, la clientela femminile sarebbe di sicuro impazzita.

Si appoggiò al suo armadietto e sospirò scocciata; assurdo che quell’essere avesse occupato per un’ora intera la sua mente, doveva pensare ad altro!

-Jude!-

L’aveva proprio chiamata la sfiga: il suo secondo incubo personale.

Un momento, ma da quando quello scocciatore di Edward Russo era diventato secondo?

Da quando al primo posto c’è coso.

-Che vuoi, Russo?- Mantenere le distanze sempre e comunque con un ragazzo più appiccicoso di una cozza.

Lui le passò un braccio intorno alle spalle e sorrise sornione, -La tua canzone!-

Jude fu quasi tentata di staccarglielo a morsi quell’ingombrante e pesante arto superiore, -Edward…- Si portò le dita alle tempie esasperata, -Non le voglio sentire le tue dannatissime canzoni d’amore, lo vuoi capire?!-

Lui non l’ascoltò nemmeno, come sempre del resto, -Questa è italiana, probabilmente non la capirai, ma poi ti spiego che dice!-

Odiava quel ragazzo, le sembrava di parlare al vento quando parlava con lui. Lo odiava da quando, durante la prima lezione di francese, le aveva detto “Je t’aime” davanti a tutta la classe, facendo scoppiare a ridere persino l’insegnante.

Jude si era vergognata come mai in vita sua, era diventata rossa come i capelli di Maggie e lo aveva colpito sulla schiena con l’obeso (credeteci, lo era) e immenso “Dizionario per Studenti di francese” per vendicarsi.

Non sopportava certe scenette plateali, non sopportava qualsiasi forma di romanticismo che la mettesse al centro dell’attenzione.

Probabilmente, se ad un ragazzo fosse venuta la brillante idea di cantarle una canzone sotto casa come nei film, lei gli avrebbe scaraventato contro il suo televisore ed il suo stereo pur di ferirlo e farlo smettere.

-Sì, certo, perché non vai a cantarla a Claire McGallagher? Mi sembra un tantino scontenta questa mattina.- Propose lei speranzosa, indicando con il mento la ragazza che la stava trucidando con lo sguardo dall’altra parte del corridoio.

Logico che Claire fosse scontenta; quella troietta aveva fin da subito puntato gli occhi su Edward e il fatto che lui avesse il suo braccio da scimmia poggiato su di lei non rendeva particolarmente entusiasta la bionda e patetica cheerleader.

Edward la ignorò di nuovo, si mise una mano sul cuore e iniziò a cantarle, più stonato che mai, -E svegliarsi la mattina, ah…tuturuturututu, con la voglia di parlare, solo con teee!- La indicò convinto ed ammiccò, mentre Jude si guardava intorno imbarazzata.

Mio Dio, questa è pure peggio delle altre!

Non voleva nemmeno sapere che diceva, non le serviva la traduzione, ne aveva già abbastanza, -Ed, Ed, Ed!- Lo interruppe in fretta, prima che intorno a loro si formasse un cerchio di curiosi impiccioni, -Tralasciando il fatto che è orrenda, ti suggerisco di andare a cantarla a qualcun’altra se non vuoi ricevere un pugno dritto sui denti.-

Ed eccolo ancora lì, come ogni mattina, sempre la stessa identica storia: Edward cercava di conquistarla, nemmeno lei sapeva il perché, con un’altra canzone d’amore.

All’inizio aveva pensato che fosse il suo orgoglio da maschio respinto spingerlo ad umiliarsi così per corteggiarla: lei era una delle poche che non sbavava dietro a quel bel fisichetto da giocatore di basket che si ritrovava, quindi aveva ipotizzato che lui volesse conquistarla semplicemente per dimostrare a sé stesso e a tutta la scuola che nessuna ragazza potesse resistergli.

Poi però la cosa era diventata fin troppo insistente e sospetta, tanto che Meg aveva iniziato ad insinuarle il dubbio che Edward potesse davvero essersi preso una cotta per lei. Il motivo di quell’interesse così duraturo Jude non era ancora riuscita a capirlo, probabilmente Edward aveva chiare tendenze suicide.

Non che lei si considerasse così brutta da non poter attirare l’attenzione di un ragazzo, tutt’altro, era piuttosto sicura di sé e si piaceva fisicamente, ma era anche abbastanza intelligente da fiutare qualcosa di sospetto nel comportamento del ragazzo.

Solitamente i ragazzi a cui aveva dato un due di picche si erano arresi subito ed erano andati altrove a cercare qualcuna disposta a darla su un piatto d’argento, Edward invece continuava senza sosta da quasi un anno.

Perché con tutte le ragazze carine che gli ronzavano intorno, lui perdeva tempo con lei? Che aveva fatto per beccarsi quella piaga?

-Non ti piace?- Lui non se la prese, era abituato al suo modo scontroso di fare. –Vuoi sapere che dice?- Le sorrise a due centimetri dal viso e fece per avvicinarsi ulteriormente…-AH! Ahia!- Con il risultato che la sua crestina bionda da deficiente venne afferrata con forza dalla mano della sua bella.

-Vuoi sparire o no, idiota?!- Provò un sadico piacere nel dirlo, mentre tirava con decisione quei patetici ed ingellati peletti che aveva in testa.

-Va bene, va bene, va bene!- Si arrese lui, implorandola con lo sguardo di lasciarlo andare.

Le dispiacque quasi rilasciarlo, era un piacevole antistress maltrattarlo.

-Accidenti piccola, sei veramente violenta!- Ed il modo in cui lo disse, così ammiccante, le fece venir voglia di mostrarsi ancora più aggressiva.

-Fila a lezione cretino, la campanella è già suonata!- Ormai non sapeva più che fare con lui, né gli insulti, né tantomeno la violenza, servivano a tenerlo lontano.

-Sissignora!- Ridacchiò mettendosi sull’attenti, prima di mandarle un bacio con la mano e di sparire dalla sua vista alla velocità di Speedy Gonzalez.

Che liberazione! Se non altro lo stress dovuto a quel deficiente di Russo, le aveva fatto scordare coso, almeno per un po’…

 

 

                                      

***

 

-Cioè, fammi capire…- Jason Dylan alzò le folte sopracciglia scure confuso, -Il figlio di Delia ora vive con voi e dorme nella tua stanza?-

Avrebbe volentieri strozzato Meg per aver informato il loro amico di quel particolare, non era tanto in vena di parlarne.

Sbuffò contrariata ed incrociò le braccia al petto, -Esatto.-

-Lui dorme nella tua camera? Ed è ancora vivo?- Jason rise e si sporse per fregare una patatina dal piatto di Maggie, ignorando bellamente il suo ”Ehi” di protesta, -Massima stima per questo tizio.- Commentò annuendo ammirato.

-Che carino! Ma tu da che parte stai scusa?- Lo accusò Judith stizzita.

-La tua, cherié, sempre e comunque. Ma non posso che essere solidale con un poveraccio che sopporta i tuoi deliziosi momenti di isteria.- Ridacchiò piano, per evitare di offenderla troppo e di beccarsi quindi qualcosa di doloroso in faccia, -Bisogna poi ammettere che se è ancora vivo e con tutti i capelli in testa è da stimare.-

Ogni riferimento a Edward Russo e ai suoi capelli tirati era puramente casuale.

-Guarda che io non sono così psicopatica da tirare i capelli al primo che passa, eh.- Mordeva solo se stuzzicata, era una persona di natura pacifica lei. Erano Edward e coso a farla sclerare.

-No, ma al primo che osa sfiorare qualcosa di tuo sì.- Jason fece spallucce.

Certo che sì, era molto gelosa dei suoi effetti personali, che c’era di strano?

-La fai facile tu, non hai un perfetto estraneo in camera.- Mise su un broncio offeso che la fece sentire un po’ una bambina.

-No, infatti, ma so per certo che se avessi una perfetta estranea in camera non starei a perdere tempo per lamentarmi.- Sghignazzò lui soddisfatto.

-Jay, sei il solito porco!- Meg gli assestò un pugno sul braccio, -Pensi solo a quello, fai schifo!-

-Che volete che vi dica, sono un uomo, ho le mie esigenze.- Si spostò un ciuffo di capelli con fare teatrale. Il solito buffone.

Sia Maggie che Jude ci misero poco a cedere e a lasciarsi sfuggire un sorriso. Jason era Jason, c’era poco da fare. Dovevano tenerselo così.

-Allora, che ti ha cantato questa mattina Edward?- Scherzò il suo amico, cambiando discorso come se nulla fosse.

Sì, i suoi amici erano al corrente dell’inquietante fissa del giocatore di basket per lei. In pratica lo sapeva tutta la scuola.

Jude si appoggiò allo schienale della sedia e lo guardò eloquentemente.

-Era così brutta?- Meg si portò l’unghia del pollice alla bocca ed incominciò a mangiucchiarla come sempre.

-Terribile. Non ho capito nemmeno che mi ha detto, ha cantato in italiano questa mattina.-

Jason scoppiò a ridere così forte da attirare l’attenzione di un gruppo di ragazzine del primo anno, -Ma che romantico! E fammi indovinare…ti ha portato degli spaghetti e delle polpette per caso? Aveva una fisarmonica con sé?-

-Jay…- Lo richiamò Judith con voce bassa e -sperava che lo fosse- minacciosa.

-Vi siete baciati mentre mangiavate lo stesso spaghetto? E lui con il naso ti ha spinto una polpetta nella…-

-Jay!- Strillò, questa volta più forte. Santo Cielo, che amico cretino che aveva!

-Jay, hai un’idea un po’ troppo stereotipata degli italiani, non tutti hanno dei baffoni e una fisarmonica.- Rise Meg, ignorando lo sguardo omicida della sua migliore amica.

-Mi sono lasciato influenzare dalla Disney…- Jason annuì pensieroso, -Ad ogni modo non puoi negare che questa versione di te e Edward come Lilly e il Vagabondo fosse esilarante!- 

La mora socchiuse gli occhi infastidita, poi rilassò i lineamenti e sorrise a sua volta, -No, direi di no. Oddio, ci mancava solo che mi portasse degli spaghetti a scuola, glieli avrei spalmati in faccia!-

Risero tutti e tre ad immaginarsi la scena, sapevano che Jude lo avrebbe fatto sul serio.

Il suono della campanella che annunciava la fine della pausa pranzo, spense quel breve moto d’ilarità e li fece tornare seri.

-Che palle, di già?- Protestò Meg, alzandosi con il suo vassoio per svuotarlo.

-Ragazze, solita serata cinema domani?- Chiese di sfuggita Jason, scattando a sua volta in piedi per non tardare a lezione.

-Ovvio, come sempre. Che si vede?- Jude si rivolse a Meg, esperta di cinema e perennemente sintonizzata su Coming Soon.

-Ho visto il trailer del nuovo film di Justin Timberlake, In time, mi ispira.-

Raccontò loro brevemente la trama e alla fine li convinse ad optare per quello.

Si misero d’accordo per l’orario e si salutarono affranti nel corridoio, pronti ad incominciare con le lezioni del pomeriggio.

 

 

                                      

***

 

L’orologio ticchettava fastidioso sopra la testa dell’uomo da almeno venti minuti buoni, eppure non ne sembrava minimamente infastidito a differenza del suo interlocutore.

Daniel trattenne a stento uno sbuffo e si appoggiò con l’avambraccio destro alla scrivania davanti a sé, -Posso incominciare già da ora?- Chiese impaziente, squadrando attentamente il volto del suo futuro capo.

Questi annuì pensieroso, senza distogliere nemmeno per un attimo lo sguardo dal curriculum del ragazzo. Ottimo, ottimo curriculum.

Daniel King si era diplomato con una media altissima di voti ed aveva già svolto una serie di incarichi che non lo rendevano affatto un novizio nel mondo del lavoro, tutt’altro.

-Quanto hai detto che intendi restare qui, ragazzo?- Gli domandò grattandosi il mento.

Lui si passò una mano fra i capelli nervosamente e sospirò, -Qualche mese, non so ancora dirle con esattezza quanti.- Il tempo necessario perché sua madre guarisse o…incrociò le braccia al petto e strinse le mani a pugno con forza nel pensare all’altra eventualità.

Cercava di pensarci il meno possibile, perché ogni volta che lo faceva era come ricevere un pugno dritto nello stomaco, ma era difficile ignorarlo del tutto.

-Capisco.- Trevor Donovan assentì nuovamente con il capo, alzandosi in piedi e porgendo la mano al suo nuovo giovane dipendente.

-Beh Daniel…sono sicuro che ti troverai bene qui, ho visto poi che hai già lavorato come cameriere. Per qualsiasi cosa chiedi pure a Becky e Nate, saranno felici di aiutarti.-

Daniel ricambiò la stretta e sorrise soddisfatto, -Grazie mille signor Donovan, farò del mio meglio.- Frase fatta, ma sempre d’effetto.

Era veramente grato a quell’uomo per averlo assunto, gli serviva davvero un minimo d’indipendenza economica per quei mesi.

Aveva avuto altri colloqui quella mattina, ma nessuno aveva portato ad un impiego; non appena parlava della sua permanenza temporanea, veniva congedato sempre con la stessa frase: “Cerchiamo qualcuno che rimanga per più tempo”.

Era una fortuna che Trevor Donovan stesse cercando qualcuno per sostituire solo momentaneamente la ragazza che serviva ai tavoli, Eleanor, rimasta a casa perché incinta.

La paga non era un granché, ma era abbastanza per potersi permettere di portare i suoi vestiti in lavanderia e comprare prodotti per il bagno (di certo non avrebbe usato lo shampoo alla fragola di quella pazza isterica), cibo, ricariche per il telefono e magari anche qualche asciugamano…

Scosse la testa e passò lo straccio sul tavolo all’angolo: ripensare a quella ridicola e orrenda salvietta rosa con quella “J” ricamataci sopra lo fece sorridere. 

Automaticamente volò con la testa al ricordo di quell’accappatoio grigio che indossava la pazzoide quella mattina…era dieci volte più grande di lei, eppure non era bastato a coprire quelle snelle e lunghe gambe...

Deglutì a vuoto e diede uno strattone un po’ troppo forte che fece cadere accidentalmente la saliera sul tavolo.

Fanculo.

Sorrise a mo’ di scuse a Becky che lo stava tenendo d’occhio da dietro il bancone.

La bionda, che doveva avere al massimo 23 anni, sospirò e fece un piccolo cenno con la mano divertita, -Tranquillo, io il mio primo giorno ho fatto pure di peggio.-

Confortante saperlo. Se non altro non era isterica ed incazzosa come qualcun altro di sua conoscenza.

Sbuffò per scaricare la tensione e si accinse a pulire quel casino: purtroppo aveva ancora fin troppo chiara in mente l’immagine di Judith mezza nuda e sorridente.

Probabilmente lei non se n’era nemmeno accorta, lui sì però. Aveva notato eccome il modo in cui le sue braccia incrociate schiacciavano il suo piccolo seno facendolo sembrare più grosso, aveva scoperto subito i contorni del reggiseno, aveva seguito avidamente con lo sguardo la linea del collo fino ad arrivare a quel bordino blu in pizzo, scoprendosi poi fin troppo deluso nel trovare il resto della sua pelle coperta da quell’ingombrante e vecchia stoffa.

Se non altro si era potuto consolare con l’allettante visione delle gambe, anche se aveva potuto vedere ben poco…poco rispetto a quello che avrebbe voluto vedere.

Era pur sempre un uomo e, anche se gli seccava ammetterlo, la pazzoide aveva un fisichetto niente male. Peccato solo per il carattere, veramente pessimo.

Sicuramente gli avrebbe fatto una sceneggiata se si fosse accorta del suo sguardo, per quello aveva smesso, a fatica, di fissarla e l’aveva congedata velocemente con un “Divertiti a scuola Judith” prima che potesse incominciare a strillargli contro.

-Ehi!-

Dan alzò la testa e lo posò gli occhi su un ragazzo dai capelli neri che lo stava fissando divertito.

Non era di sicuro un cliente, l’avrebbe visto –e sentito, dato lo scampanellio insopportabile che accompagnava l’entrata di qualcuno nel locale- entrare dalla porta in vetro d’ingresso.

Probabilmente doveva essere l’altro ragazzo che lavorava lì, il tizio di cui gli aveva parlato Trevor.

-Daniel, vero? Io sono Nate.-

Ricambiò svogliatamente il sorriso e abbandonò lo straccio sul tavolo per stringergli la mano, -Sì, ciao.-

-Sei nuovo di qui?- Nate lo studiò attentamente, quasi cercasse di ricordarsi se l’avesse già visto da qualche parte.

Grandioso. Era uno a cui piaceva conversare, cosa che Dan avrebbe preferito di gran lunga evitare.

-Sì.-

-Da dove vieni di bello?-

Il locale era praticamente deserto a quell’ora, si riempiva principalmente la mattina e all’ora di pranzo, quindi c’era ben poco da sperare che Nate trovasse qualcosa da fare e la smettesse di rompere.

-New York.- Il solo pronunciare quel nome gli fece venire una fitta di nostalgia allo stomaco.

-Figo! Ci sono stato una volta!-

Incredibile, un abitante di quel buco di posto che era stato una volta a New York, stava per commuoversi dalla gioia.

-Senti, stasera io e Becky andiamo a berci una birretta al pub in fondo alla strada…ti va di venire?-

Stava già per rispondere precipitosamente di no, quando l’idea di passare la serata a casa con quella famiglia perfetta, triste e pallosa lo fece sorridere appena in direzione del suo nuovo collega.

-Perché no.- Non gli avrebbe di certo fatto male uscire con i suoi nuovi colleghi.

 

 

*Note dell’autrice*


Lo so che molto probabilmente non era questo aggiornamento che vi aspettavate, ma…sto lavorando a tutto, non trascurerò nulla.

Sto scrivendo il seguito di Kidnapped, il prossimo capitolo di Emma e sto scrivendo su Lore e Ali (e a questo proposito, probabilmente lunedì, se riesco, pubblicherò il prossimo capitolo di Tra l’odio e l’amorepov Lore).

Per quanto riguarda questo capitolo…è particolarmente lungo e noioso, ma è solo di passaggio, per introdurre il prossimo, dove si inizieranno a spiegare un po’ di cose, a partire dall’astio che Dan prova per la madre.

Dunque, ricapitolando, in questo capitolo si conoscono nuovi personaggi, tra cui il mitico, meraviglioso –lasciatemelo dire- Edward! E’ più forte di me, lo adoro, sto progettando di fargli conquistare il mondo con le sue canzoni! E a proposito di canzoni, avete riconosciuto “Svegliarsi la mattina” degli Zero Assoluto, vero? :D

Povero Ed, chissà se prima o poi Judith si deciderà a dargli un’opportunità…

Coomunque, vengono poi introdotti anche gli amici di Jude: Meg e Jason.

Di Jason non dovete preoccuparvi, ma di Meg forse sì…insomma, avete visto che è rimasta particolarmente colpita da Dan, no?

Jude al momento è troppo cotta del fratello maggiore della sua amica per accorgersene, ma Evan (oh arriverà anche lui prossimamente ;)) sembra considerarla solo l’amica della sua adorata sorellina….o forse no?

Su Becky e Nate non vi dico nulla, a voi le supposizioni: Becky si interesserà a Dan? Sarà una possibile rivale di Jude? O forse sarà Nate un rivale di Dan? O forse saranno semplicemente dei buoni amici per Dan?

Sappiate che sto scrivendo queste note solo per cercare di depistarvi, le insinuazioni fatte sopra sono volutamente elusive, niente di quello che ho detto potrebbe essere vero (a parte il fatto che Jude è effettivamente innamorata di Evan, questo è esatto).

Beh, che altro dire? Non so davvero come ringraziarvi per aver letto anche questo capitolo (sempre se siete riuscite ad arrivare fino in fondo…xD) e scusarmi nuovamente per l’attesa.

Ho risposto alle recensioni di due capitoli fa, entro domani spero di riuscire a rispondere anche a quelle dello scorso, arriverò presto comunque, promesso ;)

Colgo l’occasione per augurarvi un buon week end e una buona Pasqua!

Un bacione grandissimo!

Bec

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Misunderstandings ***



Time is running out


Capitolo 4: Misunderstandings

 

 

Quando Jude ritornò a casa dopo la scuola, la prima cosa che sentì fu il rumore assordante dell’aspirapolvere provenire dal salotto.

-Delia!- Protestò, precipitandosi immediatamente da lei con l’intento di sottrarle l’oggetto dalle mani, -Sai che devi riposare!- Non esisteva che si affaticasse per fare le pulizie, ci avrebbe pensato lei, come sempre.

-Tesoro, tranquilla.- Delia le sorrise materna, senza lasciar andare la presa sull’aspirapolvere, -Ho quasi finito, davvero.- Lo sguardo della donna era dolce, ma anche implorante. Voleva davvero essere d’aiuto, Jude sapeva quanto odiasse sentirsi un peso.

Sospirò e decise di lasciar perdere, -D’accordo, hai vinto. Ma alla cena ci penso io, va bene?-

Delia ridacchiò e acconsentì, prima di riprendere contenta come una bambina a pulire il salotto.

Nel frattempo, Judith si dedicò ai compiti e telefonò Meg per una lunga chiacchierata: il fatto che si fossero appena viste a scuola era irrilevante, c’era sempre qualche idiozia in più da raccontare. Ogni scusa, poi, era buona per sentire la voce di Evan, rispondeva praticamente sempre lui al telefono e Judith si era messa in testa che lo facesse di proposito per sentirla, anche se era troppo timido per dirle qualcosa di diverso dal solito “Ciao Jude, ti passo Meg”.

Jude. La chiamava Jude, come poteva non esaltarsi nel sentirlo pronunciare il suo nome con una tale dolcezza?

Torno in sé giusto in tempo per rispondere a Meg senza sospirare sognante.

Finito di parlare con la sua amica, si diresse in cucina canticchiando una canzone che aveva sentito quella mattina alla radio.

Era particolarmente di buon umore, sapere che Evan fosse a casa sua e non da quella cornacchia della sua fidanzata l’aveva fatta sorridere come una scema per tutto il tempo.

Aveva una voce stupenda quel ragazzo…chissà come sarebbe stato sentirgli pronunciare qualche frase carina rivolta a lei.

Sapeva da Maggie che suo fratello la trovava carina, ma carina non era abbastanza, lei voleva essere bellissima, perfetta ai suoi occhi. Così un giorno Evan si sarebbe accorto di quanto Michelle fosse stupida e insignificante rispetto a lei e l’avrebbe lasciata.

Ridacchiò fra sé e sé ed aprì il frigo in cerca delle uova: quella sera avrebbe cucinato per tutti la sua buonissima pasta alla carbonara; Edward Russo era stato stranamente utile quando, per il suo compleanno, le aveva regalato un libro di ricette italiane. Non era da lei, ma ricordò di averlo trovato un gesto molto carino…senz’altro meglio del cd con sopra registrate “Le canzoni natalizie dell’anno” cantate da lui che le aveva regalato a Natale.

Si raccolse i lunghi e mossi capelli scuri in un’alta coda di cavallo e diede un’occhiata all’orologio, chiedendosi per che ora suo padre e Daniel sarebbero rientrati per cena.

Doveva darsi una mossa se voleva far trovare tutto pronto per il loro arrivo.

Per un attimo, mentre pesava la pasta, fu tentata di chiedere a Delia se a suo figlio piacesse e se fosse per caso allergico a qualcosa.

Oltretutto non aveva la minima idea di quanto fosse solito mangiare, non aveva fatto troppo caso a lui nei pasti precedenti.

Scosse la testa e decise di abbondare comunque con il dosaggio. In fondo, dopo una giornata pesante di ricerca, sarebbe stato affamato, no? Chissà se alla fine era riuscito a trovare un lavoro…

Il rumore della porta d’ingresso la fece sobbalzare per lo spavento.

Si voltò giusto in tempo per vedere suo padre baciare appassionatamente Delia sull’uscio.

Sorrise intenerita; se c’era qualcosa capace di mettere da parte la sua acidità, era l’amore che suo padre e Delia provavano l’uno per l’altra.

-Uhm, ma che buon profumino tesoro!-

Si pavoneggiò non poco per il complimento di suo padre: le piaceva cucinare e le piaceva quando qualcuno si complimentava con lei, -Grazie, ma ancora non è pronto.- Abbassò lo sguardo colpevole. Avrebbe dovuto sognare di meno su Evan ad occhi aperti ed incominciare prima a preparare.

-Oh nessun problema, vado a farmi una doccia intanto.- La abbracciò e baciò sulla tempia affettuoso, prima di uscire dalla stanza e salire al piano di sopra.

Venti minuti dopo la tavola era apparecchiata e la pasta pronta. L’unico a mancare era…l’idiota.

-Sono preoccupata, non sarà successo qualcosa?-

Si sforzò di sorridere comprensiva a Delia e di non urlarle contro “Tuo figlio è un’immensa testa di cazzo!”.

Che cavolo, poteva almeno avvisare! Non aveva un cellulare come tutti i comuni mortali?

-Sono sicura di no, Delia, stai tranquilla.-

Se non è finito sotto una macchina ce lo butto io.

-Potremmo provare a chiamarlo.- Tentò di proporre, poggiando i palmi delle mani sul tavolo per alzarsi.

Delia la guardò smarrita e dispiaciuta per qualche secondo, -Non ho il suo numero.- Rispose infine, a voce così bassa che Jude faticò a sentirla.

Che cosa?

Spalancò la bocca per chiederle come diavolo fosse possibile che non avesse il numero di suo figlio, quando la serratura della porta di casa scattò.

Si era salvato in corner, era arrivato pochi secondi prima che uscisse lei stessa per cercarlo, prenderlo per la collottola come i gatti e trascinarlo a casa a calci in culo.

Oltrepassato l’ingresso, Daniel si voltò a guardarli sorpreso e stranito, chiedendosi perché si fossero tutti improvvisamente focalizzati su di lui.

Sua madre si alzò dalla sedia e gli venne in contro, gettandogli le braccia al collo in un abbraccio che lo nauseò.

Si irrigidì e aspettò semplicemente che lei lo lasciasse andare, cosa che fortunatamente avvenne presto.

-Ti stavamo aspettando per cena.- Spiegò lei timidamente, sorridendogli come solo una madre poteva fare.

Cancellò quell’ultimo pensiero e si fermò ad esaminare la tavola imbandita.

Non era abituato a vivere con altre persone, non era abituato ad avere gente a casa che gli preparava la cena e lo aspettava tutta sorridente come se vivessero in una pubblicità e non esistesse nessun problema al mondo, non era abituato a dover rendere conto di sé stesso ad altri.

Era abituato a rientrare all’ora che voleva, anche a tarda notte, nell’appartamento buio e freddo di New York, era abituato ai post-it lasciati per la casa da suo padre che lo avvisavano che lui non c’era, era abituato ai toast bruciacchiati che si preparava velocemente a pranzo e alle scatolette di tonno per cena.

Si umettò le labbra nervoso e un po’ a disagio, -Ah.- Perché non la smettevano di fissarlo?

Persino Judith continuava a guardarlo e sorridere da quando aveva visto sua madre abbracciarlo, un evento più unico che raro.

-Beh, io comunque devo uscire adesso.- Si era messo d’accordo con Nate e Becky per cenare fuori e non aveva intenzione di dar loro buca per una cenetta da famigliola fintamente felice.

Il 21 dicembre 2012? Una cazzata. Se qualcuno avesse visto la faccia di Jude in quel momento avrebbe creduto che l’Apocalisse fosse arrivata in quel preciso istante.

-Stai scherzando spero.- Chiunque con un minimo di amor proprio avrebbe risposto di sì, anche perché Judith, essendo ancora seduta a tavola, aveva dei coltelli pericolosamente vicini e a portata di mano.

Daniel, però, stuzzicato dal pensiero di mettersi nuovamente contro di lei e farla ulteriormente arrabbiare, preferì giocare con il fuoco.

Alzò un sopracciglio ed incrociò le braccia al petto con fare strafottente, -Assolutamente no. Non vedo come abbiate potuto pensare che io avessi voglia di cenare qui con voi.- Non doveva niente a quei due, Richard e Judith Parker non erano suoi parenti e sua madre…sua madre non poteva pretendere nulla da lui dopo quello che aveva fatto.

Jude, invece, non credeva alle proprie orecchie. Tutti i propositi di andare d’accordo con lui erano sfumati in un attimo, aveva avuto ragione su Daniel, non era stato il suo carattere eccessivamente acido a farglielo etichettare fin da subito come uno stronzo insensibile.

Come poteva comportarsi in quel modo dopo che tutti in quella casa avevano fatto il possibile per farlo sentire a suo agio e aiutarlo?

Guardò la sua pasta scioccamente dispiaciuta. Mentre cucinava, aveva pensato più di una volta alla faccia che avrebbe fatto lui dopo averla assaggiata, aveva immaginato di vederlo sgranare gli occhi sorpreso e colpito da uno dei piatti più buoni che avesse mai mangiato.

Aveva immaginato di vederlo sorridere, di sentirsi fare qualche stentato complimento e di compiacersi per quello.

Aveva sperato che dopo quella pseudo conversazione civile di quella mattina le cose fossero un tantino migliorate, che lui avrebbe smesso di comportarsi così.

Era stata un’idiota, si vergognava da morire di averlo anche solo potuto credere.

-Sai che ti dico?- La voce le uscì bassa e con una punta di delusione, nascosta ben bene dall’irritazione.

-Jude…-

Ignorò il richiamo di suo padre e proseguì imperterrita, -Arrangiati. D’ora in avanti vorrà dire che non ti aspetteremo più, d’ora in avanti vorrà dire che ti preparerai da solo la cena.-

Vide di sfuggita Delia portarsi una mano al viso affranta; probabilmente non si aspettava e non voleva che le cose andassero così. Del resto, non era mica colpa sua se aveva un figlio cafone.

L’espressione strafottente di Daniel non se ne andò, tutt’altro, si accentuò, -Perfetto, non chiedo altro. Grazie.- Sibilò in risposta, schioccando la lingua arrogante e voltandosi con l’intento di andarsene.

A Jude per poco non venne una crisi isterica nel sentirlo addirittura sbattere la porta d’ingresso…ma come diavolo si permetteva?!

-Jude, io…mi dispiace.- Mormorò Delia, dopo un pesante minuto di silenzio.

La ragazza scosse la testa, i lunghi e mossi capelli ondeggiarono lievemente a quel gesto, -Non è colpa tua.- Disse semplicemente, mordendosi il labbro, -Mangiamo?- Propose poi, sforzandosi di sorridere per spezzare la tensione che si era creata.

Nessuno parlò durante la cena, altro fatto che non fece che accrescere l’antipatia di Jude per Daniel.

Non era abituata al silenzio, lei. Era abituata a parlare, ad essere ascoltata, ad osservare le reazioni degli altri mentre lo faceva.

Se avesse parlato quella sera, nessuno l’avrebbe ascoltata. Non con attenzione almeno.

Si chiuse in camera sua dopo cena, con un diavolo per capello e la voglia di prendere a pugni la prima cosa che le capitasse a tiro.

Non bastava vedere suo padre così triste, non bastava vedere Delia sofferente…ci si metteva pure quel cretino con quelle sceneggiate a peggiorare l’umore generale della casa!

Si buttò sul suo letto-brandina, incrociando le braccia sul cuscino e poggiando il mento sul dorso della mano.

Chissà dove diavolo era andato poi…era appena arrivato, che impegni poteva aver preso e con chi? Forse l’aveva fatto solo per capriccio, pur di non cenare con loro avrebbe preferito farlo fuori da solo, magari in qualche fast-food.

Strinse la stoffa del cuscino fra le dita; li odiava davvero così tanto? Perché?

Ok, poteva capire che vedere sua madre felice accanto ad un altro uomo non fosse semplice per lui, ma…Santo Cielo, aveva diciannove anni, non cinque! Poteva provare a comportarsi da adulto!

Lei e suo padre avevano cercato di essere gentili, gli avevano lasciato la sua stanza e Delia…Delia era sua madre, era malata, perché era tanto ostile con lei? Cosa gli aveva fatto?

Si alzò di scatto sui gomiti e fissò ad occhi sgranati il televisore spento davanti a sé.

Ma certo!

Non aveva mai preso in considerazione l’idea che Delia potesse aver fatto qualcosa a Daniel, non si era mai soffermata troppo a pensarci su, eppure…sembrava proprio che le cose fossero andate così. Doveva essere successo qualcosa fra loro due, ecco perché Delia non le aveva mai raccontato molto di lui, ecco perché non ricordava di averla mai nemmeno sentita parlare al telefono con suo figlio prima che andasse a vivere con loro.

Non ho il suo numero.

Come poteva una madre non avere il numero di suo figlio? Non lo aveva davvero mai chiamato in tutti quegli anni?

Ci doveva essere per forza una motivazione dietro al comportamento antipatico di Daniel, una motivazione che Jude era intenzionata a scoprire.

 

 

********

 

Non credeva che quel posto ai suoi occhi potesse risultare ancora più triste di quanto l’avesse trovato al suo arrivo.

Se di giorno gli era sembrato desolato e noioso, la sera era decisamente peggio: poca gente in giro, locali mezzi vuoti e musica sconosciuta e scadente in sottofondo.

O almeno, così era al “The Corner”, luci soffuse – troppo soffuse, rischiava di addormentarsi – e colorate – neanche fossero ad una festa per bambini –, divanetti rossi in pelle e un’ampia vetrata che dava sulla strada alla sua destra. Una semplice tavola calda mascherata da pub la sera.

Sorseggiò un altro po’ della sua birra, lo sguardo assente puntato su una ragazza piuttosto carina seduta con un’amica ad un tavolo più avanti.

-Ehi ragazzino, non ti sembra di esagerare?-

Nate gli diede un colpo amichevole sul braccio, senza smettere di sorridere, -Ai ventuno ti mancano ancora un paio di anni…-

Dan lo guardò di sottecchi, il sopracciglio lievemente alzato. Che cavolo di ragazzo era quello? Che fine avevano fatto i giovani che si ubriacavano di nascosto dai genitori?

Nemmeno suo padre si era mai messo a fargli la predica su quanto bevesse, anzi, gli offriva spesso e volentieri da bere la sera quando rincasava con qualche bottiglia comprata al supermercato.

-Pure la gioventù è vecchia qui…- Borbottò fra sé e sé, riportandosi la bottiglia alle labbra.

Nate rise, non capì se per la sua frase o per qualcosa detto da Becky. Non gli importava comunque scoprirlo, non si sentiva particolarmente di compagnia quella sera. Probabilmente non lo sarebbe mai stato, nemmeno nei giorni successivi.

Se non altro aveva evitato di trascorrere la serata con la “famigliola felice”, solo ad immaginare un’altra cena con loro rabbrividiva di disgusto.

Un’altra imbarazzante cena silenziosa, gli sguardi di tutti rivolti a lui, le domande forzate di Jude, i patetici tentativi di Richard di stargli simpatico, i flebili sorrisi di sua madre.

Si era sentito come un perfetto estraneo per tutto il tempo, come un ospite indesiderato, preso a forza e messo in un quadretto in cui non c’entrava nulla. Una chiazza nera di china al centro di un dipinto a colori.

-Dove hai detto che vivi Daniel?-

Puntò gli occhi sul viso rilassato di Becky, soffermandosi per un secondo di troppo ad esaminare una ciocca bionda che le ricadeva sugli occhi azzurrissimi.

Valutò l’ipotesi di darle l’indirizzo sbagliato, giusto per evitare di confessare che viveva nella Casa delle Bambole con la brutta copia della famiglia Camden*, ma poi concluse che in fondo dell’opinione di Becky gli importava poco, -Al 2 di Quarry Park Road.-

La ragazza annuì pensierosa, alzando di poco il mento e corrucciando le labbra, -Ah, la casettina blu all’angolo…-

Non aveva avuto dubbi sul fatto che in quella insignificante cittadina conoscessero persino ogni singola abitazione.

Se a New York avesse dato il suo indirizzo a qualcuno, praticamente nessuno gli avrebbe risposto “Ah, il palazzo con la vernice grigia scrostata, quello decadente!”

Dan fece un vago gesto derisorio con la mano, -Proprio quella…-

Purtroppo.

Nate si sporse in avanti sul tavolo e, dopo aver poggiato il mento sul palmo della mano, sbatté le palpebre perplesso, -Un momento…quindi vivi sotto lo stesso tetto del Dottor Parker?-

Rischiò quasi di strozzarsi con la birra a quell’uscita, -Dottore?! Quello? - Il tono di voce era palesemente incredulo e sarcastico. Quella emerita faccia da idiota con cui stava sua madre era un medico? E dove cavolo aveva preso la Laurea?

I suoi colleghi annuirono, -Sì, è anche abbastanza conosciuto e stimato.- Nate si passò una mano fra i capelli per spettinarseli sovrappensiero, -Ma tu che ci stai a fare lì scusa? Sei un suo parente?- Dei due era sicuramente il più pettegolo, Daniel si appuntò mentalmente di evitare di incoraggiare qualsiasi tipo di conversazione con lui.

-Lunga storia.- Stese le labbra in un fugace e seccato sorriso, prima di distogliere lo sguardo da loro per puntarlo sulla strada, nella speranza che capissero che non aveva voglia di parlarne.

-Mmm, enigmatico.- Commentò Becky divertita, alzando la mano per ordinare altre tre birre al cameriere, -Alle ragazze piace.- Ridacchiò e diede una lieve spinta al suo vicino di posto, -Impara da lui Nathaniel, sii meno appiccicoso, logorroico e monotono e più misterioso…vedrai come cadranno ai tuoi piedi.-

Per la prima e – sicuramente – ultima volta nella serata Dan si lasciò scappare una risata non appena vide il volto corrucciato di Nate.

-Pff, le donne impazziscono per la mia parlantina.- Si difese il moro, scrollando le spalle come una primadonna offesa.

-Impazziscono e basta.- Fu la replica della bionda, che prese una delle birre appena arrivate e la alzò in aria in un brindisi immaginario.

Dan ricambiò il gesto poco dopo e si ritrovò a pensare, suo malgrado, che in fondo i due provincialotti con cui aveva a che fare non erano male come temeva.

 

********

 

A farla svegliare di soprassalto fu un rumore proveniente dalle scale, come se... –batté le palpebre assonnata – come se qualcosa fosse caduto sulla soffice moquette che ricopriva gli scalini.

Scostò le coperte e buttò le gambe giù dal letto, barcollando appena quando riuscì ad alzarsi in piedi. Suo padre e Delia dormivano profondamente, non sembravano essersi accorti di nulla.

Lanciò una rapida occhiata alla radiosveglia sul comodino della donna e aggrottò la fronte confusa; chi diavolo poteva essere alle tre del mattino?

Sbuffò. Quasi sicuramente era quel cretino di Daniel, probabilmente si era alzato per andare giù in cucina a bere qualcosa.

Aprì la porta della stanza e si affacciò titubante sul corridoio, reprimendo in gola un urlo quando, nella penombra, riuscì a scorgere una sagoma nera.

-Che diavolo?!- Ansimò, la voce strozzata per lo spavento. Il cuore le batteva così forte che pensò che le sarebbe esploso da un momento all’altro.

-Che cazzo ci fai ancora sveglia, vai a letto…- Borbottò in risposta la sagoma, che altri non era che un parecchio scazzato e addormentato Daniel.

C’era dell’altro però…Jude non lo comprese subito, dovette aspettare di riprendersi dalla paura per notarlo. La voce impastata e cantilenante, il modo di camminare, il rumore sulle scale…era inciampato sulle scale.

Vuoi vedere che questo idiota…!

-Ma tu…- Lottò indecisa fra la voglia di arrabbiarsi e la voglia di lasciar perdere e tornarsene nel calduccio invitante del suo letto, -Sei ubriaco.- Concluse, la bocca aperta in una O incredula.

Era più che certa che, se si fosse avvicinata al suo viso, avrebbe sentito quell’inconfondibile odore di alcol che lei tanto odiava.

Ma che ora, per qualche inspiegabile motivo, la attirava.

In risposta le arrivò una bassa ed inquietante risatina che le fece venire la pelle d’oca. Se Daniel avesse avuto in mano un coltello, sarebbe stato il protagonista perfetto per un film horror, molto convincente. Eppure…non fu un brivido di paura a percorrerle la schiena, ma qualcos’altro su cui Jude non volle indagare.

-Perspicace. Vai a letto bambolina e fatti i cazzi tuoi.- Lo vide sorridere di sbieco, prima di aprire la porta della sua stanza e sparire al suo interno.

Rimase per un po’ immobile a fissare quello stesso punto, la voglia di infilarsi a sua volta in quella stanza per incazzarsi e sgridarlo sempre più pressante.

Poi si disse che non sarebbe stata una buona idea entrare nella camera da letto di un ragazzo ubriaco che non conosceva bene alle quattro del mattino. Sarebbe stato da irresponsabile, sarebbe stato sciocco, avrebbe potuto rimproverarlo il giorno dopo.

Eppure, prima di tornare a letto, stette per un minuto buono a tormentarsi a quell’idea. Forse perché, in cuor suo, la cosa la allettava più di quanto lei stessa volesse credere.

 

 

 

*La famiglia Camden è la protagonista del Telefilm Settimo Cielo.

 

 

Note dell’autrice:

 

Beh dai, se non altro è passato meno di un altro anno, no? xD

E ho il prossimo capitolo già quasi pronto, doveva essere il continuo di questo, ma ho deciso di spezzarlo per non renderlo troppo lungo.

Dunque…che dire? Il capitolo è chiaramente di passaggio, nel prossimo si può dire che si smuoveranno veramente (e finalmente) le cose.

Ancora non si sa perché Dan odi così tanto la madre, ma Jude sembra aver finalmente capito che qualcosa è successo fra quei due e che il comportamento di Dan deve avere per forza una giustificazione. È intenzionata a scoprirlo e quando si mette in testa una cosa...

Per quanto riguarda Daniel invece…è ancora molto enigmatico, non si capisce molto dai suoi pensieri, ma presto diventerà più semplice anche per voi comprenderlo.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ho notato che questa storia è un po’ meno amata delle altre, ma vi assicuro che non avete ancora visto nulla, è come se la storia dovesse ancora realmente iniziare e vedrete nei prossimi capitoli ;)

Grazie infinite per i meravigliosi commenti allo scorso capitolo e per il vostro sostegno, ho iniziato a rispondere a qualcuno e, molto probabilmente, comincerò a rispondere anche ad eventuali capitoli in questo per portarmi avanti xD

Ah, per chi non l’avesse notato, ieri ho pubblicato il primo Extra di Tra l’odio e l’amore. Spero di riuscire a postarne presto degli altri (:

Per qualsiasi cosa, informazione, spoiler, non esitate ad aggiungermi su facebook o a chiedere l’iscrizione al gruppo dedicato ai miei deliri.

Un bacione e grazie ancora!

Bec

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Serious&Stupid things to talk about ***



Time is running out


La mattina seguente Jude si alzò con un tremendo mal di testa, quasi fosse stata lei ad ubriacarsi la sera prima

 

 

Capitolo 5: Serious&Stupid things to talk about

 

 

La mattina seguente Jude si alzò con un tremendo mal di testa, quasi fosse stata lei ad ubriacarsi la sera prima.

Spalancò gli occhi di colpo quando si ricordò di quell’incontro notturno in corridoio.

Chissà in che condizioni pietose si trovava il signorino…

E dire che lo aveva ritenuto responsabile e maturo quando, appena la mattina prima, le era sembrato così intenzionato a trovare un lavoro.

Si portò una mano fra i capelli per spostarseli indietro assonnata e sbadigliò; Daniel era come la lancetta impazzita di una bussola, non puntava da nessuna parte, continuava a muoversi, muoversi e muoversi…e a confonderla, disorientarla, non riusciva ad inquadrarlo. Quando credeva di essersi fatta un’opinione di lui, lui la distruggeva nel giro di poche ore costringendola a ricominciare da capo.

Si fece una doccia per svegliarsi un po’ e si infilò una comoda tuta per stare in casa, prima di scendere al piano di sotto.

Quasi si sfregò gli occhi incredula quando vide Daniel in cucina, la tazza di caffé in mano e il giornale sotto gli occhi, vestito e pronto per uscire.

“Risparmiami la ramanzina, devo andare al lavoro.” Le disse semplicemente, senza sollevare lo sguardo dal quotidiano.

Si tartassò il labbro inferiore: davvero lei era così prevedibile?

Scrollò le spalle indifferente e sorpassò il tavolo per raggiungere il lavandino, “Figurati, nessuna ramanzina.” Improvvisò, cercando di mostrarsi il più tranquilla possibile.

Gli stava dando le spalle, ma lo vedeva comunque riflesso nella finestra davanti a sé; si era voltato a guardarla leggermente scettico e…sorpreso forse? Non se lo aspettava.

Sorrise di nascosto, pienamente soddisfatta dalla reazione del ragazzo: se lui si comportava da lancetta impazzita, nulla vietava anche a lei di farlo.

Sei libero di fare quello che vuoi con la tua vita.” Il tono di voce era pacato, quasi annoiato.

Riempì la sua tazza d’acqua e la mise nel microonde con l’intento di prepararsi del tè.

Niente la aiutava ad affrontare una nuova giornata come la teina.

Si girò verso di lui e si appoggiò con le mani al ripiano della cucina, dondolandosi appena con il busto, “Basta che non mi svegli più nel cuore della notte con il tuo cavernicolo incedere.” Piegò la testa di lato con noncuranza.

Lo stupore di Dan venne subito mascherato da una smorfia di sufficienza, “Bene. Cercherò di non svegliarti più principessa, sia mai che il tuo viso non sia riposato e fresco come una rosa.” Tese le labbra in un evidente e fugace sorriso di scherno, prima di alzarsi per sciacquare la sua di tazza.

Jude, istintivamente, scivolò di lato e si scansò per evitare qualsiasi contatto fisico. Si limitò ad osservarlo di profilo, scura in volto per non aver potuto sfogare su di lui tutta la sua irritazione.

I capelli castani, abbastanza lunghi da stare su anche senza gel, sembravano appena usciti da una centrifuga, la camicia scura e spiegazzata – doveva averla lasciata in valigia tutto il tempo – aveva sicuramente visto giorni migliori e i jeans…forse i jeans erano l’unica cosa a posto. Anche se cadevano sui suoi fianchi un po’ troppo morbidamente, lasciando intravedere una marca di boxer che lei non avrebbe voluto conoscere.

Sotto agli occhi marroni vi erano, anche se visibili solo da un’osservazione un po’ più accurata, delle occhiaie dovute alle poche ore di sonno, unico particolare fuori posto sul suo viso.

Ha un bel profilo.

Cacciò via dalla mente quel pensiero uscito da chissà quale meandro oscuro e si costrinse a distogliere lo sguardo da lui.

Dove diavolo voleva andare conciato così, a ballare? Che lavoro si era mai trovato poi? Il fatto che non lavorasse di notte le sembrava già qualcosa di molto positivo.

Di sfuggita, lo vide scuotere le mani nel lavandino per asciugarsele, “Buona giornata Judith.” Le rivolse un altro sorriso derisorio, un sorriso che Jude avrebbe tanto voluto cancellare con una schiaffata sulla sua guancia. Trattenersi fu molto difficile.

“Anche a te Daniel.” Disse fra i denti, ricambiando il sorriso con un ghigno che avrebbe fatto invidia a quello dello Stregatto di Alice.

Lo seguì con gli occhi mentre apriva la porta di casa per andarsene, le labbra strette nella morsa dei suoi denti per impedirsi di aggiungere altro. Non era una buona idea litigare con lui di prima mattina e non voleva dargli la soddisfazione di farsi vedere sempre irritata dal suo comportamento.

“Oh cavolo, scusa!”

Assottigliò lo sguardo ed incrociò le braccia al petto quando vide Meg finirgli addosso, esattamente come la mattina prima.

Iniziava a sospettare che lo facesse di proposito ad entrare proprio mentre lui stava uscendo, sarebbe stato da lei in effetti.

“Ci incontriamo sempre così, eh?” Le rispose lui amichevole, dandole un buffetto in testa e passandole accanto per uscire.

Non seppe se il moto di rabbia che la colse l’attimo dopo fu dovuto all’espressione raggiante della sua amica o al modo affettuoso in cui lui si era comportato con lei, seppe solo che c’era ed era tremendamente fastidioso. Come le pulci per i cani.

Immerse la bustina del tè nella sua tazza ed osservò la sua amica ad occhi socchiusi, “Puntuale come un orologio, eh Meg?” Si pentì della nota accusatoria presente nella sua voce, non voleva che la sua amica pensasse che fosse…irritata. Perché non lo era, non per quel patetico incontro fra lei e quel primate di Daniel.

Meg arrossì violentemente e strofinò a disagio la punta della scarpa sul pavimento, “Sì, scusa…non pensavo che…cioè…

Judith sospirò e mosse la mano libera in aria, come a volerle dire di lasciar perdere, “Fa niente, non importa.” Iniziò a sorseggiare la bevanda calda, posando involontariamente gli occhi sul vialetto fuori e scorgendo così la sagoma di Daniel in lontananza.

Si avvicinò piano alla finestra ed appoggiò la fronte sul vetro freddo, appannandolo sempre più ad ogni respiro.

Avrebbe potuto...? No. Non le importava assolutamente nulla di lui e non poteva rinunciare ad un giorno di scuola per una sciocchezza simile.

Ma dove va?”

Imprecò a bassa voce quando Meg si avvicinò a lei e si accorse della direzione presa dal suo sguardo. Avrebbe dovuto essere più discreta.

“Non ne ho idea.” Borbottò semplicemente, osservando il ragazzo girare a destra una volta arrivato in fondo al vialetto.

La sua amica si umettò le labbra più volte, “E non ti stuzzica nemmeno un po’ l’idea di scoprirlo?”

Se c’era una cosa di cui Jude si era convinta negli anni, era che Meg fosse telepatica, almeno con lei. Riusciva quasi sempre ad indovinare cosa le passasse per la testa, anche i pensieri assurdi come quello.

Si sforzò di restare impassibile, “Se anche una remotissima parte del mio cervello fosse…stuzzicata all’idea” Fece una smorfia, “Non avrei motivo di assecondarla, non mi importa di sapere dove va, per quanto mi riguarda potrebbe anche rapire cuccioli di cane dalmata per fare pellicce, basta che lo faccia lontano da casa mia.” Strinse la mano sul manico della sua tazza e bevve un altro po’ di tè.

“E se facesse qualcosa di…sconveniente?” Le suggerì Meg, inarcando un sopracciglio, “è un bel ragazzo, potrebbe…

“Sconveniente?” La interruppe scettica Jude, “Qui? E per giunta di giorno?” Una parte di lei le ricordò prepotentemente che era rientrato alle tre quella stessa mattina…ubriaco.

Si morse l’interno guancia e scosse la testa per cancellare immediatamente quel pensiero, “E poi ti ripeto che non mi interessa, può fare quello che vuole…” S’inviperì per essersi lasciata coinvolgere così tanto dalla conversazione, doveva metterci un punto definitivo.

“Potrebbe fare quello o di peggio…viene da una grande città come New York, Dio solo sa cosa fanno i ragazzi per guadagnare lì.” Meg si portò teatralmente una mano alla bocca, “Ci andreste di mezzo tu e tuo padre…le voci circolano, la vostra reputazione sarebbe intaccata.” Insistette ancora, “Lui vive con voi.”

Qualcosa le diceva che alla sua amica del lavoro di Daniel importava ben poco, lei sembrava decisamente più interessata a lui.

Mise la tazza nel lavandino e ci rifletté un attimo su; Maggie non aveva comunque tutti i torti, che figura avrebbero fatto lei e suo padre se si fosse venuto a sapere di un possibile impiego indecoroso di Daniel? La signora Crabble non avrebbe più smesso di parlarne, sarebbero stati il nuovo pettegolezzo della Domenica a Messa.

Non poteva di certo permetterlo.

“Ok.” Incominciò a pettinarsi i capelli con le dita alla bell’è meglio, “Hai vinto, andiamo.”

Ignorò il sorrisetto che stava via via prendendo forma sulle labbra della sua amica e si specchiò con aria critica, “Sembra che stia andando a pulire le case degli altri…” La vecchia tuta che utilizzava per stare in casa e per educazione fisica a scuola non era di certo un indumento adatto ad uscire.

“Non importa!” Meg aprì la porta d’ingresso e le fece cenno di seguirla, “Andiamo, o lo perderemo di vista!”

Sbuffò affranta e piagnucolò qualcosa di incomprensibile persino alle sue orecchie.

Stava uscendo vestita conciata come una barbona, senza un minimo di trucco e con delle tremende occhiaie…e tutto per colpa di Daniel King, un punto da aggiungere alla lista dei motivi per odiarlo.

Come aveva fatto a cadere così in basso? Come diavolo le era venuto in mente di stalkerare un ragazzo? Un ragazzo della quale non le importava nulla oltretutto.

Non sapeva chi fra lei e Meg fosse messa peggio, forse la sua amica, ma solo per via di quel rivoletto di bava sotto il mento.

“Contieniti Meg, ti prego!” Aveva gli ormoni in subbuglio peggio di una quattordicenne davanti a Robert Pattinson!

“Che c’è di male?” Sporse il labbro ingenuamente, “È un bel ragazzo, la mia reazione è normale.”

Sbatté le palpebre risentita, “La mia no?” Solo perché lei ci litigava, non sbavava, non si strappava i capelli, non urlava il suo nome e non scriveva di lui nel suo diario, non significava che fosse anormale.

Meg scosse la testa con decisione, “Non intendevo questo, solo…non farmi sentire come una specie di depravata, è un bel ragazzo e io reagisco così, punto.”

Schioccò la lingua ed alzò le mani in segno di resa, “D’accordo, chiudiamo qui il discorso, abbiamo semplicemente gusti diversi.”

A lei piaceva un ragazzo come Evan St.James, la créme de la créme, affascinante, maturo ed intelligente, a Meg Daniel King, il lunatico moccioso figlio di Delia; avevano gusti completamente opposti.

“Dobbiamo accelerare il passo comunque, o non lo raggiungeremo mai!”

Spalancò la bocca contrariata, “Pure?” Si lamentò a mezza voce.

Era stanca, nervosa e doveva mettersi persino a sprecare ulteriore energia per quell’idiota?

“Siamo…completamente pazze…lo sai?” Sibilò a fatica poco dopo, mentre costringeva le sue gambe a muoversi in fretta per non perdere di vista il loro obiettivo.

“Lo so.” Rise Meg, suo malgrado divertita da tutta quella situazione.

 

 

*******

 

 

C’era una tremenda puzza di…pipì lì accanto a lei, era abbastanza sicura del fatto che l’aiuola dietro cui si era nascosta fosse il ritrovo amoroso per eccellenza dei gatti randagi che volevano marcare il territorio con il loro adorabile fetore.

Jude storse il naso e allontanò il viso dalle piante per poter osservare meglio il locale in cui era entrato Daniel da circa cinque minuti.

Non era stato poi tanto difficile raggiungerlo – più faticoso, in effetti – , anche perché il ragazzo si era fermato all’edicola nella strada parallela alla loro per comprare un giornale che Jude, da lontano, non era riuscita a riconoscere.

“Jude.”

Meg la tirò per la manica, come un bambino piccolo spazientito ed affamato.

“E così lavora da Trevor…” Meditò fra sé e sé. Non era mai entrata nel suo locale, forse solo un paio di volte, ma molte sue compagne di scuola si fermavano lì la mattina per fare colazione.

“Jude, che ne dici, entriamo? Ho fame.” Borbottò Meg, scrollandole nuovamente la spalla.

Si voltò a guardare l’amica, ricordandosi solo in quel momento della sua presenza.

“Fame?” Ripeté come un automa.

“Sì, fame, hai presente? Non mangio da ieri sera e ho fame.” Meg la guardava in modo strano, a metà fra lo stizzito e il divertito.

Comprese appieno le parole dell’amica un battito di ciglia più tardi, “Vuoi entrare lì dentro a fare colazione? Sei impazzita?!

Daniel le avrebbe scoperte, avrebbe pensato che fossero così patetiche ed interessate a lui da seguirlo! Era fuori discussione.

“Perché no? È un posto come un altro per mangiare e io ho fame. Ti prego, dai.” Si lagnò Maggie sbarrando gli occhi.

“Non è un posto come un altro, è il posto dove lavora lui e capirà subito che non è una coincidenza…” Concluse, facendo una smorfia schifata non appena sfiorò involontariamente con la spalla una foglia della pianta lì vicino.

“Allora ti importa quello che lui pensa di te…” Insinuò la sua amica, un sorrisino malizioso sulle labbra. Quando Meg sorrideva in quel modo birichino le ricordava sempre quella bambina che lei aveva odiato fin da piccola, quella con le treccine rosse…Pippi Calzelunghe, ecco.

Jude la guardò a dir poco oltraggiata, “Certo che no! Solo…” Si bloccò, incapace di esprimere a parole i suoi timori. Non voleva che lui si facesse strane idee, non voleva che pensasse di essere così rilevante per lei da occupare i suoi pensieri e guidare le sue azioni.

Non l’aveva seguito perché interessata a lui in quel senso, l’aveva seguito solo per curiosità, solo per vedere che cavolo di lavoro si fosse trovato.

Ora che l’aveva scoperto poteva anche andarsene, entrare dentro sarebbe stato del tutto fuori luogo.

“Solo…?” Sollecitò Maggie, “Se non ti importa niente non ci dovrebbe essere nessun solo.” Le fece presente la sua ex-odiosa migliore amica, “Sei o non sei libera di fare quello che vuoi, indipendentemente da quello che fa o pensa lui?” Comprese di essere appena stata incastrata.

Margareth St.James, ti odio, sappilo.” Le lanciò un’occhiata obliqua che la fece ridere.

“Anch’io tesoro. Allora, entriamo? Potrebbe essere divertente…”

“Divertente?” Domandò diffidente. Non riusciva a vederci niente di divertente nel fare la figura dell’adolescente cretina.

“Divertente, sì. Lui sarà il nostro cameriere, noi le clienti. La risatina stridula di Meg la fece rabbrividire.

Fissò gli occhi sulla vetrina del locale e sentì gli angoli delle labbra piegarsi all’insù. Tutto sommato, non sarebbe stato così spiacevole dargli ordini e farlo dannare un po’. E come aveva detto Meg…in quel locale lui sarebbe stato il cameriere, lei la cliente e si sapeva…i clienti avevano sempre ragione.

 

*******

 

Era lì da solo due giorni e già si era stufato di pulire tavoli e di gente che, sorridendo affabilmente, gli chiedeva di portare altro da bere, ketchup, maionese, fazzoletti vari e conti.

Non era portato per i lavori che comprendessero il contatto con la gente, era più il tipo solitario che meno aveva a che fare con gli altri – specie se bambini isterici, capricciosi e viziati – meglio era.

Ma aveva trovato quel lavoro e a quello doveva adeguarsi, così come si era sempre adeguato ad ogni cosa nella sua vita.

Così si sforzò di sorridere quando l’adorabile figlia del Reverendo Garrick, premendo con troppa forza la bustina del ketchup, gli schizzò addosso il liquido rossastro.

“Judith!” La rimproverò l’uomo, scusandosi con lo sguardo in direzione del giovane.

Già il fatto che la mocciosa si chiamasse in quel modo lo irritava a prescindere.

“Non importa.” Disse, nel tono più gentile che riuscì ad usare. Lanciò un’occhiata raggelante e tutt’altro che amichevole alla bimba, prima di voltarsi con l’intento di andare a darsi una ripulita.

Aveva ancora il viso e la camicia sporchi di ketchup, quando ad un passo dal bagno, la sua attenzione venne catturata dallo scampanellio della porta d’ingresso.

Sussultò impercettibilmente.

Che cavolo…?

I capelli sciolti e scuri, lasciati ricadere morbidamente sulle spalle e le braccia incrociate al petto, Jude si guardava intorno con aria circospetta, quasi si aspettasse che una belva feroce potesse improvvisamente attaccarla alle spalle.

La sua amica rossa, invece, sorrideva soddisfatta per qualcosa di cui lui non avrebbe mai voluto essere messo a parte.

Che cosa ci facevano lì? L’avevano seguito? Non si era accorto di nulla…

Fu un attimo; non ebbe nemmeno il tempo di chiamare Nate per dirgli di occuparsi di quelle due seccature, visto che lui non ne aveva alcuna voglia, che gli occhi di Judith – non la bambina lancia ketchup purtroppo – saettarono nei suoi come calamitati.

Per qualche strano motivo, la vide tentennare, la vide sbattere le palpebre quasi smarrita nel momento in cui si accorse di essere osservata da lui.

Daniel non riuscì a distogliere lo sguardo come avrebbe voluto e, nonostante la mente gli suggerisse caldamente di lasciar perdere, l’istinto ebbe la meglio e andò loro in contro senza pensarci troppo.

“Che diavolo ci fate qui?” L’aveva chiesto ad entrambe, ma stava guardando solo lei.

Jude parve risentirsi per quel tono brusco e scortese, “Non possiamo venire qui a mangiare?” Domandò retoricamente, alzando il mento per guardarlo apertamente in viso.

“Con tutti i posti che ci sono per farlo? No.” Socchiuse gli occhi irritato; gli seccava che fossero lì, gli seccava essere visto da loro in quelle condizioni, con addosso l’orrenda divisa del posto e il viso sporco di ketchup.

“Siamo libere di andare dove vogliamo.” Replicò lei piccata, sbattendo poi le ciglia civettuola, “Un tavolo per due, grazie.” Stava cercando piuttosto malamente di trattenere una risata, il vederlo conciato così doveva essere fonte inesauribile di divertimento per lei.

Stronza.

Strinse le mani a pugno con forza. Non gli piaceva essere preso per il culo, tantomeno da lei.

“Allora?” Sollecitò Judith, sollevando le sopracciglia ed avvicinandosi di un passo, “Siamo clienti, hai intenzione di servirci?”

“Per favore?” Aggiunse la rossa, in tono più gentile ed evidentemente a disagio per via di quella loro discussione.

Lo guardava leggermente intimorita, come se temesse che da un momento all’altro lui potesse mangiarle entrambe in un boccone.

Daniel contrasse la mascella furioso, senza smettere di scrutare Jude con odio puro. Per un attimo pensò seriamente di afferrarla per il braccio e sbatterla fuori, cancellandole così quell’odioso sorriso dalla faccia.

Peccato che, se lo avesse fatto, Trevor lo avrebbe licenziato seduta stante e non valeva davvero la pena perdere il lavoro per colpa di quella psicopatica.

E dire che quella mattina gli era sembrata quasi più sopportabile del solito, che problema aveva quella ragazza? Personalità multipla?

“Sì, da questa parte.” Nate, forse temendo che la situazione degenerasse, apparve alle sue spalle e prese le redini della conversazione.

“Non l’ho chiesto a te.” Jude si voltò a guardarlo e lo bloccò sul posto con uno sguardo raggelante.

Daniel scosse la testa solo per riordinare le idee e rendersi pienamente conto di quanto fosse assurda tutta quella faccenda, “Sai di essere patetica, vero? Che cosa vuoi dimostrare?” Le chiese assottigliando lo sguardo.

A quella domanda, Jude ammutolì. Cosa voleva dimostrare? Non lo sapeva nemmeno lei.

Non sapeva cosa le era preso, non era entrata in quel locale con l’intento di provocarlo, non voleva nemmeno entrarci lì dentro inizialmente, era semplicemente scattato qualcosa in lei nel momento in cui Daniel le aveva rivolto la parola.

Aveva degli attacchi di rabbia che lei stessa non riusciva a controllare quando c’era lui di mezzo, la cosa era preoccupante.

Sbuffò e diede un colpetto al pavimento con la scarpa, “Voglio solo mangiare. E in fretta magari, visto che devo andare a scuola poi. Spiegò con calma, sforzandosi di essere un pelino più gentile.

Lo osservò dal basso, in attesa di una sua risposta. Odiava dover dar ragione – seppur solo nella sua mente – a Meg, odiava il fatto che il suo cervello partorisse pensieri così sciocchi, ma…con quello sguardo furioso, con indosso quell’orrendo grembiule color vomito e il ketchup sul viso e fra i capelli, si ritrovò inevitabilmente a pensare che Daniel fosse effettivamente…carino. Nulla di eclatante, solo carino. E lei era davvero patetica. Da dove le uscivano pensieri tanto stomachevoli?

“Da questa parte.” Non c’era un minimo di gentilezza nella sua voce, glielo aveva detto nello stesso tono in cui probabilmente le avrebbe detto “Vai al diavolo”.

Lo seguì fino a quello che sarebbe stato il loro tavolo per la colazione e si sedette, torturandosi le mani nervosa.

Ok, forse aveva esagerato. Forse gli doveva delle scuse, non era così sciocca ed infantile da credere di avere ragione, si era comportata lei per prima da stronza, lo aveva volutamente provocato.

Alzò lo sguardo ed aprì la bocca con l’intento di farlo, di scusarsi, ma l’occhiata carica d’astio del ragazzo le fece morire le parole sul nascere.

“Non avevi altro da fare che seguirmi come un cagnolino con questa sfigata della tua amica? Cos’è il tuo, un patologico bisogno di attenzioni?”

Come, come, come? Non solo aveva insultato la povera Meg – che stava arrossendo ed abbassando lo sguardo mortificata –, aveva persino insinuato che lei lo avesse seguito per…farsi notare da lui? Se non fosse stata furiosa sarebbe scoppiata a ridere.

“Come diavolo ti permetti di parlarci così e di insinuare queste cavolate?!” Sbraitò, facendo voltare più di un cliente, “Senti chi parla di richieste di attenzioni poi, cosa doveva significare quella patetica scenetta di ieri sera? Il ragazzo che rientra ubriaco alle tre del mattino, non è un po’ tardi per la fase dell’adolescente ribelle, tesoro di mamma?” Lo derise, sporgendo il labbro inferiore ed imitando il tono di voce di una mamma con il suo bambino piccolo.

Lui si appoggiò con le mani al tavolo e si sporse verso di lei ad una velocità tale da farla sussultare, “Sono semplicemente uscito a bere qualcosa con degli amici, cosa che tu non credo possa capire, visto che tutto quello che riesci a fare alle tre del mattino è rompermi il cazzo come una vecchia e acida zitella.”

Sentì che la situazione le stava sfuggendo di mano, la rabbia stava prendendo il sopravvento come sempre quando c’era di mezzo lui, “Tu non mi conosci.” Ringhiò fra i denti, punta sul vivo. Era vero, non era il tipo di ragazza che amava bere ed ubriacarsi di notte e allora? Perché lui la faceva sembrare una cosa tanto sbagliata?

Anche lei sapeva divertirsi, senza bisogno di comportarsi da idiota irresponsabile.

“No, infatti. Per fortuna.” Fu la risposta che le sussurrò lui a due centimetri dalla faccia, gli occhi che bruciavano sul suo viso come fuoco.

Boccheggiò per qualche secondo, stordita da quello sguardo, da quella vicinanza assolutamente non voluta e non cercata, e dal profumo del ragazzo che le era entrato letteralmente in testa e le impediva di ragionare come avrebbe voluto.

Sentiva il respiro di Daniel sulle sue labbra e questo, per qualche sciocco motivo, le causava delle fitte dolorose nello stomaco.

Le sarebbe bastato protendersi in avanti di poco per sfiorare…

Ritorna in te, cretina.

“Ragazze, potete ordinare per cortesia?”

Non rispose all’altro cameriere, non lo aveva nemmeno sentito, continuò a fissare Daniel in cagnesco, senza quasi ricordarsi il perché si fosse effettivamente arrabbiata.

Neanche Daniel parve notare la presenza di Nate, i suoi occhi non lasciarono andare neppure per un attimo quelli della ragazza. Non la sopportava, eppure non riusciva a fare a meno di risponderle ed incazzarsi ogni volta che apriva bocca. Perché non poteva semplicemente ignorarla? Perché si faceva coinvolgere così?

E che cosa voleva Judith da lui? Era davvero così immatura da decidere di sfotterlo per il suo lavoro?

Si diverte a provocarmi?

“Dan?”

Jude?”

Solo quando vennero chiamati dai rispettivi amici si resero conto di essere rimasti vicini per troppo tempo – e una vicinanza tanto prolungata avrebbe dovuto disgustarli, no? – e si allontanarono quasi scottati.

“Ehm…Io prendo delle uova strapazzate e un succo di frutta.” Maggie prese il menù poggiato dalla sua parte del tavolo e lo restituì a Daniel sorridendo impacciata.

Lui ricambiò distrattamente, un fugace sorriso che sentiva di doverle per la frase poco carina di prima. Non pensava davvero che la rossa fosse una sfigata, né le avrebbe mai detto niente del genere se il suo intento primario non fosse stato quello di ferire e attaccare Jude.

Tornò a guardare la mora, sforzandosi di non mutare di una virgola la sua espressione impassibile e professionale.

“Cosa c’è sul menù?” Chiese Jude che, allontanatasi finalmente da lui, aveva ripreso a ragionare lucidamente.

“Puoi guardarlo da sola, non sai leggere?”

Poteva aspettarsi una risposta diversa da lui? Maleducato e odioso. Aveva sicuramente preso da suo padre, Delia non era così.

Thomas King doveva essere un buzzurro primitivo alla “io uomo e bevo davanti alla tv, tu donna e cucini”, ecco perché Delia lo aveva lasciato per suo padre, un medico intelligente e stimato, come biasimarla?

“Se l’ho chiesto a te è perché non ho voglia di leggerlo. Tu lavori qui, non io.” Ribatté lei contrariata, prendendo il menù in mano e porgendoglielo poi con un sorriso soddisfatto. “Ti dispiace?”

Daniel occhieggiò velocemente il menù, poi tornò a guardare la ragazza confuso. Doveva…leggerlo? Fino a che punto avrebbe continuato a prendersi gioco di lui?

Sapendo di avere lo sguardo di Nate ancora addosso, fu costretto a strapparlo con rabbia dalle mani di Jude e ad aprirlo.

Doveva mostrarsi superiore. Per quanto lei cercasse di metterlo in difficoltà e umiliarlo, lui non avrebbe ceduto. Non poteva mettersi a fare un’altra scenata, non poteva di certo urlarle contro. E non avrebbe perso il suo lavoro per colpa dei capricci di una mocciosa isterica e petulante.

Iniziò a leggere e ad elencare i piatti a voce bassa e moderata, mentre le dita gli stavano dolendo per la forza con cui stava stringendo la carta plastificata.

Jude poggiò il gomito sul tavolo e il mento sul palmo della mano, osservandolo dal basso con interesse.

Lo stava davvero facendo. Credeva di assistere ad un’altra sceneggiata, credeva che si sarebbe rifiutato e l’avrebbe mandata a quel paese, invece le stava davvero leggendo, conservando comunque una parvenza di dignità, i piatti del locale.

Ho esagerato.

Se ne rese conto quando una morsa spiacevole le sconvolse nuovamente lo stomaco.

Non era così che voleva che andassero le cose con lui, di quel passo non avrebbe mai scoperto cos’era successo fra lui e Delia, di quel passo avrebbero finito con l’odiarsi sempre di più e basta.

“Prenderò anch’io delle uova strapazzate e un succo di frutta.” Disse infine, quando si accorse che Daniel aveva finito e puntato gli occhi su di lei in attesa della sua ordinazione.

Non stava cercando di irritarlo, aveva chiesto la stessa cosa di Meg semplicemente perché, persa nelle sue riflessioni, non aveva sentito nulla di quello che lui aveva letto.

Daniel, però, non la prese troppo bene a giudicare da come stava tremando. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene per la collera, si sentiva umiliato come non gli era mai successo in vita sua. Stava lavorando, non rubando, chi era quella stronzetta snob per trattarlo alla stregua di una pezza da piedi? Si era divertita a fargli leggere il menù ad alta voce per poi chiedere la stessa cosa della sua amica?

“Bene.” Digrignò i denti con così tanta forza che non si sarebbe stupito se si fossero spezzati.

Si voltò di scatto e diede loro le spalle, prima che la rabbia potesse prendere nuovamente il sopravvento e spingerlo a dire o fare qualcosa di stupido.

Continuava a ripetersi che Judith Parker non meritava tanta importanza, eppure il fatto che il suo nome fosse costantemente nella sua testa non lo aiutava di certo a sedare l’irritazione.

Per un secondo l’idea di chiedere a Nate di occuparsi di servirle gli accarezzò la mente, poi scosse la testa e si diede dello sciocco; non aveva motivo di delegare a qualcun altro il lavoro, lo avrebbe fatto lui con la massima professionalità.

Quando tornò al tavolo per portare i due piatti, si curò di sfoggiare il suo miglior sorriso in direzione della rossa, poggiandole con delicatezza la sua ordinazione davanti e augurandole una piacevole consumazione. Il piatto di Jude, invece, fu malamente e bruscamente sbattuto sotto al suo naso, accompagnato solo da un grugnito indistinto molto poco simile ad un gentile invito a gustarlo, quanto più ad uno “strozzatici”.

Meg camuffò una risata con un colpo di tosse, cosa che le fece guadagnare un’occhiataccia dalla sua migliore amica.

“Non lo sopporto.” Borbottò Jude quando il ragazzo si fu allontanato, affondando la forchetta nel suo piatto con stizza.

Daniel riusciva a condizionare troppo il suo umore per i suoi gusti…e questo non faceva che farla arrabbiare ancora di più.

“A me sta simpatico.” Margareth bevve una sorsata del suo fresco succo di frutta in tutta tranquillità.

La mora la guardò come se avesse avuto davanti una disturbata mentale ed agitò la forchetta per indicarla, “Ti ha insultata Meg! Come puoi farti ammaliare da lui fino a questo punto?” Un bel faccino poteva davvero avere quell’effetto degradante su di lei? Sperava che nessun ragazzo potesse arrivare a farle perdere il cervello in quel modo.

Fu il turno di Meg di guardarla come se fosse una deficiente, “Lo ha fatto per ferire te, non l’hai ancora capito? Ha insultato me ma stava cercando di fare arrabbiare te, non lo pensava davvero. Spiegò con aria da donna saggia e vissuta.

Jude richiuse la bocca sconvolta; in effetti non aveva valutato la faccenda da quel punto di vista, “E come avresti dedotto tutto questo, scusa?”

Maggie fece un gesto noncurante con la mano, “Andiamo! Non dirmi che non te ne sei accorta!” L’occhiata che le lanciò la fece, per qualche stupido ed incomprensibile motivo, arrossire.

Accorta di cosa?

“Meg, parla e basta, smettila di lasciare le frasi incompiute.”

Il suo sguardo si poggiò involontariamente alle spalle della sua amica, sul ragazzo che, dall’altra parte del locale, stava servendo con un sorriso sulla bocca due ragazze della sua stessa scuola. Non si sarebbe sorpresa di vederle strisciare ai suoi piedi come vermi, quelle due pendevano letteralmente dalle sue labbra.

Eppure, nonostante ai suoi occhi fossero irritanti e false quanto le monete di plastica della Cassa di Barbie che aveva da piccola, Daniel le ascoltava pazientemente e continuava a sorridere mentre scriveva le loro ordinazioni.

Perché diavolo si comporta così male solo con me?

Perché non appena aveva messo piede nel locale l’aveva subito aggredita con quel “cosa ci fate qui?”, perché le aveva dato della patetica, perché le aveva sbattuto il piatto davanti senza nemmeno guardarla?

Era evidente che il problema fossero entrambi a quel punto, erano incompatibili, non c’era altra spiegazione. Lui irritava lei e lei irritava lui.

“Tensione sessuale.”

Sobbalzò nel sentire nuovamente la voce di Meg e tornò a guardarla confusa, “Cosa?”

“Tensione sessuale.” Ripeté la sua amica con aria sorniona, nascondendo un sorriso dietro il bicchiere che si portò alle labbra.

Tens-cosa?!” Che stava blaterando, che cosa si era persa?

Margareth St.James fece roteare i suoi occhi castani per il locale; non era molto paziente e non le piaceva ripetere le cose più volte, “Vedi, quando due ragazzi si attraggono si crea questa…”

“So cos’è la tensione sessuale Meg!” Sbottò Jude rossa per l’imbarazzo. Una coppia di anziani non molto distante da loro le guardò e bofonchiò qualche frase trita e ritrita sulla maleducazione dei giovani.

“Bene. Allora l’avrai sicuramente avvertita prima, fra te e Daniel, l’hanno avvertita tutti.

Tutti?

Che cosa stava insinuando? Tensione sessuale?! Già il fatto che avesse inserito la parola “sessuale” in una frase con “te e Daniel” era a dir poco raccapricciante. Non riuscì a contenere una smorfia di puro disgusto, quelle parole accostate la nauseavano.

Tensione sessuale. Fra lei e quel…coso. Non sapeva se ridere o urlarle contro qualche insulto.

“Primo: tutti chi? Secondo.” Si massaggiò le tempie ed espirò profondamente per calmarsi, “Non c’era nessuna tensione sessuale, sei fuori di testa?”

Lo era di certo, altrimenti non sapeva spiegarsi come poteva esserle venuta in mente un’idea del genere.

Lei e Daniel non avevano fatto altro che discutere e insultarsi, non c’era stato nessuno sguardo malizioso, nessuno sfioramento, nessuna occhiata che avesse potuto far pensare alla sua amica qualcosa di così…stupido!

“Io e quell’altro tizio, il cameriere. Vi guardava a metà fra il preoccupato e il divertito, sono sicura che l’ha pensato anche lui.” Meg si pulì la bocca con il tovagliolo e si rituffò vorace sulle sue uova.

Jude provò a ribattere che quello non significava affatto che il cameriere dai capelli unti avesse confermato il suo sciocco pensiero, ma non ne ebbe il tempo perché l’amica tornò alla carica.

“E ce n’era Jude, fidati. Pensavo che vi sareste saltati addosso da un momento all’altro qui sul tavolo. Ridacchiò spensierata ed allungò una mano per poggiare le sue dita sotto il mento dell’amica, “Chiudi la bocca tesoro, è una cosa bella, non una cosa di cui vergognarsi.”

Jude era troppo shockata per ascoltare il suo consiglio, troppo incredula per capire se fosse più arrabbiata o imbarazzata.

Le parole di Maggie le rimbombarono nella testa e non poté negare, almeno a se stessa, di aver effettivamente sentito qualcosa quando lui le si era avvicinato.

Una lieve stretta allo stomaco, un’eccessiva sudorazione alle mani e un battito fin troppo accelerato. Ma era sicuramente dovuto all’adrenalina, alla discussione accesa che c’era stata. Le capitava di avere la stessa reazione anche davanti alla professoressa d’inglese quando veniva interrogata e di certo non era dovuta ad un desiderio sessuale represso. Non per la professoressa Madison.

Rabbrividì schifata e si concentrò sulla sua amica, “Ti immagini le cose Meg.” Disse semplicemente, dandole uno schiaffetto sulla mano per allontanarla, “Non c’era nessuna tensione sessuale, solo astio. Evita di parlare ancora di questa cavolata, ok?

Si sforzò di restare calma: se si fosse arrabbiata e avesse iniziato ad urlare la sua amica avrebbe solo avuto prova della veridicità delle sue assurde parole.

Non poteva sapere di Evan, non poteva sapere come stavano realmente le cose. Oh, se solo avesse avuto il coraggio di dirle la verità, se solo non fosse stata così codarda da tenere per sé quell’imbarazzante segreto! Le sarebbe piaciuto condividere la cosa con la sua migliore amica, aveva un dannato bisogno dei suoi consigli e del suo spirito di osservazione!

“D’accordo, come vuoi.” Si arrese la rossa, finendo ciò che restava del suo succo di frutta.

Jude abbandonò alla svelta le sue posate nel piatto e fece per alzarsi, impaziente di uscire da quel posto e di cambiare aria.

“Andiamo?”

Maggie lanciò un rapido sguardo al suo di piatto, ancora mezzo pieno e terribilmente invitante, e si arrese con uno sbuffo, “Ho possibilità di scelta?”

L’amica sfilò dal portafoglio una banconota e la schiaffò sul tavolo, alzando le sopracciglia in modo eloquente, “No. Me lo devi, fai sempre colazione a casa mia a scrocco. Le disse, in tono scherzoso e per nulla polemico.

La testa rossa di Meg ciondolò in avanti, “Touché, hai ragione.” Ridacchiò e si mise in piedi, dando un silenzioso e doloroso addio a quelle meravigliose e squisite uova.

“Non aspettiamo nemmeno che ritorni per darti il resto?”

Judith si morse il labbro ed osservò distrattamente i suoi soldi. Sarebbero stati più o meno quattro dollari di resto…se li sarebbe sicuramente tenuti lui come mancia.

Visto come si era comportato non se li meritava proprio, ma non aveva intenzione di stare lì dentro un minuto di più, né di parlarci di nuovo, così fece spallucce con nonchalance.

Si voltò a guardare l’amica ed iniziò a camminare all’indietro come un gambero verso l’uscita, “Per tre dollari e qualcosa può tenerseli. Magari si compra una camicia decente.” Ironizzò a voce fin troppo alta.

Quando la sua schiena si scontrò con il petto di qualcuno, ogni fibra del suo essere le suggerì che alle sue spalle ci fosse proprio l’ultima persona che avrebbe dovuto sentire quelle parole.

Merda.

Gli era praticamente caduta addosso e la mano del ragazzo, poggiatasi al suo fianco, la sorresse d’istinto, nonostante Daniel avrebbe di gran lunga preferito lasciare che si schiantasse a terra.

Jude sentì il sangue gelarsi nelle vene ed il cuore schizzare in gola, mentre si staccava alla velocità della luce da lui, quasi avesse appena preso la scossa.

Merda, merda, merda! Perché era così sfigata? Era più forte di lei, in tanti le avevano detto che aveva una lingua da serpe, perché non riusciva mai a controllarsi?! E soprattutto, perché parlava proprio quando non doveva parlare?!

Era già pronta ad una – giusta – reazione indignata da parte sua, invece Daniel la sorprese nuovamente limitandosi ad oltrepassarla come se non avesse parlato – come se non esistesse – e a sorridere a Meg esattamente come prima.

“Grazie per essere passate, buona giornata ragazze.”

Se si fosse fermata ad esaminare meglio il viso del ragazzo, avrebbe visto che i suoi lineamenti erano tesi e il sorriso estremamente forzato; avrebbe visto che i suoi occhi lanciavano letteralmente saette di odio puro.

Frastornata e leggermente dispiaciuta per essersi lasciata scappare quella frase, Jude si voltò ed uscì dal locale a passo svelto, prima che lui potesse aggiungere altro…o prima che lei aprisse nuovamente bocca per dire qualche altra stupidata.

Sbuffò e pestò un piede a terra con rabbia; era stata una pessima idea entrare in quel locale! Lo sapeva che avrebbe dovuto lasciar perdere tutto fin dall’inizio, dannazione!

Juju.” La chiamò delicatamente Meg dopo averla raggiunta, poggiandole una mano sulla spalla.

Odiava quel soprannome, quante volte l’aveva ripetuto alla sua amica? Di solito Meg la chiamava così nei momenti in cui era giù di morale perché sosteneva che trasmettesse dolcezza. Dolcezza, come no.

“Tutto bene?” Le chiese premurosa.

Si infastidì non poco per quel tono di voce, perché mai la trattava come una bambina piccola a cui era stato appena detto che Babbo Natale non esisteva? “Certo che va tutto bene, perché non dovrebbe? Andiamo a scuola dai, siamo in ritardo!”

Non lo erano, ma Meg ebbe l’accortezza di non farglielo notare e di annuire semplicemente.

 

 

*

******

 

Quando rientrò a casa, dopo una massacrante giornata a scuola, Jude si lasciò scappare un lungo e liberatorio sospiro di sollievo.

Il mondo sembrava avercela con lei quel giorno, evitare Edward Russo era stato il triplo più difficile, il suo amico Jason non faceva che chiederle il perché del suo pessimo umore e Meg non aveva più menzionato Daniel nemmeno per sbaglio.

Brutto segno e poteva significare solo una cosa; Margareth aveva già capito che l’argomento la irritava più di quanto lei stessa avesse cercato di far credere. La conosceva meglio di chiunque altro e nella sua breve vita Jude poteva contare sulle dita di una mano il numero delle volte in cui la sua amica si faceva scrupoli a parlare di qualcosa con lei. Meg non le faceva mai domande su sua madre e stava attenta a non nominarla; chiedeva raramente come stesse Delia per non rattristarla; non le chiedeva che voto avesse preso nel compito di chimica quando usciva dall’aula con il broncio ed evitava di ricordarle quanto avesse pianto nel vedere Hachiko. Jude trovava che fosse patetico piangere per un film, eppure non era proprio riuscita a trattenersi davanti a quella palla di pelo bianca.

Grandioso, ora c’era solo da aggiungere alla lista...

“Daniel?”

La voce di Delia la fece sobbalzare sul posto e le chiavi di casa le scivolarono di mano cadendo a terra con un tonfo.

Imbranata.

“Oh Jude!” Dopo averla raggiunta all’ingresso, Delia le sorrise amorevolmente e

Judith si sentì un’emerita cretina nell’inchinarsi per raccogliere il mazzo da terra, “Ciao Delia.” Sorrise impacciata e si mosse sul posto come un’estranea che aspettava solo il consueto “fai come se fossi a casa tua” per sentirsi a proprio agio.

Che sciocchezza, quella era casa sua, perché mai si stava comportando così?

Un invitante profumo la raggiunse dalla cucina e Jude si sciolse abbastanza per chiederle, “Stai preparando una torta?”

La donna annuì divertita, “Si sente?” Ridacchiò gongolante, prima di pulirsi con meticolosa attenzione le mani sul grembiule, “Più tardi ho intenzione di fare anche i biscotti…ti andrebbe di darmi una mano?”

Come sempre, pensò la ragazza con una punta di nostalgia. Lei e Delia, prima dell’arrivo di Daniel, preparavano praticamente sempre qualcosa insieme per suo padre nei pomeriggi dopo la scuola. Da quando era arrivato suo figlio, la donna non si era più avvicinata ai fornelli per fare dolci, probabilmente per via dell’ondata di pessimo umore che il ragazzo aveva portato con sé.

“Certo!” Era contenta che la “vecchia” Delia fosse tornata, era contenta di poter fare di nuovo qualcosa con lei. In quei momenti…le sembrava che non le fosse mai mancata la presenza di una madre nella vita, Delia era proprio il tipo di persona che avrebbe voluto avere con sé quando, da piccola, si chiedeva perché le sue amiche avessero una mamma su cui poter contare a differenza di lei.

“Il tempo di fare i compiti e arrivo.” Non aveva molto da studiare, le sarebbe bastata un’oretta per raggiungerla in cucina.

Non telefonò nemmeno Meg per sentire la voce di Evan quel pomeriggio, impaziente com’era di rimboccarsi le maniche per riempirsi le dita di farina.

“Li facciamo con la Nutella oggi?” Tirò fuori dalla dispensa il barattolo e lo mostrò alla donna con il sorriso birichino di una bambina.

“Vada per la Nutella!”

Il bello di Delia era che gliela dava vinta sempre e comunque, si sentiva viziata e coccolata da lei proprio come una bimba piccola.

Passarono l’intero pomeriggio a cantare stonate qualsiasi canzone passasse alla radio, ad immergere le mani nella pasta frolla e a dare una leccata ai cucchiaini sporchi di Nutella di tanto in tanto, sorridendosi complici per la loro golosità.

Ooh you can dance, you can jive, having the time of your life!

Jude fece una piroetta per la cucina, il cucchiaio in mano a mo’ di microfono.

Uuuh see that girl, watch that scene, diggin’ the dancing queen!

Al “see that girl” Delia la indicò muovendosi a ritmo di musica e Jude fece un piccolo inchino, dando poi con il fianco un colpetto allo sportello del forno per chiuderlo.

Sia lei che Delia erano ormai partite per la tangente con Dancing Queen degli Abba, il volume era talmente alto che nessuna delle due si accorse della serratura, né della porta di casa.

Solo quando all’ennesima giravolta incontrò un paio di occhi castani Jude si bloccò di colpo e sperò che si aprisse immediatamente una voragine sotto i suoi piedi. Avrebbe voluto sprofondare sotto metri di terra, sentiva le guance scottarle e l’aria mancarle, non si era mai sentita così a disagio e…stupida davanti a qualcuno.

C-ciao tesoro!”

La consolava se non altro sapere che non fosse l’unica a sentirsi così, Delia reagì nello stesso identico modo nel momento in cui si accorse della presenza del figlio.

Daniel fece scorrere lentamente il suo sguardo stupito e diffidente da una all’altra, sbattendo poi le palpebre e indurendo i lineamenti per lasciar posto ad un’espressione…risentita?

Perché?

Le aveva guardate dapprima come si sarebbero potute guardare due psicopatiche appena scappate da un manicomio, per poi passare ad un rancore che Jude non riuscì a comprendere.

Scosse la testa – forse dopo aver valutato l’ipotesi di dire qualcosa – e se ne andò semplicemente al piano di sopra, lasciandole lì come le due povere cretine che erano.

Delia si schiarì la voce e spense la radio, mentre Jude trovò più saggio sedersi con quel poco di dignità che le restava.

Oh, insomma, non era successo nulla, non c’era bisogno di sentirsi così imbarazzata! Aveva fatto una figura del cavolo, ma non l’aveva fatta di certo in diretta nazionale, solo davanti a quel cretino!

Simpatico come al solito oltretutto, cosa gli costava salutare?

“Hai guardato il tempo per i biscotti?”

Quasi se n’era scordata per colpa di quel beota! Corse subito a dare un’occhiata al suo cellulare per controllare l’orario e contò più o meno tre minuti da quando li aveva messi in forno.

“Ora sì.” Ammise facendo un sorrisetto di scuse, “Mi ero lasciata distrarre dalla canzone.”

E da tuo figlio.

La seconda frase non la disse, ovviamente, ma fu ugualmente mortificante pensarla.

La verità era che da quando Daniel le aveva viste, si era persa in dettagli e domande sciocche, irrilevanti, che non avrebbero mai avuto una risposta. E se anche l’avessero avuta a lei non doveva importare assolutamente nulla.

Perché quello sguardo?

Ecco, di nuovo, quando l’avrebbe piantata?

C’era del rancore, tanto rancore. Come se qualcuno gli avesse fatto un torto.

Cosa le importava di sapere cosa ronzava nella testolina di Daniel King? Niente, doveva imprimerlo nella sua mente a caratteri cubitali.

Come se qualcuno lo avesse tradito.

Lei non lo aveva fatto di certo, restava…Delia.

Ma certo!

Si passò una mano fra i capelli, improvvisamente conscia di qualcosa che fino ad un attimo prima le sfuggiva. E del fatto che se li fosse appena imbrattati di farina e Nutella.

“Delia…” La donna si voltò a guardarla paziente e Jude tormentò il labbro con i denti.

Non era facile chiederle una cosa del genere, come avrebbe potuto farlo senza ferirla o essere invadente?

“Perché Daniel sembra avercela con te?”

Che brava! Già che c’era perché non le diceva, “Ehi Delia, mi sono accorta che tuo figlio ti tratta come se ti odiasse a morte, come mai?”

Quando gli occhi della sua quasi-matrigna si adombrarono, Jude ebbe la conferma di non aver avuto un minimo di tatto come suo solito.

“Scusami, se non vuoi parlarne…” Tentò di rimediare, torcendosi le mani per il nervosismo. Era un vero disastro quando si trattava di affrontare argomenti seri o delicati; quando il gatto di Meg era morto anni prima, tutto quello che era riuscita a dire per consolarla era “Almeno adesso non potrà più pisciare sul tappeto”. Meg se non altro aveva apprezzato il gesto e le aveva risposto con una risata fra le lacrime.

Delia scosse la testa e sorrise, lo sguardo velato da una patina lucida.

“Va tutto bene, immaginavo che sarebbe arrivata una domanda del genere, o da te o da tuo padre…più da te se devo essere sincera.”

Jude arrossì nel sentire quell’ultima frase; suo padre non avrebbe mai avuto il coraggio di turbare Delia con una domanda tanto personale, lei invece non si era quasi fatta scrupoli…era il tipo di persona che diceva le cose senza peli sulla lingua, ecco perché Delia aveva aggiunto quella precisazione.

“È una storia lunga e non è semplice per me parlarne.”

La giovane posò lo sguardo su di lei e attese in silenzio che continuasse. Proprio quando pensava che non ci sarebbe stato nessun racconto, Delia riprese a parlare, questa volta con un tremolio nella voce.

 

******

 

Daniel si sfilò la maglietta con rabbia, gettandola a terra come se stesse andando a fuoco e liberarsene fosse questione di vita o di morte.

Non gli importava un cazzo dell’ordine, non gli importava un cazzo di sentire quella pazza isterica strillare. Non voleva più saperne di nessuno in quella casa, di nessuno.

Quella scenetta a cui aveva assistito…era stata a dir poco patetica, avrebbe preferito lavorare fino alle undici di sera pur di risparmiarsela.

Sei felice adesso, mamma?

Sentiva i muscoli dolergli da quanto erano tesi, il corpo tremare mentre camminava per la stanza senza nemmeno sapere bene cosa fare.

Già, cosa fare? Cosa ci faceva lui lì? Cosa stava facendo? Che cosa credeva di fare? Era ridicolo, ridicolo. Più di sua madre e di quell’altra psicotica che ballavano in cucina.

Si passò entrambe le mani sul volto e le fece scorrere fra i capelli, tirando poi le ciocche tra le dita con forza.

Stupido.

Inutile.

Invisibile.

Insignificante.

Ecco come si sentiva, come si era sempre sentito agli occhi di sua madre.

Se ne fosse stato capace, se il suo orgoglio glielo avesse permesso, se si fosse ricordato come si faceva dopo tanto tempo, probabilmente avrebbe pianto. Ma no, non lo avrebbe fatto, non per lei, lo aveva già fatto troppe volte da bambino, si era ripromesso di non starci più così male.

Voleva uscire, voleva andarsene di lì, nemmeno una doccia sarebbe riuscito a farlo calmare, aveva bisogno di sbollire fuori da quella casa.

Prese un’altra maglietta a caso dal suo armadio e se la infilò, prima di scendere in fretta e furia al piano di sotto.

Era intenzionato a chiudere gli occhi e a tapparsi le orecchie come un bambino pur di non rivedere una scena come quella che l’aveva accolto al suo arrivo, non avrebbe retto nuovamente quell’aria…spensierata, quella complicità che solo fra un genitore ed un figlio poteva crearsi. Una complicità che non c’era mai stata fra lui e sua madre.

La odiava, la odiava con tutto se stesso, gli aveva rovinato la vita.

“Perché Daniel sembra avercela con te?”

Fu come ricevere una stilettata al centro esatto nel petto. Quella voce, proveniente dalla cucina, arrestò la sua camminata come un muro invisibile impossibile da oltrepassare.

Avrebbe voluto farlo, avrebbe voluto raggiungere la porta e uscire di lì, ma non ci riuscì.

Maledetta Judith Parker.

Perché era così interessata? Che cosa le importava di lui?

Era abbastanza nascosto da non essere visto, così ne approfittò per appoggiarsi con la schiena alla parete del corridoio, lo sguardo fisso sullo specchio davanti a sé.

Cosa racconterai adesso?

“Non…non vado fiera di come sono andate le cose.”

Almeno lo ammetteva, era già qualcosa. Daniel chiuse le mani a pugno ed iniziò a divorarsi l’interno guancia con forza.

“Devi sapere che quando mi sono sposata e sono rimasta incinta di Daniel ero…una sciocca ragazza immatura, con un’idea completamente sbagliata e distorta del matrimonio e dell’amore.”

Era difficile ascoltare quelle parole e lasciarsi scivolare tutto addosso, senza intervenire. Era difficile ascoltare quella versione che ritraeva lei come la povera vittima infelice. Cos’altro si aspettava che dicesse, del resto? Non poteva di certo dipingersi come la cattiva della situazione davanti alla sua adorata figlioletta acquisita.

“Sognavo…una casa stupenda, grande, luminosa. Sognavo un giardino dove avrei potuto coltivare qualche pianta, sognavo una vita perfetta, una di quelle che si vedono nei film.” Dalla voce della donna, leggermente addolcita, Daniel intuì che stesse sorridendo.

“La mia vita da sposata fu l’esatto contrario. Un appartamento minuscolo, bollette su bollette da pagare, accatastate sul tavolo, riscaldamento sempre spento, luce e telefono staccati in alcuni mesi dell’anno…”

Stava riassumendo la sua vita in poche parole. Una vita da cui lei era fuggita lasciandolo completamente solo.

Ma cercavo di farmi forza, l’ho fatto per undici anni. Mi dicevo che avevo l’amore di mio marito, mio figlio da crescere.

Un figlio che non aveva mai cresciuto.

Perché?

Daniel sentì gli occhi pizzicargli fastidiosamente. Si guardò allo specchio e quasi non si riconobbe; aveva lo sguardo allucinato e smarrito di un cerbiatto davanti ad un cacciatore pronto a sparare. Lo sguardo di Bambi dopo aver saputo della morte della madre.

“Le cose andarono sempre peggio di anno in anno. Il mio ex marito era…sempre più nervoso quando tornava a casa dal lavoro, i soldi mancavano e bastava un niente, un niente per farlo arrabbiare.

Stava davvero dando la colpa di tutto a suo padre?! Suo padre che l’aveva cresciuto quando lei se n’era andata? Provo un moto di disgusto per lei, quella donna non era sua madre.

“Litigavamo spesso, anche più volte al giorno. Non potevo comprarmi nulla, avevo il terrore di comprare qualcosa per me…mio marito mi avrebbe accusata di aver sperperato i suoi soldi. Io…non lavoravo.”

Sempre stando attento a non farsi vedere, si sporse per vedere le due donne sedute l’una di fronte all’altra.

Delia aveva una mano sul volto, pronta ad asciugare le lacrime che continuavano imperterrite a scendere sulle sue guance.

Falsa.

Il ragazzo non pensò neppure per un attimo che la sua reazione fosse sincera o spontanea, stava chiaramente fingendo per mostrarsi come la madre meravigliosa che non era agli occhi di Judith.

La ragazza, invece, sembrava vagamente commossa, il labbro inferiore preso d’assalto dai denti e un tic nervoso alla mano che la spingeva a picchiettare con le dita sul tavolo di tanto in tanto.

Le stava credendo. Avrebbe creduto alla versione di sua madre, avrebbe creduto che fosse solo una povera donna per cui provare pena. E lui? Lui sarebbe stato dipinto come il figlio egoista e insensibile, che si rifiutava di capirla, perdonarla, aiutarla.

Per qualche inspiegabile motivo, quel pensiero gli scatenò una serie di emozioni contrastanti dentro di sé; risentimento, sofferenza, rabbia per quella compassione che sua madre non meritava e che avrebbe dovuto avere lui…era lui quello che era stato abbandonato senza nessuna spiegazione, era lui ad avere ragione, maledizione!

Eppure si era sempre rifiutato di farsi compatire, non aveva mai raccontato a nessuno dei suoi compagni di scuola che fine avesse fatto sua madre proprio per quel motivo, per evitarsi degli inutili “Mi dispiace”, per evitare di essere trattato come un cane randagio bisognoso di attenzioni.

“Sono…caduta in depressione.”

Il ragazzo strinse i denti e serrò le palpebre rievocando alla mente ricordi che credeva di essere riuscito a cancellare. Oh, ricordava anche quello, le giornate intere che sua madre passava a letto a piangere, le giornate a digiuno passate davanti alla televisione perché “la mamma non riesce di farti da mangiare adesso, vai di là.”

Aveva rischiato di essere bocciato a scuola, la maggior parte delle mattine non si alzava dal letto nemmeno per accompagnarlo in classe; aveva rischiato di essere portato via dagli assistenti sociali per il suo scarso rendimento scolastico. Da piccolo non aveva la minima idea di che cosa fossero, ma ricordava di aver sentito più volte suo padre gridare adirato contro di lei quelle due parole.

“Vedevo tutto nero, non c’era via d’uscita, era…un Inferno.”

Sua madre iniziò a singhiozzare e Daniel decise che aveva ascoltato e visto fin troppa ipocrisia per i suoi gusti.

Non ne poteva più di quella versione dei fatti che la ritraeva come la vittima infelice, non ne poteva più di rivivere momenti che lo avevano fatto piangere notti intere quando era poco più che un bambino.

Gli sarebbe piaciuto intervenire, gli sarebbe piaciuto farle sapere come per anni aveva passato ogni singolo giorno da quando se n’era andata, ma non le avrebbe mai dato quella soddisfazione. Era cresciuto lo stesso, era andato avanti, era sopravvissuto.

Anche senza di te.

E così sarebbe andato avanti.

Se fosse uscito in quel momento di casa l’avrebbero sicuramente notato e non voleva che sapessero che aveva appena origliato e assistito a quel patetico teatrino, così fece semplicemente dietrofront e tornò al piano di sopra.

L’idea della doccia per calmarsi gli parve nuovamente buona, sotto tutta quell’acqua avrebbe potuto lasciarsi andare senza sentirsi un idiota; se anche i suoi occhi l’avessero tradito, i segni della sua sofferenza sarebbero stati cancellati ancor prima che lui stesso potesse vederli.

 

******

 

Jude non riusciva a credere ai propri occhi e alle proprie orecchie; avere davanti sé Delia in quelle condizioni era quasi irreale. Era così fragile, così sofferente, così…diversa da come l’aveva sempre vista, non sembrava neanche lei.

Non sapeva cosa fare, come comportarsi. Tamburellò con le dita sulla superficie lucida del tavolo e raschiò la gola; le stava venendo il magone, inutile negarlo. Non era mai stata un tipo particolarmente sensibile, eppure le parole della donna, il suo pianto, la stavano commuovendo come solo quello stupido film su un cane era riuscito a fare.

“Ero egoista, cieca. C’ero solo io, c’era solo il mio dolore, nessuno mi capiva, nessuno poteva capirmi.” Delia andò avanti a raccontare a fatica, fra un respiro per cercare di calmare il pianto e l’altro, “Odiavo tutto, odiavo tutti. Me stessa, la mia vita, mio marito…mio figlio.” Le ultime due parole furono accompagnate da un altro singhiozzo che strinse il cuore di Jude in una morsa dolorosa, “Bastava poco per farmi arrabbiare e farmi gridare frasi che non ho mai pensato contro di lui…” La donna si passò una mano dietro il collo e chinò il capo addolorata, “Ho maledetto non so quante volte la sua nascita, proprio davanti a lui.”

Jude tremò al solo pensiero di sentirsi dire da suo padre, la persona che più amava e stimava al mondo, una frase del genere. Ne sarebbe uscita distrutta.

“Ti risparmio una buona parte del racconto…” Delia si umettò le labbra e sbatté ripetutamente le palpebre per ricacciare indietro altre lacrime, “Alla fine non ce l’ho più fatta e me ne sono andata, sono scappata.”

La ragazza ipotizzò che la donna le avesse risparmiato quella che per lei era la parte più difficile e dolorosa, la parte in cui aveva preso la drastica decisione di allontanarsi da suo figlio. Probabilmente la stava omettendo per non rattristarla troppo, o semplicemente perché non se la sentiva di raccontarla.

“Non potevo occuparmi di mio figlio in quelle condizioni, per farlo dovevo prima tornare a stare bene con me stessa, non potevo continuare a vivere così, non…non era vita quella.” Fece una pausa e Jude si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando la donna riprese a parlare, “Avevo una zia che viveva qui vicino e mi sono trasferita senza dir nulla, sparendo completamente dalla vita di mio figlio e di mio marito.”

Cazzo.

Jude non poté pensare ad altro, non trovava nessuna parola più calzante di quella. Non immaginava che la vita di Delia fosse stata così difficile anche prima di incontrare suo padre e prima della malattia.

Certo, sapeva che aveva divorziato dal suo ex marito e un divorzio non era mai portatore di gioia nella vita di una persona, era pur sempre un fallimento, ma…non immaginava che le cose potessero essere andate in quel modo.

“Per un anno non mi sono più fatta sentire con nessuno, nemmeno con Dan…Thomas” Si morse il labbro e le fece un debole sorriso, “Il mio ex marito sapeva dov’ero, ma non mi cercò. Rispettò il mio bisogno di star per conto mio e si occupò da solo di Daniel.

Jude rivalutò involontariamente il signor King, forse non era il buzzurro che pensava che fosse. Un lavoro che lo stancava, uno stipendio che non bastava, un figlio da crescere, una moglie depressa…la vita non doveva essere stata semplice neanche per quell’uomo.

E a giudicare da come era Daniel…aveva fatto bene il suo lavoro di genitore. Certo, il ragazzo aveva un carattere di merda, ma si era diplomato, era intelligente, lavorava, non cazzeggiava in giro fumandosi canne o altro come la maggior parte degli adolescenti con qualche disagio in famiglia.

Un punto per Thomas King…e per Daniel.

“Credo mi abbia odiata, ma è riuscito a perdonarmi con il tempo.” Delia sollevò il capo pensierosa, prima di abbandonarsi ad un sospiro sconsolato, “A differenza di Daniel…” La frase lasciata in sospeso le fece capire che erano arrivate più o meno a quel punto, a quel “perché Daniel sembra avercela con te?”

“Ho sbagliato, non mi sarei dovuta far sentire dopo così tanto tempo, avrei dovuto spiegargli subito come mi sentivo, ma…come potevo? Era un bambino, non mi avrebbe capito.”

Judith abbassò lo sguardo sulle sue mani, incapace di reggere ancora una volta quello di Delia.

Ripensò a Daniel e a tutti gli scambi di battute che avevano avuto da quando lo aveva incontrato la prima volta davanti alla porta della sua stanza.

Non si era comportato bene, non era stato amichevole, ma anche lei ci aveva messo una buona parte di ostilità, quindi la colpa dei loro continui battibecchi era da imputare anche a lei.

“Quando l’ho chiamato un anno dopo, una volta ristabilitami…non ha voluto parlarmi, ha cambiato numero e non ha più voluto saper niente di me. Tutto quello che so di lui e di questi anni persi della sua vita me l’ha raccontato suo padre.

Ecco spiegato il perché di quel comportamento, di quello sguardo poco prima. Daniel l’aveva guardata con odio quando l’aveva vista ridere e scherzare con Delia in cucina.

Per lui è come se gli avessi portato via la madre.

La odiava per quello? Era stato sempre così scontroso per quel motivo? Tutto tornava, la motivazione era più che comprensibile e Jude si sentì improvvisamente sciocca per non esserci arrivata prima.

Allungò timidamente una mano per sfiorare quella della donna e le sorrise, “Mi dispiace.” La frase più banale del secolo, ma non sapeva proprio che altro dire.

Delia parve comunque tranquillizzarsi e sciogliersi a quel tocco, “Va tutto bene ora…più o meno. Lo amo più della mia stessa vita e non mi perdonerò mai per quello che gli ho fatto…Speravo di poter recuperare e salvare qualcosa del mio rapporto con lui chiedendogli di venire a vivere qui, ma…

“Dovresti parlargli a cuore aperto come hai fatto con me.” Suggerì d’impulso la ragazza, “Non è più un bambino, se tu gli parlassi e ti scusassi…probabilmente capirebbe.” Si stava pure mettendo a dare consigli ad una donna adulta e navigata, senz’altro più di lei, la sua presunzione non aveva limiti.

Non riusciva a stare zitta, era più forte di lei, doveva dire la sua come sempre.

“Non posso.” Delia ricambiò il suo sguardo smarrita, “Ho…paura di quello che potrebbe dirmi, del disprezzo che potrei vedere nei suoi occhi. Ho paura di scoprire che il mio gesto l’ha segnato così in profondità da rovinarlo per il resto della vita, ho paura di scoprire che le ferite che gli ho inferto non possano più essere rimarginate. Afferrò un fazzoletto dal ripiano alle sue spalle e si coprì il viso con esso, quasi per nascondersi durante quell’ennesima crisi di pianto.

“Scusami…” Disse imbarazzatissima e a Jude fece tanta tenerezza.

“Delia, tranquilla, puoi sfogarti con me, non dirò nulla a nessuno.” Le toccò la spalla con la punta delle dita dispiaciuta.

Era la verità; non avrebbe detto una parola neanche a suo padre, si sarebbe portata quella confessione nella tomba.

“Se anche mi perdonasse…potrebbe…potrebbe…” Delia stava tremando così forte da farla spaventare, soprattutto perché non aveva la minima idea di cosa potesse fare per aiutarla, “Potrebbe perdermi di nuovo. Sarebbe un’altra sofferenza, capisci? Meglio che mi odi.”

“Delia non dire queste sciocchezze.” La sua voce uscì secca e decisa, non sopportava di sentire frasi del genere, non voleva prendere in considerazione l’idea che la donna di suo padre potesse non farcela.

La abbracciò istintivamente, sentendosi piccola e impotente come non le era mai capitato in vita sua, “Sei in tempo per recuperare il rapporto, sei in tempo per aiutarlo a ricucire quella ferita senza che rimangano brutte cicatrici.” Forse quello che stava dicendo era stupido, forse non aveva senso, non lo sapeva e non le importava, “Ma se non ci provi Delia…quella ferita rimarrà sempre, rimarrà sempre quel vuoto dentro di lui, la tua mancanza…” Iniziò a vedere sfocato e si rese conto di avere gli occhi lucidi, “Ti aiuterò io, te lo prometto.”

Cazzo, cazzo. Perché faceva promesse che non avrebbe saputo come mantenere?

Come cavolo avrebbe convinto quel deficiente ad ascoltare e perdonare sua madre? La odiava, non facevano che litigare, sicuramente sarebbe stata l’ultima persona a cui avrebbe dato ascolto. Si era eretto un muro davanti a sé, un muro che lei non era riuscita a scalfire neanche un po’.

Sei una cretina Judith Parker.

“Davvero?” Delia tirò su con il naso e sciolse l’abbraccio per spostarle affettuosamente i capelli dal viso e guardarla, “Tesoro non voglio chiederti di fare questo per me se non te la senti. Daniel è testardo e”

“Diciamo pure che è un idiota.” Niente da fare, non aveva filtri tra il cervello e la lingua, “Ma ti ho detto che ti aiuterò e lo farò. Dammi un po’ di tempo e riuscirò ad andarci d’accordo. Fu difficile dirlo senza fare smorfie, le sembrò strano udire quelle parole uscire dalle sue stesse labbra. “Gli parlerò io.”

Grandioso. Era ufficialmente nella cacca. Aveva fatto uno scivolone pazzesco, era caduta e ora era immersa fin sopra i capelli nello sterco. Ne era sempre più convinta, di passo in passo, mentre tornava in camera sua per prendere l’occorrente per farsi una doccia prima di cena.

E ne ebbe la conferma definitiva quando sul suo letto trovò una banconota da cinque dollari ed un biglietto.

Andare d’accordo con Daniel King sarebbe stata un’impresa praticamente impossibile, ma per Delia ci avrebbe provato, sarebbe ripartita da zero il giorno successivo. Un reset completo, come se il suo rapporto con Daniel fosse stato un videogioco in cui si era bloccata e non riusciva ad andare avanti. Sarebbe ripartita da capo e avrebbe cambiato la storia.

Dopo il racconto della donna riusciva anche a trovarlo meno idiota e a provare del dispiacere per lui. Doveva aver sofferto molto per la depressione della madre, per le parole che gli erano state rivolte da lei, per il suo abbandono…

Sorrise impercettibilmente – se si fosse vista allo specchio avrebbe sicuramente emesso un verso disgustato per quello che era quanto di più simile ad un sorriso intenerito – e rilesse le parole scritte con grafia un po’ disordinata ma decisa sul foglietto che aveva in mano.

 

“Non ho bisogno dei soldi di tuo padre, né di una camicia nuova, grazie.”

 

 

 

*Note dell’autrice*

 

Ringrazio Jess per il meraviglioso banner che vedete in cima e colgo l’occasione per linkare la sua stupenda pagina di grafica su Facebook; Jess Graphic.

 

Siete sopravvissute a 25 pagine, congratulazioni! Ora potete provare fare un triplo salto mortale all’indietro; lo troverete una passeggiata, credetemi.

Cavolate a parte e sorvolando sul titolo cretino del capitolo, cosa ne pensate del capitolo in sé? Mi aspetto già i “buuu, ritirati” xD

È un capitolo pesante, un po’ idiota all’inizio e più serio verso la fine (da qui il titolo pietoso).

Vi avevo detto che ci sarebbe stata una svolta nella storia ed eccola qui. Precisamente da questo capitolo in poi Dan e Jude inizieranno ad avvicinarsi sul serio, quello che avete visto fino ad ora era nulla in confronto.

La verità su Dan e sua madre è venuta a galla (ovviamente non tutta, ho omesso dei pezzi) ed il motivo del suo odio è piuttosto “semplice” e capibile.

Conoscendo molto bene una persona che soffre – purtroppo – di depressione, sapevo più o meno di cosa parlavo mentre scrivevo, ciò non cambia che mi sia sentita leggermente a disagio nell’affrontare un tema così delicato. Spero di non aver offeso nessuno – in caso mi scuso –, di essere riuscita a rendere bene le emozioni di Delia e a trattare con tatto l’argomento.

Se non vi è chiaro qualcosa non vi preoccupate di chiedere (:

Per quanto riguarda Daniel…forse è infantile, sicuramente si sta comportando male, ma se devo essere sincera non lo biasimo, capisco il suo astio e molto probabilmente avrei reagito allo stesso modo se mi fosse successa una cosa del genere.

E poi c’è Jude…ve lo siete chieste? Dov’è sua madre? È viva o morta? Si saprà un po’ più avanti, per lei è più “facile” spronare gli altri a parlare che parlare di se stessa.

Dicevo, c’è Jude. Jude che ora è intenzionata ad avvicinarsi a lui, a trovare un punto d’incontro…solo perché lo ha promesso a Delia? E lui come prenderà questo suo cambiamento repentino? Si lascerà davvero avvicinare così facilmente?

Quante domande, della quale magari non vi importa nemmeno nulla xD

Ad ogni modo, vi ringrazio davvero per il calore che continuate a dimostrare per questa storia nonostante i continui ritardi! Rileggendo i vostri commenti mi son detta che dovevo assolutamente darmi una mossa, vi ho fatto aspettare anche troppo!

Spero che ci siate ancora e spero di non avervi annoiate, un bacione grandissimo!

Bec

 

Ps: buon Natale e buon anno! (in ritardissimo XD)

PPs: Lo so, ormai avete perso le speranze, ma prima o poi le risposte alle recensioni arriveranno…Inizio da stasera!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** FACIN (Fai Amicizia Con Il Nemico) ***



Time is running out

Capitolo 6: FACIN (Fai Amicizia Con Il Nemico)

 

 

Il piano FACIN, ovvero “Fai amicizia con il nemico”, iniziò ufficialmente la mattina successiva, al suonare della sveglia.

Judith avrebbe anche potuto dare il via alla missione la sera prima, subito dopo la chiacchierata con Delia, ma aveva preferito rimandare e meditarci sopra durante la notte.

Non le piaceva andare in battaglia senza una strategia ben studiata, non era da lei.

E quindi eccola lì, ferma come un’idiota davanti alla stanza del suo quasi fratellastro – se Delia e suo padre si fossero sposati lo sarebbe diventato e il solo pensiero le fece venire la pelle d’oca – con una tazza di caffè caldo e fumante in mano.

Un’offerta di pace? Qualcosa del genere.

Si mosse sul posto nervosa e scosse la testa per spostare indietro una ciocca di capelli, mentre pensava ad un nome più decente per il suo piano; FACIN non si poteva proprio sentire.

La maniglia della porta si abbassò e Jude avvertì l’impellente voglia di gettare all’aria la tazza e correre a nascondersi da qualche parte.

Si sentiva una completa imbecille e non le piaceva che quell’orrenda sensazione le si fosse attaccata alla pelle come una zecca.

Quando Daniel sbucò fuori dalla sua camera, la ragazza rimase immobile e attese paziente che lui la squadrasse confuso e sorpreso.

Sbatté le palpebre diverse volte e si passò assonnato una mano sugli occhi, forse chiedendosi se la stesse semplicemente immaginando o se fosse davvero lì.

Dopo aver constatato che la ragazza non accennava proprio a sparire, incominciò ad esaminare con aria circospetta il caffè che teneva in mano, alzando involontariamente un sopracciglio in una muta domanda.

“Non è avvelenato.” Lo rassicurò lei sarcastica, tendendo impacciata il braccio davanti a sé, “Senza zucchero, vero?” Quella mattina, ad un passo dal metterci dentro due zollette, si era ricordata di non aver mai visto il ragazzo metterne nella sua tazza. L’aveva osservato più di quanto lei stessa avrebbe ammesso.

Lui ignorò la sua offerta e si appoggiò con la spalla allo stipite della porta, “Come mai tanta gentilezza? Che c’è sotto?” Socchiuse le palpebre e la scrutò diffidente.

Perché doveva essere così dannatamente sospettoso? Non poteva semplicemente accettarlo e ringraziarla come le persone normali?

Jude si rigirò l’oggetto tra le mani e ripescò in fretta il discorso che si era preparata in testa durante la notte, “Perché penso che siamo partiti con il piede sbagliato. Non avrei dovuto seguirti fino al locale ieri, mi…” Qualcosa le si incastrò in gola ed era abbastanza certa che si trattasse del suo orgoglio.

Il ragazzo attese pazientemente che proseguisse, anche se aveva già intuito che cosa stesse per dirgli.

Il volto impassibile non l’aiutava di certo, le avrebbe fatto comodo un minimo di reazione, almeno per sapere cosa gli stesse passando per la testa.

“Mi dispiace.” Ce l’aveva fatta, era stato meno difficile del previsto in fondo, “Ho dato il peggio di me in questi giorni, non sono abituata ad avere estranei in casa.”

Il pensare alla difficile situazione familiare di Daniel la favorì nel procedere con il discorso: pensare a lui come al ragazzo che aveva sofferto per la madre e non come a quello arrogante che l’aveva irritata a morte le facilitava il tutto.

“Ci tengo davvero a farmi perdonare, quindi…pace?”

Pace? Aveva davvero detto pace come una bambina dell’asilo? Quella parola non era prevista nel suo piano d’azione, da dove era saltata fuori?

Quello che non si aspettava era il sorriso che lui le rivolse, per nulla amichevole e più simile ad un ghigno che la fece rabbrividire inspiegabilmente, “È sorprendente come la pietà sia riuscita a farti mettere da parte l’orgoglio.” Replicò in tono sprezzante e cattivo.

“Come?” Aggrottò la fronte stranita, di che stava parlando quel broccolo?

Il sorriso di Daniel si spense di colpo, lo sguardo fisso su di lei sembrava volerla trapassare da parte a parte, “No, grazie.”

No, grazie?!

La stava liquidando con un “no, grazie”?! Il suo discorso era perfetto, lei era stata gentile e disponibile e lui la stava…respingendo? Perché? Che diavolo di problema aveva quel deficiente?! E cosa c’entrava la pietà?

Per la rabbia il braccio le stava tremando così forte da far oscillare pericolosamente il liquido nero all’interno della scodella, “È tutto quello che sai dire? No, grazie?!” Sbraitò senza curarsi di abbassare la voce.

Il suo adirarsi fece reagire di riflesso anche Daniel, che le si avvicinò così rapidamente da farla sussultare. Una goccia di caffè scivolò fuori dal bordo della tazza e cadde nel vuoto, macchiando la moquette blu ai loro piedi.

Se non avesse avuto il viso del ragazzo così vicino al suo e i suoi occhi furiosi puntati insistentemente addosso, si sarebbe preoccupata di abbassare la testa per controllare le condizioni del tessuto.

Odiava ammetterlo, ma averlo ad una distanza così ravvicinata le scombussolava la mente e per un attimo il cervello incespicò su pensieri che non avevano nulla a che fare con quella discussione. Come al fatto che i suoi occhi avessero delle piacevoli screziature verdi in mezzo a tutto quel marrone…e che i pantaloni grigi della tuta e quella maglietta nera a maniche corte non gli stessero affatto male.

Deglutì a vuoto: avrebbe voluto allontanarsi, ma se lo avesse fatto lui si sarebbe accorto dell’effetto che aveva su di lei, della reazione che le stava provocando.

“E tu invece? Non hai altro da dire?” Le soffiò sulle guance, le parole ringhiate tra i denti come se fossero insulti e le mani chiuse a pugno con forza.

Jude ammutolì e sbatté le palpebre disorientata; non riusciva a capire perché si fosse arrabbiato così tanto e così all’improvviso. Era fuori di testa, non c’era altra spiegazione. O forse si era ubriacato di nuovo. Oddio, aveva a che fare con uno squilibrato mentale, forse era il caso di gridare aiuto.

Ma di che stai parlando? Che altro dovrei dire, scusa? Se ti aspetti qualcosa di svenevole guarda che…”

“Ah, finiscila.” La interruppe seccamente, “La storia raccontata da mia madre dev’essere stata molto commovente se siamo a questi livelli di pateticità.” Insinuò con voce fintamente stucchevole, i lineamenti contratti in una smorfia insofferente.

Le guance della ragazza persero improvvisamente colore e la mascella quasi le si schiantò a terra. Oh merda, sapeva tutto. Sapeva del discorso con Delia. Le aveva sentite?

La gola le si seccò e si ritrovò a boccheggiare senza sapere bene come rispondere. Aveva deciso di sotterrare l’ascia di guerra e avvicinarsi a lui per aiutare Delia, solo che non poteva certo dirgli quello. Però non riusciva nemmeno a tirar fuori qualche altra risposta plausibile, era come se la lingua le si fosse incollata al palato.

“Lascia stare l’offerta di pace. E lascia perdere i sensi di colpa. Non ho bisogno della tua pietà.” Non aggiunse altro, la sorpassò e andò al piano di sotto lasciandola lì pietrificata al centro del corridoio.

Il suo primo tentativo di avvicinarsi a lui era stato un fiasco totale. Non che avesse sperato di poter diventare la sua migliore amica nel giro di due minuti, ma credeva che quell’offerta potesse essere almeno un punto di partenza.

Sospirò e sfregò distrattamente i polpastrelli sulla macchia nera di caffè formatasi poco prima sulla T-shirt del suo pigiama. Aveva bisogno di un consiglio e di una nuova strategia.

 

 

*****

 

Cosa vuoi che ti dica?” Jason si pulì la bocca con un tovagliolo, prima di rituffarsi sul panino più schifoso che Jude avesse mai avuto l’occasione di vedere.

Ketchup, senape, maionese, mostarda, salsa rosa, Dio solo sapeva cosa c’era lì dentro. Lui era fatto così del resto, gli piaceva sperimentare, mischiava sempre tutto.

Mangiava la pasta con il ketchup e immergeva i biscotti al cioccolato nella minestra, lei e Meg ormai non si scandalizzavano più per nulla.

“Non lo so, qualsiasi cosa. Sei un ragazzo, aiutami a…socializzare con quelli della tua specie!” Spiegò gesticolando con impazienza.

Jason rise e scosse la testa incredulo, “Specie? Non ho parole.”

Aveva bisogno di qualcosa che la aiutasse ad avvicinarsi a Daniel senza che si insospettisse, senza che pensasse che lo facesse per pietà o con secondi fini.

“Allora?” Sollecitò quando vide che l’amico continuava ad ingozzarsi.

“Se vuoi fare amicizia con lui, sii semplicemente te stessa.” Spiegò con tranquillità, scrollando le spalle.

Jude sbuffò seccata, “Grazie tante.” Un consiglio più inutile di quello non avrebbe potuto darlo.

“Se tu iniziassi a comportarti diversamente si insospettirebbe e allontanerebbe. Non è credibile una Jude dolce e gentile.

“Ah ah, simpatico!” Ribatté con una finta espressione imbronciata sul volto. In realtà sapeva che l’amico aveva ragione, non era da lei essere carina e sdolcinata, si conosceva abbastanza bene per potersi definire acida e aggressiva.

“Invitalo alla festa di Seline domani stasera.” Propose Jason con un’altra scrollata, “Potrei parlarci io. Magari si sentirà più a suo agio a socializzare con qualcuno della sua… “specie”.” Mimò la parola con le dita sporche di ketchup, ridendo l’attimo dopo quando l’amica gli riservò un’occhiataccia.

“Stai scherzando? E poi odio le feste di Seline Evans, Jason, lo sai. Borbottò lei, infilzando una foglia d’insalata con forza.

Seline Evans era la più ridicola, triste e inutile cheerleader di tutta la scuola. Ovviamente era anche la più corteggiata, per qualche ragione a lei totalmente incomprensibile. Anche se la quarta abbondante di seno della ragazza sembrava essere un motivo più che valido per i suoi compagni.

Jude si chiedeva come diavolo facesse a non schiacciare le sue compagne con tutto quel peso, quando saliva in cima alla piramide.

“Non dovete mica prendervi a braccetto o mettervi lo smalto a vicenda, la saluti e poi la ignori per il resto della serata!”

A braccetto? Lo smalto a vicenda? Ma Jason che diavolo pensava che facessero le ragazze insieme per passare il tempo?

Abbassò lo sguardo sulle sue unghie curate ma prive di smalto e si morse il labbro indecisa.

Jude, provaci. Non mi sembra che tu abbia molte alternative, no? Magari ha davvero solo bisogno di qualcuno della sua età con cui socializzare, di farsi qualche amico.

Forse sì. Anche se con lei non si poteva certo dire che fosse stato particolarmente gentile e disposto a fare amicizia. Aveva anche lui la sua parte di colpa, l’aveva presa in giro e provocata fin dall’inizio.

Piegò la bocca pensierosa: chiedere a Daniel di andare ad una festa con lei? Non sarebbe sembrato… ambiguo? Lui avrebbe potuto credere che lo stesse invitando ad uscire e Jude non voleva assolutamente che lo pensasse, ci mancava solo quello! Sarebbe stato meglio mettere in chiaro fin da subito le cose e fargli capire che era solo una proposta da amica.

Scosse la testa ed arricciò di poco il naso, “Se anche lo invitassi…” S’ingobbì sul tavolo per sporgersi verso di lui, “Non accetterebbe mai” Concluse a bassa voce, senza il minimo dubbio o esitazione. Ne era convinta.

Poteva già sentire la sua voce mentre le rispondeva “No, grazie” con la stessa freddezza di quella mattina. Quando aveva cercato di avvicinarsi a lui era stato come sbattere contro ad un muro di cemento armato.

Si chiese cosa e quanto avesse effettivamente ascoltato di quella conversazione con Delia… aveva sentito la sua promessa finale alla donna? Ne dubitava.

Quella mattina Daniel le aveva detto semplicemente di non volere la sua pietà, quindi non sapeva che aveva cercato di avvicinarsi a lui per aiutare Delia. Pensava che lei lo facesse per compassione, doveva essersi perso la parte finale del discorso.

Jason inclinò la testa e si accigliò, “In quel caso ci avresti comunque provato.”

Giusto. Ormai aveva già messo in conto di dover mettere momentaneamente da parte almeno metà del suo orgoglio per conquistare la fiducia di Daniel, quindi non aveva molto da perdere.

Doveva aiutare Delia a qualunque costo, non poteva sopportare il ricordo delle sue lacrime e di quel debole sorriso che le aveva rivolto quando le aveva promesso di aiutarla.

 

 

***

 

Solitamente non amava rientrare in quella casa, ogni volta che apriva la porta sentiva l’aria mancargli, come se i muri si restringessero intorno a lui e lo soffocassero. Sentiva di essere indesiderato, di non potersi muovere liberamente, di dover prendere decisioni in base alle azioni degli altri abitanti; sentiva di essere osservato come un animale allo zoo, percepiva gli occhi di Richard Parker e di sua figlia costantemente su di sé, quasi si aspettassero solo un suo passo falso.

Era ufficialmente diventato un soggetto problematico da tener d’occhio e da compatire. Si sentiva il protagonista di un fottuto programma spazzatura sui problemi degli adolescenti, uno di quelli che facevano leva sulla pietà della gente per avere un buon numero di ascolti.

Sospirò e si passò stancamente una mano sul viso; era esausto e, benché l’idea di rivedere quella famiglia non lo entusiasmasse, era impaziente di rientrare per potersi fare una doccia e rilassarsi un po’.

Aveva accettato di lavorare fino a tardi quel giorno, accettava spesso di fare degli straordinari pur di passare del tempo fuori, pur di non dover restare con dei tizi che per lui erano poco più che sconosciuti.

Fu un sollievo vedere le luci del piano di sotto spente: vista l’ora dovevano già aver cenato senza aspettarlo. Forse erano persino già a letto.

Entrò silenziosamente nel buio ingresso e non si preoccupò di annunciare la sua presenza; se stavano davvero dormendo non aveva alcuna intenzione di svegliarli.

Ad attirare la sua attenzione, proprio mentre stava per dirigersi al piano di sopra, fu un tenue bagliore giallo proveniente dalla cucina.

Incuriosito, si affacciò e fece vagare lo sguardo per la stanza vuota, soffermandosi poi sul forno acceso e su un piccolo post-it azzurro attaccato sul vetro.

Si avvicinò stranito, a passi lenti e titubanti, quasi temesse che da lì uscisse una tigre pronta a sbranarlo.

Prese il pezzo di carta tra le dita e lo staccò, inchinandosi accanto alla luce per poter leggere meglio quanto vi era scritto.

 

So che preferiresti spararti alle palle piuttosto che cenare con noi.

Spero ti piaccia il polpettone, comunque. Buon appetito. J.

 

La grafia era tondeggiante e precisa, la parola “palle” era stata cancellata e poi riscritta accanto.

Daniel inarcò un sopracciglio e si diede dell’idiota quando sentì affiorargli un sorriso sulle labbra.

Accartocciò il biglietto nella mano e fissò il piatto all’interno dell’elettrodomestico senza sapere bene cosa fare.

Quello era chiaramente un altro tentativo della rompiscatole di rendersi simpatica e sistemare le cose con lui. Perché era così interessata a farlo? Sensi di colpa? Non poteva semplicemente lasciarlo perdere? Sarebbe stato più semplice ignorarsi a vicenda.

Dopo aver origliato la conversazione tra lei e Delia, aveva creduto che Judith lo avrebbe considerato uno stronzo insensibile che si rifiutava di perdonare la madre malata, invece era stata stranamente gentile con lui quella mattina, si era persino scusata.

La cosa lo aveva mandato su tutte le furie, si era sentito preso in giro da quel sorriso amichevole, si era sentito come un cane randagio a cui era stato offerto, per pietà, del cibo avanzato.

Non sapeva proprio che farsene della pietà della ragazza, di amici ne aveva già – pochi ma buoni – a New York e nessuno di loro lo era diventato per compassione. Non amava circondarsi di gente falsa e ipocrita – non amava in generale circondarsi di troppa gente –, al liceo ne aveva conosciuta e frequentata abbastanza. Errori del passato.

Allungò la mano libera e piegò la bocca indeciso, poi fece girare la manopola del forno per spegnerlo e si rialzò.

Non aveva fame e non voleva nulla da lei. Quel comportamento era sospetto e Daniel era piuttosto diffidente di natura, soprattutto con le persone che si dimostravano improvvisamente cortesi.

Lo avrebbero mangiato loro il giorno dopo, riunendosi a tavola e raccontandosi amabilmente le loro giornate come una famiglia, mentre lui sarebbe stato in disparte come sempre, preferibilmente al lavoro.

Andò al piano di sopra e, dopo aver raccolto dal letto i pantaloni della tuta e la maglietta che usava per dormire, si chiuse in bagno e si fece una doccia.

Doveva assolutamente portare i suoi vestiti in lavanderia il giorno dopo, era bastato un giorno perché i tessuti assorbissero gli odori del locale. Puzzavano di fritto, di carne abbrustolita e di sudore.

Uscì dal bagno e passò in silenzio davanti alla porta chiusa della stanza da letto di Delia, Richard e dell’odiosa rompiscatole.

Certo che era davvero deprimente andare a dormire alle dieci e mezza di sera, lui era abituato a restare alzato anche tutta la notte. Doveva abituarsi ancora agli orari assurdi di quel posto.

A fargli quasi venire un infarto fu un’ombra accanto alla sua camera. Gli ci volle qualche secondo per riconoscerla, l’altezza e l’esile corporatura non gli lasciavano molti dubbi.

“Non ti hanno mai detto che è un peccato sprecare il cibo?” Esordì così Judith, in tono leggero e colloquiale.

Perché diavolo girava così furtivamente e al buio davanti alla sua porta? E dove cavolo era prima? Quella ragazza era dannatamente inquietante.

A quanto poteva vedere dalla scarsa illuminazione aveva i capelli raccolti e indossava una maglia a maniche lunghe e un paio di pantaloncini corti che le lasciavano scoperte le lunghe gambe. Deglutì a vuoto e la sorpassò per entrare nella stanza senza degnarla di una risposta.

Accese l’abatjour sul comodino e aprì il primo cassetto con l’intenzione di tirare fuori la sua PSP.

“Potresti almeno rispondermi.”

Daniel finse uno sbadiglio e si buttò a pancia in su sul letto, in mano il dischetto del gioco Assassin’s Creed II Brotherhood.

La principessina si stava irritando. Poteva fingersi gentile quanto voleva, ma se ignorata finiva inevitabilmente con lo scaldarsi, Dan questo lo aveva capito.

Ok, bene, continua pure ad ignorarmi.” Sbottò piccata, incrociando le braccia al petto e fissandolo in cagnesco.

La prese in parola. Anche se, purtroppo, sentiva il suo sguardo su di sé, sentiva che lo stava osservando senza bisogno di alzare la testa per verificarlo.

Restarono in silenzio per un po’ e, per quanto cercasse di concentrarsi sul gioco, non riusciva proprio a non sentire il respiro affrettato di lei a pochi passi, non riusciva ad impedirsi di focalizzare la sua attenzione su quello. Tanto meno riusciva a fingere che lei non fosse lì, maledizione.

“Daniel?”

Sbatté le palpebre sorpreso e sollevò la testa. Non seppe dire cosa lo convinse a spostare lo sguardo su di lei; forse il modo in cui aveva pronunciato il suo nome – con una nota arrendevole, quasi dolce –, forse il fatto che lo avesse effettivamente appena chiamato per nome, cosa piuttosto rara.

Una luce vittoriosa le illuminò gli occhi quando si accorse di aver ottenuto la sua attenzione e lui si diede silenziosamente dell’idiota per esserci cascato così facilmente.

“Che vuoi? Non dovresti essere a nanna?” Disse infine, in tono sarcastico e con l’evidente intento di schernirla.

“Sono solo le dieci e mezza.” Replicò lei tranquilla, “Non dirmi che tu di solito vai a letto a quest’ora.” Lo sfidò corrugando la fronte.

Lui forzò un sorriso e trattenne un’imprecazione quando i soldati nemici lo uccisero nel gioco, “Tesoro, per me la serata alle dieci e mezza deve ancora iniziare.” A New York almeno. Lì alle dieci e mezza al massimo poteva iniziare la tombolata di beneficenza in chiesa.

“Bene. Perché vorrei parlarti.”

Di certo le serate che avrebbe potuto definire piacevoli non comprendevano quella seccatura. Se già il suo umore non era dei migliori, quella frase non fece che peggiorarlo.

“Dubito che possa interessarmi quello che hai da dirmi.”

Ma non aveva qualche cavolo di amico con cui uscire? Un ragazzo che la sopportasse? L’aveva scaricata pure la sua amica dai capelli rossi? Come biasimarla…

Jude fece un respiro profondo per cercare di calmarsi. Aveva rischiato di perdere il controllo e di augurargli di strozzarsi con quel polpettone dal primo momento in cui lo aveva incontrato in corridoio. Chi diavolo si credeva di essere? Con quell’aria arrogante…! Se ancora perdeva tempo dietro a lui era solo per Delia e per quella promessa che le aveva fatto.

“Senti, non avrei dovuto chiedere a tua madre di parlarmi del vostro rapporto, mi dispiace di averlo fatto e di aver invaso la tua privacy.” Iniziò a passeggiare per la stanza e a sfregarsi le mani tra loro con evidente nervosismo. “Ero curiosa” Ammise con riluttanza.

Sperava solo che quel patetico discorso risultasse credibile e servisse a qualcosa.

“Vorrei mettere comunque in chiaro una cosa….” Voltò la testa nella sua direzione, sforzandosi di guardarlo in faccia e di non lasciar vagare gli occhi sul suo corpo.

Da quando si era stravaccato scompostamente sul suo letto la maglietta gli si era alzata fin troppo, lasciando scoperta e ben visibile una porzione di pancia che stava tentando disperatamente di non guardare. Santo cielo, non poteva darsi un po’ di contegno?

Si schiarì la voce, “Tu non mi fai pena.” Precisò in tono conciso, le mani puntellate sui fianchi, “Posso dispiacermi per te e per quello che ti è successo, ma la pietà è un’altra cosa.”

Daniel alzò appena un sopracciglio, la bocca piegata in una smorfia insofferente, “Okay. Hai finito?” Chiese con calma.

“No.” Calò appena le palpebre irritata, “Se ho deciso di scusarmi e di chiederti di ricominciare è perché mi sono resa conto del mio comportamento scorretto nei tuoi confronti e ho voluto rimediare.” Oh, come suonava matura e decisa alle sue orecchie! Il suo discorso non faceva una sola piccola, minuscola piega.

“Non per compassione. Non sono tipo da compatire così facilmente gli altri.

Era vero. In genere era piuttosto dura e severa con chi aveva sofferto e non faceva nulla per rimboccarsi le maniche e andare avanti, con chi si compiangeva e basta. Lei aveva sofferto quando era rimasta sola con suo padre, eppure si era fatta forza e aveva proseguito la sua vita anche senza una figura materna accanto.

Lui la osservò per un po’, così intensamente da farla sentire tremendamente a disagio. Jude ebbe l’impressione che stesse cercando di leggerle dentro, di capire qualcosa in più di lei dopo quell’ultima frase.

Distolse lo sguardo e congiunse le mani a disagio, “Bene. Ho finito.” Sfregò la punta della pantofola sulla moquette, chiedendosi quanto stesse risultando patetica da uno a cento.

Di sfuggita, lo vide mettere da parte quell’odioso e stupido giochino nero che aveva in mano e socchiudere gli occhi in un modo che a lei parve quasi minaccioso.

Perché non diceva più nulla? Le andava bene anche una frase sarcastica. Non le piaceva essere squadrata in quel modo, si sentiva indifesa.

Aspettava una sua risposta, un segno, un qualcosa che le facesse capire se era riuscita anche solo a scalfire quel muro che lui aveva eretto tra di loro.

Quando Daniel, finalmente, parlò – con voce bassa e controllata, scandendo bene e lentamente le parole –, a Jude sembrò quasi che fossero passati minuti interi.

“Dov’è tua madre?”

Avvertì un guizzo nel petto, qualcosa smuoversi con una violenza che la sconvolse e la lasciò senza fiato.

Si era aspettata di tutto; una risata, una battuta, un insulto, uno sgarbato “sparisci”, aveva persino preso in considerazione l’idea che accettasse le sue patetiche scuse, ma non immaginava che Daniel le domandasse una cosa del genere.

Sentì un fastidioso pizzicore al naso e sbatté le palpebre per scacciare via quel velo umido che stava iniziando ad appannarle la vista.

Merda.

Era cresciuta senza una madre, doveva essere abituata a quel genere di domande.

Aveva sempre messo da parte il dolore, la rabbia e il rancore provati nei suoi confronti per lasciar posto ad una totale indifferenza. Quando le sue compagne di classe alle elementari le chiedevano dove fosse, lei rispondeva con una scrollata di spalle e un “non ce l’ho”. Come se fosse nata da suo padre, come se suo padre l’avesse concepita da solo. Sua madre non era niente, nemmeno un’entità astratta nella sua testa, non esisteva semplicemente. Non poteva odiare o sentire la mancanza di qualcosa che non esisteva, questo si era sempre ripetuta.

Si era fatta forza negli anni, anche e soprattutto per suo padre, aveva pianto da sola nella sua cameretta solo qualche volta da piccola, ma poi era andata avanti e aveva smesso di pensarci.

Si umettò appena le labbra, la gola secca e in fiamme così come le guance. Sapeva perché glielo aveva chiesto, per stabilire una sorta di equilibrio, di parità. Lei era a conoscenza di quanto successo tra lui e sua madre, lui no.

Ciò non cambiava comunque le cose, quella domanda l’aveva colta completamente alla sprovvista come uno schiaffo in pieno viso. Non aveva avuto il tempo di proteggersi, di prepararsi una reazione, una frase da dire.

Lui attese paziente e impassibile che rispondesse; se si fosse o no accorto di quel tentennamento non lo diede a vedere.

“Se n’è andata quando avevo tre anni, non la ricordo.” Mormorò infine, in tono neutro e senza un briciolo di emozione nella voce.

Per lei era facile, all’occorrenza, scacciare il ricordo di sua madre in un angolino buio della sua mente, un angolo nascosto e insignificante da cui si teneva alla larga.

Sperò che non le chiedesse altro, con quell’ultima precisazione aveva voluto proteggersi da un qualsiasi altro tentativo di chiedere spiegazioni. Non la ricordava, era la pura e semplice verità. Non avrebbe saputo rispondere a nessuna domanda su di lei.

Daniel abbassò lo sguardo e rimase in silenzio per una quantità di tempo che Jude iniziò a trovare insopportabile, probabilmente meditando sulle sue parole e cercando una risposta adatta alla situazione. Poi sospirò piano, passandosi una mano sul viso.

Ecco fatto, ora sarebbe arrivato il tipico “mi dispiace” di convenienza, quello di chi non sapeva che altro dire, quello di chi poco si dispiaceva in realtà. Una persona su dieci intendeva davvero quelle parole quando le pronunciava. Lei stessa faceva spesso parte di quei nove decimi.

Non dire mi dispiace, ti prego.

L’avrebbe guardata come una patetica bambina cresciuta senza mamma e in cerca di coccole, avrebbe pensato questo di lei, che fosse patetica. E in effetti lo era, che cosa le era venuto in mente di rispondere? Perché lo aveva fatto? Non poteva inventare qualche cavolata o eludere la domanda?

Lui parve valutare l’ipotesi di dire qualcosa – Judith osservò le sue labbra schiudersi con il cuore in gola –, forse di chiederle altro, poi ci ripensò e scosse la testa. “Scuse accettate. Buonanotte.” Ritornò al suo stupido giochino senza degnarla di un’ulteriore occhiata.

Tutto lì?

La ragazza cercò di affogare con forza la delusione – stupida, infantile e immotivata – che provò dentro di sé. Era frustrante essere congedata in quel modo, specie dopo essersi aperta così con lui e quasi umiliata per ottenere un minimo di reazione.

Gli fu comunque tacitamente grata per non aver pronunciato quelle due paroline inutili che tanto odiava, non avrebbe sopportato di sentirsele rivolgere da lui.

Conficcò le unghie nei palmi delle mani e si morse l’interno guancia, sentendosi stupida per aver sperato…

Cosa?

Che lui si sarebbe comportato diversamente dopo quella confessione?

Aveva accettato le sue scuse, era già qualcosa.

Il suo modo di fare irritante la indisponeva da morire, ma doveva ammettere a se stessa che una parte di lei, a malincuore, lo trovava tremendamente stuzzicante.

Daniel aveva eretto un muro fra di loro, c’era una barriera che le impediva di avvicinarsi. Era così dannatamente enigmatico, misterioso, scostante… l’opposto di quella cozza appiccicosa e stressante di Edward Russo; era una sfida e a lei tutto sommato le sfide erano sempre piaciute.

“Un’ultima cosa.” Si ricordò improvvisamente, stringendosi nelle spalle. Maledetto Jason e le sue idee.

“Domani sera c’è una festa a casa di una mia amica. Cioè, non è proprio un’amica, è più una compagna di scuola. Un’odiosa compagna di scuola, in realtà. In effetti non so nemmeno perché abbia intenzione di andarci. Comunque pensavo di…” Non credeva che si potesse morire d’imbarazzo prima di allora, stava balbettando, santo cielo! E stava davvero per chiedergli di andarci con lei, dopo il modo da cafone in cui l’aveva liquidata! Ad una festa! Che cosa avrebbero pensato quelle pettegole della sua scuola se si fosse presentata con

“Okay, come ti pare.” Daniel alzò il braccio sinistro e mosse pigramente la mano per salutarla. O più precisamente per scacciarla.

Lei richiuse la bocca di scatto e strinse la mascella con forza. Idiota.

Saltargli addosso e strozzarlo non era un’opzione contemplabile. Doveva resistere e sopportare. Per Delia. Non importava se suo figlio le istigava violenza, lei era superiore a tutto. Tutto.

Si immaginò seduta sul tappeto del soggiorno, le gambe incrociate, le mani poggiate sulle ginocchia, il pollice e l’indice uniti, gli occhi chiusi.

Ommmm.

Che lo yoga sia con me, pensò, sbuffando dalle narici e rilassando i muscoli tesi.

Col cavolo che gli avrebbe chiesto di andarci con lei! Ma cosa si era messa in testa? Jason l’aveva contagiata con la sua idiozia, aveva ficcato della segatura nel suo cervello.

“Volevo solo dirti che dovrai arrangiarti con la cena perché Delia e mio padre saranno fuori. Buonanotte.” Sibilò gelida, uscendo svelta e silenziosa dalla stanza. Non sbatté nemmeno la porta dietro di sé, gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla arrabbiata se lo avesse fatto e non se lo meritava.

Idiota. Che se ne andasse al diavolo! Non era mica una santa lei e non aveva alcuna intenzione di mettersi in ridicolo più di quanto già non avesse fatto, aveva ancora una dignità da preservare!

Si buttò sul suo letto con foga, facendo finire a terra il ridicolo diario su cui ogni tanto scribacchiava i suoi sfoghi.

Aveva più la forma di un’agenda che di un diario dei segreti vero e proprio: niente cuori, niente pelo, niente rosa; quel colore nero e serioso la faceva sentire meno ragazzina e meno stupida quando scriveva su quelle pagine delle sue giornate.

Sbuffò e lo rimise al suo posto, sotto il materasso. Lo teneva nascosto sotto il materasso del suo letto di solito, ma non le era sembrata una buona idea lasciarlo in camera con quel cretino.

Incrociò le braccia sul cuscino e vi appoggiò il mento, lanciando un’occhiata alla figura addormentata di Delia sul letto matrimoniale accanto.

Non poteva deluderla, le aveva fatto una promessa. E, Dio, si sarebbe sentita troppo in colpa a non mantenerla se Delia nonostante le cure non fosse riuscita a… non riusciva nemmeno a pensarlo.

Avrebbe aiutato una donna a riavvicinarsi a suo figlio, avrebbe aiutato quella che per lei era sempre stata come una madre, a qualsiasi costo.

Non si era mai affezionata così tanto a nessuna delle fidanzate di suo padre, non ricordava di aver pensato a nessuna di loro come ad una donna con cui potersi confidare e da prendere come modello.

Sbadigliò. Un passo in avanti con coso lo aveva fatto tutto sommato: aveva accettato le sue scuse, era comunque un inizio. Le cose sarebbero andate meglio di giorno in giorno, anche perché peggio di così dubitava che potessero andare.

Ci avrebbe pensato il giorno dopo alla prossima mossa, ora era decisamente troppo stanca.

 

 

 

*Note della ritardataria, altresì chiamata “autrice”*

 

Ehm… dunque… ecco, direi di cominciare con un “ciao a tutte!”, sempre che ci sia ancora qualcuno che mi stia leggendo. Sono in ritardo, lo so, ma vi risparmierò una sequela di giustificazioni che non vi interessano per parlare un po’ di questo capitolo.

Un po’ di passaggio, ma sappiate che il prossimo capitolo, quello della festa, sogno di scriverlo da quando ho iniziato la storia. Ho quella scena in mente da anni e, per come è nella mia testa, è stupenda (mi sono innamorata così tanto del personaggio di Daniel proprio grazie a quello che succederà nel prossimo capitolo). Poi magari verrà fuori una merda quando lo scriverò eh – probabile, conoscendomi xD

Comunque, tornando a questo, sono stata un po’ cattiva con Jude, vero? Cioè, lui la tratta proprio con freddezza e non sembra minimamente interessato a lei.

Lei, invece, un pochino interessata lo è. Sicuramente non solo per la promessa fatta a Delia. Ma non dimentichiamoci di Evan, il fratello di Meg di cui è cotta, che nel prossimo capitolo verrà presentato ben bene. Peggio di Beautiful! :D

Poooi. Jude dice qualcosa su sua madre: naturalmente non si capisce molto di quello che è successo, se è morta o se è viva, perché se n’è andata; potrebbe esserle capitato di tutto. Anche questo si saprà più avanti.

Forse questo capitolo non sarà valsa l’attesa, non so davvero più in che modo scusarmi per il ritardo.

Spero con tutto il cuore che vi sia piaciuto e vi ringrazio infinitamente per i vostri meravigliosi commenti. Non so cos’ho fatto per meritarli, ma… GRAZIE, davvero.

Risponderò alle vostre recensioni man mano, come ho fatto per il capitolo scorso. E come sto cercando di fare un po’ in tutte le mie storie, giusto perché mi sembra meglio rispondervi singolarmente per dirvi quanto vi sono grata per le vostre parole e per il tempo che mi dedicate :)

Un bacione grandissimo! E giuro che non passerà più così tanto tempo per il prossimo capitolo, ne passerà mooolto di meno!

Bec

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Adesso però mi piace ***


 

Riassunto delle puntate precedenti: Jude ha parlato con Delia di Dan e si è fatta raccontare cos’è successo in passato tra loro e perché lui la odia tanto. Daniel le ha sentite e si è arrabbiato, soprattutto con Jude di cui è un po’ “geloso” per via del rapporto che lei ha con sua madre.

Jude gli ha chiesto scusa nel capitolo scorso, gli ha detto che non voleva farsi gli affari suoi e che non lo compatisce affatto. E gli ha svelato che sua madre se n’è andata di casa quando lei era piccola e che non la ricorda. Lui accetta le scuse e fine. (come sono brava a fare i riassunti, eh? :P)

Perdonate il titolo pessimo, ma capirete il perché e da dove viene quando arriverete in fondo al capitolo. Buona lettura!





Time is running out

 

 

 

Capitolo 7: “Adesso però mi piace”

 

 

Un grazie particolare a Bea per il dettagliato betaggio e per avermi sopportata come sempre.

A Clara per avermi ‘stressata’ per scrivere questo benedetto capitolo e per la ‘consulenza’ sulla scena finale.

E a chiunque sia qui a leggere ancora, dopo tutto questo tempo :)

 

 

La notte, si sapeva, portava sempre consiglio, e a Jude rigirarsi tra le coperte era decisamente servito.

Era piuttosto di buon umore la mattina seguente, benché ci fosse poco di cui rallegrarsi: non c’erano stati miglioramenti con Daniel, aveva dormito poco e, come se non bastasse, aveva promesso a Jason che sarebbe andata alla festa di Seline Evans quella sera. A conti fatti sarebbe stata una giornata tremenda, eppure, nonostante tutto, non riusciva a smettere di sorridere.

Versò il suo tè caldo nella tazza, canticchiando come la sciocca protagonista di un film Disney.

“Ti si è paralizzata la faccia?”

Spostò lo sguardo sul ragazzo seduto di fronte a lei ed incontrò i suoi occhi castani. La scrutava con prudenza, con un sopracciglio inarcato e la schiena appoggiata alla sedia, quasi si aspettasse che lei potesse tramutarsi in un mostro carnivoro a sei teste.

Niente da fare, nemmeno quella domanda pronunciata in tono indisponente e strascicato ebbe il potere di riportare al loro posto gli angoli delle sue labbra.

“Probabile” Rispose portando la tazza al viso e ridacchiando.

Se possibile Daniel la osservò ancora più stranito e circospetto, ma lei non vi badò troppo. Poggiò la tazza sul tavolo e fece scivolare i palmi delle mani sulla superficie liscia davanti a sé, come a volerla pulire da una polvere inesistente. “Oh, prima che mi dimentichi…” Iniziò, alzandosi in piedi e prendendo una penna e i post-it dal cassetto. “Ti ricordi, no, che questa sera non ci sono?”

Non aspettò una sua risposta. Non che se la aspettasse davvero, Daniel il più delle volte sembrava trovare superfluo il degnarla di tanta cortesia.

Posò il blocchetto sul tavolo di fronte a lui e continuò, “Avrei bisogno del tuo numero di telefono”. Nonostante si fosse preparata il discorso nella sua testa la sera prima, dirlo ad alta voce fu ugualmente imbarazzante, specie per il modo in cui lui la guardò. Dapprima sgranò appena gli occhi sorpreso, poi tornò alla diffidenza di sempre. Assottigliò lo sguardo e aggrottò la fronte sospettoso. “A che ti serve?”

Jude arrossì e si odiò per quel fastidioso calore sulle guance e sul collo. “Non farti strane idee, Playboy” Disse con scherno – o almeno ci provò. “Mi piace avere tutto sotto controllo e, dal momento che stasera tua madre e mio padre usciranno, vorrei assicurarmi che sia tutto a posto, visto che rimarrai da solo in casa”.

Non le sembrò particolarmente convinto di quella risposta, ma poco importava. Doveva avere quel dannato numero. Delia le aveva detto di non avere il numero di telefono di suo figlio e lei glielo avrebbe procurato, a qualunque costo. Inoltre voleva davvero assicurarsi che quel presuntuoso non desse fuoco alla casa in sua assenza.

“Gentile da parte tua, ma so badare a me stesso”. Replicò sarcastico, facendo un mezzo sorriso tutt’altro che spontaneo.

Scosse la testa e sospirò. “Credo di essermi spiegata male”. Le sembrò di essere una maestra alle prese con un bambino poco intelligente, “Non è di te che mi importa, ma della casa. Potrebbero anche rapirti e gettare il tuo cadavere in un fosso, per quanto mi riguarda”. Sfoderò un mega sorrisone, la testa leggermente inclinata e gli occhi socchiusi. Non era stata molto carina con quella frase, ma doveva preservare un minimo di facciata. Il giorno prima si era scusata con lui ed era stata fin troppo gentile, doveva rimediare.

Daniel fece una smorfia e girò la pagina del quotidiano che aveva in mano, continuando ad ignorare il blocchetto e la penna. “Sei proprio la meravigliosa ragazza che descrive mia madre” Considerò sarcastico, alzando gli occhi al soffitto.

“Vero? Lo penso anche io.” Tamburellò impaziente con le dita sui post-it, “Allora? Non ho tutto il giorno, sono in ritardo.” Sperò di non risultare troppo disperata, non stava morendo dalla voglia di avere il suo cavolo di numero. Cioè, sì, ma solo per aiutare Delia.

Lui occhieggiò la penna da sopra il giornale, poi sospirò con rassegnazione e lo ripiegò per riporlo sul tavolo.

La ragazza si sforzò di non mostrare alcun tipo di entusiasmo quando lo vide scribacchiare distrattamente dei numeri sul piccolo foglio quadrato. Sperava solo che fosse davvero il suo numero e che non le stesse facendo qualche stupido scherzo.

“Perfetto, grazie!” Lo staccò dal resto del blocchetto e lo infilò in tasca, appuntandosi mentalmente di salvarlo in rubrica una volta arrivata a scuola. Avrebbe potuto farlo anche subito e davanti a lui, ma non voleva dargli tanta importanza.

“Delia e mio padre torneranno abbastanza presto, ma ti chiamerò comunque verso le undici e mezza per sapere se è tutto a posto”. Stava per voltarsi ed uscire, ma all’ultimo cambiò idea.

“Per qualsiasi cosa ti lascio il mio, nel caso avessi bisogno.” S’inchinò in avanti sul tavolo e stappò di nuovo la penna per scrivere il suo recapito sul post-it successivo.

Non si aspettava che la chiamasse, sapeva che non l’avrebbe mai fatto. In realtà non sapeva nemmeno perché glielo stesse lasciando, era inutile. Di certo non si sarebbe rivolto a lei, neanche se avesse avuto bisogno di qualcosa.

“In tal caso credo preferirei lasciare che buttassero il mio cadavere in un fosso” Replicò lui indisponente, ad un soffio dal suo orecchio.

Appunto. Simpatico quanto le spine di un cactus negli occhi. E a proposito di occhi, si ritrovò i suoi eccessivamente vicini quando rialzò la testa. Di un marrone mischiato a delle quasi invisibili pagliuzze verdognole… le ricordavano l’autunno, le ricordavano il colore delle foglie degli alberi in quella particolare stagione.

Non riuscì a capire se l’accenno di profumo del suo dopobarba la infastidì o inebriò, seppe solo che, quando le arrivò alle narici, si risvegliò da quei pensieri come se qualcuno le avesse dato un pizzicotto. Era decisamente troppo vicina a lui. Si schiarì la gola a disagio e si allontanò in fretta con un piccolo saltello all’indietro, sperando che il suo nervosismo non trapelasse troppo dai suoi gesti.

Lui non aveva fatto una piega, notò Jude, la sua vicinanza non sembrava averlo minimamente turbato. Aveva la stessa espressione irriverente di poco prima sul volto, niente lasciava pensare che si fosse accorto del cambiamento di lei. Grazie al cielo, considerò rassicurata. Non sapeva che diavolo le fosse preso, doveva ricordarsi di mantenere almeno un metro di distanza da lui, un’ordinanza restrittiva emessa dal suo stesso cervello per il suo bene.

“Bene, allora posso andare. Buona giornata.” La sua voce, purtroppo, aveva completamente perso la sicurezza e spavalderia di poco prima. Porca miseria.

Lui alzò la mano e la salutò con un gesto derisorio e sbrigativo, tornando subito dopo al suo giornale. Lo osservò imbambolata per una manciata di secondi; i capelli castani spettinati, gli occhi assonnati e socchiusi posati sulle pagine del quotidiano, la maglietta scura che gli fasciava perfettamente il busto, le braccia scoperte e muscolose al punto giusto, i polsi… aveva dei bei polsi, pensò stupidamente. Perché quel maledetto doveva essere bello? Non poteva essere un secchione mingherlino e sfigato? O un tritarifiuti di centottanta chili?

“Ah e ricordati che chiamerò per controllare che sia tutto a posto alle…

“Cristo santo!” Lui fece roteare lo sguardo per la stanza scocciato. “Sei peggio di mia madre. Alle undici e mezza, ho capito, farò in modo che gli alcolici e le prostitute spariscano prima del tuo controllo del cazzo, okay?”

Jude calò di poco le palpebre, la mascella contratta e i pugni serrati. “Davvero simpatico. Sono seria, dimentica ilfai come se fossi a casa tua di mio padre’, questa non è casa tua. Vedi di comportarti bene.”

Lui corrugò le sopracciglia infastidito. “Sei davvero sicura di avere diciotto anni e non sessanta? Immagino che sarai l’anima della festa stasera, giocherai a scarabeo per caso?

Oh-oh, al moccioso si era sciolta la lingua, riusciva anche a comporre frasi più lunghe di due parole, era sconvolgente!

Trivial pursuit, in realtà.” Replicò con un sorriso, decisa a non dargli altre soddisfazioni. “Tu fai il bravo e non andare a letto troppo tardi.” Sbatté le ciglia con fare canzonatorio, per poi voltarsi ed uscire finalmente da quella casa.

Piccolo appunto mentale: non avvicinarsi più a Daniel King. Ed evitare di incantarsi troppo a guardarlo.

 

 

****

 

…6945…

 

“Buongiorno splendore!”

Jude sussultò sul posto, il dito fermo sul tasto cinque del cellulare mentre salvava il numero di quel cretino del suo non-fratellastro.

“Come va oggi?”

“Una merda” Rispose atona, senza staccare gli occhi dal telefono.

Come sempre, Edward non si lasciò scoraggiare. “Sono sicuro che tra poco migliorerà. Curiosa di sentire la canzone che ho scelto per te – che dico, per noi – oggi?” Le chiese con un sorrisone sulle labbra.

“Neanche un po’” Borbottò, ficcandosi in tasca il post-it colorato e scrivendo velocemente il nome di Daniel. “E non esiste nessunnoi’ Ed”. Alzò gli occhi al cielo scocciata, ritornando al display subito dopo.

Ma perché Edward Russo non poteva essere un ragazzo normale? Perché capitavano tutti a lei i tipi strani ed inquietanti?

Lui la ignorò e, portandosi la mano chiusa a pugno sulla bocca, tossì per darsi un tono, prima di iniziare a cantare.

Every night in my dreams I see you, I feel you”.

Oh no. Santo cielo, no. Odiava quella canzone, era stata felice di sentirla solo durante i titoli di coda del film Titanic, dopo aver goduto per la morte di quel faccia-da-bimbo di Leonardo di Caprio. Tra lui e labbra-a-canotto-Winslet non sapeva chi era peggio e chi avesse detestato di più da bambina.

“Che diamine di sonniferi prendi la sera?” Sbuffò lei irritata, rispondendo alle parole della canzone e rabbrividendo per il disgusto.

I suoi tentativi di imitare la voce di Celine Dion erano imbarazzanti e ben presto in molti si girarono a guardarli. Grandioso.

Edward aveva un’autentica espressione di dolore in volto, una partecipazione commovente. La mano aperta sul cuore e il modo in cui faceva ondeggiare piano la testa davano un tocco in più al tutto.

“Edward o la pianti o ti prendo a calci”. Incrociò le braccia al petto a disagio, lanciando occhiatacce ai compagni di scuola che si fermavano ad osservarli.

Near, far, wherever you aaaare, I believe that the heart does go on!Continuò imperterrito lui, incurante delle sue minacce e del suo imbarazzo.

“Mi fa piacere saperlo, ma io me ne vado”. Fece per girarsi, ma lui le diede un colpetto impaziente sul braccio, interrompendosi, “No, aspetta, ora arriva la parte migliore!”

“Non stento a crederlo, ma sta per iniziare la prima ora, quindi…

Lui riprese a cantare e Jude decise di averne avuto abbastanza di quella performance. Se anche se ne fosse andata, lui l’avrebbe seguita e non voleva di certo avere quell’mp3 vivente – stonato – e in vivavoce alle calcagna.

Allungò la mano e gli afferrò i capelli, tirandoli con forza verso di sé. Quello servì a farlo smettere.

“Ahia! Ahia! Non ti è piaciuta?” Chiese lui innocentemente, massaggiandosi la testa quando lo lasciò andare.

“Secondo te?” Chiese retoricamente, aggrottando le sopracciglia in modo eloquente.

Edward chinò il capo dispiaciuto e storse la bocca, “Per domani troverò qualcosa di meglio”.

“Preferirei di no.”

“Magari qualcosa di Cheryl Cole.”

“O anche no.”

“O di Robbie Williams.”

“Hai già provato conShe’s the one’ e non era andata bene” Gli ricordò lei, accennando al suo piede con il mento. Era ruzzolato giù dalle scale mentre gliela stava cantando e facendo gli scalini di spalle per guardarla in faccia.

Edward annuì in silenzio, grattandosi il mento pensieroso come un vecchio saggio. Gli mancava solo la barba bianca.

Fu Jason a salvarla proprio quando Ed stava per proporre un’altra terribile canzone.

“Ehi, Juju, per stasera allora ti vengo a prendere io alle otto?” Le circondò le spalle con un braccio, per la non-gioia di Edward, che s’incupì.

“Se proprio devi”. Il buonumore di quella mattina era sparito velocemente. Prima la canzone di Edward e poi il ricordo della serata che l’attendeva, di male in peggio, dalla padella alla brace.

“Oh, dai, non fare storie, ci divertiremo a quella festa!” Ridacchiò lui, facendo un cenno all’altro ragazzo. “Ciao Edward”.

Fray” Ribatté l’altro imbronciato. Poi sfoderò nuovamente il suo solito sorriso e si voltò verso di lei. “Allora ci vediamo lì questa sera, meraviglia”. Le fece l’occhiolino.

“Un motivo in più per non andarci, insomma” Replicò stancamente, senza preoccuparsi di non farsi sentire. A Edward tutto quello che diceva sembrava rimbalzare o scivolare addosso, doveva essere fatto di viscida gelatina.

Come volevasi dimostrare nemmeno quella frase lo mise di cattivo umore, anzi, lo fece ridere. Era idiota, non c’era altra spiegazione.

Judith sospirò e diede un pugnetto sul braccio dell’amico. “Alle otto quindi?”

Jason, che aveva assistito allo scambio di battute tra lei e Edward, scrollò le spalle divertito e annuì. “Alle otto. Dovrò cercare di non bere per riaccompagnare a casa te e Meg dopo.”

Pensare ad un Jason astemio era come pensare a Bugs Bunny senza carota: impossibile. Non che fosse un alcolizzato, ma quando c’era da bere e divertirsi Jay era sempre in prima fila. Se lei e Meg avessero avuto la patente non si sarebbero mai affidate a lui per un passaggio, era un buon amico, ma tremendamente inaffidabile.

Inarcò un sopracciglio scettica. “Andiamo bene”.

 

 

*****

 

Dopo una giornata di merda al lavoro, Daniel pregustava di trascorrere una serata in pieno relax, contava di non vedere anima viva almeno fino all’una del mattino.

Quella stronza di Becky lo aveva fatto sgobbare per tutto il giorno, facendogli fare ben più di quanto gli spettasse e approfittando del fatto che, in quanto ultimo arrivato, non avrebbe potuto far poi molto per opporsi. Pulire i servizi non era compito suo, ma dal momento che Rita, la donna delle pulizie, si era dovuta assentare quel giorno, era toccato a lui occuparsene.

Si era incazzato, naturalmente, ma quando Trevor era intervenuto chiedendo se c’era forse qualche problema, aveva dovuto mandar giù una sequela di insulti e una sfuriata piuttosto infantile per far finta di nulla.

Non poteva permettersi di mettere a rischio il suo lavoro per una sciocchezza, quei soldi gli servivano per avere una minima indipendenza economica lì dentro, non aveva alcuna intenzione di passare le giornate in casa di Richard Parker a rigirarsi i pollici. E a proposito di Richard Parker… aveva avuto un moto di rabbia e disgusto quando l’uomo si era seduto accanto a lui sul divano, poco prima di cena.

“Tua madre ti ha lasciato qualcosa nel forno.” Aveva esordito così, in tono amichevole, ma prudente, quasi stesse sondando il terreno con lui. Sembrava un padre in procinto di fare un discorso serio al figlio, solo che Daniel non aveva nessun legame di parentela con lui e non era tenuto a starlo ad ascoltare.

Alzò lo sguardo dal suo cellulare per riservargli un veloce e forzato sorriso di ringraziamento, sperando invano che la conversazione morisse lì.

“Se vuoi venire con noi…”

“No” Si affrettò a rispondere, nauseato al solo pensiero di passare una serata a reggere il moccolo a quell’uomo e sua madre.

Richard si schiarì la voce e annuì piano, congiungendo le mani davanti a sé e meditando in silenzio per qualche secondo. Non prometteva nulla di buono.

Nei secondi che seguirono, la sua irritazione e il suo disagio crebbero e Daniel avvertì l’impellente bisogno di andarsene.

“Posso solo immaginare come tu stia.” L’uomo si voltò a guardarlo di sbieco, lievemente agitato. “Anzi, non credo che il tuo dolore possa essere minimamente paragonabile al mio. Tu sei suo figlio e io…”

Aveva ascoltato già troppo. “Non mi va di parlarne”. Si alzò di scatto, le mani chiuse a pugno ed il battito accelerato del cuore nelle orecchie.

“Aspetta.” Richard allungò una mano per toccarlo, poi all’ultimo sembrò ripensarci e la ritrasse. Saggia mossa. “Dammi la possibilità di parlare, ti prego. Questa situazione non è facile per nessuno.

Per nessuno? Richard Parker non era di certo in una casa con dei perfetti estranei che lo odiavano, aveva la sua bella famigliola di cui lui non faceva parte.

“Io non so cosa sia successo tra te e tua madre e non voglio saperlo, non voglio intromettermi.”

Basta.

Merda, non voleva ascoltare, non voleva parlare di quello che era successo con sua madre, non voleva proprio parlare di lei, tantomeno con quell’uomo.

Gli veniva da vomitare. Strinse i denti e si costrinse a non replicare sgarbatamente.

“So solo che per lei sei importante e, di conseguenza, lo sei anche per me. So che hai un padre e non cercherei mai di prendere il suo posto, voglio solo che tu sappia che qui sei uno di famiglia, che se hai bisogno di qualsiasi cosa chiunque in questa casa sarà pronto ad ascoltarti e ad aiutarti.”

Meno male che si era premurato di dirglielo, non sapeva come avrebbe fatto a vivere altrimenti, pensò sarcastico.

Vide il tavolino in vetro di fronte a sé oscillare leggermente e gli occorse qualche secondo per realizzare che era lui a tremare. Si passò una mano sugli occhi e fece un respiro profondo per scacciare la nausea. Belle parole, davvero. Forse erano anche sincere, peccato che non lo facessero star meglio neanche un po’.

Perché nessuno in quella casa capiva come si sentiva? Non voleva stare lì, non voleva vedere sua madre felice con quegli estranei, una parte di lui non voleva proprio più vederla visto il male che gli aveva fatto. Voleva poter tornare a casa e riprendere la sua vita di sempre, far finta che niente di tutto quello fosse successo, ma con sua madre in quelle condizioni la sua stessa coscienza glielo impediva.

Compresa mia figlia, anche se non sembra”.

Si lasciò sfuggire uno sbuffo molto più simile a una risata amara mal trattenuta. Judith Parker era l’ultima persona al mondo che lo avrebbe ascoltato e aiutato, avrebbe preferito amputarsi un braccio piuttosto.

“Non è semplice per lei averti in casa, è stato difficile accettare anche Delia all’inizio.”

Voltò di poco la testa, giusto quanto bastava per osservarlo in volto. Aveva i lineamenti tesi in un’espressione seriamente amareggiata e Daniel provò quasi compassione per lui.

“Si è sempre presa cura di me da quando la mia ex moglie se n’è andata e ha trovato a fatica un equilibrio senza di lei” Spiegò a bassa voce, sfregandosi nervosamente le mani. “Si abituerà alla tua presenza, è una brava ragazza ed è intelligente. Sono sicuro che riuscirete persino ad andare d’accordo”.

Certo, ad andare d’accordo, come no. Cosa stava cercando di dirgli? Perché quel discorso, cosa voleva da lui?

“Ti chiedo di avere un po’ di pazienza con lei, cercherò di parlarle di nuovo.”

Daniel scosse lentamente la testa e respirò profondamente. “Non serve.” Ci mancava solo che Judith ricominciasse a parlargli con quel sorriso condiscendente che avrebbe potuto rivolgere solo ad un povero idiota.

Si morse l’interno della guancia e rilassò i muscoli delle braccia, mostrandosi più tranquillo e indifferente di quanto fosse. “Apprezzo il discorso, comunque, anche se non era necessario”.

Tutti in quella casa sembravano trovare inconcepibile l’idea che lui non volesse essere coinvolto nel loro “meraviglioso mondo fiabesco”, voleva solo essere invisibile. Cercava di stare fuori e di lavorare il più possibile per evitarli, non era abbastanza evidente?

Lo era” Sostenne risoluto l’uomo. “Non voglio davvero che tu ti senta di troppo qui o non voluto, questa è casa tua quanto mia e hai tutto il diritto di starci”.

Bene, bello. Buono a sapersi, ora poteva ufficialmente unirsi a loro per la partita a carte del giovedì sera, il sogno di una vita. Chissà se lo avrebbe anche incluso in un eventuale testamento, visto che quella che, almeno a parole, era anche casa sua sembrava valere un bel po’.

Dio, ma come era finito in quel discorso cuore-a-cuore con Richard Parker? Che diavolo aveva fatto di male per meritarselo?

Mandò giù una sgarbata risposta che avrebbe rivelato fin troppo la sofferenza che tutta quella situazione gli causava e sorrise forzatamente. “Lo terrò a mente, grazie”.

Gli sarebbe piaciuto, tutto sommato, potersi davvero sentire come a casa sua, come uno di famiglia. Lo infastidiva il pensiero, ma non era contento nemmeno lui di sentirsi un completo estraneo in quel posto. Se le cose con sua madre fossero andate diversamente, se lei non lo avesse abbandonato senza dire una parola per trovarsi un’altra famiglia, forse avrebbe potuto persino apprezzare Richard, avrebbe potuto cercare di conoscerlo e di essere simpatico. Lo avrebbe fatto principalmente per sua madre, per renderla felice. Ma lei se n’era andata, lo aveva lasciato solo quando aveva avuto più bisogno di lei, era sparita e non era più tornata. E ora, ora, dopo anni di assenza, gli mostrava quanto era contenta con la sua nuova e meravigliosa famiglia, senza di lui. Si era costruita una nuova vita senza di lui, una vita in cui non c’era evidentemente posto per lui. Non le doveva nulla.

Fu una liberazione vedere uscire di casa tutta quella sottospecie di famigliola felice e restare da solo per la prima volta. Gli sembrò di tornare, chiudendo gli occhi, ad una delle numerose serate trascorse da solo nell’appartamento di suo padre a New York. Thomas King non era quasi mai a casa e, le poche volte che lo era, aveva bevuto troppo o non era dell’umore adatto per scambiare con lui vere e proprie frasi che non fossero grugniti o monosillabi. A Daniel andava bene così, gli era sempre andato bene così. Non riusciva a pensare ad un padre diverso da lui; sebbene non ci fosse dialogo tra di loro, sapeva che, se avesse avuto bisogno di qualcosa, suo padre sarebbe stato il primo ad occuparsene, anche se a modo suo e con scarsi risultati probabilmente. Era rimasto completamente solo in una casa di merda che non aveva mai voluto e che aveva accettato di affittare solo per rendere felice sua moglie, a crescere un figlio adolescente che non avrebbe potuto che dargli problemi in un’età così delicata e senza una madre. Non lo aveva mai abbandonato, a differenza di sua madre, e Daniel, solo per quello, sentiva di provare stima e affetto nei suoi confronti, nonostante i momenti di bassi superassero di gran lunga quelli di alti nella loro quotidiana routine.

Sospirò e si abbandonò sullo schienale del divano, accendendo la televisione più per abitudine che per guardarla davvero. A casa non la guardava quasi mai, per risparmiare sulle bollette, ma da quando era la accendeva spesso. Una piccola ed infantile ripicca, dal momento che non era lui a doversi occupare delle spese in quella casa, ma Richard.

Gli sarebbe piaciuto aver lì con sé i suoi amici; Sketch lo avrebbe irritato con la sua continua e fastidiosa risata da iena, quella pazza di Des avrebbe già riempito la casa di chewing gum incollati ovunque e avrebbe già rovinato il divano poggiandoci gli anfibi sopra e ReedReed se ne sarebbe uscito con qualche merdata di frase sul senso della vita dopo essersi fumato in completo silenzio un paio di canne.

Ancora ricordava l’uscita sui viaggi in nave che aveva fatto la sera prima che partisse da New York per venire dalla madre.

“Ci pensate”, aveva detto con aria assorta e dal nulla, dopo esser stato zitto per almeno due ore, “a come era una volta viaggiare? In nave, con il mare mosso… con le scarse condizioni igieniche, le malattie, il cibo che andava a male dopo giorni, mesi passati in mezzo al nulla? Des, tu saresti morta in un giorno, visto quanto soffri il mal di mare”.

Des aveva disteso le gambe e incrociato le caviglie, lanciandogli un’occhiata scocciata di sottecchi. “Ci risiamo. Reed si è svegliato, bentornato tesoro”. Poi, dopo essersi stiracchiata con le braccia, aveva tirato su i piedi e si era rannicchiata sul posto: “Comunque io in quanto donna sarei rimasta a casa a cucinare, pulire e sputare fuori bambini dalla vagina. A crepare ci sareste andati voi e io ci avrei goduto come una vacca.”

Daniel sorrise ripensando all’espressione ebete con cui l’aveva guardata Reed. Des aveva sempre uscite abbastanza spiazzanti, non si faceva problemi a dire quello che le passava per la testa, senza alcun filtro. Nulla a che vedere con Judith Parker e il suo mondo rosa, in altre parole.

Abbassò lo sguardo sul suo cellulare e passò distrattamente il dito sullo schermo. Si trattava solo di qualche mese, poi sarebbe finito tutto. Avrebbe voluto avere una macchina del tempo per saltare quel supplizio e arrivare direttamente a quel giorno, per vedere come sarebbero andate le cose, se l’inizio della terapia di sua madre sarebbe servito a qualcosa o... Scosse la testa e si concentrò sulla televisione. Tanto valeva guardarsi un film per distrarsi.

Notò di sfuggita l’orologio e aggrottò la fronte stranito. Barbie Principessa si era dimenticata della sua telefonata rompicoglioni di controllo a quanto pareva, considerato che era mezzanotte e non si era ancora fatta sentire. Meglio così, non ne sentiva di certo la mancanza.

 

***

 

Quando riaprì gli occhi si ritrovò completamente immerso nel buio del soggiorno, fatta eccezione per un chiaro bagliore sul soffitto.

Qualcosa sembrava ronzare vicino a lui, ma non ci fece subito caso, stanco e stordito dal sonno com’era. Sbatté le palpebre confuso e si guardò intorno, cercando di ricordare cosa ci facesse lì. Doveva essersi addormentato.

Si sfregò le palpebre con le dita e si mise a sedere. Non aveva la minima idea di che ore fossero, si era addormentato prima che tornassero a casa sua madre e Richard, con la televisione accesa e il cellulare in mano.

Si voltò verso lo schermo spento della TV e tastò il divano in cerca del suo telefono.

Quando lo trovò, lo sentì vibrare sotto la sua mano e comprese da dove provenivano quel ronzio e quella luce. Strizzò gli occhi infastidito nel momento in cui li puntò sul display fin troppo luminoso; qualche deficiente – ignoto dal momento che non riconosceva il numero – lo stava chiamando alle due del mattino.

Chi diavolo poteva essere? Probabilmente qualche amico scemo da New York. Al suo amico Sketch bastava bere un po’ per andare fuori di testa, forse credeva di star chiamando qualche strafiga che aveva conosciuto in discoteca. Questo non spiegava comunque il numero sconosciuto.

“Pronto?” Aveva una voce talmente roca da far invidia a un serial killer. Se la schiarì appena e attese impaziente una risposta che non tardò ad arrivare.

“Sì, uhm, Daniel?”

Una ragazza. Merda. Avrebbe dovuto ricordarsela? A quante ragazze di cui non aveva memoria aveva dato il suo numero?

L’ipotesi dello scherzo di un amico gli sembrava sempre più valida.

“Sì?”

“Ciao, scusami se ti disturbo, sono Meg”.

Merda. Meg. Setacciò la sua mente in cerca di un ricordo o di un volto. Zero. Chi cazzo era Meg? Ci era andato a letto insieme? A New York gli era capitato di ubriacarsi a tal punto di non ricordare nomi o volti di ragazze con cui era stato, ma non credeva di essere stato tanto stupido da lasciare il suo numero a qualcuna.

Il suo silenzio dovette parlare per lui, perché la ragazza si affrettò a specificare, un po’ a disagio: “L’amica di Jude”.

Visualizzò la ragazza dai capelli rossi e si massaggiò la fronte, improvvisamente consapevole di chi ci fosse dall’altra parte. Di Jude ne conosceva solo una, grazie al cielo, non c’era possibilità di fraintendere.

“Ah, sì. Ciao”. Ciao? In realtà avrebbe voluto incazzarsi per l’orario e chiederle perché mai avesse il suo numero, ma era un tantino disorientato al momento.

“Scusami se ti chiamo a quest’ora, è una specie di emergenza” spiegò lei, talmente in fretta che Daniel fece fatica a starle dietro.

Gli sembrò piuttosto agitata e non gli parve il caso di infierire, così decise di rimandare il momento dell’incazzatura.

“Che succede?” Chiese istintivamente, un po’ più vigile.

Prima che la rossa potesse rispondergli, una seconda voce femminile s’intromise nella conversazione, più lontana rispetto alla prima.

“Metti giù Meg, giuro che ti ammazzo!” Borbottò in tono lamentoso quella che riconobbe come Judith.

Aveva a che fare con due psicopatiche, non c’erano dubbi. Diede dei colpetti con le dita sullo schienale del divano, irritato ed impaziente di sapere che diavolo volessero da lui.

“Sarei tentato di farlo io, a questo punto” Commentò in tono neutro. “Intendo mettere giù, non ammazzarti” Precisò lievemente sarcastico. Non era ancora arrivato al punto di voler ammazzare la rossa, dopotutto non era colpa sua se Judith Parker gli causava un tale fastidio.

“No! Aspetta, ti prego” Fece Meg allarmata. “Siamo a una festa di una nostra compagna di scuola e Jude ha bevuto troppo, così come l’amico che doveva riaccompagnarci a casa in macchina. Non sappiamo come tornare e io non so cosa fare e…” Meg fece un respiro profondo e la sua voce si affievolì.

Nel silenzio del salotto, Daniel inarcò lentamente un sopracciglio. Fissava torvo l’orologio luminoso del lettore dvd, che gli ricordava in modo beffardo l’ora in cui stava accadendo tutto quello. Erano le due del mattino, era sveglio dalle sei del giorno prima, aveva lavorato dodici fottute ore e ora Meg-lamica-di-Jude lo chiamava per metterlo al corrente di un problema che non lo riguardava. Che diavolo voleva da lui?

“Vuoi che svegli suo padre e gli dica di venirvi a prendere?” Azzardò, con voce più calma di quanto volesse. Si ricordò che quella ragazza era forse una delle poche persone ad averlo trattato con sincera e amichevole gentilezza e non come se fosse un povero deficiente bisognoso di attenzioni e compassione.

“Oddio no, suo padre la ammazzerebbe se la vedesse in questo stato”.

In quale stato? Come si era ridotta la Perfetta Judith Parker?, si chiese Daniel vagamente divertito e incuriosito.

Stentava comunque a credere che Richard Parker avrebbe ammazzato sua figlia per una simile sciocchezza, sembrava adorarla talmente tanto che probabilmente le avrebbe fatto passare liscia qualsiasi cosa. Non riusciva a credere che si sarebbe arrabbiato se anche avesse scoperto che sua figlia era stata talmente idiota da ubriacarsi e da non saper come tornare a casa da una festa.

“Uhm, quindi?” Chiese dopo un po’, non sentendo più nulla dall’altro capo.

“Potresti… potresti venire a prenderci?” La sua voce tremò appena, come la fiammella di una candela in procinto di spegnersi.

Una risata nacque spontanea nel suo petto e Dan ci mise un po’ a tornare serio. “Che cosa? Io?” Doveva per forza essere uno scherzo, lo stavano prendendo in giro quelle due.

Meg non parve essersela presa, né, purtroppo per lui, confermò la sua ipotesi. “Oh sì, ti prego. Non sappiamo come tornare e non possiamo restare qui a dormire!” Piagnucolò ad alta voce, direttamente nel suo orecchio, rischiando quasi di farlo diventare sordo. “Puoi usare la macchina di suo padre, Jude dice che le chiavi le mette sempre nella ciotola sul mobile all’ingresso”.

Cristo Santo, non stava scherzando, era seria. Diede una rapida occhiata all’ingresso buio alle sue spalle e scosse la testa incredulo. “Non ho intenzione di prendere la sua macchina senza chiedergli il permesso. Non ho proprio intenzione di prenderla”.

Non erano sue amiche, lui non doveva loro alcun favore. Erano finite in quel casino? Bene, cavoli loro, se ne sarebbero tirate fuori da sole. Perché mai avrebbe dovuto prendere una macchina non sua e uscire di notte per andarle a prendere? Dopo come si era comportata Judith con lui poi, dopo come lo aveva sempre trattato… assolutamente no!

“Ti prego! Saremo in debito con te, faremo tutto quello che vorrai, aiutaci! Se i miei scoprono che ho bevuto e che non sono ancora tornata a casa manderanno una pattuglia a cercarmi, e non scherzo!

Sospirò rumorosamente, quella vocina stridula lo stava seriamente stancando. Non vedeva l’ora di mettere giù e di andarsene a letto.

“Non sarebbe una cattiva idea” Fece ironico. “Almeno tornereste a casa”.

Cercò a tentoni il telecomando del televisore con la mano libera e lo individuò nella penombra sopra il bracciolo del divano. Dovevano averlo messo lì Richard e Delia dopo averlo spento.

Si alzò e, a fatica, nel buio della stanza, raggiunse l’ingresso senza rompersi l’osso del collo inciampando contro qualcosa.

“Abbiamo paura, sul serio. Qui è il delirio, sono tutti completamente fuori. Siamo chiuse in bagno e non sappiamo come uscirne”.

Tutti completamente fuori? In quel posto di merda cosa mai potevano essersi fumati, la carta del giornale? Avevano aspirato borotalco e bevuto succo di frutta?

Si proibì categoricamente di cedere o di preoccuparsi. Il ricordo del sorrisetto derisorio di Judith Parker lo aiutò nell’impresa.

Non aveva intenzione di correre a salvare la principessina prendendo di nascosto la macchina di suo padre per poi magari ricevere, in cambio, solo altre provocazioni e nemmeno un “grazie”. La cocca di papà avrebbe dovuto pensarci prima di bere qualcosa di diverso dal suo solito tè.

“Abbassando la maniglia della porta?” Propose con una punta di nervosismo. Gli dispiaceva per la rossa, tutto sommato, se si fosse trattato di aiutare solo lei non sarebbe stato così stronzo.

Si aspettava una risposta acida, un attacco di isteria tipico di una ragazza sull’orlo delle lacrime, invece arrivò una replica molto docile e arrendevole: “Non importa, come non detto. Aveva ragione Jude, lei aveva detto che non saresti venuto”.

Fletté le dita della mano libera ed affondò i polpastrelli nel palmo con forza, sibilando tra i denti come un serpente prima di mordere la sua preda. Si fermò al centro dell’ingresso, ad un passo dalle scale e ad un passo dalla ciotola con le chiavi della macchina.

Non seppe perché quella frase lo infastidì così tanto, forse perché il pensiero che Jude avesse ragione su qualcosa, specie su di lui, era insopportabile.

“Grazie lo stesso e scusami se ti ho disturbato”.

Si arruffò i capelli e sospirò, maledicendosi venti volte per quello che stava per dire.

“Dove siete?”

 

 

*****

 

Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui avesse fregato – preso in prestito era solo un modo carino di definire il tutto – la macchina di qualcuno senza il suo permesso. Forse due anni prima, a Capodanno, quando aveva dovuto guidare non completamente sobrio la macchina dell’ignaro zio del suo amico per le strade di Brooklyn.

Si chiese come avrebbe reagito Richard Parker se, svegliandosi nel cuore della notte, si fosse reso conto del fatto che la sua auto fosse sparita. Così come lui. E sua figlia. L’ospedale più vicino – probabilmente anche l’unico del posto – lo avrebbe ricoverato d’urgenza per un arresto cardiaco.

D’altra parte, non riusciva nemmeno a ricordare quando fosse stata l’ultima volta in cui avesse messo piede ad una festa di liceali.

Ricordava che, durante il suo primo anno delle superiori e insieme ai suoi amici, s’imbucava spesso a feste a cui non era stato invitato, solo per il gusto di far arrabbiare i ragazzi più grandi, litigare con loro e conoscere le cheerleader. Quando, al terzo anno, era entrato nella squadra di basket della scuola e nella cerchia dei ragazzi che Krystal Ferguson, la capo-cheerleader, definiva “appetibili”, aveva iniziato a ricevere fin troppi inviti per i suoi gusti. Andare ai party organizzati dai suoi compagni di scuola era diventato in fretta noioso, non lo divertiva essere “uno di loro”, non lo divertiva avere ragazze isteriche che prima gli si buttavano addosso, senza che lui avesse nemmeno il tempo di aprire bocca, e dopo finivano col chiudersi in bagno piangendo una perduta verginità che “quello stronzo insensibile di Daniel King” aveva tolto loro.

Aveva incominciato ad evitare quella gente come se, solo avvicinandosi, avesse potuto prendersi la sifilide e, tramite il cugino più grande di un suo amico, aveva iniziato a partecipare a feste nei locali, con gente più adulta e non poppanti che litigavano per contendersi l’ultima cassa di birra rimasta o la bionda senza cervello di turno. Trovarsi nella casa della famiglia Evans fu come tornare al suo anno da matricola delle superiori. Non dovette dir nulla di particolare per entrare, un ragazzo ubriaco gli aprì la porta e gli diede una pacca sulla spalla come se fossero amici da una vita.

Dubitava che ricordasse il suo stesso nome o cosa ci facesse lì, aveva l’aria di uno che avrebbe vomitato l’anima da un momento all’altro.

Daniel mosse lentamente i suoi primi passi nell’abitazione, guardandosi intorno con un misto strano di curiosità, divertimento e disgusto. La canzone All Night delle Icona Pop gli rimbombava nelle orecchie, il volume era così alto che dalle casse la musica usciva vagamente gracchiante.

Al naso gli arrivò un forte e riconoscibile odore di fumo, non solo di sigarette. Dappertutto vedeva adolescenti più svestiti che vestiti, appartati in un angolo o a ballare, gridare e saltare al centro delle stanze. La rossa non scherzava quando diceva che la situazione era fuori controllo.

Infilò le mani in tasca pensieroso e notò le scale che portavano al piano di sopra: Meg gli aveva detto di essere al secondo piano, nell’ultima stanza in fondo al corridoio sulla destra. Sperava di non beccare una camera da letto.

Non riuscì ad avanzare di molto, dal momento che una ragazza gli gettò le braccia al collo e si aggrappò a lui per non crollare a terra come un sacco di patate.

“Tu chi sei? Non ti ho mai visto qui” Fece lei, avvicinandosi alla sua faccia per farsi sentire e leccandosi le labbra con la punta della lingua.

Le passò una mano dietro la schiena per sostenerla e la squadrò per un paio di secondi: bionda, alta, gambe snelle e scoperte e un seno bello pieno. Sorrise a mezza bocca; di ragazze come quella New York era piena. “Tuo fratello” Replicò ironicamente.

Lei ridacchiò, segnò che la battuta era arrivata comunque al suo cervello poco lucido. Aveva l’alito che puzzava di birra e la bocca ancora impiastricciata di rossetto lievemente sbavato sul mento.

“Ho sempre trovato tremendamente eccitante l’incesto, sai?” Fece scivolare le sue mani sul suo petto e si sfregò contro il suo corpo come un gatto che faceva le fusa.

Suo malgrado, lui allargò il suo sorriso. Non gli dispiaceva il suo senso dell’umorismo. E non gli dispiaceva nemmeno quel seno premuto contro di lui.

“Che ne dici di andare di sopra, in una delle camere? In un letto comodo…” Chiese lei, ringalluzzita dalla sua risposta apparentemente positiva.

Daniel spostò lo sguardo sulle scale dietro di lei; in un’altra circostanza probabilmente avrebbe acconsentito. Da quando era arrivato non aveva avuto nemmeno il tempo di pensare di avere una vita sessuale e la cosa stava iniziando ad avere un certo peso. Sketch e Reed gli avrebbero chiesto se gli si fosse fottuto il cervello se avessero saputo che stava per sprecare un’occasione del genere. Pazienza, si sarebbe rifatto a New York.

“Non sono un amante della comodità”. Scrollò le spalle. “Starei cercando il bagno, c’è al piano di sopra?”

Lei aggrottò la fronte confusa, poi riacquistò subito la spavalderia di poco prima. “Sì, in fondo a destra. Ho capito, preferisci farlo sotto la doccia.

Daniel scosse la testa e le sorrise sardonico. “Nella vasca, in realtà. Ma ho una particolare adorazione per la lavatrice”.

Lei rise di nuovo ed iniziò a tracciare una scia di baci sul suo collo.

Un po’ restio, si costrinse a staccare le mani dall’invitante vita della ragazza e ad allontanarla da sé. Non era davvero cambiato nulla dalle feste che ricordava; quella doveva essere il classico tipo di ragazza che prima se lo sarebbe scopato senza battere ciglio e poi avrebbe finito con l’incolpare lui di quanto successo o il negare qualsiasi coinvolgimento per mantenere la facciata da brava ragazza.

“Hai una ragazza, vero?” Domandò lei con un tono di voce infantile, imbronciata e risentita per essere stata respinta.

“Già” Rispose senza troppa convinzione, sapendo che, se avesse risposto di no, quella avrebbe continuato l’interrogatorio. La successiva domanda sarebbe stata, al novantanove per cento, “Sei gay, vero?”. Le donne non erano proprio in grado di reggere un rifiuto.

“Cristo, lo sapevo!” La bionda barcollò all’indietro e si appoggiò al muro. “I migliori sono sempre già presi”. Corrugò le sopracciglia chiare e lo scrutò in volto improvvisamente più lucida. “La conosco? È a questa festa?”

“Probabilmente sì”. Meglio restare sul vago.

La sorpassò e alzò una mano a mo’ di saluto. “Ci vediamo in giro, eh.”

Lei lo indicò più volte con l’indice, la bocca e gli occhi di colpo spalancati.

“Aspetta, ma io ti conosco! Tu sei quello della tavola calda di Trevor, quello di New York!

Merda. Non pensava che lo avrebbe riconosciuto e non pensava nemmeno che il discorso con lei si sarebbe protratto così a lungo, sperava di liquidarla più velocemente.

“Sì. Scusami, vado di fretta”.

Fortunatamente non fece altre domande e lo lasciò libero di schivarla e salire al piano di sopra.

Individuò subito la porta del bagno; era l’unica porta in fondo sulla destra, non c’era possibilità di sbagliarsi. Ciononostante, quando l’aprì, lo fece con la massima lentezza per assicurarsi che fosse davvero quella la stanza che cercava.

Nel momento in cui una ragazza dai capelli rossi gli si avventò addosso non ebbe più dubbi.

“Oddio, grazie! Credevo non arrivassi più!”

Lo stava abbracciando come se le avesse salvato la vita, come se fosse stato sei mesi in guerra e fosse tornato vivo per miracolo, come se… Meg lo stava letteralmente stritolando.

“Ci ho messo dieci minuti” Le fece notare schiarendosi la voce e staccandola non troppo bruscamente da sé. Era abituato a ricevere abbracci da ben poche persone a cui voleva bene e quella sera ne aveva già ricevuti troppi per i suoi gusti, da perfette estranee oltretutto.

Meg parve un po’ imbarazzata e subito si scusò per lo slancio con cui aveva accolto il suo ingresso.

“Non ti preoccupare”. Non aveva ancora finito di dirlo, quando una terza voce, un mugugno piuttosto, s’intromise nel discorso.

Jude era seduta a terra; le ginocchia strette al petto, la testa appoggiata al muro dietro di sé e la pelle del volto bianca come un lenzuolo.

Nonostante tutto, nonostante le prese in giro, i litigi e il rapporto meraviglioso che lei aveva con sua madre, Daniel non riuscì a compiacersi di quella vista. Un po’ gli dispiacque vederla così pallida e debole.

La osservò mentre affondava i denti nel labbro inferiore e chiudeva gli occhi, le ciglia scure in completo contrasto con il pallore del viso. Doveva stare veramente male, non riusciva a credere che una ragazza orgogliosa e petulante come lei potesse fingere in quel modo. Stava per commettere l’errore di farsi intenerire dal suo aspetto, quando Judith alzò di colpo una mano per agitarla davanti a sé.

“Stai schiaffeggiando l’aria?” Le domandò di getto, incapace di contenere il sarcasmo.

Lei emise un verso molto simile ad un basso ringhio e continuò ad agitare il braccio con più foga. “Mandalo via, Meg!”

Debole un corno, pensò inevitabilmente divertito, quella riusciva a rispondere male e ad essere odiosa anche in quelle condizioni.

“Sì, se continui così sono sicuro che ce la farai” La provocò avvicinandosi, le mani in tasca e le labbra piegate in un mezzo sorriso. “Un po’ più a destra. No, più in alto.”

Jude lasciò ricadere sconfitta la mano sul ginocchio e diede un colpetto al muro dietro di sé con la testa. “Ti odio” Borbottò flebilmente.

Lui piegò le gambe e si accucciò di fronte a lei, le sopracciglia inarcate mentre la esaminava da più vicino. Doveva imprimere bene quell’immagine nella sua testa, non capitava tutti i giorni di vedere Judith Parker in quello stato.

“Non dovresti odiare il tuo salvatore” Ribatté serafico, più ilare di quanto avrebbe dovuto e voluto essere, contando che era stato svegliato di notte per andare a prendere quell’impiastro. Voltò la testa per guardare Meg di sfuggita. “Da quanto siete qui?”

La rossa fece un sospiro e si sedette sulla vasca, le mani strette tra le gambe. “Un’ora? Due? Non lo so, ho perso la cognizione del tempo. Ha vomitato l’anima e poi si è seduta lì e ha iniziato a piagnucolare che stava male” Meg la indicò col mento e un’ombra di pentimento e dispiacere aleggiò sul suo viso paffuto quando l’amica la fulminò con lo sguardo. “Volevo provare ad aiutarla a mettersi in piedi, ma ha iniziato a strillare come un’aquila e a dire di non toccarla quando mi sono avvicinata.”

Daniel riportò la sua attenzione su Jude prima della fine della spiegazione, gli occhi socchiusi e le labbra piegate in un’espressione pensierosa.

Interpretando bene il suo silenzio e il suo sguardo, la ragazza soffiò a bassa voce un “Non provare a toccarmi” che avrebbe spaventato il più intrepido degli eroi.

“Mi spiace principessa, ma non sono in grado di farti levitare” Considerò ironicamente, rialzandosi in piedi e porgendole le mani. “E che tu lo voglia o no ce ne dobbiamo andare di qui”.

Jude si ritrasse contro il muro e lo scansò quando tentò di afferrarla per un braccio. “Posso alzarmi da sola” Replicò asciutta ed orgogliosa, seppur con un filo di voce.

Daniel schioccò la lingua ed incrociò le braccia al petto, scrutandola sardonico. “Va bene, prego. Qualcosa mi dice che ricadresti in un attimo sul pavimento con cui hai fatto amicizia da più di un’ora”.

Lo odiava. Lo odiava con tutta stessa e soprattutto odiava quella faccia da schiaffi con cui la stava guardando, quell’espressione vittoriosa di chi aveva il coltello dalla parte del manico. Probabilmente si stava persino divertendo, non aveva fatto altro che prenderla in giro.

Se solo la stanza avesse smesso di girare in quel modo… se solo avesse avuto la certezza che le sue gambe l’avrebbero retta, si sarebbe alzata da sola, senza bisogno dell’aiuto di quell’insopportabile arrogante.

“Sono le tre del mattino, puzzi di vomito, questa festa fa schifo e ho preso la macchina di tuo padre senza il suo permesso. Credimi, preferirei fare altro in questo momento” Elencò lui improvvisamente serio, chinandosi di nuovo verso di lei. “Ad esempio dormire. Ma dato che la tua amica ci tiene abbastanza a te da chiamarmi e implorarmi di venire, potresti almeno farle il favore di farti aiutare.”

Stava ponderando bene le sue parole, questo doveva concederglielo. Aveva scelto di nominare l’unica cosa che l’avrebbe convinta a fare quello sforzo e lui lo sapeva. Bastardo. Jude non poteva fare quello a Meg, i suoi l’avrebbero uccisa se avesse passato la notte fuori casa, aveva il coprifuoco alle tre e mezza.

Sospirò ed annuì appena, un cenno talmente minuscolo da non essere quasi notato. Stava per dirgli che non ce l’avrebbe fatta a restare in piedi da sola, quando lui le circondò gli avambracci con le dita e la strattonò su con poca delicatezza, come se fosse stata una bambina piccola. Istintivamente, per assecondarlo e per non farsi staccare gli arti superiori, si diede uno slancio con le gambe, con il risultato che, una volta in piedi, crollò in avanti addosso a lui.

Ecco il motivo per cui non aveva voluto farsi aiutare da Meg: se l’amica avesse provato a sollevarla, Jude l’avrebbe travolta col suo peso e sarebbero entrambe rotolate a terra come due salami. Con Daniel non ci fu quel problema, lo comprese nel momento in cui affondò i polpastrelli nelle sue spalle. Daniel era… duro. Oddio, duro suonava malissimo nei suoi pensieri. Solido? Non era molto meglio. Era stabile. Sì, ecco, Daniel era stabile. Non cadde all’indietro all’impatto col suo corpo, si limitò a fare appena qualche passo verso il centro della stanza per riacquistare l’equilibrio, ma riuscì a sostenerla fermamente.

La stanza le girava velocemente intorno, l’unica cosa salda e a cui ormai si era aggrappata come una cozza allo scoglio era lui. Tutto sommato era piacevole. Molto piacevole. Le ritornò in mente l’aggettivo duro di poco prima e questa volta non poté scacciarlo via, perché era proprio così che sentiva il corpo del ragazzo contro il suo. Duro e al tempo stesso morbido. Santo cielo, che stava dicendo?

Percepì un senso crescente di nausea e calore. Un qualcosa di ancora più terribile le si smosse dentro quando Dan le circondò la schiena con un braccio per sorreggerla meglio; si sentì come un maledetto vulcano pronto ad eruttare. Merda, stava per vomitare?

Appoggiò la fronte sulla sua spalla ed avvertì Daniel sussultare impercettibilmente in risposta. Perché? Forse non doveva farlo. Fu decisamente un errore, in effetti. Dalle labbra della ragazza, talmente vicine al tessuto della maglietta da sfiorarlo e respirarci contro, uscì un basso, incontrollato ed imbarazzante mugolio. Daniel aveva un buon odore; odorava di pulito, di bucato appena fatto, di bagnoschiuma alla menta. Che bagnoschiuma usava? Doveva ricordarsi di chiederglielo. Era buonissimo, un qualcosa che dava assuefazione. Oh Dio, ci mancava solo quello. Perché non puzzava, accidenti?

“Non vomitarmi addosso, eh” La sua voce le sembrò meno presuntuosa e più incerta del solito, ma non ci fece troppo caso. Non rispose, non aprì proprio la bocca per paura di fare il contrario di quanto le aveva detto. Ci mancava solo che lui la odiasse ancora di più per quello, non osava immaginare come avrebbe reagito se gli avesse rigurgitato sulla maglietta.

“Che vuoi fare?” Chiese terrorizzata quando lui si chinò per passarle un braccio dietro le ginocchia. Irrigidì le gambe e cercò di ritrarsi per impedirgli di fare ciò che per lei sarebbe stato tremendamente umiliante.

“Secondo te?” Sbuffò irritato. “Non mi stai aiutando, la pianti di agitarti?”

“Posso camminare” Mentì spudoratamente, mentre tutto intorno a lei continuava a girare beffandosi delle sue stesse parole.

“Non credo proprio, perciò piantala di fare la bambina.” Non le diede il tempo di fare o replicare altro perché, con la stessa delicatezza di poco prima, la sollevò da terra ignorando le sue deboli proteste. L’ultima persona che l’aveva presa in braccio era stato suo padre quando aveva appena cinque anni. Dio, la serata più terribile della sua vita, l’esperienza più imbarazzante della sua esistenza. Avrebbe voluto cancellarla, cancellare tutto, ogni parola e ricordo di quanto successo. Specie di quanto successo prima.

“Ci mancavi solo tu…” Disse con voce stanca, intrecciando istintivamente le braccia dietro il suo collo. Sentiva i suoi capelli solleticarle la pelle e, dopo aver chiuso gli occhi, sospirò piano contro la spalla del ragazzo, desiderando di poter sparire in quell’esatto momento. Perché lui doveva assistere a tutto quello? Perché proprio lui, che non avrebbe perso occasione per schernirla?

Aveva voluto far qualcosa di sciocco, autodistruggersi con le sue stesse mani per lenire la sofferenza che aveva provato e, come ciliegina sulla torta, ora la sua stupidità aveva persino un pubblico. Non si riconosceva più, avrebbe deluso suo padre se lo avesse saputo, gli avrebbe dato un dispiacere, lo avrebbe fatto soffrire. Come aveva potuto farlo?

“Non può farlo…” Non si rese conto di averlo detto finché Daniel non le rispose con un “Cosa?” piuttosto confuso.

Scosse la testa e si insultò per esserselo lasciato sfuggire. Stava malissimo, non riusciva più a distinguere ciò che pensava da ciò che diceva ad alta voce.

“Sei qui con la macchina di suo padre, vero? Puoi accompagnare prima me, per favore?” La voce di Meg le arrivò ovattata e dovette sforzarsi per comprendere la risposta di Daniel.

“Non può dormire da te? Come la porto in camera dei genitori senza che se ne accorgano?

Ma lei aveva la sua camera, no? No… giusto, dormiva nella stanza dei suoi genitori. E sapeva di non poter dormire da Meg; i suoi genitori si sarebbero accorti subito del fatto che avesse bevuto così tanto e avrebbero avvisato immediatamente suo padre.

“Perché devono andare così le cose?” Piagnucolò a bassa voce, mentre Meg e Daniel continuavano in sottofondo a parlare. “Perché?” Disse di nuovo, a nessuno in particolare.

“Dovevi pensarci prima, mi sa”.

Vai al diavolo, Daniel King. Fortunatamente doveva averlo solo pensato, perché questa volta da lui non arrivò nessuna risposta. O magari prima non stava parlando con lei, Jude non era più sicura di niente, nemmeno del posto in cui si trovava.

Sentì la voce di una ragazza accanto a lei, ma non distinse alcuna parola, le sembrò solo il biascicare confuso di una persona ubriaca. Avvertì un leggero sobbalzo e poi il nulla, il vuoto, il buio.

 

***

 

 

Non era esattamente sicuro di cosa fare e soprattutto di come farlo. Lanciò un’occhiata a Judith Parker, la testa appoggiata al finestrino, gli occhi chiusi e un’aria sofferente sul volto. Ad alcune persone l’alcol toglieva qualche freno inibitore, causava euforia, risate incontrollate; evidentemente non a lei, restava pallosa e lagnosa pure quando beveva. Non era nemmeno capace di divertirsi a dovere, una volta tanto faceva qualcosa di quasi normale per una ragazza della sua età e finiva col vomitare l’anima e piagnucolare neanche stesse per morire.

Sospirò e spense la macchina. Aveva riaccompagnato a casa Meg una decina di minuti prima, dopo essersi sorbito un centinaio di “grazie” e “scusa” da parte della ragazza. Era stato un sollievo guardarla scendere, se avesse continuato a scusarsi e a ringraziarlo ancora per un po’ non avrebbe resistito all’impulso di aprire la portiera e cacciarla fuori.

Si passò una mano sul viso e si lasciò ricadere sullo schienale; era distrutto, non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui avesse dormito otto ore di fila.

Doveva pensare ad una sistemazione per la principessina, era ovvio che non potesse portarla in camera dei suoi genitori senza farsi scoprire. Avrebbe potuto mollarla sul divano, ma onestamente non se la sentiva di lasciarla da sola dopo la sbronza che si era presa, sebbene lo meritasse.

Non restava che la sua camera a quel punto: avrebbe ceduto il letto a quella lagna e a lui sarebbe toccato stare sul pavimento. Sbuffò: quando mai aveva detto di sì a tutto quello, avrebbe dovuto starsene a New York con suo padre e fregarsene di sua madre e della sua nuova famigliola.

Scese dalla macchina e fece il giro per aprire la portiera del passeggero. Jude gli crollò addosso per la seconda volta quella sera, borbottando qualcosa di indefinito ed aggrottando la fronte infastidita per l’interruzione del sonno.

“Hai pure il coraggio di lamentarti…” Soffiò divertito e incredulo, passandosi un braccio della ragazza intorno al collo per prenderla di nuovo in braccio.

Era più morbida di quanto pensasse contro di lui. Fisicamente sembrava magra e, avrebbe immaginato, spigolosa, eppure su di sé avvertiva ogni singolo centimetro di pelle, un corpo caldo e piacevole. Merda. Deglutì a vuoto e cercò di concentrarsi su cose più importanti e difficili da fare in quel momento, ad esempio riuscire ad entrare in casa con le mani occupate.

Si guardò istintivamente intorno. Nel vialetto la strada era fredda e vuota come avrebbe dovuto essere alle tre di notte, illuminata solo dai lampioni. Non osava immaginare che cosa avrebbe potuto pensare un passante in quel momento se lo avesse visto, si sentiva una sorta di maniaco approfittatore di ragazze ubriache.

Mentre chiudeva a fatica l’auto e riattivava l’antifurto – come se fosse servito a qualcosa poi in quel posto – Jude biascicò di nuovo qualcosa che non comprese. Fantastico. Doveva parlare e rompere i coglioni pure da ubriaca, mai un attimo di tregua con lei.

Dopo diversi tentativi riuscì ad aprire la porta e a richiuderla con la gamba dietro di sé. Cazzo, si era dimenticato di cambiarsi le scarpe con le ciabatte, il giorno dopo quella pazza che aveva in braccio si sarebbe lamentata dello sporco sulla moquette.

“Si sposa.”

Sussultò nel buio dell’ingresso, quasi come un ladro colto in flagrante. Jude aveva parlato nitidamente questa volta, scandendo bene le parole.

Si sposa?Ma chi?

Si strinse di più a lui e nascose il viso nella spalla, le dita artigliate alla sua maglietta. “Si sposa” Ripeté. La voce mancò sulla nota finale, inghiottita da un singhiozzo.

Oh merda, no. Non aveva alcuna intenzione di stare ad ascoltare le turbe adolescenziali di una ragazza, né voleva avere a che fare le sue lacrime. Una Jude incazzata era difficile da gestire, una Jude piangente era l’Apocalisse.

“Auguri e figli maschi” Replicò ironicamente e a bassa voce, lo sguardo concentrato sul pavimento mentre cercava di non ammazzarsi per arrivare al piano di sopra.

Fortunatamente la ragazza non aggiunse altro, sembrò essersi assopita di nuovo, almeno finché non la adagiò sul letto della sua stanza e le tolse le scarpe. A quel punto mugugnò qualcos’altro e si rannicchiò sotto le coperte. “Perché non mi ama?”

Quelle parole ebbero su di lui l’effetto di una secchiata d’acqua su un gatto che odiava bagnarsi. Bene, quello era il segnale d’allarme, il segnale che lo invitava ad allontanarsi di lì in cerca di qualcosa da poter usare per creare un giaciglio sulla moquette.

“Daniel?”

Si bloccò sul posto pietrificato, ad un passo dalla fuga e dalla salvezza. Purtroppo per lui Jude era abbastanza cosciente da ricordarsi di lui, nonostante il delirio da teenager cretina di poco prima. Chissà se ne avrebbe avuto memoria il giorno dopo.

Sicuramente lui le avrebbe rinfacciato quella serata un’infinità di volte finché sarebbe stato in quella casa, era in debito con lui per i prossimi quindici anni come minimo.

Dopo un momento di esitazione – e qualche imprecazione, tornò silenziosamente indietro e si chinò verso di lei. “Sì?” Si costrinse a dire, sebbene l’idea di non rispondere e uscire dalla stanza gli avesse accarezzato la mente.

Ho freddo” Lo mormorò a voce così bassa che faticò a sentirla. Pure? Che diavolo, non era il suo dannato cameriere personale.
Sospirò, a metà fra il rassegnato e l’irritato. “Vado a prenderti un’altra coperta.” Cosa gli toccava fare, prendersi cura di una mocciosa alla sua prima e stupida sbronza. Non aveva di certo accettato di andare a vivere per alcuni mesi da sua madre per fare da babysitter a quella rompiscatole.
Fece per allontanarsi, quando qualcosa lo strattonò verso il basso. Aggrottò la fronte e puntò lo sguardo sulla piccola mano che si era aggrappata di nuovo alla sua maglietta.

“No… Resta qui.” Un altro sussurro. Una flebile preghiera.

“Cosa?” Sicuramente aveva capito male, non riusciva a pensare ad un solo motivo che potesse spingere la pazza a volerlo lì con lei. A meno che non lo stesse scambiando per qualcun altro, ipotesi che avrebbe anche potuto essere plausibile se non lo avesse chiamato col suo nome poco prima.

“Resta qui con me. Ho freddo.” Cercò di attirarlo di più a sé, stringendo con forza le dita sul tessuto dell’indumento ormai stropicciato.

Era forse posseduta? La sua testa avrebbe iniziato a girare a trecentosessanta gradi?

“Eh? Perché?” Non gli venne in mente una risposta più intelligente.
“Ti prego.” La presa sulla t-shirt era salda e decisa, in netto contrasto con la sua voce debole.

Ti prego?

Daniel non riusciva a credere alle proprie orecchie. Nel suo stesso letto? Così nel momento in cui la solita ed incazzosa Jude sarebbe ricomparsa lui sarebbe morto soffocato nel sonno dal cuscino? No, grazie.

Portò la mano su quella della ragazza nel vano tentativo di liberarsi da quella stretta, ma come risultato ottenne solo altri piagnucolii rumorosi e infastiditi.

“Dai, non fare l’antipatico, per favore.” Slittò con il fianco in fondo al materasso per fargli spazio, tirandolo ancora una volta per invitarlo a sdraiarsi lì con lei. Tutto ciò era assurdo.

Fissò incerto il letto, meditando sul da farsi. In fondo avrebbe anche potuto fare quella pazzia e assecondarla, era stanco e non aveva nessuna voglia di dormire sul pavimento. Avrebbe puntato la sveglia sul telefono appena qualche ora dopo, prima che lei potesse svegliarsi, accorgersi della sua presenza ed impazzire. Inoltre stava iniziando a temere per la sorte della sua povera maglietta ad un passo dall’essere slargata.

Scostò le coperte e si stese titubante accanto a lei, pronto a sentirsi sbraitare contro un “che cazzo fai?”, che non arrivò. Strano. Ci doveva essere per forza piano subdolo dietro, trattandosi di Judith Parker non poteva essere altrimenti.

S’irrigidì quando lei si mosse per appoggiargli la guancia e le mani chiuse a pugno sul petto. Lo aveva forse preso per un cavolo di peluche da abbracciare e su cui strusciarsi? Si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando riprese a parlare, diversi secondi dopo, con il fiato corto e spezzato. “Ma quanto cazzo hai bevuto?” Non osava spostarsi, non voleva sfiorarla accidentalmente con qualcosa che, se stimolato da un contatto con lei, avrebbe potuto dargli non pochi problemi in quel momento.

Jude non rispose alla sua domanda, si limitò ad inspirare profondamente e a sospirare. “Hai un buon odore. Perché hai un buon odore?”

Ma che razza di domanda era?

“Non lo so, perché mi sono fatto la doccia?” Propose in tono ovvio e sarcastico.

Quella era in assoluto la conversazione più demenziale che avesse mai sostenuto e, con amici come Sketch e Reed, di conversazioni idiote ne aveva avute.

Fu come se non avesse parlato, lei continuò spedita a fare considerazioni assurde per conto suo.

“E sei duro. Sì, sei duro.”

Ma che diavolo…? Quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Cristo Santo! Certo, gliel’avevano detto altre volte, ma in circostanze un po’ diverse e riferendosi ad altro.

Per un secondo si allarmò e temette che lei si stesse riferendo esattamente a quello, poi realizzò che non poteva essere possibile. Era abbastanza sicuro di non esserlo – non ancora – e, in ogni caso, lei non avrebbe potuto appurarlo personalmente visto che era stato attento a toccarla il meno possibile. Ma allora di che stava parlando?

Cercò di calmare i battiti e di regolarizzare il respiro, specie perché sentire le labbra della ragazza muoversi contro il suo petto per dirgli una frase del genere, con voce roca per giunta, stava avendo effetto proprio su quella parte. Rabbrividì e si diede mentalmente dell’idiota; doveva riprendersi, si rifiutava categoricamente di farsi venire un’erezione con la principessina nel letto. Era forse impazzita più del solito? Che cosa avrebbe dovuto essere quello, un complimento? Una constatazione? Decise saggiamente di non replicare.

La sentì mugolare ed accoccolarsi meglio contro di lui, le gambe – velate solo da un paio di collant – finirono con l’intrecciarsi alle sue e i capelli iniziarono a solleticargli il collo. Di male in peggio. Non era stata un’idea così geniale quella di sdraiarsi con lei, in effetti.

Tentò di allontanarsi e di guadagnare spazio vitale, ma era vicino al bordo e ad un passo dal rotolare giù. Non sarebbe stata una cattiva idea cadere.

Gli stavano passando troppe idee e pensieri strani in testa – come quello insensato di allungare un braccio per stringerla a sé ed essere più comodo, bloccato prima che potesse farlo davvero –, doveva alzarsi di lì il prima possibile. Avrebbe aspettato che si fosse addormentata, poi, in un modo o nell’altro, si sarebbe liberato di quella morsa assassina.

“Domani mi ucciderai” Disse a mezza voce, per cercare di distrarsi e di sdrammatizzare la situazione. Una situazione decisamente imbarazzante ed inaspettata.

Jude sorrise, sebbene lui non potesse vederla. “Forse” Mormorò piano. Fece una pausa, un silenzio spezzato solo dai loro respiri. “Adesso però mi piace”.

 

 

 

 

*Note dell’autrice*

Tengo molto a questo capitolo e sono un po’ nervosa al pensiero di pubblicarlo, spero vi sia piaciuto…

Avevo in mente la scena finale da secoli e non vedevo l’ora di scriverla, sebbene non sia uscita proprio come volevo. Ho un debole per le scene di questo genere, se avete letto “Tra l’odio e l’amore c’è la distanza di un bacio” lo sapete già :P

Ma Jude e Alice sono diverse, chiedono al ragazzo della situazione di restare per due motivi molto differenti.

Imparerete a conoscere meglio Jude nei prossimi capitoli, ma già suo padre ha accennato qualcosa in questo a Daniel. Lei si mostra sempre caratterialmente forte con tutti, lo è sempre stata e lo è tuttora, solo che ha anche lei dei momenti di “debolezza” come tutti e questo è stato uno di quelli. Daniel era lì in quel momento e lei si è “aggrappata” a lui.

Non so se avete capito chi si sposa, nel caso non fosse chiaro vi ricordo che Jude è sempre stata infatuata del fratello maggiore di Meg. In ogni caso nel prossimo capitolo verrà spiegato bene cos’è successo alla festa e perché Jude si è ubriacata.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e vi anticipo che nel prossimo i due si risveglieranno nello stesso letto ;) Come la prenderà la Jude sobria? Vedremo.

Mi scuso per l’attesa, so che in molte si sono lamentate per i tempi d’attesa e perché risulta difficile seguire e ricordarsi la storia dopo tutto questo tempo, ma non è semplice per me conciliare la vita vera con le tre (quattro se si considera il pov Lore) storie che ho in corso. Mi dispiace davvero, più di questo non posso dire o fare :( Posso solo garantire, come sempre, che ogni storia in corso verrà conclusa e nessuna abbandonata.

Vi ringrazio se, nonostante tutto, siete ancora qui a leggere.

Un bacione grande!

Bec

 

PS: ho pubblicato l’inizio del prossimo capitolo nel mio gruppo spoiler su facebook, nel caso in cui vogliate leggerlo :)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=582065