L'ultima Regina (I Signori dell'Universo, vol. III)

di Puglio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** prologo 2 ***
Capitolo 3: *** 1 ***
Capitolo 4: *** 2 ***
Capitolo 5: *** 3 ***
Capitolo 6: *** 4 ***
Capitolo 7: *** 5 ***
Capitolo 8: *** 6 ***
Capitolo 9: *** 7 ***
Capitolo 10: *** 8 ***
Capitolo 11: *** 9 ***
Capitolo 12: *** 10 ***
Capitolo 13: *** 11 ***
Capitolo 14: *** 12 ***
Capitolo 15: *** 13 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


«Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

Un suono metallico e spettrale, di catene sferraglianti, percorse l'intera navata. Un sacerdote, un uomo grasso dalle guance accese di rosso, stava scendendo lateralmente i gradini dell'altare, affaticato dallo spostare il suo considerevole peso da un piede all'altro. Reggeva un incensiere. Quando lo aprì, facendolo oscillare, nella chiesa esplose di nuovo quel crepitio tintinnante, alzandosi a sovrastare il canto lento dei monaci, che avvolgeva calmo e ondeggiante le colonne disadorne dell'abside.

«Figliolo?»

Winston tornò a posare gli occhi sulla grata che aveva di fronte. Il profilo indistinto del frate all'interno del confessionale si agitò, mischiandosi per un attimo con l'oscurità che lo avvolgeva. Winston sbatté le palpebre, schiarendosi la voce.

«Volevi confessarti, o sbaglio?»

Lui strinse la mani.

«Ho bisogno di risposte» mormorò. Quando udì il suono della sua voce, trasalì. Non si aspettava potesse risuonare così forte. Deglutendo, si guardò intorno. Una porta sbatté, alle sue spalle. Si volse. Una donna dalla testa coperta da un velo incrociò vagamente il suo sguardo, prima di farsi un frettoloso segno della croce e sparire, con gli occhi bassi. La vide inginocchiarsi davanti a una cappella, immersa in una preghiera silenziosa.

«A volte, invece che di risposte, abbiamo solo bisogno di imparare a porci le giuste domande» mormorò il frate. Il suono caldo della sua voce si spinse oltre la grata bucherellata, raggiungendo Winston con un vago sentore di vino.

«Da quanto tempo non ti confessi?»

Winston si mosse sulle ginocchia, agitato.

«Ho smesso di tenere il conto».

«Degli anni?»

«Dei peccati».

Il coro smise di risuonare. L'ultima nota intonata dai monaci vibrò, oscillando lungo la navata per qualche istante ancora, come reggendosi in equilibrio sull'orlo del proprio silenzio. Poi cadde.

«Cosa ti affligge?» chiese il frate. Winston strinse le labbra.

«Abbiamo perso il Libro».

«Idiota!»

Winston strabuzzò gli occhi. Il frate nel confessionale richiuse la grata con uno scatto secco, che risuonò minaccioso nella chiesa semivuota. Il sacerdote sull'altare volse sorpreso lo sguardo, prima di scomparire dietro la porta della sagrestia.

Nestorius uscì dal confessionale, raggiungendo Winston che se ne stava ancora inginocchiato lì davanti. «Seguimi» sibilò, in tono perentorio. Senza osare ribattere, Winston si alzò, aggiustandosi la giacca e muovendosi dietro di lui, lungo la navata laterale.

«Secoli di sforzi per proteggerlo» masticò furioso Nestorius «e voi ve lo fate rubare da sotto il naso. Da non crederci».

«Veramente, non ce l'hanno rubato» azzardò Winston. Nestorius si fermò di botto, voltandosi a guardarlo truce.

«E questo, cosa significa?»

«L'hanno distrutto».

Nestorius impallidì. Con uno scatto improvviso, alzò la mano destra, colpendo violentemente Winston al volto. Lui si piegò, portandosi una mano alla guancia.

«Sei un idiota!» sibilò. Alcuni frati passarono loro accanto, abbassando prontamente gli occhi. Ancora scosso, Nestorius si raddrizzò, nascondendo le mani dentro gli ampi risvolti delle maniche.

«Tu e quell'altro babbeo di Gilbért, siete due stupidi» esalò. «Ci avete consegnato alla rovina».

«De Molay è morto».

«Morto?»

Nestorius sembrò farsi piccolo all'improvviso. Fissò Winston con sguardo vuoto, sgranandogli gli occhi addosso, quasi gli avesse parlato in una lingua incomprensibile.

«Ci hanno tradito» fece Winston con una smorfia, massaggiandosi la mascella. «Hanno tentato di uccidere anche me».

«Peccato non ci siano riusciti» sibilò Nestorius, con uno sguardo lampeggiante. Winston scrollò le spalle.

«Chi?» chiese Nestorius.

«Caprivi».

«Caprivi...»

Nestorius si voltò, incamminandosi veloce e con il capo chino. Winston gli tenne dietro, mantenendosi a una certa distanza. Sgusciarono in silenzio lungo le navate grondanti di oscurità, mentre la luce declinante del sole irradiava gli alti rosoni di vetro colorato, che gettavano sulla pietra scura delle pareti sagome indistinte di santi, avvolti da pallide lingue di fuoco iridescente.

Inforcarono una piccola porta, che si aprì cigolando. Il chiostro, all'esterno, era deserto. La campana delle cinque suonava gli ultimi rintocchi, mentre qualche frate ritardatario si affrettava a rientrare, sgusciando tra le colonne come un'ombra silenziosa.

Raggiunsero un ingresso, nascosto da un arco. La porta del refettorio si aprì; e una vampata di aria più calda spinse fuori l'umidità che aleggiava intorno a Winston e al frate, facendoli rabbrividire entrambi per un istante, mentre varcavano la soglia.

Il refettorio era brulicante di frati affamati. Con un lieve mormorio, si affaccendavano attorno alla lunga tavola di legno, già in parte apparecchiata. Nel camino il fuoco crepitava, spargendo intorno un calore piacevole, mentre le torce alle pareti gettavano sul volto pasciuto dei frati una luce calda e pastosa.

Non appena li vide entrare, un frate dalla barba color ruggine, screziata d'argento, si staccò dal camino, facendosi loro incontro con un sorriso. Tra le mani reggeva un boccale colmo di brodaglia fumante.

«Fratello Nestorius, forse tu e il nostro amico gradite del grog?» disse, rivolgendo ad entrambi i nuovi arrivati un sorriso non meno caloroso del suo sguardo. Visibilmente infastidito, Nestorius lo scansò con un semplice cenno della mano.

«Già brillo alle cinque del pomeriggio, Martino?» esclamò. Vincendo la vaga sorpresa iniziale, il frate rise, alzando in tutta risposta il boccale alle loro spalle.

«Dice il Signore: ''Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che vi ho preparato''».

«Sì, sì, come no...»

Nestorius si inoltrò attraverso le cucine, sempre con Winston alle calcagna. Affamato, l'agente allungò la mano verso un paniere, agguantando un panino al latte e portandoselo avidamente alla bocca. Lo finì in pochi istanti.

«Ecco, per di qua» mormorò Nestorius. Si volse, ammiccando in direzione di Winston, che annuì con espressione colpevole, mentre si spazzava le briciole di pane dalle labbra.

Salirono lungo delle ripide scale a chiocciola, strette tra due pareti illuminate solo da qualche feritoia che lasciava passare gli ultimi raggi di luce del giorno. In cima, una porticina di legno nascondeva una celletta semibuia e dalle pareti umide di muffa, occupata da una semplice panca di legno e da un modesto inginocchiatoio.

Non appena Winston fu entrato, Nestorius sbatté la porta alle sue spalle.

«E adesso, raccontami per filo e per segno questa follia».

Winston si portò nel centro della stanza. Nestorius prese posto sulla panca e lui restò a guardarlo, tormentandosi le labbra.

«Non è che ci sia molto da dire» osservò Winston. Nestorius fece un rapido cenno con la mano. «Dopo che sono tornato in Inghilterra con il Libro, aspettavo di partire alla ricerca della Regina. L'avevamo individuata grazie all'aiuto di alcuni suoi amici».

«Dove?» chiese Nestorius. Winston si appoggiò con le spalle alla porta.

«Bolivia».

Nestorius strinse gli occhi. «Che cosa c'è, laggiù?»

«Non ne abbiamo idea» ammise Winston. «Sappiamo solo che la pietra che aveva con sé era legata in qualche modo a quei luoghi, in particolare al lago Titicaca».

«Vai avanti».

Winston sospirò. «Aspettavo solo di partire. L'ultima volta che sentii De Molay, non aveva ancora raggiunto alcun risultato nella lettura del Libro. L'unica nostra possibilità era trovare la donna, e fermarla il prima possibile».

«Ma, immagino, non è andata così».

«Esattamente» fece Winston, con un cenno del capo. «Il mattino della partenza, mi sono ritrovato in casa un gruppo di assassini del Consiglio, venuti a farmi la festa. Ti tralascio i particolari insignificanti... ti basti sapere che ciò che sono riuscito a scoprire è questo: De Molay aveva decifrato il Libro, e aveva scritto tutto in un diario».

«L'aveva decifrato?» Nestorius parve sinceramente sorpreso. «Questo ha dell'incredibile. Nessuno, in oltre mille e duecento anni è mai riuscito a farlo» disse. «Che ne è di quel diario?»

«È nelle mani dell'Ordine. Sospettiamo che sia stato Caprivi a uccidere De Molay, rubando il suo diario per poi consegnarlo all'Ordine».

«E Caprivi, dov'è adesso?» fece Nestorius.

«È morto» disse Winston, infilandosi le mani in tasca. «Ucciso da Wiesbaden».

«Ancora quel maledetto».

Nestorius sospirò, portandosi le mani al volto. Quindi alzò gli occhi scuri su Winston, fissandolo di sottecchi.

«Ancora non capisco perché sei qui» fece, battendo le mani sulle ginocchia. «Dovresti essere sulle tracce di quel diario, non credi?»

«Lo so» fece Winston. «Ma c'è un motivo, se ho deciso di ritornare. Ed è perché ho bisogno di ottenere delle risposte».

«E che risposte speri di ottenere, da me?» rise Nestorius. «Le uniche risposte che ti possono servire, adesso, sono contenute nel diario di De Molay».

«Non esiste un altro modo per ottenere le informazioni che aveva raggiunto?»

Nestorius scoppiò a ridere, piegandosi all'indietro.

«Ma certo!» esclamò. «Abbiamo passato secoli a proteggere quel libro perché non avevamo niente di meglio da fare. Stupido idiota!» sibilò il frate. «Se ci fosse stato un altro modo per conoscere la verità su Atlantide, credi che avremmo dedicato tanta energia e sprecato tante vite a proteggere quel vecchio volume ingiallito?»

Winston serrò la mascella.

«Sto solo cercando...»

«Tu stai solo perdendo del tempo!»

Winston fissò duramente il frate. Ma l'uomo non sembrava per nulla intimorito dalla presenza dell'agente. Anzi, lo fissava con un misto di disprezzo e di sufficienza.

Con un gesto di fastidio, Winston estrasse un sigaro dalla tasca, portandoselo alle labbra. Lo accese, ma alla prima boccata Nestorius gli si avvicinò, strappandoglielo di bocca e gettandolo a terra, dopo averlo rotto in due.

«Ancora non ti rendi conto» esalò. «Se non ritrovi quel diario, siamo tutti perduti. Ora che l'Ordine possiede le informazioni contenute nel Libro, non c'è più nulla che possa fermarli».

«E allora, perché affannarsi tanto?»

Nestorius impallidì. Winston lo fissò, sprezzante.

«Cosa?»

Winston scoppiò a ridere. «Proprio così, di che ci preoccupiamo? Se hanno già vinto, è inutile stare ad affannarsi, non credi?»

Nestorius fece per scagliarsi contro Winston, ma lui lo bloccò, agguantandolo per il saio.

«Sono stanco di queste stronzate, Nestorius» gli sibilò in faccia. «Per anni ho ubbidito a ordini che non capivo, limitandomi a fare quello che mi veniva chiesto e senza mai osare fare una domanda. Ma adesso sono proprio stufo. Voglio sapere tutto, e voglio saperlo adesso. Io sono un soldato, e so come si combatte. Ma per farlo devo conoscere il mio nemico. Quindi, basta menzogne. Se volete che combatta, ditemi con chi ho a che fare. Non posso continuare a battermi contro un'ombra».

«E cosa ti fa pensare che io abbia le risposte che cerchi?» mormorò Nestorius, in risposta.

«Proviamo» fece Winston, lasciandolo andare. «Comincia a raccontarmi chi sono quelli dell'Ordine».

«Lo sai».

«Smettila».

Nestorius lo fissò duramente, quindi si volse, raggiungendo l'altra estremità della stanza.

«Ciò che mi chiedi, viola il voto di segretezza, insieme ad altre decine di...»

«Al diavolo la segretezza!» sbottò Winston. «Guardati intorno, frate. Il Consiglio non c'è più. Presto, i vostri segreti non varranno più di quelli di un baro da quattro soldi. Da chi li volete proteggere? Dall'Ordine? Beh, ti do una notizia: quelli sanno già tutto ciò di cui hanno bisogno».

«Ma il mondo no» ribatté Nestorius. Winston scoppiò a ridere.

«Il mondo?» fece. «Ma fammi il favore. Cosa credi che interessi, al mondo, di queste cose? Alla gente non interessa a quale dio deve rispondere, né si preoccupa di sapere se a comandarla è un re o una repubblica, un cristiano o un bolscevico. La gente si beve quel che le si dà da bere, purché tutti si stia tranquilli, e si abbia da mangiare e da divertirsi. E sai perché? Perché nessuno vuole grane. A nessuno interessa farsi carico dei problemi del mondo. Esistono i politici per questo. La gente non vuole pensare, è questa la verità... senza contare che se non facciamo qualcosa, presto non avremo neanche più un mondo da dover proteggere. E tanti saluti a tutti quanti».

Si volse, estraendo dalla tasca un altro sigaro. Lo accese davanti agli occhi brucianti del frate, fissandolo con aria di sfida mentre gettava a terra il cerino. Nestorius si fece livido.

«Se te lo dico, e tu...»

«Io sono la vostra unica speranza» sibilò Winston. «Quindi, Nestorius, vedi di fare i tuoi calcoli. Ma vedi di farli in fretta».

Nestorius distolse lo sguardo, serrando le labbra.

«L'Ordine è ciò che resta di una organizzazione chiamata SEELE» esordì seccamente il frate. «Ha il compito di raccogliere e proteggere i discendenti della razza Atlantidea».

«Questo lo so, ma perché è così importante?»

«Perché?» chiese Nestorius, con un sorriso ironico stampato in faccia. «Tu cosa sai, in proposito?»

«So che Atlantide era una civiltà tecnologicamente avanzata, e che il Consiglio si è fatto carico di custodire i segreti che abbiamo ereditato da loro».

«Non è proprio così» fece. «Questo è ciò che è dato sapere a un agente operativo».

«Allora, spiegami».

Nestorius sospirò. «Cosa penseresti, se ti dicessi che l'essere umano è stato creato da esseri provenienti da un altro pianeta? Che questi esseri hanno dominato la Terra per milioni di anni prima di essere sterminati da guerre fratricide che hanno lasciato all'uomo l'eredità di questo pianeta?»

Winston sogghignò. «Direi che sei pazzo».

«Appunto».

Winston si fece improvvisamente serio. Si sfilò il sigaro dalle labbra e si staccò dalla parete a cui si era appoggiato.

«Mi stai dicendo che l'Ordine raccoglie i discendenti di una razza aliena?»

«La Prima Razza Ancestrale, la razza aliena che ha dato forma alla vita sulla terra. Proprio così», ammise Nestorius. Winston sbiancò. Sul volto gli si raggrumò un'espressione di assoluto stupore.

«Tutto questo è...»

«Assurdo?» Nestorius rise. «Certo. Ecco perché non vogliamo che si sappia. Immagina cosa accadrebbe, se la gente venisse a conoscenza di un segreto come questo. Sarebbe il caos».

«E cosa vogliono?» chiese Winston. «Voglio dire... perché sono così interessati a ciò che custodiamo?»

«Questo non lo so» ammise Nestorius. «Da secoli, il Consiglio cerca di preservare la razza umana dal pericolo di un ritorno dei dominatori alieni. Secondo il libro di Platone, per quel che un semplice custode come me ne può sapere, l'ultima guerra tra Atlantidei e umani si è svolta dodicimila anni fa, quando l'ultima roccaforte di Atlantide è stata distrutta. Da allora, l'uomo vive libero dal giogo di Atlantide, ma alcuni dei discendenti della razza dominatrice, scampati all'olocausto che essi stessi misero in atto, si rifugiò negli angoli più sperduti della terra. Il Consiglio nacque allora, attorno alla setta dei Pitagorici prima e all'Accademia Platonica poi, con il compito di tramandare i Saperi Esoterici, cioè l'insieme di conoscenze sull'uomo e la sua storia necessarie a proteggere l'umanità da un possibile nuovo attacco alla sua libertà. Il resto lo sai già. Il Crizia, il libro in cui Platone nascose la storia di Atlantide, andò perduto per secoli, insieme a ciò che restava di quella civiltà. Fu solo quando i monaci colombani recuperarono quel libro, che si rifondò il Consiglio. Da allora, combattiamo per la stessa causa degli antichi, per proteggere la libertà dell'uomo».

«Quindi, ciò che l'Ordine vuole...»

«...è ristabilire la supremazia di Atlantide sulla terra. Proprio così».

Winston strinse gli occhi. «E allora, cosa sono i Rotoli del Mar Morto? Cosa c'entrano con il Libro e con le Quattro Arche?»

Nestorius sbarrò gli occhi su Winston, schiudendo le labbra.

«Cosa hai detto?»

«Ti ho chiesto cosa sono i Rotoli del Mar Morto» ripeté. «L'uomo di Wiesbaden ci ha detto che il diario sarebbe servito all'Ordine per decifrarli».

Nestorius impallidì, alzandosi in piedi di scatto.

«Allora, esistono davvero...»

Winston osservò in silenzio il frate, che percorreva la stanza tormentandosi le mani, immerso in un borbottio nervoso.

«Nestorius?»

«Devi trovare quel diario» scattò all'improvviso il frate. «Assolutamente. E devi recuperare le informazioni contenute nei Rotoli. Questo cambia tutto, capisci? La loro esistenza, io non lo sapevo... nessuno lo sapeva...»

«Ma di che parli?»

Nestorius si passò una mano sulla fronte, scuotendo la testa in preda a una improvvisa agitazione. «Il Crizia era tutto ciò che ci restava del sapere di Atlantide» disse. «Ma esso non era che parte di un sapere più grande. In quel libro, Platone faceva riferimento a quanto contenuto nei cosiddetti Rotoli del Mar Morto, un testo antichissimo, scritto probabilmente ad opera della Prima Razza stessa. A quanto dice Platone, i segreti contenuti in quel testo consentirebbero di governare il mistero della vita e della morte, il vero potere di Atlantide. Un potere misterioso, che credevamo fosse nulla più che un semplice simbolo, un modo per designare la forza incontrastata di cui quella civiltà aveva goduto per migliaia di anni. Nessuno pensava che quei testi esistessero realmente... li credevamo già persi ai tempi di Platone. Se esistono, e se l'Ordine li possiede, non oso nemmeno immaginare di cosa potrebbe scatenare, ora che conosce il modo di utilizzarli grazie al diario di De Molay».

«Ma qual è questo potere?» fece Winston. «Per caso ha a che fare con la Regina? E come può il Libro chiarire come utilizzarli?»

Nestorius scosse la testa.

«Questo non lo so» disse, mesto. «Io sono solo un custode. Solo il Reggente aveva la possibilità di leggere il testo di Platone. Non posso sapere cosa vi fosse contenuto, perché ciò che so, è ciò che è stato tramandato da Colombano ai suoi monaci. Tutto ciò che posso dirti, è che il testo racconta della vita degli Atlantidei e di come sono giunti sulla terra. Narra di quattro Arche, chiamate anche i Semi della Vita: ognuna delle Arche rappresentava un seme, che unito agli altri avrebbe permesso di generare la vita stessa. A dire il vero, le Arche non sono mai state ritrovate, e perciò si è sempre pensato che si trattasse di una leggenda... almeno finché cinque anni fa non è emerso il Noè Rosso, l'Arca che Gargoyle utilizzò nella sua battaglia finale. Da allora, il Consiglio ha cominciato a prendere in considerazione il fatto che non si trattasse solo di una leggenda, soprattutto in seguito al Dossier Side, e al ritrovamento della Pietra da parte del professor Kurtag».

«So del Dossier» fece Winston. «Si tratta dell'avvistamento di un pianeta sconosciuto. Ma non si è trattato che di un avvistamento isolato...»

«Non essere sciocco» ghignò Nestorius. «Una cosa del genere non può essere un fatto isolato... quel pianeta non era altro che Atlantide, apparso nel nostro cielo in seguito all'apertura di una Merkaba, una porta spazio – dimensionale che collega punti dell'universo lontani tra loro. Solo una delle Pietre sacre di Atlantide poteva generare una Merkaba capace di riavvicinare il pianeta di Atlantide alla Terra. De Molay sospettava che la pietra fosse presente sulla Terra, magari nascosta proprio all'interno di una delle Arche, attivatasi in presenza della Regina. Ecco perché in seguito al ritrovamento della Pietra e dei resti di una nave aliena nell'Oceano Pacifico, chiese a Kurtag di avviare delle ricerche. Il professore era il maggiore esperto di Atlantide, e già si occupava della ricerca della Arche. Credo fosse vicino alla soluzione, quando è stato ucciso...»

«Infatti è così» confermò Winston. «Aveva capito che la Regina era ancora viva, e che si trattava proprio di Nadia Ra Arwol».

Nestorius scrollò le spalle. «Se l'aveva capito, perché non ha informato il Consiglio?»

Winston nicchiò. «Perché voleva bene alla ragazza, immagino. Aveva capito che se il Consiglio l'avesse presa, l'avrebbe uccisa».

«Quello stupido si è lasciato prendere dai sentimenti» mormorò teso Nestorius, «e ora ci ha condannato tutti...»

«Forse no».

Nestorius alzò lo sguardo sul volto di Winston, animato da una debole speranza.

«Credo che De Molay avesse capito come localizzare le altre Arche» suggerì Winston «e credo avesse anche scoperto come l'Ordine voleva utilizzare la Ra Arwol. Per questo è stato ucciso. In buona fede, ha confessato a Caprivi quello che sapeva e lui l'ha tolto di mezzo: cosa che non avrebbe mai fatto, se non avesse ritenuto De Molay un problema. Ormai penso sia tardi per impedire che l'Ordine o chi per loro metta le mani sulla Ra Arwol; ma forse non è troppo tardi per tentare di raggiungere le Arche».

«Ricordati che in questa storia non hai a che fare solo con l'Ordine» fece Nestorius «gli Atlantidei sono arrivati attraverso la Merkaba, e hanno uno scopo preciso. Ancora non sappiamo cosa vogliano, né sappiamo se l'Ordine abbia intenzione di contattarli, e come. Tuttavia...»

«Tuttavia, il pericolo che uniscano le loro forze, c'è».

Nestorius annuì. «E non è il solo pericolo, al momento» disse. Winston inarcò un sopracciglio.

«Cosa intendi?»

«Secondo la leggenda, nei Rotoli era contenuta la profezia definitiva riguardante la fine dell'umanità» disse torvo Nestorius. «Se questo fosse vero, allora l'Ordine non vuole semplicemente ritrovare le Arche per conquistare la terra. Ciò che vuole...»

«...è distruggere l'uomo, servendosi della Regina» commentò Winston. Nestorius lo fissò annuendo.

«Tutto lo lascia pensare».

Winston mosse un passo verso la piccola finestrella. Ormai la sera era scesa sull'abbazia, e nella stanza era calata una fitta oscurità. L'estremità del sigaro di Winston brillò per l'ultima volta, prima di spegnersi lentamente. Lui espirò il fumo, gettando a terra il mozzicone e pestandolo con la punta della scarpa. Quindo si volse a guardare il profilo ormai indistinto del frate, lo vide ergersi immobile nel centro della stanza, ormai inghiottito dal buio. Sospirò, rivolgendogli un ampio sorriso.

«Va bene, ho capito» disse, ficcandosi le mani in tasca. «A quanto pare, dobbiamo ritrovare per forza quel diario, non è così?»

«Non solo» commentò Nestorius con un sospiro rassegnato. «Dovrai anche trovare le Arche e distruggerle, prima che l'Ordine possa utilizzarle. Sempre se vogliamo continuare a vivere».

Winston abbassò gli occhi, a fissarsi le punte logore delle scarpe.

«Dì, hai qualche idea?» chiese, calciando il mozzicone di sigaro ai suoi piedi. Nestorius scosse il capo.

«Mio caro ragazzo, no» rispose. «Tutto ciò che puoi fare, è scendere nella bocca del leone».

«Non ero bravo in catechismo» fece Winston. «Cosa vuol dire?»

«Che hai un bel problema».

Winston annuì, lasciandosi scappare una risata sommessa. Dopo un istante di silenzio, si avvicinò al frate, battendogli amichevolmente una mano sulla spalla.

«Sai una cosa?» disse. Nestorius alzò gli occhi a guardarlo.

«Cosa?» chiese. Winston sorrise.

«Adesso me la berrei davvero, una tazza di grog».

 

 

 

 

 



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Capitolo 2
*** prologo 2 ***


Avonlea, Nuova Scozia, 2 Settembre 1895

 

 

 

 

Il pomeriggio aveva gradualmente lasciato il posto alla sera e l'ultima luce del sole si stendeva obliqua sugli alberi dalle chiome macchiate di ruggine e tra gli steli dell'erba selvatica piegata dal vento. Seduto sui gradini di legno di quella piccola casetta spersa nel verde, Jean osservava semplicemente ciò che gli capitava davanti agli occhi: la densa cortina di siepi, lungo il limitare del campo; il lento svolazzare di qualche gabbiano, che osava spingersi più lontano degli altri dalla scogliera. E intanto, ascoltava il suono del vento, che passava veloce tra gli aghi sottili dei pini e tra le foglie ormai stanche delle querce, riunite in un piccolo boschetto dietro casa.

Era appena settembre, ma già l'aria cominciava a farsi più fresca. D'altra parte se lo aspettava. Charlottetown non era che a poche centinaia di chilometri da Boston. Quello era un clima a cui era già abituato.

«Se resti lì, ti buscherai un raffreddore».

Jean si voltò appena. Sorrise. Aspettò che lei si avvicinasse, ma quando tornò a voltarsi era già sparita, rientrata dentro casa.

Forse avrebbe dovuto andarsene, pensò, rigirandosi il cappello tra le mani. In effetti, sarebbe stato meglio. Aveva capito subito che lei non gradiva la sua presenza, anche se non gli era del tutto chiaro il perché.

Restò a fissare il vialetto di ghiaia bianca, costeggiato da pallidi ciuffi di Nontiscordardime. Qualche fiore resisteva ancora eroicamente, proprio come lui resisteva su quei gradini, solo e in un luogo dove non era desiderato.

Un carro passò rotolando le sue grosse ruote sulla terra battuta della strada, che costeggiava la siepe. L'uomo che lo guidava lanciò un'occhiata forse troppo lunga e curiosa in direzione di Jean. Lui abbassò gli occhi, quasi si vergognasse.

Non c'era nulla da fare. Era meglio andarsene.

«Elektra?»

Jean bussò alla porta, scostandola leggermente. In casa persisteva un delicato aroma di tè alla menta. La tavola era già apparecchiata per due e sul fornello, in una pentola lustra, bolliva il brodo per la cena.

Lui fece qualche passo dentro casa. Non poteva andarsene così, anche se forse lei non se ne sarebbe preoccupata più di tanto, visto che l'aveva seguita fino a casa contro la sua volontà.

Ma sì. Al diavolo.

Fece per andarsene, quando udì il suono gracchiante di un grammofono. Qualcuno stava ascoltando il concerto per violino in la minore di Bach. Jean si sfilò il cappello e con passo incerto si avvicinò alla porta del salotto.

Elektra stava in piedi, appoggiata con le mani al mobile su cui si trovava un grosso grammofono. Dava le spalle alla porta e non si voltò neppure quando questa si aprì, cigolando. Jean notò un suo debole movimento del capo, ma poi lei tornò ad abbassarlo quieta, indifferente. Quando il disco finì, lei sollevò la pesante puntina dal piatto e lasciò che la molla si scaricasse del tutto, prima di togliere il disco.

«È davvero una bella registrazione» fece Jean.

«Non è la registrazione ad essere bella, ma la composizione» lo corresse Elektra, senza mai voltarsi a guardarlo. Lui annuì, senza scoraggiarsi. Almeno era riuscito a farla parlare.

«Hai ragione. È incredibile come Bach riesca a costruire un intero brano partendo da una semplice cellula melodica. Ha creato una struttura che da un piccolo particolare cresce fino ad espandersi quasi all'infinito, e l'ha fatto basandosi interamente sulla proporzione aurea. Davvero stupefacente».

Elektra si voltò a guardarlo. Nei suoi occhi balenò una luce di sincera curiosità.

«Non sapevo ti intendessi di musica» disse. Lui sorrise.

«Non me ne intendo, infatti. Ma quando ero a Berlino, ho avuto modo di assistere a diversi concerti. Così ho imparato alcuni trucchi su come ascoltarla. In fondo, è davvero molto simile alla matematica».

Lei sorrise, abbassando gli occhi.

«Sei sempre stato un ragazzo in gamba» mormorò, inarcando un sopracciglio. Poi raddrizzò le spalle, sospirando.

«Ho chiamato il signor Blumenthal... gestisce un emporio, giù a Charlottetown. Ha detto che passerà a caricarti appena avrà finito il suo giro di consegne».

«Va bene».

Lei tacque, tormentandosi le mani per un attimo. Continuava a dargli le spalle, e ora si era spostata alla finestra.

«Non posso farti restare, lo capisci?»

«Penso di sì».

Lei scostò la tenda. Jean si rigirò per l'ennesima volta il cappello tra le mani.

«Hai davvero un bambino bellissimo» fece, non sapendo che dire. Comunque era vero. Lo pensava sul serio.

«Grazie» fece lei. «Assomiglia molto a suo padre, vero?»

«Non direi» fece lui. Lei si voltò, fissandolo sorpresa.

«Assomiglia molto di più a te. Direi che è la tua copia».

Elektra lo fissò stranita per qualche istante, quindi il suo volto si addolcì, e i suoi occhi si inumidirono leggermente.

«Perché non sai come guardarlo» disse. Jean ammiccò debolmente.

«Forse è così» convenne.

«Perché sei qui?» gli chiese lei improvvisamente, dura. Sorpreso da un cambiamento tanto repentino, lui non seppe cosa rispondere. Per qualche istante restò come paralizzato, a cercare una parola qualsiasi a cui aggrapparsi.

«Te l'ho detto» farfugliò «io...»

«No, non intendevo quello» lo interruppe lei. «Perché io».

Lui restò a fissarla a bocca aperta. Quindi chinò il capo.

«Sei la prima che mi è venuta in mente» confesso. Lei sbuffò.

«E dovrei sentirmi lusingata?»

«No, non intendevo questo».

Elektra si allontanò dalla finestra, percorrendo la stanza fino alla libreria. Gettò un'occhiata a un libro, lo raccolse dallo scaffale e lo aprì, richiudendolo subito dopo.

«Hai idea della fatica che ho fatto a lasciarmi tutto alle spalle?» esclamò, all'improvviso. «Dopo la morte di Elusys e lo scioglimento del nostro equipaggio, l'unica cosa che avevo in mente era cercare di rifarmi una vita lontano dal suo ricordo e dalla memoria di quei giorni terribili. E tu vieni qui, come se niente fosse, a distruggere tutto quello che ho così faticosamente creato! Ma chi ti credi di essere?»

Jean la fissò in silenzio, senza ribattere.

«Io ero innamorata di lui, e lui ha scelto di sacrificarsi per Nadia, per sua figlia. Non ha pensato che aveva me, e che avevo suo figlio, dentro di me, che stava per nascere. Ma io l'ho accettato, perché sapevo che era la sua missione... distruggere Gargoyle ad ogni costo e garantire a Nadia, all'unica sopravvissuta della sua famiglia, la vita che a causa sua non aveva mai avuto. Ma adesso... adesso io ero finalmente libera, prima di incontrare te!»

«Mi dispiace».

«Ti dispiace, certo».

Nessuno disse nulla per diverso tempo. Dalla cucina arrivava il confuso gorgogliare della pentola sul fuoco. Un orologio a pendola suonò le sette e mezza. Dopo pochi istanti, il suono degli zoccoli di un cavallo e lo sfrigolio della ghiaia pestata lungo il vialetto, annunciarono l'arrivo di un carro.

«Credo sia per me» fece Jean, con un sorriso mesto. Elektra non alzò neppure gli occhi. «Comunque, grazie lo stesso».

Lui fece per uscire, ma lei lo trattenne, richiamandolo.

«Non ci sono possibilità di recuperarla» fece. «Anche se volessi, non potresti mai raggiungerla. Lei ha utilizzato una Merkaba, per partire... sai cos'è?»

Lui nicchiò. «No, non ne ho idea».

Elektra sospirò. «Ogni corpo possiede una particolare energia latente, qualcosa che lo anima dall'interno e che lo circonda... è come una specie di aura».

«Capisco» fece lui.

«Gli esseri viventi, al contrario delle cose, possiedono un'aura decisamente più sviluppata: noi, infatti, al contrario di un oggetto, non possediamo solo un corpo fisico, ma anche uno mentale e uno emotivo, spirituale. La Merkaba è l'unione di queste tre caratteristiche. Puoi immaginare un tetraedro, del quale ad ogni punta corrisponde un aspetto del nostro essere: fisico, mentale, spirituale».

Jean annuì, socchiudendo gli occhi.

«La Merkaba rappresenta l'origine della vita. È la struttura energetica fondamentale che ha dato la forma all'uomo e all'universo vivente. Quando gli Atlantidei crearono l'uomo, lo fecero manipolando l'energia della Merkaba, un'energia contenuta nelle Pietre Sacre del nostro popolo. Tuttavia, dominare la Merkaba non è cosa da tutti. Solo coloro che possiedono un'energia capace di entrare in risonanza con quella contenuta nelle Pietre, possono realmente dominare la Merkaba. Nadia può farlo perché è l'ultima regina di Atlantide: la sua stirpe discende direttamente dagli dei del nostro popolo. Nel suo sangue, scorre la stessa energia contenuta nella Pietre».

«Ma cosa può fare la Merkaba, di preciso?»

«Cosa?» fece Elektra, aprendo le braccia. «Qualsiasi cosa. Per esempio, può aprire una porta dimensionale, capace di collegare tra loro punti lontanissimi dell'universo. Può arrivare a cancellare la forma fisica di un corpo e di tutto ciò che lo circonda, trasformandolo in pura energia capace di viaggiare a velocità superiori di miliardi di volte a quella della luce. Ecco, per esempio, cosa può fare».

Jean impallidì. Si trattava di un'energia davvero spaventosa.

«Quindi, non c'è nulla che tu possa fare. Un semplice essere umano non può manipolare la propria energia fondamentale, e non c'è modo per te di ottenere una Merkaba. Anche se tu avessi una Pietra, cosa che non hai, non sapresti mai come utilizzarla. E se dovessi comunque riuscire a liberare in qualche modo l'energia che essa racchiude, non potresti mai dominarla e finiresti col venire annientato».

«Ho capito».

Elektra tacque. Lo fissò, accesa in volto. Aveva parlato velocemente, con il fiato corto. Forse era stata troppo brusca e dura e ora provava un leggero senso di colpa.

«Mi dispiace» mormorò. «Lei non c'è più. Tutto ciò che puoi fare, è cercare di abituarti a ciò che resta, e vivere per quello».

Jean sorrise, senza alzare gli occhi. Si infilò il cappello e la guardò.

«Ti chiedo scusa se ti ho importunato» fece. «Grazie ancora per il tuo aiuto».

Elektra lo fissò mentre scompariva dietro lo stipite della porta. Ascoltò i suoi passi risuonare sul pavimento di legno del corridoio, e udì la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi con un cigolio. Il vento che si intrufolò risalì il corridoio, riversandosi nella stanza e raggelandola, per un brevissimo istante. Quando la porta si chiuse, sembrò che la stanza, o forse l'intera casa, non fosse mai stata così calda. E silenziosa.

Fuori, la temperatura era scesa ancora. Jean si sollevò il bavero della giacca, chiudendoselo contro al collo. Il signor Blumenthal, seduto a cassetta, attendeva pazientemente, avvolto nel suo pastrano. Quando vide il ragazzo scendere i gradini, gli rivolse un'occhiata obliqua.

«È lei che deve andare in città?» chiese, brusco. Jean annuì.

«Jean!»

Si voltò, senza troppa energia. Elektra era sulla porta. Lo guardava con un'espressione vagamente confusa, i biondi capelli raccolti in una semplice conocchia. Il vento le agitava quei pochi boccoli che le erano scivolati ribelli sulle tempie. Lui la vide rabbrividire, e serrarsi il maglioncino di lana rosa sul petto.

«Hai un posto dove andare?»

Lui scrollò le spalle.

«Troverò qualcosa».

Lei si morse il labbro. Quindi, «Se hai fame, c'è della minestra».

Jean sorrise. «Non voglio disturbarti oltre» fece. Lei ricambiò il suo sorriso, scostandosi un ricciolo dal volto.

«Voglio solo che ti fermi a mangiare qualcosa. Sono stata troppo brusca, e voglio farmi perdonare. Puoi sempre partire domani».

Lui la fissò a lungo, quindi si volse a guardare il signor Blumenthal, che aspettava sul carro. L'uomo si scosse leggermente, tossendo.

«Allora, che fa?» chiese.

Jean si calcò il cappello in testa, e sorrise.

La porta della piccola casa di legno si chiuse, mentre il signor Blumenthal, chino su se stesso, schioccava le redini, avviandosi da solo sulla via del ritorno.



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Capitolo 3
*** 1 ***


Avonlea, Nuova Scozia, 30 Marzo 1896 – Otto mesi dopo

 

 

 

 

Con un colpo secco, l'ascia andò a conficcarsi nel ceppo di legno. Jean guardò il cumulo di legna spaccata ai suoi piedi, tergendosi il sudore dalla fronte. Era soddisfatto. Aveva fatto un buon lavoro.

Se tutto andava bene, pensò mentre staccava l'ascia dal ceppo, probabilmente quella era l'ultima legna dell'anno. Presto la primavera sarebbe arrivata, portandosi via anche l'ultima neve che ancora spruzzava di bianco i campi addormentati, o che resisteva raccolta in cumuli ingrigiti ai lati della strada. E con essa, si sarebbe dissolto ciò che ancora sopravviveva di un passato ammantato di malinconia e che lentamente, dolorosamente, era stato ormai dimenticato.

Con un sospiro, Jean si infilò il manico dell'ascia nella cintura, quindi si chinò, raccogliendo alcuni ciocchi di legna che si accatastò tra le braccia. Mentre si incamminava verso casa, la rada neve sotto i suoi piedi scricchiolava sordamente, segno del gelo che ancora non si decideva ad allentare la sua morsa. Erano ormai otto mesi, che si trovava ad Avonlea. Due intere stagioni erano passate, un periodo così lungo da segnare insieme la fine di una vita, nonché l'inizio di qualcosa di nuovo.

Risalì i gradini, battendo i piedi per liberarsi dei cristalli di ghiaccio che erano rimasti attaccati agli scarponi. Quindi allungò una mano verso la porta, tenendola aperta con il piede. Non appena fu in casa, un calore diffuso lo avvolse, e con esso il tiepido aroma del caffè appena fatto.

«...e io gli ho detto ''Patty, secondo me quella lì nasconde qualcosa'' ma lei ha fatto finta di niente. Niente, capisce? Come se fossi stupida! Beh, peccato che poi abbia saputo che aveva parlato con la moglie di Sparks, sa... quella della fattoria, lungo la strada... e quella ne sa una più del diavolo, mi creda...»

Jean entrò in sala, carico di legna da ardere. Lanciò un'occhiata veloce alla donna che occupava la poltrona accanto al camino, intenta in un monologo inframmezzato solamente da qualche rapido sorso di caffè. Non appena questa lo vide, un sorriso le balenò in volto. Agitò la mano, alzando un dito verso di lui, trangugiando quel po' di liquido che le era rimasto nella tazza.

«Oh» esordì «proprio lei!»

«Piacere di rivederla, signora Fitzsimmons». Rassegnato, Jean si chinò vicino al camino, impilando ordinatamente i pezzi di legna da ardere. «Posso esserle utile?»

«Giovanotto, certo che puoi essermi utile» fece la signora Fitzsimmons. Elektra, in piedi di fronte a lei, se ne stava in silenzio appoggiata al lavello. Non appena Jean la guardò, lei gli lanciò uno sguardo carico di scuse. Lui scosse il capo, alzandosi in piedi. Inutile insistere. Avrebbe messo a posto la legna più tardi.

«Ho bisogno di una credenza» fece la signora Fitzsimmons. Jean si passò una mano dietro la nuca. Chissà perché, ma si aspettava una cosa del genere sin da quando aveva consegnato alla signora Johnson una nuova credenza in stile Liberty, nemmeno una settimana prima.

«Una credenza, eh?» ripeté. Guardò vagamente Elektra, che scrollò le spalle, sorridendo.

Jean si frugò nelle tasche dei pantaloni, estraendo un foglietto di carta spiegazzato e un mozzicone di matita. Si portò la matita alle labbra, mentre lisciava svogliatamente il foglio contro il tavolo.

«Come la vorrebbe?» chiese, alzando rassegnato gli occhi sulla donna.

«La vorrei con gli sportelli. Non mi piace che la roba stia all'aria... sì, con tanti sportelli. Molti di più del normale. E li vorrei con quei vetri decorati, quelli che adesso vanno così di moda...» disse lei, scuotendo il capo come disapprovasse la cosa. Jean inarcò un sopracciglio. Spostò gli occhi su Elektra, che si voltò, soffocando a stento una risata.

«Intende vetri liberty?» fece.

«Esatto» disse la donna, annuendo vigorosamente. «Liberty».

«Dovrò farli arrivare da Montreal» osservò Jean, cautamente. «Ne è proprio sicura? Le costerà un po'...»

«Il prezzo non è un problema. Pagherò quel che c'è da pagare. Non sono mica alla fame! Non voglio che si dica di me che non so stare al passo con i tempi. Anche se è solo una sciocchezza, capirà... cosa vuole che mi importi...»

Jean preferì non insistere. Conosceva fin troppo bene la cocciutaggine della signora Fitzsimmons.

«Per quando sarà pronta?»

«Direi per il mese prossimo» fece Jean, meditabondo. «È per via dei vetri, altrimenti sarebbe pronta in due settimane».

«Il mese prossimo andrà benissimo. Ma che sia il mese prossimo, non un giorno di più».

Lui fece una smorfia.

«Farò il possibile» aggiunse, con un sorriso conciliante.

«Molto bene».

La signora Fitzsimmons fece per alzarsi ed Elektra si affrettò a prenderle la tazza di caffè che ancora reggeva tra le mani. La donna la ringraziò con un sorriso caloroso.

«Suo cugino è un ottimo falegname, signorina» disse la vecchia, avvolgendosi nel suo scialle. «Siamo fortunati... ad averlo tra noi».

Elektra arrossì, incontrando lo sguardo carico di allusioni della signora Fitzsimmons. Questa guardò prima lei poi Jean, ridacchiando sommessamente.

«Se ne va di già?» disse Jean, ficcandosi le mani in tasca. «Io e mia cugina... saremmo lieti di averla per cena».

Rise. La situazione lo divertiva parecchio. Elektra, al contrario, sembrava piuttosto imbarazzata e lo squadrò torva. In un attimo, lui cancellò ogni traccia di allegria dal viso.

«Magari un'altra volta» fece la donna. «Ho tante di quelle cose da fare... arrivederci, e grazie per il caffè, miss Lugensius. Signor Lartigue..»

«Arrivederci» rispose Jean, tenendole cortesemente aperta la porta. La osservò allontanarsi lungo il vialetto, quindi si voltò, sempre con le mani in tasca. Elektra si era rimessa a sciacquare le stoviglie. Lo guardò di sbieco, come a rimproverarlo del suo atteggiamento sconsiderato, mentre si asciugava le mani col grembiule che portava allacciato in vita.

«Immagino che tra le tante cose da fare, ci sia anche lo spettegolare su di noi» mormorò cupa. Lui rise, avvicinandosi.

«E se anche fosse?» disse. «Come se fosse la prima, a farlo».

Elektra lo guardò, quindi scoppiò a ridere.

«Comunque, quella donna è incredibile» fece. «Non può restare indietro a nessuno. Non appena ha visto la credenza nuova che hai fatto per la signora Johnson, ne ha dovuta avere subito una uguale».

«Ma con molti più cassetti...»

Elektra emise una risata argentina. Affascinato, lui restò ad osservarla; finché lei, sorpresa, non alzò gli occhi e si portò una mano a coprirsi le labbra.

«Che c'è?» fece.

«Sai, immagino che ormai l'intero paese sappia che non sono esattamente tuo cugino».

Elektra rise di nuovo.

«E credi che mi interessi qualcosa?»

Lui la strinse, prendendola per la vita. Stupita, Elektra avvampò, mentre lui la avvicinava al suo corpo.

«Di certo non interessa a me» fece. Lei sospirò, piegando la testa di lato ed esponendo il collo ai suoi baci.

«Che fai?» mormorò, confusa. Un sorriso deliziato si fece largo sul suo volto e lei si alzò sulle punte ad abbracciare Jean, gli occhi chiusi. Percorse con le mani la sua schiena forte e le spalle larghe. Era così cambiato... praticamente irriconoscibile, rispetto al ragazzo fragile e smagrito che otto mesi prima si era presentato alla sua porta. Quello che aveva davanti, adesso, era proprio un uomo. Un uomo che amava terribilmente.

«Jean...»

Lui le sbottonò lentamente il vestito, slacciando uno ad uno i bottoni che si trovavano sulla schiena. Quando avvertì il tocco delle dita di lui sulla sua pelle, un brivido di eccitazione la percorse interamente. Chiuse gli occhi, lasciando che lui la spogliasse come voleva. Si morse le labbra, trattenendo un gemito.

«Non qui, pazzo» mormorò, poco convinta. Per tutta risposta, lui le scostò i capelli dal volto, baciandola sulla bocca.

«Perché?» disse. «Non sarebbe la prima volta, né l'ultima... voglio sperare».

«Perché c'è Lucas, in casa». Tentava di allontanarlo, ma in realtà non era che il suo modo di giocare con lui. Per una qualche ragione, quando erano insieme, lei perdeva tutta la propria razionalità e si trasformava in una ragazzina. Una ragazzina innamorata e desiderosa di quel vigore che il corpo di lui riusciva così profondamente e intimamente a trasmetterle.

Era qualcosa che la spaventava, ma che la inebriava al tempo stesso e di cui sentiva di non poter più fare a meno.

Elektra rise, voltandosi e tirando le tendine della finestra davanti al lavello.

«Possono vederci...»

Lui la abbracciò da dietro, risalendo dolcemente con le mani fino ai suoi seni, che accarezzò con voluttà. Lei tremò. Sentì che non avrebbe potuto resistere ancora alle sue carezze.

«Lucas sta dormendo e fuori non c'è nessuno» mormorò Jean, ebbro. «A parte forse la signora Fitzsimmons, certo...»

Lei scoppiò a ridere, quindi si voltò, gettandosi tra le sue braccia e prendendogli il volto ricoperto di una folta barba tra le mani. Lo baciò con passione.

«Portami di sopra» gli sussurrò sulle labbra. Lui chiuse gli occhi, restando ad assaporare il profumo intenso dei suoi capelli. «Adesso».

Al che, lui la sollevò; e reggendola tra le braccia, inforcò le scale.

 

 

*

 

 

«...e poi muovila così, facendo attenzione a non incidere troppo la superficie del legno».

Jean alzò le mani dalla pialla, lasciando che il piccolo Lucas spingesse da solo lo strumento. I primi trucioli risalirono attraverso l'apertura di scarico, ricadendo arricciati sul bancone come tanti boccoli spessi. Con un sorriso di soddisfazione per quella strana e nuova magia, Lucas alzò gli occhi vivaci sul volto di Jean.

«Bravo. Hai visto, com'è semplice?»

«Lo è se si ha un bravo maestro».

Elektra varcò la porta del laboratorio. Reggeva tra le mani un vassoio ricoperto da un fazzoletto, e una caraffa con due bicchieri. Jean le sorrise, andandole incontro.

«Grazie» fece lei, lasciando che lui l'aiutasse. «Vi ho portato qualcosa da mangiare, nel caso vi venisse fame».

«Mamma, hai visto?» fece Lucas, ancora con le mani sulla pialla. «Sto lavorando».

«Sei bravissimo» rise lei.

«Se continui così, la prossima volta la signora Fitzsimmons chiederà a te di prepararle una dispensa» commentò allegro Jean. Elektra gli passò una mano sul braccio, sorridendo.

«Mio dio, speriamo di no» fece, con una smorfia significativa.

«Mamma, ora però vai» saltò su Lucas, la bocca ancora piena e le labbra cosparse di briciole di torta. «Noi abbiamo da fare».

Elektra drizzò il busto, assumendo un'espressione di divertito stupore.

«Assolutamente» fece, portandosi una mano alla fronte. «Non sia mai che io disturbi voi ometti».

«Noi ometti ne avremo ancora per un'ora» fece Jean, prendendole la mano. «Poi Lucas andrà a finire i suoi compiti, vero?»

Il bambino annuì distrattamente. Si era già rimesso al lavoro, e osservava con esaltazione i trucioli che fuoriuscivano dalla pialla.

«Non sarà pericoloso?» chiese Elektra, stringendo le mani a Jean. Lui nicchiò.

«Non più che giocare in cortile. E poi, lo tengo sempre d'occhio».

Lei annuì, rasserenata. «Va bene. Allora vi lascio lavorare».

Non vista, lasciò un bacio veloce a Jean, arrossendo quando lui la trattenne più del dovuto. Quindi si piegò sul figlio, abbracciandolo e posandogli un bacio tra i capelli biondicci. Il bambino si divincolò, imbarazzato.

«Mamma, dai!» si lamentò. Elektra rise.

«Va bene, scusa. Dimenticavo che ormai sei grande».

Lanciò uno sguardo di intesa a Jean e si allontanò, tendendogli una mano che lui accarezzò fugacemente, mentre lei gli passava accanto. Quindi uscì, richiudendosi la porta alle spalle. E con gli occhi chiusi, la schiena appoggiata alla porta, sospirò.

Grazie.

Era così felice. Finalmente, aveva tutto quello che aveva sempre desiderato. Una famiglia, l'amore, un futuro. Tutto quello che le era stato così brutalmente strappato, ora l'aveva riavuto con gli interessi. Non avrebbe potuto desiderare di più.

Stava per rientrare in casa, quando distrattamente alzò gli occhi sul vetro della porta. Un riflesso sbiadito balenò alle sue spalle, e lei impallidì, quasi avesse visto uno spettro.

«No...»

Si voltò. Nessuno.

Eppure, era convinta di aver visto proprio lui.

Sto impazzendo...

Si rifugiò in casa, assicurandosi che la porta fosse ben chiusa. Quindi, con le mani che le tremavano, si avvicinò al tavolo, dove era posata una caraffa e alcuni bicchieri. Ancora sconvolta, si versò un bicchiere d'acqua, che bevve tutto d'un fiato. Il liquido scorse freddo lungo la gola e le placò subito l'ansia; anche il cuore sembrò rallentare la sua folle corsa, mentre lei scostò una sedia e vi si abbandonò sopra, sorreggendosi la fronte con le mani. Respirò lentamente, cercando di fare il vuoto nella sua testa.

Non puoi tormentarmi. Non ancora, non adesso.

Aprì, gli occhi. Con tutta la cautela che le dettava la paura sollevò lo sguardo, scrutando tra le ombre che la luce della sera gettava intorno a lei. La casa era immersa nel silenzio. Il ticchettio costante della pendola risuonava come all'interno di una caverna vuota, mentre le tende alle finestre lasciavano trasparire un chiarore dorato e ovattato, che si spalmava liquido e denso sui mobili e le pareti, ricoprendo tutto come una glassa spessa.

Come una furia, Elektra si precipitò alla libreria. Scostò alcuni libri, gettandoli a terra e allungando la mano sul fondo dello scaffale. Cercò, muovendola a tentoni, mentre si mordeva le labbra fino a farle sanguinare. Quando le sue dita toccarono quella superficie conosciuta, il cuore mancò di un battito.

C'è ancora.

Il taccuino era un semplice quadernetto spiegazzato. Era nuovo, all'apparenza, ma già completamente utilizzato. Elektra lo aprì, scorrendone velocemente le pagine colme della sua scrittura. Arrivata al fondo, restò a fissarlo per qualche istante, quindi lo richiuse con entrambe le mani.

Non poteva continuare a tenerlo. Era quello che continuava a tormentarla, procurandole quei sogni terribili e quelle visioni angoscianti. Il segno della sua vigliaccheria.

Non posso lasciare che sappia. Non posso perderlo.

Mentre preparava il fuoco nel camino, continuava a pensare a cosa sarebbe potuto accadere, se lui avesse scoperto quel diario. Era stata una stupida. Nemmeno sapeva perché, dopo che lui si era presentato a casa sua, si era messa a fare di nascosto tutti quei calcoli; e nemmeno sapeva perché li avesse conservati. Forse per curiosità, per la solita, maledetta curiosità che l'aveva animata per tutta la vita. Era così ridicolo. Lei e lui erano così uguali, sotto questo punto di vista. Così interessati a capire, a sapere... tanto che erano pronti ad andare contro la loro stessa felicità, e tutto per il solo gusto di conoscere. Era per questo che si era sempre trovata tanto bene con lui. Perché, come lei, amava la magia della conoscenza.

Una conoscenza che, però, avrebbe rischiato di cancellare per sempre tutto quello che ora la vita le aveva regalato.

Mentre attizzava il fuoco, scrutò tra le fiamme che le si riverberavano nel profondo degli occhi. La verità è che non si aspettava una cosa del genere. Mai avrebbe pensato che un giorno, inspiegabilmente, quel ragazzo avrebbe fatto breccia nel suo cuore indurito dal tempo e dalla solitudine. Ma era accaduto, ed era qualcosa a cui non avrebbe mai rinunciato.

Avrebbe dovuto dirglielo quando era ancora in tempo. Non avrebbe dovuto mentire allora, quando lui non significava niente; nulla più che un fastidioso ricordo, un'ombra emersa da un passato difficile da dimenticare. Ma adesso, adesso che lo amava, era troppo tardi.

Non lo avrai. Non soffrirò ancora a causa tua.

Guardò il quaderno. Il fuoco ardeva vigoroso, attaccando con le sue lingue crepitanti la legna che si spaccava in un balenare di scintille.

Quel giorno, le aveva chiesto se sarebbe stato possibile ritrovarla. Lei gli aveva detto di no, e lui se n'era fatta una ragione.

Ma non era vero. Il modo esisteva.

Solo che lui non l'avrebbe mai saputo.

 

 

 

 



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Capitolo 4
*** 2 ***


Hannover, residenza Wallenstein, 30 Marzo 1896

 

 

 

 

«Un altro bicchiere di champagne, signore?»

Winston allungò distrattamente la mano verso il vassoio che il cameriere, servizievole, gli stava porgendo. La festa era nel pieno del suo svolgimento. La sala era gremita di uomini in smoking, accompagnati da dame i cui fruscianti abiti di lamè e chiffon volteggiavano seducenti, producendo un sottile mormorio di seta che si levava come un sospiro sopra gli inconsistenti valzer che l'orchestra, dal suo cantuccio, continuava infaticabile a snocciolare.

Con un dito, Winston si rimise discretamente a posto la maschera sul naso. Una semplice mascherina nera, consegnatagli per posta assieme alla partecipazione a quella festa esclusiva dopo che fu riuscito a farsi ammettere tra gli invitati. Era stato piuttosto semplice, a dir la verità, entrare a quella festa. Era bastato sventolare qualche banconota qua e là, durante gli ultimi otto mesi passati a vagare per l'Europa in cerca della residenza in cui si nascondeva Wiesbaden. Alla fine, tutto quello scialacquare aveva dato i suoi frutti. In Germania il nome di Patrick Galloway, l'alter ego che Winston aveva scelto per sé, cominciava a viaggiare sulla bocca di tutti. Sembrava quasi che una festa non potesse essere la stessa, se lui non era presente. E aveva perso il conto di quanti uomini inutili aveva conosciuto, di quanto champagne aveva bevuto e di quante amanti si era lasciato alle spalle, in tutto quel tempo.

Avrebbe potuto anche abituarsi a una condizione come quella. Se fosse capitata in un momento diverso, è ovvio.

«Mr. Galloway!»

Winston si volse. Un uomo grasso, dai radi capelli ingrigiti, si avvicinò con il bicchiere levato, accompagnato al braccio da una giovane ragazza le cui forme generose erano fasciate in un audace abito di seta azzurra.

«L'ho riconosciuta subito» fece l'uomo, con una risata gracchiante. «È difficile dimenticarsi di lei».

«Per via del suo portamento» ammiccò la ragazza, occhieggiando Winston con voluttà attraverso la sua sottile mascherina, bordata di pizzo. Winston sorrise leggermente, accennando un inchino col capo.

«Lei è molto gentile, Fraulein Büchner» disse, con un guizzo degli occhi «oltre che incantevole».

La ragazza arrossì, sorridendo, prima di nascondere maliziosamente il volto dietro al ventaglio.

«È la prima volta che porto mia figlia a una festa di questo tipo» fece l'uomo grasso, puntellandosi orgogliosamente sui piedi. «È così emozionata, sa... non è abituata» sussurrò, quasi credesse di non essere sentito. Winston spostò gli occhi sul volto della ragazza, che lo ricambiò con un sorriso fin troppo allusivo.

«Già» fece lui, schiarendosi la voce. «Immagino».

«Ha già incontrato il barone?» domandò l'uomo. Winston si portò il calice alle labbra, vuotandolo in un sorso.

«Non ancora» fece, posando il bicchiere vuoto sul vassoio di un cameriere che passava proprio in quel momento. «Spero di avere più fortuna col procedere della serata».

«Per quanto mi riguarda, sono mesi che cerco di avvicinarlo. Ma sento che questa è la volta buona» mormorò Büchner, tra i denti. «Sa, sono riuscito a oliare un po' gli ingranaggi... non so se mi spiego».

Winston piegò le labbra in una debole smorfia, piuttosto disgustato dalla risata sguaiata che deflagrò nella bocca di quel piccolo ometto ripugnante. Persino sua figlia sembrò imbarazzata da tanto cattivo gusto, perché impallidì, lanciando a Winston uno sguardo rammaricato.

«Crede che abbia già raggiunto la festa?» indagò Winston, spostando vagamente gli occhi sui volti anonimi dei presenti. L'uomo nicchiò, assumendo improvvisamente un tono cospirativo.

«No, ma ho visto qualcuno dei suoi, qui» fece. «Vede quell'uomo, laggiù, quello completamente calvo?» disse, accennando in direzione di un uomo alto e magro, con gli occhi stretti e incavati e gli zigomi sporgenti, il cui naso lungo e affilato reggeva due piccole lenti dai contorni affusolati. «Quello è Hofmann, il banchiere. È uno svizzero, che sta sempre zitto... difficile da avvicinare» sibilò. «Si dice che sia lui a gestire i conti del barone Wiesbaden, o almeno così mi hanno detto. Se quello è qui, per forza dovrà esserci anche il barone».

Winston strinse gli occhi, cercando di imprimersi nella memoria il volto del banchiere. Lo vide rivolgere un pallido accenno di sorriso a un uomo che gli parlava fin troppo entusiasticamente a poca distanza dal volto, gettare un'occhiata stanca al suo orologio da taschino, e poi allontanarsi dopo essersi congedato con un rigido quanto rapido inchino.

«Herr Büchner, Fraulein... vogliate scusarmi» fece Winston improvvisamente, senza nemmeno guardarli «ma devo allontanarmi per un attimo».

Un'espressione di stupore si congelò per un istante sul volto grassoccio di Büchner, che fissò Winston con evidente desolazione. Era quel tipo d'uomo che ama circondarsi di conoscenze altolocate; e farsi vedere a parlare con uno come Winston, non poteva che giovare al suo status. Tuttavia, poiché non poteva permettersi di contrariarlo, piegò il suo volto, sforzandolo in un sorriso accondiscendente.

«Ma certo, certo... capisco assolutamente, Mr. Galloway... un uomo come lei...»

«Sarò lieto di parlare ancora con voi più tardi» fece Winston, reclinando elegantemente il capo. Büchner si mostrò più che contento di quelle scuse e si allontanò tutto baldanzoso, mentre la figlia fece scivolare del tutto accidentalmente in mano a Winston la chiave della propria camera. Lui la ficcò velocemente in tasca, sollevando gli occhi verso di lei, che lo salutò con un battito di ciglia e un'espressione sul volto che non lasciava alcuno spazio all'immaginazione. Con una smorfia divertita, Winston si infilò le mani in tasca e in un attimo si mischiò alla folla.

Nonostante la confusione, non era per nulla difficile seguire il banchiere. Winston non era certo basso, ma quell'uomo era ancora più alto di lui e la sua testa lucida come uno specchio svettava sopra le altre senza grossi problemi. Tenendosi a debita distanza, Winston osservò Hofmann sgusciare fuori dalla calca che assembrava il salone e infilarsi lungo l'ampia scalinata semicircolare che conduceva ai piani superiori. Per evitare di dare troppo nell'occhio, Winston si fermò davanti al buffet, sgranocchiò qualche tartina e ingollò un bicchiere di vino bianco, sempre mentre controllava dietro quale porta Hofmann aveva deciso di sparire.

«Gradisce altro, signore?»

Winston alzò la mano in segno di diniego, lasciando al cameriere il proprio bicchiere vuoto. Quindi, con disinvoltura, si avviò lungo la scalinata, abbottonandosi la giacca dello smoking.

Dalla balconata era possibile osservare il salone nella sua ampiezza. In quel momento dovevano essere presenti almeno duecento o trecento persone, che si accalcavano in una massa indistinta di corpi ingarbugliati. Winston si allontanò, colpito da un improvviso senso di nausea per quella visione confusa di colori e di voci.

La porta dietro cui Hofmann era scomparso si trovava poco più avanti, sul lato sinistro della balconata. Winston avvicinò la mano alla maniglia di ottone. Non appena ebbe varcato la porta, due guardie, ferme ai lati del corridoio subito dietro l'entrata, si voltarono verso di lui, precipitandosi a sbarrargli il passaggio.

«Siamo desolati, signore. Questo luogo è interdetto al pubblico».

Winston sorrise, alzando le mani all'altezza del busto. Una delle due guardie si avvicinò, protendendo una mano per sospingerlo fuori con una cortesia piuttosto minacciosa.

«Chiedo scusa, devo essermi perso» commentò Winston. «Cercavo lo studio del barone Wiesbaden».

La guardia lo fissò stupefatta, mentre anche l'altra prese ad avvicinarsi.

«Non c'è nessuno con quel nome, qui» fece la guardia, corrugando la fronte incredibilmente larga. «Per favore, se ne vada».

Winston ghignò. «Oh, sì che c'è» fece. Ormai le guardie lo circondavano.

«E lei come fa a saperlo?»

«Perché sono una spia del Consiglio, e sono stato mandato qui per uccidervi» fece Winston, scrollando le spalle.

Le guardie sbiancarono all'improvviso, praticamente all'unisono. Per la sorpresa, ci misero un momento di troppo a reagire. Con un movimento repentino, Winston parò il pugno che la guardia alla sua sinistra fece per tirargli, quindi lo colpì alla base del collo con il piccolo coltello da ostriche che aveva sottratto non visto al buffet. L'uomo indietreggiò barcollando, gli occhi sbarrati in un'espressione di muto stupore. Si accasciò a terra senza quasi spargere sangue, mentre Winston già schivava l'altra guardia, aggirandola alle spalle per poi colpirla con un calcio dietro al ginocchio. L'uomo cadde bocconi; e con un guizzo Winston lo agguantò, storcendogli la testa e spezzandogli in due l'osso del collo.

Senza perdere tempo, Winston sollevò il corpo senza vita della guardia che aveva ucciso per prima, per evitare che il sangue che perdeva dal collo potesse lasciare qualche traccia sul lucido pavimento di marmo pregiato. Con le labbra tese, si guardò intorno, cercando un luogo dove nascondere i due uomini. Lo individuò in una stanza poco distante, la prima su cui mise gli occhi. Era una camera da letto, ma non sembrava essere utilizzata. Quando Winston vi entrò, ebbe l'impressione che nessuno vi avesse messo piede da parecchio tempo.

Gettò l'uomo nella vasca da bagno, quindi corse a prendere il secondo, facendogli fare la stessa fine. Richiuse la porta del bagno e in seguito quella della camera, riaggiustandosi la giacca e la cravatta. Quindi, come se nulla fosse successo, si allontanò.

Avanzava lungo il corridoio, attento al minimo rumore che potesse giungere alle sue orecchie. All'improvviso, debolmente, una voce risuonò dietro un'elegante porta di mogano. Qualcuno stava parlando ma evidentemente doveva trattarsi di una telefonata, perché era una sola la voce che Winston riusciva a distinguere. Non capì cosa l'uomo stesse dicendo. Parlava sommessamente e la porta era troppo spessa e ben costruita perché si potesse udire qualcosa. Ma riuscì a sentire ugualmente i suoi passi, quando quello fece per uscire dalla stanza.

Velocemente, Winston si addossò alla parete, trattenendo il respiro. Hofmann, perché di lui si trattava, uscì, chiudendosi la porta alle spalle senza nemmeno accorgersi di Winston che, con il cuore in gola, se ne stava letteralmente spalmato contro il muro, in leggera penombra. Il banchiere si allontanò, ignaro di tutto, raggiungendo a passo lento e strascicato la porta che dava sulla balconata. Quando l'aprì, la confusione che si levava dal piano di sotto irruppe tumultuosamente nel corridoio deserto, portando con sé alcune note distorte del Kaiserwalzer che, per qualche istante ancora, continuarono a rimbalzare tra le pareti. Quindi, Hofmann uscì; e il silenzio ritornò a cadere, pesante come un macigno.

Sospirando, Winston uscì dalla penombra, avvicinandosi alla porta. Entrò. Una ricca scrivania decorata ad intarsi occupava il centro della stanza, accanto ad un'ampia finestra chiusa da tende pesanti, color panna. C'era un camino, che ardeva; accanto, una piccola libreria in cui alcuni volumi dall'aspetto molto antico facevano bella mostra di sé. Winston richiuse la porta e si avvicinò furtivo alla scrivania. Frugò velocemente nei cassetti, dove trovò un piccolo portadocumenti. Lo aprì, sfogliandolo. Il nome di Wiesbaden compariva praticamente ovunque, insieme alla sua firma. Non c'erano dubbi. Si trovava nel posto giusto.

Winston afferrò la cornetta del telefono, sulla scrivania. Attese. Dopo pochi istanti, una voce all'altro capo del filo accettò la chiamata.

«Numero uno-cinque-sette-due» mormorò. Silenzio. Winston bussò nervosamente con le nocche sul piano di legno decorato.

«Attenda, signore» fece la voce. Winston attese. Passarono pochi istanti, quindi la voce di Samuel risuonò all'apparecchio.

«Winston» fece. Il suo tono era decisamente sollevato. «Allora ce l'hai fatta?»

«Sono nello studio di Wiesbaden» confermò Winston. «Ti sto parlando dal suo telefono».

Samuel mormorò qualcosa a qualcuno che era là con lui. Quindi «avremo bisogno di almeno cinque minuti per riconoscere la linea e deviarla al nostro centralino. Puoi aspettare?»

Winston estrasse l'orologio dal panciotto, gettandogli un'occhiata veloce.

«Forse sì. Sembra che Wiesbaden non sia ancora arrivato, ma il suo contabile ha effettuato una chiamata. Può essere che arrivi a momenti».

«Faremo il prima possibile» disse Samuel. «Hai avuto difficoltà?»

«No... a proposito» aggiunse. «Mi servono due rimpiazzi. Al piano superiore, corridoio di sinistra».

«Te li mando subito, appena abbiamo la linea».

«Muoviti».

In quel momento, alcuni passi risuonarono nel corridoio. Winston aguzzò le orecchie. Quando fu chiaro che c'era una persona diretta proprio in quella stanza, sbiancò.

«Samuel, lascia perdere quei rimpiazzi» sibilò, prima di riattaccare. «Troppo tardi».

«Ce l'abbiamo! Winston, mi hai sentito...» fece Samuel, dall'altro capo del telefono, appena prima che si interrompesse la chiamata. Con un balzo, Winston si avvicinò alla parete, a fianco della porta.

Attese che i passi si facessero sempre più vicini. Chiunque fosse, si muoveva con una certa fretta. Forse una guardia aveva trovato i cadaveri di quei due uomini. Oppure, si trattava di Hofmann, che si era dimenticato qualcosa. O forse era lo stesso Wiesbaden...

No, non poteva trattarsi di lui. Come minimo, quell'uomo si muoveva circondato da una falange di guardie del corpo.

I passi si spensero davanti alla porta. Winston cominciò a sudare, appiattendosi contro il muro. Chiunque fosse stato, capitava nel momento peggiore. Uccidere qualcuno non sarebbe stato un problema, per lui. Ma farlo proprio nello studio di Wiesbaden, a pochi minuti dal suo possibile arrivo, non era certo il massimo della vita.

Winston si snodò la cravatta, attorcigliandosela attorno al pugno mentre la porta si apriva. Un uomo alto e magro, dal portamento ricurvo, fece il suo ingresso, guardandosi timorosamente attorno. Winston non ci pensò nemmeno un attimo e con un calcio richiuse la porta, gettandoglisi addosso.

Con un grido di sorpresa, l'uomo si voltò, parando le mani davanti al volto.

Non può essere...

«Michael?»

Letteralmente piegato su se stesso, Michael smise di gridare, aprendo cautamente gli occhi. Winston abbassò le mani con cui ancora stringeva la cravatta tesa, fissando il ragazzo con sguardo vacuo.

«Che diavolo ci fai qui?» ringhiò, non appena si fu ripreso dalla sorpresa. Michael, che ancora tremava, scosse le mani, balbettando qualcosa di incomprensibile.

«Io...»

«Idiota, devi andartene!» sibilò Winston, un attimo prima di trascinarlo letteralmente fuori dallo studio. Michael si lasciò afferrare per il bavero, senza osare opporre la minima resistenza. Sempre più nervoso, Winston continuava a lanciargli occhiate storte, stringendo le labbra per non esplodere.

«Non posso crederci» esalò. «Per colpa tua, rischia di saltare tutto».

«Potrei dire lo stesso di te» azzardò Michael. A quelle parole, Winston aggrondò. Si fermò, afferrandolo per la giacca e sbattendolo contro al muro, avvicinando il viso a quello di lui.

«Cosa vuoi dire, con questo?» chiese. «E che fine ha fatto...»

«E voi, chi diavolo siete?»

Winston si volse lasciando andare Michael, che ricadde sulle sue gambe barcollando leggermente. Un uomo alto e magro, con il voto contornato da una sottile barba e agli occhi due lenti perfettamente tonde, fissava alternativamente Winston e Michael con sguardo vago ma per nulla amichevole. Al suo fianco, oltre alla figura allungata e perplessa del banchiere Hofmann, due energumeni dall'aspetto praticamente identico, e una giovane ragazza che ricordava molto...

Lisa?

Doveva trattarsi per forza di lei, anche se così conciata stentava a riconoscerla. Portava i capelli sciolti sulle spalle, acconciati in eleganti boccoli che le incorniciavano il viso. Il suo corpo florido ma aggraziato era elegantemente messo in risalto da un vestito di chiffon dai tenui bagliori giallognoli. Il volto incipriato con grazia e gli occhi delicatamente ombreggiati da un velo di trucco, la rendevano assolutamente affascinante. Non appena lei lo vide, il suo volto si fece pallido, e spostò confusamente gli occhi da Michael a lui, a Wiesbaden.

«Allora, chi diavolo siete?» chiese il barone, piuttosto seccato. Winston fece un passo avanti. Non riusciva a staccare gli occhi da Lisa, che non appena se lo trovò vicino, arrossì, abbassando lo sguardo.

«Permetta che mi presenti, mi chiamo Patrick Galloway e questo...»

«Uccideteli» fece Wiesbaden con un rapido cenno della mano. Winston indietreggiò di spinta, alzando prontamente le mani.

«Non così in fretta» fece. Le guardie si bloccarono per un istante e così fece Wiesbaden, che alzò una mano.

«Vuole aggiungere qualcosa?» chiese. Winston sogghignò.

«Non penserà che sia così facile, uccidermi, vero?» disse. Cercava di ostentare la sua sicurezza, ma non era facile. In quella situazione, senza la sorpresa che giocava a suo favore, era assolutamente impossibile riuscire ad avere ragione di due guardie di quella stazza.

«Io credo di sì» ribatté Wiesbaden, calmo. «Ma posso sempre sbagliarmi».

«Se controlla in quella stanza» fece Winston, ammiccando verso la camera in cui aveva nascosto i due cadaveri delle guardie «troverete il corpo di due dei vostri uomini. Quelli che non volevano farmi entrare qui, per l'esattezza».

Il volto di Wiesbaden si tese. Con un cenno, ordinò a uno dei suoi di controllare. Dopo un attimo, questo fu di ritorno, confermando con un bisbiglio ciò che Winston aveva appena affermato. Un lampo percorse gli occhi vitrei di Wiesbaden, che alzò il mento.

«Sembra che lei sia un uomo pericoloso, Herr Galloway» mormorò Wiesbaden, con calma. «Si è sbarazzato di due dei miei uomini migliori, e questo solo...»

«Anche io amo circondarmi di professionisti» fece, alludendo a Michael. Quello, quando vide Wiesbaden spostare lo sguardo su di lui, impallidì di colpo.

«Io?» farfugliò. Winston gli strinse il braccio.

«Notevole» osservò Wiesbaden. «Un motivo in più per uccidervi entrambi».

«Non vuole nemmeno sentire la mia proposta?»

Wiesbaden socchiuse gli occhi.

«Proposta?»

«Preferirei parlarne nel suo ufficio, se non le dispiace. Stavo giusto cercandolo».

Il barone parve farsi pensieroso. Quindi allungò una mano, prendendo a sfilarsi con gesti misurati gli eleganti guanti di pelle nera.

«Allora si accomodi» disse, con un ghigno. «Le faccio strada».

Winston e Michael si spostarono, lasciando passare la combriccola al seguito di Wiesbaden. Mentre gli sfilava davanti, Lisa lanciò a Winston un'occhiata preoccupata, a cui lui rispose con uno sguardo sprezzante. Sbiancando, lei distolse subito gli occhi.

«Prego, signori. Da questa parte».

La porta si richiuse e Winston attese che Wiesbaden prendesse posto alla sua scrivania. L'uomo si prese tutto il suo tempo, studiando svogliatamente alcuni documenti che il banchiere sollecitamente gli sottoponeva. Dopo alcuni minuti di interminabile silenzio, alla fine Wiesbaden alzò gli occhi.

«Gradisce un sigaro, Herr Galloway?» chiese, con un sorriso gelido.

«Molto volentieri» rispose Winston, sedendosi alla poltrona di fronte alla scrivania. Wiesbaden afferrò una scatola di legno da cui estrasse un lungo sigaro, porgendola poi a Winston. Questi ne estrasse uno a sua volta e se lo portò al naso, annusandolo con piacere; quindi, lasciò che Wiesbaden glielo accendesse.

«Allora» fece Wiesbaden, espirando il fumo con piacevolezza. «Sono tutt'orecchi».

Winston sorrise, accavallando le gambe.

«Il motivo per cui sono qui è semplice» disse. «Voglio partecipare alla sua impresa».

Wiesbaden inarcò un sopracciglio.

«Ma davvero?»

«Assolutamente» convenne Winston con un cenno della mano. Wiesbaden annuì.

«Molto bene. E per quale cifra vuole partecipare?»

«Immagino che più alta sarà la cifra, maggiori saranno gli utili» fece Winston. Wiesbaden annuì.

«Ovvio» fece. «Se desidera acquistare una fetta conveniente, potrei cederle parte delle azioni del settore manifatturiero...»

«Non ci siamo capiti».

Wiesbaden si fece torvo. Fissò Winston con un moto di fastidio.

«Non mi interessa partecipare alla sua associazione. Ciò che voglio, è partecipare al suo progetto segreto».

Il barone lo fissò con gli occhi che dardeggiavano.

«Non so di cosa stia parlando» fece.

«Oh, andiamo» rise Winston. «Per chi mi ha preso? Crede che mi presenterei qui, rischiando la vita, se non sapessi quello che c'è in gioco?»

Wiesbaden continuava a fissarlo, senza dire nulla.

«So tutto del progetto Deus» continuò Winston. «E ciò che voglio, è una parte del potere che lei, barone, riuscirà a ricavare da esso».

«Le ripeto che non ho la minima idea di cosa sta parlando...»

«Sto parlando del potere di Altantide, non è ovvio?»

A quel punto, Wiesbaden impallidì. Quindi, sorrise.

«Continuo a non capire che cosa sta cercando, Herr Galloway» fece. «Tutto quello che posso offrirle, è una partecipazione agli utili del gruppo Helios. Sono sicuro che i miei contabili sapranno illustrarle tutti i benefici di una tale...»

«Quindici milioni».

A quelle parole, tutti i presenti si ammutolirono. Lisa strabuzzò gli occhi e Michael per poco non scivolò dalla sedia. Wiesbaden, annichilito, si drizzò a sedere.

«Cosa?»

«Quindici milioni di sterline. È la mia offerta. In cambio, lei mi darà ciò che voglio».

«Lei possiede quindici milioni di sterline?» chiese Wiesbaden, incredulo. Winston sorrise.

«Provi a pensare cosa può fare con quei soldi» fece. «Fino ad ora ha avuto bisogno di... cosa? Uomini che disprezza, ma che possedevano il denaro che lei non aveva. Si è dovuto circondare di gente che non capiva i suoi piani, gente che in altre occasioni non avrebbe degnato di un solo sguardo... e tutto perché aveva la necessità di raccogliere denaro per i suoi progetti. Con i miei soldi, potrà dire addio a tutto questo. Basta con queste inutili feste, per far contenti i suoi finanziatori. Basta con questa ridicola associazione... finalmente, avrà in un colpo solo tutto ciò di cui ha sempre avuto bisogno, ad un piccolissimo prezzo».

«Dipende dai punti di vista» osservò Wiesbaden. Winston ammiccò.

«Ovviamente. Sta a lei, fare i suoi conti».

«Come sa di queste cose?» fece Wiesbaden, per nulla convinto. «Come è venuto a conoscenza dei miei... progetti?»

«Ho conoscenze un po' dappertutto» rispose Winston. L'uomo lo osservò a lungo. Quindi posò il sigaro, spegnendolo.

«Lei è un tipo astuto, Herr Galloway» disse. «Astuto e molto persuasivo. Ma non del tutto convincente. Ricorda da vicino un membro del Consiglio, se devo dirla tutta. Forse... troppo da vicino».

Winston non disse nulla, limitandosi a sorridere.

«Tuttavia» riprese Wiesbaden, dopo un attimo «data la sua offerta tanto generosa, le offrirò il lusso di controllare la veridicità delle sue referenze».

Wiesbaden sollevò la cornetta, componendo il numero molto lentamente. Quindi, con voce atona

«controllo» disse. «Galloway, Patrick».

Winston morse nervosamente il sigaro che stringeva tra le labbra. Wiesbaden stava immobile, la cornetta appoggiata all'orecchio sinistro, mentre un silenzio carico di tensione si abbatté sui presenti, avvolgendoli come una glassa densa e spessa.

Tutto dipendeva dalla velocità con cui Samuel aveva fatto il suo lavoro. Se non era riuscito a deviare la linea, pensò Winston, allora la conclusione era semplice. Erano tutti spacciati.

Dopo un tempo che parve interminabile, Wiesbaden posò il ricevitore, giungendo le mani davanti al volto e fissando Winston direttamente negli occhi.

«Dopo un'attenta riflessione» esordì Wiesbaden, placido «sono arrivato alla conclusione che persone come lei dovrebbero avere il privilegio di partecipare alla nostra gloriosa impresa. In qualità di amici così rimarchevoli...»

Winston sorrise, trionfante. Si portò il sigaro alle labbra, mentre Michael, dietro di lui, tornava a respirare, e così Lisa.

«Lei mi piace, Herr Galloway» fece Wiesbaden, abbandonandosi contro lo schienale della sedia. «Sono sicuro che andremo molto d'accordo».

«Ne sono convinto anch'io, Barone» convenne Winston, facendo per alzarsi. «Assolutamente convinto. Ora, se volete scusarmi, devo andare a dare disposizioni...»

«Non così in fretta».

Winston, che già aveva la mano sulla maniglia, sbiancò, vedendosi circondare dai due energumeni di guardia, subito pronti a sbarrargli la strada. Michael, che si era alzato subito dietro di lui, deglutì, lanciando a Lisa uno sguardo terrorizzato.

«Qualche problema?» fece Winston, ostentando una calma distaccata. Wiesbaden piegò la testa di lato, pensoso.

«Lei ha ucciso due delle mie guardie personali» fece. «Capirà che trovare uomini del genere, addestrarli, renderli affidabili... sono tutte operazioni che costano tempo e denaro».

«Certo, comprendo benissimo».

«Per scusarsi, potrebbe cedermi il suo uomo» disse Wiesbaden, indicando Michael; che non appena si rese conto che si stavano riferendo a lui, cominciò a tremare, cercando la sedia sotto di sé.

«Vorrei davvero accontentarla, ma non posso» si scusò Winston, con un inchino. «Desolato».

Gli occhi di Wiesbaden ebbero un guizzo malevolo. Le labbra gli si stirarono in un ghigno.

«E per quale ragione?»

«Se ora io le consegnassi la mia scorta» osservò Winston, placidamente «come potrei assicurarmi di uscire vivo da qui?»

Calò il gelo. Lisa sbarrò gli occhi sul volto livido e tirato di Wiesbaden. Winston era stato uno stupido a offendere in quel modo il barone, ma Lisa sapeva bene che non aveva avuto altra possibilità, per difendere Michael. Se avesse lasciato il ragazzo in compagnia di quegli uomini, sarebbero bastati loro due secondi per capire con chi avevano realmente a che fare.

Alla fine, sorprendentemente, Wiesbaden allargò le braccia, sorridendo.

«Come dicevo» fece, sciogliendo tutta la tensione che si era accumulata intorno a lui «lei mi piace, Herr Galloway. Lasci che la mia assistente le mostri la strada».

Lisa si alzò prontamente, reclinando il capo con un sorriso freddo. Quindi, con portamento fiero e distaccato, aprì la porta, lanciando a Winston un'occhiata spenta.

«Da questa parte».

Lei guidava la fila, precedendo Winston che a sua volta precedeva Michael. Percorsero il corridoio in silenzio, senza mai né guardarsi né rivolgersi la parola. Ma non appena la ragazza mise la mano sulla lucida maniglia di ottone della grande porta che conduceva alla balconata, Winston le si scagliò contro, afferrandola per le spalle e spingendola brutalmente in un angolo riparato. Stupefatta, Lisa schiuse le labbra, fissandolo con gli occhi sbarrati.

«Mi lasci!» esalò, terrea. Ma era inutile. Winston sembrava spiritato. Michael fece per separarli, ma bastò un'occhiata dell'uomo a farlo desistere.

«Come ha fatto a raggiungerlo?» chiese Winston a Lisa, sibilandole rabbiosamente in volto. Terrorizzata e confusa, lei distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi.

«Mi sta facendo male» lamentò. «La smetta!»

«Ci sei andata a letto?» ruggì Winston. Lei alzò su di lui gli occhi sgomenti, ora pieni di lacrime e di paura. Lo vide con il volto cereo, trasfigurato dalla rabbia. Lui la strattonò. Era furioso.

«Allora?»

Lisa scosse la testa. «Cosa le interessa? Io...»

«Smettila!» la scrollò lui. «Ti ho fatto una domanda e voglio una risposta. Ci sei andata a letto?»

«Sì, sì ci sono andata a letto!» gridò lei, esasperata. «Così almeno è contento...»

«Stupida!» fece lui, scrollandola ancora più forte. Lisa trattenne il fiato, volgendo la testa.

«Dimmi la verità!» esalò Winston. Lisa lo guardò tremante, in lacrime.

«Come puoi anche solo pensare che io abbia fatto una cosa simile?» mormorò. A quelle parole, Winston sembrò placarsi improvvisamente. Le prese il volto tra le mani; e senza dire una parola, la baciò.

«Sciocca ragazza» mormorò. Per tutta risposta, Lisa gli tirò uno schiaffo. Lui restò a guardarla smarrito, mentre lei lo fissava dritto in faccia, con gli occhi lucidi ma splendenti di quella fierezza che lui aveva imparato tanto bene a conoscere e amare.

«Non si azzardi mai più!» esclamò. Al che lui sorrise, massaggiandosi il volto.

«Così mi piaci» disse. Quindi rivolse a Michael un cenno di intesa. «Muoviamoci, abbiamo delle cose da fare».

«E la lasciamo qui?» fece Michael, accennando confuso alla volta di Lisa, che nel frattempo cercava di riacquistare un certo contegno.

«Lei saprà cavarsela. Non è una stupida».

«Meno male che se n'è accorto» fece lei, arrossendo. Winston le sorrise, un sorriso storto ma che lei non avrebbe mai più dimenticato.

«Guarda che l'ho sempre saputo. Ma non volevo dirtelo per evitare che ti montassi la testa».

 

Lisa continuò a far risuonare quelle parole nella sua testa ancora per molto. Restò così, a fissare la porta ormai chiusa, anche quando i due se n'erano ormai andati da tempo, lasciandola completamente sola in quel corridoio deserto. Quindi dopo alcuni, lunghissimi istanti, scosse la testa, sorridendo.

Pazzo, pensò. Proprio uno come te, dovevo incontrare...

E con rinnovato coraggio ritornò sui suoi passi, mettendo faticosamente a tacere l'eco confusa dei propri pensieri.

 

 

 

 

 

 

 



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Capitolo 5
*** 3 ***


Quando Elektra si svegliò, quella mattina, Jean non era al suo fianco.

Normalmente, era lei a svegliarsi per prima e lo costringeva ad alzarsi colpendolo con il piede, con piccoli calcetti, per evitare che il piccolo Lucas, entrando in camera, potesse trovarli insieme. Erano quasi otto mesi che convivevano, ma solo da quattro lei si era abbandonata all'amore che lentamente, ma in modo inesorabile, era arrivato a sbocciare tra loro. Accogliere Jean nella sua vita, e nel suo letto, era stato un atto che aveva richiesto più coraggio di quanto lei non si aspettasse, ma alla fine era accaduto perché, semplicemente, non poteva farne a meno. Jean era riuscito a fare breccia nella corazza che lei si era progressivamente costruita, costringendola a mostrargli tutte le sue debolezze e fragilità. Ma al contrario di quanto aveva temuto, mostrarsi a lui così – nella sua nudità più vera ed essenziale – le aveva finalmente permesso di ritrovare se stessa, e quella vita che credeva di avere ormai definitivamente abbandonato insieme alle speranze di un sentimento sincero da contraccambiare.

In un primo momento era stato difficile vivere tutto con naturalezza. Ridacchiando al pensiero di quanto era stata goffa le prime volte, lei tuffò il volto nel cuscino di lui, aspirando il suo profumo.

Quella passione che li legava, ora, era in fondo una conquista che avevano compiuto insieme. Giorno dopo giorno, si erano lentamente abbandonati a quella specie di marea confusa che agitava i loro sentimenti, e che li aveva portati via via a scoprirsi sempre più vicini e desiderosi di esserlo ancora di più. Quando lui l'aveva stretta tra le braccia la prima volta, lei non era certo più sicura o navigata di lui. Il cuore le batteva forte tanto quanto il suo, e le sue mani fremevano allo stesso modo mentre ne percorrevano la pelle nuda e calda, animate dal desiderio di scoprire cosa si nascondeva oltre quelle carezze così febbrili ed insistenti. Quella volta fu una forza nuova a guidare i loro corpi, un'energia che Elektra non ricordava di provare da tanto, forse da troppo, e che insieme a lui l'aveva guidata in un luogo sconosciuto a ogni razionalità, ove ogni volontà che non fosse quella dell'amore era esclusa.

Sentiva di amare, come non le accadeva da tempo. Solo che ora, a differenza di prima, di quando si era innamorata di lui, del padre di suo figlio, non c'era traccia di gratitudine né di altri sentimenti che potessero in qualche modo offuscare l'integrità del suo amore. L'amore che provava per Jean era qualcosa di totalmente puro, nato come dovrebbe nascere un sentimento del genere. Per necessità nascosta, obbedendo a una propria forza interna, a una legge inscritta nel corpo e nell'animo di due persone che si incontrano e poi decidono di non lasciarsi più.

Perché lei non l'avrebbe più lasciato.

Anche se lui si era alzato prima di lei, senza dirle nulla, pensò ridendo.

Come aveva osato?

Stiracchiandosi, Elektra si mise a sedere sul letto. Calciò le lenzuola e le coperte, lasciandosi poi ricadere di schiena, con le braccia larghe, prima di rigirarsi su un fianco.

Il lato dove dormiva lui era freddo. Segno che si era alzato da un po'.

Un sottile velo di malinconia le scese sul cuore. Non le piaceva trovarsi da sola in quel letto. Da quando avevano preso ad amarsi, non avevano mai dormito soli, né lei si era mai svegliata dopo di lui. Quel piccolo retaggio di solitudine che ora affiorava alla sua memoria la turbò. Per cinque anni aveva dormito completamente sola, e sola aveva vissuto. Forse, in quei mesi passati insieme, lui l'aveva abituata troppo bene. Si era dimenticata completamente quanto può essere sconfortante la sensazione di svegliarsi da soli la mattina, quando la luce fredda del sole che entra dalla finestra ti costringe ad aprire gli occhi e il silenzio accanto a te è così fondo che sembra quasi possibile sprofondavi.

Era quel tipo di tristezza opprimente che lei non aveva mai sopportato e che era più che felice di essersi lasciata finalmente alle spalle.

Si alzò da letto, avvicinandosi alla finestra. Il sole, fuori, splendeva già alto. Quando Elektra si affacciò, il calore dei suoi raggi la colpì delicatamente sulla pelle, proteggendola dall'aria ancora fredda e densa di umidità del mattino. Il respiro le si condensò in una nuvoletta di vapore, che per qualche istante continuò ad arricciarsi delicatamente davanti al suo volto, per poi dissolversi semplicemente. L'erba del prato, intorno alla casa, era cosparsa di brina; e sulle strade, il gelo aveva steso durante la notte un delicato drappo biancastro, che sciogliendosi faceva luccicare come schegge di vetro i sassi e la ghiaia bianca del selciato.

Elektra rabbrividì, stringendosi nelle spalle; quindi rientrò in casa, lasciando la finestra aperta. Sotto i suoi piedi nudi, il tappeto sembrava più ruvido del solito. Un sottile alito di vento sollevò le tende, che si gonfiarono per poi afflosciarsi esanimi un attimo dopo. Fu allora che lei lo sentì.

Una cappa densa di inquietudine le era calata addosso all'improvviso, avvolgendola come uno strato di glassa spessa. Non sapeva a cosa fosse dovuta, ma la percepiva chiaramente. Aveva la gola secca, e la lingua impastata. Incapace di muoversi, non riusciva nemmeno a parlare.

Era come se i suoi sensi si fossero improvvisamente attivati, caricandosi talmente da andare in collasso. Si sentiva come avvolta da continue scariche elettriche, mentre il mondo intorno a lei si caricava in modo crescente di ansia e di tensione, quasi fino ad esplodere. La paura che seguì, scese su di lei in silenzio, senza alcun preavviso, scivolando lungo le pareti come l'acqua e spingendosi fino al punto in cui lei si trovava. Ora le bagnava i piedi e risaliva lungo le sue gambe, ghiacciandole.

Elektra sussultò. C'era qualcuno, lì, oltre a lei. Poteva sentirne chiaramente la presenza, alle sue spalle.

Si voltò.

Nessuno.

La stanza era deserta. Richiamando tutte le proprie energie, fece un passo verso la porta, per aprirla. Le gambe erano pesanti. Sentiva i piedi come inchiodati al suolo e ogni suo movimento le riusciva inarticolato, e fiacco. Era come muovere un corpo che non le apparteneva, guidandolo dal suo interno ma restandone in qualche modo scollegata. Lo spazio attorno a lei sembrava dilatarsi e rimpicciolirsi senza sosta, come se si trovasse all'interno di un gigantesco polmone.

Con fatica raggiunse la porta, dove si affacciò tendendo un orecchio. Il rumore rassicurante della pendola risalì lungo le scale. A parte quello, in casa non si udiva alcun rumore.

Elektra sospirò, scuotendo la testa. Era stata una sciocca. Era colpa degli incubi che continuavano a tormentarla, incubi in cui continuava a vedere...

Girando gli occhi verso lo specchio, Elektra scorse il riflesso di una figura indistinta, ferma alle sue spalle. Cupa come l'ombra, tendeva le mani.

Si volse di scatto, ma non vide nessuno. Le tende penzolavano inerti alla finestra. La luce del sole che filtrava nella camera si era tramutata in una lama di ghiaccio, che ricopriva di sottili cristalli di gelo tutto ciò che incontrava. Le pareti si tinsero di sfumature di azzurro, e il suo fiato si fece all'improvviso gelido. In bocca, sentiva un sapore amaro.

Il tocco di una mano la costrinse a voltarsi.

 

«No!»

Aprì gli occhi. Fuori dalla finestra chiusa, sul davanzale, un merlo cantava. Elektra ne scorse l'ombra proiettata dal sole contro le tende, un attimo prima che spiccasse il volo. La stanza, al suo interno, era avvolta da un piacevole tepore e odorava leggermente di chiuso. Il letto, accanto a lei, era vuoto e le lenzuola erano fradice di sudore, così come la sua camicia da notte, che le stava sgradevolmente appiccicata alla schiena, procurandole una sensazione di gelo.

Sospirando, Elektra si coprì con le mani la parte inferiore del volto. Scosse la testa, chiudendo gli occhi.

Da quando Jean era andato a stare da lei, continuava ad essere tormentata dagli stessi incubi. Incubi in cui Elusys, il padre di suo figlio – il padre di Nadia – la raggiungeva, freddo come un cadavere, con gli occhi animati da una tristezza indicibile, attraverso i quali continuava a ricordarle la colpa di cui lei si era macchiata. La sua voce non sorgeva nei suoi sogni per consolarla, e la sua figura non tendeva le braccia verso di lei per stringerla affettuosamente, o per proteggerla. Ogni volta, lui la giudicava, e la metteva di fronte al supplizio di riconoscere l'egoismo su cui si reggeva la sua felicità, ergendosi come un giudice terribile, come un fantasma a cui lei stessa dava forza attraverso le proprie paure e insicurezze.

Ogni volta, lei provava a cacciare quella terribile apparizione nell'inferno del suo animo, là dove sperava di vederlo finalmente scomparire, e dove tuttavia lui continuava a risorgere, inesorabile.

«Perché continui a tormentarmi?» mormorò «non mi hai fatto male abbastanza?»

Si ripiegò su se stessa, coprendosi il volto con un lembo del lenzuolo. Si tese, fino allo spasimo, finché non ebbe l'impressione che tutti i suoi muscoli e tendini avrebbero potuto spezzarsi, mandandola in briciole. Quindi afferrò il cuscino e con un grido rabbioso lo scagliò lontano, contro la porta.

 

 

*

 

 

«Ecco dov'eri finito».

Stringendosi nello scialle di lana, Elektra si richiuse alle spalle la porta dell'officina. Jean era chino sul bancone da lavoro, le maniche arrotolate nonostante il freddo, e fissava lo sportello perfettamente lavorato che aveva assicurato tramite dei morsetti. La polvere che lui soffiò via delicatamente dal legno si raggrumò per un istante intorno al suo volto, prima di ricadere impalpabile e silenziosa tutt'attorno. Sul pavimento, trucioli e schegge di legno giacevano un po' ovunque.

Non appena la vide, lui sorrise, mostrandole soddisfatto l'opera del suo lavoro.

«Avevi così fretta di finire?» fece lei, avvicinandosi. Ammirata, passò delicatamente le dita sulla superficie liscia del legno. Il pensiero che era stato lui, con le sue mani, a produrre quell'oggetto così perfetto, la riempì di un orgoglio nemmeno troppo segreto.

«Volevo terminarla il prima possibile» fece Jean. Sganciò i morsetti e sollevò lo sportello, andandolo a fissare sul corpo della credenza. Elektra si avvicinò a guardare. Provò a immaginare come doveva essere una volta montati i vetri in stile floreale e che fosse stata dipinta.

«Sei davvero bravo» mormorò. Lui rise, leggermente imbarazzato.

«Ma perché tutta questa fretta? Avevi un mese di tempo, e hai fatto tutto in una settimana».

«Avevo comunque necessità di recarmi a Montreal» fece lui, riponendo gli attrezzi. «E ora che ho finito mi sento sollevato. Sai com'è la signora Fitzsimmons. Se qualcosa non va secondo il suo gusto, sono guai».

Elektra annuì.

«Mi è dispiaciuto non trovarti, stamattina».

Lui si voltò a guardarla. Vedendo che era improvvisamente impallidita, si impensierì.

«Scusami, mi sono alzato presto e non volevo svegliarti. Non pensavo...»

«Fai colazione?» lo interruppe lei, con un sorriso debole.

«No, vorrei dare prima una mano di vernice. Così nel pomeriggio potrò dare la seconda e montare i vetri domani, quando arriveranno».

«Se devi comunque aspettare fino a domani, non vedo perché tu non possa prenderti dieci minuti per mangiare qualcosa» obiettò lei. Lui si limitò a lanciarle un'occhiata sfuggente.

«Sì, ma sai come sono. Quando comincio qualcosa, voglio finire».

Elektra tacque. Sapeva esattamente com'era lui.

«Ti lascio comunque del tè» disse. «Nel caso ti venisse fame, c'è della torta. E posso prepararti qualche tramezzino».

«Grazie, sei gentile».

Lui si chinò sul suo viso, lasciandole un bacio. Elektra chiuse gli occhi, stringendolo a sé più a lungo del solito, quindi si allontanò. Prima di uscire, si voltò a guardarlo. Era già tornato a immergersi nel suo lavoro, e lei era di nuovo sola.

 

 

*

 

 

La ragione che in realtà spingeva Jean a terminare tanto presto il suo lavoro, era qualcosa che Elektra non poteva nemmeno immaginare. Qualcosa di molto più segreto e personale, qualcosa che da un mese brillava sul fondo di un cassetto dell'emporio dei Fitzsimmons, e che quel giorno lui sperava di poter finalmente stringere tra le mani.

«Ha fatto davvero un lavoro eccellente, signor Lartigue».

Il signor Fitzsimmons osservava ammirato la credenza appena scaricata dal carro. Jean si asciugò il sudore dalla fronte. Effettivamente, con quel lavoro aveva superato se stesso.

«E ha finito prima del tempo previsto» aggiunse l'uomo, provando tutti gli sportelli. Con un moto di meraviglia, osservò i riflessi cangianti che i vetri colorati producevano nella luce del mattino.

«E il prezzo...»

«Per quello, potremmo metterci d'accordo» fece Jean. Fitzsimmons sorrise, aggrondando.

«Davvero? Cos'ha in mente?»

Jean arrossì, abbassando gli occhi. Imbarazzato, entrò nell'emporio, seguito a poca distanza dal negoziante.

«Allora?» fece l'uomo, curioso. «Per un lavoro del genere, immagino che ci chiederà un sacco di soldi».

«Veramente, pensavo di regolare la cosa con uno scambio. Se per lei va bene».

Fitzsimmons smise di ridere e gettò un'occhiata alla credenza e alla merce che aveva in negozio. Inarcò un sopracciglio. Non c'era nulla che potesse essere scambiato con una credenza di tale fattura.

«Per quel che mi riguarda non c'è problema, ma... in tutta onestà, credo che lei ci rimetterà di sicuro».

«Io...»

«Oh, ma guardate che meraviglia!»

La voce stridula della signora Fitzsimmons risuonò per la via principale di Charlottetown, annunciando il suo arrivo ben prima che il suo corpo tozzo e saltellante si materializzasse nel portico. La donna restò a lungo a studiare il mobile, esprimendo la sua approvazione con occhiate esagerate, ruotando gli occhi e battendo rumorosamente le mani. Fermava ogni persona che si trovasse a passare per la strada, coinvolgendo i poveri malcapitati con esclamazioni di meraviglia e di stupore, e chiedendo a tutti di esprimere un'opinione sulla sua nuova credenza.

«E i vetri, dico li ha visti? Direttamente da Montreal!»

Jean si avvicinò, richiamando l'attenzione della donna. Quella lo salutò, tutta baldanzosa, gli occhi accesi da una gioia a dir poco incontenibile.

«Ha finito così presto» fece. «Sono stupita».

«La ringrazio» rispose Jean.

«L'hai pagato?» disse lei al marito, accigliandosi. «Dico a te, sai?»

L'uomo impallidì, assumendo un atteggiamento sottomesso. Lanciò a Jean un'occhiata perplessa, con cui chiedeva un disperato soccorso.

«Veramente, stavo giusto proponendo a suo marito un accordo».

La donna spostò gli occhi su Jean. Lo fissò intensamente a lungo, quindi «accordo?» disse, esitante.

«Ricorda l'anello che...» Jean non riuscì nemmeno a terminare la frase. La donna gli piantò gli occhi addosso, seria.

«Giovanotto, mi segua» esclamò. Jean non provò nemmeno a ribattere. Si limitò a seguirla attraverso la merce accatastata e gli scaffali ordinati, in silenzio, sotto lo sguardo compassionevole del signor Fitzsimmons.

Non appena raggiunsero il retro bottega, la donna chiuse la porta, voltandosi tumultuosamente a fronteggiare Jean. Gli puntò un dito contro il volto, fissandolo con gli occhi socchiusi. E sebbene fosse molto più bassa di lui, chissà perché Jean si sentì improvvisamente minacciato.

«Vedi di parlare chiaro» fece la donna. «Allora? Cos'è questa storia?»

Jean deglutì. Trasse un profondo sospiro, quindi «Voglio chiedere a una persona di sposarmi» confessò. La signora Fitzsimmons strinse ancora di più gli occhi.

«Chi?»

Lui esitò.

«Bada, ragazzo. La mia pazienza ha un limite».

«Credo che sappia meglio di me, di chi si tratta» fece lui, allargando le braccia, rassegnato. «Così come credo sappia benissimo che la signorina Elektra non è mia cugina. Mi sbaglio, forse?»

La signora Fitzsimmons restò a fissarlo impassibile. Abbassò lentamente il dito, ma il suo sguardo si fece ancor più duro e tagliente.

«Sei tu, il padre di quel bambino?»

«Cosa?»

Jean la fissò stupito. Lei rialzò il dito verso di lui, minacciosa.

«Sei tu il padre di Lucas? E vedi di rispondermi con la verità».

«No, non sono io» ammise Jean.

«Tuttavia, sei disposto a sposarla» fece la donna. «Perché?»

«Ci dev'essere un perché?» rispose lui, che non capiva il significato di tutto quell'interrogatorio.

«C'è sempre un perché» obiettò la donna. Jean sospirò.

«Sono innamorato di lei. È sufficiente?»

La donna lo fissò a lungo, come studiandolo, senza dire nulla. Quindi, improvvisamente, sorrise.

«Sei un bravo ragazzo» fece. E senza aggiungere altro, si allontanò dietro il bancone. Jean la seguì con gli occhi, mentre lei apriva un cassetto. Posò sul banco una scatola di legno, avvolta in un panno blu di velluto. La aprì. Jean sentì il cuore accelerare i suoi battiti.

«Ecco qui, con i miei migliori auguri» fece la donna, consegnandogli una piccola confezione che aveva appena estratto dalla scatola di legno. Jean la aprì. All'interno, un semplice anello d'oro lavorato a motivi intrecciati, splendeva su un fondo di elegante velluto verde.

«Crede che andrà bene?» fece Jean, alzando gli occhi timoroso sul viso della signora Fitzsimmons. Lei gli posò una mano sul braccio, rivolgendogli uno sguardo intenerito.

«Mio caro, andrà benissimo» lo rassicurò. «Ma tu prova a far soffrire quella poverina, e vedrai cosa ti succede» aggiunse, improvvisamente seria.

 

 

*

 

 

«... e poi abbiamo visto una lepre e un cervo. Il signor Parker dice che lì girano anche gli orsi, ma adesso sono ancora in letargo, quindi non c'erano».

Elektra sorrise, scambiandosi un'occhiata con Jean.

«Gli orsi! Mamma mia, e non hai avuto paura?»

«Io no!» fece Lucas, deciso. Jean scoppiò a ridere.

«Su, forza» disse. «Se hai finito di mangiare, si va a nanna».

Lucas ripose il cucchiaio nel piatto, quindi scese con attenzione dallo sgabello. Tese una mano a Jean che lo sollevò e se lo caricò in braccio. Elektra gli si avvicinò, posando un bacio sulla fronte del bimbo.

«Buonanotte, mamma» fece lui. Lei gli lasciò una carezza.

«Buonanotte, tesoro».

«Andiamo!» fece Jean, fingendo di barcollare. Lucas lanciò una risata, che continuò fino a quando furono al piano di sopra. Elektra restò ad ascoltare il mormorio indistinto delle loro voci, finché non udì il richiudersi della porta della cameretta e i passi di Jean lungo le scale. Quando lui riapparve in cucina, lei gli porse una tazza di caffè fumante, che lui accettò con un sorriso.

«Ho finito la credenza per i Fitzsimmons» fece lui, posando la tazza sul tavolo. Elektra continuava a sparecchiare, ammassando le stoviglie nel lavello. Sorrise.

«Ed è piaciuta?»

«Immagino di sì» fece lui, allungando le gambe con una smorfia di sollievo. «Credo che la signora Fitzsimmons sia ancora occupata a mostrarla a chiunque passi per strada».

Elektra rise. Jean si avvicinò la tazza alle labbra. Fece per dire qualcosa, ma tacque, portando la mano alla tasca dei pantaloni.

«A proposito...»

Lei volse leggermente la testa. I capelli, che portava raccolti alla bell'e meglio sulla nuca ondeggiarono, elegantemente.

«Cosa?»

«Avrei qualcosa da mostrarti. Anzi, da dirti».

«Ti ascolto».

Lui si alzò, andandole accanto. Le prese le mani, che lei teneva immerse nel lavello e gliele asciugò delicatamente con un panno. Elektra, stupita, lo lasciò fare, guardandolo con curiosità.

«Si può sapere che ti prende?»

«Ricordi che qualche tempo fa, dai Fitzsimmons, avevi visto un anello?»

Lei annuì, vagamente. Jean sorrise, estraendo dalla tasca una scatolina di velluto verde.

«Ecco perché volevo finire così in fretta. Perché non riuscivo più ad aspettare».

Elektra sbiancò, mentre lui le mostrava il piccolo anellino d'oro. Stupefatta, alzò gli occhi su di lui.

«Cosa...».

«Sposami».

Elektra lasciò cadere l'asciugamano, portandosi una mano alle labbra. Fissò prima Jean e poi l'anello, quindi indietreggiò.

«Fai sul serio?» mormorò. Lui sorrise, arrossendo.

«Sì, anche se mi rendo conto che potevo dirlo in modo diverso...»

Incredula, con gli occhi che le tremavano per l'emozione, Elektra allungò una mano tremante. Voleva prendere l'anello, ma non ce la fece. Era uno sforzo impossibile, come superare una distanza incolmabile. Con sguardo smarrito, scosse la testa.

«Non posso» mormorò. Jean aggrondò, l'ombra del suo sorriso che non accennava ancora a svanire. Non capiva.

Elektra si voltò, aggrappandosi al lavello. Jean la raggiunse. Cercò di voltarla, ma lei stringeva così tanto che le nocche le si erano arrossate. Improvvisamente, lasciò la presa e si allontanò con uno scatto.

«Non posso farlo!» esclamò, in lacrime. «Perché me lo hai chiesto?»

Lui scosse la testa. Guardò confuso l'anello, poi lei.

«Credevo che mi amassi» mormorò, desolato.

«Io ti amo!» fece lei, supplicandolo. «Ma non ce la faccio più!»

Jean si sedette, portandosi una mano alla fronte. Gli girava la testa e le gambe non lo reggevano.

«Non capisco, davvero...»

Elektra scosse la testa, coprendosi il volto con le mani. Rimase a piangere così, appoggiata al mobile della cucina, scossa da violenti singhiozzi. Jean, seduto di fronte a lei, non l'aveva mai sentita tanto incomprensibilmente lontana.

«Immaginavo che saresti stata felice» disse. Lei batté un pugno sul mobile, voltandosi.

«Ma che ti prende?»

«Non posso più mentirti» mormorò lei, voltandosi a guardarlo sconvolta. «Non riesco, non ce la faccio più. Ogni volta che ti bacio, o che facciamo l'amore, io continuo a pensarci e...»

Jean socchiuse gli occhi.

«... non dovevo innamorarmi di te, io non immaginavo...»

«Elektra, di che diavolo stai parlando?»

Lei impallidì. Lui prese a fissarla duramente.

«Quando mi hai chiesto se esisteva un modo per ritrovarla, io ti dissi di no» fece lei, con un filo di voce. «Ma ti ho mentito».

Il volto di Jean perse ogni colore. Lentamente, si alzò, spingendo di lato la scatola dell'anello.

«Non volevo che lei fosse felice. Per causa sua, io ho perso tutto, tutto capisci? Suo padre ha sacrificato tutto per lei, anche me! Perché lei ora doveva avere una seconda possibilità? Anche lei doveva soffrire, anche lei...»

«Come hai potuto fare una cosa simile?» mormorò lui. Lei si impietrì.

«Perché la odio» disse, ergendosi fiera davanti a lui. «Sì, è così. La odio, per quello che è. La odio per essere stata la causa della morte del padre e la odio perché lui l'ha sempre preferita a me! La odio perché tu la ami più di quanto ami me, non è così?»

«Elektra...»

«Non mentire!» gridò lei, scagliandoglisi contro. Esasperata, si voltò, furiosa. «È sempre stato così... la perfetta Nadia, la povera Nadia, la ragazza abbandonata da tutti, sola e sofferente... beh, anche io ho sofferto!» sibilò. «Ho perso tutto a causa della sua famiglia, ho perso tutto perché suo padre un giorno ha deciso di distruggere la nostra città. Oh, ma io l'ho perdonato, sì. Perché mi ha salvato, perché mi ha promesso che avrebbe vendicato tutte le vittime di Tartesso, e che sarebbe morto per farlo. Finché non è arrivata la sua preziosissima figlia... allora, tutto è cambiato».

Jean la ascoltava in silenzio, senza dire nulla. Con il volto deformato dall'angoscia, Elektra continuava a camminare avanti e indietro per la cucina, tormentandosi le mani.

«Lui non è morto per loro!» gridò all'improvviso, agitando un braccio. «Lui è morto per lei! È morto solo per lei, infischiandosene di tutti quelli che ha ucciso!»

«E cosa avrebbe dovuto fare, secondo te?» mormorò Jean. «Lasciarci tutti morire?»

«Sarebbe stato meglio» disse lei, tra le lacrime. Jean drizzò il busto, stupefatto.

«Mi ha messo incinta, e mi ha abbandonato» pianse lei. «Che razza di persona è uno che si comporta così? Mi ha caricato di un fardello che già sapeva di non essere in grado di condividere con me. Mi ha riversato addosso il peso del nostro amore, facendomi promesse che non poteva mantenere, per poi lasciarmi completamente sola. Sapeva che sarebbe morto... e allora... allora perché condannarmi a questa vita, perché non mi ha lasciata libera di dimenticarlo?»

Tacque. Jean la fissava senza dire nulla, gli occhi accesi da una strana luce.

«Tutti vi siete sempre preoccupati di lei, di Nadia. E di me?» fece, battendosi una mano sul petto. «A me avete mai pensato? Al fatto che ero sola a crescere un figlio? Anche Lucas era suo figlio. Perché ha voluto metterlo al mondo per poi abbandonarlo? Se già sapeva che sarebbe potuto morire, perché fare una cosa del genere? Non poteva mentire, dire che non mi amava, lasciarmi libera di rifarmi una vita... io... non capisco...»

«Qual è il modo?»

Lei lo fissò senza capire. Una lacrima le solcò la guancia, mentre socchiudeva le labbra.

«Cosa?»

«Qual è il modo!» fece lui, afferrandola per le spalle e scuotendola. Elektra lanciò un grido.

«Dimmelo, maledizione!» insistette Jean, il volto irrigidito. «Voglio sapere come fare a raggiungerla!»

Elektra lo guardò sconvolta, tra le lacrime. Lui la lasciò andare, passandosi una mano sugli occhi. Si voltò sospirando profondamente.

«E adesso cosa dovrei fare, secondo te?» mormorò, allargando le braccia e guardandola. «Me lo spieghi, cosa dovrei fare?»

Elektra singhiozzò. «Resta» lo implorò. «Resta perché mi ami, nonostante tutto. Resta e dimenticati di lei. Perdonami e resta qui, con me, per sempre».

Lui strinse le labbra, abbassando lo sguardo. Sentendo che lo stava perdendo, lei gli si avvicinò, gettandoglisi ai piedi.

«Resta, resta perché ti amo» fece, afferrandogli le mani e baciandole. Lui tacque. Elektra lo guardò, scuotendo la testa.

«Perché anche tu mi ami, vero?»

Jean non rispose. Si limitò ad abbassare gli occhi. Elektra impallidì, irrigidendosi. Quindi annuì.

«Capisco» disse. In silenzio si alzò, dirigendosi alla libreria. Si fermò davanti a uno scaffale, quindi gettò a terra tutti i libri che vi erano sopra. Dal fondo, estrasse un quadernetto che strinse rabbiosamente tra le mani. Si voltò verso Jean, fulminandolo con lo sguardo.

«Ecco» fece, gettandogli il diario addosso. Lui lo prese al volo. «Qui ho scritto tutto. Il modo in cui potrai riuscire a raggiungerla. Volevo bruciarlo, ma non ce l'ho fatta».

Jean osservò il diario, in silenzio. Chiuse gli occhi.

«Ora puoi scegliere» fece lei. «Puoi andare da lei, o puoi perdonarmi e restare con me. Puoi odiarmi, o capire che l'ho fatto per debolezza e in seguito perché non volevo perderti. A te la scelta».

Lui alzò gli occhi su di lei, che lo fissava cercando di mostrarsi forte, sebbene il pallore del suo volto tradisse tutta la sua angoscia e la sua paura. Avrebbe voluto stringerla e dimenticare tutto, ma non poteva. Sebbene sentisse di amarla, non poteva perdonarla di avergli mentito su una cosa del genere. Per otto mesi lei gli aveva nascosto il modo per aiutare Nadia, il modo per raggiungerla e per riportarla indietro. Otto mesi di falsità, nei quali il loro amore era cresciuto, nutrendosi della disperazione di lui e delle bugie che lei gli aveva raccontato. Mesi che lui aveva passato mettendo a tacere un sentimento d'amore che credeva finito per sempre, e seppellendo sotto la cenere il proprio senso di colpa per aver abbandonato Nadia quando più aveva bisogno di lui.

«Ti prego» mormorò Elektra «Jean».

Nemmeno la ascoltava. Ora che lei non era più così lontana e irraggiungibile, nel suo cuore non esisteva posto per nient'altro.

«Vado a raccogliere le mie cose» mormorò. Elektra non pianse. Aspettò che lui si fosse allontanato, prima di gettarsi in lacrime sul tavolo. Davanti a lei, l'anello continuava a brillare debolmente, nella sua elegante scatola di velluto verde.

 

 

 

 

 

 

 

 



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Capitolo 6
*** 4 ***


Il vagone sussultò. Risvegliato bruscamente dal sonno, Jean spalancò gli occhi, sbattendo le palpebre. Fuori pioveva ancora. La pioggia sferzava i vetri con violenza, tingendo di un grigio uniforme e cupo il paesaggio sempre uguale che scorreva al finestrino.

La porta dello scompartimento si aprì, e la figura secca e allungata di un uomo in divisa scura si infilò tra l'uscio e il corridoio, lanciando un'occhiata distaccata all'interno.

«Biglietto, signore?»

Jean rivolse al controllore un cenno fiacco del capo, quindi si infilò una mano nella tasca della giacca, frugandovi in cerca del biglietto. Lo estrasse, porgendolo al controllore che lo fissava in attesa. Questi lo guardò, rigirandoselo tra le mani un secondo, prima di validarlo.

«Ormai siamo arrivati» fece l'uomo, riconsegnando a Jean il suo biglietto con l'accenno di un sorriso. «È la prossima fermata».

Jean annuì appena. Attese che la porta si richiudesse, per poi sprofondare nuovamente nel suo torpore. Stava già per chiudere gli occhi, quando il quadernetto che stringeva tra le mani gli scivolò a terra. Con un gesto rapido si chinò a raccoglierlo, improvvisamente sveglio.

Non sapeva nemmeno quante volte lo aveva letto e riletto, pensò mentre lo richiudeva. Rimase a osservare per qualche istante la sua rilegatura in cartoncino spesso e scuro, quindi lo aprì, scorrendolo velocemente fino alle ultime pagine. La grafia elegante di Elektra vorticava davanti ai suoi occhi, e riempiva le pagine con un flusso quasi ininterrotto di numeri e dati, per poi interrompersi bruscamente verso la fine. Jean sospirò, voltando l'unica pagina bianca che restava. Immacolata, sul suo retro nascondeva l'ultimo messaggio che lei gli aveva lasciato. Fu con un sospiro che Jean lo rilesse, ancora una volta.

 

Se stai leggendo queste parole, molto probabilmente sarai già lontano da me. Va bene così. In fondo, sarei dovuta aspettarmi qualcosa del genere.

Non so perché abbia fatto quello che ho fatto. Non so nemmeno perché non ti abbia detto la verità quando ancora era possibile non rovinare tutto, o quando ancora non esisteva nulla da rovinare. Tutto ciò che so, e che posso dirti, è che mi dispiace. Ma forse, di questo non ti importerà più di tanto.

Ti ho fatto un grosso torto, anzi: un torto enorme. Solo adesso che ti amo me ne rendo conto. Provo a immaginare a come mi sentirei se tu mi venissi strappato con la forza e al solo pensiero mi sento morire. Ma è quello che ho fatto io; ti ho strappato da lei, e l'ho fatto solo per egoismo. Non importa se in qualche modo, durante il tempo passato insieme, io ti ho reso felice, o se tu hai reso felice me e Lucas. A ciascuno di noi dovrebbe essere concessa la libertà di scegliere la propria vita e di seguire i propri desideri. Io, con le mie azioni, ti ho impedito di farlo. Se sei stato con me, per tutto il tempo in cui sei rimasto al mio fianco, non è perché tu l'hai scelto veramente. Questa è solo un'illusione, un sogno che per tutto questo tempo ho continuato a generare per me stessa, costruendomi alle tue spalle una vita che non aveva nulla di vero.

No, non è esatto. I miei sentimenti erano sinceri. E, credo, anche i tuoi. Era tutto il resto, ad essere sbagliato.

Non sto parlando di lei. Forse te ne sarai accorto. In tutto questo discorso, non ho mai preso in considerazione il suo punto di vista, come se non me ne importasse. È così. Non è per un errore. In realtà, non voglio nemmeno pensare a te e a lei insieme. Ti prego, almeno questo concedimelo, se puoi. E magari cerca di capirmi.

Non ti chiedo di perdonarmi. Se devo essere sincera, non sono pentita. L'unica cosa di cui mi pento, è di averti fatto soffrire. Ma per il resto... non so. Non riesco a provare alcun rimorso.

Forse questo fa di me una pessima persona. Credo che sia così. Un tempo, non avrei mai fatto una cosa del genere, il solo pensarla possibile mi avrebbe ripugnato. Ma qualcosa è intervenuto a cambiarmi. Qualcosa di indefinibile, che non riesco pienamente a capire nemmeno io. Ed è con questo qualcosa che dovrò fare i conti per il resto della mia vita, temo.

Non pensare che sia orgogliosa di quello che ho fatto, tuttavia. Non lo sono per nulla. E forse, è proprio per questo che non sono mai riuscita a buttare questo quaderno. Non hai idea di quante volte io abbia provato a farlo. Eppure, all'ultimo momento, la mia mano non voleva decidersi a lasciarlo. Chissà, forse era proprio perché una parte di me sperava che prima o poi tu lo trovassi, e io ricevessi la punizione che meritavo. Forse è così. O forse no. Alla fine, credo che non lo saprò mai.

Per quanto sia tardi, probabilmente, voglio che tu sappia che ti ho amato davvero. Nemmeno immagini quanto. Non ho mai amato nessuno come ho amato te, un amore vero e forte, nato così, per caso. Sei così giovane rispetto a me, ma tra i due ero io quella che si sentiva una ragazzina. Tu hai saputo darmi tutto quello che non avevo ancora vissuto, e se questo è durato un mese, due anni, o la vita intera, non importa. Per me sarà comunque tutto.

Non so cosa farò, ora che probabilmente hai deciso di andartene. Forse me ne farò una ragione, o forse, da vera stupida, continuerò a sperare di vederti ritornare, un giorno. Perché credo che anche tu, nonostante tutto, almeno un po' mi abbia davvero amato.

Chissà perché è dovuto andare tutto così storto? Non lo so. Se solo fossi stata meno egoista, o ancora più egoista, forse... ma con i ma e i se, non si arriva da nessuna parte. Tutto ciò che so, è che tu non mi appartieni più. Anche se, forse, non mi sei mai appartenuto.

Spero che tu riesca a raggiungere ciò che cerchi. Davvero. Io ci ho provato, con te. Ciò che ho ricevuto, è andato molto al di là delle mie aspettative. Non lo meritavo. Ma ringrazio il cielo di averlo comunque avuto in dono.

Ti amo e ti amerò sempre, Jean.

 

Jean richiuse il quaderno. Fuori non accennava a smettere di piovere. Il rumore del treno che correva sui binari era attutito dallo scroscio della pioggia, che cullava debolmente i pensieri contorti che continuavano instancabili a punzecchiarlo. Fu con un senso di sollievo che udì il fischio del locomotore annunciare il prossimo arrivo alla stazione. Quando la velocità del convoglio diminuì, Jean si alzò, stringendo le labbra. Quindi tirò giù la sua borsa e vi cacciò dentro il diario, senza troppe cerimonie.

Fuori dallo scompartimento, il corridoio cominciava a riempirsi. Qualcuno parlava, fermo sulla porta socchiusa del proprio scompartimento, magari lamentandosi della lunghezza del viaggio, o della scomodità del treno. Qualcun altro si stiracchiava, lanciando occhiate desolate alla pioggia che tempestava la città di Baltimora, i cui palazzoni grigi e i nuovissimi grattacieli spuntavano ormai all'orizzonte, pallidi e morenti come se avessero completamente assorbito le acque sudicie del Patapsco.

Jean si fece largo fino all'uscita. Quando il treno si fermò, con un gran stridio, si sentiva quasi soffocare. La mano sulla maniglia, non aspettò nemmeno che il treno fosse completamente immobile, prima di aprire. Aveva bisogno di uscire, e di respirare. Voleva lasciare quel treno al più presto, anche se non sapeva bene perché.

La pioggia che da due giorni si abbatteva violenta sulla città, aveva creato delle grosse pozzanghere su tutta la pensilina. Jean si caricò in spalla il suo sacco, avvolgendosi stretto nel soprabito. Quindi si calcò il cappello in testa e si allontanò. Attorno a lui, risuonavano i saluti calorosi, e la voce allegra di coloro che si ritrovavano dopo tanto tempo, abbracciandosi sotto gli ombrelli gocciolanti. Senza curarsi dei loro vestiti ormai fradici, due ragazzi si baciavano stretti, sotto gli occhi invidiosi di coloro che ormai avevano dimenticato come il desiderio potesse spingere due persone a infischiarsene persino di una pioggia come quella. Jean passò loro accanto, quasi per percepirne il calore che sembravano emanare.

All'esterno della stazione, una fila di carrozze attendeva pazientemente che qualche viaggiatore salisse per essere condotto a destinazione. Jean cercò quella più vicina. Un uomo intabarrato si staccò da un gruppetto di persone che si scaldava accanto a un bidone di latta sul cui fondo era acceso un fuoco, e gli si avvicinò con fare servizievole.

«Il signore va da qualche parte?» chiese, squadrandolo mentre si sfregava le mani. Jean annuì. Riferì la destinazione e l'uomo salì a cassetta, calcandosi il cilindro spelacchiato in testa. Quindi, con un fischio, sferzò i cavalli con un rapido schiocco di frusta.

La carrozza era sporca, e puzzava. Ma almeno, offriva una qualche sorta di riparo. Jean si abbandonò in silenzio contro lo schienale strappato, fissando vacuamente il profilo indistinto dei palazzi che si susseguivano tutti uguali, lungo le strade che dalla periferia portavano verso il centro. Man mano che avanzavano, le luci dei lampioni lungo le strade e alle vetrine dei negozi si facevano sempre più brillanti, e i vestiti delle persone che si attardavano con gli ombrelli lungo i viali dagli alberi rigogliosi, diventavano via via più eleganti. Poi, anche il centro con le sue attrazioni svanì, cedendo il passo a una nuova degradazione; e nuovi anonimi palazzi e nuove strade abbandonate si sostituirono ad esso nella loro spenta uniformità.

Il cocchiere fermò la carrozza davanti a un grande magazzino nei pressi del porto. Jean lanciò un'occhiata all'orologio. Erano le cinque passate, e cominciava lentamente ad imbrunire.

«Di qui è lontano il centro» azzardò il vetturino, cacciandosi in tasca le banconote che Jean gli aveva appena allungato. «Vuole che la aspetti?»

Jean disse di no. In qualche modo, si sarebbe arrangiato. Tirando su col naso, il vetturino schioccò le redini, accennando a un vago saluto. Quindi sparì, allontanandosi nella sera.

Solo, davanti all'ingresso, Jean sollevò gli occhi sull'insegna che campeggiava a larghe lettere sulla facciata di quel grosso palazzone in cemento, che si affacciava sul porto come la carcassa rigonfia di una balena morente.

Garrett Industries. Così c'era scritto.

Era nel posto giusto.

La porta si aprì, scricchiolando. Una luce fioca penzolava dal soffitto, niente più che una semplice lampadina i cui pallidi riflessi spargevano ombre tutt'attorno. Jean si guardò attorno. In quel posto regnava una gran desolazione. Rottami metallici giacevano abbandonati un po' ovunque, e le macchine di montaggio che un tempo avevano lavorato a ritmo quasi continuo, spuntavano inerti dall'ombra in cui sembravano essere cadute come addormentate. Sulle pareti scrostate, si trovavano ancora appese lavagne con segnati i turni di lavoro e i nomi di decine di operai, molti dei quali cancellati con una semplice linea. Evidentemente, un tempo quel posto doveva aver vissuto un periodo di grande attività.

Jean avanzò, titubante. Dal fondo, riecheggiava il suono di utensili metallici, misto a un oscuro borbottio. Una piccola torcia illuminava lo scheletro di un'automobile completamente sventrata, tenuta sollevata da quattro catene che pendevano cigolanti dal soffitto. Sotto di essa, Jean riconobbe immediatamente il profilo solitario e smagrito di Hanson, che canticchiava sommessamente fissando qualche bullone.

«Ehi».

Colto di Sorpresa, Hanson trasalì. Si voltò, stringendo gli occhi in direzione del punto da cui era venuta la voce. La lampadina gli schermava la visuale, gettandogli sul volto una luce innaturale.

«Chi è?» fece. «Siamo chiusi».

Jean mosse qualche passo, andando a mettersi sotto la luce della lampada. Non appena lo riconobbe, Hanson impallidì.

«Jean?» mormorò. «Sei proprio tu?»

Jean sorrise.

«Ciao, Hanson» fece, posando a terra il suo sacco. «Quanto tempo».

 

 

*

 

 

«E così» fece Hanson, allungando a Jean una tazza di caffè fumante «per tutto questo tempo te ne stavi da Elektra. Ma pensa un po'».

Jean sorbì il caffè, senza commentare. Hanson, seduto di fronte a lui alla sua vecchia scrivania, lo fissava curioso. Schioccò le labbra.

«Tu e la signorina Elektra» disse, scuotendo il capo con una leggera risata. «Sai, se me l'avessero detto, non ci avrei creduto».

«Già» commentò Jean «probabilmente, nemmeno io».

«E... dimmi una cosa» sussurrò Hanson, avvicinandosi a lui e rivolgendogli uno sguardo sottile. «Lei... com'è?»

Jean sospirò, posando la tazza.

«Eccezionale» disse, con un sorriso stanco. «Ma questo lo sapevi già, immagino».

«Ed è sempre bella?»

Jean si incupì. Il suo volto si irrigidì all'improvviso e abbassò gli occhi. Si alzò, sotto lo sguardo colpevole di Hanson, dandogli le spalle.

«Mi dispiace» fece Hanson, confuso. «Non volevo...»

«No» fece Jean secco, senza voltarsi. «Non fa niente».

Tacque, per qualche istante. Quindi, «comunque, per quell'idea?» disse, cambiando totalmente discorso. «Pensi che mi aiuterai?»

Hanson sospirò. Finì il suo caffè, quindi abbandonò la tazza sulla scrivania, sollevando le gambe e appoggiando i piedi sul tavolo.

«Vediamo se ho capito» fece Hanson. «Sei venuto fin qui per dirmi che Elektra ha trovato il modo di farti raggiungere Nadia, giusto?»

Jean annuì.

«Nadia, che si trova su un pianeta a milioni di chilometri da qui... correggimi se sbaglio».

«Non sbagli».

«Quella Nadia che tu hai convinto a partire, e che avresti potuto fermare se solo avessi voluto».

Jean fece un cenno col capo. Era proprio così.

Hanson lo fissò per qualche istante, perplesso.

«Ok» fece, alla fine, scrollando le spalle. «E come pensi di fare?»

«Elektra ha scritto che l'unico modo per raggiungere Atlantide, è aprire una porta dimensionale, una porta simile a quella attraverso cui è scomparso il Noè Bianco».

«E come facciamo ad aprirla?» commentò Hanson, scettico. «Non abbiamo una seconda Nadia, per farlo. Non so se te ne sei accorto».

«No, è vero. Ma non sarà necessario» fece Jean, appoggiandosi alla scrivania. «Nadia ha aperto quella porta servendosi del Trismegisto, giusto? Tutto ciò che ci serve, secondo Elektra, è una pietra simile a quella, e un'energia sufficiente ad attivarla».

«E siamo al punto di partenza, direi».

«Non esattamente».

Jean estrasse il quaderno dal sacco e lo sfogliò. Quando trovò il punto che gli interessava, lo allungò ad Hanson, che si chinò alla luce della lampada per osservarlo meglio. Dopo qualche istante, sollevò lo sguardo perplesso sul volto di Jean.

«E l'idea sarebbe questa?» fece. «Andare alle rovine di Atlantide e recuperare questa...» strinse gli occhi, ma non capendo cosa c'era scritto gettò via il quaderno, allargando le braccia «come diavolo si chiama? Tu sei fuori di testa...»

«Ti sbagli, non sono fuori di testa» fece Jean. «Noi abbiamo visto quella pietra. Era là, nelle rovine di Atlantide, sotto l'Oceano Atlantico, quando ci siamo andati per seppellire Faith e gli altri membri dell'equipaggio morti nel primo scontro contro Gargoyle, quando il Nautilus è andato quasi distrutto. Secondo Elektra, quella pietra è l'equivalente del Trismegisto. È l'ultima pietra dimenticata, la Sekinah. Rappresenterebbe l'ultima delle dieci Sephiroth, le dieci porte per l'universo, le porte che nella tradizione biblica vengono considerate i dieci attributi di Dio. Quella pietra rappresenta l'elemento di raccordo con le altre nove, il Femminile, cioè l'elemento legato alla creazione stessa dell'universo. Sempre secondo Elektra, tutte le nove pietre che compongono l'Enneade, rispondono al potere della Sekinah, la pietra che in sé rappresenta la stessa regina di Atlantide e il potere che essa racchiude. È attraverso di essa, che le nove Pietre Sacre possono liberare il loro potere e aprire le porte dell'universo, mettendo in comunicazione mondi distanti tra loro. Se Nadia ha aperto un passaggio verso Atlantide, allora anche la Sekinah è collegata a quel passaggio, insieme a tutte le altre pietre. Basterà attivarla e...».

«Ferma, ferma».

Hanson agitò le braccia, scuotendo la testa. «Io di queste cose non ci capisco niente, Jean. Sekinah, Sephirot... questa è roba da professori, da gente che legge i libri e va in biblioteca. Io sono solo un meccanico. Se tu mi dici che questa pietra permette di raggiungere Nadia, io posso anche crederci. Ma resta da vedere come. Tu parli di energia, di un generatore da collegare a questa pietra per attivarla, no? Ammesso che riusciamo a trovarla, questa pietra... e non penso sarà una cosa facile... come facciamo poi a trovare l'energia sufficiente per aprire il passaggio?»

«Questo è il punto più difficile» fece Jean. «L'energia di cui avremmo bisogno è troppa, rispetto quella che una normale turbina riuscirebbe a produrre. Ci servirebbe l'energia equivalente di dieci centrali elettriche, e forse non sarebbe sufficiente».

«Dieci centrali...» Hanson sbiancò. «Ma ti rendi conto? E come pensi...»

«Ti dice niente, il nome Exelion?»

Hanson ammutolì. Fissò Jean senza una parola, quindi «tu vuoi scherzare?»

Jean guardò Hanson in silenzio, le mani in tasca e un sorriso divertito sul volto.

«No, non stai scherzando» fece Hanson. «Sei solo completamente pazzo».

«Perché credi che mi sia rivolto a te?» ribatté Jean. «Solo tu sei in grado di costruire un mezzo di recupero in grado di raggiungere l'Exelion. Se vogliamo ottenere l'energia che ci serve, il suo motore è indispensabile. A quel punto, sarà sufficiente creare una piccola nave con ciò che resta del suo scafo, collegare il motore alla pietra e poi... beh, dovrebbe funzionare».

«Dovrebbe... funzionare?»

Hanson si alzò in piedi, percorrendo in silenzio la stanza. Si passava le mani tra i capelli sporchi e spettinati, scuotendo la testa.

«E se non funziona?» fece, fermandosi a guardare Jean di traverso. «Che succede?»

«Puoi immaginarlo da solo, credo» rispose Jean, fermo. «Con un energia di quella portata...»

Hanson soffocò un'imprecazione. Si cacciò le mani in tasca e si morse le labbra.

«Jean, non lo so... io...»

«Io voglio trovarle, Hanson» fece Jean, andandogli vicino e prendendolo per le spalle. «Non passa giorno che non pensi a loro. È colpa mia, se sono là. Solo mia. E voglio riparare. Le devo trovare, costi quel che costi».

Hanson lo guardò dritto negli occhi, fissandolo per qualche istante senza dire nulla. Quindi sorrise, intenerito.

«Davvero?» fece, alla fine. «E credi che riusciremo a farlo... voglio dire... se prendiamo il motore, la pietra e tutto il resto...»

«Se tutto va bene...»

«Se tutto va bene, ovvio...»

Jean annuì, convinto. Hanson lo guardò, quindi si morse nuovamente le labbra.

«Io ti aiuterò» fece alla fine, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì, il suo volto trasmetteva una nuova fiducia. «Ti aiuterò a farlo».

Jean sorrise, sollevato. «Grazie» disse. «Davvero, non so...»

«Ma non ho un soldo».

L'entusiasmo di Jean si spense immediatamente.

«Niente?» esalò, smarrito. «Com'è possibile?»

«Tutto quello che avevo, l'ho usato per costruire il dirigibile» ammise Hanson, con una scrollata di spalle. «E ho dovuto fare anche dei debiti. Al mio ritorno, i creditori si sono mangiati tutto. Ho dovuto chiudere baracca, qui» disse, accennando col mento al magazzino abbandonato. «Quindi, o finanzi tutto tu, o...»

«Io ho qualcosa, ma di certo non denaro a sufficienza».

«Allora, siamo fritti».

Jean si passò una mano tra i capelli. Non poteva crederci. Era stato così vicino a poter realizzare il suo progetto, ed ora ecco che gli sfuggiva come acqua tra le mani. Era assurdo.

«Non c'è alcuna possibilità?» azzardò. «Nessuno che...»

«No» fece Hanson, serrando le labbra. «Nessuno. A meno che...»

Di fronte allo sguardo improvvisamente acceso di Hanson, Jean si rianimò.

«Potremmo rivolgerci a quelli che gestivano il denaro di Kurtag» fece Hanson. Jean socchiuse gli occhi.

«Kurtag?» fece. «Intendi il professore amico di Nadia? Quello che è stato ucciso?»

Hanson annuì. «Sì. Era lui a finanziare tutti i progetti in cui mi coinvolgeva. Ma il denaro non era suo. Apparteneva a una fondazione per cui lui lavorava. Potremmo chiedere a loro... magari sono interessati».

«Hai modo di rintracciarli?» chiese Jean, speranzoso. Hanson si mise a pensare.

«Dovrei aver segnato un nome da qualche parte...» fece, guardandosi attorno. Cominciò a frugare in tutti i cassetti, ribaltandoli e gettando all'aria quanto non gli importava. Jean osservava tutta la scena pieno di ansia, incrociando le dita.

«Ci siamo» fece alla fine Hanson, trionfante, mostrandogli un biglietto da visita che tirò fuori dal fondo di un cassetto. «Ecco qua. Temple Foundation, 25 Cromwell Road, Londra. Mi pare che avessero un conto depositato in qualche istituto importante, in una banca dalle parti di Belgravia. Una volta ci ho accompagnato Kurtag, me lo ricordo bene».

«Temple Foudation» mormorò Jean, fissando il biglietto da visita. «Vale la pena tentare».

«Vale sicuramente la pena» commentò Hanson, annuendo decisamente. «Anche perché, attualmente, è la nostra unica speranza».



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Capitolo 7
*** 5 ***


«Quindici milioni!»

Samuel girò il foglio che aveva davanti agli occhi, forse nella speranza che le cifre che vi aveva appena letto scomparissero magicamente.

«Hai una vaga idea di quanti soldi siano?» esclamò. «Quindici milioni di sterline!»

«Smettila di ripetere sempre le stesse cose. Sei noioso».

Winston avvicinò l'accendino al sigaro e in pochi istanti nell'intera stanza si diffuse un intenso odore di tabacco. Stringendo gli occhi, prese a fissare Samuel attraverso la cortina di fumo denso che gli usciva dalle labbra, e che espirava lentamente.

«Sai meglio di me che quei soldi sono necessari» riprese Winston, dopo una pausa. «Dovevo guadagnarmi la fiducia di Wiesbaden. E ti garantisco che con uno come lui, non esistono mezze misure».

«Sì, ma quindici milioni! E per cosa, poi!»

Samuel fece il giro della scrivania, piantandosi dritto davanti a Winston. Sprofondato in una comoda poltrona in pelle, quello alzò su di lui lo sguardo sonnacchioso, più interessato alle volute in cui andava attorcigliandosi lentamente il fumo del suo sigaro, che ai gesti nervosi dell'amico.

«Guarda un po' qui» diceva Samuel, agitandogli un pacco di fogli svolazzanti davanti al naso. «Settecentomila sterline, dico, settecentomila sterline... tra spese di albergo, ristoranti, vestiti, gioielli. Senza contare l'affitto, ad uso personale si intende, di quattro, quattro, berline...»

Winston arricciò leggermente le labbra. Quel sigaro non era niente male.

«... e non berline qualsiasi. Il signorino mica poteva accontentarsi di un semplice tiro a due, no... daumont, break... persino un'escargot!»

«Mi ero dimenticato dell'escargot» fece Winston, sorridendo piacevolmente al ricordo dell'ultima volta in cui si era servito di quella carrozza. Un lungo giro attraverso la città di Parigi, compiuto in compagnia della giovane moglie del duca D'Ambreuse. Una ragazza la cui bellezza era pari solo alla sua audacia.

«Beh, io no. Come non mi dimenticherò delle altre centomila sterline da versare nelle tasche di quei succhia sangue dei Savoia, per saldare l'affitto dell'intero mese in cui ti sei trattenuto nella Venaria Reale, in Piemonte».

«Non ti preoccupare di loro» commentò Winston, con aria di sufficienza. «L'appartamento era uno schifo, metà del palazzo era adibito a caserma. Dì che pagherai, e continua a rimandare. Tanto quelli lì non durano altro mezzo secolo».

«Chissenefrega se durano mezzo secolo o mezza giornata!» ringhiò Samuel. «Cosa credi, che possa continuare a tirare fuori soldi all'infinito? In otto mesi, hai sperperato l'equivalente del bilancio di uno stato del terzo mondo».

«Adesso basta Samuel» tagliò corto Winston, spegnendo il sigaro con un gesto nervoso. «Sembri un vecchio strozzino. Cosa credi, che l'abbia fatto per divertirmi? Se ho speso quei soldi, è stato per costruirmi un'immagine. Pensi che sarei mai potuto entrare alla residenza di Wiesbaden, se mi fossi presentato per quel poveraccio che sono? Hai idea di quanta gente mi è toccato ungere, per arrivare a lui?»

«Sì, ma avresti potuto usare un po' di accortezza...»

«Al diavolo l'accortezza!» esclamò Winston, ora davvero seccato. «Sai che mi importa dei soldi. Siamo noi a reggere l'economia, no? Quindi non farti tanti scrupoli. Se non sai dove prenderli, tirali via a qualcuno. Magari agli Zar, tanto loro ne hanno sempre troppi».

«Gli Zar non hanno nemmeno i soldi per la carta igienica» mormorò Samuel, passandosi una mano sulla fronte sudata, mentre con una smorfia rassegnata gettava i resoconti sulla scrivania. «Nessuno ha più i soldi necessari. E noi dobbiamo continuare a pagare per le spese di armamento e di ricerca. Non siamo messi bene, Winston. Se continuiamo di questo passo, presto raggiungeremo il tracollo. Il mondo è sull'orlo della bancarotta, perché i mercati finanziari ristagnano. Le monarchie pensano solo a spendere, mentre la gente muore di fame agli angoli delle strade. E in tutto questo casino, non è che noi ce la caviamo meglio... le nostre casse sono quasi vuote, a causa dei prestiti fatti o promessi; e per quanto riguarda l'attacco dell'Ordine, non abbiamo ancora cavato fuori un ragno dal buco. Presto, quando non sapremo più come coprire la falla economica, l'allarme si diffonderà e sarà necessario rendere pubblico il perché di queste nostre particolari operazioni finanziarie. La gente non è stupida e presto i governi cominceranno a farsi domande».

Winston si spostò alla finestra. Con le labbra strette, fissava le persone che camminavano indifferenti lungo la strada, alcuni metri più in basso. Erano del tutto ignari delle cose che si discutevano in quelle stanze sopra le loro teste. Dietro quelle finestre oscurate da pesanti tende che non lasciavano intravedere nulla ai passanti, pochi uomini decidevano tra loro quello che sarebbe stato il destino dell'umanità, riservando al resto del mondo l'apparenza tranquillizzante di una vita normale.

Winston si cacciò le mani in tasca, lasciando ricadere la tenda, che per qualche istante continuò a dondolare davanti ai suoi occhi, prima di acquietarsi, inerte.

Chissà che non fosse meglio trovarsi dall'altra parte, pensò. Essere laggiù, completamente ignaro, uno tra i tanti; e camminare tranquillo, con la sola preoccupazione di come spendere il tempo che ancora restava per finire la giornata. Magari, proprio con lei.

Se la immaginava che rideva, mentre passeggiava al suo braccio. Il lungo abito che le frusciava attorno alle caviglie sottili, la piccola punta del piede che spuntava graziosa da sotto l'orlo della gonna, posandosi a terra leggera, come in un passo di danza. La vedeva volteggiare nei suoi movimenti, stringendosi a lui; e ogni tanto si voltava a guardarlo sincera, con quel suo sguardo così intensamente diverso dagli altri che conosceva. Così profondamente carico di promesse di una vita diversa, e migliore. Era un ricordo così bello, ma così lontano, che poteva quasi scambiarlo per un semplicissimo sogno.

«Winston? Ci sei?»

In un istante, i viali di Belgravia che aveva percorso accanto a lei otto mesi prima svanirono, lasciando il posto all'immagine sbiadita di essi che si intravedeva attraverso le tende.

«Questo sarà l'ultimo sforzo» mormorò Winston voltandosi. «So che è oneroso, ma è necessario. Per far fronte alla necessità dovremmo operare delle scelte difficili, ma è quello che l'umanità ci chiede. Se non ci mostreremo all'altezza, presto quel mondo di cui ci preoccupiamo tanto non esisterà nemmeno più».

«Ora parli proprio come De Molay» lo canzonò Samuel, cupo. Winston lo fissò con un misto di amarezza e rassegnazione.

«Concedi alla Germania i finanziamenti che aveva chiesto per l'industria pesante. Se tutto va come dovrebbe, nel giro di qualche mese comincerà a mordere i confini francesi. Presto anche la Francia si mobiliterà; e i soldi allora cominceranno a girare».

«Sai che questo significa una guerra, vero?»

«Sì, ma abbiamo ancora qualche anno di tempo, forse qualche decennio. Ci penseremo al momento opportuno, se ancora ci saremo» tagliò corto Winston. «Poi occupati della Russia. Dai agli Zar tutti i soldi che ti chiedono, perché continuino a spenderli come hanno sempre fatto. Presto la gente non ne potrà più di quei parassiti e si ribellerà. I socialisti ci daranno una mano, in questo senso... quando ero a Ginevra ho conosciuto questo tipo... Plechanov se non sbaglio» Winston schioccò le dita, sporgendo le labbra. «Un povero ingenuo, che però si accompagnava a un altro tizio, molto più intelligente di lui, tal Uljanov. Ho avuto modo di parlarci, e di conoscere le sue idee e quelle del suo gruppo... Emancipazione del lavoro, credo si chiamasse, o una roba del genere. Insomma, le solite storie. Niente che già non conosciamo. Ma al di là di questo, quel tipo ha le idee chiare a proposito del futuro della Russia. Al contrario dei suoi cosiddetti compagni, sa perfettamente che la rivoluzione può essere attuata solo in un modo, se non si vuole rischiare di rimetterci soldi e potere. Cacciando il vecchio apparato di regime e sostituendolo con una nuova e speculare burocrazia, spacciandola come se fosse stata partorita dal popolo. In questo modo, la gente crederà di essersi liberata del vecchio padrone, senza accorgersi che intanto i servi l'hanno fatto rientrare in casa dalla finestra».

«E quindi cosa suggerisci di fare?»

«I soldi arriveranno se li spenderemo nel modo giusto. Finanzia questa gente, e allo stesso tempo dai modo agli Zar di rendersi sempre più odiosi. Quando cadranno, la borghesia sarà pronta a prendere il loro posto, e ci rifonderà di tutto ciò che abbiamo speso con gli interessi. Senza contare che il mondo intero correrà come un pazzo a mettersi al sicuro dal pericolo socialista, finanziando l'industria pesante a livello globale».

Samuel si appoggiò al bordo della scrivania, incrociando le gambe. Scrutò Winston con ammirazione e sospetto.

«Sai, quando dicevi che bisogna avere un'anima per fare quello che fai, non ti avevo capito» disse. «Per me eri solo un fottutissimo stronzo. Ma adesso che ti sento parlare, mi rendo conto di averti sottovalutato. Se sei uno stronzo, è solo perché hai perso per strada quel poco di anima che ancora avevi».

«Può essere» commentò Winston, voltandogli le spalle. «Ormai è un problema che non mi riguarda più».

«Anche perché sembra che tu abbia appreso alla perfezione tutto quello che De Molay poteva insegnarti...»

Winston tacque. Si avvicinò nuovamente alla finestra ma si limitò ad accarezzare la tenda, prima di ritrarre la mano come se si fosse scottato.

«Comunque» riprese Samuel, come se niente fosse «sono tutte operazioni a lungo termine. Se tutto va bene, e non è detto che sia così, vedremo i frutti tra non meno di vent'anni. Peccato però che i soldi ci servano adesso».

«Prendili agli Stati Uniti, allora; e in cambio, assicurali che avranno la possibilità di dire la loro su Cuba».

«Cuba appartiene alla Spagna. Non sarà contenta».

«Si fotta. Dai il permesso agli Stati Uniti di intervenire a Cuba. Quei vaccari eleggeranno il loro fantoccio e saranno finalmente contenti, illudendosi di avere un'anima coloniale. Poi, fatti dare i soldi».

«Sono dei poveracci».

«No, non è vero» ribatté Winston. «È appena scoppiata la corsa all'oro. Sono pieni zeppi di denaro. Convincere quel cretino di McKinley non sarà un problema, credimi. Fagli fiutare qualche interesse e accorrerà come un'ape al miele. Poi ungi il governatore Roosvelt. È un povero stupido, un boyscout che crede di incarnare l'ideale dell'autentico pioniere, ma in realtà non è che un guerrafondaio ultra nazionalista. Promettigli che tra qualche anno sarà presidente. Quando lo diventerà, gli presenteremo il conto».

«Bene».

«E chiedi soldi anche alla corona Inglese. Se si rifiutano, dì loro che non li aiuteremo quando le colonie si ribelleranno alle loro porcate nazionaliste. E ti garantisco che lo faranno».

«Agli ordini, signore» disse Samuel. La sua voce aveva qualcosa di ironico. Winston si rabbuiò, infastidito.

«Non chiamarmi così, idiota».

«Sai, c'è qualcosa di elettrizzante in tutto ciò» commentò Samuel, allegro, mentre raccoglieva le sue carte. «Voglio dire... non lo trovi eccitante anche tu, tutto questo potere?»

Winston lo incenerì con lo sguardo.

«Vado» mormorò Samuel, schiarendosi la voce e allontanandosi in silenzio. Stava già per uscire, quando il telefono sulla scrivania squillò. Winston e Samuel si scambiarono un'occhiata veloce; quindi Winston agguantò la cornetta, portandosela all'orecchio.

Ascoltò in silenzio la telefonata. Tutto ciò che disse fu un semplice «va bene», mormorato un secondo prima di chiudere la conversazione.

«Che succede?» fece Samuel, richiudendo la porta. Aveva notato l'espressione perplessa di Winston. Lui si grattò il mento.

«Qualcuno chiede il permesso di accedere al fondo Kurtag» disse Winston. «Mi chiedo chi sia».

«Andiamo a vedere?»

Winston restò immobile a pensare per qualche istante. Quindi afferrò la giacca, indossandola con fare annoiato.

«Perché no?» disse. «Avevo giusto voglia di fare due passi».

 

 

*

 

 

Con gli occhi fissi su un punto imprecisato avanti a sé, Jean continuava a rigirarsi il cappello tra le mani. Muoveva nervosamente la gamba destra, come in preda da un attacco nervoso. Innervosito, Hanson gli lanciò più di un'occhiataccia. Vedendo che non accennava a smettere, gli piantò una mano sul ginocchio, esasperato. Jean trasalì, voltandosi a guardarlo con gli occhi sbarrati.

«Smettila» sibilò Hanson, sporgendosi verso di lui. «Mi rendi nervoso».

Jean annuì. Trasse un profondo respiro, quindi tornò a guardare l'uomo in camicia e finanziera che sedeva loro davanti. Teneva le mani intrecciate e posate diligentemente sulla scrivania, fissandoli con particolare curiosità. Quando incrociò gli occhi di Jean, il suo volto si piegò leggermente, e la punta sottile del suo baffo destro si sollevò in modo appena percettibile.

Jean si irrigidì, sospirando. Hanson, al suo fianco, represse una smorfia.

«Sono sicuro che sarà questione di un attimo» esordì l'uomo all'altro lato del tavolo. «I signori titolari del conto saranno qui a momenti».

Hanson annuì, sorridendo debolmente. Piegò gli occhi in direzione di Jean, che ora fissava il soffitto. La pendola suonò mezzogiorno.

«Ho già parlato a lor signori della necessità di offrire una garanzia?» fece l'uomo all'improvviso, attirando su di sé l'attenzione dei due. Hanson e Jean si scambiarono un'occhiata.

«Garanzia?»

L'uomo arricciò le labbra, come se stesse per scoccare un bacio a qualcuno.

«Giusto una formalità. Per garantire che il prestito non sia a fondo perduto».

«E giusto per chiedere» fece Hanson, agitando la mano con fare vago. «A quanto dovrebbe ammontare, questa garanzia?»

L'uomo slacciò le mani, posando i palmi sul piano, ad una distanza quasi perfetta l'uno dall'altro. Abbassò gli occhi cercando qualcosa con cui scrivere. Quindi, con un gesto affettato, intinse la penna nel calamaio e tracciò alcune cifre su un foglio bianco.

«Lor signori chiedono alla banca un prestito di due milioni di dollari, equivalente a circa... ottocentomila sterline... dico bene?»

Jean deglutì. Erano tanti soldi.

«Considerando il venti per cento...»

«Il venti per cento?»

L'uomo smise di scrivere, alzando gli occhi sull'espressione bovina di Hanson. Quando questi sorrise, impallidendo, l'uomo tornò ad abbassare lo sguardo sul foglio.

«... il venti per cento fa esattamente quattrocento mila dollari, cioè centosessanta mila sterline, se non vado errato. Mi correggano pure».

«Centosessanta mila... sterline» ripeté Hanson, voltandosi a guardare Jean. Il ragazzo sbiancò, stringendo le labbra.

«Non possediamo tutti quei soldi» disse, secco. L'uomo alla scrivania lo fissò con evidente desolazione.

«Sono sicuro che i signori possiedono qualche bene di proprietà... una casa, un terreno... una attività...»

«Io sono professore universitario. Il mio amico è un meccanico».

L'uomo si irrigidì. Con movimenti lenti e precisi, ripose la penna nel calamaio e mise il foglio da parte, riservandogli un'ultima occhiata. Quindi sollevò gli occhi, unendo le mani davanti al volto e sorridendo freddamente.

«Case?» fece.

«Una, a Le Havre. Ma è completamente da ristrutturare».

L'uomo fece una piccola smorfia. Guardò Hanson, che cominciò a sudare.

«Un'officina... a Baltimora. Nella... zona del porto. Ma devo finire di pagare il mutuo».

Il contabile abbassò gli occhi, raschiandosi la gola con un leggero colpo di tosse. Quindi si aggiustò la sottile cravatta di seta nera, che gli pendeva dal colletto inamidato come il cadavere di un impiccato.

«Vedete, signori» disse. «Il prestito che chiedete è considerevole... magari, se poteste optare per una soluzione più conveniente... sono sicuro che in veste di amici del defunto professor Kurtag, i titolari potrebbero venire loro incontro».

«Purtroppo non esistono soluzioni più convenienti» fece Jean. Il contabile scrollò le spalle, ammutolendosi.

Nessuno disse più nulla per un po'. Dopo qualche istante di pesante imbarazzo, l'uomo finì col disinteressarsi completamente di Jean e Hanson, mettendosi a lavorare in silenzio. Jean resistette ancora qualche istante. Quindi, spazientito, si alzò.

«Ci dispiace di averle rubato del tempo» fece, tendendo una mano al contabile. L'uomo lo fissò sorpreso, ma decisamente sollevato. Fu con un sorriso che si alzò leggermente dalla sedia, tendendogli la punta delle dita della mano destra.

«Arrivederci, signori» fece, con un tono che suonava piuttosto canzonatorio «è stato un vero piacere».

Qualcuno bussò alla porta e un giovane impiegato in camicia e mezze maniche entrò, seguito da due distinti uomini in abito scuro.

«Mr. Howard, sono arrivati i signori che stavate aspettando».

Jean socchiuse gli occhi, fissando i volti decisi dei due. Entrarono con i cappotti piegati su un braccio, il cappello in mano, il portamento fiero. Più che due ricchi finanzieri, sembravano piuttosto due ufficiali in borghese.

«Signori, che piacere. Spiacente di avervi disturbato... in effetti questi signori stavano giusto per andarsene e...»

«Davvero?» fece l'uomo più alto, dai capelli neri e lucidi, pettinati con cura all'indietro. Il suo sguardo era fiero, e aveva qualcosa che turbava Jean profondamente, come se nascondesse un'ombra sul fondo dei suoi occhi, pronta a sfuggirgli al primo accenno di distrazione. Sembrava quasi che quell'uomo convivesse con uno spettro terribile, dentro di sé, uno spettro che non gli dava tregua e che riusciva a stento a controllare.

«Eppure non ci abbiamo messo molto» disse l'uomo. «Se è perché vi abbiamo fatto aspettare...»

«No, è che...»

Gli occhi di tutti si puntarono addosso ad Hanson. Lui arrossì, sorridendo. Fece un passo indietro, ammiccando a Jean perché continuasse.

«Non possiamo coprire la garanzia» ammise Jean, con semplicità. «Se l'avessimo saputo prima, non vi avremmo nemmeno disturbato. Siamo noi a scusarci per l'inconveniente».

I due uomini si scambiarono un'occhiata.

«Posso sapere i vostri nomi, signori?» disse l'uomo alto, avvicinandosi mentre si sfilava i guanti di pelle. Tese la mano a Jean, che gliela strinse.

«Jean Luc Lartigue. E questo è il signor Hanson Garrett».

Lartigue... Garrett...

Winston socchiuse gli occhi, mentre tendeva la mano ad entrambi. Dove aveva già sentito quei nome?

Ma certo!

«Voi siete amici di Nadia Ra Arwol, non è così?»

Jean trasalì. L'espressione sul suo volto rivelò a Winston la verità che si aspettava.

«Lei conosce Nadia?» chiese Hanson. Winston si volse sorridente verso Samuel, che lo fissava divertito alle sue spalle.

«Prego, signori, vogliate accomodarvi» fece Winston, indicando loro le poltrone. «Sono sicuro che abbiamo molte cose di cui discutere».

 

 

*

 

 

Le strade che portavano in Largo 2 Luglio, a Bahia, traboccavano di gente come un gigantesco calderone ribollente. Donne in abito da baiana, ballavano il samba al ritmo sfrenato di orchestre di violini, fisarmoniche e chitarre. Uno di essi, un chitarrino famoso, il cui nome correva sulla bocca di tutti, si lanciò in un formidabile assolo; al termine del quale, le grida stupefatte di quanti avevano atteso impazienti l'abbattersi esausto dell'ultima nota, eruppero fragorose in quella notte di festa, come un vulcano, o l'esplosione di un fuoco d'artificio.

Jean scansò un gruppo di ballerini che si contorceva davanti a delle ragazze conciate in modo piuttosto appariscente, e che osservavano tutto e tutti ridacchiando tra loro. Qualcuno sgusciava barcollante agli angoli delle vie, là dove era più buio, per sottrarsi al calore e alla ressa. Ovunque, la puzza di acquavite e cachaça impregnava le strade, bagnando l'aria che si riusciva appena a respirare, se si sporgeva la testa oltre la fiumana di gente che si riversava ininterrotta per la via. Jean si addossò al muro, lasciando passare un carro carico di giovani e meno giovani, tutti ugualmente brilli. Il mulo che lo tirava ragliò, scalpitando lungo l'acciottolato, lasciandosi dietro un vago puzzo che aveva in sé qualcosa di miserevole.

«Vadinho! Vadinho!» gridava la folla, eccitata. Jean si volse. Alle sue spalle, un giovanotto in abito da baiana era salito sopra delle casse di whisky, e si agitava come fosse stato morso da una tarantola. Con una smorfia a metà strada tra un sorriso e un ghigno, Jean si allontanò, risalendo contro la corrente che da S. Pedro, fino all'Avenida 7 Aprile, sgorgava lì impetuosa, tra schiamazzi e grida, per poi dirigersi verso il Campo Grande, dove si celebrava il rito del Candomblè.

«Ehi senhor! Aqui!»

Jean aguzzò gli occhi. Un giovanotto, un ragazzone sui quattordici anni ma che ne dimostrava almeno cinque in più, si faceva largo tra la folla, agitando un braccio. Quando lo raggiunse, gli si piantò davanti, tutto sudato, la camicia sbottonata e sporca, che puzzava di acquavite e di sudore.

«Senhor, non deve stare qui. Qui è facile perdersi. La guido io. Mi dica dove va».

Jean alzò una mano, sorridendo. Fece per andarsene.

«No, no, senhor! Aspetti!»

Il ragazzo gli corse appresso, agitando le mani. «Di là è peggio che qui, giuro. Pieno di ubriachi. Gente non a posto, mi creda».

Jean sorrise. Chissà perché quel ragazzo gli stava simpatico.

«Peggio che qua?» fece.

«Peggio, peggio» rispose il ragazzo.

«Come hai capito che non ero di qui?» chiese Jean. Il ragazzo sorrise, scrollando la testa.

«Solo uno straniero si mette a risalire la processione del Candomblè, senhor».

Jean scoppiò a ridere. In effetti, aveva un suo senso.

«Sto cercando questo posto» disse, estraendo un foglietto e aprendolo davanti agli occhi del ragazzo. Una tromba prese a suonare poco distante, accompagnata dal frastuono assordante degli atabaques, che facevano quasi tremare la terra. Il ragazzo stava dicendo qualcosa, ma Jean non udì un bel niente.

«Dicevo che lo conosco» gridò il ragazzo, all'orecchio di Jean. «Non è lontano. In Avenida Nuova. Per cinque dollari americani la porto».

«Cinque?» Jean diede una pacca sulla spalla del ragazzo. «Per cinque dollari me lo trovo da solo».

«Aspetti, senhor! Aspetti!»

Jean si voltò a guardarlo. Il ragazzo gli sorrise, piegando un dito della mano sinistra. «Quattro» fece.

«Tre» disse Jean, segnandolo con le dita. Il ragazzo fece una smorfia, sembrò pensarci un po' su, poi «lei mi rovina senhor!» disse. «Ma mi è simpatico. Andiamo».

Lo condusse attraverso un vicolo buio. Continuava a muoversi velocemente, voltandosi ogni tanto a lanciargli qualche occhiata incoraggiante. Jean si guardava attorno, poco convinto. Forse, dopotutto, non era stata un'ottima idea quella di seguire uno sconosciuto in un vicolo deserto.

«Senhor, di qua».

Un altro vicolo, sempre deserto. Ormai era così tanto che giravano che anche volendo, Jean non sarebbe più stato in grado di ritornare indietro da solo.

«Sei sicuro che sia la strada giusta?» fece, voltandosi a guardare alle proprie spalle. Le uniche persone che vedeva erano le prostitute che si affacciavano ai balconi per fumarsi una sigaretta, o gli ubriachi che erano caduti addormentati agli angoli delle case. «È parecchio che camminiamo».

«Ancora poco, senhor. È la strada migliore, mi creda».

Jean sospirò. Stava quasi per tornare indietro, quando il ragazzo si volse ad indicargli l'uscita dal vicolo. Si trovavano in Avenida Nuova, e lì il clima festoso della processione sembrava non essersi ancora propagato. La gente camminava tranquilla, e a parte qualche gruppo più scalmanato degli altri, la folla era piuttosto composta. Più che altro si trattava di persone che si dirigevano in tranquillità a Campo Grande, o che rientravano a casa.

«Ecco, senhor. Laggiù».

Jean allungò un'occhiata verso l'altro lato della strada. Una porta illuminata recava un'insegna, dipinta a mano. Sopra una tavola di legno era possibile leggere in caratteri corsivi Orixià. Jean guardò sorridente il volto raggiante del ragazzo, che indicava il locale fiducioso.

«Tieni» disse, mettendogli in mano cinque dollari, più che altro per mettere a tacere il proprio senso di colpa. «Te li sei guadagnati».

«Gracias!» fece il ragazzo, esultando. Quindi scomparve, correndo veloce lungo la via.

Mentre lo guardava sparire tra la folla, un vento sottile risalì l'Avenida, provenendo dal mare e portando con sé il profumo delle onde. Jean, ancora accaldato, rabbrividì. Si cacciò le mani in tasca e controllando da una parte e dall'altra della carreggiata, attraversò la strada.

Quando entrò, il locale si presentò mezzo vuoto. La porta si chiuse alle sue spalle, cigolando e sbattendo. Le teste degli avventori si voltarono stanche, fissando Jean con un interesse via via sempre più debole. Con un sospiro, Jean si avvicinò al bancone.

Un uomo grasso, si alzò da un tavolo, gettando via le carte che aveva in mano. Gridò qualcosa ai suoi compagni di gioco, ridacchiando sguaiatamente. Quindi, asciugandosi le mani sullo strofinaccio unto che portava infilato nella cintura, si infilò dietro al bancone. Fissò Jean dall'alto in basso, senza spiccicare parola. Le sue mani sembravano due grosse noci di cocco.

«Desidera?» fece, quasi masticando. Jean sorrise forzatamente.

«Cercavo Sanson Garrett. So che lavora come guida, e che gestisce questo locale».

L'uomo fissò Jean per qualche istante, come soppesandolo a distanza. Quindi inarcò un sopracciglio.

«E chi lo cerca?»

«Sono un suo vecchio amico...»

Un sibilo improvviso tagliò l'aria, seguito da un tonfo. Jean indietreggiò, fissando atterrito il gigantesco coltello che si era conficcato nel bancone, proprio accanto a lui. Si voltò, pallido in volto.

«Ti avevo detto di starmi lontano» fece Sanson, avvicinandosi. Jean lo fissò dritto in faccia, senza battere ciglio. Lui si avvicinò, osservandolo attentamente, come per incutergli paura.

«Che ci fai qui?» disse, staccando con facilità il coltello dal legno. L'uomo dietro al banco si allontanò con un'occhiata annoiata, ritornando al tavolo da gioco. «Sembri diverso da come ti ricordavo».

«Anche tu, se è per questo» disse Jean. In effetti era vero. Sanson sembrava molto più magro. Il suo volto si era fatto più spigoloso e duro e aveva perso quella sua aria da dongiovanni.

«Otto mesi sono lunghi» disse Sanson, infilandosi il coltello nella fondina, alla cintura. «E qui passano ancora più lentamente. Vieni» fece, con un cenno «sediamoci».

Jean lo seguì a un tavolino appartato. Sanson prese una bottiglia e la stappò allungandogli un bicchiere.

«Dovrebbe essere pulito» fece annusando il contenuto della bottiglia. Quindi ne versò un po' a Jean.

«Liquore di cacao. Lo fa Alvaro» disse, ammiccando in direzione dell'uomo che serviva al bar. «Dice che la ricetta è di sua nonna. Non so se sia vero, ma è buono».

Jean portò il bicchiere alle labbra. Per poco non soffocò. Quella roba puzzava come petrolio andato a male. Sanson rise.

«Sai, dopo un po' di tempo, da queste parti si perde il gusto per la raffinatezza» fece, stravaccandosi sulla sedia. «Ma si acquista quello per la sincerità. Di gran lunga preferibile, credo».

«Ti chiedo scusa per quello che è successo» fece Jean. Sanson lo fissò, e gli occhi gli brillarono.

«Non dirmi che sei venuto fin qui per chiedermi scusa?»

«No. Sono qui perché voglio che mi aiuti».

«Ma davvero? Hai un bel coraggio» rise. «E a fare che?»

«A ritrovarle»

Sanson restò impietrito a fissarlo, il sorriso che gli andava lentamente spegnendosi in volto. Quindi sospirò, appoggiandosi con i gomiti al tavolo.

«Mi prendi in giro?»

«Assolutamente».

Nessuno dei due disse più nulla. Alla fine, Sanson si alzò.

«Levati dai piedi, idiota».

«Sappiamo come fare. È stata Elektra a dirmelo».

«Elektra?»

Sanson ritornò sui suoi passi, piantandosi a gambe larghe davanti a Jean.

«E questo come è successo?»

«Non ha importanza».

«Ah...»

Sanson studiò Jean intensamente. Quindi si sedette, scoppiando a ridere.

«Tu e Elektra?» fece. Jean arrossì. «Ah! Non riesco a crederci! Beh, Jean... complimenti. Gran bel colpo, ragazzo!»

Jean impallidì e distolse lo sguardo. Accorgendosi della sua espressione, Sanson represse le proprie risate e si rifece serio.

«Quindi è stata lei a dirtelo? E come pensi di fare?»

«Io e Hanson abbiamo già studiato tutto. Dobbiamo recuperare il relitto dell'Exelion, nella fossa del Giappone. Quindi dovremmo introdurci nelle rovine della vecchia Atlantide, là dove ci aveva portato Elusys. Collegando la pietra al motore, potremmo...»

«Ehi, ehi. Ferma».

Jean alzò gli occhi. Sanson scuoteva il capo.

«Potremmo?» fece. «E quali sono i rischi?»

«Non voglio mentirti...»

«Mi sembra un'ottima cosa» commentò Sanson.

«Potremmo rimetterci la pelle. Senza contare che esiste il rischio che una volta attivata la pietra, anziché su Atlantide, si finisca da qualsiasi altra parte nell'universo».

Sanson strabuzzò gli occhi. «Cioè, mi stai dicendo che potremmo ritrovarci a zonzo nello spazio? E questo nella migliore delle ipotesi?»

«All'incirca» fu il commento di Jean.

Sanson si afflosciò contro la sedia. Gonfiò le guance e si grattò in testa.

«I soldi?»

«Li abbiamo. Due settimane fa, io e Hanson abbiamo raggiunto un accordo con i finanziatori di Kurtag. È gente piuttosto potente... poi ti spiegheremo meglio. Comunque è già tutto pronto. Manchi solo tu, il nostro pilota e tiratore scelto».

«Potente, in che senso?»

«Nel senso che ha la possibilità di fare ciò che vuole».

«Che in questo mondo, non è male» commentò Sanson. Jean annuì.

«C'è ancora una domanda» fece Sanson. Jean strinse gli occhi. «Una volta lassù, che faremo?»

«Ci penseremo quando sarà il momento» rispose fermo Jean. «Sei con noi?»

Sanson inarcò un sopracciglio, intrecciando le mani dietro la nuca. Guardò Jean per un po', poi abbassò gli occhi, facendosi meditabondo.

«Immagino che quel pazzo di mio cugino abbia accettato» mormorò. Jean rispose con un cenno del capo.

«E dici che abbiamo la possibilità di trovarle? Tutte e tre?»

«Dico che è l'unica possibilità che abbiamo» fece Jean. Sanson si passò una mano sul volto, sospirando profondamente. Alzò gli occhi al soffitto e si voltò, guardandosi intorno.

«Ci ho messo tutti i miei soldi, in questo buco» fece. «Credevo di poter sfuggire al passato, rintanandomi qui... ma evidentemente, non sono stato bravo a coprire le mie tracce».

«Forse» azzardò Jean, con un sorriso «non ci sei riuscito perché non volevi davvero tagliare i ponti».

«Forse» ammise Sanson. E sorrise.

«Sai cosa ti dico?» disse, battendo le mani sul tavolo. «La vostra idea è così pazza che mi piace. Sono con voi. Ma prima, brindiamo. Brindiamo alla nostra amicizia, ritrovata dopo tanto tempo».

«Bene» fece Jean, con un sorriso. Sanson annuì.

«Alvaro! Porta quella buona!» gridò. Con una smorfia, l'uomo si alzò dal tavolo, fiacco, ciondolando dietro il banco ed estraendo una bottiglia tutta impolverata, che portò loro posandola con un tonfo sul tavolo, prima di allontanarsi in silenzio.

«Ecco» fece Sanson, versando per terra ciò che restava nel bicchiere di Jean e sostituendolo con quanto conteneva la bottiglia appena portata. «Nemmeno so cosa ci sia qua dentro. Alvaro se lo porta dietro da quando era un marmocchio. Lo conservavo per qualche occasione speciale. Su, dimmi com'è».

Jean portò il bicchiere alle labbra. Tossì. Era la stessa robaccia di prima, solo più puzzolente, e con un vago retrogusto sabbioso.

«Buono...» fece, con le lacrime agli occhi. «Fantastico per digerire».

«Ottimo» fece Sanson, allegro. «Sono contento! Ah, un'ultima cosa...»

Jean alzò gli occhi, asciugandoseli dalle lacrime.

«Cosa?»

«Per favore, Jean, tagliati quella barba» fece Sanson, scuotendo la testa. «Ti fa sembrare uno scemo».

 

 

 



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Capitolo 8
*** 6 ***


Le vecchie campane della Marktkirche risuonarono improvvisamente, squarciando con un solo rintocco il velo di quella notte fredda e senza stelle. Lisa rabbrividì, stringendosi nello scialle, mentre scendeva a passo svelto lungo le strette vie che dal Mitte, l'antico quartiere del centro, si dipanavano fino a raggiungere la riva sinistra del fiume.

Un altro rintocco, stavolta però più di un tono più alto. Mezzanotte. Inclemente, l'antico campanile continuava a sancire lo scorrere delle ore. Lisa si affrettò, inseguita dal cupo rimbombo delle campane che si propagava tutt'attorno a lei, spalmandosi lento sui muri per poi svanire improvviso, rapito dal denso gorgogliare del fiume.

Era inquieta. Erano ormai diversi mesi che si trovava ad Hannover, al diretto servizio – se così si poteva dire – del barone Wiesbaden; tuttavia, non era ancora riuscita ad abituarsi a quell'idea. A conti fatti, riuscire ad avvicinare il barone era stato per lei un semplice colpo di fortuna, nulla di più, reso possibile dalle conoscenze – il più delle volte discutibili – che aveva acquisito grazie agli anni di gavetta passati a sfacchinare per altri nelle retrovie del Times. Quindi per lei, che non era un agente segreto, né una spia, scoprire che Wiesbaden avrebbe preso parte a una grande festa di beneficenza, organizzata a Hampton Court dal primo ministro inglese, fu un risultato a dir poco insperato, un'informazione del tutto inaspettata che avrebbe però rischiato di rivelarsi del tutto inutile, vista l'assoluta mancanza di possibilità, per una della sua condizione, di farsi accreditare tra gli ospiti.

Certo, se allora avesse potuto contare sull'aiuto di Winston, tutto sarebbe stato più semplice. Probabilmente, lui sarebbe riuscito a procurarsi un invito, o qualcosa di simile; e insieme avrebbero potuto mischiarsi tra gli ospiti senza troppi problemi. In fondo, Winston si era sempre dimostrato bravissimo, in cose come quelle. Peccato che fosse così bravo anche nel mentire alle persone. E che per questa ragione, lei non volesse più averci nulla a che fare.

Fu solo merito di Hunter, quindi, se Lisa riuscì a introdursi a quella festa. Grazie a qualche pressione esercitata sulle persone giuste, il direttore del Times riuscì a procurare a Lisa un incarico come cameriera. Per lei fu più che sufficiente. Una volta dentro, avvicinare il barone con una scusa qualsiasi si rivelò un gioco da ragazzi, proprio come fargli scivolare all'orecchio il nome di Nadia, sussurrandolo mentre gli versava con disinvoltura dell'ottimo champagne da duecento sterline al litro in una elegante flûte di cristallo decorato. Il barone represse a stento lo stupore, rischiando di mandare di traverso la tartina al salmone che ancora stava finendo di masticare. Ma da allora, grazie a quell'azzardo di cui lei stessa non mancò di stupirsi, la ''carriera'' di Lisa subì una decisa quanto rapida impennata, passando in una sola sera da semplice cameriera a consulente personale di Ludwig von Wiesbaden, barone della casata di Hannover.

Però...

Però, per quanto una carica del genere fosse un'assoluta garanzia per i suoi piani, Lisa non si sentiva tranquilla. La paura che al minimo passo falso Wiesbaden avrebbe potuto scoprirla e venire a conoscenza delle sue reali intenzioni, era per lei un incubo ricorrente. Certo, era stata furba. Aveva preso tutte le precauzioni del caso, infiorettando ad arte una storia sulla sua amicizia con Nadia a cui il barone non avrebbe potuto non credere. Aveva trascorso notti intere a idearla in tutti i particolari, cucendoli insieme per poi disfarli e ricucirli ogni volta in ordine differente, mettendoli e rimettendoli alla prova. Finché non era riuscita a ricreare una realtà alternativa, del tutto verosimile ma assolutamente fasulla, che le consentiva di mantenere una certa sicurezza di fondo per sé e per le altre persone coinvolte. Attirato dalla conoscenza che Lisa poteva vantare nei confronti di Nadia e della sua vita, il barone aveva creduto in tutto e per tutto a quello che lei gli aveva raccontato, e pian piano aveva preso a concederle una fiducia quasi imbarazzante. Non si muoveva se non l'aveva al fianco, non c'era pratica a cui lei non avesse accesso, e ogni volta che il barone era impegnato in un incontro, lei e Hofmann – il banchiere – erano gli unici che desiderava avere attorno. In quelle condizioni, riuscire a venire a conoscenza di un modo per aiutare Nadia sarebbe stata solo questione di tempo, e di pazienza.

Certo, questo finché Winston non si era rimesso in mezzo, complicando enormemente le cose.

Lisa sospirò, scuotendo la testa. Non c'era nulla da fare. Per quanto desiderasse odiarlo dal più profondo del cuore, dal momento in cui aveva rivisto Winston, tutto per lei era diventato improvvisamente confuso e i sentimenti che credeva di aver seppellito una volta per tutte erano ritornati prepotentemente a galla. Per quanto provasse a lottare, per quanto avesse tentato di rispondere a quei sentimenti con il disprezzo e l'odio che aveva provato di fronte al suo tradimento, Lisa non riusciva a dimenticare la malinconia che aveva letto per così tante volte nello sguardo di lui, momenti in cui le era sembrato che i loro cuori fossero così vicini da potersi perfino toccare. Ed era proprio quella malinconia, quel suo dolore segreto e così fieramente trattenuto, che lei ricordava ancora così bene e che la costringeva nonostante tutto ad amarlo, anche se avrebbe preferito in assoluto il contrario.

In preda a un vago senso di malessere, Lisa tornò a guardarsi intorno. Il silenzio era di nuovo calato attorno a lei, rotto solo dal borbottio confuso di un ubriaco che indugiava all'angolo della strada. Lisa lo osservò percorrere a passo ondeggiante lo stretto marciapiede fangoso, il cappello calcato in testa e il volto affondato nel bavero del cappotto. Quando lei gli passò accanto, lui si voltò a guardarla, gli occhi sbarrati, seguendola nel suo avanzare con quello che al buio le parve un sorriso fin troppo sinistro, e a cui lei reagì chinando subito il volto, imbarazzata.

Stupida. È tutta colpa tua.

Sapeva che non avrebbe dovuto trovarsi lì da sola, a quell'ora di notte. Ma quella sera aveva sentito l'impellente bisogno di riflettere. Perciò aveva deciso di andare alla vecchia Marktkirche, per starsene un po' da sola.

Peccato che, da vera incosciente, si fosse trattenuta più del dovuto.

Improvvisamente, dei passi risuonarono decisi alle sue spalle. Lisa trattenne il fiato, che per un attimo smise di raggrumarsi davanti al suo volto in una nuvola di vapore. Il volto pallido, continuò a camminare, cercando di trovare il coraggio per non voltarsi e mettersi a correre. Dietro di sé, sentiva i passi farsi via via più vicini.

Poteva trattarsi dell'ubriaco. Sì, si trattava sicuramente di lui, non c'era nessun altro lì intorno. Con apprensione, Lisa si voltò di poco, cercando di individuare con la coda dell'occhio chi la stesse seguendo. Con stupore, si accorse che chiunque fosse, era sparito. Non c'era più nessuno. Del tutto incredula si guardò intorno, le labbra socchiuse, gli occhi tesi a scrutare nel buio.

Niente.

Evidentemente, doveva essersi ingannata.

Buon dio, si disse, passandosi una mano sulla fronte imperlata di sudore, sto davvero impazzendo...

«Ehi, tesoro. Che ne dici di farti un giro?»

Lisa trasalì. Si voltò sgomenta, giusto in tempo per sentirsi strattonata per un braccio. Con il cuore in gola, cominciò a dimenarsi, nel vano tentativo di liberarsi dalla presa dell'uomo che la stava letteralmente trascinando nel buio di un vicolo, tappandole la bocca con la mano.

«Stai buona! Ehi!»

«Mi lasci, farabutto...» gridò lei, riuscendo a liberarsi per un attimo. Ma l'uomo la riagguantò in pochi istanti, spingendola contro il muro e prendendole il viso tra le mani, per costringerla a guardarlo.

«Zitta, stupida. O ti farai sentire da mezza città».

Non appena riconobbe il suono di quella voce, il volto di Lisa passò da un'espressione di stupore a un sorriso raggiante, che però si trasformò quasi subito in una smorfia di dispetto.

«Lei!» ringhiò. «Ma che diavolo le salta in mene? Mi ha fatto davvero paura».

Il volto di Winston spuntò dal bavero del cappotto, illuminato per un istante dal debole chiarore dei lampioni. Le sorrise, ammiccante.

«Mi spiace» si scusò. «Ma non le ha detto nessuno, che una ragazza non deve andare in giro da sola, di notte?»

«Ciò che faccio non sono affari suoi» scattò lei, divincolandosi. Winston restò a guardarla sogghignando, mentre lei cercava di ricomporsi senza troppo successo, fissandolo fiera.

«Cosa vuole da me?» chiese, in tono per nulla amichevole. «Vuole farci tutti ammazzare? Se Wiesbaden dovesse vedermi mentre parlo con lei...»

«Wiesbaden non lo saprà» tagliò corto Winston, con un sorriso ambiguo. «Se non sarà lei a dirglielo».

Lisa impallidì.

«E con questo, che cosa vorrebbe insinuare?»

«Niente» fece lui, con una smorfia. «Dimentichi quello che ho detto. Andiamo, mi segua».

Lisa si lasciò condurre suo malgrado attraverso il buio del vicolo, mentre continuava a lanciare tutt'attorno occhiate impaurite. Winston avanzava sicuro, sospingendola per il braccio, sul volto un'espressione di assoluta tranquillità.

«Non faccia così, cerchi di rilassarsi. O tutti penseranno che ha qualcosa da nascondere» le mormorò a denti stretti, fissando sempre dritto davanti a sé. «Provi ad essere naturale, se le riesce».

«Naturale?» obiettò lei. «E come pensa che sia possibile?»

«Siamo una semplice coppia che si sta recando da qualche parte in carrozza» disse lui, fermandosi all'uscita del vicolo. Lisa gli lanciò uno sguardo stupito. Sotto il vecchio soprabito che indossava fino a qualche minuto prima, e di cui si era prontamente liberato, Winston nascondeva un elegante completo da sera, che lo fasciava alla perfezione. Lei non poté fare a meno di lanciarsi un'occhiata smarrita, a causa del vestito semplicissimo che indossava.

«Non si preoccupi» fece lui, alzando un braccio a fermare una carrozza. «Sta divinamente».

Lisa arrossì, mentre lui le apriva la portiera per farla salire. Quando furono a bordo, il cocchiere fece schioccare la frusta e la carrozza prese a muoversi, ondeggiando.

«Cerchi di rilassarsi» fece Winston, non appena si fu richiuso lo sportello della vettura alle spalle. «Va tutto bene. Tutto procede secondo i miei piani; e finché farà come le dico, non avrà nulla da temere».

«Non sono tranquilla» fece lei, gettando preoccupata uno sguardo al finestrino. Ai suoi occhi, le persone che camminavano lungo la strada sembravano lanciare alla carrozza occhiate sospettose e cariche di minacce, quasi fossero in grado di scorgere al suo interno.

«Se Wiesbaden...»

«Le ripeto che va tutto bene».

Lisa osservò in silenzio Winston mentre si accendeva un sigaro, abbandonato sul sedile in una posa del tutto tranquilla e rilassata. Con un movimento elegante della mano, lui spense il cerino, sporgendosi a gettarlo dal finestrino appena socchiuso. Quindi trasse una profonda boccata di fumo, per poi soffiarlo lentamente verso l'alto.

«Per qualche strana ragione, Wiesbaden sembra fidarsi di lei. Ancora non mi è chiaro il perché, ma questo può giocare a nostro favore. Ciò che le chiedo, ora, è solo di non perdere la calma e di continuare a fare ciò che ha sempre fatto fino a questo momento».

«Parla bene, lei. Ma non è che...»

«Ciò di cui ho bisogno» la interruppe Winston, senza darle il tempo di finire la frase «è che lei scopra tutto quello che può sul progetto Deus. Wiesbaden deve pur avere qualche documento, qualche informazione riservata. Noi dobbiamo entrarne assolutamente in possesso».

«Ciò di cui lei ha bisogno?» scattò improvvisamente Lisa, con un tono che Winston non trovò per nulla piacevole. «Non mi interessa nulla di ciò che lei ha bisogno, signor Churchill. Io ho altre priorità, al momento, priorità che...»

«Ma davvero? E quali, trovare Nadia Ra Arwol, per esempio?»

«Sì» esclamò Lisa, dura. «Questa è sicuramente la mia priorità, al momento».

Winston annuì.

«Già» fece, fissando assorto il fumo che dal suo sigaro saliva avvolgendosi lento in una spirale, per poi condensarsi sopra la sua testa. «Peccato che Nadia Ra Arwol non sia più qui».

«Questo lo so benissimo» ammise Lisa, confusa. «Ma...»

«No, lei non capisce» la interruppe lui. «Quando dico che non è più qui, intendo dire che non si trova più sulla Terra».

Lisa sbiancò. Per un attimo sembrò non capire. Quindi con le mani cercò qualcosa a cui aggrapparsi, deglutendo stentatamente.

«Lei... intende...»

«È ritornata sul suo pianeta di origine, insieme ai suoi rapitori. Lo abbiamo saputo solo poco tempo fa, in modo del tutto casuale. Un colpo del caso, una vera fortuna. Quando ho ricevuto questa notizia, ne sono rimasto sorpreso anche io, esattamente come lei».

«E chi...»

«Jean Luc Lartigue» rispose Winston, con tono piatto. «È stato lui a dirmelo. Era là con lei, quando è successo. Strano che Wiesbaden non gliene abbia ancora parlato» fece lui, stringendo gli occhi a fissarla «dal momento che ne è sicuramente al corrente».

Lisa scosse la testa. Improvvisamente, si sentiva del tutto inutile. Tutto quello che aveva fatto, tutti gli sforzi compiuti fino a quel momento, le parvero un inutile spreco di tempo. Aveva cercato di aiutare Nadia, di fare qualcosa per lei, per evitare che dovesse soffrire, invece...

...Invece tutto quello che era riuscita a fare, era stato abbandonarla al suo destino.

Improvvisamente, scoppiò in lacrime. Winston la fissò sorpreso, e per un momento non seppe come reagire, limitandosi a fissarla imbarazzato. Quindi, con una smorfia, gettò via il sigaro, spazzandosi le mani dalla cenere che vi era caduta sopra.

«Non faccia così» disse, sporgendosi verso di lei. «Ehi, mi ha sentito? Guardi che non è ancora finito nulla, sa? Non c'è niente, che sia perduto».

«Ma come può dire una cosa del genere?» singhiozzò Lisa. «Nadia è partita, e...»

«Stiamo studiando un modo per riuscire a raggiungerla» le confessò Winston. «Non sarà facile, ma ci riusciremo. Abbiamo già pensato a qualcosa».

Lisa alzò gli occhi su di lui, incredula, e lo trovò che le sorrideva.

«Dico sul serio» riprese Winston, posando dolcemente una mano sopra la sua. «Andremo a prenderla, e lo faremo per proteggerla. È la verità, non le sto mentendo. Non ora, non più».

«E io come posso crederle?» mormorò lei. Winston si fece serio.

«Perché glielo sto dicendo» affermò. «E perché non voglio più farlo. Io non voglio più mentirle, Lisa».

Lisa lo fissò incerta, tra le lacrime che ancora le imperlavano la punta delle ciglia. Fece per dire qualcosa, ma poi si morse forte le labbra, distogliendo lo sguardo.

«Può credermi?» le chiese lui. A quel punto, lei scosse la testa, accennando a un sorriso.

«Lei è solo uno stupido» mormorò. Lui rise.

«Sì, è vero. Ma le prometto che migliorerò».

«In questo caso» fece lei, asciugandosi le lacrime dagli occhi «mi ripeta che cosa vuole che faccia».

 

 

*

 

 

La carrozza si arrestò proprio davanti al palazzo in cui Lisa abitava. Quando lei fece per scendere, Winston la precedette, alzandosi per aprire lo sportello. Lisa lo fissò sorpresa mentre le tendeva una mano, che lei accettò con un lieve cenno del capo.

«Grazie» disse, arrossendo compiaciuta.

«Di nulla. Allora, crede di aver capito tutto?»

Lisa annuì, seria. Ciò che doveva fare era piuttosto chiaro, anche se per nulla semplice.

«Faro del mio meglio» sospirò.

«Sono sicuro che sarà così» fece lui. «Ma cerchi di sbrigarsi. Non abbiamo più molto tempo. Ogni giorno che passa, l'Ordine è sempre più vicino a realizzare i suoi piani. E questo, non possiamo assolutamente permetterlo».

«La situazione è davvero tanto grave?» chiese lei, avvolgendosi stretta nello scialle. Winston annuì, guardandosi attorno distrattamente.

«Non lo sappiamo con esattezza, ma le notizie che ci sono giunte non lasciano molto in cui sperare. Quello che lei deve avere ben chiaro, è che in questa storia non è coinvolta solo la sua amica, ma l'intera umanità. Se qualcosa dovesse andare storto, il risultato sarebbe una catastrofe».

Lisa si strinse nelle spalle, rabbrividendo. Winston restò a guardarla a lungo, come se fosse incerto se chiederle o meno qualcosa.

«Che c'è?» fece lei, curiosa, fissandolo di sottecchi. Lui scrollò le spalle.

«Adesso vorrebbe dirmi come c'è riuscita?» chiese. «A contattare Wiesbaden, intendo».

Lisa assunse un'espressione stupita. Quindi alzò il mento, con aria di sfida.

«No» fece. «Credo che preferirò lasciarla rodere nell'incertezza, ancora per un po'».

Winston scoppiò a ridere. Quindi si voltò senza aggiungere una parola, richiamando con un gesto l'attenzione del cocchiere. L'uomo annuì, riscuotendosi dal torpore con un cenno sonnacchioso del capo. Non appena Winston fu salito a bordo, il vetturino fece schioccare le redini e la carrozza ripartì, allontanandosi lenta fino a che non scomparve, inghiottita dal buio. Lisa restò a guardare la carrozza per tutto il tempo; quindi sospirò profondamente, stringendosi nelle spalle.

«Non vedo l'ora di essere sotto le coperte» mormorò rabbrividendo, mentre frugava nella borsetta in cerca della chiave. Lo scialle che teneva avvolto attorno al busto era troppo leggero, e lei non faceva che tremare. Ormai aveva le mani e i piedi congelati.

Avvicinò la chiave alla toppa, ma la mano le tremava per il freddo e non riuscì a controllarla. La punta della chiave si incastrò malamente nella fessura e quando Lisa fece per inserirla, le scivolò e le cadde, tintinnando nel buio. Con un lamento, Lisa si chinò, mettendosi a cercare la chiave a tentoni. La trovò dopo pochi istanti, il corpo irrigidito dal freddo che ormai avvertiva fin dentro le ossa.

«Buonasera, Fraulein».

Lisa si impietrì. China al buio, sentì la terra scivolarle via da sotto i piedi, improvvisamente.

Lentamente, alzò gli occhi dal marciapiede. Fu con sgomento che riconobbe il profilo allungato di Wiesbaden, fermo in piedi proprio a pochi passi da lei. Terrorizzata, fece per voltarsi. Fu allora che si accorse dei due energumeni che le si erano materializzati alle spalle.

«Perdoni l'orario, signorina» fece il barone, fissandola con un sorriso freddo mentre si toglieva il cappello «ma avrei urgente bisogno di porle qualche domanda. Le spiacerebbe seguirmi?»

Lisa si sentì svenire. Fece per dire qualcosa, ma Wiesbaden si era già voltato, avvicinandosi a una carrozza che si era fermata proprio davanti a loro, e che sembrava essere sbucata praticamente dal nulla.

«Prego» disse Wiesbaden, con un brevissimo inchino. «Dopo di lei».

Lisa non sapeva che fare. I due uomini l'aiutarono a sollevarsi e lei si ritrovò a percorrere quei pochi passi che la separavano dalla carrozza come in trance, con le lacrime agli occhi, e il cuore che le pulsava in petto come impazzito. Cercò di darsi un contegno, e di sorridere, ma Wiesbaden le teneva gli occhi piantati addosso, come se stesse scrutando la verità nascosta nel profondo del suo cuore. Quando sul suo volto si dipinse un sorriso sinistro, lei sentì che tutto era perduto. Lui sapeva.

«Non si preoccupi, non ci vorrà molto» la rassicurò Wiesbaden con tono mellifluo. Quindi salì sulla vettura, prendendo posto di fronte a lei. I due uomini della scorta si posizionarono al suo fianco, cosa che diede a Lisa la certezza che il barone aveva intuito la verità. Se così non fosse stato, non avrebbe mai permesso a quei due di occupare il posto accanto al loro.

«Vede, si tratta di una questione delicata» iniziò Wiesbaden, gli occhi fissi sul cappello che teneva posato sulle ginocchia. «Una questione della massima importanza, a dire il vero».

«Mi rendo conto» mormorò lei, con la voce che le uscì a stento «ma sono davvero stanca e preferirei...»

«Certo, certo» disse lui, sporgendo le labbra e agitando elegantemente la mano. «Ma purtroppo lei mi è indispensabile. È qualcosa che deve essere discusso assolutamente in sua presenza. Per farmi perdonare, le concederò tutto quello che vorrà».

«Davvero?» mormorò Lisa, tesa. Lui alzò gli occhi su di lei e sorrise.

«Ovviamente, nei limiti del possibile».

La carrozza si arrestò all'improvviso. Lisa ondeggiò sul sedile, e un senso di nausea le attanagliò lo stomaco. Assisteva a ciò che stava accadendo come attraverso il velo di un sogno, incapace di rendersi conto della realtà. Persino la voce di Wiesbaden, ora, le giungeva lontana e distorta.

«Fraulein, prego. Da questa parte».

Lisa annuì vagamente, alzandosi dal sedile e cercando di reggersi sulle gambe malferme. Quando posò il piede sul predellino della carrozza, i muscoli le cedettero senza preavviso e per poco non rischiò di rovinare al suolo. Wiesbaden le si fece incontro, aiutandola a sorreggersi.

«Lei è davvero stanca, Fraulein» mormorò, impassibile. «Dovrebbe riposarsi un po'. Se continua così, rischia seriamente di ammalarsi».

Lisa si lasciò guidare all'interno di un vecchio palazzo fatiscente. Non appena varcarono la soglia, una puzza di muffa e di escrementi le afferrò la gola, provocandole un conato di vomito. Lisa trattenne il fiato, cercando di resistere mentre saliva un'interminabile rampa di scale. Quando raggiunsero l'ultimo piano, gli uomini di Wiesbaden aprirono una porta chiusa da un pesante lucchetto, e vi spinsero dentro la ragazza. Stremata e atterrita, Lisa caracollò in avanti, perdendo l'equilibrio e cascando sulle ginocchia, mentre gli uomini alle sue spalle chiudevano la porta a doppia mandata, facendo morire in lei ogni speranza.

«Bene, ora direi che ci siamo tutti».

Rassegnata, Lisa sospirò, alzando lentamente gli occhi e guardandosi attorno. Oltre a lei e Wiesbaden, nella stanza si trovavano i due uomini della sicurezza, più altri tre. Due guardie dell'Ordine e Hofmann, il banchiere. Lisa aggrondò, fissandolo in volto. Era pallido, terrorizzato. Qualcosa non andava.

«Herr Wiesbaden» esordì Hofmann, con voce stridula, «io non capisco...»

«Stia zitto».

Gli uomini della scorta afferrarono Lisa per le braccia, rimettendola in piedi. La condussero a una sedia, a fianco della quale venne costretto a prendere posto il banchiere Hofmann. Wiesbaden girò attorno a un tavolo impolverato e sghembo, su cui uno dei suoi uomini posò il proprio cappotto.

«Allora» esordì il barone, appoggiando cappello e guanti sul cappotto dell'uomo «veniamo al punto».

«Herr Wiesbaden» piagnucolò Hofmann, lasciando che i suoi occhi fissassero smarriti le facce scure dei presenti, «se solo mi fosse concesso...»

«Le ho detto di stare zitto!»

Lisa trasalì. Era così spaventata che non riusciva nemmeno a pensare.

«Vi ho voluti qui con me» sibilò Wiesbaden «perché so che qualcuno di voi mi ha tradito».

«No!» gridò Hofmann, gli occhi fuori dalle orbite «Non io! No! Deve trattarsi di questa sgualdrina...»

Wiesbaden allungò la mano. Uno dei suoi uomini estrasse dal soprabito una pistola d'argento grande come un pugno, posandola nella mano del barone. Questi la impugnò, soppesandola per un istante. Quindi la puntò dritta alla testa del banchiere, premendo il grilletto senza alcuna esitazione. Uno sparo secco echeggiò nella soffitta e nell'aria aleggiò un vago odore di polvere da sparo. Lisa non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi di quanto era successo. Vide la testa del banchiere ondeggiare scompostamente, e il suo corpo afflosciarsi a terra. Qualcosa di caldo e di viscido le colava sugli occhi e sulle guance. Scrollò il capo. Fu solo quando abbassò lo sguardo sul suo vestito, che si rese conto di essere completamente ricoperta del sangue del banchiere. Sconvolta, cominciò a gridare come impazzita.

«Ora veniamo a noi» disse il barone, riconsegnando la pistola al suo uomo. «So che la persona che mi sta tradendo è lei, Fraulein. Sì, è vero» disse, scrollando le spalle davanti allo sguardo sconcertato di lei «Hofmann truccava i miei conti, lo sospettavo da tempo, anche se solo da poco ne ho avuto la conferma. Però il motivo per cui ho scelto di ucciderlo qui, di fronte a lei, è perché speravo potesse servirle per essere più... come dire, collaborativa».

Lei alzò gli occhi su di lui, fissandolo smarrita.

«Io non capisco...»

«Signorina» rise Wiesbaden «Lei vuole prendermi in giro».

Lisa abbassò gli occhi sul cadavere dell'uomo, cominciando a tremare. Wiesbaden le girò attorno, le mani intrecciate dietro la schiena, sul volto un'espressione assolutamente indecifrabile.

«Voglio sapere tutta la verità» disse. «Chi è lei, chi è l'uomo con cui parlava stasera e come fa a conoscere Nadia Ra Arwol».

«Io non so di cosa...»

Wiesbaden si fermò alle sue spalle. Si voltò verso la porta, che si aprì in quel momento per far entrare un altro dei suoi uomini. Questi fece un rapido cenno al barone, che Lisa colse distintamente. Wiesbaden annuì diverse volte, sul volto un sorriso stiracchiato. Quindi si diresse in silenzio fino a una finestra, da dove si voltò a guardare verso la ragazza.

«Giusto in tempo. Si alzi».

Lisa lo guardò. Accanto a lui era posizionato un cannocchiale su un treppiede. «Coraggio, non abbia paura. Venga qui, e guardi».

Lei spostò gli occhi dal cannocchiale al barone. Quindi scosse la testa.

«Guardi!»

Tremando, Lisa si alzò in piedi. Si avvicinò alla finestra, le gambe che la reggevano a malapena. Con le lacrime agli occhi, si chinò sul cannocchiale, avvicinando lentamente l'occhio al mirino, mentre nel suo cuore continuava a mormorare una preghiera silenziosa.

Ti prego, ti prego, fa che non sia...

Le ci volle un attimo per rendersi conto di cosa stava guardando. Il cannocchiale puntava alla finestra di un palazzo a qualche centinaio di metri. Al momento, non si vedeva nessuno. Lei strizzò gli occhi, aguzzando la vista.

La finestra era aperta. Una tenda ondeggiava debolmente. Era la finestra dell'attico di un albergo di lusso. Lisa riconobbe il palazzo.

«Guardi bene, non abbia fretta. In fondo, è appena arrivato».

Lei restò con gli occhi incollati al mirino, il fiato sospeso. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, un tempo interminabile. Finché l'ombra di una persona non attraversò improvvisamente il suo spazio visivo.

«Cosa...»

In preda a un'ansia crescente, Lisa portò una mano al cannocchiale. Si sentiva tremare, il suo volto si fece esangue. Winston era là, proprio di fronte a lei. Con la camicia mezza slacciata, un bicchiere di whisky in mano, parlava con Michael, ridendo allegramente.

«Adesso capisce a chi mi riferisco?» disse Wiesbaden, chinandosi a sussurrarle all'orecchio. «Per sua sfortuna, ho la cattiva abitudine di far seguire i miei uomini. Una semplice misura di sicurezza. Quando l'hanno vista allontanarsi in compagnia di qualcuno, ho pensato fosse necessario farla seguire... non si poteva mai sapere. Magari quell'uomo era un malintenzionato, e io avevo il dovere di proteggerla, non crede? Immagini la mia sorpresa nel constatare che si trattava nientemeno di mister Galloway, o meglio... del presunto mister Galloway»

«Davvero, io non so...»

Wiesbaden afferrò Lisa per i capelli, costringendola a torcere il collo. Lei pianse, cadendo in ginocchio davanti a lui.

«Non si azzardi a mentirmi» esalò Wiesbaden, livido. «Voglio tutta la verità. Quello che sa su Nadia Ra Arwol, chi è lei e per chi lavora. E voglio il nome di quell'uomo».

«Può anche uccidermi, ma non lo farò» sibilò Lisa, stringendo le labbra. «Lei, maledetto... non saprà mai nulla da me».

«Ucciderla?» Wiesbaden rise. «Io non la ucciderò. Ha visto ciò che ho fatto al signor Hofmann. È esattamente quello che farò ai suoi amici» fece, accennando vagamente alla finestra «E mi creda, lo farò se lei non mi dirà tutta la verità».

Lisa sbiancò, schiudendo le labbra.

«In questo momento, alcuni dei miei uomini sono pronti ad entrare in quella stanza, armati. Aspettano solo un mio ordine. Se lei non mi dirà immediatamente tutto ciò che voglio, i suoi amici moriranno. E la colpa sarà solo sua».

«Io...»

«Vuole che muoiano? È così?»

Lisa scoppiò in lacrime. Si portò le mani al volto, scuotendo la testa.

«Per favore...»

«Vai» mormorò Wiesbaden all'uomo che era appena entrato dalla porta. Disperata, Lisa sbarrò gli occhi, gettandosi ai piedi del barone.

«No! Per l'amor di dio» lo supplicò, aggrappandosi alle sue caviglie. «Per favore! Vi dirò tutto, tutto! Ma non uccideteli, vi prego!»

Wiesbaden restò a guardarla mentre si contorceva ai suoi piedi, il volto rigato di lacrime e i capelli imbrattati di sangue. Quindi alzò lentamente la mano e la guardia rientrò dalla porta, richiudendosela alle spalle con aria del tutto indifferente.

«Questo sì che è parlare, Fraulein» commentò Wiesbaden, chinandosi a scostarle con dolcezza i capelli dal volto. «Ero sicuro che lei avrebbe capito».

 

 

(Eccomi qui, dopo diversi mesi, a pubblicare un nuovo capitolo. Mi scuso con tutti quanti i lettori per l'attesa, ma dopo aver terminato "Il regno perduto" l'onda "energetica" che mi aveva spinto a scrivere anche i primi capitoli di questa nuova sezione si è improvvisamente esaurita. Per un po', ho sentito la necessità di scrivere altro, e di dedicarmi ad altre storie ed altri personaggi. Ho provato diverse volte a riprendere in mano la storia, ma sempre senza successo. Stavolta ce l'ho fatta. Non è un capitolo eccezionale, è un semplice capitolo di transizione. Ma sono contento di averlo scritto, quantomeno perché con esso ho superato il blocco in cui ero caduto. Grazie per la pazienza, a tutti voi. Spero che possa essere una buona lettura. A presto!)

 

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Capitolo 9
*** 7 ***


24 Giugno 1896 – Al largo delle Isole Bonin, Oceano Pacifico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jean strizzò gli occhi, avvicinando l'orologio alla lampada ad olio che ancora illuminava la scrivania. Le lancette avevano compiuto un quarto di giro rispetto all'ultima volta che le aveva guardate, e ora segnavano le due e quarantacinque. Per qualche ragione che ancora faticava a comprendere, il tempo che trascorreva in quella minuscola cabina di due metri per due e più in generale su quella nave, quella immensa nave che da settimane si aggirava come un animale stremato lungo tutto il Pacifico, aveva rallentato improvvisamente la sua corsa, fino a cessare del tutto di scorrere. Si era come addensato, raggrumandosi in un blocco unico e compatto al cui centro si trovava Jean, stretto in una morsa e senza alcuna possibilità di fuggire.

Era proprio quella mancanza di azione, quel lento prolungarsi di attese e di continue incertezze, a logorarlo. Perso in quel tempo e in quel luogo indefinito, senza nulla da fare se non scandagliare i fondali e analizzare dati su dati, Jean sentiva che i suoi stessi pensieri – e il pensiero di lei, che non aveva mai smesso di tormentarlo da quando aveva scoperto la possibilità di raggiungerla – si erano disciolti lentamente, insieme allo scorrere stesso del tempo. Là, da qualche parte nel Pacifico, Jean galleggiava. Intorno a lui, i frammenti dei suoi pensieri. Come tanti piccoli iceberg, affioravano a tratti dal pelo dell'acqua, abbandonati alle onde senza uno scopo e senza una meta.

Jean fissò le ombre che la debole luce della lampada, ormai esausta, continuava a gettare confusamente sulle pareti metalliche. Le osservò muoversi e danzare fino a sovrapporsi in un tutto denso e impenetrabile, man mano che la luce diminuiva. Sbadigliò. La lampada si stava esaurendo, dunque il mondo non era immobile. Eppure anche quella notte, proprio come le precedenti, non si decideva a passare.

Si voltò su un fianco, provando a chiudere gli occhi. L'Exelion non si trovava. Si erano recati nel punto esatto in cui l'aveva vista affondare circa sei anni prima, ma era come sparita. Da allora, si aggiravano senza meta lungo la Fossa del Giappone, alla sua ormai disperata ricerca. Erano quasi tre giorni che, a causa di quei pensieri, Jean non riposava per più di due ore di seguito. Ogni volta che ci provava, finiva col ritrovarsi a scrutare il buio con gli occhi sbarrati, la mente affollata di dubbi angoscianti. In corpo un desiderio incontenibile, a cui non riusciva a dare forma ma che lo divorava dall'interno, facendogli venir voglia di gridare disperatamente.

Anche quella volta. Aveva lasciato il ponte solo perché non sopportava più le continue prediche di Hanson che, preoccupato, lo pregava di andarsene e di riposare; ma Jean era ben consapevole, mentre avanzava esausto e sfiduciato lungo gli stretti corridoi della nave, che non sarebbe mai riuscito ad addormentarsi. Non adesso, almeno; non quando era a un passo da quella che avrebbe potuto essere l'occasione per riportare il mondo al momento in cui, per vigliaccheria, lui le aveva detto addio, lasciando Nadia sola ad affrontare un destino che le faceva paura e che non aveva nemmeno potuto scegliere. Un'occasione che, però, continuava a sfuggirgli. Forse per crudeltà del destino; o forse, più semplicemente, per la sua inettitudine.

Dovevano solo ritrovare quella maledetta astronave. Non importava il resto, non era necessario preoccuparsi di quello che sarebbe potuto accadere poi. A quello avrebbe pensato quando sarebbe stato necessario. Quando sarebbe giunto il momento avrebbe pensato senza dubbio a una soluzione, ma per ora, per quel momento, tutto quello che gli importava era ritrovare quella maledettissima nave. Ritrovarla, rimetterla in moto e andare da lei. E riportarla indietro.

Ritrovare la nave. Ritrovare...

È quello che sto cercando di fare! Ma quella maledetta nave sembra svanita nel nulla.

Iceberg, iceberg. Frammenti di pensieri che galleggiavano.

Potreste anche morire, gli aveva detto Elektra, prima che lui partisse. Non voglio che tu muoia.

«Nemmeno io» mormorò Jean, voltandosi nuovamente supino e passandosi una mano sugli occhi, stancamente, come a cancellare quell'immagine improvvisa e quella voce che sembrava nascere e confondersi con la sua coscienza.

«Nemmeno io...»

Elektra.

Iceberg.

«Herr Doktor!»

Qualcuno, fuori dalla cabina, bussava insistentemente. Jean si destò di soprassalto. Non riusciva a capire se stesse ancora dormendo, o se quella voce che lo chiamava fosse vera. Senza pensarci troppo inforcò gli occhiali e saltò giù dal letto, avventandosi contro la porta chiusa. La stanchezza e la pressione a cui era stato sottoposto negli ultimi tempi lo fecero improvvisamente vacillare, tanto che perse il controllo del suo corpo e finì con lo sbattere malamente contro la parete. Con una smorfia si aggrappò alla maniglia per sorreggersi, quindi aprì la porta. La luce che filtrava dal corridoio e che gli feriva gli occhi era reale, come reale era il volto acceso del giovane dalla pelle arrossata e dai capelli neri e dritti che si ritrovò davanti, e che gli parlava animatamente in un ruvido e sgraziato tedesco.

«Herr Làrtig! Das Raumschiff...»

Jean scosse la testa confuso, schiudendo un po' di più la porta. Non capiva. In testa, i pensieri continuavano a galleggiare e non volevano saperne di andare al loro posto. Iceberg.

Il marinaio continuava a fissarlo intensamente, in preda a una sorta di frenesia. Parlava accavallando le parole una all'altra, e storpiando il suo nome.

«Herr Làrtig, schnell! Das Raumschiff! Wir haben es gefunden!»

«Wenn? Quando?» riuscì a biascicare Jean, mentre agguantava la giacca e si affrettava lungo il corridoio, lasciandosi guidare dal marinaio fino alla sala comandi, come in trance.

«Adesso. Guarda, è proprio sotto di noi».

Hanson si scostò per lasciare avvicinare al radar l'amico, che era appena giunto alla sala comandi. Jean barcollò in modo incerto verso la plancia, facendosi largo tra gli ufficiali che si rincorrevano indaffarati da un capo all'altro del ponte, mentre si gridavano dietro una serie incomprensibile di ordini. Quando fu vicino agli strumenti, l'ufficiale addetto al radar lo salutò appena, rivolgendogli un cenno e un vago sorriso. Si alzò. Quindi si sfilò le cuffie e gliele porse.

«Vedi?» gli indicò Hanson. «Guarda lì».

Jean guardò nel punto in cui gli veniva indicato.

«Possibile che...» mormorò, infilando le cuffie e avvicinandosi allo schermo del radar, che lampeggiava lanciando un debole e monotono segnale. Spostò rapidamente lo sguardo da un punto all'altro dello schermo; quindi alzò gli occhi sul suo amico. Per un attimo, il volto sorridente di Hanson si annebbiò, insieme al resto della cabina. Jean sbatté le palpebre.

«Allora?» fece Hanson, scrollandolo incoraggiante. «Che ne pensi?»

«Non so, mi sembra...»

Jean era piuttosto confuso. Forse era la stanchezza, ma quella nave non si trovava dove avrebbe dovuto essere. Ricordava bene di aver visto affondare l'Exelion nell'Abisso Ramapo, nella parte più meridionale della Fossa del Giappone. E infatti era lì che si erano recati a cercarla, senza successo. Ora si trovavano a oltre quattrocento miglia di distanza dal punto di partenza, il che poteva voler dire solo una cosa, e cioè che la nave doveva essersi per forza spostata. Peccato che quella fosse un'ipotesi del tutto impossibile.

«Qui siamo a poche centinaia di chilometri dalle coste di Tokyo» rifletté Jean. «Hanson, non può veramente essere lei».

«Si, si, lo so. Ma guarda» insistette Hanson, chinandosi sugli strumenti e trascinando Jean con sé. «Hai notato la posizione? É sempre dentro la Fossa del Giappone, solo più a nord. Ha percorso la Dorsale Oceanica! So che sembra incredibile ma quella nave si è mossa, risalendo il fondale per poi incastrarsi per qualche ragione in quel punto preciso».

«Forse siamo noi che abbiamo cominciato le ricerche nel punto sbagliato» disse Jean freddamente, mentre riconsegnava le cuffie all'ufficiale. «Oppure, quella non è l'Exelion».

«Quella è l'Exelion» lo incalzò Hanson, secco. «Ma insomma, che diavolo ti prende, si può sapere? Quasi non ti riconosco».

Jean non seppe cosa rispondere. Avrebbe dovuto essere felice di quella notizia, ma per qualche ragione non riusciva ancora a credere che fosse vero. Aveva paura che quella fosse solo l'ennesima illusione destinata a svanire quanto prima, come tutte le altre prima di lei.

«Scusami» disse, e sul suo volto si dipinse finalmente un sorriso sincero. «Il fatto è che ancora non riesco a...»

L'ufficiale radar ebbe uno scatto. Improvvisamente lo schermo prese a lampeggiare più forte.

«Herr Garrett, guardi!» esclamò. «La nave!»

Hanson e Jean si voltarono verso l'ufficiale che indicava loro lo schermo, tutto eccitato.

«Si sta muovendo!»

«Non è... possibile...»

Hanson esultò, picchiando con la sua manona aperta sulle spalle di Jean, che rischiò quasi di sbattere la faccia contro il radar. Era vero, pensò Jean, incredulo. La nave aveva appena compiuto un giro su se stessa, andando a posizionarsi longitudinalmente rispetto alla sua vecchia posizione.

«Te l'avevo detto! E tu che non volevi credermi! È quella, è l'Exelion! E noi l'abbiamo...»

«E così è vero? Abbiamo finalmente ritrovato l'Exelion

La voce sottile e tagliente che risuonò alle loro spalle li freddò improvvisamente, cancellando ogni traccia di sorriso dai loro volti. I marinai e gli ufficiali sul ponte scattarono tutti sull'attenti non appena videro il barone Wiesbaden fare il suo ingresso sulla plancia, serio in volto, mentre ancora finiva di abbottonarsi l'elegante giacca del suo gessato grigio. Anche lui, proprio come Jean, doveva essersi appena svegliato; eppure sembrava perfettamente lucido, come se il fatto di essere stato buttato giù dal letto nel cuore della notte non lo toccasse neppure. Winston apparve subito dopo, scortato da un ufficiale. Anche dal suo volto impassibile non traspariva alcuna traccia di sonno o di stanchezza, ma solo una certa malcelata eccitazione.

«Così, quella... è davvero la nave Exelion?» domandò Wiesbaden, avvicinandosi curioso allo schermo del radar, studiandolo intensamente. Jean e Hanson si scostarono in silenzio, indirizzando a Winston un'occhiata nervosa, che lui però sembrò ignorare completamente. Quando Wiesbaden alzò i suoi occhi lucidi, penetranti, prima sul volto di Jean e poi su quello di Hanson, entrambi si sentirono raggelare.

«Sì, signore» rispose Hanson, evidentemente a disagio «Pensiamo sia la nave che stavamo cercando».

Wiesbaden lo squadrò. Hanson stava ancora pensando se aveva usato le parole più corrette per esprimersi, quando il barone sbuffò, sogghignando.

«Lei... pensa?»

Hanson arrossì. Lanciò a Jean uno sguardo spaventato.

«Siamo sicuri che si tratti dell'Exelion» intervenne Jean. Wiesbaden si volse rigido verso di lui, ruotando tutto il busto.

«E come fate a esserne così sicuri? Fino a un momento fa, il suo collega non sembrava esserne altrettanto convinto».

«Il mio amico è un uomo di scienza» ribatté tranquillo Jean, fissando a sua volta il radar. «Se si è espresso così, è solo perché la sua formazione lo ha abituato a non dare mai nulla per scontato. Questo però non vuol dire che non sappia quello che dice, quando afferma che quella nave è realmente l'Exelion».

La verità, è che deve essere lei. So che è lei. So benissimo che è lei, pensò Jean, che ormai aveva abbandonato tutti i suoi dubbi e anzi, quasi credeva di essere stato lui stesso, e non Hanson, ad accorgersi per primo che quella nave era davvero l'Exelion.

Wiesbaden fissò intensamente Jean per qualche istante, come se stesse riflettendo su qualcosa. Quindi sospirò, annuendo leggermente. Sembrava persuaso. O forse no.

«Eppure, sembra trovarsi molto lontano dal punto in cui abbiamo cominciato le nostre ricerche. I dati di cui eravamo in possesso...»

«Erano giusti. La nave si è spostata».

«Spostata?»

Wiesbaden osservò lo schermo ancora una volta. I suoi occhi si fecero improvvisamente sottili, e fissavano il segnale con una tale intensità che sembrarono essersi tramutati in pietra.

«Molto bene, Herr Lartigue. Quand'è così, possiamo cominciare i preparativi per il recupero».

«Signore» intervenne improvvisamente Hanson «Se permette una parola...»

Wiesbaden si volse, squadrando Hanson con impazienza.

«Ecco, per quanto riguarda la nave... a dire la verità, il recupero potrebbe non essere così agevole come credevamo. Cioè...»

Wiesbaden strinse gli occhi, riducendoli a due fessure.

«La ascolto».

Hanson deglutì. Per qualche strana ragione, parlare con quell'uomo che lo fissava con quegli occhietti lucidi e sottili, lo faceva sentire a disagio. Era come muoversi in equilibrio sul ciglio di un precipizio, dove al minimo passo falso sarebbe seguita una morte certa, e terribile.

«Ho dato un'occhiata veloce alla posizione... e confrontandola con le carte, sembra che L'Exelion si trovi proprio sul margine esterno della Fossa del Giappone, in una situazione di... per così dire... delicato equilibrio» si sforzò di spiegare. «Insomma, è incastrata sul bordo di un crepaccio. Al momento sembra essersi fermata, ma non sappiamo quanto questo possa durare. Se dovesse rimettersi in moto, c'è il rischio che possa precipitare. E a quella profondità, recuperarla sarebbe...»

Wiesbaden lo fissò impassibile. Hanson cercò di terminare la frase, ma le labbra gli si paralizzarono e per diversi istanti calò tra quanti erano presenti in plancia un silenzio pesante, rotto solo dal monotono segnale del radar e dal sottile vociare degli uomini sotto coperta.

«Sarebbe?»

«...del tutto impossibile» terminò Hanson. Wiesbaden lo fissò. Nessuno parlava.

«Herr Garrett, questo non è un mio problema» tagliò improvvisamente corto Wiesbaden, guardando Hanson dritto negli occhi. Quindi spostò lo sguardo su Jean. E a quel punto, sogghignò.

«Se non erro, quando ho scelto di impegnare le mie cospicue finanze in questo progetto, lei e il signor Lartigue mi siete stati presentati dal signor Galloway, qui presente» disse, accennando con gli occhi a Winston, che aggrondò «come gli uomini più adatti a svolgere questa delicata operazione. Non è forse così?»

«Sì, ma...»

«Come lei e il signor Lartigue riuscirete ad arginare il problema è qualcosa che non mi riguarda. Tutto ciò che so, è che quella nave deve essere recuperata. Perciò, le chiedo di fare il possibile in tal senso. Insieme a Herr Lartigue, ovviamente» aggiunse, sottolineando quella parola con un breve inchino in direzione di Jean. «E questo è tutto».

«Sì, signore, ma...»

«D'altra parte» saltò su Wiesbaden ad interrompere Hanson «se quel relitto è davvero l'Exelion, cosa che lei e il signor Lartigue sostenete con tanta sicurezza, posso assicurarle che non si muoverà più dal punto in cui si trova. Perciò, riguardo al recupero non sorgeranno problemi di alcun tipo».

Hanson tacque. Jean si limitò a fissare Wiesbaden, sprezzante.

«Come può affermare una cosa del genere con tanta sicurezza?» chiese Jean. «Lei...»

«Voi non potete, certo. Ma io sì» sogghignò Wiesbaden. «Non sono un uomo di scienza, Herr Lartigue, ma ho comunque le mie ragioni per farlo. Ragioni che non intendo discutere qui, ora, con voi. Lor signori mi scuseranno, ma informazioni di questo tipo rientrano in quelle che si potrebbero definire... di genere confidenziale».

Jean socchiuse gli occhi, incuriosito. Stava per controbattere qualcosa quando Winston lo precedette.

«Sono certo che i nostri due ingegneri avranno già pensato a un modo efficace per recuperare l'Exelion» intervenne prontamente, come a voler spezzare il silenzio imbarazzante e teso che si era creato, e nello stesso tempo non dare modo a Jean di compromettersi ulteriormente. «In fondo, il batiscafo che hanno progettato...»

«Potrebbe non essere sufficiente» prese a dire Hanson «se...»

Winston si fece pallido e teso. Con un occhiata di fuoco, intimò ad Hanson di tacere.

«Il signor Galloway è un vero Irlandese» rise Wiesbaden, lanciando un'occhiata allusiva a Winston. «Possiede quella che si definisce... un'incrollabile fiducia. È così tipico del suo popolo, davvero ammirevole. Tuttavia...»

Hanson fece per dire qualcosa, ma Winston lo zittì nuovamente, ammiccandogli con lo sguardo.

«...tuttavia, sfortunatamente io non possiedo la stessa cultura del signor Galloway. E sono dotato di limitata pazienza. Detto questo, spero vivamente che continueremo ad andare tutti d'accordo e che per farlo, prenderemo ad esempio il signor Galloway, e la sua interessante... fiducia irlandese».

Rise. Winston, Hanson e Jean sogghignarono nervosamente. Quindi Wiesbaden chinò il capo, accennando a un inchino.

«Molto bene. Se non c'è altro, ora tornerei alla mia cabina» disse, con noncuranza. «La notizia del ritrovamento richiede che io faccia qualche comunicazione. Signori, vogliate scusarmi».

Wiesbaden uscì dalla plancia, accompagnato dal saluto dei marinai e degli ufficiali. Non appena si fu allontanato, l'intero ponte comandi si rianimò, e gli ordini presero a essere gridati nuovamente da un capo all'altro della cabina. Approfittando di tutto quel movimento, Winston si avvicinò a Jean e a Hanson, afferrandoli entrambi per le braccia e attirandoli a sé, in disparte.

«Si può sapere che diavolo vi è preso?» ringhiò, squadrando Hanson con occhi di brace. «Se non volete che questa gente ci faccia a pezzi e ci butti agli squali, trovate il modo di scendere laggiù e di recuperare quella maledetta nave» ringhiò. «Non voglio più sentire stupidaggini come queste, né voglio che per colpa di voi due idioti salti la nostra copertura. Ci siamo capiti?»

«Recuperare quella nave è il motivo per cui siamo qui. Per quanto mi riguarda, non mi interessa nient'altro» ribatté Jean, fermo. «Perciò può essere sicuro che faremo tutto ciò che è necessario per raggiungerla».

Winston lo fissò, ancora piuttosto adirato. Il volto sicuro di Jean alla fine sembrò tranquillizzarlo in qualche modo. Prese un respiro, lasciandoli andare. Quindi si guardò attorno.

«Voglio solo dire che non dobbiamo permetterci di rovinare l'operazione» mormorò. «Da quello che stiamo facendo dipende ben più che il destino di quanti si trovano su questa nave, mi sono spiegato?»

«Benissimo» annuì Jean. Winston drizzò il busto, quindi li fissò ancora per un ultima volta. Fece per andarsene, quando Jean lo richiamò.

«Mr Galloway» esclamò. Winston arrossì, fermandosi di colpo. I marinai intorno a loro si volsero a scrutarli per un momento, fissandoli incuriositi prima di riprendere le loro faccende.

«Cosa desidera?» esalò Winston, a denti stretti. Jean gli rivolse uno sguardo duro.

«Solo precisare una cosa» disse. «Lei si ricorda perché ho accettato di aiutarla, in tutta questa faccenda. Non è così?»

Winston tacque. Jean attese che lui rispondesse qualcosa.

«Sì» sibilò.

«Sappia che non tollererò intromissioni».

Winston strinse i denti, serrando le labbra. Il suo volto pallido si tese, e la mascella apparì ancora più squadrata.

«E lei ricorda grazie a chi si trova qui?» fece. «Se non fosse stato per me, lei ora sarebbe a mendicare il denaro necessario alla sua impresa agli angoli della strada. O l'ha forse dimenticato?»

«Affatto» rispose pallido Jean.

«Continui a fare il suo dovere, e le assicuro che non mancherò di compiere il mio. Le ricordo, signor Lartigue, che il suo interesse in questa faccenda è anche il nostro, mio e dell'organizzazione per cui lavoro. Non se lo dimentichi».

«Non lo farò. Ci tenevo solo a mettere in chiaro le cose».

Winston lo fissò duramente e a lungo. Quindi, improvvisamente, si rilassò.

«Qualcos'altro?»

Jean scosse la testa. Hanson nicchiò rassegnato, infilandosi in tasca le mani.

«Allora buonanotte, signori» disse Winston. «Ci rivediamo domattina». Quindi si volse, lasciando la plancia senza neppure guardarli.

 

 

*

 

 

Lisa si era chiusa nella sua cabina. Sola, si tormentava per tutta una serie di pensieri confusi e indistinti, ma che si agitavano nel suo animo procurandole un senso d'angoscia profondo, e reale. Si era accorta della confusione che si era diffusa sulla nave, a seguito della notizia del ritrovamento dell'Exelion; aveva intuito che il momento che tanto aveva temuto era arrivato e non aveva avuto nemmeno il coraggio di mettere un piede fuori dalla porta del suo minuscolo alloggio. Era troppa la paura di trovarsi faccia a faccia con l'inevitabile, con la consapevolezza che presto gli eventi sarebbero precipitati seguendo il corso terribile che lei così tanto temeva, e alla cui realizzazione aveva contribuito in modo decisivo.

Da un lato, il fatto di sapere che l'Exelion era stato finalmente ritrovato, avrebbe dovuto farle piacere; dalle informazioni che Winston le aveva passato, ritrovare quella nave significava la possibilità di ritrovare Nadia, la sua amica più cara; eppure, quell'idea era ciò che più cercava di scacciare dalla sua mente, sperando che fosse tutta una bugia, una menzogna creata dalla sua immaginazione sofferente per punirla delle colpe che sentiva – sapeva – di avere commesso.

Non aveva avuto nemmeno il coraggio di gioire con Michael, quando era venuto a trovarla in cabina per comunicarle la notizia.

«Lisa! Hai sentito? Sembra che abbiano trovato quella nave...»

Lei ricordava di aver sorriso, forse, e che farlo le era costato uno sforzo incredibile.

«Ma che hai? Sei pallidissima... Qualcosa non va?»

«No, va tutto bene. É che sono molto stanca, e la nave... la nave non mi fa stare molto bene».

Michael l'aveva guardata sospettoso, ma alla fine sembrava essersi convinto.

«Posso fare qualcosa? Vuoi che chiami Win...»

«No!» aveva gridato lei, e il suono della sua voce, così acuto, l'aveva spaventata. «No, scusa, ma non dire quel nome. Non devi, non...»

«Ma di che hai paura?» ridacchiò lui, anche se abbassò la voce per sicurezza. «Nessuno ci sta ascoltando».

«Non dire queste cose... smettila!» sibilò lei, pallida. Si era scagliata su di lui, portando la sua mano sottile davanti alle sue labbra. Lui la fissò stranito e lei si allontanò, imbarazzata.

«Avanti, ora lasciami stare. Vorrei riposare. Vedrai che poi starò meglio».

«Va bene» annuì lui, ancora confuso. «Come vuoi».

«Michael...» lo chiamò. Lui si volse, perplesso e preoccupato. Lei avrebbe voluto dirgli quello che sapeva, avrebbe voluto comunicargli tutto, che Wiesbaden era a conoscenza della loro identità, che lei era stata costretta a tradirli e che ora erano in pericolo. Avrebbe voluto dirgli questo e molto altro ancora, metterlo in guardia e supplicarlo, sì, supplicarlo di perdonarla e di stare attento, di proteggersi da quegli uomini terribili. Ma non ce la fece.

«Niente» disse. «Ora va'».

Michael sorrise.

«Sei stanca» fece, posandole una mano sulla spalla. «Riposa tranquilla. Vedrai che presto riusciremo a ritrovare Nadia e allora... allora, tutto andrà bene».

Tutto andrà bene, pensò Lisa.

«Sì, certo».

Michael uscì. Lisa restò per un attimo a fissare la porta chiusa, quindi si volse su se stessa, portandosi le mani al volto.

Dio, è terribile! Terribile!, pensò, affranta. So che succederà qualcosa di tremendo... e tutto per colpa mia!

Era stata una stupida. Avrebbe dovuto dare retta a Winston, e lasciar fare a lui e agli uomini di quella sua organizzazione misteriosa. Invece si era intestardita con quella vicenda, credendo di poter fare tutto da sola. Per colpa del suo orgoglio, ora aveva messo a repentaglio la vita di tutti. E anche il futuro di Nadia.

«Che devo fare... cosa?»

Si sedette sul letto, tormentandosi le mani per la disperazione. Non poteva continuare così. Avrebbe dovuto confessare tutto a qualcuno, fare in modo di preparare tutti quanti, e avvertirli che Wiesbaden li avrebbe uccisi tutti, non appena gli si fosse presentata l'occasione. Perché ciò che voleva Wiesbaden, era trovare qualcosa che loro non potevano nemmeno immaginare. Per farlo, gli serviva l'aiuto di chi conosceva l'Exelion, la sua posizione e la sua potenza. In poche parole, gli serviva Jean. E anche Winston. Loro lo avrebbero messo nella condizione di trovarsi ad avere tra le mani tutto ciò di cui aveva bisogno, e per di più l'avrebbero fatto spontaneamente, credendo di perseguire il loro personale obiettivo. Sarebbero stati usati come pedine, a causa della stupidità di cui lei era stata capace. E Wiesbaden avrebbe usato quella sua stupidità per schiacciarli, una volta che non avesse più avuto bisogno di loro.

«No... non posso, non posso permetterlo».

Con un gesto risoluto, Lisa spalancò la porta, e si precipitò fuori dalla cabina. Nel corridoio stavano passando due marinai, a passo veloce. Trovandosela davanti all'improvviso, le lanciarono un'occhiata sorpresa e abbassarono di colpo la voce, rimangiandosi le parole che stavano per pronunciare. Lisa si voltò, pallida. Sentiva su di sé gli occhi di tutti, come se tutti sapessero esattamente quello che stava per fare.

Non appena i marinai ebbero svoltato l'angolo, Lisa cercò di darsi un contegno e si incamminò verso le scale che conducevano al ponte inferiore e alla stiva. Là avrebbe trovato sicuramente Jean, impegnato negli ultimi preparativi per la spedizione di recupero. Doveva solo sperare di non incontrare Wiesbaden.

A Jean avrebbe raccontato tutto, anche se non gli aveva ancora mai rivolto la parola prima di allora. Sapeva che lui avrebbe capito e che avrebbe fatto qualcosa. Confidarsi con Winston, invece, era fuori discussione, perché se l'avessero vista parlare con lui, sarebbe stata per tutti la fine.

E poi, lui riuscirebbe a capirmi?

No, non poteva farlo. Quanto a lei, la sola idea di vederlo infuriato la faceva stare male. Lui l'avrebbe odiata per quello che aveva fatto, e lei non voleva che lui la odiasse, perché se aveva dovuto tradirlo era stato per salvarlo. Però se glielo avesse detto, se glielo avesse spiegato...

...avrebbe capito?

Forse sì, forse...

No, no... si arrabbierebbe, mi odierebbe e io... io...

Jean. Jean era la soluzione. Certo, se l'avessero vista parlare con Jean, le cose si sarebbero messe comunque piuttosto male. Ma avrebbe sempre potuto inventarsi qualcosa. Forse.

Con il cuore in gola, Lisa posò un piede sullo scalino di ferro. Strinse le dita attorno alle maniglie arrugginite e si calò, continuando a pregare che il cielo le concedesse di non incappare in Wiesbaden. Quando raggiunse la stiva, la trovò gremita di persone. Le scintille che scaturivano dalle saldatrici incandescenti erano abbaglianti e per qualche istante Lisa si ritrovò gli occhi feriti da quelle improvvise vampate. Si guardò intorno confusa, assordata dal rimbombo delle voci e delle lamiere battute, che si propagava per tutta l'immensa lunghezza dello scafo.

Fece qualche passo, là dove si intravedeva la luce che proveniva dai portelloni di carico e scarico aperti. Mentre si avvicinava, intravide due figure di spalle, una tozza e dalle spalle larghe, l'altra alta e slanciata. Il vento entrò improvviso dai portelloni, andando a spettinare i capelli rossi di Jean, che si portò una mano a lisciarli. Quando lui si voltò, con la coda dell'occhio la notò che gli si avvicinava timidamente. Le sorrise. Lisa rispose con un'espressione vaga del volto, scostandosi i ciuffi di ricci capelli castani dalla fronte, mentre nel cuore era scossa da quanto stava cercando di fare.

«Salve» la salutò Jean. «Lei dev'essere...»

«Sono Lisa Stanfields» mormorò Lisa, controllando che non la udisse nessuno. Il rumore che facevano i meccanici era talmente forte che avrebbe coperto comunque le loro voci, anche se si fossero messi ad urlare.

«So chi è lei» le disse Jean, chinandosi a parlarle all'orecchio, e senza smettere di sorridere «lei è l'amica di Nadia, la sua collega al Times».

«Non credevo mi conoscesse» fece lei, sorpresa. Jean ammiccò.

«Nadia mi parlava spesso di lei. Almeno i primi tempi» e la sua espressione mutò improvvisamente, anche se in modo quasi impercettibile. «Permetta che le presenti...»

«Hanson Garrett, onorato» fece Hanson, porgendole spontaneamente la sua grassa manona. Lisa fece per stringerla; ma quando lui si accorse che era sporca di grasso, la ritirò con uno scatto improvviso, con gran sorpresa di lei che non capì il vero motivo di quel gesto. Hanson si rese conto di aver appena fatto una gaffe e arrossì di colpo.

«Mi scusi, era sporca... sa, a lavorare qui...»

Lisa sorrise debolmente, ma non aveva prestato molta attenzione a quelle scuse. Il suo sguardo si era già concentrato nuovamente su Jean.

«Posso parlarle?» mormorò.

Jean la fissò incuriosito. Vedendo la sua espressione seria e tesa, le fece cenno di seguirlo in disparte. Lei annuì, voltandosi a salutare Hanson.

«È stato un piacere» fece, cercando di parlare sufficientemente forte per farsi sentire da lui. Hanson capì poco, ma si rese conto che lei se ne stava andando; e nel suo sorriso trattenuto lesse come un biasimo nei suoi confronti. E anche se non era reale, la cosa lo mise comunque in imbarazzo.

Lisa seguì Jean poco lontano, vicino ai portelloni aperti. Era un angolo riparato dagli occhi dei più, e dove era possibile parlare senza urlarsi a vicenda. Il rumore delle onde che si frangevano contro lo scafo della nave era forte, ma non assordante; così come era forte il profumo di sale, portato dal vento.

«Voleva parlarmi di qualcosa?»

«Sì, io... a dire il vero...»

Jean attese che lei cominciasse a parlare. Lisa fu sul punto di prendere il coraggio a due mani, quando si udì qualcuno gridare qualcosa verso di loro.

«Mr. Lartigue!»

Winston stava correndo in quella direzione. Non appena vide Lisa, prima la fissò stupito, poi scosse la testa sorridente, rallentando il passo.

«Anche tu qui» fece. «Che ci fai? Non è certo posto per una damigella elegante come te».

«Io... nulla» disse lei, sentendo che le forze l'abbandonavano. Ora non poteva più parlare. Tutta la sicurezza che credeva di aver accumulato, defluì dal suo corpo rapidamente, lasciandola esausta, e con la testa che le girava.

«Non è il caso che ti aggiri da sola quaggiù» mormorò Winston, chinandosi premuroso su di lei. «Potrebbe essere pericoloso con tutti questi macchinari, il vento e i portelloni aperti...»

Lei sussultò, arrossendo. Era tanto che non stavano così vicini. Da quando Wiesbaden l'aveva costretta a incontrarlo per fornirgli le informazioni necessarie a farlo cadere nella sua trappola. Quella volta, lui le era sembrato così sicuro di sé, così allegro e ignaro... proprio come in quel momento.

Non sapeva che quella sicurezza in realtà sarebbe stata la sua rovina.

«È meglio che vada, è vero» disse lei. Sorrise a Jean, che ricambiò aggrondando leggermente.

«Non voleva dirmi qualcosa?» chiese. Lei nicchiò.

«Non era nulla di importante» disse. «Sarà per un'altra volta, quando ne avremo l'occasione».

Mentre si allontanava veloce, quasi correndo, dalla stiva, con un sospiro Lisa pregò che quell'occasione si presentasse davvero, prima che fosse troppo tardi.

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Capitolo 10
*** 8 ***


Il grosso argano si mosse. La spessa catena prese a tendersi, riavvolgendosi attorno alla carrucola con uno stridio assordante. Scricchiolando, il gigantesco corpo di lamiera del batiscafo prese a sollevarsi dal ponte.

I marinai e gli operai osservavano meravigliati e ansiosi l'imponente struttura del batiscafo, che penzolava inerte sopra le loro teste. Sembrava il cadavere di un mostro, appena ripescato dal mare. Loro stessi avevano contribuito a costruirlo, ma era come se in quel momento lo vedessero realmente per la prima volta. E per la prima volta appariva ai loro occhi in tutta la sua stazza, tanto che molti di loro si chiedevano se ce l'avrebbe fatta sul serio a galleggiare, quell'affare, costruito in così poco tempo da quel ragazzo taciturno e da quell'Engländer sfatto e imbolsito, che assisteva all'operazione in maniche di camicia, sudando e lanciando segnali a destra e a manca che nessuno però capiva o dava segno di capire.

«Cala, cala! No, non così, atten...»

All'ennesima manovra che giudicò inappropriata, Hanson si portò le mani ai radi capelli arruffati, che gli stavano appiccicati sulla fronte sporca di polvere e limatura di ferro. Sussultava come se si trovasse su un letto di spine e continuava a imprecare e a urlare comandi che poi gli morivano sulle labbra, immancabilmente, in un susseguirsi ininterrotto di borbottii ed esclamazioni furiose.

Improvvisamente la nave oscillò, e le lamiere che rivestivano la nave lanciarono un boato sinistro. Era salito il vento e il mare si stava ingrossando. Le onde si erano alzate e sferzavano con vigore lo scafo. Dovevano muoversi, se volevano calare in mare i due batiscafi senza correre rischi.

«Fate attenzione, idioti!» gridò Hanson, impallidendo, mentre il batiscafo ondeggiava pericolosamente, appeso alla catena. «Volete distruggerlo? Ah, per l'amor del cielo...»

Jean soffocò una risata. Hanson lo udì, e si volse a guardarlo. Aveva il volto tirato e l'espressione angosciata.

«Il mio gioiellino, il mio amatissimo Gratan IX» lamentò. «Quegli imbecilli! Se continua così, finiranno per ammaccare lo scafo, lo so! E tu non dovresti ridere, dannazione!»

«Non avevo idea che lo avessi persino battezzato» ridacchiò Jean, che ignorò però il rimprovero. Hanson gli si avvicinò. Un sorriso orgoglioso gli comparve in volto, stirandogli tutta la faccia.

«Gratan IX, proprio così» annuì. «Un nome che ho scelto sulla scia dei suoi illustri predecessori».

«Speriamo che porti bene... non è che i precedenti otto abbiano avuto una gran fortuna».

Hanson si fece improvvisamente livido. Il suo sorriso si spense così in fretta che le guance collassarono, tremolando. Sanson, in canottiera e con i bicipiti lustri di sudore, avanzò sghignazzando verso di loro, tergendosi il volto con uno straccio. Evidentemente, aveva appena terminato i suoi consueti esercizi.

«La colpa è solo di chi era al comando» ringhiò Hanson, lanciando al cugino un'occhiata fulminante. «Non certo del mezzo».

«Forse chi l'ha costruito avrebbe dovuto renderlo più maneggevole. Possibile che tutto quello che costruisci tu debba assomigliarti? Guardalo! E tu quell'affare lo chiameresti una nave? A me sembra un pachiderma...»

«Cosa vorresti insinuare, razza di...»

«Va bene, basta» intervenne Jean. «Cerchiamo di concentrarci sulla missione, ok?»

Sanson annuì.

«Il mare è agitato» disse. «Non sarà facile avvicinare lo scafo dell'Exelion, con quelle onde».

«Per questo ho sviluppato un congegno di guida idro-assistita» fece Hanson, sfoggiando un'aria di superiorità. «Ho ripreso l'idea che Jean aveva avuto per il vecchio Gratan VIII, implementandola. Ora sarà possibile effettuare micro-aggiustamenti di rotta e di manovra, al massimo della precisione» aggiunse, rivolgendo uno sguardo in tralice al cugino. «Certo, questo non esclude la stupidità umana...»

«Per questo non devi preoccuparti, visto che non sarai tu a guidarlo» ribatté Sanson in tono di sfida. «Comunque, c'è un'altra cosa a preoccuparmi, al di là delle onde».

Jean seguì con gli occhi lo sguardo di Sanson e capì immediatamente a cosa si riferiva. Sul fondo del ponte, un gruppo di soldati al comando di un ufficiale stava ultimando di caricare alcune casse, sul secondo dei due batiscafi.

«L'esercito imperiale ci farà compagnia» commentò Sanson. «Mi chiedo che interesse possano avere i militari in questa spedizione».

«Non lo so, e non mi interessa» fece Jean. Sanson e Hanson si guardarono di sottecchi, quindi gli rivolsero uno sguardo curioso.

«Se devo essere sincero, può venire anche l'Imperatore in persona» aggiunse Jean. «Quello che mi interessa è riuscire a raggiungere l'Exelion, nient'altro. Come ho già detto diverse volte, non tollererò intromissioni».

Hanson e Sanson si guardarono nuovamente. Entrambi avrebbero voluto dire qualcosa, ma sembravano frenati da un certo imbarazzo. Alla fine, Hanson si fece coraggio e ruppe il silenzio in cui erano caduti.

«Jean, nel caso non riuscissimo a raggiungere l'Exelion» disse, con una certa titubanza «capisco che tu non voglia sentirtelo dire, ma...»

Jean squadrò Hanson duramente. Quello inghiottì, trattenendosi per un istante.

«Quello che voglio dire è che... anche se non dovessimo riuscirci... almeno, ecco... come dire... sì, insomma, ci abbiamo almeno provato. Giusto?»

Hanson cercò conforto nel cugino, lanciandogli un'occhiata che chiedeva soccorso. Sanson annuì, secco.

«So cosa vuoi dire, e ti ringrazio» ribatté Jean, freddo. «Ma sono sicuro che non ci saranno problemi».

Hanson annuì. «Certo, ma...»

«Non ci saranno problemi».

Senza aggiugere altro, Jean si allontanò. Non diede nemmeno ad Hanson il tempo di replicare, o di rimediare a quanto aveva appena detto. Sanson intuì che il cugino stava per seguirlo, per scusarsi, e lo trattenne.

«Lascia» disse. «Ora non è il caso. È meglio non tormentarlo. Credo che abbia già fin troppi pensieri, non lo pensi anche tu?»

Per un attimo, Hanson indugiò con lo sguardo sul profilo distante di Jean, sporgendo le labbra.

«Si è imbarcato in qualcosa che rischia di essere più grande di lui» disse, sospirando. «Sinceramente, mi preoccupa molto. Non so quanto sia realizzabile questo progetto e ho paura che possa finire male. Le incognite sono tantissime e non parlo solo di raggiungere l'Exelion. Una volta laggiù, dovremmo trovare un modo per entrare nella nave, raggiungere la sala macchine e infine riattivare il motore Orpheus... sempre che questo sia possibile... E poi c'è la questione della Pietra!» esclamò. «Onestamente...»

«Ehi, ehi! Prendiamo una cosa alla volta, ok?» fece Sanson, posando una mano callosa sulla spalla del cugino. «Per quanto mi riguarda, quando guardo quell'affare che avete costruito, vedo solo una cosa, e cioè la nostra possibilità di raggiungere le ragazze. E non penso a nient'altro. Oltre al fatto che sembra davvero un pachiderma...»

«Non è un... insomma!» esclamò Hanson, livido. «Io sto solo dicendo che, ammesso che si riesca a uscire vivi da questa missione, non è detto che riusciremo a raggiungere la nave, e soprattutto a mettere in atto il piano assurdo di Jean. Se dovesse concludersi tutto con un fallimento, anche portando a casa le penne non credo che lui riuscirebbe più a riprendersi».

«E se anche fosse?» disse Sanson. «Forse è un motivo in più per tentare, no?»

«Non lo so, io...»

«Ogni giorno, da quando se ne sono andate, non faccio che tormentarmi» mormorò Sanson, improvvisamente più serio. «Non faccio che chiedermi cosa avrei potuto... anzi, cosa avrei dovuto fare, per non lasciarle partire. Allora me la sono presa con lui» disse, ammiccando in direzione di Jean, «con Jean, intendo. Gli ho riversato addosso tutta la colpa, ma anche io non ero là, là dove avrei dovuto essere» sospirò. «Non ho mai trovato una risposta a quella domanda, a cosa avrei dovuto fare... almeno, non ho mai trovato una risposta che piacesse a me. Per mesi ho odiato Jean inutilmente, convincendomi che se non fosse stato per lui, nulla di quello che è accaduto sarebbe successo. Rebecca e Marie sarebbero con noi, ora, e Alex non sarebbe morta. Però, cos'ho fatto io per impedire che tutto questo accadesse? Mi ero ormai rassegnato all'idea di convivere con quel tormento, ma lui non l'ha fatto. Si è aggrappato a una speranza, che per quanto assurda, era tutto ciò che gli restava. Quando l'ho incontrato, ho pensato che il destino ci stava dando un'altra opportunità, che la stava dando a me. Per questo ho accettato di seguirlo. Capisci cosa intendo?»

Hanson annuì.

«Sì» disse, «credo di sì».

«Per quanto assurdo sia, voglio provarci» aggiunse Sanson. «Farò tutto quello che c'è da fare, per aiutare Jean in quest'impresa. Per quanto ne so, si tratta solo di scendere laggiù, e di riportare a galla quel vecchio rottame. Ci sono posti molto più profondi e bui dell'oceano, cugino, e molto più pericolosi. Sono posti che ho già visitato e da cui in qualche modo sono riuscito a tornare indietro. Se l'ho fatto, è stato ogni volta per un motivo ben preciso. Jean ora me ne ha offerto uno, e mi lascerò guidare da quel motivo. Se sarà necessario vi tirerò tutti fuori, e vi riporterò sani e salvi quassù, parola mia».

Hanson guardò il cugino. Improvvisamente, di fronte a tanta spavalderia, si ricordò di quando Sanson era piccolo, quando non era così forte ma talmente gracile che temeva ogni volta di vederlo cadere al più timido soffio di vento. Era lui a proteggerlo in quei momenti, e Sanson lo seguiva ovunque e lo ammirava, come si ammira un eroe, o un fratello maggiore. Non lo chiamava pachiderma, allora, ma si stringeva a lui, invocando il suo aiuto. Come quella volta, quando il mondo intorno a loro era cambiato in un attimo e si erano ritrovati improvvisamente soli, di fronte alla vita e di fronte alla morte.

Anche allora, erano riemersi insieme da un luogo buio. E da un inferno profondissimo che non li avrebbe mai davvero abbandonati.

«È una promessa?» chiese Hanson, con un sorriso che lasciava intendere di conoscere già la risposta. Sanson annuì, incrociando le braccia robuste.

«Una promessa» disse. «Nonostante il tuo pachiderma».

«Maledetto» farfugliò Hanson.

 

 

*

 

 

Ci siamo.

Jean osservò il batiscafo, che era pronto ad essere calato in mare. Si trattava ancora di pochi istanti, poi tutto sarebbe definitivamente cambiato. Nel bene come nel male. Se il batiscafo fosse riuscito a galleggiare e a raggiungere l'Exelion, allora il suo sogno avrebbe avuto qualche chance di successo.

Capiva i dubbi di Hanson, anche se ammetterlo gli costava un certo fastidio. Era consapevole che le probabilità di raggiungere quella profondità con un mezzo costruito in così poco tempo, e per di più senza aver mai effettuato neppure una prova, era un azzardo che avrebbe potuto costare la vita a lui e a tutti gli altri. Eppure, la cosa non gli importava. Ma questo, non poteva certo dirlo ad Hanson.

La verità è che Jean si sentiva egoista. Era una sensazione che aveva imparato a conoscere bene, negli ultimi tempi, e con cui si era abituato a convivere. La durezza con cui esigeva che le cose andassero come desiderava, lo aveva reso freddo e distaccato, disinteressato ai bisogni degli altri. Sentiva di non avere tempo, né voglia, per preoccuparsi degli altri: in fondo, aveva passato una vita intera a preoccuparsi di quello che gli altri potevano pensare, e tutto quello che aveva ottenuto era stato un fallimento dopo l'altro.

«Tu aspetti che le cose cadano dal cielo nella tua mano aperta» gli aveva detto Atahualpa. Era così. Aveva sempre creduto che prima o poi la bontà e l'onestà sarebbero state premiate e che la giustizia avrebbe trionfato, assicurandogli il giusto compenso per i suoi sforzi. Si sbagliava. La vita non segue le strade della giustizia, e non si cura della bontà. L'aveva imparato a sue spese; ma anche se non era stato facile, era una lezione che non avrebbe mai più dimenticato.

«Achtung!»

Jean si scostò, lasciando passare alcuni marinai che si affrettavano a portare delle lunghe pertiche, che avrebbero caricato sulle scialuppe e che sarebbero servite a tenere a distanza il batiscafo, una volta calato in mare.

«Davvero un'invenzione meravigliosa, la sua. Non c'è che dire».

Jean sussultò. Quando si volse, il volto impassibile di Ludwig von Wiesbaden gli stava rivolgendo un sorriso indecifrabile.

«Mi riferivo al batiscafo» aggiunse il barone «naturalmente».

«L'importante è che funzioni» ribatté Jean. Wiesbaden annuì. Ammiccò leggermente ai due uomini che lo seguivano passo passo, e questi si allontanarono silenziosamente, girando sui tacchi senza proferire parola.

«Lei è una persona con del genio, Herr Lartigue» riprese Wiesbaden, come nulla fosse. «L'avevo intuito fin dal nostro primo incontro, e avevo giudicato bene. Le confesso, che lei mi è piaciuto subito».

«La ringrazio» commentò Jean, piuttosto freddamente. «Lei è troppo gentile, anche se non credo di meritare così tanta stima».

«Ha evitato di dire che la stima è reciproca» commentò Wiesbaden, che evidentemente era piuttosto divertito da quel gioco di fioretto in cui si erano imbarcati lui e Jean. Jean, al contrario, sembrava piuttosto indifferente alla cosa. E non faticava a mostrarlo.

«È che non sono ancora riuscito a farmi di lei un'idea precisa. Al di là dell'evidenza, intendo».

«E cosa sarebbe evidente? Se posso permettermi...»

«Di sicuro sembra un uomo determinato».

Wiesbaden sorrise, compiaciuto. «Se è per questo, persino lei lo è» disse. «Direi che in questo, allora, siamo molto simili, Herr Lartigue».

«No, non direi» lo corresse Jean, piuttosto velocemente. «Anzi, direi che siamo profondamente diversi».

Passarono accanto ad alcuni militari che, finito di caricare i batiscafi, stavano fumando una sigaretta. Quando si accorsero di loro impallidirono, senza saper esattamente cosa fare. Con un gesto che tradiva una inaspettata magnanimità, Wiesbaden fece loro cenno di non preoccuparsi e di continuare.

«Posso farle una domanda?» fece Jean, distogliendo lo sguardo. Wiesbaden gli rivolse un'occhiata che lo invitava a proseguire. «Perché i soldati?»

«L'imperatore Guglielmo ha deciso di partecipare all'impresa» disse Wiesbaden, con una smorfia stiracchiata. «Si è mostrato interessato alle prospettive di impiego della tecnologia che riusciremo a recuperare. Crede che ciò gli conferirà prestigio internazionale. Che idiozie. Personalmente, non ho nulla in contrario, a patto che questo non interferisca con i miei obiettivi. Bisogna comunque notare che il Kaiser ha raggiunto ben pochi risultati utili nel corso della sua inutile vita, ma uno di questi è senza dubbio la riorganizzazione militare del regno. Non esiste al mondo un esercito più efficiente, e potenzialmente più potente, di quello tedesco. La sua utilità, in molti casi, è indubbia».

«Quindi, l'imperatore ha posto l'invio dell'esercito come condizione per il suo aiuto?»

«Diciamo che sono stato io a chiedere la disponibilità di un battaglione» ammise Wiesbaden «E questo in cambio del mio aiuto».

Sorrise. Jean aggrondò.

«Lei deve essere un uomo molto potente» fece. «Oppure molto stupido»

Wiesbaden rise.

«Senza offesa» aggiunse Jean.

«Nessuna offesa».

Wiesbaden tacque. Quindi inarcò le sopracciglia.

«Da quanto dice, deduco che lei non ami la guerra... Forse mi sbaglio, Herr Lartigue?»

«Diciamo che non è uno dei miei argomenti di conversazione preferiti».

«Capisco».

Wiesbaden rimase nuovamente in silenzio, limitandosi a camminare per il ponte a fianco di Jean. Stavano guardando senza interesse il movimento degli uomini sul ponte, quando improvvisamente il barone si fermò, fissando una spranga di ferro che giaceva a terra abbandonata. La raccolse e la sollevò davanti a sé, soppesandola accuratamente tra le mani.

«Sa, Herr Lartigue, nella mia lunga esperienza ho avuto modo di incontrare diverse tipologie di persone. Per quanto ognuno presenti caratteristiche che lo distinguono dagli altri, sono arrivato alla conclusione che ogni essere umano possa essere inscritto all'interno di tre semplici categorie. La prima, comprende tutti coloro che si dicono del tutto contrari alla guerra. Questa gente si appella a vaghi principi quali la fratellanza, la carità, la pace... o un dio, da qualche parte, che avrebbe parlato di amore e giustizia. Sono sciocchezze. La verità, è che queste persone sono dei vigliacchi, incapaci di affermare la propria volontà. Dei deboli. Dal momento che non sanno lottare, pretendono che il mondo getti le armi per loro, e sperano di riuscire a dominare i forti con la loro debolezza. Peccato che quando i forti insorgono contro di loro, queste persone dimentichino i loro valori di amore e di carità, e chiedano a gran voce che qualcuno di forte sacrifichi la propria vita per loro, in una guerra che essi non vorrebbero né saprebbero combattere».

«Una visione piuttosto negativa» commentò Jean. «E la seconda categoria?»

«Sono le persone che dicono di odiare la guerra, ma che in realtà la amano profondamente» disse Wiesbaden, che sollevò la spranga e, con un affondo elegante, la puntò dritta avanti a sé come fosse una spada. Un movimento che tradì in lui una certa abilità come spadaccino, o forse come duellante. «Queste persone non hanno il coraggio di confessare il loro desiderio di battaglia, e si nascondono aspettando il momento buono, il momento in cui potranno combattere. Possono trascorrere una vita intera nella menzogna, ma alla fine saranno costretti a confessare il loro amore per la guerra, che lo vogliano oppure no. Anche se, quando questo accadrà, ne proveranno una gran vergogna».

«Mi lasci indovinare. Io sono uno di questi, non è così?»

Wiesbaden si fermò. Afferrò la spranga come fosse un fucile e prese a mirare ai marinai che affollavano il ponte, a distanza da loro.

«Oh, no, no signor Lartigue» disse, continuando a prendere di mira i marinai. «Lei non è affatto così. Lei appartiene senz'altro all'ultima categoria, alle persone che amano la guerra e che non hanno paura di mostrarlo. Se lei mi ha detto di non amarla, è solo perché voleva prendersi gioco di me. Ma io e lei siamo simili, Herr Lartigue» disse Wiesbaden, e si soffermò sulla testa di un marinaio che stava loro di spalle, e che riavvolgeva ignaro delle cime. Wiesbaden chiuse un occhio, come per prendere meglio la mira, quindi abbassò lentamente la spranga. «Siamo simili, per quanto lei si ostini a negarlo. È per questo che lei mi piace così tanto. Perché fin dal principio, ho avvertito in lei la mia stessa pulsione. Anche lei, come me, adora la guerra. A differenza di altri, noi siamo persone semplici, Herr Lartigue. Non amiamo nasconderci dietro cavilli e dietro menzogne ben costruite. Noi abbiamo qualcosa che gli altri non possiedono e ne abbiamo anche la consapevolezza: ed è questa consapevolezza che ci spinge a lottare. Lottiamo per affermare quello in cui crediamo, e non abbiamo paura di farlo. Persone come noi, Herr Lartigue, persone come lei e me, sono in grado di creare valori e di mantenerli, quando gli altri attorno a noi si perdono per strada».

Jean inarcò le sopracciglia e sbuffò.

«Credo che lei si sia fatta un'idea sbagliata di me, signor Wiesbaden» disse. «Io non sono come lei, e non sono quello che lei crede io sia. Io sono solo un ingegnere, e sono la persona che è stata assunta per portare a termine questo progetto. Non sono adatto a combattere e, quando avremo finito, me ne tornerò a casa, a fare lezione ai miei studenti. Tutto qua. Non ci sono grandi valori, in questo, lo riconosco. Non come li intende lei, almeno».

«Davvero è così? Sarebbe un vero peccato» fece Wiesbaden, divertito ma per nulla convinto. Jean lo fissò, infastidito.

«Mi spiace deluderla, ma questo è tutto quello che posso dirle. Ora, se non le dispiace, dovrei andare ad assistere al varo. Con permesso».

Wiesbaden si fece da parte, salutando Jean con un leggero inchino. Quindi lo osservò allontanarsi. Era piuttosto divertito. Sapeva che quel ragazzo gli aveva appena detto una bugia, ma aveva trovato interessante lasciarlo fare. Il fatto che lui fosse lì per un motivo ben preciso alla fine gli si leggeva in volto, per quanto credesse di riuscire a nasconderlo. Così come gli si leggeva in volto che sarebbe stato pronto a combattere per quel motivo fino alla fine. E lui, il barone Ludwig von Wiesbaden, avrebbe fatto in modo di essere presente, quando questo sarebbe avvenuto. Avrebbe infatti trovato quel suo sforzo estremamente divertente.

 

 

*

 

 

Lisa osservava il mare, che dal ponte superiore risplendeva distante. Le onde che si frangevano contro lo scafo non erano che bagliori di spuma sottile, che si sollevavano e correvano rapidi, prima di essere riassorbiti e nascere nuovamente. Vista alla giusta distanza, pensò lei, ogni cosa acquistava un significato diverso. Anche quelle onde, in mezzo alle quali avrebbe tremato e gridato per la paura, viste dall'alto di quel ponte e nello splendore del sole, erano tutt'altro che spaventose. Anzi, le trovava rassicuranti. Seguiva con lo sguardo il loro percorso, monotono e indifferente, e il loro infrangersi senza sosta. Davanti alla bellezza di quell'oceano di smeraldo, il suo cuore riusciva insolitamente a trovare la pace e la sua mente, per la prima volta dopo tanto tempo, era vuota. Forse perché quelle onde non le apparivano altro che per quello che erano. Onde, che si sollevavano e si frangevano senza uno scopo e senza alcun significato.

Era qualcosa di molto simile alla sua vita. Come quelle onde, anche lei aveva provato a sollevarsi e a risplendere. Pian piano, gli eventi l'avevano riassorbita, proprio come il mare riassorbiva le onde quando queste si facevano esauste.

Non aveva molto da rimproverarsi. O forse sì. Nemmeno lei lo sapeva con certezza. Tutto quello che sapeva, è che per quanto si fosse sforzata, i suoi limiti erano risultati invalicabili. Aveva provato ad ignorarli, ma non ci era riuscita. E ora, com'era prevedibile, a causa di quei suoi limiti era giunta al punto di perdere tutto.

La verità, è che aveva paura.

Era difficile da ammettere, ma aveva una paura tremenda. Sentiva di essere nel posto sbagliato e al momento sbagliato e continuava a pensare, con le lacrime agli occhi, che non avrebbe dovuto essere lì, ma alla sua scrivania dimenticata in un cantuccio del Times, sommersa da manoscritti non suoi e dalla puzza del sigaro di Hunter che aleggiava su tutto il piano e che immancabilmente le faceva bruciare gli occhi. Pensava a Nadia, a quando non era la principessa di un mondo lontano e ostile, ma solo una giornalista come lei, la sua amica, che divideva con lei un tramezzino e un tè, trangugiato tra un articolo e l'altro da trascrivere in bella copia. E non capiva perché tutto non fosse come allora, e perché invece di farsi trascinare in basso come un'onda senza più energia, non riuscisse a sollevarsi di nuovo, e a trovare un senso in tutto quello che le stava accadendo.

Abituarsi a credere che dietro ogni cosa si nascondesse un'illusione, pronta a far crollare ogni speranza come un castello di sabbia. Ecco la cosa di cui forse aveva più paura in assoluto.

«Eccoti...»

Lisa sussultò. Si volse, scostandosi i capelli dal volto. Il profilo di Winston si stagliava contro il sole. Quando le fu vicino, riuscì a scorgere un sorriso sul volto di lui, e lei lo ricambiò, un attimo prima di voltarsi.

«Volevi restare sola?»

«Non dovrebbe essere qui» fece lei, piatta. «Se ci vedessero...»

«Sono stato attento».

Lisa rabbrividì.

«Non lo si è mai abbastanza».

Winston tacque. Si avvicinò al parapetto e improvvisamente quanto imprevedibilmente si sporse, con buona parte del busto. Lei trasalì e si affrettò ad afferrargli il braccio.

«Sei impazzito?» esalò. «Cos'è, vuoi cadere forse?»

«Finalmente sei passata al tu» disse lui. «Temevo di dovermi buttare sul serio».

Lisa arrossì. Lo squadrò torva, cercando di nascondere il sorriso che le affiorava involontariamente sul volto.

«Sei uno stupido» mormorò. E scoppiò a ridere.

«Ah, adesso ridi?»

«Sai, forse avrei dovuto darti una spinta. Probabilmente sarebbe stato meglio».

«Meglio? E per chi?»

«Sicuramente per me» fece lei. E gli rivolse un'occhiata maliziosa. «Per me di sicuro».

Per un po' nessuno dei due disse nulla. Il mare copriva ogni rumore, ma ogni tanto lasciava affiorare le grida dei marinai e i rumori che provenivano dalla stiva, dove si stava procedendo con il varo dei batiscafi.

«Sai» riprese lui «pensavo che...»

«Wiesbaden vi ucciderà. Sa tutto di voi, e vi ucciderà»

Lisa si stupì di quanto quelle parole le fossero scivolate fuori dalle labbra con tanta facilità. Per giorni si era tormentata, credendo di non avere il coraggio per pronunciarle. Eppure, con lui lì, accanto a lei, confessare tutto era risultata la cosa più naturale e semplice possibile.

Tuttavia, quando si voltò e vide il pallore di lui, capì di aver sbagliato. E si spaventò.

«Perdonami, avrei dovuto dirti tutto già da tempo» disse tremando «ma...»

«Cosa è successo?»

Lisa si morse il labbro.

«Nulla».

«E hai pensato di dirmelo solo adesso? Non ti credo» fece lui. La afferrò per le mani. «Cosa è successo? Voglio saperlo».

«Mi fai male!»

«Dimmelo!»

«Non lo so!»

Lisa si divincolò, fino a liberarsi. I polsi le bruciavano, per quanto lui l'aveva tenuta stretta.

«Sapeva tutto, aveva sempre saputo tutto!» pianse. «Già ad Hannover era a conoscenza della verità».

«Impossibile, nessuno di noi ha mai... siamo stati sempre prudenti...» Winston la guardò, improvvisamente irriconoscibile nel volto. «Sei stata tu a dirglielo?»

«Ti giuro di no, te lo giuro!»

«Allora mi dici com'è possibile che sia accaduto?» ringhiò lui. «Maledizione, è così? Ti sei... venduta a quell'uomo? Sei la sua puttana? Che cosa ti ha promesso, eh?»

«No!» gridò lei. «Non è così, non è per niente così!»

«E ora vorresti farmi credere che hai cambiato idea? Avresti dovuto dirmelo prima, quando eravamo ancora in tempo per fare qualcosa, dannazione! Cos'è, hai avuto improvvisamente pietà, oppure è stato per giocare con me, per vedere come avrei reagito?»

«Basta!»

Lisa si portò le mani al volto, scoppiando in singhiozzi. Winston era livido di rabbia, ma vederla così lo impietosì. Respirò profondamente, quindi sollevò una mano, per accarezzarle il volto. Vedendo che ancora gli tremava, la abbassò subito, nascondendola sotto l'altra.

«Mi hai mentito?» chiese, guardandola duro. Lei alzò gli occhi, umidi e arrossati e li fissò nei suoi.

«Mai» sussurrò. «Non avrei mai potuto farlo».

Winston sospirò. Sembrava aver riacquistato la calma.

«Perdonami» fece. «Non dovevo dubitare di te».

«Mi ha aspettata sotto casa, dopo che ci siamo incontrati» fece Lisa. Winston a sentire quelle parole, sbiancò.

«Ti ha fatto del male?»

Lisa nicchiò. Si asciugò le lacrime. «Però... io...»

«Lisa?»

Lei si sforzò di guardarlo. Ma si vergognava terribilmente. Si sentiva macchiata da una colpa incancellabile.

«Mi ha costretto a dirgli tutto. Ha detto che ti avrebbe ucciso e che avrebbe ucciso anche Michael. Non scherzava, lui... lui ha ucciso anche il banchiere, davanti ai miei occhi...»

Lisa si sforzò di non piangere, ma il ricordo del corpo di quell'uomo che cadeva esanime ai suoi piedi e del sangue che le schizzava il volto e i vestiti si insinuarono nella sua mente, costringendola a un pianto soffocato e disperato.

Lui la guardò, e per la prima volta i suoi occhi riflettevano una compassione sincera.

«Zitta» disse. «Non aggiungere altro».

«Winston...»

«Basta, ho capito tutto. Non voglio che tu mi dica niente. Non devi essere tu, non voglio che si sappia che sei stata tu a dirmelo, nel caso qualcosa vada storto».

«Ma io vi ho traditi e ora...»

«Tu non hai fatto nulla, hai solo cercato di fare quello che in quel momento ritenevi giusto. Se non avessi fatto quello che lui voleva, probabilmente io e Michael saremmo già morti, e anche tu. Ascolta» disse, scuotendola leggermente, «ascoltami, Lisa. Tutto va come deve andare. Troverò una soluzione. In qualche modo, mi inventerò qualcosa. E ti prometto che...»

«No» disse lei, sottraendosi. «Non promettere niente. Non voglio una tua promessa, io...»

«E allora, cosa vorresti?»

Lei si zittì. Fissò il mare, ai suoi piedi, e le onde che continuavano a infrangersi, nonostante tutto.

«Io voglio solo smettere di avere paura».

Lui la ascoltò senza ribattere nulla. Quindi «è il mio lavoro fare in modo che le persone come te non debbano avere paura. Se è questo che temi, ti assicuro...»

Lei lo spinse via, guardandolo come se le avesse tirato uno schiaffo in pieno volto.

«Il tuo lavoro!» esclamò. «Io non sto parlando del tuo lavoro! Che lavoro sarebbe, il tuo? Un lavoro è qualcosa che ti permette di realizzare un progetto, o un sogno, che ti consente di mettere in piedi una famiglia! Tu non torni a casa la sera, non prendi in braccio tuo figlio e non hai una famiglia con cui trascorrere il tuo tempo libero. Non hai un ufficio, o una scrivania, tu... non parlarmi di... di questo... come fosse un lavoro

«Lisa...»

«Osi chiamarlo lavoro? E come pensi di vivere, per tutta la vita? Uccidendo, torturando le persone per far sì che quelli come me non debbano avere paura? E non credi che proprio per questo, in realtà, io abbia paura? Una paura folle, terribile... e ogni volta che io ti guardo, io...»

Lisa si volse, mettendosi a piangere. Winston la lasciò sfogare, quindi le si avvicinò.

«Lasciami» fece lei. «Non sei diverso da lui, sei un mostro!»

Lui non la ascoltò, e la trasse a sé.

«Stupida» mormorò. «Non devi aver paura per me. Lo capisci?»

«Io ti amo, maledetto!» gridò lei. «E non so come fare, perché tu mi fai paura, e io ti odio per questo, ti odio così tanto...»

«Mi ami?»

Winston tacque. Ascoltò in silenzio i singhiozzi soffocati di lei, quindi «è la prima volta che me lo dici» mormorò.

«Ho sbagliato, avrei dovuto dirtelo prima» confessò lei, arrossendo. «Ma ho avuto così paura, e ancora adesso io temo che tu... tu finirai col perderti. E io non posso sopportarlo, non ci riesco».

Winston sospirò. Quindi sorrise. «Io non mi perderò, Lisa. Non finché avrò te. Finché avrò te, saprò esattamente dove devo ritornare. Perciò, per favore, smettila di avere paura».

Lei si volse. Lui le prese il viso tra le mani e la baciò, inaspettatamente. Sentì il sapore delle sue lacrime, insieme alla dolcezza di quel bacio a cui lei si abbandonò, senza smettere di tremare.

«Se devi promettermi qualcosa, promettimi che tutto questo finirà. Promettimelo. E dimmi che per quel giorno riusciremo a lasciarci tutto alle spalle».

«Prima non volevi una promessa. Cos'è cambiato?»

«Nulla» fece lei. Ma non era vero, perché nel suo cuore era cambiato tutto.

«Allora, ti prometto che sarà così».

Lisa annuì, tirando su con il naso. Winston le asciugò gli occhi.

Andrà tutto bene...

«Ora vai. Se Wiesbaden dovesse cercarti e non riuscisse a trovarti, sarebbe un problema».

Lei ubbidì, e lui restò a guardarla mentre si allontanava, aspettando che si voltasse per l'ultimo saluto. Quando l'ebbe vista sparire lungo la scala che conduceva al ponte inferiore, Winston si incupì. Si infilò le mani in tasca, quindi restò a guardare lontano, verso l'orizzonte, dove il cielo si stava facendo torvo e minaccioso fondendosi col mare.

E fu guardando quel cielo, che alla fine Winston prese la sua decisione.

 

 

*

 

 

«Ci siamo, tenetelo fermo...»

Jean risalì la scaletta, tenendosi ben saldo. Attorno a lui, le scialuppe cercavano di manovrare le pertiche per trattenere il batiscafo. Con uno sforzo, Jean si issò sulla scaletta. Reggendosi con una mano sollevò l'oblò e si sporse dentro. Hanson e Sanson erano già saliti a bordo prima di lui, e li sentiva parlottare tra loro nell'abitacolo.

«Coraggio, Jean» fece Hanson, che si era già liberato dei cavi di sicurezza e che si era sporto a guardarlo, con in volto l'espressione felice di un bambino. «Vediamo di far partire questa meraviglia».

Jean sorrise. Aggrappato in cima alla scaletta, non era facile per lui mantenere l'equilibrio. Il batiscafo ondeggiava pericolosamente, beccheggiando a destra e a sinistra, tanto che Jean si ritrovò completamente zuppo e più di una volta corse il rischio di cadere in acqua. Un'onda più altra delle altre affossò il batiscafo, per poi sollevarlo fin quasi all'altezza del ponte di imbarco. Gli uomini sulle scialuppe ritirarono le pertiche, e si accucciarono sul fondo delle barche, in attesa che l'onda passasse. Jean si sentì sollevare e poi, improvvisamente, precipitare. Avvertì una sensazione di vuoto allo stomaco, e poi gli spruzzi, attorno a sé, che gli infradiciarono i capelli.

«Woah, questa era grossa!» gridò Sanson, da dentro il batiscafo. «Jean, muoviti a entrare, o rischiamo di imbarcare acqua».

Jean annuì. Scavalcò velocemente il bordo dell'oblò e si calò nel condotto a tenuta stagna, proprio mentre il batiscafo si inclinava pericolosamente ancora una volta. Jean si richiuse l'oblò sulla testa, dopo aver dato un'ultima occhiata ai marinai che dalle scialuppe agitavano le braccia in segno di saluto. Quindi sganciò il cavo di salvataggio, che venne subito ritirato. L'oblò si chiuse, e lui fu dentro.

«Ben arrivato, signore. Prego, si accomodi. Faccia come se fosse a casa sua», scherzò Hanson. Jean si sfilò l'imbracatura e la tuta. L'interno del batiscafo puzzava di saldatura di ferro e di gomma, ma era piuttosto spazioso.

«Il mare si sta ingrossando sempre più» commentò Sanson, dalla postazione di guida. «Forse avremmo fatto meglio a rimandare».

«No, non era possibile» obiettò Jean. Non era assolutamente possibile rimandare. Doveva scendere fino all'Exelion quando ancora ce n'era la possibilità. Non sapevano se e per quanto tempo la nave sarebbe restata immobile in quella posizione. Fino a poco tempo prima, si era continuata a muovere in modo costante, risalendo la fossa delle Marianne e successivamente quella del Giappone. Se per sventura avesse ripreso a muoversi, avrebbe potuto benissimo scendere ancora più in profondità. E allora, sarebbe stato davvero impossibile raggiungerla.

«Muoviamoci, non perdiamo altro tempo» commentò Jean. Senza farselo ripetere, Hanson si piazzò al posto di copilota, a fianco di Sanson, sprizzando eccitazione da tutto il corpo.

«Casse di immersione in allagamento. Numero uno, due...»

Il batiscafo cominciò a scendere lentamente. Era difficile percepirlo, a causa della lenta discesa e delle onde che ancora colpivano lo scafo, anche se il peso ormai raggiunto grazie all'acqua presente nelle casse di immersione, rendeva lo scafo molto più resistente al moto ondoso.

«Ci siamo. Comincia l'immersione. Meno dieci metri, quindici, venti...»

«Jean, apri le valvole del comburente» fece Hanson. «Venti per cento, al momento... dovrebbe bastare».

Jean aprì lentamente la manopola che regolava la percentuale di acqua ossigenata, osservando che le lancette si posizionassero sulla quantità richiesta da Hanson. Quindi si avvicinò agli oblò principali.

«Vedete qualcosa?»

«No, non si vede un accidente» commentò aspro Sanson. Agiva sulla cloche, con movimenti calibrati e lenti, gli occhi fissi sull'oblò. «Con queste onde, sarebbe un'impresa riuscire a scorgere una balena a tre metri da noi».

«Provo ad accendere i fari» disse Hanson. Sanson fece una smorfia. «Adesso vedi qualcosa?»

«No, anzi è ancora peggio» disse, scuotendo la testa davanti al banco di sabbia e residui che le onde continuavano a sollevare senza sosta. «Navighiamo a vista. E non si vede niente».

«Non è un buon inizio» commentò Hanson, a denti stretti.

Sanson si agitò sulla poltrona. Si sporse, per guardare dagli oblò laterali. Quindi, «il radar funziona?» chiese. Hanson annuì.

«Per il momento, profondità duecento piedi. Continuiamo a scendere».

«Non sarebbe meglio rallentare la discesa?» suggerì Jean. «Con questa visibilità, potremmo...»

Improvvisamente risuonò un boato, e una scossa sembrò spaccare in due lo scafo del piccolo sommergibile. Hanson sbiancò, mentre Jean si ritrovò sbalzato a terra. Sanson cercava disperatamente di rimettere in rotta il batiscafo.

«Che diavolo era?» ringhiò. «Dannazione, dove accidenti stavi guardando, Hanson!»

«Colpa mia, colpa mia!» si giustificò lui. «Mi ero distratto... ecco. Ora rimetto a posto e...»

Hanson cominciò a farfugliare qualcosa, visibilmente preoccupato. Sanson, a fianco a lui, gli gettava occhiate in tralice.

«Hanson, qualcosa non va?» chiese Jean. Lui si voltò appena.

«No, solo un secondo...»

«Ti decidi ad attivare quel dannato radar?» fece Sanson. Hanson si passò una mano tra i capelli spettinati.

«Non va».

«Stai scherzando?»

«No, non va. Ha smesso di funzionare dopo l'impatto. Deve essersi guastato in seguito all'impatto».

«E come pensi che possa manovrare questo affare se non ci vedo e se non ho un radar? Me lo spieghi?»

«Io...»

«D'accordo, basta!» intervenne Jean. «Sanson, porta l'andatura pari a zero. Cerchiamo di scendere il più delicatamente possibile. Intanto, io e Hanson proveremo a inventarci qualcosa».

«Jean, forse dovremmo risalire» azzardò Hanson. «È veramente impossibile farcela con questa visibilità. E senza radar, poi, è addirittura un suicidio».

Jean si morse il labbro, stringendo i pugni. Aveva una gran voglia di prendere a calci tutto quello che aveva intorno. Quella che lo perseguitava era una maledettissima sfortuna. Era come se il destino si stesse prendendo gioco di lui, portandolo a un passo dal successo ogni volta per poi soffiarglielo da sotto il naso.

«Jean?»

Jean sferrò un pugno allo scafo, abbandonandosi sulla sedia.

«Va bene» mormorò. «Rientriamo».

«Vorrei poterlo fare, ma qualcosa non funziona» disse Sanson «Forse voi ragazzi vi siete dimenticati di azionare una valvola, o qualcosa del genere?»

«Stiamo continuando a scendere?»

«Il batimetro segna 560 piedi. Pressione in aumento».

«Che diavolo succede, insomma?» ruggì Sanson. «Qualcuno ha un'idea?»

«La cassa tre e quattro continuano a riempirsi» disse Jean, dopo aver dato un'occhiata veloce agli strumenti. «Per questo continuiamo a scendere. Dobbiamo svuotarle».

«Aziono il compressore».

Lentamente il batiscafo prese ad arrestare la sua discesa. Man mano che le casse si svuotavano, lo scafo si fece più leggero e iniziò la risalita verso la superficie. Sanson manovrava lentamente e con attenzione. La fronte imperlata di sudore, cercava di scrutare il più possibile attraverso il muro di sabbia e pulviscolo che le onde sollevavano dal fondo del mare.

«Ragazzi, non vorrei dire ma...» intervenne Sanson «guardate là. C'è una luce, o sbaglio?»

Hanson e Jean si precipitarono all'oblò. Socchiusero gli occhi, cercando di intravedere attraverso il caos che li circondava. In effetti, sembrava che qualcosa brillasse, proprio sotto di loro.

«È l'Exelion» mormorò Jean. «Quella è l'Exelion! È la sotto! Muoviamoci».

«Aspetta un momento, Jean» lo frenò Hanson. «Non siamo sicuri che sia lei. Quella luce potrebbe essere qualsiasi cosa, per quanto ne sappiamo. Non possiamo precipitarci là sotto, non in queste condizioni».

«Quella è l'Exelion, ti dico!» fece Jean. «Cosa potrebbe mai essere una luce a oltre novecento metri di profondità?»

«Ascolta...»

Jean non ascoltò. Con un movimento fulmineo agguantò la valvola che regolava l'allagamento della casse di immersione, che presero a riempirsi nuovamente d'acqua. Con uno scossone improvviso, il batiscafo riprese a discendere nel profondo degli abissi.

«Che diavolo fai? Sei impazzito?»

«Siamo qui per questo!» gridò Jean, lottando con Hanson per impedirgli di chiudere le casse. «Non tornerò indietro, per nessun motivo!».

«Nemmeno se questo significasse morire?» esclamò Hanson. Sanson cercava di guidare come poteva il mezzo, che ora sembrava scendere assolutamente fuori controllo. «Se dovessimo restarci secchi, come pensi di poter aiutare Nadia e le altre? Ci hai pensato?»

Jean strinse i denti. Quindi girò ancora la manopola, che si svitò completamente e cadde a terra con un suono ottuso.

«No» disse. «Ma a questo punto, l'unico modo che ho per aiutarle è rischiare».

«Dannazione!»

Hanson si sedette ai comandi, imprecando tra i denti. Cercava di attivare i comandi direzionali, in modo da aiutare Sanson nel frenare la discesa.

«Ci stiamo avvicinando» disse Sanson. Sentiva la testa pesante e un senso di nausea allo stomaco. La pressione stava aumentando troppo velocemente e loro continuavano a scendere. «C'è troppa pressione. Se continuiamo così, ci esploderà il cervello».

«Ottocento quaranta piedi. Ottocento cinquanta... sessanta...» contava Hanson, febbricitante.

«La luce. Guardate!»

Improvvisamente, dalla cortina di sabbia che avvolgeva il batiscafo emerse non una, ma almeno una intera fila di luci, che sembravano galleggiare nel vuoto davanti ai loro occhi attoniti. Jean provò a contarle, ma erano troppe. Erano disposte come una corona, un anello di fuochi fatui con al centro di esse una luce più intensa di tutte, che brillava intermittente.

«Che mi venga un colpo. È davvero l'Exelion».

«Frena, frena! Lo stiamo superando!»

Sanson vide le luci scivolare sopra di loro e poi allontanarsi. Con pochi gesti veloci, invertì la propulsione dei motori e il batiscafo rallentò, ma non si fermò.

«Se non troviamo un modo per bloccare quest'affare» disse «andremo a finire tutti all'inferno».

«Ormai non è più possibile svuotare le casse» fece Hanson, disperato. «Siamo finiti...»

«No, un modo c'è».

Jean si alzò, avvicinandosi al condotto dell'ossigeno. Hanson impallidì.

«Stai scherzando vero? Non vorrai pompare l'ossigeno all'esterno?»

«Hai qualche altra idea? L'ossigeno viene espulso direttamente dalle casse di immersione. Se lo spingiamo fuori, come conseguenza svuoterà le casse, per la pressione che si verrà a creare. In questo modo, riusciremo a risalire».

«Sì, ma rimarremo anche senza ossigeno sufficiente a risalire in superficie».

«Ma ne avremo abbastanza per raggiungere l'Exelion, forse» disse Jean. Sanson lo guardò.

«Forse?»

«Se lo manchiamo, e non riusciamo ad agganciarlo, c'è la probabilità che moriremo asfissiati».

Sanson e Hanson si guardarono a vicenda. Quindi «è davvero l'unica possibilità, Jean?» chiese Sanson, serio. Jean annuì.

«L'unica che mi viene in mente».

«In questo caso» disse lui «facciamo come dici tu».

Jean non se lo fece ripetere. Senza stare a pensarci, girò la manopola che regolava il rilascio di ossigeno nella cabina, e la chiuse invertendo il ciclo. Erano rimasti senza altro ossigeno che quello presente nella cabina, mentre il restante veniva espulso con forza dalle casse di immersione. L'acqua presente nelle casse prese a uscire, e lo scafo risalì, alleggerendosi.

«E adesso?» mormorò Hanson. «Cosa facciamo?»

«Adesso non ci resta che agganciare l'Exelion» fece Jean. «Se vogliamo salvarci, non possiamo assolutamente permetterci di mancarlo».

«Allora, vediamo di non mancarlo!»

Sanson si arrotolò le maniche, sbottonandosi la camicia. Aveva caldo, e gli girava la testa. Strizzò gli occhi più volte, cercando di mettere a fuoco la vista.

«Allora, diamoci da fare. Cloche, cloche...»

«Che vuoi fare?» chiese Hanson, quasi disperato. Sanson ammiccò.

«Voglio avvicinarmi il più possibile a quelle prese. Le vedi?»

«Quelle? Sembrano...»

«Sono i tubi lanciamissili» fece Jean. «Probabilmente venivano usati anche come casse di immersione».

«Se riusciamo a entrare là, siamo a posto».

«Sì, ma dimentichi l'ossigeno».

«Intanto cerchiamo di fare una cosa per volta, ok?»

Sanson cominciò a sudare. Il batiscafo risaliva velocemente. Metro dopo metro, le luci che correvano lungo il fianco dell'Exelion si facevano sempre più vicine.

«Cerca di avvicinarti, avvicinati!»

«È quello che sto facendo...»

L'Exelion ora era vicinissimo. Sanson utilizzò i comandi per il sistema di guida idro-assistita. Con pochi movimenti rapidi, riuscì ad avvicinarsi fino a che lo scafo apparve loro perfettamente visibile. Era immenso, e riluceva di uno strano bagliore bluastro.

«Sembra quasi trasparente» fece Hanson, meravigliato.

«È come se qualcosa l'avesse improvvisamente attivato. Sembra pronto a partire, ma non l'ho mai visto risplendere di tutte quelle luci».

«Mi spiace disturbarvi, ma c'è un piccolo problema...»

Sanson non riusciva ad avvicinarsi. O meglio, si era avvicinato, ma troppo tardi. Il batiscafo aveva continuato a risalire, e proprio mentre era vicino alle casse lanciamissili, un'onda l'aveva investito, portandolo fuori rotta e spingendolo verso l'alto. Ora le casse erano sotto di loro, ad almeno dieci metri di distanza.

«Scendi, scendi!»

«E come faccio, non possiamo fermare l'ossigeno in uscita!»

«Così continueremo a salire, finché non finirà l'ossigeno! Resteremo in mezzo al mare, senza possibilità di andare né su né giù...»

«Allora inventatevi qualcosa, siete voi i geni!»

Jean si guardò intorno. C'era ben poco che potessero fare. Secondo i suoi calcoli approssimativi, sarebbero riusciti a risalire fino a circa centocinquanta metri dalla superficie. Poi l'ossigeno sarebbe finito, lasciando il batiscafo a galleggiare sotto la superficie del mare. Una volta finito l'ossigeno, non avrebbero nemmeno avuto la possibilità di uscire dal mezzo, perché la pressione, riversandosi tutta in una volta su di loro, li avrebbe schiacciati come insetti se solo avessero provato ad aprire le porte stagne.

Era la fine. Non c'erano altre possibilità. Avevano tentato il tutto per tutto e la sfortuna si era messa nuovamente di mezzo. Era un altro tiro del destino, l'ultimo. Evidentemente, Jean era destinato a veder fallire ogni suo tentativo, nonostante ogni volta avesse provato a metterci tutto se stesso, per ottenere un risultato.

Forse, avrebbe dovuto rassegnarsi, e aspettare la fine.

Peccato che proprio non ce la facesse.

«Apri il serbatoio» disse. Hanson e Sanson lo guardarono come se fosse uscito di senno.

«Cosa?»

«Apri il serbatoio, muoviti» esclamò.

«Se apriamo il serbatoio, possiamo dire addio sul serio a ogni speranza di tornare su» fece Hanson, intercettando la mano di Jean che stava per premere il pulsante. «Sei fuori di testa!»

«Se apriamo il serbatoio, una volta uscito il carburante entrerà acqua. Il serbatoio è quasi vuoto, ma l'acqua e la sabbia ci porteranno giù. Ma dobbiamo muoverci, o il peso non sarà sufficiente a bilanciare quello delle casse, che ormai sono vuote».

«Jean, se per caso...»

«Se per caso aspetti ancora un po', sarai tu a condannarci a morte».

Hanson si morse il labbro. Sanson sudava freddo.

«E va bene!»

Con un gesto impulsivo, Hanson liberò la mano di Jean, che si avventò sul pulsante. Il serbatoio si aprì e il carburante prese a riversarsi in mare.

«Apri anche i condotti del comburente. Abbiamo bisogno di più peso».

Man mano che il carburante fuoriusciva, il serbatoio si riempiva di acqua e pulviscolo. Dopo un attimo di stasi, pian piano, il batiscafo prese a scendere.

«Scendiamo, guardate!» fece Sanson. «Funziona!»

«Certo che funziona, l'idea alla base è perfetta» ironizzò Jean. «Ancora un attimo...»

«Attenzione!»

Con un boato il batiscafo andò a impattare lo scafo dell'Exelion. Scivolò senza controllo lungo la fiancata, precipitando pericolosamente verso il basso.

«Ora, ora! Spingi al massimo!»

Sanson innestò la marcia e i motori ebbero l'ultimo sussulto, prima di sputacchiare e arrestarsi. In completa inerzia, il batiscafo prese ad avvicinarsi alle casse lanciamissili dell'Exelion, che sembravano pronte ad accoglierlo come giganteschi hangar.

«Dio, ti prego... fa' che non ci siano onde...»

In quel momento, un'onda più forte delle altre sollevò il batiscafo, che venne portato verso l'alto. Con un grido i tre vennero sballottati malamente, e videro le casse uscire dalla visuale dell'oblò di prua.

«No!»

Improvvisamente, l'onda li rilasciò. Ci fu un attimo di silenzio, poi un tonfo. Il batiscafo avanzò sfregando contro lo scafo dell'Exelion, e nell'abitacolo si produsse una vibrazione e un rumore assordante di lamiera piegata. Quindi, tutto tacque.

«Tutto a posto?»

Sanson si alzò, passandosi una mano sulla fronte. Si avvicinò ai comandi. Il batiscafo era immobile. Avevano finito il carburante e l'ossigeno era ormai agli sgoccioli. Sanson strizzò gli occhi, avvicinandosi all'oblò.

«Vedete qualcosa?»

«Vedo tutto buio» disse Hanson. «Siamo... siamo morti?»

«No, non siamo morti» mormorò Jean, affacciandosi all'oblò. «Siamo vivi»

Erano in una cassa lanciamissili. Nonostante tutto, ce l'avevano fatta. Alla fine, erano davvero riusciti a raggiungere l'Exelion.

 

 

*

 

 

«Avanti».

Wiesbaden alzò gli occhi. Winston era in piedi davanti a lui, e lo fissava seriamente.

«Signor Galloway. Ma che insolita sorpresa. Prego, prego. Si accomodi».

«Avrei bisogno di parlarle un attimo, se non le dispiace».

A un cenno del barone, Winston prese posto alla sedia davanti alla scrivania. Wiesbaden posò l'elegante penna stilografica e si alzò in piedi.

«Gradisce qualcosa? Forse uno scotch?»

«Non ancora, grazie».

Wiesbaden lo fissò, incuriosito.

«Strana risposta» disse, aprendo il tappo di cristallo di una bottiglia ricolma di liquido ambrato e versandone il contenuto in un bicchiere. «Diceva di avere qualcosa da dirmi? Prego, non faccia complimenti».

«Smettiamola di girarci intorno» fece Winston, secco. «Lei sa chi sono io, non è così?»

Wiesbaden sorrise.

«Me lo sta chiedendo?»

«No, lo sto affermando».

«In questo caso» sospirò Wiesbaden, riprendendo posto alla scrivania «immagino di doverle dire che sì, so che lei non è il signor Patrick Galloway, bensì il signor Winston Churchill, agente del Consiglio nonché segretario ufficiale del defunto Gilbert de Molay, Reggente in capo. Ora sta a lei... sono informazioni corrette?»

«Assolutamente».

Wiesbaden sorseggiò il whisky, schioccando le labbra.

«Signor Churchill... posso chiamarla così, vero? Visto come stanno le cose...»

Winston annuì.

«...dunque, come le dicevo, lei mi mette ora in una situazione complicata. Onestamente, non mi aspettavo una mossa del genere da parte sua. Intendiamoci, immaginavo che la ragazza sarebbe venuta da lei per confessarle tutto, ma...»

«La ragazza non c'entra. Si è trovata in mezzo a qualcosa di troppo grande per lei, e ora ne paga semplicemente le conseguenze».

Wiesbaden fece una smorfia. Posò il bicchiere.

«Non credo di capire».

«Quando la ragazza mi ha confessato che lei era a conoscenza della mia vera identità e del piano del Consiglio, ho capito che avevamo perso. E che l'unica possibilità che mi restava di uscirne vivo e con in mano qualcosa era quella di venire da lei, e di offrirle la mia collaborazione».

«Vada avanti».

«Cosa risponderebbe se le dicessi che a cinque minuti da qui si trova una torpediniera americana con l'ordine di attaccavi questa notte stessa?»

«Le direi che non ci credo».

«Libero di non farlo, eppure è così. Vi segue da quando siamo partiti da San Francisco. Su quella nave è presente un gruppo di uomini che risponde direttamente a me. Li guida un mio uomo di fiducia, e non aspettano altro che un mio ordine per attaccare. Se non vi siete accorti di loro, è solo perché hanno spento il radar molto tempo fa».

«Perché me lo sta dicendo?» chiese Wiesbaden, socchiudendo gli occhi. «Avrebbe potuto tenerselo per sé».

«Ma così facendo non avrei avuto modo di dividere con lei quello che mi interessa».

Wiesbaden sospirò.

«E sarebbe?»

«So che sta cercando qualcosa che ha a che fare con la tecnologia atlantidea. So che ha intenzione di utilizzarla per conto della SEELE, anche se non so esattamente quali siano i vostri fini. Il mio progetto comunque non è così ambizioso. Personalmente, sono stanco di politica e di guerra. Tutto ciò che voglio, è essere lasciato in pace, e un mucchio di soldi per potermi godere la tranquillità di cui ho bisogno».

«Una prospettiva invidiabile, che sposerei io stesso se solo potessi sottrarmi agli obblighi a cui sono costretto. Ma mi dica, io come potrei aiutarla?»

«In realtà, sono io che potrei aiutarla. Lei conosce l'identità delle persone che in questo momento stanno per raggiungere l'Exelion, ma non sa che in realtà queste persone hanno un progetto ben preciso, che è quello di usare la nave per riportare la Regina su questa terra. Se dovessero riuscirci, lei sa benissimo che la SEELE vedrebbe svanire in un attimo tutte le sue speranze di dominio. Con la Regina di mezzo, la SEELE non avrà altra alternativa che ritornare nell'ombra. Come si dice, in questi casi... ubi major, minor cessat. Mi sbaglio?»

«No, anche se lei parla di cose molto complesse come se stesse facendo le tabelline. La persona di cui parla con così tanta sfrontatezza è la nostra Regina. Nessuno di noi la vede come una palla al piede, né vedrebbe un suo ritorno come qualcosa da scongiurare. Il suo tono è semplicemente offensivo, e volgare».

«Mi perdoni se sono un uomo volgare, barone, ma amo andare direttamente al nocciolo delle questioni» disse Winston. «Mettiamola così. Voi avete un problema. Dovete fare in modo che la vostra Regina resti a governare ancora per un po' il suo pianeta, mentre voi potrete prendere possesso del nostro. Mi sta bene. Per quanto mi riguarda, io amo stare dalla parte dei vincitori. Da parecchio tempo mi ero accorto che questa era una guerra senza speranza. Il Consiglio non ha più le forze per far fronte alla potenza di Atlantide, e per quanto mi riguarda oggi ne ho avuto la certezza. Essere comandato da voi o da loro non cambia poi molto. Tutto quello che voglio, è entrare nel gruppo vincente. Se foste stati voi, i più deboli, ovviamente, non avrei esitato a schiacciarvi».

«Ovviamente».

«Ora come ora, però, le cose sono diverse. Ho dovuto faticare molto, ma sono riuscito a crearmi un'immagine di assoluta fiducia all'interno del Consiglio. E quest'immagine è corroborata dalla sua sfiducia nei miei confronti e dal fatto che la ragazza immagina che io stia rischiando la vita facendo il doppio gioco. Al momento, nessuno sospetterebbe nulla riguardo alla mia persona. Se io volessi, lei avrebbe la possibilità di dare al Consiglio il colpo di grazia, catturando con il mio aiuto l'ultimo uomo in grado di reggerne le fila in mia assenza, in questi tempi di crisi. In cambio, non chiedo che di essere messo a parte di quello che state cercando, e di avere una percentuale sul guadagno finale. Non mi sembra una cattiva proposta, considerando che non sono un tipo particolarmente esoso».

«E se io invece la uccidessi subito?»

«Non sarebbe una gran mossa, visto che quelli della nave non riceverebbero il mio ordine e capirebbero che qualcosa è andato storto. Nella migliore delle ipotesi, dovreste continuare ad avere a che fare con il Consiglio per molto tempo ancora. Quello che vi offro, è la possibilità di sbarazzarvi di ogni ostacolo nel minor tempo possibile, con il minimo della perdita e il massimo di guadagno per tutti».

«E quindi anche per lei».

«Ovvio» rispose Winston. «Allora, che ne dice?»

Wiesbaden si abbandonò contro lo schienale della sedia, unendo gli indici davanti alle labbra.

«Dico che le propongo la stessa domanda che le ho rivolto poco fa. Berrebbe qualcosa? Io sono solito inaugurare ogni proficua collaborazione con un brindisi di buon auspicio».

«Direi che è un'ottima idea» sorrise Winston. «Davvero un'ottima idea. E credo proprio che questa volta le farò compagnia».

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Capitolo 11
*** 9 ***


 

«Garfish uno e due pronti all'azione, signore».

«Bene. Procedete».

Wiesbaden osservò con soddisfazione lo schermo del radar. Due puntini luminosi avevano cominciato a muoversi uno verso l'altro, spostandosi verso il centro dai margini dello schermo.

Winston ebbe un tremito. L'idea che per tutto il tragitto fossero stati scortati in segreto da una flottiglia di sottomarini, era per lui assolutamente sconcertante: non aveva mai realizzato che la forza militare a disposizione dell'Ordine fosse tanto soverchiante. Scoprirlo fu per lui un duro colpo. Era impensabile la squadra di cinquanta uomini guidata da Samuel, per quanto ben preparata, potesse aver ragione delle forze nemiche al completo. Da un certo punto di vista, la confessione di Lisa e l'apparente voltafaccia a cui era stato costretto per salvare le apparenze si erano rivelate una benedizione: se la Salamanca avesse sferrato l'attacco, così come era stato previsto, si sarebbe risolto in una immensa quanto inutile carneficina. E tutti gli sforzi compiuti fino a quel momento per arrestare l'ascesa dell'Ordine, sarebbero stati vani.

«Bersaglio acquisito» esclamò l'uomo al radar. Winston si riebbe, scosso dai suoi pensieri. Si voltò a fissare Wiesbaden, che osservava il radar con espressione di estremo compiacimento.

«Signore, la Salamanca è nel raggio di azione» annunciò il tecnico al radar. «Ci sono comandi?»

«Distruggeteli».

«No!»

Wiesbaden si voltò, sorpreso. Winston si accorse con rammarico che era troppo tardi per mascherare in qualche modo la sua reazione improvvisa. Tuttavia, non poteva limitarsi a lasciare che Wiesbaden facesse semplicemente piazza pulita di ciò che restava del Consiglio. Anche se era difficile, doveva provare a immaginarsi qualcosa.

«Un po' tardi per questi scrupoli di coscienza, Herr Churchill» commentò acido Wiesbaden. «Non le pare?»

«Non è per questo...»

«No? E per cosa allora?»

Winston era il primo a sapere di essere poco credibile. Ma ormai era fatta. Decise di giocarsi il tutto per tutto.

«Quegli uomini, in particolare il loro comandante, potrebbero ancora tornarci utili. Credo che sarebbe meglio ordinare loro di arrendersi, e assicurarsi che abbiano salva la vita».

«Sul serio?»

Wiesbaden fissò Winston in silenzio per un po'. Quindi sollevò il palmo della mano, rivolgendolo all'addetto al radar, che si voltò annuendo.

«Sospendere momentaneamente l'azione, ripeto: sospendere momentaneamente l'azione. Attendete ordini».

A udire quelle parole, Winston non riuscì a trattenere un sospiro. Wiesbaden sorrise.

«Mi sbagliavo sul suo conto, Herr Churchill. Credevo sinceramente che lei fosse un uomo privo di cuore, invece mi sembra che lei sia una persona fin troppo compassionevole».

«Si sbaglia...»

«Prima la ragazza, ora il suo amico. Non vorrà dirmi che davvero crede all'idea che quelle persone possano rivestire una qualche utilità?»

Winston si irrigidì. Era vero. Non esistevano scuse plausibili per aver chiesto a Wiesbaden di interrompere l'azione. Se a bordo della fregata Salamanca non si fosse trovato Samuel, allora Winston non avrebbe esitato a lasciare che Wiesbaden affondasse la nave, condannando così a morte tutti i membri del suo equipaggio. Lo stesso valeva per Lisa e per Michael. Se non si fosse trattato di loro, probabilmente la soluzione migliore sarebbe stato lasciarli entrambi all'ira di Wiesbaden. Il problema era che Winston cominciava ad averne abbastanza di morti. Il peso di quelli che si portava sulle spalle negli ultimi tempi era aumentato, fino a farsi considerevole: e aveva finito col rivelarsi per lui un fardello estremamente gravoso. E Winston non si sentiva disposto ad accrescerlo, facendosi carico anche del destino dei suoi amici.

Peccato che un sentimento del genere avesse cominciato ad affiorare in lui proprio in un momento come quello, quando probabilmente le crudeltà che avrebbe dovuto causare e sopportare non erano che all'inizio.

Scrollò le spalle, lanciando a Wiesbaden un'occhiata di sfida.

«Forse ha ragione lei» disse. «E se le cose stanno così, lo prenda come favore personale che le chiedo di farmi. Se lo vorrà, avrà comunque modo di ucciderli in un secondo momento».

Wiesbaden lo osservò, sorridente.

«Forse lo farò, o forse no» commentò. Aver scoperto quella falla nell'apparente freddezza di Winston, lo divertiva moltissimo. «Evidentemente, anche lei possiede qualche debolezza. Ed è proprio questo che non mi aspettavo, da lei. L'ho sempre creduta una persona assolutamente priva di scrupoli, e per questo da temere. La ammiravo sinceramente. Non che adesso la stimi di meno, ma... come dire...»

Wiesbaden fece una pausa, che risultò piuttosto efficace. Winston accusò il colpo.

«... diciamo che ora mi sento più tranquillo. Grazie a quelle persone mi sarà quanto meno possibile esercitare su di lei un certo ascendente, per così dire».

«Intende una qualche forma di ricatto?»

«Se vuole metterla in questo modo. Diciamo di controllo. In fondo, siamo sulla stessa barca, ora. Non crede anche lei?»

«Faccia pure come crede, ma dovrà ricredersi ben presto» lo corresse Winston. «Quelle persone non rappresentano nulla per me. L'unico motivo per ho ritenuto che non dovesse ucciderle, è che possono essere a conoscenza di informazioni riservate. Nomi, luoghi...»

«E vorrebbe farmi credere che lei, di queste informazioni, non fosse a conoscenza?»

Winston si aspettava una cosa del genere. Sorrise.

«Mio caro Barone, mi sorprende. Si tratta di una elementare procedura di sicurezza, quella di far viaggiare le informazioni su canali separati e non accessibili se non ai diretti operatori. Non vorrà dirmi che nella sua organizzazione le informazioni sono accessibili su qualsiasi livello...»

Wiesbaden parve colpito.

«Sì?» obiettò sospettoso. «Ma anche la ragazza?»

«Tutte le transazioni, i movimenti bancari e i numeri di conto sono passati attraverso le sue mani» mentì Winston. «Ucciderla sarebbe come bruciare l'intero capitale del Consiglio. E cioè una montagna di liquidi».

«Il denaro non ci manca».

«Ma potrebbe mancare».

Wiesbaden sogghignò. Winston represse a stento un'imprecazione. Quel maledetto bastardo lo aveva trascinato in un gioco al patibolo, la cui posta in palio non era la sua vita, ma quella dei suoi amici più cari. E nel farlo si stava divertendo un mondo.

Se non riusciva a spuntarla e a fargli credere quello che aveva detto...

«Ancora non so se è l'abile oratore che parla o l'uomo senza scrupoli» ammise Wiesbaden. «Se dovessi credere alle sue parole, lei sarebbe un uomo da temere, Herr Churchill, proprio come pensavo. Se invece è l'oratore a parlare, lei non è in realtà che un semplice uomo, assolutamente manipolabile, come tutti. E per questo, estremamente debole».

«Pensi quello che vuole» tagliò corto Winston. «A questo punto, la decisione spetta a lei».

Non poteva fare nient'altro. Se avesse aggiunto anche solo una parola, tutto il castello di carte che aveva costruito sarebbe crollato miseramente, sotto il peso delle sue bugie.

«Dia l'ordine di attaccare la nave» esclamò Wiesbaden, secco, rivolgendosi al tecnico radar. Winston si sforzò di rimanere impassibile. Wiesbaden lo osservò a lungo. Quindi sorrise.

«Ma non affondatela. Voglio che li costringiate ad arrendersi».

«Sissignore» rispose l'addetto al radar. Winston sentì il volto accendersi di calore.

«E ora» fece Wiesbaden «attendiamo».

I minuti scorrevano senza tregua. Dopo qualche istante, il tecnico alle comunicazioni ricevette un segnale.

«Signore, comunicazione dal Garfish uno. Il comandante afferma che le unità hanno il controllo della Salamanca. Chiede ordini».

«Arrestate l'agente al comando. Il suo nome è...»

Wiesbaden si voltò a guardare Winston.

«Samuel Priscoe» disse lui. Pronunciare il suo nome restando impassibile gli costò uno sforzo più duro di quanto avesse immaginato.

«Samuel Priscoe» ripeté Wiesbaden. «Che venga identificato e condotto a bordo immediatamente».

«Sì signore» esclamò il tecnico. «E il resto dell'equipaggio?»

«Già, e il resto dell'equipaggio, Herr Churchill?» chiese, quasi ridendo. «Cosa dovrei farne, secondo lei? Anche loro possiedono informazioni di una qualche utilità?»

Winston represse l'istinto di mettergli le mani al collo. Quell'uomo era un demonio, e se avesse potuto lo avrebbe ucciso immediatamente. Ma non poteva cedere al suo gioco. Per quanto terribile fosse, doveva assecondare gli eventi.

Con uno sforzo indicibile, Winston rimase a fissare impassibile il volto di Wiesbaden, inarcando leggermente un sopracciglio.

«No» rispose. «Nessuna. Può fare di loro ciò che vuole».

Wiesbaden smise di ridere. Lo fissò, passando gli occhi su ogni parte del suo volto, come se volesse scrutarlo fin sotto la pelle, e raggiungere i suoi pensieri più nascosti.

«Stia tranquillo, Herr Churchill. Non li ucciderò. Non ho mai avuto intenzione di ucciderli, non per il momento, ancora».

Winston era perplesso, anche se sollevato.

«Perché?» chiese. Wiesbaden sorrise, senza staccagli gli occhi dal volto.

«Perché anche quella gente ha una sua utilità. Un'utilità di cui lei avrà modo di rendersi conto molto, molto presto».

 

 

*

 

Jean e gli altri non avevano avuto molto tempo per guardarsi attorno.

Non appena avevano agganciato lo scafo dell'Exelion e lanciato la boa di segnalazione, il secondo batiscafo li aveva raggiunti. A quel punto, come da programma, avevano indossato le tute e gli scafandri, ed erano usciti per procedere con la messa in sicurezza dell'Exelion. Avevano inserito nelle enormi casse lancia siluri una serie di palloni gonfiabili, nei quali era stata immessa aria attraverso un motore ausiliario, che la comprimeva dopo averla risucchiata dalla superficie attraverso un lunghissimo tubo. Così, anche se l'Exelion avesse dovuto sganciarsi per qualche ragione dallo sperone di roccia che lo sorreggeva sopra il baratro, grazie a quei palloni avrebbe continuato a galleggiare, senza il rischio di affondare. Solo allora, quando tutto era stato ultimato e l'Exelion era finalmente al sicuro, Jean e il resto degli uomini si era fatta strada all'interno dello scafo del sottomarino.

E a quel punto erano stati arrestati.

Jean era incredulo. In un primo momento non gli era chiaro perché avessero dovuto attendere tanto, per arrestarli. Dall'oblò della cabina in cui era stato rinchiuso insieme a Hanson e Sanson, si vedeva un'intera flotta di sottomarini classe Garfish pronti ad entrare in azione. Se solo avessero voluto, avrebbero potuto raggiungere l'Exelion con facilità, e trarlo in salvo senza problemi. Perché si erano dovuti rivolgere a lui, per una cosa del genere?

Gli vennero in mente due possibilità. Tanto per cominciare, recuperare l'Exelion era un'operazione troppo complicata, per delle navi grandi come i Garfish. Avvicinare l'Exelion senza provocare vibrazioni pericolose, che avrebbero potuto farlo precipitare nell'abisso che si apriva sotto di lui, era impensabile senza un batiscafo come quello che Jean aveva progettato. La massa d'acqua che un Garfish avrebbe mosso attorno a sé sarebbe stata sufficiente a smuovere l'Exelion, fino a farlo disincagliare: a quel punto, senza alcun motore attivo, sarebbe sprofondato nella fossa del Giappone fino a oltre diecimila metri di profondità, là dove nemmeno i Garfish sarebbero mai riusciti a raggiungerlo.

E questo, pensò, Jean, portava alla seconda conclusione. Se quella gente aveva avuto bisogno di lui, per costruire un batiscafo, questo voleva dire che la tecnologia che mostravano di possedere, in realtà non era opera loro. Tutto quello che facevano, era limitarsi ad utilizzarla. Evidentemente non erano in grado né di crearla né di riprodurla: le loro armi, tutti quei Garfish e chissà quant'altro, doveva essere tutto ciò che restava di un'eredità più grande, di cui erano in qualche modo entrati in possesso.

Da un lato, questo era rassicurante. Voleva dire che quella gente non era del tutto invincibile. Però gettava anche una luce inquietante sui loro scopi reali.

Jean si era sempre chiesto che cosa volessero ottenere quelle persone raggiungendo l'Exelion. Era chiaro che la nave non rappresentava il loro vero obiettivo, o quantomeno l'unico. L'Exelion doveva piuttosto essere la chiave per qualcosa di più significativo. Evidentemente, serviva loro per raggiungere qualcos'altro, qualcosa di molto più importante.

Jean era ancora immerso in queste riflessioni, quando venne richiamato alla realtà da una scossa improvvisa. Con il cuore in gola, si affacciò al finestrino.

L'Exelion si era mossa. Tutt'intorno, i Garfish se ne stavano immobili, galleggiando alla medesima altezza e circondando la nave come in attesa. Questo voleva dire solo una cosa: i palloni erano stati gonfiati, fino a sollevare l'Exelion. A quel punto, però, accadde ancora qualcosa.

Ci fu un rombo improvviso e le luci della cabina in cui si trovavano Jean e gli altri presero a lampeggiare. Quando tornarono a stabilizzarsi, l'intero scafo della nave era percorso da una vibrazione sotterranea e costante, che Jean ricordava bene.

«L'hanno... messo in moto?»

Jean e Hanson si lanciarono un'occhiata. Era proprio così, in qualche modo erano riusciti a riattivare l'Exelion.

«Ma come accidenti hanno fatto?» domandò Hanson, spostandosi accanto all'oblò. L'Exelion stava compiendo un lento giro su se stesso, andandosi a posizionare con la prua che puntava proprio sulla fossa del Giappone.

«Non deve essere stato complicato» mormorò Sanson. «Non dimenticate che quella gente è in grado di pilotare i Garfish, esattamente come gli uomini di Gargoyle. Evidentemente, devono far parte della stessa gentaglia».

«E poi l'Exelion era già in qualche modo attivo» aggiunse Jean. «Lo abbiamo visto muoversi, ricordate?»

Hanson annuì. «Sì, era come se fosse guidato da qualcosa, come se seguisse una rotta prestabilita, in modo automatico».

«Mi chiedo...»

La nave prese a muoversi e a procedere lentamente, inabissandosi via via nella fossa del Giappone. Attorno a loro i Garfish continuavano a rimanere immobili. Presidiavano la zona come enormi squali famelici, pronti ad attaccare al minimo segnale di pericolo.

«Ci stiamo muovendo» fece Hanson. «Guardate, stiamo scendendo».

«Sì, ma dove?» fece Sanson. «Cosa pensano di trovare, là sotto?»

Jean si spostò sull'oblò di prua. La cabina in cui erano tenuti prigionieri era collocata proprio sul ponte, in una posizione che permetteva di guardarsi attorno praticamente a 360 gradi. Quando l'Exelion si fu immerso nelle acque tenebrose della fossa del Giappone, tutto intorno a loro si fece buio. Per qualche istante, Jean non riuscì a vedere nulla se non il suo riflesso sul vetro. Poi, improvvisamente, qualcosa prese a brillare.

Jean ci mise un attimo a capire che quelle luci che lo circondavano, vagando come fossero uno sciame di lucciole, non si trovavano dentro la cabina. Era qualcosa che brillava fuori, e che circondava l'Exelion. Sembravano veramente lucciole, o particelle di plancton. Ma non era niente del genere. erano troppo luminose e brillavano di una luce particolare, azzurrognola, che Jean non aveva mai visto prima.

No, non era vero. Aveva già visto una cosa del genere.

Con sgomento, Jean si affacciò di nuovo all'oblò. Ora, a prua, si distingueva chiaramente una luce. Era fissa, e perfettamente in linea con l'assetto della nave. L'Exelion puntava dritto verso quella luce, che si faceva sempre più vicina. Improvvisamente, la nave rallentò fino a fermarsi, e tutto tacque. Furono attimi lunghissimi, durante i quali Jean, Hanson e Sanson si lanciavano sguardi carichi di tensione e incertezza. Poi, del tutto senza preavviso, un boato sordo scosse la cabina e l'intero scafo prese a tremare. Hanson e Sanson si guardarono attorno smarriti, mentre Jean non riusciva a togliere gli occhi dall'oblò.

Luci. Vi erano luci ovunque. Tutt'attorno a loro, le pareti di roccia si illuminarono di glifi splendenti, come a tracciare immense calcografie dal significato nascosto e ormai dimenticato. Poi, davanti a loro, il miracolo.

Un'intera città si accese ai loro piedi, come risvegliandosi da un sonno durato millenni. La gigantesca porta di roccia che poco più avanti bloccava loro il passaggio si aprì e la nave riprese a muoversi, sorvolando silenziosa quell'immensa capitale avvolta dalle acque. Sotto di loro, e tutt'attorno a loro, palazzi e strade ormai vuote e sommerse dalle acque e dal tempo continuavano a risplendere illuminate da chissà quali energia misteriosa, accompagnando con il loro silenzio la nave, che procedeva lentamente verso l'ingresso scavato nella roccia.

«Ma dove diavolo siamo?» fece Hanson. Era senza parole, e osservava quello spettacolo come un bimbo osserva le giostre. Jean lo fissò, con un sorriso di sbieco.

«Non la riconosci?» fece, cupo. «Siamo tornati ad Atlantide».

 

 

*

 

 

«Sgomberate, sgomberate tutto!»

I soldati dell'esercito imperiale correvano ovunque, affrettandosi agli ordini degli ufficiali. Gli uomini di Wiesbaden – tecnici, ingegneri, archeologi – coordinavano le operazioni, in un misto di eccitazione e nervosismo. Jean non poteva che assistere con rabbia a tutto quel via vai. In quel momento avrebbe dovuto trovarsi nella sala motori dell'Exelion, e non legato e ammanettato sul fondo pietroso e spoglio di una stanza al primo piano di un rudere atlantideo.

Il soldato sulla porta sembrava annoiato. Jean lo studiò, rivolgendogli uno sguardo veloce. Era solo nella stanza, e anche in quello i soldati guglielmini avevano mostrato di possedere un'organizzazione impeccabile: per evitare ogni problema, avevano pensato bene di dividere i prigionieri: così, anche se uno di loro avesse provato a liberarsi e a fuggire, prima di poter liberare gli altri avrebbe dovuto trovarli e sbarazzarsi in qualche modo delle sentinelle.

Ma questo problema non interessava ora a Jean. Tutto quello che gli importava era riuscire a risalire sull'Exelion. Se mai avesse potuto risalirci. Molto probabilmente, pensò, visto che ora non servivano più li avrebbero abbandonati lì, magari senza nemmeno prendersi la briga di ucciderli.

Doveva inventarsi qualcosa. In qualche modo, aveva bisogno di provocare una reazione.

Causa ed effetto.

Chissà quale sarebbe stato l'effetto.

«Che cosa pensate di ottenere?»

Jean non sapeva nemmeno perché aveva rivolto la parola a quell'uomo. Parlargli era tutto ciò che gli era venuto in mente, giusto per stabilire un contatto. Il soldato lo guardò in modo vacuo; si frugò in tasca, estraendo un pacchetto sgualcito di sigarette. Quindi se ne portò una alle labbra, accendendola con un cerino. Per un istante, la luce della piccola fiamma gli rischiarò il volto, immerso nella penombra.

«Halte den Mund» biascicò, indifferente «Scheißkerl Franzosisch...»

Per tutta reazione, Jean strinse le labbra.

«Scher dich zum Teufel, SchafsKopf».

Il tedesco lo guardò stupito, quindi impallidì dalla rabbia.

«Come mi hai chiamato?» fece, gettando la sigaretta a terra e avvicinandosi minaccioso. Jean si rese conto troppo tardi di aver esagerato. L'effetto aveva superato la causa.

Non era certo nella condizione migliore per fare a pugni con qualcuno, legato com'era.

«Ora ti darò una bella lezione, schifoso francese».

L'uomo sollevò il calcio del fucile. Jean chiuse gli occhi, raccogliendosi su se stesso e preparandosi al colpo; che però, miracolosamente, non arrivò. Proprio in quel momento, infatti, un ufficiale guglielmino entrò nella stanza, guardandosi intorno e richiamando con voce imperiosa il soldato.

«Tu!» gridò. «Cosa credi di fare? Porta il prigioniero alla piana, subito!»

Il soldato ci mise un attimo a rendersi conti di chi aveva di fronte, poi scattò sugli attenti e si produsse in un saluto formale. Jean sghignazzò.

«Ti è andata male, eh?»

«Stai zitto, feccia» ringhiò il soldato. «Alzati, avanti».

Jean venne strattonato e sballottato fino a che non fu in piedi. Quindi il soldato gli assestò una spinta, che lo fece barcollare fino alla porta. Quando uscì, incrociò nuovamente l'ufficiale di poco prima, che gli rivolse un'occhiata di sfuggita, mentre gli passava davanti, allontanandosi. Dietro di lui, Hanson e Sanson, in fila, si stavano preparando ad uscire, scortati dalle rispettive sentinelle.

«Guarda un po' chi si rivede» sorrise Sanson. Jean ammiccò a sua volta. Il soldato che apriva la fila si girò a guardarli, gridando loro di muoversi. Nessuno disse più una parola.

Li guidarono lungo le strade deserte e ricoperte di ciottoli che Jean aveva già imparato a conoscere, molti anni prima. Ora che tornava a guardare quei sassolini resi lustri dell'estremo calore che si era sprigionato in seguito all'esplosione della Torre di Babele, Jean rabbrividì. La prima volta che li aveva visti non era che un ragazzo, e non si era potuto rendere pienamente conto della terribile forza che doveva essersi sprigionata dalla torre, al momento dell'esplosione. Per riuscire a fondere perfino la pietra, le fiamme dovevano aver raggiunto una temperatura elevatissima. In quel momento, dal paradiso che era Atlantide si era probabilmente trasformata in un terrificante inferno.

Alzò gli occhi. La strada che stavano percorrendo era lastricata e circondata da edifici; alcuni di questi, nonostante apparissero solo la vestigia di quello che erano, dovevano essere stati altissimi. Quante persone erano morte, quel giorno? Una tale distruzione era quasi inconcepibile. Era bastato un attimo per distruggere un'intera capitale, e far sprofondare nel mare un intero continente. E nell'oblio migliaia di vite.

«Di qua. Muoversi!»

Jean ricevette una spinta e un colpo alla schiena. Rantolò, masticando amaro. Probabilmente quello era un modo per fargliela pagare per gli insulti di prima. Rise, tra sé. Non aveva potuto farci niente. Le parole gli erano uscite di bocca in modo quasi automatico.

Lui quella gente la detestava.

«Mi piacerebbe sapere dove ci stanno portando, questi porci maledetti» mormorò Sanson. Hanson, dietro di lui, non spiccicava parola. Incedeva sudando e sembrava piuttosto affaticato. In effetti, faceva davvero molto caldo.

«Credo di saperlo» commentò Jean. Sanson ammiccò, curioso.

«Davvero? E dove?»

«Tra poco lo vedrai».

Sanson tacque, rassegnato. Jean aveva una precisa idea di dove quella gente voleva condurli. Esisteva un solo luogo in cui poteva essere custodito qualcosa che avesse per loro un minimo interesse, e questo era...

«Il cimitero!»

Raggiunsero il margine della scarpata. Sotto di loro, si apriva la valle in cui gli atlantidei avevano costruito nel tempo le loro catacombe. Si trattava di un tempio dalla struttura a forma di piramide rovesciata, lungo le cui pendici erano scavate centinaia di migliaia di tombe. Lapidi e monumenti spezzati, un tempo elegantissimi, ornavano silenziosi e spogli le balconate che digradavano verso il centro, dove splendeva intensa una enorme pietra azzurra.

«Jean» mormorò Hanson. «Guarda la pietra...»

Jean annuì. La pietra, che quando avevano visitato Atlantide la prima volta, anni prima, era completamente spenta e immobile, ora ruotava lentamente su se stessa, e lanciava bagliori intermittenti. Qualcosa doveva averla attivata. Jean suppose che la pietra si fosse accesa nel momento della partenza di Nadia, quando lei aveva riattivato il Trismegisto, attivando la Merkaba che l'aveva condotta sul suo pianeta.

Se era così, allora Elektra aveva visto bene. Esisteva ancora una speranza per raggiungerla, anche se era molto remota e passava attraverso almeno un migliaio di soldati tedeschi in assetto da battaglia.

«Muovetevi!»

Jean si sentì spingere e perse l'equilibrio. Cercò di mantenersi in piedi, ma ruzzolò per un tratto, prima di riuscire a riacquistare la posizione eretta. Dietro di lui, i soldati risero.

Man mano che scendevano, Jean si rese conto che la pietra non solo brillava e si muoveva, ma aveva anche assunto una forma che non era sbagliato definire ''precaria''. Era come se si fosse mutata in una massa d'acqua compatta, che manteneva solo esteriormente la sua forma originale, mostrandosi allo stesso tempo pronta ad abbandonarla da un momento all'altro. Jean la ammirò, meravigliato. Era uno dei tanti misteri di quelle pietre meravigliose, capaci di racchiudere al loro interno un potere tanto tremendo quanto stupefacente. Nessuno sapeva di che materiale fossero composte, né era possibile sapere chi le avesse create. Guardarle era come trovarsi di fronte all'origine e al mistero della vita stessa, alla materia originaria. Quelle pietre che avrebbero potuto essere qualunque cosa, e che al loro interno racchiudevano il potere di distruggere tutto il creato... erano semplicemente straordinarie.

Jean e gli altri vennero fatti fermare a poca distanza dalla pietra. L'idea di essere così vicino eppure così lontano alla possibilità di rivedere Nadia era per Jean una sofferenza immensa. Spostò gli occhi tutt'attorno: insieme a loro si trovavano almeno alcune centinaia di persone, in uniforme da marinai. Erano tenuti prigionieri, ma non sembravano in cattiva salute. Jean li guardò, stupito.

«Chi è quella gente?» chiese. Sanson scrollò le spalle, sorpreso quanto lui.

«Non ne ho idea. Ma non sono messi certo meglio di noi».

«Guardate, c'è Wiesbaden» esclamò Hanson. «E c'è anche quel tipo, con lui... Churchill!»

Jean e Sanson si voltarono. Wiesbaden e Winston si trovavano sul livello più alto del tempio, e parlottavano tranquillamente tra loro. Li vide ridere. Con un moto di disgusto, Jean sentì il desiderio di andare da Churchill, e di spaccargli il muso.

«Dove credi di andare?» gli fece un soldato, sbarrandogli il passo. «Prendi questa, e vai insieme agli altri».

Jean si ritrovò con una pala tra le mani, spinto a raggiungere la massa di prigionieri che aveva già cominciato a scavare attorno alla pietra.

«Cosa diavolo vogliono farci fare?» mormorò Sanson, afferrando la pala e affondandola nel suolo arido e ricoperto di sassi. «Spero che non ci stiano facendo scavare la nostra tomba».

Jean nicchiò.

«Non so se sia una tomba» disse, «ma ho comunque un pessimo presentimento».

 

 

*

 

 

Winston aveva tirato un sospiro di sollievo quando Wiesbaden aveva ordinato di raccogliere gli uomini della Salamanca e di farli prigionieri. Quando però seppe che aveva intenzione di usarli per scavare tra le rovine di Atlantide, rimase perplesso.

Ancora non era riuscito a capire cosa Wiesbaden stesse esattamente cercando. Sentiva di aver perso un po' il filo in tutta quella faccenda. Per diverso tempo, aveva creduto che Wiesbaden fosse alla ricerca della tecnologia di Atlantide: ma doveva essersi sbagliato, perché non aveva nemmeno perso un secondo per visitare il relitto dell'Exelion. Tutto quello che gli interessava, era raggiungere quello strano tempio, niente più che un vecchio e inutile cimitero. Quando l'avevano raggiunto, Winston aveva creduto che il motivo di tanto interesse fosse quella pietra misteriosa che brillava al centro della vallata, ma anche in quel caso si era sbagliato. Wiesbaden aveva subito dato ordine ai soldati di far scavare i prigionieri tutt'attorno alla pietra, come se ciò che lo interessasse non fosse là, in superficie, ma sotto di essa.

«La vedo perplesso, Herr Churchill» fece Wiesbaden, ridendo. «Forse non riesce a capire il perché di tutte queste operazioni».

«Le confesso che sono piuttosto curioso» ammise Winston. Wiesbaden annuì.

«Credevo che voi del Consiglio foste molto più informati al riguardo. Evidentemente, mi sono sbagliato».

Winston tacque. Per tutto quel tempo, lui e De Molay erano stati alla disperata ricerca di quelle informazioni che avrebbero permesso al Consiglio di colmare il vuoto di conoscenze che li separava dall'Ordine di Thule. Tutto quello che erano riusciti a scoprire, tuttavia, era l'importanza rivestita da Nadia Ra Arwol, e l'esistenza di un progetto chiamato «del Perfezionamento dell'uomo», per usare le parole che Michael aveva udito pronunciare da Wiesbaden stesso, nella biblioteca del Consiglio. Ma la strada per unire tra loro quelle informazioni e raggiungere la verità, ammesso che fosse possibile, era ancora molto lunga.

«Ha a che fare con quanto è contenuto nei Rotoli del Mar Morto?» chiese Winston. Si era improvvisamente ricordato di quello che gli aveva detto il vecchio abate Nestorius: ''trova quei rotoli, e fallo al più presto''.

Wiesbaden lo fissò serio. «Lei li ha visti?»

«Lo chiedo a lei».

Il barone si portò le mani dietro la schiena, invitando Winston con un cenno a fare due passi.

«Quello che è contenuto in quei papiri è molto più importante di qualsiasi cosa voi abbiate mai pensato di inseguire» fece. Winston inarcò un sopracciglio.

«Più importante del libro di Platone?» chiese. Wiesbaden rise divertito.

«Quel libro non è nulla, mio caro Churchill» fece. «A parte il codice, che è stato brillantemente decifrato da voi, devo ammetterlo» aggiunse con serio compiacimento, «tutto il resto non è che una vana successione di parole inutili. Quel libro vorrebbe ripercorrere la storia del nostro glorioso popolo, nulla che noi non conoscessimo già, e che non conoscessimo molto meglio».

«E che cosa è importante, allora?»

«Il codice che vi era contenuto permetteva di ottenere la chiave per raggiungere i rotoli del mar morto. Ora abbiamo anche quelli. E l'ultimo tassello della nostra storia è finalmente stato riposizionato».

Winston scrollò le spalle.

«Ancora non capisco cosa stiate cercando. Sono armi? Una tecnologia che vi permetta di conquistare il pianeta?»

Wiesbaden si fermò e guardò Winston seriamente. Poi, in modo del tutto improvviso, cominciò a essere scosso da singhiozzi inarrestabili, che sfociarono in una fragorosa risata.

«Conquistare il pianeta!» fece. «Herr Churchill, lei è proprio divertente. Noi non abbiamo bisogno di conquistare ciò che già ci appartiene! Gli atlantidei sono i signori di questo pianeta, noi abbiamo portato in esso la vita e noi abbiamo il potere e il diritto di disporne come vogliamo. Per troppo tempo, a causa della debolezza a cui ci hanno costretto gli eventi, gli atlantidei hanno dovuto rimandare il momento in cui sarebbero stati riconosciuti come i sovrani indiscussi da parte di tutti i popoli della Terra. Il motivo per cui ora sono qui, è per portare a compimento il destino del mio popolo.. E lei dovrebbe essermi grato per il fatto che le permetto di prendere parte alla gloria di Atlantide».

Winston impallidì. Non aveva capito nulla di quel discorso, ma era sempre più convinto di aver a che fare con uno squilibrato.

«Cosa c'entra la SEELE in tutto questo? E chi la compone? Quali sono i suoi obiettivi?»

Wiesbaden rise ancora.

«Mio caro amico, se non avessi in lei una cieca fiducia, comincerei a pensare che lavora ancora per il Consiglio».

Winston impallidì. In un istante capì che aveva rischiato di tradirsi come uno sciocco principiante.

«Porti pazienza, e vedrà... Ah! Ecco».

Un rombo sordo e costante si abbatté contro l'immensa volta rocciosa che riparava la città. I ciottoli presero a vibrare e la terra tremò. Le lapidi si spezzarono, e i monumenti si sbriciolarono. La volta di Atlantide, che proteggeva la città dalle acque sovrastanti e che la illuminava grazie alla rifrazione di pietre argentee, si offuscò. Poi, improvvisamente, lo scafo splendente dell'Exelion comparve sopra di loro, andando a fermarsi proprio sopra la Pietra azzurra.

Winston restò a fissare l'immensa nave senza respiro. Non riusciva a credere che quella cosa potesse volare. Ne aveva viste di cose strane, ma quella le superava davvero tutte.

Un ufficiale si avvicinò, salutando Wiesbaden con un gesto imperioso e secco.

«Signore, siamo pronti. Aspettiamo tutti il suo ordine».

«A che punto sono gli scavi?» chiese Wiesbaden.

«Abbiamo liberato il primo strato. La Dark Moon è proprio sotto la Pietra».

«Come immaginavo» commentò Wiesbaden. «Procedete!»

Winston restò a guardare l'ufficiale che si allontanava. Era incredulo. Davanti a lui stava accadendo qualcosa di cui non riusciva ancora a capacitarsi.

«Venga, Herr Churchill» fece Wiesbaden, battendogli la mano su una spalla. «Mi segua. Oggi avrà modo di assistere al vero potere».

 

 

*

 

 

Gli uomini vennero tutti radunati e messi in fila attorno all'ultimo gradone del Tempio. Tutti i presenti fissavano attoniti l'immenso scafo dell'Exelion, che si librava immobile sopra le loro teste, come fosse in attesa di un segnale.

Il segnale arrivò. E fu la Pietra a lanciarlo.

Jean vide che la Pietra cominciava a brillare e a ruotare sempre più intensamente, come stimolata dalla presenza dell'Exelion. Man mano che ruotava, la nave sopra di essa prese a inclinarsi con la prua verso il suolo, là dove la pietra ruotava sempre più vorticosamente, smarrendo agli occhi dei presenti la sua forma originaria. Ruotava, e ruotava senza sosta, tanto velocemente da appiattirsi e ridursi a una forma liquida, dalla forma di un otto. Intanto, L'Exelion aveva raggiunto una posizione completamente verticale.

Improvvisamente, la Pietra si arrestò: ci fu un attimo di silenzio e qualcosa prese a cambiare nella luce che illuminava lo scafo dell'Exelion. Era come se il materiale che lo componeva avesse preso a liquefarsi. Jean fissò sbigottito la scena. Incredibilmente, come fosse una statua di creta tra le mani di un esperto e invisibile artigiano, l'Exelion stava mutando forma, per assumerne una completamente nuova.

«Ma che diavolo...»

L'Exelion non esisteva più. Tutto quello che c'era, al suo posto, era una lunghissima e sottilissima lancia, dalla punta brillante e compatta, che puntava dritta al suolo. Jean restò a fissarla senza parole.

«La Lancia di Longinus» mormorò Wiesbaden. «Stia a guardare, Churchill. Guardi!»

La pietra girò ancora più vorticosamente. Ora aveva abbandonato la forma a otto, per assumere quella di un cerchio cavo. Lentamente, la Pietra si sollevò dal suolo e la terra, sotto di essa, prese a tremare. Ci fu un boato, e il suolo roccioso si ruppe come fosse il guscio di un immenso uovo, percorso da centinaia di incrinature. Una scarica improvvisa di energia si condensò attorno a quello che restava della Pietra: fulmini sottili saettavano dal suo centro, per poi scaricarsi lungo il corpo sottile della lancia, che prese a emettere sinistri bagliori. Poi, senza alcun preavviso, ci fu l'esplosione di un solo fulmine azzurro. La terra si squarciò, e la piramide rovesciata rovinò su se stessa. E finalmente, con un rombo immenso, qualcosa emerse dal sottosuolo.

Sembrava una nave. Una gigantesca nave di forma ellittica. Era completamente chiusa, e lucida. Rifletteva sottili bagliori di pece. Jean la fissò sbalordito. Era qualcosa che non aveva mai visto prima.

«La Dark Moon, l'arca perduta della vita!» esclamò Wiesbaden. «Lì dentro riposa Lilith, ovvero la materia primordiale da cui ha avuto origine il genere umano. Avanti! Procedete!»

Winston lanciò a Wiesbaden uno sguardo in tralice. Aveva il volto trasfigurato, e gli occhi gli brillavano di una luce selvaggia e sinistra. Sentiva che avrebbe dovuto fermarlo, prima che fosse troppo tardi. Solo che non sapeva come.

Si fece silenzio. Nessuno fiatava. La Lancia di Longinus restò immobile a mezz'aria, mentre la pietra continuava a vorticare sotto di essa, emettendo solo un sottilissimo sibilo.

Ci fu un attimo interminabile, in sembrò cui non accadesse nulla. Poi, qualcosa cominciò a muoversi.

La Dark Moon cominciava a schiudersi. Tutti osservavano con il fiato sospeso, chiedendosi cosa avrebbero trovato al suo interno. Ma ciò che racchiudeva, era qualcosa di indescrivibile. Emanava una luce talmente fulgida e intensa da penetrare fin sotto la pelle. Per quanto fosse doloroso guardarla, nessuno riusciva a distogliere gli occhi. Quando finalmente la Dark Moon fu completamente aperta, la luce si diffuse per tutta Atlantide, illuminando la città come un sole nascente.

Gli uomini guardavano quella massa pulsante di energia che si agitava scomposta all'interno della nave. Era come una concentrazione informe di vita brulicante, sotto la cui superficie si agitava un formicolio di luci pulsanti. Era terribile a vedersi, ma anche stupefacente.

«Eccolo, l'essere primigenio. La materia che ha dato origine alla vita».

Winston era ammutolito. Non sapeva cosa fare, né cosa pensare.

«Vuole vedere?» fece Wiesbaden, ormai fuori di sé dall'eccitazione. «Stia a guardare. Tu!» fece, indicando uno dei marinai della Salamanca. «Avvicinati alla Dark Moon».

Un soldato si premurò di costringere l'uomo a staccarsi dal gruppo, che non voleva saperne. Pieno di terrore, questi prese ad avanzare, guardandosi attorno tremante nella speranza che qualcno andasse in suo soccorso. Procedeva lentamente, dibattuto tra il desiderio di fuggire e quello strano e misterioso che in segreto lo spingeva ad avvicinarsi.

«Osservi attentamente» mormorò Wiesbaden. «Guardi quello che succede».

L'uomo continuava ad avanzare. Ma ora sul suo volto la paura sembrava aver ceduto il passo a una sensazione diversa. Era come in trance. Avanzava come se fosse spinto da una forza che non riusciva a controllare e che lo spingeva a procedere contro la sua stessa volontà. Era come se quell'energia che si muoveva all'interno della nave l'avesse completamente posseduto, e soggiogato.

Era ormai vicino alla Dark Moon, là dove gorgogliava quella specie di brodo primordiale. La luce che si propagava da quella sostanza aveva completamente avvolto il marinaio, tanto da renderlo quasi invisibile agli occhi. Jean si sforò di vincere il fastidio di quella luminosità così intensa, e di seguire il profilo dell'uomo, ormai sempre più evanescente. Lo vide allungare una mano, e toccare la materia pulsante che ormai lo circondava.

Accadde in un attimo. Fu come se tutti si fossero improvvisamente risvegliati da un sogno. Non appena l'uomo toccò la materia, anzi, la sfiorò, il suo corpo si dissolse, come fosse stato ghiaccio sotto l'azione del sole cocente.

Tutto ciò che restava era una pozza di liquido rosso come sangue, che emanava un fetore insopportabile.

Winston impallidì. Sentiva le gambe che gli tremavano e faceva fatica a restare in piedi. Stava per vomitare.

«Ecco, questo è il potere di Atlantide!» esultò Wiesbaden. «Creare e distruggere la vita! Manipolare la materia, come se fossimo Dio!»

Si voltò verso Winston, le guance arrossate, gli occhi iniettati di sangue.

«Quindi, Herr Churchill, quando lei mi chiede cosa vogliamo fare, io le rispondo: cosa non vogliamo fare! Cosa non possiamo fare! Noi possiamo tutto, faremo tutto! Distruggeremo questo mondo per crearne uno nuovo, su cui regneremo come i padroni incontrastati. Spazzeremo via l'intera razza umana, e ne creeremo una nuova, diversa, che affiderà a noi la propria vita e che ci obbedirà in tutto e per tutto, così come sarebbe dovuto essere fin dall'antichità. Perché è questa la nostra eredità! Noi siamo i signori dell'universo, gli dei misericordiosi! E finalmente l'intero universo conoscerà la gloria di Atlantide!»

«Lei è un folle» mormorò Winston.

«E lei è troppo debole per capire» ringhiò Wiesbaden. «Arrestatelo!»

Winston indietreggiò, pronto a difendersi. Alcuni soldati lo avevano già circondato, quando la materia che fino a quel momento si era mantenuta stabile all'interno della Dark Moon prese ad agitarsi e a fuoriuscire dall'involucro come lava incandescente. Lo stesso liquido rossastro in cui si era disciolto il marinaio, uscì in quantità sempre maggiore dalla fenditura che si era aperta nella Dark Moon. Quindi, proprio come se il precario equilibrio che si era instaurato tra la materia luminosa e ciò la circondava si fosse improvvisamente incrinato, L'Exelion vibrò e cominciò a perdere quota, precipitando.

«No!» gridò Wiesbaden. Sul suo volto l'espressione ora era radicalmente mutata, passando dallo sconcerto al terrore. «LCL! Non di là! Allontanatevi, idioti!»

Centinaia di uomini vennero sorpresi dall'eruzione improvvisa fuoriuscita dalla Dark Moon. Il liquido rossastro si riversò su di loro, in un'unica e immensa ondata assorbendoli in un istante. Quando quel mare rosso di sangue si ritirò, nessuno era rimasto.

Jean era smarrito. Intorno a lui era scoppiato il caos. Sanson corse da lui, facendosi largo a spintoni. Hanson gli era dietro.

«Jean, che... che facciamo?»

Jean non riusciva a pensare. Si sentiva completamente smarrito.

«Jean! Dì qualcosa, per la miseria!»

Jean spostò gli occhi sul volto acceso di Sanson, che lo guardava stringendolo per un braccio. In qualche modo, riuscì a riacquistare la lucidità.

«Andiamo alla Pietra» fece.

Sanson e Hanson lo guardarono come se fosse pazzo.

«Sei uscito di senno?» fece. «Io là sotto non ci vado! Non in mezzo a quella roba!»

«Fidati di me...»

«Ma che diavolo!» gridò. «Quella cosa ti scioglie come fossi zucchero!»

«La Pietra è l'unica cosa che può difenderci. Guardate» disse, indicando il centro della spianata. Loro si trovavano sul primo gradone, dove si erano rifugiati presagendo qualche pericolo prima che l'inferno si scatenasse. Ora la gente premeva così tanto nell'unico punto in cui si poteva risalire, che era diventato impossibile passare. La gente si urtava e si spingeva a vicenda e c'era chi spingeva gli altri giù dalle scale, per poter salire. Le persone che finivano a terra erano immediatamente preda del liquido rosso, che saliva sempre di più, aumentando di volume anche per le vite che riusciva a succhiare. L'unico punto in cui quella brodaglia disgustosa non era riuscita ad arrivare era proprio la pietra. Era come se l'energia che da essa si sprigionava fosse talmente forte da tenerla a distanza.

«Se riusciamo a farci scudo con essa, dovremmo riuscire a cavarcela» esclamò Jean.

Sanson guardò prima la pietra, poi la gente che si accalcava in preda al panico. Quindi annuì.

«Va bene, mi hai convinto» fece, deciso. «Andiamocene da qui».

 

 

*

 

 

«No, no!»

Wiesbaden assisteva impotente a tutta quella distruzione. Fermo sul bordo dell'ultimo gradone del tempiio, osservava l'Exelion che si abbassava sempre più pericolosamente, fin quasi a sfiorare la materia bianca,

«Non è possibile, no...»

«Questo è quello che ti meriti per aver scatenato un simile inferno».

Wiesbaden si volse. Con un movimento repentino, Winston si liberò della stretta del soldato che lo aveva catturato. Gli afferrò il polso e gli torse il braccio: l'uomo lanciò un gemito strozzato, mentre piegava il torso in avanti. Winston gli sferrò un violento colpo al gomito, che si ruppe con un rumore secco. Il soldato lanciò un grido strozzato, fissandosi il braccio che gli pendeva inerte lungo il fianco. Senza dargli il tempo di reagire, Winston lo costrinse a terra, colpendolo alla gola una, due, tre volte con il taglio della mano, finché l'uomo non sputò sangue con occhi vitrei. Wiesbaden impallidì. Un ufficiale accorse, estraendo la pistola, ma Winston agguantò il fucile che il soldato aveva lasciato cadere a terra e sparò, freddandolo sul posto.

«Se ora lei mi uccide, non otterrà comunque nulla» esalò Wiesbaden, pallido, mentre indietreggiava.

«Forse, ma il mondo acquisterà comunque qualcosa, liberandosi di te».

Winston ricaricò l'arma. Fece per puntarla, ma il suo sguardo vacillò. Sconcertato, si portò una mano al fianco. Il palmo era rosso di sangue. Si volse. Un soldato si era accorto di quanto stava accadendo e gli aveva sparato al fianco destro. Stava ricaricando l'arma, puntandogliela contro.

Winston non ci pensò due volte e sparò. Il soldato si accasciò al suolo, lentamente.

«Fermo!»

Wiesbaden stava correndo verso il corpo esanime dell'ufficiale, per raccogliere la pistola. Winston fece per ricaricare: ma si accorse con rabbia di essere senza munizioni.

Con uno scatto che gli strappò un'imprecazione per il dolore, si gettò su Wiesbaden. L'uomo aveva appena agguantato la pistola, quando Winston lo colpì alla mano con il piede. Dall'arma partì un colpo, che andò a conficcarsi a terra. Wiesbaden perse l'equilibrio e rotolò all'indietro, sul terreno franoso. Lanciò un grido.

Winston l'aveva afferrato appena in tempo, e lo teneva stretto sul bordo del precipizio, impedendogli di cadere.

«Per favore» mugolò, terrorizzato «possiamo metterci d'accordo...»

«No».

Winston aprì le dita della mano. Wiesbaden restò a fissarlo per un istante che sembrò congelarsi nel tempo. Strabuzzò gli occhi e agitò le braccia, cercando disperatamente di afferrarsi a qualcosa. Fece per aprire la bocca in un grido, che però non gli uscì mai. Cadde. Un guizzo del liquido rossastro lo investì in pieno e il corpo di Wiesbaden parve spezzarsi in due. Winston osservò la parte superiore del corpo cadere lontano, il volto ormai spento e piegato in una smorfia di terrore congelato. Infine, anche ciò che restava di Wiesbaden si sciolse come cera.

«Alla fine, anche tu non eri che un uomo» mormorò Winston.

 

 

*

 

«Di qua, presto!»

Jean e gli altri cercavano disperatamente di raggiungere la Pietra, facendosi largo tra la folla impazzita. Gli uomini cercavano di fuggire e di raggiungere i Garfish, ormeggiati all'ingresso di Atlantide. Quelli che non riuscivano a farsi strada tra le macerie finivano miseramente con l'essere divorati dalla marea di LCL, che ormai fuoriusciva come una mareggiata inarrestabile dalla Dark Moon.

Mancava poco. Solo poche decine di metri. Ma Jean non era così sicuro che la cosa avrebbe funzionato. La sua era solo una speranza, nata forse dalla disperazione. Se si fosse ingannato, avrebbe condotto lui e i suoi amici alla morte.

D'altra parte, non avrebbero avuto molte altre possibilità.

«Forza! Ci siamo quasi».

Con uno scatto disperato, cercarono di superare la distanza che li separava dalla Pietra. In quel momento, un gruppo di persone tagliò loro la strada, buttandoli a terra. Fu una fortuna, perché un'ondata di LCL li raggiunse falciando l'intero gruppo, che si disciolse davanti agli occhi atterriti di Jean e dei suoi compagni.

«No, no... io non posso, non ce la faccio!» gridò Hanson.

«Fermo! Non ti muovere!» gli gridò Jean. Hanson si era alzato e aveva fatto per scappare, ma si bloccò non appena vide che un uomo davanti a lui era letteralmente esploso, lasciando dietro di sé solo una pozza di liquido rosso. Ormai LCL li aveva circondati.

«Siamo spacciati, è la fine...»

«Hanson! Hanson! Per di qua, presto!»

Sanson strattonò il cugino, che sembrava ormai incapace di reagire. Lo trascinò di peso, aiutato da Jean. Hanson avanzava come se avesse due blocchi di pietra al posto delle gambe. Continuava a balbettare qualcosa di incomprensibile.

Erano ormai a pochi metri dalla pietra, ma sembravano chilometri. Jean e Sanson si lanciarono uno sguardo. Entrambi sapevano esattamente cosa stesse pensando l'altro.

La loro unica speranza, era che qualcun altro finisse preda dell'LCL al posto loro.

Era un pensiero terribile, ma era la loro unica salvezza. Sarebbero sopravvissuti solo se qualcun altro fosse morto.

Jean scacciò l'orrore di quella visione, cercando di farsi forza. Poi, in quel momento, un suono cupo squarciò l'aria e la terra tremò così tanto da sollevarli e sbalzarli lontano. Quando si ritrovò a terra, sorpreso di essere ancora vivo, Jean alzò gli occhi.

L'Exelion stava per schiantarsi al suolo.

 

 

*

 

 

La prua della nave toccò la materia rossastra che si agitava sotto di lei, e immediatamente venne percorsa da una serie di lampi, che dopo aver avvolto la carcassa ormai irriconoscibile dell'Exelion, si propagarono ovunque. Non era più una nave, né la Lancia di Longinus. Era un relitto, pronto a deflagrare e a scatenare una distruzione senza precedenti. Jean non riuscì a pensare a nulla. Tutto quello che gli venne da fare, fu di prendere Hanson e di gettarsi contro la Pietra. Sanson si acquattò al suo fianco. In quel momento, l'Exelion impattò il suolo.

Jean alzò gli occhi. Sanson e Hanson lo guardarono. I loro volti esprimevano una sensazione indefinibile. Paura? Rassegnazione?

Jean non avrebbe saputo dirlo. Era come se per lui il tempo avesse rallentato, fino a fermarsi. Udì il fragore dell'esplosione, attorno a lui. Fu così forte e tremendo da soffocare ogni sensazione.

Sanson sorrise. E anche Hanson. Jean ricambiò e chiuse gli occhi. Le fiamme stavano per raggiungerli. Erano dietro di loro.

Sarebbero morti. Se non ci avessero pensato le fiamme, sarebbe stato LCL. Sarebbero morti e tutto sarebbe finito.

Ormai, ogni cosa non aveva più importanza.

L'ultimo pensiero, era per lei.

Poi le fiamme arrivarono. Avvolsero la pietra. E tutto svanì.

 

 

*

 

 

Quando Winston si rese conto di quello che stava per accadere, cominciò a correre. Non aveva idea di dove avrebbe potuto rifugiarsi, ma l'istinto gli imponeva comunque di muoversi.

Per tutta la vita, da quando era stato abbastanza grande per farlo, si era trovato in situazioni di rischio. Sinceramente, cominciava proprio ad averne abbastanza.

Si voltò. L'Exelion era ormai vicinissima al suolo. Winston non osava pensare a quello che sarebbe accaduto se la nave fosse entrata in contatto con quella dannata materia primordiale.

Maledisse quell'idiota di Wiesbaden, per essersi messo a cercare qualcosa di tanto terribile. E maledisse se stesso, per essere ancora una volta finito in una situazione del genere. E per non essere riuscito a fermare prima ogni cosa.

L'unico sollievo, era che Lisa e Samuel non erano là. In qualche modo, forse, se la sarebbero cavata.

Era tutto quello che poteva sperare. Tanto, per loro non poteva fare più molto. Non poteva fare molto nemmeno per se stesso.

Fece per svoltare dietro un edificio, ma la strada si interruppe bruscamente, sbarrata da una balconata. Winston si avvicinò al muricciolo, sporgendosi sul baratro. Sotto di lui, si apriva un abisso senza fondo, dove si scaricava un fiume sotterraneo.

Era la fine. Winston udì un rombo, in lontananza. Vide un riflesso di fuoco, illuminare il cielo e il fumo levarsi altro. Poi, gli edifici più lontani parvero sbriciolarsi. Sgomento, Winston si accorse che un'onda di fuoco alta alcune decine di metri stava avanzando verso di lui a velocità impressionante, cancellando ogni cosa al suo passaggio.

Si voltò, fissando il buio sotto di lui, così denso da non lasciar filtrare luce. Era strano. Era come se improvvisamente sentisse di avere a disposizione tutto il tempo del mondo. Era il mondo stesso ad essersi fermato, o la sua vita? Non avrebbe saputo dirlo.

Alzò gli occhi. Le fiamme erano già davanti a lui. Non aveva più scelta.

Rassegnarsi e morire. Oppure rischiare.

Ancora una volta, rassegnarsi gli sembrò impossibile.

Con un gesto che gli sembrò persino ridicolo, si gettò di sotto. Ebbe il tempo di vedere le fiamme esplodere alle sue spalle, e cancellare ciò che restava di Atlantide. Mentre cadeva, avvertiva l'odore del fumo, e della distruzione sopra di lui.

Però, non aveva paura.

Tanto, ormai, avere paura non aveva più alcun senso.

 

 

Cari lettori, ciao a tutti!

Finalmente con questo – lungo - capitolo si conclude questa prima parte. Spero vi sia piaciuto, perché a me ha divertito molto scriverlo. È stato un vero tour de force... Per sapere quale sarà il destino di Jean e degli altri, però, dovrete attendere il prossimo capitolo, in cui, dopo un sacco di tempo, ritroveremo finalmente proprio lei: Nadia! Eh, sì, non vedo l'ora: praticamente posso dire di aver imbastito tutta la storia fino qui solo per poter scrivere i capitoli da qua alla conclusione. Sono felicissimo di essere arrivato fin qua insieme a tutti voi e spero che mi farete compagnia ancora fino alla fine.

 

Al prossimo capitolo, dunque!

 

Un carissimo saluto

Puglio

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Capitolo 12
*** 10 ***


10

Atlantide, decimo mese del Nuovo Sole

Da qualche parte, nel territorio di Agarthi

 

 

 

 

 

Era quasi l'alba. Il cielo era sereno, trapuntato di stelle ma senza luna. La notte stava attraversando il suo momento più buio, e di lì a poco il sole avrebbe cominciato a rischiarare pigro l'orizzonte.

Due figure incappucciate se ne stavano rannicchiate dietro uno sperone di roccia, in attesa del momento migliore per muoversi. Erano di aspetto minuto e si mimetizzavano alla perfezione nel buio, tanto che solo chi avesse saputo dove cercarli li avrebbe individuati. Immobili, sembravano due statue di sale.

Mozo gettò un'occhiata alle sue spalle. Sidi stava rabbrividendo, ma non solo per il freddo.

«Ci muoviamo?» sussurrò. «Qui si gela».

Mozo gli fece segno di tacere, portandosi un dito alle labbra. Raccolse un sasso da terra e con circospezione aggirò la roccia dietro cui si nascondevano. Il drone era ancora al suo posto e non dava segno di muoversi. Se non si fosse inventato qualcosa per smuoverlo da lì, pensò Mozo, chissà quanto ancora avrebbero dovuto aspettare.

A volte succedeva. Quei droni erano per lo più dei vecchi catorci inservibili, incapaci di resistere all'escursione termica che nel deserto si verificava al passaggio tra il giorno e la notte, quando le temperature si abbassavano drasticamente fin sotto lo zero. Spesso, il brusco passaggio dal caldo rovente al gelo si rivelava fatale per i loro circuiti, già indeboliti dal tempo. Proprio come poteva rivelarsi fatale per chi osasse avventurarsi nel deserto senza i mezzi e le conoscenze adeguate e venisse sorpreso dalla notte senza un riparo.

Mozo si abbassò il cappuccio della sua logora tunica di panno, stretta in vita da un semplice legaccio di cuoio. Era tutto quello che indossava. Con due calzari ai piedi e una veste strappata come unica protezione, si era abituato ben presto alle temperature estreme del deserto. Anche se aveva solo tredici anni – almeno era quello che gli avevano sempre detto – ormai aveva sviluppato una resistenza non indifferente.

Il drone era immobile. Mozo trattenne il respiro, mentre sollevava la mano. Attese un istante, quindi, mordendosi le labbra, scagliò il sasso il più lontano possibile, facendo attenzione che rimbalzasse sulla grata sottostante.

Dopo un breve istante, il sasso atterrò sulle sbarre a qualche decina di metri da loro, producendo un clangore debole ma distinto. Il drone si riattivò all'improvviso e lentamente si allontanò, dirigendosi verso la fonte di quel rumore con un sonoro ronzio. Una volta raggiunta la sua nuova posizione, sembrò ripiombare in uno stato di inerzia.

«Adesso!»

Mozo e Sidi scattarono in piedi, raccogliendo le taniche che avevano portato con loro e caricandosele in spalla. Quindi, senza fare rumore, si precipitarono verso l'ingresso alla grata più vicina.

Mozo si accovacciò a terra, e come sempre Sidi lo imitò a ruota. Sidi era di circa due anni più vecchio, e rispetto a Mozo era più alto e robusto. Ma era anche meno sveglio. Mozo lo sapeva, come sapeva che la forza bruta era l'unica qualità su cui Sidi poteva contare, e che spesso utilizzava per rivalersi su di lui e sui ragazzini più deboli. Tuttavia, Mozo aveva qualcosa con cui ricattare il compagno, in modo da farlo stare al suo posto.

«Non è che quel drone tornerà qui?» chiese Sidi, preoccupato. Mozo sghignazzò divertito. Se lo aspettava. Come sempre, Sidi era un fifone.

«No, ormai il suo programma di mappatura è completamente andato. Reagisce solo ai rumori. Quindi, finché non ci faremo notare, non avremo problemi».

Sidi non sembrava troppo convinto. Mozo accennò un sorriso di sfida.

«Che c'è?» fece. «Preferisci andare tu, allora? Se vuoi, resto io ad aspettarti».

Sidi sbiancò. «Muoviti» ringhiò. Mozo si voltò lesto, trattenendo una risata maligna. Sapeva che Sidi non avrebbe mai avuto il coraggio di scendere sotto la grata, e con quella allusione lui l'aveva punto sul vivo, prendendosi una piccola rivincita. Erano anni che Mozo doveva occuparsi anche della parte di lavoro di Sidi, praticamente da quando avevano cominciato a uscire insieme per la raccolta. In un primo momento Sidi l'aveva costretto con la forza, ma ora Mozo era cresciuto, e volendo avrebbe anche potuto ribellarsi. Avrebbe sopportato ben volentieri qualche livido e un po' di ammaccature, se questo avesse significato liberarsi del tutto di quel fardello. Tuttavia, se ancora continuava a caricarsi della sua parte di lavoro, era perché sapeva che così poteva tenerlo in pugno, e ricavarne qualche vantaggio. E questo, anche Sidi lo sapeva benissimo.

Mozo si sfilò i calzari e li infilò nella cintura. Quindi si buttò a tracolla le taniche, due per spalla, e agile come un ratto si infilò nello spazio che si apriva tra la roccia e la grata.

Non appena fu sotto, il vento gelido della notte sembrò cessare del tutto. L'aria era tiepida: c'era un forte sentore di umidità, insieme a una puzza di muffa impressionante; nulla che Mozo non conoscesse. Reggendosi al bordo, il ragazzo cercò a tastoni un punto a cui appigliarsi che fosse comodo e possibilmente non ricoperto di acqua o di muffa. Quando lo trovò, ci si aggrappò saldamente e cominciò a discendere sotto la grata.

Quello era il momento più pericoloso. Era tutto buio, e bagnato. Tra una sbarra e l'altra della grata potevano tranquillamente passarci almeno sei persone in fila. Sarebbe bastato mettere il piede in un punto sdrucciolevole e la morte sarebbe stata inevitabile.

Mozo lanciò un'occhiata sotto di sé. Oltre alla prima grata, che era quella sopra la sua testa, la Sicurezza Cittadina aveva fissato un'altra grata, e sotto di essa un'altra grata ancora, quest'ultima però dalla trama molto più fitta. La prima grata aveva lo scopo di contenere l'accidentale caduta di massi o di altro materiale di grandi dimensioni proveniente dall'esterno. La seconda, più interna e dalla trama ampia, era posta a meno di due metri di profondità dalla prima e serviva come ulteriore protezione. L'ultima grata, invece, aveva una trama fitta, era posta a ridosso degli immensi pannelli fotovoltaici fissati nel sottosuolo e serviva a frenare la caduta di quelli che, come Mozo, osavano avventurarsi illegalmente sotto le grate.

In realtà, Mozo sapeva benissimo che quella non era stata una misura volta alla sua sicurezza. Se fosse scivolato, la grata l'avrebbe di certo trattenuto: ma ammesso che fosse possibile non spezzarsi le ossa precipitando da una decina di metri su delle sbarre di acciaio spesse un metro, una volta caduto sarebbe stato comunque impossibile per lui ritornare in superficie. E questo, perché l'ultima grata si trovava troppo in profondità rispetto alle altre. Inoltre, non esistevano né scale né altre vie che conducessero all'esterno. In pratica, sarebbe stato in trappola. E non appena i pannelli avessero ripreso a funzionare, assorbendo l'energia che il sole infuocato riversava su di loro durante il giorno, la grata sarebbe divenuta incandescente, arrostendo Mozo come fosse uno spiedo.

L'unico motivo per cui era stata posta quella grata, rifletté Mozo, era per proteggere le persone che si trovavano più in basso – cioè gli abitanti della capitale. Nessuno voleva passeggiare per strada con la paura costante di un qualche poveraccio che, dal cielo, poteva piombargli dritto sulla testa. Ma che gli straccioni come Mozo morissero abbrustoliti su quella grata, dopo esservisi introdotti illegalmente, era un problema che ad Agarthi, l'immensa capitale eretta a oltre novecento metri sotto il livello del suolo, non interessava a nessuno.

Mozo avanzò con cautela sulle sbarre bagnate e sdrucciolevoli, cercando di non pensare alle persone che aveva conosciuto e che sapeva essere morte proprio in quel modo. Molti ragazzini della sua età erano scivolati tra le sbarre, a causa di un movimento sbagliato o della scarsa attenzione; e probabilmente le loro ossa si trovavano ancora laggiù da qualche parte, sull'ultima grata, solo pochi metri più in basso. Alcuni li aveva conosciuti di persona, trovandosi a condividere con loro le fasi della raccolta; di altri, invece, aveva solo sentito parlare.

Quella sera, però, sembrava il solo ad essersi avventurato in quel settore. Le grate erano circa un migliaio, sparse su tutto il territorio di Agarthi. Lunghe centinaia di metri e composte da sbarre spesse fino a tre, si estendevano per chilometri tutt'intorno al perimetro della città. Le fila più interne, sorvegliate a intervalli regolari dai presidi della Guardia Cittadina, erano inavvicinabili. Alcune tra le più centrali, sotto cui si diceva si trovasse lo stesso Palazzo Reale, erano addirittura cinte da mura poderose. Le grate più esterne, invece, erano per lo più affidate al controllo dei droni elettronici, vecchi sistemi di allarme che difficilmente riuscivano a coprirne in modo efficace la vastissima superficie. Così che, per quelli come Mozo, era molto più semplice avvicinarsi ad esse.

Mozo odiava calarsi sotto quelle grate, ma si era abituato a farlo. Due volte a settimana – ma a volte anche tre o quattro nei periodi più caldi – veniva lasciato da Zifoud, il carovaniere, nei pressi di un settore ogni volta diverso. Una volta lì, lui e Sidi dovevano avventurarsi fino alle grate, e trovare il modo per scendere sotto di esse per raccogliere l'acqua che grondava dalle sbarre. Questo in teoria, visto che in realtà, dei due, lui era l'unico a farlo.

Mozo avanzò lentamente. Sentiva i piedi scivolare sulle sbarre bagnate, mentre con la punta delle dita cercava un appiglio nella grata sopra la sua testa.

Alla fine, trovò un punto che gli sembrava buono. Aveva imparato che il posto migliore per la raccolta era dove le immense sbarre presentavano una naturale curvatura per il peso, e cioè lontano dai margini esterni. In quei punti l'acqua si raccoglieva là dove la sbarra incrociava perpendicolarmente con le altre. Mozo allungò una mano, reggendosi con l'altra alla sbarra che lo sovrastava e restandosene in equilibrio sulle punte. La sbarra sotto i suoi piedi era bagnata, segno che quella notte si era formata molta acqua. Infatti, poco avanti a lui, in corrispondenza di un incrocio tra le sbarre, Mozo avvertì un sottile filo di liquido gelido lambirgli il palmo della mano.

Con attenzione, ma con movimenti veloci, Mozo posizionò una tanica a raccogliere l'acqua, lasciando che si riempisse completamente. Quindi posizionò le altre taniche tutt'attorno a sé, là dove l'acqua fluiva più abbondantemente.

Si sedette, aspettando che le taniche fossero piene. Se si era fortunati, per riempire una tanica da quattro litri si impiegava circa mezzora. Talvolta, quando l'acqua era più scarsa, anche un'ora o due.

Il peggio era quando doveva tornare in superficie con le taniche mezze vuote, perché l'acqua era poca e le taniche impiegavano troppo tempo a riempirsi. In quei casi, la punizione di Zifoud non si faceva attendere.

Certo, Mozo si rendeva ben conto del valore di quelle taniche. Nel suo mondo, ben lontano dagli sfarzi di Agarthi, l'acqua era un bene prezioso, anzi, forse il più prezioso. In pochi erano coloro che avevano il coraggio di raccogliere l'acqua: in parte perché era illegale, e in parte perché solo i bambini potevano infilarsi e muoversi nello spazio angusto tra una grata e l'altra. E questo lo rendeva un affare piuttosto ghiotto per chi, come Zifoud, radunava randagi e orfani da usare come raccoglitori, così da rivendere le taniche a peso d'oro al mercato nero dei villaggi.

Tuttavia, per chiamare acqua quella brodaglia che puzzava di muffa e sapeva di ferro, ci voleva un certo coraggio.

Un tempo, Zifoud gli aveva spiegato come faceva l'acqua a formarsi dal ferro.

«Non si forma dal ferro» gli aveva detto. «Sotto le grate, a quasi un chilometro di profondità, si trova la nostra capitale, Agarthi. Il calore e il respiro dei milioni di persone che vivono ad Agarthi e che ogni giorno si riversa nel cielo, alla fine arriva alle grate; dove, con il caldo, comincia a evaporare e a depositarsi sulle sbarre. Quando si fa notte, a causa del freddo all'esterno e del caldo all'interno, il vapore si condensa e si trasforma in tante goccioline d'acqua, che sommate tutte insieme diventano una vera e propria fonte».

A Mozo faceva schifo l'idea che quello che lui e la gente come lui beveva ogni giorno fosse il risultato del sudore e del respiro di quanti vivevano sotto di loro, nella capitale. Ma l'unica alternativa a bere quella roba era morire, e quindi non si poteva nemmeno parlare di una vera e propria alternativa.

Mozo sospirò, lanciando un'occhiata sognante alle luci che brillavano lontane, sotto ai suoi piedi. Quell'immenso mare di luci tremolanti e di diverso colore, quasi un cielo ai piedi del cielo, era la sua capitale, l'immensa Agarthi. Mozo non l'aveva mai vista, ma sapeva per sentito dire che su tutta Atlantide esistevano almeno altre centinaia di città come Agarthi, sparse in continenti diversi.

Sapeva anche che, da qualche parte là sotto, si trovava il palazzo Reale, in cui abitava la sua nuova Regina. Ne aveva sentito parlare proprio da Zifoud, che ne aveva discusso qualche tempo prima al Suq – il mercato del villaggio – con un mercante di schiavi. Sembrava che la nuova Regina si fosse insediata già da alcuni mesi, ma per il momento nessuno del mondo esterno l'aveva mai vista. Molti pensavano perfino che si trattasse di una leggenda, semplice propaganda del governo centrale per indebolire le forze ribelli.

Mozo pensò all'acqua che cadeva dalle sbarre e che precipitando si trasformava in rugiada invisibile prima ancora di toccare il suolo della città, novecento metri più in basso. Era impossibile che qualcuno, là sotto, sapesse quello che stava facendo uno come lui. Figurarsi la Regina.

«Ehi, ci sei?»

Sidi si affacciò, titubante. Lanciò un'occhiata sotto la grata, ma si tirò subito indietro, spaventato. Mozo sbuffò, seccato.

«Arrivo» disse «ho quasi fatto».

«Passami le taniche».

Mozo esitò. Sapeva che Sidi avrebbe preso le taniche e sarebbe corso subito da Zifoud, senza stare ad aspettarlo. Grazie a quella tattica era diventato in poco tempo il preferito del vecchio carovaniere: infatti, vedendolo rientrare ogni volta prima di Mozo, Zifoud si era fatto l'idea che Sidi fosse il più abile dei due a fare rifornimento.

«Aspetta, finisco di riempirle tutte e poi andiamo».

«Non fare lo scemo» ribatté Sidi, duro. «O quando esci ti pesto».

Mozo fu sul punto di rispondergli, ma si trattenne. Avrebbe potuto sfidarlo a farlo: ma anche se lui non era più così debole come un tempo, Sidi era di sicuro più violento e più sadico e avrebbe fatto in modo di trasformare una semplice rissa in qualcosa di peggio. Mozo trovò più saggio rassegnarsi e passò al suo compagno la prima tanica.

«Ne manca una» fece Sidi, aggrondando.

«Ora arriva».

Mozo passò a Sidi anche la seconda tanica da quattro litri, quindi trascinò le sue fino al bordo esterno, issandosele sulle spalle una alla volta. Quando le taniche furono al sicuro, Mozo si sollevò aggrappandosi con una mano al bordo di roccia e con l'altra al margine esterno della grata. Quindi uscì dal cunicolo.

Si asciugò le mani sulla tunica di panno grezzo, ed estrasse i calzari dalla cintura, infilandoli ai piedi. Quando sollevò gli occhi, però, rimase sorpreso. Sidi era ancora fermo al suo posto, vicino a lui, e con le taniche in mano. Sembrava paralizzato.

«Che ti prende?» gli chiese Mozo, perplesso. Non era mai successo che Sidi lo aspettasse all'uscita. «Come mai sei ancora qui?»

Sidi non rispose. Si limitò a voltarsi, lanciandogli un'occhiata impaurita e accennando a qualcosa nel buio, avanti a sé.

Mozo strizzò gli occhi. In effetti, poco più avanti, si intravedeva qualcosa. Ai piedi di alcune rocce, sembrava esserci il corpo di una persona.

Sidi lasciò cadere le taniche.

«Vado a chiamare Zifoud».

«No!»

Mozo lo trattenne per un braccio, costringendolo a voltarsi. Sidi si liberò facilmente dalla sua presa, ma lo fece con un certo fastidio, misto a inquietudine.

«Che diavolo ti prende?» fece. «Provaci ancora, e ti concio per le feste».

«Aspetta».

Mozo si avvicinò con cautela al corpo disteso. Era un uomo e sembrava privo di sensi. Si chinò su di lui, per guardarlo più da vicino. Sidi osservava la scena alle sue spalle, trattenendo il respiro.

Mozo studiò il volto dell'uomo che aveva davanti. Era giovane, e dimostrava non più di vent'anni. Indossava gli occhiali e aveva capelli folti e fulvi, oltre a una barba sottile che gli tingeva di rosso le guance. Doveva aver preso un'insolazione, perché aveva la pelle molto arrossata e le labbra secche. Mozo gli posò una mano sulla fronte e si accorse che bruciava.

«È morto?» domandò Sidi. Mozo nicchiò, piegando la testa a considerare lo strano modo di presentarsi di quel tipo.

«No» fece. «Ma deve essersi perso. Probabilmente è svenuto dopo aver vagato tutto il giorno sotto il sole».

«Allora, morirà presto» commentò Sidi con una scrollata di spalle. Mozo non gli rispose. Probabilmente, aveva ragione.

«Indossa strane vesti» commentò perplesso, fissando incuriosito gli scarponi di cuoio e i pantaloni di fustagno robusto che l'uomo aveva indosso. «Forse si tratta di un cittadino».

«Cittadino?» scattò Sidi. Sembrava essersi fatto improvvisamente curioso. «E cosa ci fa qui, un cittadino?»

«Forse l'hanno rapinato. E poi l'hanno abbandonato qui».

«Potrebbe essere anche un bandito».

Mozo osservò meglio il corpo. Non sembrava per nulla un bandito. Per prima cosa, non aveva armi con sé; e nonostante avesse chiaramente sofferto, aveva un aspetto curato e indossava abiti puliti. E poi, i banditi si muovevano sempre in gruppi piuttosto numerosi: era difficile sopravvivere nel deserto quando non avevi una vasta comunità su cui contare, e questo lo sapevano persino i fuorilegge. Figurarsi muoversi da solo, per giunta senz'acqua. Certo, avrebbe potuto essere un fuggitivo; o magari era stato abbandonato dal suo gruppo, in seguito a qualche discussione. Capitava spesso che all'interno di una banda scoppiassero liti furibonde, che di solito sfociavano in un improvviso rovesciamento dei ruoli di potere. Forse quel tipo era stato semplicemente costretto ad allontanarsi, se non a fuggire velocemente per salvare la pelle. Questo avrebbe spiegato perché non aveva nemmeno un bagaglio con sé.

Sidi si avvicinò titubante. Osservò il corpo e lo pungolò con la punta di un piede. Quando vide che non rispondeva, si chinò e scostò Mozo brutalmente, mettendosi a frugare nelle tasche dello sconosciuto.

«Che diavolo fai?» sibilò Mozo. Sidi si voltò, inarcando le sopracciglia.

«Tu cosa dici?» fece. «Su, dammi una mano».

Mozo scosse la testa. Non voleva derubare quel poveraccio, anche se probabilmente per lui non avrebbe fatto molta differenza.

«Datti una mossa!» esalò Sidi.

Mozo esitò, ma solo per un istante.

«Dai, dammi una mano a voltarlo».

Mozo fece per allungare la mano, quando il corpo dell'uomo si mosse improvvisamente. Con uno scatto improvviso, afferrò stretto il polso di Sidi, che lanciò un grido soffocato.

«Chi siete?»

L'uomo si tirò a sedere. Quando si rese conto di aver a che fare con dei ragazzini, rilasciò immediatamente il braccio di Sidi. Il ragazzo indietreggiò fino alla roccia più vicina, rannicchiandovisi contro tremante. Mozo, paralizzato dalla sorpresa, non riuscì a compiere un passo.

«Dove sono?» chiese di nuovo quell'uomo. Parlava una lingua che Mozo non aveva mai sentito. Quando posò gli occhi azzurri su di lui, il ragazzino si guardò intorno smarrito.

«Voi... capite la mia lingua?»

Mozo non rispose. Si voltò lentamente a guardare Sidi, che scosse la testa.

«Perfetto» mormorò l'uomo, sconsolato. «Di bene in meglio». Improvvisamente, emise un gemito, e si portò la mano alla testa.

Per qualche ragione, Mozo sentiva che non c'era bisogno di avere paura. Quel tipo non sembrava un malintenzionato. Si avvicinò, guardandolo con curiosità. A una prima occhiata non dava segno di essere ferito, ma forse aveva preso una botta. Continuava a portarsi una mano alla testa e non riusciva a tenere gli occhi aperti.

«Da dove vieni?» gli chiese. «Sei uno straniero?»

L'uomo scosse la testa.

«Mi spiace, non capisco...»

Poco lontano, risuonò un lungo fischio. Era debole, ma squarciò il silenzio di quella notte come un rasoio.

«È Zifoud» esclamò Sidi, balzando in piedi. «Dobbiamo muoverci».

Mozo strinse i denti. Lanciò all'uomo un'occhiata dispiaciuta. Lui lo fissava confuso.

«Devo andare» disse. Fece per alzarsi, ma qualcosa lo spingeva a trattenersi. Dopo averci riflettuto un attimo, raccolse una tanica; quindi la porse all'uomo con una smorfia imbarazzata.

«Tieni questa» disse. «Ti servirà».

L'uomo guardò la tanica senza capire. Poi, quando il ragazzo gliela posò tra le braccia, la prese e la soppesò. Era piena d'acqua freschissima. Senza pensarci, la aprì e bevve ad ampie sorsate. Mozo lo fermò, prima che la finisse tutta.

«Non così» disse, cercando di farsi capire. «Bevila poco per volta, se no la sete aumenterà e non ne avrai più abbastanza».

L'uomo socchiuse gli occhi e fissò la tanica. Quindi annuì. Sembrava aver capito.

Mozo si morse un labbro, nervoso. Gli dispiaceva lasciare così quel tipo, ma non poteva fare davvero nulla di più per lui.

«Se non sai dove andare, prendi quella direzione e prosegui dritto verso sud» gli disse. «Dopo qualche chilometro troverai una città, anche se non è vicinissima».

Lo sguardo dello straniero si illuminò.

«Città?»

Mozo sorrise. Allora, almeno una parola la conosceva.

«Sì» esclamò allegro, «Polis. Città. A sud».

L'uomo seguì con gli occhi il braccio di Mozo, che gli indicava l'orizzonte. Quindi annuì.

«Polis» ripeté. «Città». Mozo annuì. Di nuovo, un fischio prolungato risuonò a breve distanza.

«Buona fortuna» disse. Ma l'uomo sembrava aver già perso i sensi. Sidi gli si avvicinò a grandi passi.

«Perché gli hai dato l'acqua?» fece, furente. «Zifoud non sarà contento».

«Ci penserò io a lui».

«No» disse Sidi. «Lo scoprirà».

«Non lo scoprirà, se tu non glielo dirai» replicò Mozo, secco. «E sarà meglio per te che tu non lo faccia».

Sidi lo strattonò, fronteggiandolo in tutta la sua mole.

«E come pensi di potermi costringere?»

Mozo si sforzò di non indietreggiare. Raccolse tutto il suo coraggio, e fissò Sidi dritto in volto.

«Se non lo farai, d'ora in avanti mi rifiuterò di scendere ancora al tuo posto sotto la grata» fece, in tono di sfida. «Potrai picchiarmi, ma io non cederò. Mi inventerò qualcosa per evitare di farlo. Mi darò malato, o una volta sotto lascerò cadere le tue taniche... qualsiasi cosa. Ma non lavorerò più al tuo posto».

«Non oseresti farlo» ringhiò Sidi. Mozo annuì, deciso.

«Scommettiamo?»

Sidi accusò il colpo. Si zittì improvvisamente e Mozo notò con sollievo di essere riuscito per la prima volta a strappare dalla sua faccia quel suo sorrisetto perfido.

Il fischio giunse per la terza volta. Entrambi i ragazzi si irrigidirono. Sapevano che non ce ne sarebbe stata una quarta.

«Andiamo» mormorò Sidi, sconfitto. «Muoviamoci».

Mozo annuì e dopo aver raccolto la sua tanica si precipitò al carro insieme al compagno. Un uomo che aveva ormai passato la mezza età era in piedi ad attenderli, e sembrava agitato. Lungo e sottile come una canna piegata dal vento, camminava svelto avanti e indietro, lanciando occhiate nervose avanti a sé. Procedeva con passo ondeggiante, come un marinaio sulla terra ferma, probabilmente a causa della sua gamba destra leggermente più corta. Non appena intravide i due ragazzi, sul suo volto scarno e abbronzato si dipinse un'espressione malevola. Si portò una mano al mento aguzzo, su cui cresceva una barba ispida e striata di grigio, che accarezzava ripetutamente mentre continuava a muovere i suoi occhi vispi e sottili sullo spazio circostante, come a volersi sincerare di qualcosa di cui solo lui era a conoscenza.

Quando i ragazzi raggiunsero il carro, Zifoud andò loro incontro, accogliendoli con aria di rimprovero.

«Era ora. Si può sapere dove vi eravate cacciati?»

Nessuno rispose. Incuriosito dall'insolito silenzio, Zifoud si avvicinò al cassone, dove i ragazzi stavano già sistemando il carico.

«Dov'è l'altra tanica?» chiese. Mozo lanciò a Sidi un'occhiata sfuggente. Il ragazzo impallidì, ma sembrava intenzionato a rispettare l'accordo.

Mozo gettò l'ultima tanica sul cassone, quindi prese posto tra il carico, accanto a Sidi.

«Mi è caduta» fece. «Sono scivolato e mi è sfuggita di mano».

Zifoud lanciò un'imprecazione, afferrandolo per i capelli e piegandogli la testa fino a terra.

«Idiota che non sei altro!» gridò. «Hai idea di quanto valga quella tanica?»

«Mi dispiace, Zifoud».

Il carovaniere serrò le labbra, quindi lasciò andare il ragazzo, limitandosi a sputare per terra.

«Dovrai lavorare sodo, per ripagarmi della perdita» fece. «Non mangerai fin quando non sarò io a dirlo e fin quando non sarò sicuro di aver recuperato i soldi che mi hai fatto perdere. Siamo intesi?»

Mozo annuì. Già si pentiva di aver aiutato quell'uomo. Era stato generoso, da parte sua, ma anche stupido. Da tempo avrebbe dovuto capire che la generosità non portava con sé mai nulla di buono, in un mondo come il suo.

Accanto a lui, udì Sidi sghignazzare.

«Adesso basta» fece Zifoud. «Non abbiamo più tempo da perdere qui. Ormai è l'alba».

Zifoud salì sul carro e lo mise in moto. Il vecchio motore partì sferragliando, e ben presto cominciò a muoversi sobbalzando lungo le dune di sabbia. Ormai lontano, Mozo lanciò un'ultima occhiata al luogo in cui aveva lasciato quell'uomo. Si chiese se ce l'avrebbe fatta, o se sarebbe morto sul serio come aveva previsto Sidi. Probabilmente, non l'avrebbe mai saputo.

Quando tornò a voltarsi, notò che Sidi lo stava fissando.

«Hai avuto quello che meritavi» fece. «Sei uno stupido».

«Forse» rispose Mozo. «Comunque, grazie per avermi coperto».

«Aspetta a ringraziarmi» ribatté Sidi, freddo. «Perché se ci rimetto a causa tua, giuro che ti ammazzo».

 

 

*

 

 

Il Senatore Evadim Kurali possedeva qualcosa che lo rendeva diverso dai suoi amici, come anche dai suoi nemici.

Giunto ormai alla soglia dei cinquant'anni, aveva maturato quella che, orgogliosamente, poteva definire la sua ''corretta visione del mondo''. Se gli avessero chiesto di esporla, e di illustrarne le qualità, probabilmente si sarebbe limitato a una sola parola. E quella parola era ''pazienza''.

Aveva passato metà della sua vita ad affinare e coltivare pazientemente principi quali l'ambizione, la caparbietà, la razionalità. Allo stesso modo aveva imparato a diffidare dell'istinto e della forza bruta, caratteristiche che il più delle volte riteneva dannose sotto qualsiasi punto di vista.

Grazie a questa sua incrollabile dedizione, si era trovato ad occupare la presidenza della Camera di consiglio dei Nobili Reggenti a soli quarantacinque anni, e a diventare membro del Senato solo due anni più tardi. Adesso, dopo una vita spesa nella politica e a tessere intrighi, era stato finalmente eletto Decano del Senato, carica che lo rendeva di fatto l'uomo più potente di Lemuria, lo stato principe della Confederazione Internazionale di Atlantide.

O almeno così sarebbe stato, prima che ne ricomparisse la Regina.

L'arrivo della legittima sovrana di Atlantide si era rivelato capace di scombinare tutti i piani del senatore. Nonostante lui stesso fosse stato il promotore del suo ritorno, doveva ammettere che Nadia Ra Arwol non si era rivelata esattamente la persona che si aspettava. Caparbia, testarda e ingestibile, rischiava di risultare una presenza ingombrante nella vita di Kurali, capace perfino di mettere in crisi quella sua personale ''visione del mondo'' che fino a quel momento lo aveva guidato verso il successo.

D'altra parte, quella ragazza gli era comunque indispensabile. La delusione che Kurali aveva provato, nel momento in cui aveva preso in mano le redini del Regno, era stata cocente: le finanze erano in crisi: e alcuni degli stati membri della Confederazione, un tempo semplici satelliti a cui Lemuria aveva concesso l'indipendenza, si erano incredibilmente arricchiti e ora chiedevano la restituzione degli ingenti prestiti, debiti a cui Lemuria non era in grado di far fronte. Come se non bastasse, il movimento di ribellione capeggiato da alcuni umani del mondo esterno, aveva cominciato a far scricchiolare l'intero apparato politico e militare. Erano sempre più i villaggi che sceglievano di sfidare le forze Governative, schierandosi a fianco dei Ribelli. E con sgomento, Kurali si era reso conto che Lemuria non avrebbe avuto la forza di contrapporsi a lungo a quella crescente ondata di violenza.

L'idea che il suo regno cadesse in rovina proprio nel momento in cui aveva raggiunto il potere, si era rivelata per Kurali una prospettiva tanto ironica quanto terribile. Perciò, quando gli era stato comunicato che le antiche Pietre della Vita si erano improvvisamente riattivate – segnalando così l'esistenza nell'universo di un membro superstite della stirpe Reale – aveva subito capito di aver ricevuto un inaspettato dono dal cielo. Solo la legittima erede al trono, infatti, avrebbe potuto liberare nuovamente lo straordinario potere che contenevano le Pietre. Se lui fosse riuscito a riportarla a Lemuria, e ad assoggettarla alla sua volontà, avrebbe potuto servirsene per ricostruire l'antica gloria del Regno di Atlantide. Nessuno avrebbe osato contrastare la forza della vita e della morte che gli antichi Dei avevano infuso nella Pietre: e anche l'intera Confederazione sarebbe tornata a giurare fedeltà a Lemuria, sottomettendosi ad essa in segno di resa. Inoltre, i Ribelli sarebbero finalmente stati spazzati via completamente, riconducendo gli esseri umani che abitavano la superficie al loro rango di servi.

Tuttavia, dopo più di otto mesi, nessuno era ancora riuscito a farsi un'idea di cosa passasse per la testa di Nadia Ra Arwol.

Prima di incontrarla, Kurali si era aspettato di avere a che fare una semplice principessa, una ragazza viziata e magari egocentrica, ma capace di accontentarsi delle adulazioni e del manto di gloria che lui sarebbe stato ben lieto di cucirle addosso. Invece, con sua grandissima sorpresa, Nadia Ra Arwol si era messa a fare la regina.

Pretendeva di conoscere quello che stava accadendo nel regno. Presenziava alle sedute della Camera e del Senato e, cosa ancor più incredibile, esprimeva delle opinioni. Kurali era fuori di sé. Come avrebbe potuto occultare la sporcizia del Regno, se qualcuno come quella dannata e petulante ragazza continuava a sollevare il tappeto sotto cui lui l'aveva tanto faticosamente nascosta?

«Ti vedo pensieroso, vecchio mio. Qualcosa non va?»

Kurali si volse, incrociando un volto familiare. Quella mattina, non aveva voglia di chiacchiere, né di compagnia. Ma doveva assolutamente incontrare la Regina e perciò aveva chiesto di essere ammesso alla sua tavola a colazione. Con suo rammarico, oltre a una folla di nobili curiosi, era presente anche un suo vecchio rivale, il senatore Apollonio Abico, a cui aveva strappato la carica di Decano del Senato durante le ultime elezioni.

«Nulla di particolare, Abico» disse, ostentando indifferenza. «Le solite questioni che una carica come la mia necessariamente comporta».

Abico non colse la frecciata, o se lo fece non diede segno di essersene accorto. «Hai sentito? Sembra che i ribelli si siano infiltrati anche a nord. Il villaggio di Kardalla è insorto, e ci sono stati scontri per le strade con le forze Governative».

«Quella dannata feccia riceve aiuti economici da qualcuno» insinuò Kurali, livido. «Non è possibile che riescano a mettere insieme in così poco tempo un esercito tanto numeroso».

«Sembra che alcuni membri della Camera siano pronti a invitare i loro rappresentanti» disse Abico. Kurali impallidì.

«Non può essere vero. Chi te l'ha detto?»

«Ne parlavano ieri al cancellierato. Stamattina la notizia è uscita anche sui giornali. Qualcuno deve aver fatto la spia».

Kurali era furioso. Perché non era stato avvertito?

«Cosa diavolo credono di fare?» esalò. «Sono forse impazziti?»

«La verità è che la Camera dei Nobili è composta nella quasi totalità da membri della vecchia aristocrazia. A causa delle rivolte, gran parte dei loro feudi esterni sta andando in malora. Di fronte a questo...»

«E cosa pensano di ottenere, scendendo a patti con quella gente? Credono davvero che riusciranno a convincere gli umani a lavorare quelle terre? Ormai non sono altro che distese di sabbia e pietre».

«E questo è un altro problema» commentò Abico. «L'acqua è sempre più razionata in superficie. Al novanta per cento è destinata all'agricoltura nei feudi, mentre i villaggi sono ridotti alla sete. Ogni giorno muoiono decine di persone.

«Non è un problema nostro» fece Kurali. «Se vogliono l'acqua, che tornino a lavorare nei feudi».

Abico scosse la testa, poco convinto.

«Finora la politica della forza non ha prodotto grandi risultati» disse. «Quella gente vuole la terra, e la vuole senza vincoli feudali. Vogliono poterla gestire come preferiscono e avere i mezzi per farlo. Inoltre, pretendono di eleggere dei rappresentanti e poter dire la loro in Camera di Consiglio e Senato. Non credo che si fermeranno tanto facilmente».

«Dovranno farlo per forza, quando saranno morti».

«Staremo a vedere» fece Abico, scrollando le spalle. «Comunque, è un problema che non mi riguarda più. Io mi ritiro».

Kurali era stupito. Non si aspettava una cosa del genere. Abico era piuttosto in là con gli anni, certo, e nessuno si aspettava che si ripresentasse alle future elezioni. Ma il suo ritiro improvviso colse Kurali alla sprovvista.

«Non lo sapevo» fece. «Quando l'hai deciso?»

«In realtà già da un po'» fece Abico, con un sorriso spento. «Anzi, dovrei quasi ringraziarti per aver vinto al mio posto. Non credo che sarei stato in grado di fronteggiare i problemi del regno, con le energie di cui dispongo al momento».

Kurali nascose una smorfia. Qualcosa in quello che gli aveva appena detto Abico lo faceva sentire come il capitano di una nave che persino i topi cominciavano ad abbandonare.

«E come mai sei qui?» chiese, nascondendo la propria frustrazione. Abico lo prese a braccetto, costringendolo a voltarsi e a camminare al suo fianco.

«Sono venuto a dare la comunicazione ufficiale a sua Maestà la Regina» disse. «E poi, volevo avere un'ultima occasione di vedere da vicino la nostra Divinità».

Kurali non nascose il proprio disappunto.

«Molti dei problemi che abbiamo svanirebbero in un istante, se la nostra amata sovrana scegliesse di ratificare le decisioni del Senato».

«Stiamo parlando della Regina» replicò Abico, sorpreso da quelle parole. «Il Senato ha il dovere di obbedirle».

«Ovviamente, ma...»

«Signori, buona giornata».

Con un sorriso suadente, il principe Jonathan Fisher fece il suo ingresso nella sala. Era molto bello nella sua divisa da ufficiale, con tanto di mostrine di crine alle spalle e galloni sul colletto rigido. Sul volto liscio e roseo sfoggiava un paio di baffi sottili e ben curati, di un bel castano lucente, mentre i capelli lisci e impomatati erano pettinati con una prefetta scriminatura laterale. Le donne presenti gli lanciarono occhiate civettuole, a cui lui si sottrasse con disinvoltura.

John lasciò vagare velocemente gli occhi sui presenti in sala. Quando individuò i due senatori, si avviò verso di loro con passo deciso.

«Principe John» fece Abico, inchinandosi formalmente. Kurali lo imitò.

«Quali nuove?» chiese Jonathan, porgendo ad entrambi la mano guantata di bianco. «Non ditemi che anche voi siete qui come questi pettegoli solo per vedere che abito indosserà la Regina».

Abico accennò una risata. Kurali non poté fare a meno di leggere sul suo volto un sottile velo di scherno.

«In realtà, discutevamo del carattere singolare di nostra Maestà» fece. «E della sua capacità di influenzare i membri del Senato».

«Davvero?» chiese John, divertito. Fissò Kurali, che si era fatto livido.

«Ho fatto notare al senatore Abico che Sua Maestà continua a non prendere sul serio i consigli che il Senato cerca di suggerirle. La mia non voleva certo essere una critica, ma...»

John scoppiò a ridere. «Se conosceste Nadia, sapreste che non accetta consigli da nessuno» disse. «Lei è fatta così».

Kurali e Abico annuirono, inchinandosi in segno di accondiscendenza. In quel momento, in sala entrò un valletto, che batté rumorosamente uno scettro ingioiellato sul lucido pavimento di marmo.

«Signori, entra la Regina!»

Le immense porte dorate della sala da pranzo si aprirono e Nadia fece il suo ingresso, vestita con un comodo ma raffinato abito da giorno di un color rosso intenso. Portava i lunghi capelli neri e lucenti raccolti in una elegante acconciatura, che le ornava il capo in trecce che si avvolgevano intorno alla nuca, su cui era posata una corona d'oro e rubini, preziosa nella sua semplicità. Come sempre era accompagnata dal comandante della Guardia Reale, il capitano Plutarco, sua guardia personale che la seguiva ovunque.

Non appena la videro entrare, tutti i presenti si inchinarono in segno di rispetto: le dame facendo la riverenza e gli uomini abbassando la testa e portandosi la mano alla fronte, in segno di saluto.

Nadia, visibilmente a disagio, si avvicinò al tavolo, posando una mano sulla sedia. Plutarco le si precipitò accanto, chinandosi con eleganza e disinvoltura a sussurrarle qualcosa all'orecchio.

«Maestà, prima di sedersi dovrebbe permettere alle persone presenti di terminare il saluto».

Nadia arrossì, fissando imbarazzata i dignitari e i servitori che ancora attendevano immobili un suo cenno.

«Prego, signori» disse, schiarendosi la voce «state comodi».

I servitori si rimisero al lavoro e gli invitati presero posto accanto al tavolo, mentre la folla di curiosi cominciava ad abbandonare la sala. Quando le porte si richiusero, Plutarco scostò la sedia e Nadia si sedette, non senza prima rivolgere alla sua guardia personale un cenno di ringraziamento.

«Perdonate la mia maleducazione» disse, rivolgendo ai presenti un sorriso e invitandoli a prendere posto a tavola. «Faccio ancora fatica a padroneggiare l'etichetta».

Tutti risero, mettendo Nadia ancora più in imbarazzo. Non aveva fatto una battuta, ma quelle persone si sentivano comunque in dovere di ridere.

Le cameriere della Regina cominciarono a servire agli ospiti tisane e cioccolata. Quindi dalla cucina arrivarono vassoi ricolmi di fragranti paste appena sfornate, focacce dolci e salate, oltre a biscotti e pasticcini. Ben presto, in un silenzio quasi irreale, la tavola fu completamente imbandita.

«Non mi aspettavo di avere tanti ospiti» disse Nadia, spiegando il tovagliolo e posandolo sulle ginocchia. «Se l'avessi saputo, mi sarei messa qualcosa di più elegante».

Di nuovo risate. Nadia si portò alle labbra una tazza di tisana fumante.

«Vostra Maestà ama prendersi gioco di noi» fece Kurali. Nadia posò la tazza, asciugandosi le labbra.

«Lei crede?» fece. «In questo caso ha ragione il popolo, quando dice che sono una sovrana crudele».

Tutti si zittirono. Nadia prese una fetta di pane e cominciò ad imburrarla, come se nulla fosse.

«Vostra Maestà non deve prestare ascolto alle voci del popolo» disse Kurali, con un sorriso sghembo. «Se mi consente...»

«Senatore Kurali, non amo parlare di politica a tavola. Non è salutare» disse Nadia, con serietà. A quelle parole, Kurali per poco non mandò di traverso il pane. Lei, ignorandolo completamente, si volse a scambiare qualche parola John, che stava seduto al suo fianco.

«Maestà, se mi permettete, volevo ringraziarvi di avermi invitato questa mattina. Per me è un grande onore».

Il volto di Nadia si illuminò, mentre col tovagliolo si puliva le labbra dalle briciole.

«Lei è...» chiese.

«Sono il senatore Apollonio Abico, Vostra Maestà» fece l'uomo, chinando rispettosamente il capo. Nadia si voltò verso Plutarco, rivolgendogli un'occhiata perplessa.

«Il Senatore Abico è uno dei membri più anziani del senato» disse Plutarco a voce alta, come se stesse introducendo l'ospite pubblicamente. Un modo educato per andare in soccorso della sua Regina senza farle fare brutta figura. «Sua Maestà è felice di averla qui».

«A cosa devo la sua visita, senatore?» fece Nadia, cordiale. Abico sorrise, felice di poter parlare a tu per tu con la sua sovrana.

«Vengo a porgervi i miei omaggi, in quanto oggi rassegno il mio mandato».

«Si ritira dal Senato?»

«Ho deciso di ritirarmi, sì» fece Abico. «Sono molti anni che servo la città di Agarthi e il regno di Lemuria. Credo sia venuto il momento però di ritornare a occuparmi della mia tenuta e degli affari della mia famiglia, che temo di aver trascurato per troppo tempo».

«Un discorso piuttosto egoista» commentò Kurali. Tutti si volsero. Abico era sbiancato.

«E per quale ragione?» fece Nadia. Kurali si prese tutto il tempo per rispondere.

«Questo è un momento delicato, Maestà; e perdere una persona del calibro del Senatore Abico è un grave danno per il nostro Regno. Spero che lei se ne renda conto» disse Kurali rivolgendosi direttamente ad Abico, il quale gli indirizzò una smorfia a metà tra un sorriso e un ghigno.

«Ritengo il nuovo Decano assolutamente in grado di guidare il Senato per affrontare le necessità presenti e future. Non vedo come il mio apporto possa...»

«Credo che sua Maestà sarà d'accordo con me nel ritenere che, al momento, ogni uomo dovrebbe mettere al primo posto l'interesse della Nazione».

Kurali lanciò a Nadia uno sguardo di intesa, che lei però non raccolse.

«Non dovrebbe decidere anche per gli altri, Senatore Kurali» lo gelò Nadia. Kurali impallidì. «Personalmente, apprezzo molto la scelta del senatore Abico. Ha parlato sinceramente e ha dimostrato di possedere molti valori, tra cui quello di non essere una persona tanto attaccata al potere da passare l'intera vita incollata al proprio seggio».

Kurali tossì, sputacchiando la tisana. Nadia sorrise.

«Non le avevo detto che non è salutare parlare di politica a tavola?»

Plutarco si lasciò scappare una risata sommessa. Nadia lo fissò con un misto di rimprovero e divertimento.

«Capitano Plutarco, immagino che lei avrà molti impegni in mattinata» fece John, piantando gli occhi sul volto deciso del vecchio comandante della Guardia. L'uomo si fece serio. Stava per rispondere, quando Nadia lo interruppe.

«Il capitano mi accompagnerà agli appuntamenti del giorno» fece. «Senza qualcuno che mi guidi, mi perderei praticamente subito».

Plutarco chinò il capo in segno di ringraziamento.

«Vostra maestà mi lusinga» fece. John però era indispettito.

«Qualche volta potrei essere io ad accompagnarti».

«Non c'è bisogno che tu mi segua tutto il giorno come un cagnolino» replicò Nadia, posandogli una mano sul braccio. «Ci rivedremo stasera, quando tornerò a palazzo».

«Vostra altezza potrebbe andare a cavallo» disse Plutarco. «Oggi è una bellissima giornata per l'equitazione e...»

«Quando avrò bisogno del suo parere, le chiederò espressamente qualcosa» lo freddò John. L'atmosfera si fece tesa. Plutarco non rispose, limitandosi ad assentire.

«Naturalmente, vostra eccellenza».

«Credo sia meglio andare» osservò Nadia. Quando si alzò, tutti i presenti la imitarono, inchinandosi al suo passaggio. I domestici si prostrarono, abbandonando le proprie attività e attendendo immobili che lasciasse la stanza.

«Signori, è stato un piacere incontrarvi» disse. «Senatore Abico, grazie ancora per essere venuto a salutarmi. Le porgo i miei migliori auguri per il suo futuro, e la ringrazio a nome del popolo di Lemuria per la dedizione che ha saputo dimostrarci».

«Vostra Maestà, è un onore».

La Regina uscì e Abico si inchinò a salutarla, visibilmente commosso. Di fronte a lui Kurali nascose il volto alla luce, piegato in una smorfia di disgusto.

 

 

*

 

«A quanto pare, oggi Abico ha segnato un punto a suo favore».

Kurali era furioso. Si sentiva ferito e oltraggiato da quanto era avvenuto quella mattina. Non solo era stato oggetto della derisione pubblica da parte della sua Regina, ma aveva perfino dovuto subire lo scherno e le insinuazioni del suo antico rivale in politica. L'odio che Kurali covava nel cuore in quel momento era assoluto, e non aveva bisogno che qualcuno lo rinfocolasse.

«Non ho bisogno che me lo ricordiate, vostra altezza» fece, rivolgendo a John uno sguardo sprezzante. «Per quanto mi riguarda, mi sto ancora chiedendo se sono davvero io ad aver ottenuto la carica di Decano, o qualcun altro».

«Se si riferisce al trattamento riservatole da Nadia...»

«Quella donna è un flagello!» esclamò Kurali, chiudendo con un pugno la cartella di documenti che teneva sulla strivania. «Come osa trattarmi in quel modo? E pubblicamente, per giunta!»

«Lei è la Regina» commentò John, con tono monotono «non lo dimentichi».

«E lei non dimentichi che avevamo un accordo!»

Kurali era furibondo. Da quando Nadia era arrivata, sembrava che tutto ciò per cui aveva tanto faticosamente lottato gli stesse scivolando tra le mani. Subito dopo il suo arrivo, il principe si era recato da lui, proponendogli un piano per convincere la Regina a porre fine con la forza agli attacchi dei Ribelli, e ad avviare la riconquista degli stati satelliti. Tuttavia, dopo quasi un anno, di quel piano non si vedeva ancora traccia.

«Le ho già spiegato che Nadia non è una semplice principessa» cercò di spiegare John con pazienza. «Sulla terra, era abituata a fare tutto da sola, e a prendere decisioni importanti. È ovvio che voglia fare del suo meglio anche qui».

«Questo non è un gioco» sibilò Kurali. «Qui ne va delle sorti dell'intero pianeta. E lei non mi sta aiutando».

«L'aiuterò» fece John, stizzito. «Ma bisogna procedere per gradi».

«Cosa intende?»

Jonathan si alzò, dirigendosi alla finestra.

«Nadia è una donna» disse, scostando per un attimo la preziosa tenda e lanciando un'occhiata alla strada sottostante. «E le donne, come i bambini, amano giocare. Si divertono a impersonare i ruoli degli uomini, e talvolta tendono a confondere il gioco con la realtà. Dobbiamo portare pazienza, e assecondarla in questo suo gioco per un po'. Quando si sarà stancata, sarà molto più facile convincerla a lasciar fare a chi è più capace di lei».

«A quanto sembra, vostra altezza possiede una perfetta conoscenza dell'animo femminile»

John lasciò andare la tenda, senza cogliere la sfumatura di scherno nelle parole di Kurali.

«Dico solo che la nostra Regina presto potrebbe avere altro per la testa, che non giocare alla politica. Non appena verrà celebrato il nostro matrimonio, si accorgerà di quanto tempo richieda essere una moglie e una madre. Sono certo che, a quel punto, Nadia si dedicherà al suo nuovo compito con assoluta passione».

«Se così fosse, non potrebbe essere che un bene» commentò il senatore. «Tuttavia, non sembra che la Regina abbia intenzione di sposarsi a breve».

«Questo lo lasci a me» commentò John con un sorriso. «E lei si limiti a fare quello che le suggerisco».

Kurali lo fissò sospettoso.

«Cosa ha in mente?»

«I bambini hanno bisogno di scottarsi, per capire che non devono avvicinarsi alle fiamme. E come le ho detto, le donne sono proprio come i bambini. Hanno bisogno che qualcuno insegni loro cosa fare, e le protegga dai pericoli a cui possono andare incontro».

«Quindi...» fece Kurali, socchiudendo gli occhi.

«Dobbiamo solo far sì che Nadia si scotti un po'» concluse John. «E ho già qualche idea in proposito».

 

 

*

 

Quando Nadia si recò nel cortile centrale, dove una vettura l'attendeva per condurla alla Sala delle Udienze, fu sorpresa di trovare qualcuno ad aspettarla. Fissò l'uomo che l'attendeva in fondo alla scalinata: vestito in un completo scuro con il colletto rigido, aveva in volto un'espressione compiaciuta e quasi insolente. Aveva tutto l'aspetto di un politico o di un qualche alto funzionario di stato.

«Il primo incontro di oggi è con il presidente dello stato satellite di Numidia, nobile Sadan» le suggerì Plutarco. Nobile era il titolo onorifico, usuale per le personalità importanti. Nadia annuì. Non si aspettava una cosa del genere e non era preparata. Mentre scendeva gli ultimi gradini con un sorriso sulle labbra, tese la mano al presidente, che la strinse profondendosi in un elegante baciamano.

«Vostra Maestà, sono felice di incontrarla. È davvero incantevole come raccontano».

Nadia si rabbuiò leggermente. Trovò quel complimento inutile, quanto inadeguato.

Plutarco le aprì la portiera, e Nadia salì a bordo. Con sua sorpresa, il presidente salì insieme a lei sedendosi al suo fianco sull'ampio sedile posteriore.

Nadia si scansò imbarazzata. Si chiese di cosa avrebbero parlato e cercò di scacciare il senso di inadeguatezza e di paura che la attanagliava all'idea di dover affrontare senza un'adeguata preparazione argomenti quali l'economia, o la politica estera.

Plutarco richiuse la portiera e prese posto nell'abitacolo di guida, completamente isolato rispetto allo scompartimento regale. La vettura di Nadia, una lucente berlina nera con le insegne Reali, si avviò sollevandosi su un delicato cuscinetto d'aria e prese a scivolare silenziosamente verso il cancello principale, seguita dalle vetture della delegazione diplomatica di Numidia.

Nadia fece per dire qualcosa, seguendo così il protocollo che imponeva alla personalità più importante di iniziare il discorso, quando il presidente Sadan cominciò inaspettatamente a parlare.

«Sono lieto che Vostra Maestà abbia accettato di incontrarmi al più presto, e in modo così riservato».

Nadia sorrise, a disagio. Qualcosa in quell'incontro non stava andando come avrebbe dovuto. Si chiese se era a causa della sua inesperienza.

«Sono certa che ci sarà stato un motivo, dietro a tanta urgenza» fece. Sadan non diede segno di aver colto il tono di sottile rimprovero nelle sue parole.

«In verità, sì» disse. «Non vorrei sembrare scortese venendo subito al punto, ma è necessario che io informi Vostra Maestà delle mutate condizioni tra i nostri paesi, condizioni che purtroppo mi hanno spinto a chiedere questo colloquio quanto prima».

Nadia cominciò a sentirsi nervosa. «Che cosa è mutato, esattamente?»

«Vede, Maestà» fece Sadan, con aria dispiaciuta «purtroppo non possiamo più permetterci di dilazionare il pagamento delle rate del debito di Lemuria. Il nostro paese sta attraversando una crisi legata a un difficile periodo di siccità e l'economia è al ribasso. Abbiamo assoluto bisogno di liquidità per avviare una nuova politica agricola ed industriale».

Era quello che Nadia temeva. Si sentiva quasi preda di un agguato. Se avesse preso una decisione lì, in quel momento, o se Sadan fosse anche solo riuscito a strapparle l'apparenza di una promessa, quella faccenda sarebbe finita in un possibile disastro.

«Credo che sia necessario discutere la questione in una sede più adeguata» cercò di dire lei. «Non credo che...»

«Mi perdoni, ma io ho necessità di ottenere da Vostra Maestà l'impegno inderogabile a saldare i debiti con il nostro paese. Purtroppo oggi stesso partirò per un viaggio che mi terrà lontano per diverso tempo e non posso partire senza una Vostra formale...»

«Insomma, mi sta obbligando» fece Nadia stizzita. Sadan sorrise, amabile.

«Non userei questi termini».

«Spero si renda conto che non posso fare nulla di quello che mi sta chiedendo. Se ora io acconsentissi senza consultare il Senato...»

«Esiste anche la possibilità di una soluzione diversa» fece Sadan, sfiorandole con un dito la gamba che usciva nuda attraverso lo spacco della gonna. Nadia lo fissò stupefatta. Sadan guardava da un'altra parte, indifferente al suo gesto.

«Lemuria potrebbe impegnarsi a concedere la gestione delle proprie risorse energetiche a Numidia. Condividendo i nostri sforzi per un paese migliore, potremmo trovare un'utile fusione di interessi».

«Fusione di interessi?»

Sadan le posò la mano aperta sul ginocchio, facendola risalire lenta verso l'interno della coscia. Nadia era pietrificata. Gli afferrò la mano e gliela strappò via graffiandola, un attimo prima che fosse troppo tardi.

«Come osa toccarmi?» esalò. Era furente. Sadan la fissava divertito, con aria di sfida.

«Credo che Vostra Maestà non abbia ben chiara la situazione» fece. «L'unica possibilità per Lemuria, è quella di affidarsi a noi. Se non volete che vi citiamo di fronte alla Confederazione, esigendo la liquidazione immediata del debito, sarebbe meglio per voi mostrarvi più accondiscendente e disponibile alle nostre richieste».

«In pratica, dovrei prostituirmi».

«Lei ama usare termini molto forti» rise Sadan. Si portò la mano alla bocca, inumidendosi le ferite che lei gli aveva procurato sul dorso. Quindi gliela posò nuovamente sulla gamba, tirandola verso di sé.

«Mi lasci!» gridò Nadia.

«Vuole davvero che il suo regno cada nella vergogna? La grandiosa Regina di Atlantide che si abbassa a svendere terre e palazzi per saldare i suoi debiti! Mi chiedo: davvero è così stupida e arrogante da non capire che le sto offrendo una via di salvezza?»

«Basta!»

Improvvisamente la porta della vettura si aprì. Plutarco si affacciò allo scompartimento, e Sadan ritrasse prontamente la mano. Si sistemò la giacca, assumendo un'aria disinvolta. Nadia invece era vicina alle lacrime.

«Sono desolato, ma credo che a questo punto nobile Sadan dovrà procedere da solo» fece Plutarco. «La Regina è convocata d'urgenza e dobbiamo interrompere il colloquio. Sono certo che le vetture di sua nobiltà la accompagneranno quanto prima a destinazione».

Sadan strinse le labbra, uscendo dalla berlina reale non senza aver squadrato duramente Plutarco. L'uomo si fece da parte, inchinandosi.

«Riflettete sulle mie parole, Vostra Maestà» fece Sadan, lapidario. Quindi si incamminò verso le vetture diplomatiche che attendevano poco più indietro. Quando queste si furono allontanate, Plutarco fece per richiudere lo sportello.

«Capitano» lo chiamò Nadia, asciugandosi le lacrime di paura e indignazione che le affioravano agli angoli degli occhi. «Mi dica la verità. Non esiste nessuna chiamata urgente, non è così?»

Plutarco sorrise.

«Chiedo perdono a Vostra Maestà, ho dimenticato di spegnere l'interfono».

Lei avrebbe pianto.

«Grazie» fece. Lui sorrise, e dopo aver richiuso la portiera diede segno di ripartire.

 

 

*

 

 

La Sala delle Udienze era colma. Una fila interminabile di persone attendeva in fila il proprio turno per essere accolta alla presenza della Regina. Nadia fece il suo ingresso nella sala del trono, avvolta in un ampio mantello di velluto bianco ornato di splendida pelliccia, simbolo del potere regale, come anche lo scettro che reggeva tra le mani e la corona che indossava, e che recava il simbolo di Atlantide, l'Occhio del Sole.

Quando entrò in sala, l'intenso vociare che inondava l'ambiente fino agli alti soffitti si placò immediatamente, trasformandosi in un sussurro curioso. La gente scrutava il volto della regina, cercando di coglierne le sfumature. Dalle decisioni che avrebbe preso quel giorno, la vita di molti sarebbe cambiata. In bene quanto in male.

Nadia si sedette. Era pallida, e visibilmente scossa. Non sembrava molto presente, e accolse le parole del cerimoniere con un certo fastidio. Plutarco, al suo fianco, era sprofondato in un misterioso silenzio.

All'udienza era presente anche il Senatore Kurali, che aveva presentato una mozione. John era tra il pubblico.

Kurali si fece avanti.

«Vostra Maestà, con il suo permesso chiedo che venga presentato il primo caso di oggi».

«Prego» mormorò Nadia. Il cerimoniere batté una volta il pesante scettro dorato.

«Che l'imputato avanzi».

Kurali fece cenno alle guardie, che trascinarono lungo la navata un giovane vestito di stracci. Era in catene e aveva il volto tumefatto. Probabilmente era stato picchiato.

«Che cosa è successo a quest'uomo?» chiese Nadia. Kurali si avvicinò al trono. Quindi si voltò, perché tutti potessero sentirlo.

«Il qui presente Yusud di Issa è accusato di furto e aggressione».

Un mormorio si levò dal pubblico in sala. Il cerimoniere batté il pesante scettro che aveva in mano e ritornò il silenzio.

«Cosa è successo esattamente?» chiese Nadia. Kurali indicò l'imputato.

«È stato sorpreso a rubare l'acqua nel fondo del suo feudatario, insieme ad altre tre persone. Inseguito dalle guardie, le ha affrontate armato di una falce e ne ha ferita una».

«Non è vero! È stato solo costretto a difendersi. Quelle guardie avevano ucciso uno dei suoi compagni». La voce si era levata dai presenti. Apparteneva a una donna, che aveva gli occhi arrossati dal pianto. Probabilmente era la madre.

«Davvero è andata così?»

«Le guardie hanno sorpreso questi ladri» commentò Kurali, indicando Yusud e un uomo in manette, poco lontano «e hanno cercato di fermarli. Se non avessero opposto resistenza...»

«Avevamo bisogno di quell'acqua» si difese Yusud, a gran voce. «Non avevamo nulla da bere e il feudo non veniva coltivato da mesi!»

Un vociare nervoso si levò improvviso, come uno sciame di api. Il cerimoniere faticò a riportare il silenzio.

«È vero quello che dicono?» chiese Nadia. «Eppure, mi sembrava di aver autorizzato una distribuzione aggiuntiva di acqua».

«Ovviamente mentono, mia signora e...»

«Quell'acqua non è mai arrivata» ringhiò il prigioniero. «Vostra Maestà non sa quello che succede nel mondo esterno, perché non si degna di venire a vedere».

Nadia impallidì. Intorno a lei si era levato un coro di protesta.

«Come osi rivolgerti alla Regina in questo modo?» fece Kurali. Le guardie strattonarono il prigioniero, che finì a terra ai piedi di Nadia.

«Sono stanca di violenze e soprusi» dichiarò Nadia. «I feudatari hanno il dovere di coltivare i loro terreni e la responsabilità di questi uomini ricade sui nobili negligenti».

Kurali assentì. «Sicuramente...»

«Ma i braccianti hanno il dovere di servire i loro feudatari» aggiunse lei. «Se volevate l'acqua, dovevate rivolgervi a loro e richiederla espressamente, non rubarla».

«L'avevamo fatto, ma non ci è stata data» ribatté coraggiosamente Yusud.

«Tutti sanno che esiste una legge che obbliga il feudatario a consegnare l'acqua, se richiesta» gridò Kurali. «Il prigioniero mente».

La folla gridò furiosa. Nadia si portò una mano alla testa. Era nervosa, scossa e non riusciva a ragionare.

«Basta così!» esclamò. «Cosa prevede la legge?»

«Un anno ai lavori forzati».

«Vergogna!» gridò la folla. I soldati cominciarono a mostrarsi irrequieti.

«Maestà non si sente bene?» fece Plutarco, chinandosi verso Nadia. «Forse è il caso di sospendere».

«No!» gridò il prigioniero, che aveva sentito le sue parole. «Io chiedo di essere giudicato da sua Maestà la Regina, non dal Senato. Lei deve ascoltarmi!»

Il prigioniero si spinse fino al trono, aggrappandosi alla lunga veste della Regina. Nadia, ancora scossa per quanto avvenuto poco prima con Sadan, rabbrividì.

«Non toccarmi!»

La folla si zittì, sorpresa da quella reazione. Un attimo dopo, esplose in ingiurie.

«Che il prigioniero venga punito secondo la legge per i crimini di cui è accusato» disse Nadia. «È tutto».

«Avete sentito Sua Maestà!» si affrettò a ripetere il cerimoniere. «La seduta è tolta!»

Nadia lasciò il trono, allontanandosi velocemente accompagnata dalle grida della folla che chiedeva di essere ricevuta. Le guardie afferrarono il prigioniero, riportandolo al centro della sala. Il giovane era costernato, e abbattuto.

Approfittando della confusione, John chiamò a sé Kurali, sussurrandogli qualcosa nell'orecchio. Kurali si guardò attorno e scorse tra la folla il secondo prigioniero, compagno di Yusud. Si voltò verso John, che annuì.

«Silenzio!» gridò Kurali, cercando di sovrastare la folla di popolani inferocita. «Fate silenzio!»

John si fece largo fino al prigioniero, ordinando a una guardia di lasciare che si avvicinasse.

«Quanto vale per te la libertà?», gli chiese, in un sibilo.

L'uomo alzò gli occhi a fissarlo, incredulo.

 

 

*

 

Nadia stava ancora cercando di calmarsi. Quello che era successo quella mattina era stato terribile. Non solo non era riuscita a gestire il colloquio con Sadan, ma aveva anche permesso che i suoi sentimenti influenzassero le sue decisioni. Sapeva che quel prigioniero doveva essere punito per i crimini che aveva commesso, ma si era comunque mostrata fragile e insicura. Se voleva davvero salvare il popolo di Atlantide dalla miseria e dai ribelli che minacciavano la sua sopravvivenza, doveva agire in modo più consapevole. Così rischiava solo di farsi odiare da tutti.

Si sedette alla scrivania, prendendo la testa tra le mani. La cosa migliore, quando aveva la testa piena di pensieri, era mettersi a lavorare. Lo aveva imparato al Times. Spesso le preoccupazioni venivano messe a tacere, quando ci si impegnava in qualcosa.

Prese la cartella che aveva davanti e la aprì. Era una proposta di legge su cui lei stava lavorando da qualche tempo. Così come era stata presentata non l'aveva convinta e aveva deciso di provare ad apportarne qualche modifica. Ora, dopo più di tre settimane di lavoro assiduo, credeva di aver raggiunto una formulazione accettabile.

Plutarco entrò, richiudendosi la porta alle spalle. Nadia alzò gli occhi e sorrise.

«Ancora al lavoro?» chiese lui. Nadia annuì, alzandosi e portandogli la cartella.

«Credo di aver trovato la soluzione a questa legge» fece. «Mi farebbe il favore di darmi la sua opinione?»

«Volentieri, Maestà».

In quel momento qualcuno bussò. Nadia diede il permesso di entrare e un giovane ragazzo con una pila di documenti fece il suo ingresso in ufficio.

«I miei omaggi, Maestà» fece, cercando di prodursi in un inchino che rischiò di fargli cadere tutto dalle mani. «Queste dove posso lasciarle?»

Nadia gli indicò vagamente la scrivania, perplessa.

«Che cosa è tutta questa roba?» chiese. Lui posò i plichi sul tavolo e la salutò con un inchino.

«Vostra Maestà ha chiesto di poter visionare le leggi, così ho avuto l'ordine di consegnargliele».

Nadia si sentì venir meno. Erano almeno un centinaio di cartelle.

«E sono tutte le leggi di quest'ultima legislatura?» fece. Il ragazzo assunse un'espressione imbarazzata e desolata insieme.

«Veramente, solo dell'ultima settimana».

Nadia lasciò cadere la cartella che teneva tra le mani. Improvvisamente, si sentiva impotente. Se aveva impiegato tre settimane a leggere tutta la documentazione inutile riguardante una singola legge, come avrebbe fatto a capire e approvare consapevolmente tutte quelle altre leggi che venivano sfornate in continuazione?

Il ragazzo si precipitò a raccogliere la cartella e fece per porgerla alla sua Regina. Gli occhi gli caddero sul contenuto e gli scappò una risata. Nadia si indispettì.

«Cosa ci trova di divertente?» chiese.

«Nulla Maestà, è che questa legge per come è presentata è destinata ad essere respinta».

«E per quale motivo?» chiese lei. Era infastidita. Ci aveva lavorato per una sacco di tempo, e credeva di aver fatto un buon lavoro. Cosa poteva saperne più di lei, quel ragazzetto?

«Vedete, in questo punto in cui si parla della trasmissibilità dei beni... entra in contrasto con quanto prevede la legge sull'eredità» le spiegò lui, indicandole la pagina. «Se si vuole approvare l'articolo in questione, e presentarlo in questi termini, diventa prima necessario modificare quanto sancito dalla Carta dei Nobili, ma...»

«Ho capito. Basta così».

Il ragazzo si zittì. Nadia trattenne a stento la sua rabbia.

«Lei chi è?»

«Sandor Tani, vostra Maestà. Sono studente di legge, tirocinante».

Nadia lanciò a Plutarco uno sguardo sorpreso.

«Abbiamo tirocinanti?»

«Certo maestà» fece lui. «I migliori ricercatori della facoltà di legge sono invitati a svolgere un periodo di tirocinio presso le nostre istituzioni. È una regola dell'Accademia degli Studi».

«Capisco».

Il ragazzo fece per dire qualcosa, ma Nadia lo interruppe.

«Quanti siete, lei e i suoi colleghi?»

Tani si fece pensieroso. «Circa una quindicina, direi, Vostra Maestà».

«Voglio che lasciate immediatamente la vostra occupazione» fece. Tani impallidì.

«Maestà, se vi ho mancato di rispetto, io...»

«Ho bisogno di voi per cose più urgenti» aggiunse lei, senza lasciarlo finire. «Se voglio capirci qualcosa in tutte queste leggi, ho bisogno che qualcuno mi aiuti. Lei sembra un tipo in gamba, visto che le è bastato uno sguardo per capire dove avevo sbagliato, risparmiandomi di fare la figura della sciocca».

Tani arrossì. Nadia sorrise.

«Vorrei che organizzasse una squadra, composta dai suoi colleghi. Il vostro compito sarà quello di prepararmi settimanalmente un riassunto di tutte le pratiche, che comprenda il contenuto essenziale di ogni decreto. Qualcosa che anche un'ignorante in materia come me riesca a capire. Crede di poter accettare?»

Il ragazzo non credeva alle sue orecchie. Significava lavorare direttamente per la Regina. Era un'occasione senza precedenti.

«Vostra Maestà, io... certamente» balbettò. Plutarco nascose un sorriso compiaciuto.

«Visto che lavorerete direttamente per me, avrete bisogno di un ufficio tutto vostro» pensò ad alta voce. Quindi si rivolse a Plutarco. «Potrebbe aiutarli a trovare un luogo adeguato in cui possano sistemarsi?»

«Naturalmente, Maestà. Lo farò con piacere».

«Maestà, non so come ringraziarvi» disse Tani, profondendosi in un inchino esagerato. «Vi assicuro che non deluderò le vostre aspettative, e...»

«Basta, basta. Piuttosto, si metta al lavoro. Ecco» disse lei, prendendo le pratiche e riconsegnandogliele con una risata argentina. Tani se le caricò tra le braccia, compiaciuto.

«Mi raccomando, non abbiamo tempo da perdere» fece Nadia. «Queste leggi devono essere approvate o respinte per il bene del Regno».

«Sì, Vostra Maestà».

Tani salutò ossequioso, varcando la porta non prima di essersi inchinato tre volte. Alla fine, Plutarco lo spinse fuori, suscitando le risate allegre della Regina.

«Vostra Maestà si è dimostrata molto abile» commentò. Nadia chinò la testa, nicchiando mesta.

«Ho fatto solo la figura della stupida» commentò. «Chissà cosa avevo in testa, quando ho pensato di poter capire qualcosa delle leggi del Regno».

«Eppure, eravate mossa da buone intenzioni».

«Ma le buone intenzioni non bastano quando si tratta di leggi».

«Maestà...»

Qualcuno bussò e Plutarco inghiottì quanto stava per dire. Lasciando Nadia alla finestra, si diresse meditabondo ad aprire. Entrò un valletto, che si prostrò con aria compunta.

«Che succede, adesso?» chiese Nadia, voltandosi con un sospiro.

«Vostra Maestà, mi spiace disturbarvi» esordì il giovane valletto «ma è richiesta la vostra presenza all'esecuzione».

Nadia e Plutarco si scambiarono uno sguardo.

«Quale esecuzione?» fece lei. «Di cosa stai parlando?»

Il valletto fissò prima Nadia, quindi il capitano della guardia.

«L'esecuzione... che sta per avvenire nel cortile» farfugliò. «Mi hanno detto di informarvi, visto che forse eravate intenzionata ad assistere e...»

«Io non ho ordinato alcuna esecuzione!»

Nadia corse letteralmente fuori dalla stanza. Plutarco tentò di fermarla, ma non fece in tempo.

«Maestà! Aspettate!»

Nadia correva lungo l'ampio corridoio deserto, dove rimbombava l'eco dei suoi passi affrettati. Le enormi vetrate e le fila di specchi antistanti riflettevano e illuminavano il suo volto ansioso, e diverse volte lei dovette ritornare sui suoi passi, perché per l'agitazione aveva perso del tutto l'orientamento. Alla fine, qualcuno la afferrò, costringendola a voltarsi. Era Plutarco.

«Mi lasci! Devo fermare tutto questo, io...»

«Maestà, voi dovete calmarvi!»

Nadia si strappò alla sua presa, imboccando il corridoio ornato di stucchi che conduceva al balcone centrale. Si gettò contro le enormi porte a vetrata, che spalancò precipitandosi trafelata all'esterno. Una folla immensa era radunata in silenzio nel cortile. Fissavano tutti nella stessa direzione. Quando udirono gli schiamazzi sopra di loro e il fragore delle porte che si spalancavano, si voltarono tutti a guardare. Nadia incrociò i loro sguardi persi, che non appena la videro si fecero ostili e minacciosi. Gridavano una sorda vendetta.

Nadia frenò la sua corsa, avvicinandosi lenta alla balaustra. Il boia aveva appena terminato il suo lavoro e stava abbandonando il patibolo. Una forca era stata allestita nel cortile e da essa pendeva il corpo inerte di un condannato, che ondeggiava lentamente nel vuoto. Con orrore, Nadia si rese conto che si trattava del giovane Yusud, che quella mattina era stato accusato di furto. In prima fila, sua madre piangeva disperata, stretta dal padre che guardava con odio viscerale verso il balcone.

«Sembra che Kurali abbia modificato i capi d'accusa non appena avete abbandonato l'aula» commentò torvo Plutarco. «Un testimone è comparso all'improvviso, e ha accusato quell'uomo di essere un attivista della Ribellione. E la pena per un crimine come quello, è la morte».

Nadia sentì le lacrime rigarle il volto. Aveva un groppo in gola, e temeva che il cuore le si sarebbe spezzato.

«Maestà» le sussurrò Plutarco, con tenerezza «avanti, venite via».

Nadia scosse la testa, incapace di fermare le lacrime.

«Io non volevo questo» mormorò lei, sconvolta. «Non era questo, ciò che io volevo».

 

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Capitolo 13
*** 11 ***


11

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rebecca si fece largo tra la folla, intrufolandosi a fatica tra quanti continuavano a spingere verso il patibolo e contro le cancellate del Palazzo. Avanzava tra urla e spintoni, stretta fino a soffocare da chi la circondava e urtava da ogni dove, sballottandola senza alcun riguardo. Stava ormai per cadere a terra priva di sensi, quando riuscì a raggiungere i portici che circondavano la piazza, dove si abbandonò rabbrividendo contro la pietra fredda di una colonna immersa nell'ombra. Finalmente, tornava a respirare.

La gente sembrava in preda al delirio. Volavano insulti e grida, e c'era già chi aveva cominciato a fare a pezzi tutto ciò che trovava, brandendo minacciosamente assi di legno e pali spezzati. Alcuni cercavano di forzare il cordone di guardie che si era schierato in formazione davanti all'ingresso all'ala privata del Palazzo, mentre altri, più scaltri, approfittavano della confusione per attaccare i magazzini, seppur con scarso successo. Le guardie faticavano a tenere tutto sotto controllo e svolgevano il loro lavoro come potevano, ma rappresentavano comunque una forza soverchiante. Rebecca cominciava a temere che, se le cose non si fossero in qualche modo calmate, presto la situazione sarebbe degenerata in un massacro indiscriminato.

Basta, devo andarmene da qui. Devo andarmene, prima che sia troppo tardi.

Si guardò attorno, in cerca di una possibile via di fuga. L' ingresso al magazzino era poco più avanti, e sembrava una ghiotta opportunità. Ma Rebecca scartò subito l'idea: impossibile entrarvi, era troppo ben presidiato. Al riparo nel suo cantuccio, Rebecca continuò a spostare lo sguardo intorno, ragionando in fretta sulle alternative possibili. Stava per muoversi, alla ricerca di un'entrata sicura, quando improvvisamente, e molto vicino a lei, esplose un grido a dir poco terribile. Rebecca sbarrò gli occhi, bloccandosi spaventata e accucciandosi a terra dietro la colonna. A qualche metro da lei, un gruppetto di persone si era messo ad attaccare con una sassaiola i soldati ai cancelli. Per un attimo si scatenò una gran confusione, poi le guardie brandirono le lance a torpedine e riuscirono in qualche modo a disperdere la folla. Qualcuno tra i popolani cadde a terra, inerte, mentre gli altri si ritiravano; sgomenta, Rebecca vide la guardie afferrare e trascinare via i corpi immobili, che venivano portati da qualche parte dietro ai cancelli. Rebecca distolse lo sguardo, quindi si avvolse stretta intorno allo scialle che portava sul capo, allontanandosi in fretta e sforzandosi di non tremare.

Era escluso riuscire a entrare da quella parte: troppo pericoloso. Se voleva accedere al palazzo, era meglio allontanarsi e trovare un altro modo. Sempre che esistesse.

Si guardò attorno, lanciando un'ultima occhiata alla piazza. Ormai era completamente gremita, ma le guardie sembravano aver ripreso in mano la situazione. Rebecca si allontanò costeggiando il muro di cinta, facendo attenzione a mantenersi sempre nell'ombra. Non voleva farsi notare: ma allo stesso tempo cercava di non guardare verso il patibolo che si levava alla sua sinistra, ridotto quasi in pezzi, ma da cui ancora pendeva il corpo inerte del condannato e che ora alcuni stavano cercando di raggiungere, per tirarlo giù. Rebecca rabbrividì ripensando alla pena che le aveva fatto vedere il volto di quel giovane sbiancare per la paura, quando il boia gli aveva messo la corda al collo. Già quando era entrata nella piazza, e aveva intravisto il patibolo addossato alle solide mura di pietra bianchissima, era rimasta scioccata. Mai avrebbe creduto di dover assistere a una cosa del genere, in vita sua, e invece era successo. L'esecuzione era avvenuta in fretta, in un silenzio irreale, davanti agli occhi fissi e attoniti di centinaia di persone. Era stato terribile, qualcosa che Rebecca non avrebbe mai dimenticato. Se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire dentro di sé i gemiti strozzati del condannato, che rimbombavano sordi tra le mura mentre soffocava lentamente, accompagnato dal silenzio dei presenti e dai singhiozzi trattenuti della madre.

Poi, a quel punto, era apparsa Nadia. Rebecca non l'aveva più vista da quando avevano lasciato la Terra, e non si aspettava di trovarsela davanti agli occhi così, del tutto all'improvviso. Tanto meno in una situazione come quella. Vederla comparire in quel luogo, e in un momento del genere, fu per Rebecca un evento traumatico: l'immagine di lei che si affacciava dal balcone, avvolta da quel silenzio gravido di rabbia e risentimento che si avvertiva serpeggiare tra la folla, era ancora vivida nella sua memoria, e difficilmente Rebecca avrebbe saputo dimenticarla. Era stato come trovarsi a vivere un incubo, un incubo in cui ogni cosa, anche le certezze che avevano retto la sua vita fino a quel momento, venivano rovesciate completamente.

Non voleva dubitare di Nadia, la sola idea la ripugnava. Ritenerla responsabile di un gesto di tale crudeltà era più che tradire la memoria di una cara amica: era rinnegare un membro della sua stessa famiglia. Tuttavia, era difficile credere che Nadia fosse completamente estranea a quella barbara esecuzione. La sua presenza su quel balcone ne era la prova quasi tangibile.

Era disgustoso da ammettere, ma per Rebecca rivedere Nadia, in quel momento, era stato come ritrovarsi davanti agli occhi lo spettro di Gargoyle. Dopo tanti anni lo stesso terrore, lo stesso senso di angoscia e impotenza di fronte a un potere tanto forte quanto incomprensibile erano tornati a rivivere in lei. E questo dubbio terribile, che Nadia avesse alla fine ceduto alla parte più oscura di lei – e questo anche per colpa sua, perché non c'era stata quando Nadia aveva più bisogno di aiuto – era sorto nel suo cuore senza che lei potesse far nulla per impedirlo. Ed era qualcosa con cui, prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti.

Rebecca scacciò via quei pensieri cupi, calandosi lo scialle fin sugli occhi; quindi lasciò il cortile, protetta dall'ombra che i monumentali pilastri e le alte volte del portico gettavano attorno alla piazza. C'era ancora agitazione, ma il cordone di soldati era riuscito a riportare una parvenza di ordine, seppure con con una certa difficoltà. La massa di popolani che gremiva il palazzo era stata costretta lungo le mura, lontano il più possibile dai cancelli; ma dalla gente continuava a levarsi un brontolio sinistro, fatto di parole veloci che correvano a fior di labbra, poi urlate, gridate con rabbia. Rebecca ascoltava, impaurita. Era come trovarsi in balia delle onde, in un mare agitato dal vento in tempesta.

Aggirò svelta una colonna, mantenendosi nell'ombra. Quindi percorse il muro sul fondo, stando attenta a non dare troppo nell'occhio. Tutto quello che doveva fare, adesso, era trovare una porta, un modo come un altro per entrare a palazzo senza farsi scoprire, e lasciare così per sempre quel delirio.

Ma, probabilmente, sarebbe stato molto più facile a dirsi che a farsi.

Con rammarico, notò che tutti gli ingressi più vicini erano sbarrati, o erano presidiati da soldati della milizia reale. Rebecca trattenne un'imprecazione. Era stata un'ingenua, se aveva pensato di poter sfruttare la confusione per introdursi non vista nella Reggia: era inevitabile che la sorveglianza si facesse più dura, in un frangente come quello, avrebbe dovuto pensarci. Colse con disappunto lo sguardo sospettoso che una guardia le fece scivolare addosso, e si rintanò svelta in un angolo nascosto. Temeva la durezza dei miliziani e le loro lance a torpedine più di ogni cosa: aveva visto molta gente cadere fulminata, in passato, a causa di quelle lance. Non desiderava fare la stessa fine.

I cancelli del magazzino restavano sempre i più vicini; entrare di lì sarebbe stata la soluzione, ma finché non trovava un modo per farlo, e per aggirare le guardie, erano destinati a restare un doloroso miraggio. Rebecca si morse le labbra, mandando giù l'amaro di quella delusione. Quindi si rintanò dietro il muro, sospirando. Era meglio pazientare e tenersi a distanza, almeno per un po', aspettando nel caso si muovesse qualcosa.

Ma non crediate che me ne andrò tanto presto. Nossignore, non oggi...

Marie, la sua Marie, si trovava da qualche parte dietro quei cancelli. Lo sentiva, anche se non poteva esserne sicura. La sua era solo una speranza, ma ormai la speranza era l'unica cosa che le rimaneva. Fin da quando si era risvegliata nella cabina dell'astronave che l'aveva condotta ad Atlantide, Rebecca non aveva pensato ad altro che a ritrovarla: e se era ancora viva, dopo mesi trascorsi da sola su un pianeta sconosciuto e tra persone che parlavano una lingua sconosciuta, era stato certo merito suo e della propria intraprendenza; ma anche di quel pensiero costante che non l'aveva abbandonata mai, nemmeno per un secondo.

Per otto, interminabili mesi si era recata ogni giorno al palazzo, attendendo inutilmente davanti alle sue porte nella speranza che queste si aprissero, per farla passare. Quel giorno, incredibilmente, era successo; anche se ciò che aveva trovato, al di là delle porte, era stato qualcosa di inimmaginabile. Perciò, non se ne sarebbe andata da quel posto, non prima di aver trovato il modo per entrare. E questo, a costo di rimetterci la pelle.

Si udirono dei tumulti, vicino al cancello. Rebecca, richiamata dal frastuono, si fece coraggio e lasciò la nicchia in cui stava nascosta; quindi, con disinvoltura, si avvicinò alle persone che occupavano lo spazio tra i portici e la piazza. Si alzò sulle punte, appoggiandosi a chi le stava davanti. Non si vedeva molto, ma sembrava che i soldati avessero cominciato a fendere la folla: evidentemente, stavano cercando di far passare qualcuno.

Si udivano grida, e cominciarono a volare dei fischi. La folla si disperse per un attimo, davanti alle lance a torpedine che i soldati brandivano minacciosi. Quindi si aprì un varco, e una carovana di persone cominciò ad avanzare tra due mura di gente, i volti pallidi e le spalle curve, mentre le guardie le proteggevano da quanti cercavano di aggredirle, o strattonarle. Rebecca capì dai loro abiti semplici ma dignitosi che si trattava del personale di palazzo: molto probabilmente erano servi e domestici che si recavano al lavoro: cuochi, addetti alle cucine e alle camere, garzoni e cameriere. Alcuni portavano della merce con loro: c'erano casse, su un autocarro; e ceste di frutta, tela, tessuti... cibo che con molta probabilità sarebbe stato cucinato e servito alla tavola della Regina o degli alti ufficiali di Reggimento; ornamenti preziosi che sarebbero andati ad adornare le sale del palazzo e le camere private della sovrana.

Rebecca seguì attentamente con gli occhi quelle persone, che si facevano largo a fatica tra la folla che lanciava loro insulti e grida, e che vedeva in loro il simbolo odioso di un potere dispotico. Qualcuno tentò di superare il cordone di protezione e di strappare un cesto di frutta dalle mani di una giovane cameriera. La ragazza resistette per un istante; quindi cadde a terra, lanciando un grido. L'aggressore venne ricacciato a manganellate, ma si creò un po' di trambusto. Era il momento. Rebecca si gettò senza riflettere tra la folla, spintonando fino a raggiungere la ragazza che ancora si trovava a terra. L'aiutò a rialzarsi e a raccogliere la frutta che si era sparpagliata al suolo, ma ebbe la cura di prendere per sé il cesto. «Vieni, appoggiati a me» disse alla ragazza. Questa annuì, senza protestare. Rebecca esultò, in cuor suo, afferrando il cesto e stringendolo stretto. Quando alla fine i soldati riportarono l'ordine, Rebecca, grazie a quel semplice cesto di frutta, era riuscita a trasformarsi in una serva di palazzo.

La processione arrivò ai cancelli del magazzino, sotto le volte del portico. Rebecca attese al suo posto, aiutando a reggersi la ragazza ma senza mai lasciare il cesto, che stringeva così tanto da avere le nocche arrossate. Vide le guardie parlottare tra loro, mentre una di esse estraeva un mazzo di chiavi. Rebecca serrò ancor più le dita attorno all'impugnatura di vimini, con il cuore le batteva forte. Ascoltò con ansia lo scatto della serratura, e il cigolio delle inferriate che si aprivano davanti a loro: quindi, quando le guardie fecero loro cenno di entrare, il cuore quasi le si fermò, mentre muoveva il primo passo verso l'ingresso. Da sotto il cappuccio, con gli occhi bassi, continuava ad avvertire su di sé lo sguardo indagatore delle guardie al cancello: ma quando finalmente si azzardò a risollevare gli occhi, vide in realtà che nessuno la stava guardando e che si trovava già al sicuro dentro al perimetro del Palazzo, lontana dalla folla e dai soldati al cancello.

«Grazie, ma ora posso continuare da sola» le fece la giovane, che la guardava con un sorriso imbarazzato, cercando di sottrarsi alla sua stretta. Ancora immersa nei suoi pensieri, Rebecca le lanciò uno sguardo distratto. Quindi annuì, lasciandole il braccio che si accorse di stare stringendo un po' troppo.

«Sei stata molto gentile» disse la ragazza, ricomponendosi gli abiti. «Quando quel tipo mi ha aggredita, ho avuto una paura tremenda».

Rebecca le rivolse un cenno vago, incerta su come comportarsi. Doveva dirle qualcosa? Faceva ancora fatica a parlare la lingua di quella gente, anche se ormai riusciva a capirla piuttosto bene... Tuttavia, avrebbe preferito non destare troppa curiosità.

«Tu devi essere nuova» le fece la ragazza, riprendendosi il cesto, che Rebecca le consegnò con un certo rammarico. «Non ti ho mai visto, prima. E anche ai cancelli, non mi ero accorta che fossi insieme a noi».

Rebecca sorrise nervosa, guardandosi intorno.

«Sì, ero... lontana».

«Aspetta, sei straniera?» fece la ragazza, improvvisamente interessata. «L'ho capito dal tuo accento».

Rebecca si maledisse per aver aperto bocca. Se avesse potuto, avrebbe ingoiata la lingua.

«Io... sì, non... non capisco bene... come si dice?... glossa. Lingua».

«Da dove vieni?» insisté la ragazza. Ora guardava Rebecca con viva curiosità, attratta soprattutto dai suoi capelli rosso vivo.

«Nord» fece Rebecca, guardandosi intorno vagamente, e con un sorriso tirato. «Molto nord».

«Nord?» chiese la ragazza, sempre più interessata. «Da un'isola, allora? Magari Scithya... o forse Kalliophes?»

Rebecca annuì, stringendo le labbra. La gente passava, lanciandole sguardi curiosi. Cominciava ad avere fretta di levarsi da lì.

«Tu fai... ponos... qui?» chiese. A quelle parole, la ragazza rise.

«Beh, non sono mica una schiava!» commentò. «Sono una domestica, e lavoro qui... ma vengo pagata» rispose. «Mi chiamo Myra. Ormai, sono quasi cinque anni che ho cominciato a servire a palazzo e... aspetta!» fece, illuminandosi improvvisamente e fissando sul volto attonito di Rebecca i suoi grandi occhi bruni e lucenti come perle. «Non è che stai cercando lavoro?»

Rebecca si irrigidì. Rifletté un istante, quindi «tu puoi darmi lavoro?» chiese.

«Forse» fece Myra. «In effetti, ci sarebbe bisogno di una mano in più. Ora che abbiamo una Regina, a palazzo, non si bada a spese. E poi c'è sempre da lavorare. Forza, vieni con me!» esclamò, prendendole allegra la mano. «Ne parleremo a Santippe. È a capo delle domestiche, ed è lei a decidere tutto. Se le piacerai, ti assumerà».

Rebecca non aveva capito molto, ma si lasciò trascinare fiduciosa dalla giovane domestica lungo i corridoi del palazzo, senza protestare. Mentre percorreva le sale interne della reggia, continuava a guardarsi attorno, gettando un'occhiata dietro ogni porta socchiusa e dentro ogni stanza, nella speranza di intravedere Marie. Ma per quanto cercasse, non riuscì a vederla da nessuna parte.

Nonostante ciò, Rebecca non si preoccupò più di tanto. Era già fin troppo felice che le cose stessero procedendo nel migliore dei modi, almeno per il momento. Se Marie si trovava davvero in quel palazzo, così come lei continuava a sperare, era solo questione di tempo prima che riuscisse a trovarla.

Da qualche parte, nel suo cuore, sentiva già di essere finalmente riuscita a raggiungerla.

 

*

 

«E tu, chi diavolo sei?»

Rebecca sorrise, cercando di sfoggiare una certa disinvoltura di fronte a quel donnone che la scrutava stizzita. Era sempre stata brava ad ammaliare le persone, anche se si rendeva conto che con le donne il suo fascino perdeva gran parte del suo potere. Inoltre, già il fatto di non parlare fluentemente la lingua di quella gente, rappresentava un problema.

Fece l'accenno di un inchino, che fu quanto le venne in mente per cercare di fare buona impressione. Quindi tentò di farfugliare qualcosa, giusto per presentarsi.

«Mi chiamo Rebecca. Cerco lavoro e...»

«Non ti inchinare, non sono mica una nobile» tagliò corto la donna. Si chiamava Santippe, ed era stata presentata a Rebecca come la responsabile delle domestiche. Rebecca la conosceva da pochi secondi, ma già la trovava detestabile. Aveva sperato che Myra potesse introdurla facilmente a palazzo, e che per farlo le sarebbe bastato mettere una buona parola per lei; ma anche in quel caso, la sua si era rivelata un'ingenuità. Era ovvio che Santippe non vedeva di buon occhio chi le si presentava in quel modo, senza referenze né alcun tipo di raccomandazione. Inoltre, sembrava in qualche modo sospettare di lei; anche se almeno in questo aveva ragione.

«E tu, chi ti ha detto di portarla qui?» esclamò Santippe, torva, rivolgendosi a Myra. La giovane, a fianco di Rebecca, impallidì e chinò il capo, imbarazzata.

«Mi dispiace, pensavo che una mano in più avrebbe fatto comodo e...»

«Tu pensi troppo, evidentemente».

Rebecca era in difficoltà. La prospettiva di essere assunta si stava ormai dileguando. Inoltre, cominciava a temere che presto l'avrebbero consegnata alle guardie. E lei non voleva assolutamente destare scalpore, anzi: tutto ciò che doveva fare, era tenersi il più lontano possibile da Faloe, e da chi avrebbe potuto riconoscerla in qualche modo. Se Faloe fosse venuta a conoscenza della presenza di Rebecca su Atlantide o, peggio ancora, del fatto che si trovava nella sua stessa città, non ci avrebbe messo un secondo a sparire con Marie. E questo, per Rebecca, avrebbe significato perdere ogni speranza di ritrovarla.

Santippe sbuffò. Scosse la testa, togliendosi gli occhiali che le pendevano sulla punta del naso e gettando sulla scrivania i fogli che teneva tra le mani.

«Non ho davvero tempo, per questo» lamentò. «Siamo nel bel mezzo della preparazione del ricevimento. Ho tra le mani i turni del personale, ancora da completare, e tu mi porti questa... questa sciattona? Per giunta pretendendo che l'assuma senza dire una parola!»

Rebecca arrossì. In un altro frangente avrebbe assestato un bel pugno alla faccia grinzosa di quella vecchia scorbutica, e questo per aver anche solo osato darle della sciattona. Ma in quell'occasione abbassò la testa, umilmente.

«Ti chiedo scusa, Santippe» farfugliò Myra, profondendosi in un inchino. La donna le impose di tacere con un gesto brusco.

«E poi guardati» commentò, fissando Rebecca con una smorfia. «Ma da dove salti fuori?»

«Viene da nord» intervenne imprudentemente Myra. Santippe la fulminò con lo sguardo. Lei tacque, immediatamente.

«Nord, eh? Al massimo viene da dietro l'angolo della strada».

«Io... mi sono sbagliata» disse Rebecca, che voleva finirla al più presto con quella donna. Doveva andarsene da lì, prima che la situazione degenerasse. Magari, allontanandosi, avrebbe trovato comunque il modo per dare un'occhiata in giro, se la fortuna fosse stata almeno in quello dalla sua parte.

«Non voglio disturbare, chiedo scuse».

«Si dice ''chiedo scusa''» latrò Santippe. Rebecca ammutolì per la vergogna. Fremeva di rabbia. Quella dannata vecchiaccia... cosa accidenti voleva, ancora, da lei? Si era scusata, non era già abbastanza? Evidentemente, godeva nel metterla in difficoltà.

«Va bene, basta discutere» fece Santippe, dura. «Tu, mettiti al lavoro» ordinò a Myra, che si dileguò in silenzio, lanciando a Rebecca uno sguardo colpevole, di scuse. «E tu, vieni con me».

Rebecca sentì il cuore mancarle un battito. Dov'è che doveva seguirla? Aveva per caso intenzione di consegnarla alle guardie?

«Io non voglio problemi! Io vado via, se lei non vuole che...»

Santippe squadrò Rebecca con durezza. «Lo vuoi un lavoro, o no?»

Il volto di Rebecca si colorò all'improvviso. Sorrise, sollevata.

«Sì, sì... grazie!»

Santippe brontolò qualcosa, quindi uscì dalla stanza, seguita a ruota da Rebecca.

«Per prima cosa» le disse, guidandola tra i corridoi riservati alla servitù «tieni a freno la lingua. E vedi di non andartene troppo in giro, con quei tuoi capelli rossi. Qua non abbiamo bisogno di esibizionisti».

Rebecca avvampò di collera. Non capiva perché quella donna ce l'avesse tanto con lei, né perché il fatto di avere i capelli rossi fosse un problema. Comunque ingoiò anche quelle offese, cercando di pensare solo al fatto che, rimanendo nel palazzo, avrebbe finalmente avuto occasione di cercare Marie.

«Di gente come te, ne ho vista parecchia» continuò Santippe. «Spostate che credono di venire qui per fare la bella vita, magari per avvicinare qualche nobile o qualche ufficiale sfruttando il loro bel faccino e farsi poi mettere incinta...»

Era troppo. Rebecca fece per protestare, ma Santippe la bloccò. «So quello che vuoi dire: tu non sei così, a te interessa solo lavorare. Ho già sentito anche questo. Ma ti avverto, con me non funziona. Fatti trovare solo una volta con le mani in mano, a fare qualcosa che non dovresti fare o in un posto in cui non dovresti essere, e ti assicuro che ti pentirai di aver messo piede qui dentro. Sono stata chiara?»

Rebecca sospirò, trattenendo la rabbia. Quindi, annuì.

«Sì» disse, sforzandosi di apparire umile. «Grazie».

«Smettila di ringraziare».

Santippe aprì bruscamente la porta di quello che sembrava un deposito. Frugò in un armadio, estraendo dal suo interno alcuni abiti piegati e impacchettati, che posò sgarbatamente su un mobile.

«Provati questi, dovrebbero essere della tua taglia» fece, lanciando a Rebecca uno sguardo severo. «Quando hai finito, vai alle cucine. Là ti diranno cosa fare».

Rebecca fece per ringraziare, ma si zittì all'ultimo istante notando lo sguardo severo di Santippe. Si limitò a chinò il capo con un sorriso. Cosa che Santippe parve apprezzare.

«Muoviti» disse la donna a Rebecca, allontanandosi con una smorfia. «Non hai tutta la giornata».

Rebecca aspettò che Santippe se ne fosse andata, quindi prese i vestiti e chiuse la porta del ripostiglio. Era buio e la tappezzeria alle pareti odorava di polvere. Rebecca annusò i vestiti, con una smorfia. Sapevano di polvere anch'essi, ed erano di pessima fattura. Ma c'era poco da fare. E rispetto a ciò a cui si era abituata, in quegli ultimi otto mesi, restava comunque un deciso passo in avanti.

Con un sospiro rassegnato, cominciò a sfilarsi le vesti, e a indossare la sua nuova divisa. Stava andando tutto bene, pensò, allacciandosi il grembiule di cotone bianco dietro la schiena. Ancora un po', solo un po', e finalmente avrebbe riabbracciato Marie.

 

 

*

 

 

«Allora ce l'hai fatta!»

Myra afferrò Rebecca per un braccio, trascinandola in un angolo dell'immensa cucina. Uno sguattero passò loro accanto quasi correndo, mentre reggeva una pila di piatti bianchissimi.

«Ti hanno detto di venire qui?» fece la ragazza. Rebecca annuì vagamente, guardandosi intorno stupita. Le cucine erano immense, e letteralmente prese d'assalto da un esercito di cuochi, domestici, sguatteri e semplici inservienti. Dalle pentole si levava ogni genere di aroma, che andava a mischiarsi in un tutto confuso e che all'olfatto assumeva un'infinità di sfumature, dalla più agre alla più dolce. A fianco a dove si trovavano, una porta scorrevole si aprì senza preavviso e un garzone uscì reggendo tra le mani imbiancate di farina un vassoio ricolmo di pagnotte appena sfornate, che diffusero tutt'intorno una dolce fragranza di pane.

«Qui il pane è sempre fresco» commentò Myra davanti alla faccia stupita di Rebecca. «Alla Regina non si serve il pane duro».

La ragazza agguantò al volo una pagnotta calda, pescandola direttamente dal vassoio. La spezzò in due e ne addentò svelta una metà. L'altra la porse a Rebecca. Il giovane garzone le rivolse uno sguardo corrucciato, ma al tempo stesso divertito.

«Per questo sei in debito, Myra» fece lui, voltandosi a guardarle entrambe, senza smettere di camminare. «Metterò in conto». Quindi ammiccò a Rebecca, sorridendo.

«È nuova?»

Myra annuì, portandosi una mano a coprire la bocca ancora piena.

«Appena assunta» biascicò. «Avanti, Jori... non vorrai rifiutare una misera pagnotta a due belle ragazze come noi? Consideralo un omaggio. Ti ringrazierò, in qualche modo».

Il ragazzo arrossì, quindi quasi inciampò, suscitando la risata allegra di Myra. Anche Rebecca sorrise, addentando la pagnotta.

«I maschi sono tutti degli stupidi» rise Myra. «Ma sono divertenti. Allora, sai già cosa devi fare?»

Rebecca ingollò l'ultimo boccone. Quella pagnotta era talmente buona che le aveva fatto venire le lacrime agli occhi.

«No, mi hanno detto che dovevo venire qui... per sapere...»

«Va bene, d'accordo» fece Myra, notando che Rebecca faceva fatica ad esprimersi. «Non c'è problema. Vieni con me, farò in modo di farti assegnare qualcosa di facile».

Piena di speranza, Rebecca seguì Myra tra le file di fornelli, scansando i cuochi che correvano da una parte all'altra, gridando ordini a volte quasi incomprensibili. Si udivano rincorrersi parole in lingue diverse, che Rebecca non aveva mai udito prima. Persone che provenivano da paesi diversi, e che parlavano tra loro in fretta, mischiavano tra loro la voce e il risultato era come il brontolio di un enorme calderone messo a bollire. Rebecca per un attimo fu sopraffatta da quella confusione di profumi, suoni e colori, tanto che ne uscì stordita.

«Qui è sempre così, ci farai l'abitudine» commentò Myra, notando l'espressione smarrita di Rebecca. «Agarthi è sempre stata al centro dell'Impero, almeno finché non è stata costretta a concedere l'indipendenza agli stati satellite, quindici anni fa. Fino ad allora, a palazzo si riversava gente che proveniva da tutte le parti del mondo. Questo è un po' quello che ne resta».

«Ora non più?» chiese Rebecca. Myra nicchiò, scostando una porta e cedendole il passo.

«Non proprio. Ultimamente le cose non vanno molto bene, in questo paese. Forse tu non sei informata, perché vieni da nord, ma...»

Myra tacque. Rivolse un'occhiata sospettosa a Rebecca, quindi arrossì.

«Niente, lascia stare. Eccoci qui. Siamo arrivati».

Rebecca entrò in una stanza in cui il silenzio che vi regnava era pari solo alla confusione delle cucine. Alcune domestiche si affaccendavano intorno a carrelli ricolmi di piatti e stoviglie, ma si muovevano con gesti eleganti e parsimoniosi. Le poche che parlavano tra loro, lo facevano bisbigliando.

«Qui starai tranquilla, e non dovrai parlare molto con nessuno. Tutto quello che dovrai fare, sarà portare uno di quei carrelli dove ti diranno... lasci la cena, ti inchini e te ne vai. Facile, semplice, nessun problema. Pensi di farcela?»

Rebecca annuì, grata.

«Bene, allora io vado» fece Myra. «Se hai bisogno, mi trovi in cucina».

«Aspetta!»

Myra si voltò, sorpresa. «Qualcosa non va?» chiese. Rebecca si morse il labbro, titubante.

«Chiedevo... ci sono bambini qui?»

«Bambini?»

Rebecca annuì. «Bambini. Hai visto bambini?»

Myra si voltò, facendosi pensierosa. «Ci sono diversi bambini, qui, sì. Ma perché me lo chiedi?»

Rebecca si rese conto di non avere una scusa pronta per quella domanda. Aveva parlato così, senza pensare.

«Io...»

Myra la fissò accigliandosi. Per un istante i suoi profondi occhi scuri si velarono di un'ombra e Rebecca impallidì. Non sapeva cosa fare. Doveva fidarsi, e dire tutto? Oppure confessare a quella sconosciuta la verità l'avrebbe condannata?

Alla fine, trasse un sospiro.

«Sto cercando bambina» ammise. «Figlia».

Myra impallidì.

«Tu... stai cercando tua... figlia?»

Rebecca fissò il volto sconvolto di Myra. Quindi fece un lieve cenno di assenso col capo.

«E... si trova qui?»

«Sì» disse Rebecca. «Credo...»

Myra spalancò la bocca. Si guardò attorno, incredula. Quindi «perché non me l'hai detto subito?» fece. «Hai idea del perché l'abbiano portata qui?»

«Io so che lei è con...» Rebecca esitò. Myra la incoraggiò a continuare. «...con Faloe Anuri. Lei ha preso mia figlia».

Myra lasciò cadere le braccia lungo il corpo, appoggiandosi al muro alle sue spalle.

«Tu... tu scherzi, non è vero?»

Rebecca negò con un cenno deciso. Myra si portò una mano alla bocca.

«Senti, dimenticatela. Se davvero si trova con Faloe Anuri, non puoi fare nulla».

«No, io...»

«Mi caccerai nei guai!» esalò Myra, tirandola in disparte. «Quella donna è terribile. Tu non la conosci, non ha emozioni. È più fredda del ghiaccio».

«Non mi interessa».

«Ma interessa a me!»

Myra si spazientì. Strinse le labbra, continuando a scuotere la testa.

«Come fai a dire che è stata lei?» sibilò, tesa. «Intendo... a rapire tua figlia».

«Ero lì» rispose Rebecca, decisa. «L'ha presa, io ero lì».

A quelle parole, Myra tacque. Rifletté un attimo, poi «sei decisa a trovarla...» chiese. Rebecca aggrondò.

«Lei è mia figlia!»

«... anche se questo significa morire?» concluse Myra, fissandola negli occhi. Rebecca non ebbe bisogno di rispondere. Myra scosse il capo, sorridendo.

«Ho capito» sospirò. «Ascolta, forse posso aiutarti, ma non sarà facile. Anuri alloggia nell'ala nobiliare del palazzo, negli alloggi degli ufficiali di stato maggiore. Per noi è impossibile andarci, hanno la loro servitù privata. Perciò, dovremo trovare un altro modo.

«Mi aiuterai?»

Myra si mordicchiò il labbro. Quindi «certo» fece. «Come potrei non farlo?»

Rebecca si sentì vicina alle lacrime.

«Grazie» fece, stringendole entrambe le mani. Myra sorrise.

«Aspetta a ringraziare, prima dobbiamo riuscire a trovare tua figlia senza rimetterci la pelle. Poi troverai il modo per ripagarmi. Ma adesso vai, e mi raccomando: aspetta che sia io a dirti qualcosa. Non fare nulla di testa tua, perché se ti trovano io sarò costretta a far finta di non sapere nulla del nostro piano. Nel frattempo, cercherò di scoprire qualcosa, va bene?»

«Sì» rispose Rebecca. Myra la salutò, carezzandole il braccio.

«Cerca solo di non metterti nei guai» fece. «Promesso?»

Rebecca annuì. Quando Myra se ne fu andata, si voltò, dirigendosi verso uno dei carrelli che attendeva di essere consegnato ai piani superiori. Mentre finivano di riempirlo per lei, Rebecca continuava a pensare alla promessa che aveva appena fatto a Myra.

Si trattava di una promessa che non era affatto sicura di riuscire a mantenere.

 

 

*

 

 

Rebecca contò le porte che aveva già passato: tre, quattro, cinque. Alla sesta, bussò. Le avevano detto di portare il vassoio con gli infusi e i dolci nello ''studio azzurro''. Rebecca non sapeva dove si trovasse lo studio azzurro, quindi aveva chiesto a Jori, il garzone del fornaio.

«Primo piano, sempre dritto, sesta porta. Consegna importante, eh?»

Rebecca non aveva capito cosa intendesse Jori con quel ''consegna importante'', né aveva colto l'allusione della sua smorfia sorniona. Però lo ringraziò di cuore e il ragazzo sembrò particolarmente contento di ricevere quel suo sorriso. Aveva ragione Myra, pensò Rebecca. Gli uomini sono spesso molto stupidi.

Rebecca attese, ma nessuno le aprì. Si avvicinò alla porta, posandovi un orecchio. Sentiva parlare distintamente, perciò era evidente che qualcuno si trovasse nella stanza.

A quel punto, si sentiva in difficoltà. Cosa avrebbe dovuto fare? Doveva bussare di nuovo? O forse piuttosto entrare? Nessuno le aveva detto cosa prevedeva l'etichetta di corte, in casi come quello: e lei era così tesa all'idea di non voler creare problemi già dal primo giorno, che se ne restò impalata, senza saper cosa fare.

Alla fine, prese coraggio e bussò una seconda volta, più forte. Che andasse pure come doveva andare, se veniva ripresa avrebbe trovato il modo di giustificare la sua inesperienza. O almeno sperava.

Questa volta non dovette attendere molto. Udì la voce di qualcuno farsi più chiara, insieme al suono di passi sempre più vicini. Quindi la porta si aprì.

«... comunque sia, io aspetterei a venderla. Non si sa mai che ti venga il desiderio di ritirarti in campagna, prima o poi».

Rebecca si inchinò, aspettando sulla soglia. Quando alzò gli occhi, vide il volto sorridente di un uomo sui sessant'anni, alto e distinto, dai capelli spruzzati di grigio e perfettamente pettinati con una scriminatura laterale. L'uomo si fece da parte, invitandola a entrare.

«Non stia sulla porta, la prego».

Rebecca arrossì. L'uomo indossava un'uniforme nera, con galloni dorati intorno al colletto rigido e mostrine di color rosso rubino alle spalle. La mancanza di onorificenze e la semplicità ed eleganza della sua uniforme dimostravano un rango elevato, di quelli che non necessitano particolari segni di riconoscimento esteriori.

Rebecca sistemò il carrello accanto al tavolo, in silenzio; quindi cominciò a sistemare le tazze e i piattini. Intanto, si guardava intorno. Lo studio era una piccola e graziosa stanza dalle pareti tinteggiate di un azzurro glauco, arredata a biblioteca e con un tavolo di velluto a lato, per il gioco delle carte. Al centro, vi si trovava un tavolino contornato da poltroncine in tinta con le pareti, dallo schienale in legno intarsiato, particolarmente graziose ed eleganti. Rebecca posò gli occhi sul profilo leggermente in ombra e distante dell'altro uomo che occupava la stanza. Le dava le spalle, mentre osservava qualcosa fuori dalla finestra, tenendo scostata con una mano la tenda di raso. Con l'altra reggeva un bicchiere colmo a metà di liquore ambrato, che lui agitava lentamente lasciando che si illuminasse ai raggi obliqui del sole. Rebecca era perplessa. Quell'uomo le ricordava qualcuno, ma non sapeva chi.

«Lei dev'essere nuova» fece l'uomo che le aveva aperto, accomodandosi in poltrona e fissando il volto teso di Rebecca. «Non credo di ricordarmi di lei...»

Rebecca fece per rispondere qualcosa, ma l'uomo che le dava le spalle la precedette.

«Dovresti smetterla con questa tua mania di intrattenerti con i domestici, Plutarco. La trovo volgare».

Rebecca alzò gli occhi, smarrita. Quella voce, l'aveva già sentita.

«Mio carissimo Atys, a volte riesci a renderti quasi odioso. Non so da chi tu abbia preso questa tua spocchia, ma di certo io non te l'ho insegnata».

L'uomo alla finestra scrollò le spalle, quindi tracannò l'ultimo sorso dal bicchiere che teneva in mano. Si voltò, e per la prima volta Rebecca riuscì a vederne distintamente il volto.

Si trattava di Atys Gorall, l'uomo che aveva rapito Nadia e l'aveva portata su Atlantide. Rebecca abbassò prontamente gli occhi, cominciando a tremare.

«Il fatto che siano domestici, non comporta il fatto che debbano essere trattati senza riguardo. Sono pur sempre uomini come noi» commentò Plutarco. Atys sbuffò.

«Sono esseri umani, non uomini. Questa gente è nata per servirci, e non ho tempo da perdere con loro. Parlare con loro sarebbe come mettersi a parlare con un animale».

Plutarco sospirò. Accavallò le gambe, portandosi le mani giunte alle labbra.

«E cosa diresti» fece, meditabondo «se ti dicessi che anche io sono uno di quegli animali

Rebecca sollevò un poco gli occhi. Poteva sentire la tensione presente nella stanza, mentre posava delicatamente i piattini sul tavolo. Per quanto cercasse di non far rumore, ogni suono che emetteva sembrava propagarsi come l'eco di uno sparo.

Alla fine, Atys scoppiò in una sonora risata.

«Già» fece, «davvero divertente».

«Poteri esserlo» insistette Plutarco, che sembrava divertito. «Magari lo sono. Sono un essere umano».

«Ammesso che tu lo sia» fece Atys, che dal tono di voce che aveva assunto sembrava voler concedere a Plutarco di stare al suo gioco, sebbene lo trovasse stupido «sei anche il mio patrigno. E servi Atlantide da tutta la vita. Questo ti renderebbe comunque diverso da ogni altra...»

«Ogni altra?»

«Feccia».

Rebecca si lasciò sfuggire un piattino, che cadde con un certo fragore sul tavolo. Plutarco le andò in soccorso, aiutandola a raccogliere le briciole di dolce che si erano rovesciate.

«Mi dispiace, io...» mormorò. Plutarco sorrise.

«Non deve preoccuparsi, non è successo nulla».

«Ora ti metti anche a fare il suo lavoro! Lascia che se ne occupi lei, no?»

Plutarco non prestò attenzione a quanto Atys stava dicendo. Finì di pulire il tavolo, quindi piegò il fazzoletto e lo posò di lato.

«Lascia che ti dica una cosa, figliolo» disse. «Il fatto che io sia il tuo patrigno, e che serva nell'esercito imperiale da più di quarant'anni, non mi rende di fatto migliore di chiunque altro. E anche se a te capita di dimenticarlo, io non posso dimenticarlo».

Atys fissò l'uomo senza dire una parola.

«E io non posso dimenticare quello che gli esseri umani hanno fatto alla mia famiglia» esalò. «Perciò, ti prego di non insistere con questa discussione, perché io non cambierò idea sugli esseri umani».

«In tutti questi anni non sono mai riuscito a mettere un freno a questo tuo odio sconsiderato» mormorò Plutarco, contrito. «Mi dispiace. Avrei dovuto fare di più».

«Tu hai fatto anche troppo. Ti sei preso cura di me quando non avevo più nessuno, e questo proprio a causa di quella feccia che tu continui a difendere. Quegli schifosi ribelli che rubano, bruciano, uccidono e stuprano, devastando tutto quello che incontrano. Tu non sai...»

«Io non so?»

«Tu non sai cosa ho visto!» ringhiò Atys. «Mentre tu sei qui a proteggere la nostra Regina da qualche... chiacchiera di palazzo, io sono là fuori, a proteggerla da chi la vorrebbe morta. La guerra è qualcosa di diverso dal fare da autista tra il Palazzo e la Camera di Consiglio!»

Plutarco tacque. Rebecca avrebbe voluto fare in modo di andarsene, ma non trovava il coraggio di muoversi. Continuò ad armeggiare sul vassoio, compiendo azioni senza senso, come ordinare le stoviglie sul carrello.

«Mi spiace che la pensi così» fece Plutarco, rassegnato. «La guerra va così male?»

Atys sospirò, contento che il suo patrigno avesse cambiato improvvisamente argomento.

«Sono passati mesi, ormai, da quando mi hanno messo a capo delle operazioni. Eppure, non sono riuscito a cavare un ragno dal buco».

«Nessuna notizia sui ribelli?»

Rebecca allungò sollevata a Plutarco una tazza di tè. Lui la ringraziò con un cenno.

«So che esiste un campo, ma non sono ancora riuscito a scovarlo. Il capo dei ribelli si nasconde ancora, e sembra che si sposti da villaggio in villaggio periodicamente. Ma trovare qualcuno disposto a tradirlo è praticamente impossibile. Quella dannata plebaglia sta tutta dalla sua parte».

«Sta portando loro una speranza» fece Plutarco, sorseggiando il tè. «A volte, la speranza è la cosa più importante di tutte».

«Dobbiamo fermarli, prima che cose come quelle che sono successe oggi dilaghino in tutto il paese». Atys fissò il patrigno. «La Regina si è finalmente convinta ad usare le Pietre?»

Rebecca ammutolì. Plutarco posò la tazza sul piatto.

«Dovresti chiederlo a lei» fece. «Onestamente, trovo che sarebbe un'ipotesi da scongiurare».

«Quindi preferiresti continuare così?»

«Se si tratta di scegliere tra distruggere in un secondo mezza civiltà di questo pianeta o continuare a lottare per ottenere la pace per via diplomatica, sì. Credo che non avrei dubbi».

Atys si rabbuiò. Rebecca lo fissò incuriosita, quindi incrociò casualmente il suo sguardo. Per un attimo i loro occhi si sfiorarono e lei si accorse troppo tardi che lui si era messo a fissarla. Pur nella penombra, sembrava che lui avesse colto nel suo volto qualcosa di familiare.

«Tu» mormorò «ho come l'impressione di averti già visto...»

Rebecca si irrigidì. Fece per indietreggiare, ma Atys si avvicinò deciso e la trascinò alla luce. Quindi le afferrò il mento e la costrinse a guardarlo negli occhi.

«Dimmi, dov'è che ti ho già visto?» sussurrò. Rebecca fissò in silenzio i suoi occhi gelidi, che vagavano incerti sul suo volto, scrutandola avidi come alla ricerca di un particolare a cui appigliarsi. Poi, Plutarco mise fine all'angoscia di Rebecca, liberandola dalla presa di Gorall.

«Atys, ora basta» intervenne Plutarco. «Stai diventando paranoico».

Atys parve come risvegliarsi. Fissò il suo patrigno, che gli teneva la mano sulla spalla e lo guardava preoccupato. Quindi lasciò andare Rebecca, che per poco non si sentì svenire.

«Hai ragione» fece Atys. «Non so cosa mi stia prendendo. Ormai vedo nemici ovunque».

Plutarco ammiccò a Rebecca, che si allontanò.

«Manda via questa serva» fece Atys brusco, rivolgendosi al suo patrigno e versandosi dell'altro liquore, che trangugiò d'un fiato. «Sono stanco, e voglio parlare un po' con te da solo».

Plutarco, in piedi a poca distanza da lei, le indicò la porta con un cenno torvo del capo.

Rebecca si sollevò silenziosamente, quindi agguantò il carrello e inforcò l'uscita, gettando un'ultima occhiata di sfuggita ai due. Li vide avvolti dalla penombra, mentre le davano entrambi le spalle. Erano vicini, ma sembravano per qualche ragione incredibilmente lontani tra loro. Poi la porta si chiuse, e Rebecca si ritrovò di nuovo sola, nel corridoio, lontana da tutti. Era stata davvero a un passo dalla morte, ed era riuscita in qualche modo a scamparla. Ma ancora faceva fatica a rendersene conto.

 

 

*

 

 

Rebecca riconsegnò il carrello, carico di stoviglie sporche. Ancora provata, si diresse verso le cucine, slacciandosi il grembiule e la cuffia. Qualcuno le lanciò un'occhiata malevola, così lei si allontanò in fretta, sgusciando via lungo la parete. Quando finalmente fu all'esterno, e la fresca aria della sera che si respirava nel piccolo cortile interno del magazzino l'avvolse facendola rabbrividire piacevolmente, lei realizzò per la prima volta quanto fosse stanca. Non era tanto per il lavoro, che non le era certo mancato; quanto piuttosto per le emozioni che aveva dovuto provare. Incontrare Atys, correre il pericolo di essere riconosciuta e imprigionata e di non poter più ritrovare Marie... Tutto questo l'aveva letteralmente prosciugata, tanto da lasciarla con l'energia appena sufficiente a reggersi in piedi.

Era stata fortunata. Per qualche ragione, Atys sembrava non ricordarsi di lei. Erano passati mesi, è vero; e non avevano mai avuto un vero e proprio confronto diretto. Tuttavia, Rebecca sentiva che era stata davvero fortunata. Non ci teneva a ripetere una simile esperienza, e da quel giorno in avanti avrebbe fatto bene a stare molto attenta.

Era stato anche merito di quell'uomo, Plutarco, se l'aveva scampata. Se non fosse intervenuto a distrarre Atys, questi con ogni probabilità sarebbe riuscito a ricordarsi di lei. E allora le cose sarebbero andate in modo molto diverso.

«Sei qui! Ti ho cercato dappertutto!»

Rebecca si volse. Myra era sulla soglia, ferma, che la fissava sorridente; quindi la ragazza varcò l'uscio e la raggiunse, mettendosi al suo fianco e stirandosi, traendo un profondo respiro. Rebecca la vide frugare nelle tasche del grembiule, da dove tirò fuori due pesche. Ne offrì una a Rebecca, che la addentò avida. Era dolce e succosa. Rebecca sentì la polpa che le si scioglieva in bocca e mugolò di piacere.

«Dovevi avere fame, vero?» chiese Myra, mordendo la pesca. Rebecca sorrise.

«Un po'».

Tacquero entrambe. Quindi Myra rivolse a Rebecca un'occhiata interlocutoria.

«Ho provato a cercare in giro» fece. Rebecca drizzò le orecchie. «Mi spiace, ma per il momento non sono riuscita a trovare niente. Sto ancora pensando a un modo per farti entrare negli alloggi degli ufficiali, ma ci vorrà del tempo. Spero che tu non abbia fretta».

«Vorrei fare presto» commentò Rebecca. Myra inarcò un sopracciglio.

«Pure? Ho capito, come non detto...»

Rebecca succhiò il nocciolo, quindi lo gettò nell'erba. Myra fece altrettanto, pulendosi le mani nel grembiule.

«Domani vedrò cosa posso fare. Per il momento, però, tu continua a non farti notare. Se vogliamo che il piano funzioni, bisogna portare pazienza. Lo capisci?»

Rebecca annuì, sebbene poco convinta.

«Vieni» sorrise Myra, ammiccandole. «È avanzata della roba che ci possiamo dividere».

Rebecca seguì Myra in cucina, dove prima di smontare dal turno i domestici e gli inservienti si divisero tra loro quanto avanzato quel giorno. Ognuno aveva diritto a una parte in base al suo rango, ma sorprendentemente a Rebecca capitò molto più di quanto avesse immaginato. In un fagotto riuscì infatti a infilare mezza dozzina di mele e altrettante pagnotte, più una mezza forma di formaggio.

Myra e Rebecca si allontanarono insieme, dandosi appuntamento a palazzo per il giorno seguente. Myra consegnò a Rebecca il passi da mostrare alle guardie; poi, una volta fuori dai cancelli, si allontanò salutandola. Rebecca fece altrettanto, voltando le spalle e immergendosi nei luminosi viali che si aprivano di fronte alla Reggia.

Dopo qualche centinaio di metri, Rebecca lasciò i viali del centro, diretta al mercato. La strada verso quella che Rebecca poteva chiamare ''casa'' era come sempre buia, e completamente deserta. Il quartiere del mercato la notte era tranquillo, perché pattugliato da cima a fondo dalla gendarmeria, che teneva d'occhio i vari negozi e agenzie commerciali che si trovavano lungo gli ampi viali ombreggiati, che di giorno suscitavano sempre una certa emozione caratteristica. Rebecca sbadigliò, infilando una stradina che si dipartiva dalla strada principale, e che costeggiava l'edificio dell'arena. Delle scale ripide e consumate conducevano ad un anfratto sotto il livello della strada. Rebecca vi si infilò, raggiungendo una porta sudicia. Busso due volte, attese, quindi bussò una terza. A quel punto, la porta si apri.

«Fatto tardi, oggi» le disse una voce pungente. Rebecca annuì, svogliata.

«Sono stata a palazzo» mormorò. «Sono riuscita a entrare».

La porta si richiuse con un cigolio, e l'uomo che l'aveva aperta, un tipo massiccio e dalla testa completamente rasata, poco più basso di Rebecca, le trotterellò dietro.

«Quindi hai avuto fortuna?»

Rebecca sorrise. Vide che l'uomo fissava curioso il fagotto che lei teneva tra le braccia e lei glielo porse.

«Cibo dalla cucina» fece. «Possiamo dividere».

«Fantastico!»

L'uomo strinse il fagotto e galoppò via avanti a lei, voltandosi a sorriderle. Dalle labbra fuoriuscirono dei denti sghembi e sbeccati, ma stranamente bianchissimi.

«Speriamo sia roba buona» gridò, allegro. Rebecca ammiccò.

«Tutta buona, Hatto».

Rebecca udì i passi di Hatto e le sue risate risuonare lungo le scale che conducevano agli alloggi degli ''atleti''. Ufficialmente, le gare di lotta erano state bandite dalla nuova Regina, che aveva chiuso l'arena perché considerava quegli spettacoli troppo violenti; ma la lotta nelle arene era una tradizione, ad Agarthi, e nonostante il divieto continuava a vivere in clandestinità. Hatto era il responsabile degli atleti. Un gruppo di mercanti senza scrupoli gli affidava schiavi acquistati al mercato di superficie, che lui doveva allenare e preparare ai giochi, in segreto. Spesso le gare si tenevano all'esterno, per evitare guai con la gendarmeria, oppure in qualche locale segreto nei bassifondi della città. Anche Hatto continuava a vivere nell'arena in clandestinità, allenando gli atleti che gli venivano inviati sotto la protezione discreta dei potenti della città.

Rebecca aveva conosciuto Hatto e sua moglie per caso, otto mesi prima. Li aveva incontrati mentre vagava al mercato, smarrita: e quando loro avevano capito di trovarsi di fronte a una straniera senza un soldo, affamata e sola, le avevano offerto il loro aiuto. Rebecca non sapeva se fidarsi di quell'uomo strano, basso, tarchiato e pieno di muscoli, dall'aspetto simile a quello di un orso e dal muso di un porcospino. Ma non aveva scelta. Era sola, e se non avesse accettato il suo aiuto, probabilmente avrebbe rischiato di morire di fame, o di essere imprigionata o aggredita. E poi, qualcosa nei modi inaspettatamente gentili di Hatto e della sua consorte l'aveva convinta che non aveva nulla da temere. Loro le avevano offerto un luogo dove stare, e in cambio lei doveva pulire e preoccuparsi dei pasti per ''gli atleti''. Un'occupazione che, nonostante tutto, a Rebecca riusciva piuttosto bene.

La cucina di Rebecca era famosa per non essere gradevole agli occhi, ma gustosa al palato. C'era di buono che quella gente buttava giù di tutto, senza stare troppo a soffermarsi sull'aspetto. Affamati com'erano, avrebbero divorato qualsiasi cosa, purché commestibile.

Rebecca raggiunse le stanze di allenamento, dove sui pagliericci stavano distesi cinque o sei robusti giovanotti. Erano tutti allegri e quando videro Rebecca la salutarono con grida di esultanza. Rebecca rispose al loro saluto sorridendo. Evidentemente erano molto contenti di quello spuntino inaspettato.

«Tieni, danne un po' a quelli nuovi» fece Hatto, mettendole tra le mani due pagnotte e due mele e indicandole un angolo della stanza. Rebecca fissò le due sagome che si intravedevano al buio.

«Nuovi?» chiese. «Quando sono arrivati?»

«Li hanno portati oggi» rispose Hatto. «Sono forestieri, come te. Non so da dove vengono, ma non sono messi bene».

Rebecca si avvicinò ai due. Li sentì tossire e vide che erano troppo stanchi persino per alzare la testa. A vederli così, provò una fitta di compassione.

«Tenete» mormorò, chinandosi e porgendo loro il pane e le mele. «Sono per voi».

Uno dei due alzò lentamente la testa, mentre l'altro continuava a dormire. Quindi, dopo un istante, allungò la mano e afferrò la pagnotta.

«Thanks, sister».

Rebecca impallidì. Per poco non lanciò un grido, portandosi le mani alle labbra.

«Non può essere» fece. «Tu...»

L'uomo nell'ombra si riscosse. Tossì, agitandosi, quindi si fece largo fino alla luce.

«Rebecca?»

Rebecca fissò incredula il volto di quell'uomo, quindi scoppiò in lacrime. Hatto, richiamato dal quel suo pianto improvviso, accorse immediatamente, preoccupato che le fosse successo qualcosa. Quando vide che Rebecca piangeva tra le braccia del nuovo arrivato, stringendosi a lui, li fissò entrambi perplesso.

«Lo conosci?» chiese.

«Sì, lo conosco» rispose Rebecca, tra i singhiozzi. «Lui è Sanson! Ho ritrovato il mio Sanson!»

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Capitolo 14
*** 12 ***


12

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La notte aveva lasciato spazio a un nuovo giorno, e il giorno a una nuova notte. Jean alzò gli occhi sugli ultimi bagliori di porpora che il sole lanciava all'orizzonte: ancora pochi istanti e il buio, che già incalzava alle sue spalle, sarebbe disceso su ogni cosa, avvolgendo il mondo nel suo velo denso e uniforme.

Esausto, si appoggiò a una roccia, che si ergeva come uno scoglio solitario in un mare di sabbia e detriti. Era tutto il giorno che camminava, da quando aveva incontrato quel ragazzino e il suo compagno nei pressi di quelle immense grate, che si aprivano come misteriose bocche nel deserto. Aveva vagato per ore, alla disperata ricerca di quella città che, se non aveva frainteso del tutto le spiegazioni del ragazzo, avrebbe dovuto trovarsi da qualche parte, verso sud. Ma per quanto avesse camminato, e per quanto si fosse sforzato di mantenere la giusta direzione, di città, Jean, non ne aveva vista nemmeno l'ombra.

Forse aveva davvero capito male, e quel ragazzo non aveva mai parlato di una città. Era più che plausibile: di tutto quello che il ragazzo gli aveva detto, Jean era riuscito a capire chiaramente solo una parola. Forse l'aveva semplicemente immaginato, spinto dal desiderio di trovare finalmente una via di scampo da quel maledetto deserto.

Oppure, molto più semplicemente, quel ragazzino si era preso gioco di lui.

No, questo non può essere.

Jean strinse la fune della tanica che portava a tracolla. Era qualcosa di reale, come l'acqua che aveva continuato a bere a piccolissimi sorsi per tutta la giornata. Se quel ragazzo gli aveva donato qualcosa di così prezioso, per quale ragione avrebbe poi dovuto ingannarlo? Non aveva alcun senso. Quella città esisteva, doveva esistere: si trattava solo di continuarla a cercare, e di avere la forza per farlo.

Jean sfruttò l'ultima luce del sole per osservare meglio il paesaggio. Chilometri di sabbia e rocce, in un susseguirsi di dune e muraglioni di pietra, tutti uguali tra loro. Nessun sentiero, nessuna traccia da seguire. Anche con una cartina alla mano, evitare di perdersi in un luogo come quello sarebbe stato quasi impossibile.

Individuò un pianoro, poco più in basso, circondato da alcuni spuntoni di roccia bruna che si levavano dritti verso il cielo, rigidi e silenziosi come la cresta di un drago sepolto. Accesi dalla luce obliqua del sole, conferivano a quel luogo desolato un aspetto quasi lunare. Per quanto non fossero altissimi, sembravano comunque adatti a fornire un riparo dal gelido vento che di notte spazzava violentemente le dune.

Jean immaginò che difficilmente avrebbe trovato qualcosa di meglio. Se non voleva farsi sorprendere dalla notte nel bel mezzo del nulla, avrebbe fatto bene ad accontentarsi.

Comunque, anche volendo non ce l'avrebbe fatta a continuare. Era sfinito. I muscoli, ormai allo stremo per il caldo e la fatica sopportati durante il giorno, non rispondevano più ai suoi comandi. Ogni movimento gli costava una fatica immane: persino alzare un braccio, gli strappava dal volto una smorfia sofferta. Era davvero arrivato il momento di riposarsi.

Jean si decise a scendere. Aveva appena mosso un passo, però, che i piedi gli sdrucciolarono. A causa del buio non si era accorto che il fondo era ricoperto di ciottoli levigati e sottili, quasi fossero stati modellati da un intenso calore, o dal vento insistente. Cercò di riacquistare l'equilibrio, ma il terreno sotto i suoi piedi continuava a franare, trascinandolo sempre più giù. Alla fine, Jean si abbandonò all'inevitabile: ruzzolò a terra, scivolando per qualche metro prima di riuscire a fermarsi. Quando finalmente ritrovò la stabilità, si risollevò lentamente, mettendosi a sedere.

In qualche modo, era comunque riuscito a scendere.

Si tastò in giro. Fortunatamente, aveva rimediato solo una sbucciatura alle braccia e qualche graffio al volto. Sarebbe potuta andare molto peggio, per esempio si sarebbe potuto rompere una gamba, o slogarsi una caviglia. Il che, nelle sue condizioni, avrebbe significato una morte certa.

Era stato fortunato, ma i suoi problemi, comunque, erano solo all'inizio. Ce n'era uno, soprattutto, che lo preoccupava. E cioè che gli si prospettava una notte gelida, senza che lui avesse nulla con cui coprirsi.

Era stato uno stupido, a camminare fino all'ultimo. Avrebbe dovuto cercare un riparo molto prima, e attendere la notte senza continuare a vagare inutilmente sotto il sole. Almeno, non si sarebbe trovato ad affrontare il gelo con i vestiti completamente fradici di sudore. Se solo avesse potuto accendere un fuoco...

Jean avvertì la sete farsi pungente, quindi si sfilò dalle spalle la tanica che il ragazzino gli aveva donato. La soppesò. Era quasi vuota e questo rappresentava un altro problema. Aveva razionato il contenuto in parti uguali, limitandosi a bere a intervalli regolari lungo l'intero arco della giornata; e questo nonostante la sete terribile che gli aveva seccato la gola. Ora gli restavano non più di tre sorsate. Quattro, se avesse provato a tener duro ancora per un po'. Ma era difficile che il suo corpo esausto, affamato di acqua e di cibo, riuscisse a trattenersi.

Jean stappò la tanica. Al suo interno, l'acqua emanava un disgustoso odore stagnante, ma in quel momento gli sembrava quanto di più buono ci fosse al mondo. Ne bevve un sorso, quindi si sforzò di staccare le labbra. Per qualche istante, il senso di rassegnazione che l'aveva accompagnato per tutto il giorno tornò a pungerlo, spingendolo a desiderare di finire in una volta sola tutta l'acqua che ancora gli restava, e placare così l'arsura che lo divorava. Perché soffrire la sete, se risparmiare sull'acqua non gli sarebbe servito comunque a nulla? In fondo, il suo non era che il vano tentativo di rimandare di qualche ora un inevitabile destino.

Jean scacciò quei pensieri negativi, tappando la tanica e rimettendosela a tracolla, senza più guardarla. Non aveva intenzione di arrendersi adesso, non dopo tutto quello che aveva fatto per arrivare fin lì. Invece di commiserarsi inutilmente, avrebbe fatto meglio a rimanere lucido, e a studiare per bene la sua situazione. Alzò gli occhi su quanto aveva intorno, per cercare di organizzarsi in vista della notte. Come temeva, non trovò nemmeno un arbusto, non un pezzo di legno secco. Non c'era nulla, lì vicino, che potesse servirgli, e niente che facesse pensare a una qualche forma di vita. Solo roccia e sabbia. E il cielo infinito, sopra di sé.

Ma davvero Nadia è venuta fin qui... solo per questo?

Jean rinunciò a capire. Era troppo stanco. Per quella notte ancora, avrebbe fatto in modo di resistere, come poteva. Fece per distendersi e prepararsi così a trascorrere le ore gelide che lo separavano dal mattino, quando in lontananza risuonò un grido improvviso. Fu un grido terribile, che squarciò la notte levandosi alto e stridente, come il suono di una lama che incida del ghiaccio. Pochi istanti dopo, a quel grido ne rispose un altro più vicino, e poi un altro ancora, che Jean udì risuonare alle sue spalle.

Non era nulla di buono.

Nervoso, prese a scrutare la notte densa attorno a sé. Di qualunque cosa si trattasse, l'impressione era che lo stessero lentamente accerchiando.

Cercò di mantenere la calma. Non doveva farsi prendere dal panico. Forse si stava preoccupando per niente.

O forse no.

Continuò a scrutare nel buio, finché non intravide una sagoma scura materializzarsi improvvisamente sulla sommità di una duna, dietro di sé. Due lampi argentei bucarono la notte, risplendendo fissi e vicini come due piccole e gelide stelle. Immobili, puntavano dritto verso di lui. Jean impallidì. A poca distanza, un altro di quegli esseri si stagliò nel buio, piantando su di lui i suoi occhi di brace.

Proprio come temeva. Era circondato.

Jean studiò le fattezze di quegli esseri. Non sembravano lupi, erano troppo grossi. E nemmeno iene. Non sapeva con esattezza di cosa si trattasse, ma l'aspetto di quelle bestie non era certo rassicurante.

Si guardò attorno, alla disperata ricerca di qualcosa con cui difendersi. Non aveva nulla, con sé, né un bastone, né un coltello. Una di quelle bestie prese a muoversi in cerchio, sulla cresta della duna, come se avesse intuito di trovarsi di fronte a una preda disarmata. Continuava a fissare Jean, quasi a volerlo ipnotizzare, mentre ondeggiava in modo sghembo sulle sue zampe smagrite. Jean restò immobile a fissarlo, senza reagire, come pietrificato dalla paura. Poi, di nuovo, un grido straziante risuonò nella notte, questa volta così forte e tagliente da incidere quasi la carne.

Per Jean fu sufficiente a riprendersi. Ritrovò la lucidità e le energie necessarie per pensare a qualcosa. A causa dell'ansia le idee gli si affollavano in testa, sovrapponendosi in modo indistinto una sull'altra; ma riusciva comunque a districarsi tra esse, mantenendo quel filo sottile, legato all'istinto, che sentiva affiorare dietro l'irrazionalità della paura.

Tentando di mantenere la calma, si sfilò la tanica e si mise in cerca di una pietra affilata, a punta. Mentre tastava a caso il suolo di sabbia e rocce, alzò gli occhi sul buio che aveva di fronte. Ormai non vedeva più nulla: la notte era quasi completamente scesa, intorno a lui, avvolgendo fittamente ogni cosa. Gli parve comunque di scorgere un'ombra che si agitava. Aguzzò gli occhi: sgomento, si rese conto che una di quelle bestie aveva cominciato a muoversi lenta verso di lui.

Jean ebbe un tuffo al cuore. L'attacco era cominciato. Non aveva un minuto da perdere.

Cercò disperatamente. Continuava a raccogliere e a scartare le pietre che trovava. Nessuna era simile a quella che stava cercando.

Avanti! Avanti, dannazione!

Cominciò a udire il rumore sordo della sabbia e delle pietre smosse dalle zampe pesanti di quegli animali. Jean trasalì. Quegli esseri dovevano essere enormi, molto più grossi di quanto avesse in un primo momento immaginato. Doveva assolutamente impedire che gli si avvicinassero troppo, o sarebbe stata la fine.

Finalmente, trovò quello che stava cercando. Una pietra lunga e appuntita, non troppo grossa e facile da tenere in mano. Jean la afferrò saldamente e lanciò un'ultima occhiata alle bestie che si stavano avvicinando. Erano ancora distanti, e sembravano avanzare con estrema cautela. Probabilmente, lo stavano ancora studiando.

Questo gli avrebbe dato un vantaggio, anche se forse sarebbe stato l'ultimo. Valeva comunque la pena tentare.

Jean passò la mano sulla tanica. Era realizzata in un materiale metallico simile all'alluminio, leggero ma resistente, facile da modellare. Senza pensare a cosa ne sarebbe stato di lui senz'acqua, Jean vuotò a terra il contenuto della tanica; quindi alzò la mano, e stringendo saldamente la pietra, l'abbatté con violenza contro il barilotto.

Ci fu un suono sordo. Ma, al di là di questo, non accadde nulla.

Mosso dalla disperazione, Jean ritentò. Stavolta, la pietra gli sfuggì e lui si ferì alla mano.

«Al diavolo!»

Le bestie erano sempre più vicine. Jean sentì che non avrebbe avuto altre occasioni. Era il momento: non poteva più permettersi di fallire.

Strinse forte la pietra, quindi la abbassò deciso sul barilotto. Stavolta, la superficie liscia della tanica cedette e la punta dura della pietra vi si conficcò, aprendovi un foro. Jean lo allargò e ripeté la stessa operazione più volte, in altri punti.

Le bestie erano ormai a poche decine di metri da lui, e ora riusciva a distinguerle bene. Erano tre, e l'avevano accerchiato. Simili a grossi cani, lanciavano un ringhio basso e sinistro, mentre avanzavano con le orecchie schiacciate all'indietro, i muscoli tesi. Jean si alzò lentamente in piedi. Infilò la pietra in tasca, deciso a tenerla come ultima difesa. Quindi strappò un'estremità della fune dal barilotto e la impugnò saldamente, facendosi forza nel raccogliere tutto il coraggio che ancora gli restava.

Non sapeva se avrebbe funzionato. Era stato l'istinto a guidarlo: tempo prima, aveva visto fare una cosa simile ad Atahualpa, per allontanare i serpenti. E lui ne aveva sfruttato l'idea.

Solo che, questa volta, non si trattava di scacciare dei semplici serpenti.

Jean cominciò a far roteare il barilotto, tenendolo per un'estremità della fune. In un primo momento non accadde nulla; poi, man mano che il barilotto acquistava velocità, l'aria che passava attraverso i fori sulla superficie cominciò a produrre un debole ronzio, sempre più forte una volta che questo accelerava. Jean strinse i denti, chiamando a raccolta le sue energie e cercando di far ruotare il barilotto il più velocemente possibile.

Con sollievo, vide gli animali fermarsi. Lo fissavano perplessi, o incuriositi; sembrava comunque che quel rumore improvviso fosse riuscito a bloccarli.

Jean sapeva che quella calma improvvisa non sarebbe durata per molto. Si guardò attorno, in cerca di una via di fuga. Cominciò a indietreggiare, lentamente. La bestia che aveva alle sue spalle si scostò, lanciando un ringhio basso e sinistro. Fissava Jean con attenzione, minacciosa, come se fosse pronta a balzargli addosso alla minima opportunità. Jean si fece coraggio, e continuò a indietreggiare. Era riuscito ad aprirsi un varco, ma dove sarebbe andato? Quegli animali erano affamati almeno quanto lui, se non di più. Sapevano bene che la loro preda non avrebbe potuto fuggire per sempre. E Jean sapeva bene che non avrebbe potuto continuare a mulinare per sempre quella tanica. Erano i suoi muscoli indolenziti a dirglielo.

Cominciò a muoversi all'indietro, a passi sempre più lunghi. Talvolta il ronzio che lanciava il barile si faceva più tenue; e allora quelle bestie riacquistavano coraggio e riprendevano ad avanzare. Jean represse un'imprecazione. Stava solo rimandando l'inevitabile.

Improvvisamente, il barile urtò contro qualcosa: lanciò un rumore sordo, un attimo prima di cadere a terra. Jean si voltò, smarrito. Era finito senza volerlo in un vicolo cieco. Alle sue spalle si innalzava una parete di roccia, non troppo alta, ma sufficiente a bloccare ogni sua via di fuga. Jean provò a risollevare il barile, ma le bestie avevano riacquistato coraggio e si erano ormai fatte molto vicine.

Non aveva più spazio. Non sapeva come fare a roteare il barile, e senza di esso non avrebbe avuto più alcuna speranza di uscire vivo da quella situazione.

Era la fine. Jean abbandonò le braccia lungo i fianchi, quindi lasciò andare la fune che ancora teneva in pugno. Il barile rimase a terra ai suoi piedi, inerte. Jean strinse la mano attorno alla pietra che portava in tasca, deciso a dare battaglia; quindi la estrasse, serrando i denti. Gli animali lo fissavano, bramosi. Cessarono improvvisamente di ringhiare, quasi fossero consapevoli che la lotta era finita. Avevano vinto, o quasi. Qualcuno di loro avrebbe forse riportato una leggera ferita, ma il pasto era assicurato, almeno per quella notte.

Jean tese i muscoli, spostando gli occhi da una all'altra delle tre bestie, chiedendosi quale di esse l'avrebbe attaccato per prima. Se voleva guadagnare tempo, pensò, non avrebbe dovuto aspettare che fossero loro a scagliarsi su di lui. Doveva attaccare per primo, e cercare di ferirne duramente almeno una. Poi...

Probabilmente, non ci sarebbe stato un poi. Ma, almeno, avrebbe venduto cara la pelle.

Una delle bestie scattò, bruciando Jean sul tempo. Preso alla sprovvista, il ragazzo indietreggiò istintivamente, rovinando a terra. Batté la testa contro la roccia dura dietro di sé e lo sguardo gli si annebbiò. Riuscì in qualche modo ad alzare la mano con cui stringeva la pietra, ma il dolore alla testa l'aveva completamente disorientato. Gli occhi gli si chiudevano, nonostante lottasse con forza per tenerli aperti. Stava già per abbandonarsi alla fine, quando la bestia che si era lanciata contro di lui deviò improvvisamente la sua traiettoria, finendo scaraventata contro la roccia. Lanciò un guaito, accucciandosi nel buio. Quindi, un'ombra si fece avanti torreggiante, frapponendosi tra il corpo di Jean e quegli animali. Lui udì un nitrito quasi selvaggio e uno scalpiccio pesante di zoccoli. Fu l'ultima cosa che vide, prima di cadere privo di sensi.

 

 

*

 

Da qualche parte giungeva una voce sommessa, simile a un mormorio. Si faceva strada lentamente, risuonando lieve come una morbida melodia, anche se piuttosto confusa. Ma era comunque molto dolce.

Jean aprì gli occhi. C'era qualcuno, accanto a lui. Si trattava di una ragazza, e stava davvero cantando tra sé, a bassa voce.

Quindi, pensò, sono ancora vivo.

Ricordava di aver riacquistato i sensi per qualche istante, e di aver vagamente udito la voce calda di qualcuno mormorare una canzone. Ricordava anche l'odore forte e il movimento ondeggiante di un cavallo, sotto di sé, prima di svenire di nuovo.

Una mano calda e sottile gli toccò delicatamente la fronte, scendendogli poi dolcemente lungo la guancia. Jean assaporò quel tocco delicato, chiudendo gli occhi e assaporando il refrigerio che lei gli procurava tamponandogli la fronte con un panno umido. Quando lui alzò gli occhi a guardare la ragazza, questa si irrigidì, ritraendo immediatamente la mano.

«Ti sei svegliato».

Jean sbatté le palpebre, lasciando che gli occhi la mettessero lentamente a fuoco. Non la vedeva bene, ma poteva comunque scorgere la sua pelle liscia e scura, gli occhi che brillavano al buio, ancor più accesi alla pallida luce che splendeva debole da un angolo remoto della stanza. Sospirò. I capelli che incorniciavano scuri quel suo volto dall'aspetto delicato, sfioravano il suo collo e il suo petto, solleticandolo. Quando la ragazza gli si avvicinò, chinandosi su di lui per scrutarne l'aspetto, Jean avvertì un dolce sentore di mandorla sprigionarsi dalle mani e dal corpo di lei, che lo avvolse completamente.

«Nadia?» mormorò. La ragazza non rispose. Si sollevò da lui e intinse di nuovo il panno in una bacinella. Lo strizzò, quindi glielo posò sulla fonte.

«Se sei Nadia, devo essere in paradiso» scherzò Jean, intuendo che non poteva trattarsi realmente di lei. Avrebbe dato qualsiasi cosa, perché fosse così. Ma non era così.

La ragazza lo fissava in silenzio, rivolgendogli uno sguardo enigmatico. Evidentemente, non capiva una parola di quanto lui le stesse dicendo. Jean si ammutolì, quindi si portò una mano alla nuca. Gli doleva ancora.

«Dove mi trovo?» mormorò. Si guardò attorno. Gli sembrava di essere in una specie di tenda, simile a quella di un circo. Era arredata con mobili semplici ma decorosi ed era decisamente spaziosa. Al suo interno c'era un dolce tepore, e aleggiava vagamente una fragranza fresca, floreale.

Incuriosito, Jean fece per alzarsi; ma la ragazza premette le mani aperte sul suo petto, costringendolo delicatamente a rimettersi supino. Fu solo allora che si rese conto di essere nudo. Abbassò gli occhi e vide che indosso aveva solo un panno di lino, a coprirgli le parti intime.

Lui guardò la ragazza, avvampando. Ora che la vista non era più annebbiata, riusciva a distinguerne chiaramente i contorni del volto e i lineamenti del corpo. Era una bella ragazza, di non più di quindici o sedici anni. Aveva la carnagione scura, proprio come quella di Nadia. Portava i capelli lunghi, che aveva raccolto frettolosamente sulla nuca e che ora le ricadevano sulle spalle in modo disordinato, ma che donavano al suo volto una nota fresca e spontanea. Jean notò che era davvero molto bella, nonostante il naso forse un po' troppo grosso e leggermente incurvato, che però conferiva al suo volto una certa personalità. Gli occhi, di un verde intenso e brillante, erano affusolati, ornati da lunghe ciglia scure e sormontati da sopracciglia arcuate e sottili, eleganti, quasi fossero dipinte.

Jean la fissò senza sapere cosa dire. Provò a pensare a qualcosa, ma quella semplice azione gli bastò a procurargli una dolorosa fitta alla testa.

«Dovresti riposare» la sentì dire. Aveva una voce pastosa, morbida. Sorrideva, pur mostrando verso di lui un certo imbarazzo.

Jean non capiva cosa gli avesse detto, anche se poteva intuirlo. Non voleva che si alzasse.

Non era un problema, visto che faceva fatica persino a muovere un muscolo. E poi, non poteva certo mettersi ad andare in giro senza vestiti.

In quel momento, qualcuno entrò nella tenda. Jean vide che si trattava di un uomo, piuttosto giovane, forse della sua stessa età. Entrò deciso, come se si trovasse a casa propria: quando si accorse che Jean era sveglio, si fermò improvvisamente, restandosene in piedi sulla soglia a fissarlo. Jean pensò che anche lui doveva sembrare molto affascinante: alto e dal fisico asciutto, aveva la carnagione ambrata come quella della ragazza, anche se forse ancora più scura. Gli occhi però erano diversi: neri e luminosi, molto profondi, ardevano come due astri incastonati tra gli zigomi alti e pronunciati. Una barba folta e ricciuta gli ornava elegantemente la mascella forte, conferendo al suo volto un aspetto ancor più giovanile ed energico. Portava i capelli raccolti in una treccia sottile, che gli girava attorno alla nuca.

«Si è svegliato» disse, spostando gli occhi da Jean alla ragazza. «Come sta?»

«Sembra piuttosto bene, anche se è presto per dirlo» disse lei, rivolgendosi all'uomo senza curarsi minimamente della presenza di Jean, lì con loro. Probabilmente, aveva intuito che non avrebbe mai potuto capire i loro discorsi.

«Ha detto qualcosa?» fece il giovane, avvicinandosi a Jean e chinandosi accanto a lui. La ragazza nicchiò.

«Solo un nome, mi sembra».

L'uomo aggrondò. «Un nome?»

«Non sono sicura, ma credo abbia detto ''Nadia''».

Il giovane fissò Jean.

«Potrebbe essere la sua compagna» suggerì lei, abbassando la voce improvvisamente. «Hai notato nessun altro, dove l'hai trovato?»

Il ragazzo scosse la testa, mesto. Quindi si chinò sul volto di Jean, sorridendo amabilmente.

«Come va?» chiese. Jean, vedendolo sorridere, immaginò che gli avesse chiesto della sua condizione. Annuì, ricambiando debolmente il sorriso.

«Sto bene» fece. «Grazie».

Il ragazzo aggrottò leggermente, mentre ascoltava quella lingua sconosciuta.

«Riposati» disse, posando a Jean una mano sul braccio. Era forte, e nodosa. «Qui sei al sicuro».

Jean si rilassò. Inutile tentare di comunicare, almeno per il momento. Era troppo stanco. Perciò, chiuse gli occhi e voltò la testa, abbandonandosi al sonno.

«Tienilo d'occhio» disse il giovane alla ragazza. «Se dovesse svegliarsi e dire qualcosa, chiamami subito. Per ogni evenienza, ti lascio qualcuno qui fuori».

«Va bene» fece lei. «Grazie, Kirda».

Lui le ammiccò, e si alzò in piedi. Si voltò un istante sulla soglia, a guardare prima Jean e poi la ragazza, che era ritornata ad accudirlo. Quindi, senza aggiungere una parola, uscì.

 

 

*

 

 

Il mattino seguente, Jean fu svegliato dalle grida allegre dei bambini e dal rumore sordo della folla, che si spingeva fin dentro la tenda.

Stava molto meglio. La testa gli doleva ancora, ma non aveva più grosse fitte. Si sollevò a sedere, guardandosi attorno: sembrava che la ragazza se ne fosse andata, lasciandolo lì da solo.

Lentamente, cercò di alzarsi in piedi. Era ancora senza vestiti, ma vide che qualcuno aveva lasciato degli abiti piegati ordinatamente, a fianco al suo giaciglio. Jean li prese e li spiegò, tenendoli tra le mani. Erano molto semplici, e probabilmente erano passati attraverso diverse mani, prima di finire tra le sue. Ma erano puliti e sembravano della sua misura: chi li aveva scelti, dimostrava di possedere un certo occhio per quelle cose.

Jean si slacciò il panno di lino che teneva avvolto attorno al bacino e fece per infilarsi i pantaloni. Aveva i muscoli ancora intorpiditi e faceva fatica a muoversi, perciò un piede gli si impigliò maldestramente nei calzoni, rischiando di fargli perdere l'equilibrio. Istintivamente, Jean lasciò andare i pantaloni, che caddero a terra lasciandolo completamente nudo.

In quel momento, la ragazza fece il suo ingresso nella tenda. Entrò sbadigliando, gli occhi chini, reggendo un secchiello d'acqua insieme a quelli che sembravano gli indumenti di lui, appena lavati. Quando alzò lo sguardo e si ritrovò davanti Jean, in piedi e senza alcun vestito addosso, la ragazza lanciò un grido soffocato e si lasciò sfuggire il secchio, che cadde ai suoi piedi rovesciandosi completamente. L'acqua si allargò velocemente in una pozza, che impregnò il duro fondo di terra battuta trasformandolo in fango, su cui finirono anche i vestiti di Jean, che la ragazza aveva lasciato inavvertitamente cadere.

«Oh, no!» fece lei, chinandosi a raccoglierli. Imbarazzato, Jean si affrettò a infilarsi i calzoni. Quindi corse ad aiutarla.

«Mi spiace» le disse. «Non immaginavo che...»

Era davvero dispiaciuto. L'aveva messa in imbarazzo, facendosi vedere da lei in quelle condizioni. Senza considerare che, a causa della sua goffaggine, le aveva fatto cadere un intero secchio colmo d'acqua. Non era difficile da immaginare che, in un luogo come quello, anche la minima goccia d'acqua non poteva essere sprecata.

La ragazza non rispose, limitandosi a scostare un ciuffo di capelli dal volto e a passarselo dietro l'orecchio. Aveva l'aria stanca e gli occhi arrossati, e sembrava piuttosto a disagio. Jean immaginò che non avesse dormito molto la notte precedente, e probabilmente a causa sua. E quello che era appena successo, non aveva certo migliorato le cose.

«Mi spiace averti dato tanto da fare» mormorò, chinando gli occhi «E anche per... il resto».

Lei gli piantò gli occhi in volto e li abbassò sui pantaloni ancora mezzo slacciati, seguendo lo sguardo di lui. Improvvisamente avvampò, sollevandosi in fretta e voltandogli le spalle.

«Mi dispiace davvero!» fece lui, trattenendola. Si sentiva stupido a non trovare il modo per farle capire la propria gratitudine per quanto lei aveva fatto, e quanto gli dispiacesse per quello che era appena successo. Ma lei sembrò intuire dal suo tono di voce che era realmente desolato. Si voltò a guardarlo, indugiando con gli occhi sui tratti del suo viso, e del suo corpo. Quindi arrossì, e distolse in fretta lo sguardo.

«Non... non fa niente» esalò. Strinse a sé i vestiti, allontanandosi di corsa. Jean la seguì fuori dalla tenda. Avrebbe voluto fermarla, ma lei era già lontana quando si voltò nuovamente per rivolgergli un'occhiata indecifrabile. Poi, stringendo al petto gli indumenti di lui, si volse e sparì, questa volta definitivamente.

Improvvisamente, Jean si rese conto che la gente gli lanciava occhiate strane, mormorando. Una ragazza che fugge dalla sua tenda in preda al panico, reggendo dei vestiti mentre viene inseguita da un uomo mezzo nudo, non era certo qualcosa che si vedeva tutti i giorni. Jean capì che sarebbe stato meglio per lui rientrare nella tenda al più presto, e uscire solo quando fosse completamente vestito.

Indossò gli ultimi abiti, quindi uscì. Una volta in strada, si guardò attorno, evitando con cura di incrociare gli sguardi curiosi dei passanti, che ancora lo scrutavano sorridendo divertiti. Sospirò. Sarebbe stata dura, per lui, farsi capire. Era grato a quelle persone per averlo salvato, ma era ancora nei guai. La sua situazione non sarebbe cambiata di molto, e incomprensioni come quella che si era appena verificata sarebbero state all'ordine del giorno, finché non avesse trovato un modo per comunicare con quanti lo circondavano. Ma al di là di tutto, superare quello scoglio era necessario, se davvero voleva ritrovare Nadia.

Ammesso che quel pianeta desolato fosse realmente il luogo in cui si trovava Nadia.

Per quanto ne sapeva, dopo il disastro dell'Exelion, la Merkaba che si era improvvisamente aperta e che aveva risucchiato lui, Sanson e Hanson, avrebbe potuto depositarli chissà dove nell'universo. Se, come credeva, la Merkaba non era altro che una specie di ''scorciatoia'' dimensionale, che permetteva agli Atlantidei di spostarsi nello spazio comprimendo il tempo fino all'inverosimile, allora non era che una porta potenzialmente spalancata sull'immensità del cielo. In poche parole, Jean avrebbe potuto trovarsi dovunque.

Non voleva nemmeno pensarci. L'idea di essere bloccato per sempre in un mondo di cui forse Nadia ignorava persino l'esistenza, con in più l'impossibilità di raggiungerla, era molto più che un incubo, era la disperazione. Jean non poteva rassegnarsi a credere che quello fosse il suo destino, il loro destino.

Avrebbe dovuto imparare la lingua. Era necessario. Una volta in grado di comunicare, avrebbe finalmente potuto chiedere informazioni sul pianeta su cui si trovava, e magari su Nadia stessa. Per fortuna, qualche parola di greco antico la ricordava ancora, merito di tutto il tempo passato a seguire Marie nei compiti a casa. Poteva cominciare da lì, e con metodo e costanza, avrebbe colmato le sue lacune.

Per prima cosa, però, avrebbe cercato di capire dove si trovava, e chi erano le persone che l'avevano salvato.

Jean lasciò la tenda, avventurandosi tra i sentieri di ciottoli e terra battuta che si dipanavano in quello che sembrava un vero e proprio accampamento nomade. Vi erano numerose tende, simili a quella in cui era stato accolto e curato, e tutte davano l'idea di essere ben organizzate e disposte secondo un criterio razionale. Lo spazio tra di esse era sufficiente a far scorrere il traffico di pedoni e di animali, carri e merci. A Jean sembrò quasi di trovarsi immerso in quei rioni che era possibile trovare negli angoli più bui e vecchi di Le Havre, vicino alla zona del porto dove si recava da bambino, insieme a suo padre; luoghi dove, proprio come in quel villaggio, gli acciottolati stretti tra ripidi muraglioni di case erano percorsi da bambini che si rincorrevano urlando, da anziani che si fermavano a parlottare tra loro sulla soglia di casa e che reagivano al passaggio dei ragazzini rimbrottandoli, mentre nascondevano un sorriso con aria di malcelata condiscendenza. Vide carriole, donne che portavano sulla testa ceste ripiene di indumenti, uomini carichi di assi di legno o di ceste di pietre che gli passavano davanti fissandolo incuriositi, prima di proseguire per la loro strada curvi sotto il loro peso.

Jean notò alcuni uomini a bordo di un carro, che gli passò accanto trainato da un animale simile a un grosso dromedario peloso. Questi lo salutarono allegramente e uno di loro gli ammiccò, indicando il carro vuoto, dietro di sé, quasi volesse invitarlo a salire. Jean approfittò dell'occasione, e aggrappandosi saldamente alle sponde, si issò saltando al volo sul fondo del carro. Gli uomini risero e lo accolsero come fosse stato uno di loro, indirizzandogli qualche battuta prima di ritornare ai loro discorsi. Jean prese posto tra le sporte vuote e umide che erano state accatastate sul fondo. Emanavano un odore caratteristico, di salsedine. Jean si avvicinò. Passò il dito sul bordo di una di esse e raccolse con il polpastrello una pasta rosea e grumosa. La avvicinò al naso, quindi la sfiorò con la punta della lingua.

Non si era sbagliato, era sale. Ma era molto amaro, di pessima qualità.

Il carro svoltò, per poi cominciare una lunga discesa, non troppo ripida. Jean si sporse e vide che sotto di loro si apriva un immenso bacino, forse un lago salato, o addirittura un golfo. C'erano numerosi uomini al lavoro sulla riva, evidentemente impegnati nella raccolta del sale.

Il carro si fermò subito dopo la discesa e gli uomini smontarono uno ad uno. Jean fece altrettanto, ringraziandoli con un gesto per il passaggio. Loro lo salutarono, caricandosi sulle spalle le sporte vuote. Jean si mise a osservare con curiosità il luogo in cui era arrivato: lì sulla riva, l'odore dell'acqua stagnante era fortissimo, misto a quello pungente del sale appena raccolto. La gente al lavoro era tantissima: con molta probabilità, quelle persone vivevano del sale che riuscivano a raccogliere, ma non disponevano di una tecnologia adeguata a svolgere quel lavoro al meglio. Senza le tecniche giuste e strumenti meccanici adeguati, il sale non poteva essere raffinato, e si riusciva a produrre solo quel sale estremamente cattivo che aveva assaggiato poco prima. Jean immaginò che non riuscissero a ricavarci granché, al momento della vendita.

Qualcuno lanciò un grido. Jean si voltò. Poco lontano da dove si trovava, vide l'uomo che era entrato nella sua tenda, la notte precedente. Lo stava salutando, rivolgendogli un cenno con il braccio. Era in piedi accanto ad altre tre persone, su un alto pontile sopra il quale veniva accatastato il sale raccolto, perché asciugasse al sole. Teneva dei fogli in mano, e sembrava distribuire ordini, mentre gesticolava animatamente. Jean lo vide discutere in modo deciso con quegli uomini, come se fosse il loro superiore; quindi, dopo aver riconsegnato loro i documenti, li congedò, dirigendosi verso di lui con un ampio sorriso sul volto abbronzato.

«Ben sveglio» fece, tendendogli la mano. «Ti trovo bene».

Jean non capì nulla, ma sorrise comunque, rispondendo alla sua stretta. L'uomo piegò le labbra in un'espressione rammaricata. Probabilmente, era dispiaciuto del fatto di non riuscire a comunicare, almeno quanto Jean stesso.

«Kirda» disse portandosi una mano al petto. Jean annuì.

«Jean» rispose. L'uomo inarcò un sopracciglio.

«Yo-abn

Jean rise. «Più o meno. Jean, mi chiamo Jean».

«Jan!» fece l'uomo, battendogli una pacca sulla spalla e accompagnando quel gesto con una risata allegra. «Diamine, che nome complicato che porti!»

Jean rise a sua volta, anche se non sapeva bene di cosa. Quindi entrambi si guardarono attorno, senza saper bene cosa dire né l'uno né l'altro.

«Dunque... e qui?» fece Jean, giusto per rompere quel silenzio imbarazzato, mentre indicava il lago e gli uomini al lavoro. Kirda si posò le mani sui fianchi, fissando orgoglioso la massa di gente impegnata a raccogliere il sale.

«Sale» disse. «Estraiamo il sale dall'acqua, e lo vendiamo. È un ottimo sale, l'hai assaggiato?»

Kirda si portò le dita alle labbra. Jean intuì che doveva essere parecchio fiero di quello che lui e la sua gente facevano, oltre che del sale che riuscivano a raccogliere. Per non offenderlo, preferì non mostrare il suo scetticismo e annuì con un sorriso.

«È un lavoro duro» aggiunse Kirda, socchiudendo gli occhi mentre osservava gli uomini che si muovevano sull'arenile. «Difficile. Ma ci dà da vivere».

Jean ascoltò con attenzione, cercando di cogliere qualche parola conosciuta. Kirda si era sforzato di parlare lentamente, ma era comunque veramente complicato riuscire a capire quello che gli stava dicendo.

Fece per ribattere qualcosa, sforzandosi di trovare le parole, quando il volto di Kirda si illuminò all'improvviso. Toccò Jean per un braccio, indicando qualcuno che stava scendendo verso di loro, lungo la strada che conduceva alla salina.

«Sari!»

Jean si voltò. Vide la ragazza che si era presa cura di lui, e che ora stava scendendo verso la spiaggia portando una sporta vuota sulle spalle. Quando si sentì chiamare, si voltò sorridente. Ma non appena vide che Kirda era in compagnia di Jean, il suo volto si rabbuiò.

«Sari è mia sorella» fece Kirda, sorridente. «L'hai già conosciuta».

Jean annuì.

«Sari?» chiese. «Onoma... gunèh... Sari?».

Kirda lo fissò compiaciuto.

«Sari, esatto. Mia sorella» rispose. «Quindi, qualcosa riesci a capirlo».

La ragazza li raggiunse in quel momento. Jean la salutò con un cenno amichevole, cercando di non mostrarsi imbarazzato; ma lei gli rivolse un'occhiata veloce e scostante, senza contraccambiare.

«Mi hai chiamata?» disse, rivolgendosi esclusivamente al fratello. Kirda le indicò Jean.

«Perché non porti il nostro amico a fare un giro, qui attorno? Credo che potrebbe trovarlo interessante».

«Come potrebbe trovarlo interessante?» obiettò lei decisa, imporporandosi in volto. «Non sa nemmeno dire una parola».

Kirda sembrò farsi confuso. Evidentemente, non si aspettava quella reazione così fredda da parte della sorella.

«Ma io non posso restare con lui, ho troppe cose a cui pensare e...»

«Anche io, se per questo» fece lei. «Sei stato tu a portarlo qui, perciò è un problema tuo. Se non hai tempo, trovati qualcun altro che badi a lui. Io ho di meglio a cui pensare».

Sari si allontanò, lanciando a Jean un'occhiata fredda. Lui arrossì. Capiva bene che lei potesse essere arrabbiata, ma lui le aveva comunque chiesto scusa. E poi, quello che era successo, non l'aveva certo fatto apposta.

Kirda strinse le labbra. Si voltò verso Jean, sforzandosi di sorridere, senza saper cosa dire. Jean tacque, fissando dispiaciuto la schiena di Sari, mentre lei si allontanava. L'espressione imbarazzata di Kirda lo faceva sentire ancora più colpevole, come se avesse abusato della loro gentilezza e ospitalità offendendoli in qualche modo. Probabilmente, pensò Jean, se Kirda avesse saputo quello che era successo tra lui e sua sorella, sarebbe andato su tutte le furie. Anche se, a dirla tutta, Jean non ne aveva molta colpa.

Insomma, c'era poco da fare. Era appena arrivato, e aveva già combinato un disastro.

 

 

*

 

 

Sari rientrò nella tenda solo quando era già sera. Si era tenuta lontana per tutto il giorno, per evitare di dover entrare nuovamente in contatto con quello straniero goffo e maldestro e magari dover rivivere ancora una volta un'esperienza imbarazzante e umiliante, come le era accaduto quella mattina.

Sapeva che non era colpa sua. Almeno non del tutto. Però non riusciva a perdonargli di essersi mostrato a lei in quelle condizioni.

Avrebbe almeno potuto avere l'accortezza di controllare, prima di...

Sari arrossì di nuovo, di fronte al ricordo di quanto era successo. Non aveva mai visto il corpo nudo di un uomo, prima di allora. E trovarselo di fronte così, inaspettatamente, l'aveva letteralmente scioccata.

Raggiunse l'ingresso alla sua tenda. Sospirò, mentre posava una mano sullo spesso tendaggio che fungeva da porta. Contò fino a tre, quindi si fece coraggio ed entrò.

Era convinta di trovare al suo interno il giovane straniero, ma invece fu sorpresa nel vedere che la tenda era vuota.

Era sollevata, ma anche infastidita. Non solo il fratello era ritornato a casa con quel tipo sconosciuto, che proveniva da chissà dove; ma le aveva persino chiesto di occuparsi di lui, cosa che aveva fatto per tutta la notte fino a cadere letteralmente dal sonno. Come se non bastasse, quello stupido si era messo a girare nudo per casa, le aveva fatto una paura tremenda con il risultato che lei aveva rovesciato per terra un intero secchio d'acqua. Senza contare che aveva dovuto lavare nuovamente i suoi vestiti, che le erano caduti per la sorpresa.

In più, se n'è andato via senza dir niente... ma che diavolo aveva, in testa?

Per fortuna aveva incontrato alcuni operai, che le avevano detto di averlo visto su un carro diretto alla salina. Se stava abbastanza bene da andarsene in giro, allora che la lasciassero in pace, tutti quanti! Non aveva voglia di passare altro tempo a far da balia a quel tipo dall'aspetto così strano e imbarazzante.

Sari si guardò attorno. Era già tardi, e presto sarebbe scesa la notte.

E adesso, dove si sarà cacciato?

Sbuffò. Gli aveva preparato la cena, come le aveva chiesto di fare il fratello. Un'altra cosa che aveva fatto per lui, e a quanto pareva ancora una volta per niente.

Se l'avesse avuto sotto mano, pensò Sari, la zuppa glie l'avrebbe rovesciata in testa, a quel tipo.

Alla fine lo trovò. Non dovette far molta strada: lo vide che se ne stava seduto per terra, sul retro della tenda, in cima a un piccolo promontorio che si affacciava sul lago. Era a capo chino e sembrava concentrato in qualche occupazione.

Sari fu lì lì per lasciarlo stare, ma per qualche ragione ci ripensò. Si avvicinò a lui in silenzio, posizionandosi alle sue spalle. Con sua grande sorpresa, vide che scriveva tracciando faticosamente delle lettere su una pietra piatta, utilizzando un ciottolo. Lo osservò per un po', quindi abbassò gli occhi su quello che stava scrivendo.

Si trattava di parole nella sua lingua.

«Tu conosci la mia lingua?» esclamò Sari, sgomenta.

Jean trasalì. Non l'aveva sentita arrivare e trovarsela lì, all'improvviso, lo sorprese.

«Oh, ciao!» fece. «Sei Sari, giusto?»

A sentire pronunciare il suo nome, lei assunse un'espressione indignata.

«Chi ti ha detto di chiamarmi per nome?» fece, strappandogli la pietra dalle mani. Lui arrossì. Sari abbassò gli occhi sulle parole che lui aveva graffiate sulla roccia.

«Non si scrive così» fece poi, abbassando la voce. Jean inarcò un sopracciglio. Lei gli indicò una parola in particolare.

«Questa... non si scrive così. Guarda».

Sari afferrò il ciottolo, strappandolo dalla mano di Jean. Senza volere, lui le sfiorò le dita sottili e lei avvampò immediatamente. Stizzita, prese a cancellare con furia tutte le parole che lui aveva scritto, quindi si inumidì la punta di un dito e pulì la pietra dai segni che la ricoprivano. La ragazza lanciò a Jean un'occhiata in tralice, poi cominciò a tracciare qualcosa a sua volta, muovendo il ciottolo con decisione, quasi volesse incidere la roccia.

Jean si avvicinò, scrutando ciò che lei stava scrivendo. Sari si scostò di un passo, e gli riconsegnò la pietra.

«È così che si scrive» fece, secca.

Jean studiò la pietra; quindi le sorrise, annuendo.

«Grazie, anche se potevi evitare di cancellare il resto».

Sari gli porse il ciottolo, fissandolo con espressione truce. Jean non vi badò, ma sollevò la pietra, indicandogliela.

«Senti, non è che potresti aiutarmi?» le chiese. Sto cercando di imparare» disse. «Sou... ego... didaskein?»

Lei avvampò, inarcando le sopracciglia. Quindi si voltò, gettando via il ciottolo e allontanandosi in fretta.

«Ehi! Aspetta...»

«È pronta la cena!» esclamò lei un attimo prima di sparire, ritirandosi nella tenda.

 

 

*

 

 

Quella sera, Jean rimase nella tenda da solo. Avrebbe voluto intrattenersi con Kirda, dopo cena, e provare a parlare ancora un po' con lui... Se voleva davvero imparare la lingua, aveva un disperato bisogno che qualcuno comunicasse. E a parte Kirda, non riusciva a pensare a nessun altro.

Lui si era dimostrato subito disponibile e generoso. Durante la cena, aveva cercato di mostrargli l'uso di alcuni vocaboli, ridendo insieme a Jean degli errori che faceva. Ma poi se ne era dovuto andare, Jean non aveva capito bene per quale ragione. E così era rimasto solo con Sari, che per tutto il tempo era stata scontrosa, restandosene in silenzio e lanciandogli occhiate scoraggianti. Finché, poco dopo il fratello, anche lei non se n'era andata senza dire una parola.

Era chiaro, pensò Jean: quella ragazza non lo trovava molto simpatico.

Aggrondò. Non capiva perché ancora ce l'avesse così tanto con lui. Forse si era comportato in modo inappropriato, d'accordo... ma era davvero necessario continuare con quella sua testarda ostilità?

A quel punto, gli venne in mente che forse quella non era stata la prima volta che aveva fatto qualcosa di vergognoso, da quando era lì.

La prima volta che aveva visto Sari, l'aveva scambiata per Nadia. Non è che...

No, non era possibile. O forse sì?

Beh, di qualunque cosa si trattasse, era inutile stare a rimuginarci sopra. Lui non si ricordava nulla e finché non fosse stato in grado di chiederlo a lei direttamente, non avrebbe nemmeno potuto scusarsi. Perciò, Jean decise di non pensarci e di esercitarsi ancora un po' nella scrittura.

Aveva appena preso la pietra su cui aveva trascritto alcune parole per fissarle a mente, quando notò un rotolo di pelle sottile, che qualcuno aveva lasciato accanto al suo giaciglio. Non l'aveva notato prima, ma era sicuro che prima di cena non ci fosse. Kirda non aveva accennato a nulla in proposito, ma chiunque fosse stato a metterlo lì, accanto vi aveva lasciato uno stilo ricavato dall'osso di qualche animale, oltre a una boccetta contenente un liquido denso e scuro, simile a inchiostro.

Jean si sedette e aprì il rotolo. Era vuoto.

Qualcuno aveva pensato che, se davvero voleva scrivere, quello poteva fargli comodo.

In quel momento, rientrò Sari. Portava un secchio d'acqua, come la mattina. Per un attimo ignorò Jean, ma quando lo vide con il rotolo tra le mani, arrossì; quindi si affrettò a versare l'acqua in una ciotola, che porse a Jean inginocchiandosi al suo fianco.

«Per te» mormorò, confusa.

Lui prese l'acqua, ma si accorse che Sari fissava piuttosto il rotolo. Sembrava nervosa. Lui sorrise. Ora gli era chiaro chi era stato a lasciare lì quelle cose.

«Grazie» disse. «Sei stata gentile».

Lei sembrò capire, perché gli occhi le si spalancarono per la sorpresa. Jean si mise comodo e spiegò il rotolo per bene, stendendolo per terra. Quindi intinse la penna nell'inchiostro nero e cominciò a tracciare qualcosa sulla superficie di pelle chiara e secca, lentamente e con attenzione. Sari, dopo un attimo di esitazione, si avvicinò a lui, chinandosi a guardare il foglio mentre tratteneva il respiro.

Jean avvertì nuovamente il profumo di mandorla che le aveva sentito addosso la prima volta che l'aveva incontrata. Gli ricordava il profumo della pelle di Nadia, un profumo dolce, che non avrebbe mai voluto smettere di assaporare.

«Ecco» disse, voltandosi a guardare Sari, che ancora studiava curiosa le lettere che lui aveva tracciato, cercando di decifrarle. «È il mio nome. Emòs Ònoma. Jean».

Lei aggrondò. Fissò ancora una volta quelle strane lettere, quindi si morse il labbro. Avvicinò titubante la mano a quella di Jean e gli sottrasse la penna, ma questa volta delicatamente.

Jean la osservò tracciare in modo incerto qualche lettera sulla carta. Aveva una grafia ingenua, ma comunque ordinata. Quando ebbe terminato, lei si ritrasse, arrossendo.

«Sari» mormorò. Jean la fissò in volto. Vide che le tremavano gli occhi.

«Sari» ripeté. «Piacere di conoscerti».

E per la prima volta, lei sorrise.

 

 

 

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Capitolo 15
*** 13 ***


13

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La prima cosa di cui Winston si accorse, fu la puzza terribile. Prima ancora di aprire gli occhi, quel fetore insopportabile si insinuò nella sua testa, risvegliandolo bruscamente. Era tutto buio, attorno a lui, ma Winston dimenticò persino di preoccuparsene. L'unica cosa che affollava i suoi pensieri era come sfuggire a quel fetido puzzo di marciume, che gli attanagliava i sensi in modo violento, e insostenibile.

Provò ad alzarsi in piedi. Ma aveva le mani legate dietro la schiena, e tutto quello che riuscì a fare fu scivolare sulla fanghiglia putrida che aveva sotto i suoi piedi, per poi ricadere duramente al suolo.

Con un gemito, Winston represse un'imprecazione. Rinunciò ad alzarsi, almeno per il momento, e si accucciò con la schiena contro la parete solida, alle sue spalle, cercando di inalare il meno possibile l'aria satura che riempiva la stanza. Doveva recuperare la lucidità, cosa non facile visto che la testa gli pulsava terribilmente. Aveva il corpo indolenzito, e respirare gli provocava un acuto dolore al petto, come la puntura di decine di spilli; evidentemente, era rimasto sott'acqua troppo a lungo, quando era caduto nel fiume sotterraneo... i ricordi di quanto era successo continuavano ad affacciarsi alla sua memoria in modo confuso e improvviso, immagini che apparivano e sparivano in un istante illuminando lo spazio buio davanti ai suoi occhi, accompagnate solo dal riverbero dei muscoli straziati dal freddo e dalle fitte alla testa, tanto forti che a volte gli sembrava di impazzire.

Aveva creduto di annegare. Mentre cercava disperatamente di risalire in superficie, ricordava di aver sentito il suo corpo cedere, e la sua volontà farsi sottile, sempre più sottile di fronte alla voce che dentro di lui gli imponeva di cedere, sempre più imperiosa, folle, fino a condurlo allo spasmo finale. Aveva sentito i polmoni bruciare sotto la pressione dell'acqua, quasi fossero sul punto di esplodere. E aveva sentito l'acqua gelida riversarsi attraverso la sua bocca spalancata, mentre cercava di opporsi alla morte imminente, con un grido silenzioso e straziato di paura e di angoscia insieme. E di incredulità.

Ricordava bene il dolore dei suoi polmoni, l'acqua gelida che li riempiva pungendoli come uno sciame di api. Era un dolore insostenibile; ma ancor più insostenibile era la consapevolezza che ancora riusciva a mantenere in quegli attimi, la lucidità che faticava ad abbandonarlo, mentre sentiva di spegnersi lentamente. In quegli ultimi attimi, aveva conosciuto la morte, la sua morte, nell'abbraccio freddo dell'acqua, intorno a sé.

Invece, era ancora vivo. Non sapeva se era stato l'istinto, o una qualche ragione che conosceva solo il destino: ma in qualche modo era riuscito a strappare al suo corpo pesante e inarticolato un ultimo sprazzo di energia. Era risalito alla superficie, dove l'aria aveva preso il posto dell'acqua, anche se il dolore insopportabile e la debolezza che gli aveva ormai spezzato i muscoli gli avevano fatto presto perdere i sensi. Tutto quello che ricordava, era di aver visto per un attimo la luce del sole, sopra di sé, e di aver avvertito il calore dei suoi raggi sulle sue membra congestionate dal freddo. Qualcosa di tanto bello, da sembrare irreale.

Winston cercò di mettere a tacere la voce di quelle immagini e il dolore sordo che ancora gli correva lungo tutto il corpo. Con uno sforzo, cercò di ritrovare la lucidità necessaria pensare. Doveva cercare di far mente locale, e di ricordare qualcosa, qualcosa di utile a fargli capire dove si trovasse, e perché.

E soprattutto, perché si trovasse in cella, ammanettato, e completamente al buio.

Per quanto si sforzasse, però, non riuscì a ricordare nulla. Aveva perso i sensi appena aveva toccato terra. Terra... significava che quel fiume sotterraneo era sbucato da qualche parte, ma dove? Atlantide si trovava chilometri sotto il livello del mare. Quel fiume scorreva sotto di essa, quindi ad almeno novemila, diecimila metri di profondità, se non di più. Com'era possibile che potesse condurre alla superficie?

Winston provò ad alzarsi di nuovo. Lo fece lentamente, tenendo le mani premute contro la parete vischiosa. Era ricoperta da una patina densa, puzzolente, che gli si infilò sotto le unghie. Represse un moto di disgusto. Il puzzo era tale che Winston si sentì girare la testa. Era come se quella cella fosse stata sommersa dalle acque del mare, a marcire e imputridirsi, fino a un attimo prima; e quella fanghiglia disgustosa che la ricopriva non fosse altro che il residuo che si era depositato sul suo fondo nel corso dei secoli.

Con uno sforzo notevole, Winston riuscì a rimettersi in piedi. Sentiva le scarpe scivolare sul pavimento: cominciò a muoversi lentamente, con accortezza, procedendo di lato, con le mani appoggiate alla parete e le spalle dritte, cercando di non perdere mai il contatto con il muro. Improvvisamente, le sue mani toccarono una superficie diversa, lucida, su cui la fanghiglia sembrava non avere presa. Winston la tastò con cura. Sembrava metallo, ma non poteva essere. Se davvero, come pensava, quella cella era stata immersa nell'acqua del mare per anni, forse per secoli, di una porta metallica ne sarebbe rimasto ben poco. Doveva trattarsi di una lega speciale, qualcosa di sconosciuto, ma di incredibilmente resistente.

Winston provò a bussare. Ci fu un suono chiaro, limpido, come quello di una campana, che si diffuse dalla porta alla stanza, riverberandosi a lungo. Winston intuì che la cella in cui era rinchiuso doveva essere piuttosto grande, e completamente vuota.

Rimase in ascolto. Per diversi istanti non ci fu risposta. Provò a bussare di nuovo, e solo allora, dopo qualche momento, avvertì dei passi risuonare al di là della porta. Winston trattenne il fiato. I passi si fecero sempre più vicini e distinti, finché non si fermarono, esattamente dietro alla porta.

«Ehi!» gridò Winston, dopo un attimo di esitazione. «Ehi, dico a voi! Chi siete? Che diavolo volete da me?»

Ci fu un cigolio e nella porta si aprì una sottile fessura, che fece entrare nella stanza un raggio di luce fortissima. Winston distolse lo sguardo, abbagliato. Quando tornò a guardare, vide un paio di occhi che lo fissavano attraverso lo stretto spiraglio.

«Tu!» fece Winston, rabbioso. «Chi sei? Lasciami andare!».

«Si è svegliato» disse con indifferenza la voce dell'uomo oltre la porta. «Va' a dirlo al padrone».

Winston si immobilizzò, sorpreso. Udì qualcuno allontanarsi frettolosamente, mentre l'uomo al di là della porta continuava a scrutare silenziosamente nella stanza.

«Padrone?» mormorò Winston, quasi tra sé. «Cosa vuol dire... chi diavolo siete? Ehi!»

L'uomo richiuse con uno scatto brusco la stretta finestrella, facendo ripiombare la stanza nel buio. Winston si gettò contro la porta, gridando, ma perse l'equilibrio sul fango viscido e scivolò a terra, battendo il mento. Cercò di lottare, ma il dolore era più forte: e dopo pochi istanti, si arrese.

 

 

*

 

 

Le onde si infrangevano contro la piccola scialuppa, ormai fuori controllo. Tutto quello che Samuel riusciva a fare era cercare di impedire che l'imbarcazione si rovesciasse, ma per farlo doveva continuamente spostarsi da un lato all'altro della barca, chiedendo a Lisa e Michael di fare altrettanto. La prua saliva e scendeva senza sosta, e si lottava per rimanere a galla nonostante ormai l'acqua sul fondo della barca avesse raggiunto le caviglie. Samuel si aggrappò alle corde di sicurezza. Un'onda crebbe dal fondo, levandosi lenta e alta come il boato di un tuono. Quando furono il alto, per un attimo il tempo sembrò congelarsi: i tre si guardarono, infradiciati, con i volti pallidi e spauriti, i capelli incollati al viso, gli abiti zuppi. Poi, l'onda li rilasciò, facendoli precipitare. Samuel lanciò un grido, misto di rabbia e di terrore, mentre sentiva il cuore salirgli in gola e gli schizzi gelidi gli ferivano il volto come una miriade di schegge impazzite.

Quando c'era stata quell'esplosione sorda, e il mare si era improvvisamente ritirato, facendo scivolare la Salamanca e le altre navi della flotta verso il baratro che si era spalancato davanti a loro, l'istinto aveva avuto il sopravvento; in qualche modo era riuscito ad approfittare della confusione che si era scatenata a bordo e a liberarsi delle guardie che lo avevano in custodia, ed era riuscito a darsela a gambe con la ragazza e il suo amico. Aveva raggiunto una scialuppa, li aveva letteralmente gettati a bordo e si era liberato in fretta e senza troppe cerimonie di quelli che gli sbarravano la strada; quindi, si era affidato alle onde. In quel momento, qualsiasi cosa sembrava meglio che essere inghiottiti da quel gigantesco scarico che sembrava essersi aperto nelle viscere dell'Oceano, e che sembrava voler risucchiare ogni cosa fin nelle profondità degli inferi. Tuttavia, dopo due giorni di mare aperto, in balia delle onde e delle tempeste, e senza nulla da mangiare o da bere, Samuel aveva cominciato a credere di aver solamente rinviato di poco il proprio destino.

Non avrebbe mai dimenticato quello che aveva visto. Dopo l'immensa esplosione, che aveva levato una colonna d'acqua fino al cielo, oscurando il sole come in un eclissi, il mare si era ritirato come un vecchio tappeto, per poi richiudersi su se stesso come un mostro affamato, desideroso di fagocitare ogni cosa. Samuel aveva visto gli incrociatori della flotta inglese sparire tra le acque, spezzati dalle onde come stuzzicadenti; aveva visto la Salamanca rovesciarsi su se stessa, e colare a picco in un solo istante. Centinaia di uomini urlanti, in preda al panico, cercavano di mettersi in salvo. Alcuni, come lui e Lisa e Michael, raggiunsero le scialuppe; i più fortunati riuscirono a scampare alla furia delle onde, finendo però dispersi chissà dove. Nessuno avrebbe potuto governare una barca, in quelle situazioni; tutto quello che si poteva fare, era aspettare che il mare calmasse la sua ira, e sperare.

Poi, era successo.

Un'isola, o qualcosa di simile, era emersa dal mare. Il mare si ritirò da essa, scivolando via dalle sue rive e spingendo lontano le imbarcazioni. Samuel restò a fissare quell'immensa formazione di rocce, puntellata da edifici diroccati e distrutti, mentre si levava dalle profondità marine: ricordò di essersi chiesto quanto ancora sarebbe salita, quando l'intera superficie rocciosa su cui sembrava sorgere quella città sommersa si librò sulle acque, rivelando una struttura lucente e metallica sotto di essa. Il mare ruggiva, ma sopra di esso si levava il fragore di quell'intero mondo che sembrava ritornare alla luce e alla vita. Samuel osservò l'immensa costruzione che saliva verso il cielo, abbandonando dietro di sé le rovine che sorgevano arroccate e tremolanti sulle sue sponde. La vide salire, lenta, verso il cielo, oscurare il sole, per poi farsi sempre più lontana, fino a sparire. Solo a quel punto, dopo alcuni interminabili minuti, il mare ritornò alla calma. Era finita. Per qualche ragione, erano sopravvissuti.

Almeno, fino a quel momento.

L'onda li rilasciò, e la scialuppa si abbatté con fragore sulle acque. Samuel sapeva che il pericolo non era ancora cessato: l'onda, sopra di loro, attendeva ancora di abbattersi, e di travolgerli.

«Tenetevi!» gridò. Lisa gli rivolse uno sguardo disperato, mentre si schiacciava contro il fondo della barca, avvinghiata alle corde di sicurezza.

«Arriva!» urlò Michael. Samuel alzò gli occhi. L'onda era sopra di loro, le frange di spuma bianca simili a zanne. Ci fu un attimo in cui tutto sembrò fermarsi, per poi accelerare. Samuel chiuse gli occhi. L'onda era lì, stava arrivando.

Quando Samuel riaprì gli occhi era già passato molto tempo, e l'Oceano sembrava aver ritrovato la calma. Esausto, Samuel aveva perso le forze, e si era abbandonato al suo destino, fosse quello che fosse. Morire in una tempesta, in fondo, dopo aver cercato di sopravvivere disperatamente, non era nemmeno una morte tanto brutta... Ma, incredibilmente, era sopravvissuto ancora una volta. Si guardò attorno. Le onde cullavano delicatamente la scialuppa, che beccheggiava dolcemente. La tempesta era finita e il sole era alto, nel cielo: Samuel avvertì un fastidioso bruciore alla pelle, e intorno alle labbra. Si tocco le guance, con la punta delle dita. La salsedine si era seccata, e sentiva la pelle arida, screpolata.

Aveva bisogno di bere.

Si guardò intorno. Lisa e Michael non si erano ancora svegliati. Dormivano, stesi sul fondo della scialuppa. Samuel cominciò a chiedersi se avesse fatto bene a prenderli con sé. Non ci aveva pensato sul momento, ma adesso quei due potevano rivelarsi un problema. Avrebbe dovuto per prima cosa pensare a se stesso, e preoccuparsi di salvare la sua, di pelle. Aveva agito di impulso, tirandoseli dietro; ma cominciava a pensare che non fosse stata per niente una buona idea.

Con questi due in mezzo, avrò ancora meno possibilità di farcela.

Considerò seriamente di ucciderli e di buttarli fuori bordo, finché erano svenuti. Si avvicinò a Lisa e fece per sollevarle la testa, ma qualcosa lo bloccò. Era strano. Lo avevano addestrato a non provare rimorso, a vedere sempre nelle cose l'utilità del momento e a considerare ogni persona come uno strumento per un fine più alto – che fosse la vita, la sopravvivenza, un obiettivo politico. Era quello, il suo lavoro. Per quello aveva sacrificato ogni cosa, persino la sua anima e la sua vita. La consapevolezza che quel suo sacrificio, insieme a quello di quanti lavoravano insieme a lui, potesse permettere al resto del mondo di sopravvivere nella sua inconsapevole banalità, era ciò che gli permetteva di andare avanti, nonostante tutto. In qualsiasi altro momento, spezzare il collo sottile di quella giovane ragazza sarebbe stato un compito semplice, che lui avrebbe affrontato senza neppure pensarci. Eppure, in quel momento, qualcosa in quel meccanismo perfetto che aveva sempre funzionato in lui in modo impeccabile, si inceppò. Samuel fissò il volto di Lisa, i suoi capelli arruffati e crespi, le labbra secche e rosse, gli occhi gonfi. E ciò fu sufficiente a farlo desistere.

«Dannazione».

Si rintanò al suo posto, chiudendo gli occhi. Non era un bel segnale. Se cominciava a essere sentimentale, era meglio rassegnarsi subito a una morte certa.

Michael lanciò un gemito. Samuel restò a fissarlo, con un'espressione di disappunto sul volto.

«Siamo vivi?» mugolò Michael. Samuel sbuffò, seccato.

«A quanto sembra».

Michael si guardò attorno. Quando vide Lisa, distesa accanto a lui, cominciò a scuoterla dolcemente.

«Ehi, sveglia...»

Lisa sbatté le palpebre. Quindi si alzò di scatto, sbarrando gli occhi. Lanciò un grido soffocato, portandosi una mano alla testa.

«Fai piano, devi ancora recuperare le forze» fece Michael, aiutandola a rimettersi sdraiata. Lei si lasciò distendere, pallida in volto. Samuel strinse le labbra.

«Siamo in mare aperto, e senza nulla da mangiare, né da bere» disse, rivolgendosi a Michael ma senza guardarlo direttamente. «Non abbiamo remi e non possiamo governare la barca. La situazione è questa, e non è piacevole».

Michael lo fissò smarrito. «Quindi... questo significa...»

«Che molto probabilmente moriremo» annuì Samuel, fissandolo stavolta dritto negli occhi.

Michael deglutì.

«Oh...» fece «...Ok. Non avresti potuto essere più chiaro».

«Era giusto dirlo» tagliò corto Samuel. «Inutile girarci intorno».

Samuel si frugò sotto gli indumenti, in cerca di qualcosa. Quando rivelò una pistola, Michael lo fissò impallidendo.

«Non vorrai...»

Samuel estrasse la pistola e lo guardò. Era una pistola molto grossa, dalla canna simile a quella di un piccolo fucile.

«Che diavolo ti prende?»

«Vuoi... vuoi ucciderci?»

«Cosa?»

«Vuoi ucciderci... non è così?»

Samuel fissò Michael con un misto di incredulità e fastidio.

«Non fare l'idiota...»

«Ho... ho letto di quel naufragio» continuò Michael, sempre più pallido. «Di quei tipi su una zattera che... per sopravvivere...»

«Deficiente, questa è una pistola di segnalazione» disse Samuel, agitando l'arma davanti ai suoi occhi. «Se ti sparassi contro, probabilmente manderei a fuoco l'intera scialuppa, e morirei anche io. Davvero credi che la userei per ucciderti?»

«Oh...» Michael osservò la pistola, rincuorato.

«Se volessi uccidervi, troverei senza dubbio un modo migliore».

Le guance di Michael tornarono a scolorirsi, mentre Samuel lo fissò sogghignando.

«Lascia stare, stavo scherzando» fece. «Non ho intenzione di rinunciare a salvarmi, almeno per il momento. Quindi, smettiamola con le scemenze, e cominciamo a pensare a come risolvere questa situazione».

«Non è una nave, quella?»

Samuel e Michael si volsero verso Lisa, che indicava con fare stanco, un punto all'orizzonte. Samuel si precipitò alla sponda della scialuppa.

«Potrebbe essere solo un riflesso».

Qualcosa all'orizzonte lanciò un bagliore. Si udì un fischio e un suono lungo e lamentoso, simile a una sirena.

«È un incrociatore!» esalò Samuel. «Forse è ciò che resta della flotta inglese, che è venuta in esplorazione».

«Aspetta!» esclamò Michael. «E se fossero... loro

«Dobbiamo comunque rischiare» fece serio Samuel. «Ma prima di tutto, dobbiamo riuscire a farci vedere. Quella nave è lontana...»

Samuel stava ancora pensando a come aggirare il problema, quando con la coda dell'occhio vide Michael impossessarsi della pistola di segnalazione. Si voltò di scatto, gettandosi su di lui... ma fu troppo tardi. Con il volto trasfigurato dalla soddisfazione, Michael esplose in aria l'unico colpo che avevano.

«No!»

Samuel, Lisa e Michael fissarono il razzo salire con una scia rossastra in cielo, ed esplodere a qualche decina di metri di altezza. L'esplosione, a parte il boato, si perse nella luce accecante del sole, senza che nessuno riuscisse a vederlo. Michael fissò per qualche istante ancora, perplesso, il punto in cui il razzo era esploso, come se si aspettasse che accadesse ancora qualcosa.

«Idiota!» ruggì Samuel, strappandogli la pistola e gettandola in acqua, con rabbia. «Questo era l'unico colpo che avevamo! Chi è così deficiente da sparare un razzo di segnalazione in pieno giorno?»

«Credevo che si sarebbe visto...»

«Tu...» Samuel si trattenne dal mettere le mani al collo del ragazzo. Si prese la testa tra le mani e lanciò un imprecazione. «Avrei dovuto ucciderti davvero! Ci hai condannati a morte!»

Lisa fissava l'acqua con gli occhi bassi, singhiozzando; Michael si rannicchiò smarrito sul fondo della barca.

«Va bene, va bene... va tutto bene...»

Samuel strinse le labbra. Ragionava tra sé, velocemente. Fissò il punto in cui si trovava la nave, e sembrava valutarne la distanza.

«Tu» disse a Lisa, con voce bassa e decisa «togliti la gonna».

Lisa lo fissò, impallidendo.

«Cosa? No!»

«Ti do due secondi per toglierti la gonna, poi te la sfilo io».

Lisa tentennò, indecisa. Guardò Samuel poi Michael, che le restituì uno sguardo sconvolto.

«Come si permette? Cosa crede...»

«Uno!»

Lisa avvampò di collera e imbarazzo, levandosi in piedi.

«Se crede che le consentirò di mettermi quelle luride mani addosso, lei...»

Samuel afferrò la gonna di Lisa e la strattonò verso il basso, lasciandola in sottoveste. Lei lanciò un grido, chinandosi in fretta e cercando di coprirsi come poteva, tirando su di sé i lembi di tessuto che ancora penzolavano dalla cinta.

«Lei, maniaco schifoso, pervertito...»

Samuel non sembrò far caso a quanto Lisa gli stava vomitando addosso. Armeggiò deciso con la gonna e cominciò a strapparla con furia.

«Dentro ci sono stecche di balena» fece, cominciando a sfilare le sottili stecche imbastite nel tessuto, che servivano a dare alla gonna la classica forma a campana. «Possiamo usarle per farne una bandiera».

Lisa fissò Samuel. Era ancora sconvolta, ma sembrava aver capito. Infatti, si tranquillizzò, anche se continuò a mantenere una certa distanza e un'espressione di vivo disappunto.

Samuel si sfilò la giacca e la camicia. Quindi annodò la camicia all'asta, e si alzò in piedi, cominciando a sventolare energicamente la bandiera improvvisata.

«Avanti... avanti, maledizione!»

Lisa fissò il torso energico di Samuel, le braccia forti e i muscoli tesi, bagnati di sudore. L'intero suo corpo sprizzava vigore. Non aveva mai immaginato che potesse avere un fisico così sviluppato... gli abiti lo nascondevano decisamente bene. Si chiese, arrossendo, se anche Winston avesse un corpo come il suo.

Vergognandosi di pensare a qualcosa di simile in una situazione come quella, distolse lo sguardo.

«Forza!» gridò Samuel. Continuava ad agitare la bandiera, i denti stretti, il volto rigato dal sudore. Sembrava deciso a non darsi per vinto, anche se la cosa aveva in sé qualcosa di disperato. Quella nave sembrava così lontana...

Improvvisamente, la nave lanciò un segnale, seguito a breve distanza da un altro, e da un altro ancora. Samuel sbarrò gli occhi e sul suo volto si dipinse un sorriso trionfante.

«Sì!» gridò «Ah-ah! Vengono a prenderci!»

Michael si alzò in piedi, incredulo. «Ne... ne è sicuro?»

«Quello è un segnale in alfabeto morse» annuì Samuel. «È il segnale di 'uomo in mare'. Ci hanno visto, vengono a salvarci».

«Mio dio, non ci posso credere...»

Michael e Lisa si strinsero, abbracciandosi e scoppiando in lacrime. Samuel li lasciò fare, sollevato.

«Quindi, potremo cominciare le ricerche» chiese Lisa «per trovare i superstiti».

Samuel la fissò serio. Lisa continuava a sorridere speranzosa, ma lui scosse il capo.

«Non ci sono superstiti».

«Ma Winston...»

«Mi ascolti» fece Samuel. «Churchill è morto».

Il volto di Lisa si fece bianco come la cenere.

«No» disse, rifiutandosi di accettare la cosa. «Lei non può saperlo».

«Le dico...»

«No!»

«Mi ascolti!» Samuel la afferrò scuotendola. Michael fece per aiutarla, ma lui lo spinse via senza troppe cerimonie. «Churchill era là sotto. Nessuno può essere sopravvissuto a quel cataclisma, nessuno! E se anche fosse riuscito a sopravvivere...»

Lisa guardò Samuel perplessa. Non riusciva a capire dove volesse andare a parare.

«Lei... lei pensa...»

«Se non è morto, allora, c'è solo una spiegazione. E cioè che sapeva esattamente quello che sarebbe successo».

Lisa scoppiò in lacrime, coprendosi il volto con le mani. Michael aggrondò, perplesso. Sembrava non capire.

«Lei vuol dire che... ci ha traditi?»

Samuel annuì, duro.

«Non vedo altra soluzione».

«No» fece Michael, deciso. «Winston non avrebbe mai potuto farlo».

«Provi a ragionare» insistette Samuel. «nessuno di noi era a conoscenza di quello che stava realmente cercando Wiesbaden. Solo Churchill. Solo Churchill si è recato là sotto, e sempre Churchill ha fatto da tramite con Lartigue e i suoi per ottenere quello che serviva a Wiesbaden. E non appena Churchill è stato al sicuro, ecco che la flotta inglese è stata accerchiata, io sono stato arrestato e voi con me. Quello che è successo dopo, ne è la diretta conseguenza. Churchill e Wiesbaden hanno riattivato quella... mostruosità, e hanno pensato bene di lasciarci indietro, credendo così di fare piazza pulita. Perciò, i casi sono due: o Churchill non sapeva nulla di quello che stava per succedere; e allora molto probabilmente è morto insieme a Wiesbaden e a tutti gli altri... oppure, era in combutta con lui, ed è da qualche parte a bordo di quel coso a spassarsela alle nostre spalle».

«Potrebbe non essere andata così» insistette Lisa «potrebbe essersi salvato, ed essere a bordo di quella... cosa... o in mare, come noi...»

«Si trovava a diecimila metri di profondità, Lisa» scosse la testa Samuel. «Se non è a bordo di quell'affare, allora è un cadavere galleggiante».

«E se si trova a bordo di quella specie di isola» intervenne Michael «allora, molto probabilmente...»

«Molto probabilmente, o è morto, o è ospite di Wiesbaden. Il che lo rende morto comunque, almeno per noi».

«Io non posso crederlo, no, non posso!»

«Mi ascolti, Lisa!» Samuel le afferrò prima le mani, e poi le strinse il volto. «Siamo arrivati fin qui perché avevamo un compito, uno scopo. Quello scopo è ancora valido, almeno per me. Io voglio ancora liberare il mondo dalla minaccia che rappresenta quella gente. Non ho il tempo di preoccuparmi di Winston Churchill, né di pensare alle conseguenze delle sue azioni. Mi dispiace, ma...»

«Era un suo amico, è un suo amico!»

«Sì, lo era!» ruggì Samuel. «Ma se è morto, non posso fare più nulla per lui. E se è vivo, ed è in combutta con Wiesbaden, è meglio per lui se non lo vedrò mai più».

«Ma se fosse ancora vivo, e fosse prigioniero...»

«In quel caso, ma non credo, dovrebbe cavarsela da solo».

Lisa fissò Samuel, mentre le lacrime le rigavano le guance.

«Non posso abbandonarlo» disse. Samuel fece una smorfia.

«Allora, pensi che sia morto» mormorò. «Le renderà le cose molto più facili».

 

 

*

 

 

Winston aspettò fino a perdere il senso del tempo. Da quanto era lì? Un giorno, due? Una settimana? Gli portavano da mangiare a intervalli regolari, una ciotola di zuppa che lui era costretto a sorbire mettendosi a gattoni, e lappando con la lingua, visto che continuavano a tenerlo ammanettato, con le mani legate dietro la schiena.

Si era ridotto alla condizione di un animale. Puzzava, era sporco, e mangiava come una bestia. Il buio gli impediva di avere riferimenti e non riusciva a contare lo scorrere delle ore. Aveva cominciato ad avere le allucinazioni. A volte, parlava da solo. Gli sembrava di impazzire.

Si addormentò. Ormai aveva cominciato a contare i giorni in base ai cicli di sonno, che però si facevano sempre più brevi. Quando si svegliò, udì dei passi avvicinarsi alla porta.

«Guardia!» latrò. «Guardia! Sei tu? Fatti vedere, fatti vedere...»

Winston si alzò. Si sollevò incerto, sfregando il volto contro la superficie della porta.

«Guardia?»

Come di consueto, dalla porta si aprì un sottile spiraglio. Due occhi inespressivi fissavano il buio, e con esso Winston.

«Ah, ah... piacere di rivederti, compagno!» gracchiò Winston, sfoggiando un ghigno. «Cosa prevede oggi il menu? Eh? Eh? Lasciami indovinare... allora... roast beef? Vitello arrosto? Fondue...»

«Indietro».

Winston scoppiò a ridere, quindi indietreggiò, barcollando.

«Sì, sì... indietro, indietro...»

La porta si aprì. Winston distolse gli occhi dalla luce che filtrava dall'esterno. Si aspettava di vedere la sola guardia, quando invece questa fece posto a un'altra persona che rimase in piedi, immobile, sulla porta. Fissava Winston in silenzio.

Winston cancellò immediatamente il sorriso dalle sue labbra. Improvvisamente, sembrò aver riacquistato lucidità.

«Non può essere...»

La figura fece un passo verso di lui. Winston si avvicinò, lentamente, finché la guardia si fece avanti per fermarlo. Winston si bloccò, ma la figura alzò una mano, a rassicurare la guardia.

«Va tutto bene» disse. «Siamo vecchi amici».

Winston rabbrividì. Credeva di conoscere quella persona, ma non poteva essere. Era un'allucinazione, era tutto un'allucinazione.

«Tu...»

La figura avanzò ancora. Winston poteva distinguerne i contorni del volto, ora che la luce la raggiungeva più diffusamente. Il volto di quell'uomo emerse dall'ombra, davanti a lui. Winston gridò. E con un misto di ribrezzo e sgomento, crollò a terra.

«Oh, non abbia paura» disse la figura, sogghignando, mentre fissava compiaciuta Winston che si contorceva nel buio, in preda al panico. «Le garantisco che non ha nulla da temere, da me, Herr Churchill».

 

 

 

 

 

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