Am I a part of the cure. Or am I part of the disease

di zoisite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I am brain ***
Capitolo 2: *** I am on fire ***
Capitolo 3: *** Am I a part of the cure. Or am I part of the disease ***



Capitolo 1
*** I am brain ***






.I am brain.



Sherlock era straordinario, prodigioso e geniale. Ma sapeva anche essere assurdo, impossibile, persino pericoloso.
John era consapevole che, mai ed in nessun caso, sarebbe stato facile convivere con un uomo come lui, seguire il filo dei suoi monologhi, dei suoi silenzi.
Inoltre, Sherlock era capace di provare momenti di altissima euforia, altri di profondissima cupezza, di compiere gesti imprevedibili e di sfiorare ripetutamente la soglia dell'autolesionismo. Come quel giorno.

"Ti sei iniettato cosa?"

Non era una sorpresa per nessuno che Holmes, per i propri esperimenti, maneggiasse - tanto in laboratorio, quanto nella cucina di casa - pericolosi reagenti chimici, sostanze tossiche, veleni. Ma che, come aveva appena candidamente ammesso, potesse arrivare ad inocularsi più dosi di un vaccino, per provocarsi volontariamente la malattia, andava ad di là di qualsiasi comprensione. E, come medico, mandava John su tutte le furie.
Oltre a lasciarlo ufficialmente senza parole.

"Cinque giorni fa." precisò Sherlock dalla poltrona. "Devo sentirmi lusingato dal tuo silenzio?" aveva poi mormorato, con un lieve sorriso compiaciuto sulle labbra e già febbricitante, a giudicare dagli occhi lucidi.
"Non preoccuparti, John, è solo influenza." Svolazzo della mano. "Il virus di stagione. Ormai l'incubazione dovrebbe essere arrivata al termine."
Impossibile credere - in quel momento - di avere a che fare con un uomo adulto, tecnicamente maturo, uno che viveva nel mondo contemporaneo e non in qualche rocambolesco poliziesco vittoriano. Un uomo che, si supponeva, badasse a sé (anche se, ogni giorno, il dubbio che questo non fosse vero si radicava sempre più motivatamente).

"E perché, di grazia, avresti fatto una cosa del genere?" domandò Watson, cercando, senza successo, di controllare il volume della voce.

"La febbre mi serve a pensare, John. Ho bisogno d'indebolire le periferiche per potenziare l'hard drive centrale."

Pazzesco. Malato.

"La febbre non ti aiuterà affatto a pensare, anzi ti farà sentire confuso. Perché maltratti così il tuo corpo?" aveva commentato John, accigliato da quell'illogicità infantile.

"Perché io sono cervello. Il resto di me è una mera appendice."

Come tutte le sue scempiaggini, anche questa aveva un senso.
Più volte John s'era già soffermato a pensare che doveva esserci qualcosa di differente in Holmes; se inizialmente aveva pensato che fosse solo la mente di Sherlock ad essere unica e singolare, più il tempo passava e più si era persuaso che, no, anche il suo corpo doveva essere tutt'altro che ordinario.
Non si alimentava mai, apparentamente, e nella realtà mangiava comunque pochissimo. Non dormiva che poche ore, neanche tutte le notti. Era esile e pareva quasi delicato, con quell'incarnato bianchissimo, il collo lungo, le mani affusolate, le braccia sottili. Ma correva veloce, picchiava come un pugile, non soffriva il freddo e non si ammalava, salvo che in questo caso corrente, che non avrebbe fatto comunque testo. Il legame fra Psiche e Soma, già misterioso in chiunque, lo era tanto più in Sherlock: di questo Watson era persuaso.

Ma, grazie a Dio, John era per contro concreto e saldo, con i piedi per terra, con un ottimo controllo di sé e con una pazienza dai limiti sempre più ampi. E lui ringraziava quotidianamente tutti i suoi santi protettori, da Ippocrate a Sir Alexander Fleming, nonché la solida formazione della Barts e persino l'esperienza sul campo di battaglia, per essere diventato un bravo medico.
"Per fortuna", si disse. Ed il motivo di questa riflessione... era difficile da spiegare, al di là del momento contingente, nel quale senza dubbio la conoscenza medica avrebbe aiutato.

In senso più ampio, John non sapeva perché era importante che lui ci fosse, ma percepiva distintamente, che era proprio questo -- importante -- essere lì, nella vita di Sherlock, in quella casa che non conosceva un giorno di pace. John sentiva che non avrebbe voluto essere da nessun'altra parte.

Ignaro dei suoi pensieri, il contagiato continuava a parlare.
"Dopo che il mio corpo sarà aggredito dal virus, avrò la febbre, poi guarirò, e il mio cervello troverà nuove risorse utili a cogliere la soluzione del... Oh, non importa."

Watson comprese: Sherlock dunque lavorava a un caso da solo? Poco male. Non riusciva a venirne a capo. Ben gli stava. Però, che dovesse infliggersi un malanno solo perché sperava di poter intravedere, grazie ad esso, la soluzione, il dettaglio che gli era sfuggito... Questo era idiota. Grandiosamente idiota.
Ma, malgrado John motivasse a sé stesso che un dottore non può venir meno al proprio compito e che dunque avrebbe curato Sherlock solo per questa ragione, sapeva perfettamente che la deontologia professionale non c'entrava nulla. Ma perché avvertiva così pressante ed urgente il bisogno di proteggerlo? Non glielo chiedeva, non ne aveva bisogno e, spesso, non se lo meritava nemmeno! Andiamo!
E, soprattutto, perché si sorprendeva disposto a passar sopra a qualsiasi cosa, ed anche in questo caso si sentiva già pronto ad accettare la patologica trovata del suo coinquilino, e a farsi in quattro per alleviargliene le conseguenze?

Forse perché, John si disse, i miracoli non avevano mai fatto parte delle sue aspirazioni: come medico, desiderava intervenire solo su quello che poteva essere curato, salvaguardando e rispettando la natura delle cose.
Per analogia, stare accanto a Sherlock, per lui, non significava volerlo trasformare in un'altra persona. Significava soltanto preservarlo da ciò che avrebbe potuto fargli male. Ecco perché non poteva davvero prendersela con lui, ecco qual era il motivo di essere lì. O uno dei motivi.

"Va a stenderti sul divano, voglio darti un'occhiata."


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Il seguito, presto!
Il titolo della fanfiction proviene da "Clocks" dei Coldplay, una canzone che mi ha perseguitata per ragioni che sarebbe troppo prolisso spiegare qui, ma che meritava una punizione, in una maniera o nell'altra XD
La citazione "I am brain, Watson. The rest of me is a mere appendix" è tratta invece da Sir Arthur Conan Doyle, The case-book of Sherlock Holmes, The Mazarin Stone.

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Capitolo 2
*** I am on fire ***






.I am on fire.



"Per prima cosa", e non era John  a parlare, ma il medico in lui, "voglio sapere che cosa hai preso esattamente. E in che quantità."

Non aveva senso continuare a discutere con Sherlock per quel che aveva fatto. Piuttosto, bisognava agire, nel caso in cui quell'enorme idiozia d'iniettarsi volontariamente chissà quale virus si rivelasse, per il detective, un pericolo concreto.
Una vocina lontana, in Watson, gli diceva che si stava comportando come una madre oppressiva, che esamina il figlio diciassettenne di ritorno dalla discoteca.
Cos'hai preso? Quanta te ne sei fatta?
Eccetto l'insignificante dettaglio che Sherlock non era un adolescente, John probabilmente non somigliava nemmeno un pò alla signora Holmes e nessuno si era sballato. Almeno, non quel giorno.

Ne convenne: si trovava in una posizione paradossale. Ma ricacciò immediatamente indietro quei pensieri, sicuro di agire per il meglio e, anzi, aggiunse, prima che l'altro potesse parlare: "Se non collabori, chiamo un'ambulanza e chiedo il ricovero coatto finché non sarà accertata la tua condizione di salute. Posso farlo."
Era un medico, per la miseria. Uno che sa quello che fa, e fa quello che deve.

Sherlock non reclamò: aveva obbedito, poco prima, andandosi a stendere sul divano così come gli era stato ordinato, e rispose tranquillamente alla domanda che gli era stata posta: "Le fialette sono ancora nel cestino della mia stanza."

"Bene."

"John..."

"Vado a vedere, resta lì."



Recuperò nel cestino le fiale vuote e, controllando le indicazioni sulle etichette, John in parte si tranquillizzò. Se non altro, Sherlock non aveva mentito sulla natura della sostanza incriminata, né aveva esagerato con le dosi. Gli sarebbe venuto probabilmente lo stesso malanno che avrebbe potuto contrarre se qualcuno gli avesse starnutito in faccia in metropolitana. Non sarebbe morto per quello.  Era un grande progresso. Per evitare sorprese, John decise che l'avrebbe comunque visitato e tenuto sotto controllo, in caso di imprevisti o eventuali peggioramenti. Uscendo dalla camera da letto, fece una deviazione fino alla propria, prima di tornare in soggiorno.
Aveva preso la borsa.
Sherlock non potè, questa volta, trattenere un commento.

"Fai sul serio, dottore."



Ma Watson non aveva, al momento, davvero alcuna voglia di scherzare e, sedendosi sul basso tavolino di legno, iniziò ad esaminare il suo coinquilino con gesti precisi, fermi e poco cerimoniosi.

"Vedi, Sherlock" esordì, e si pentì subito d'aver assunto un tono pedante, ma era esasperato e quelle parole gli sgorgavano senza che potesse fare molto per smussarne gli spigoli "il tuo cervello sarà fenomenale, mentre il resto è, secondo te, pura manovalanza...", nel frattempo rilevò una temperatura corporea elevata ed il battito accelerato  "...ma è il  corpo che permette a quel cervello di vedere, di sentire, di toccare, di muoversi, d'interagire con il mondo...", e riscontrò anche una leggera alterazione della pressione arteriosa "...e senza di esso sarebbe perfettamente isolato, perfettamente inutile".

L'altro restò in ascolto e Watson si apprestò ad affrontare la parte del discorso comprensiva di minacce. Non è che non se ne rendesse conto, è che non riusciva a fermarsi. "Non mangi adeguatamente, non dormi abbastanza, ti ammali di proposito, ti esponi a inutili rischi. Il tuo corpo un giorno ti presenterà il conto, se non ti metti in testa di imparare ad assecondarlo e di cambiare le tue abitudini autolesioniste e distruttive."

Gli premette il pollice sul collo, per tastare i linfonodi, e Sherlock emise un lieve, gutturale, suono di protesta.

John considerò che era il momento di farla finita con la predica. "Fa male qui?", chiese, moderando la pressione dei polpastrelli sulla gola sensibile.

Sherlock annuì con lo sguardo, prima di aggiungere "Un pò."

"E qui?" chiese ancora Watson, spostando le dita sotto l'orecchio.

"Meno."



"C'è un'infiammazione in atto, i linfonodi si ingrossano. Non è una cosa negativa, anzi, è segno che il tuo sistema immunitario sta combattendo."
Bene. Ora stava spiegando il funzionamento del sistema linfatico al grande Sherlock Holmes, esperto di anatomia patologica e medicina legale, come se fosse un paziente di otto anni. Davvero fantastico. John si sentì un perfetto imbecille e gli venne da ridere.

Ma Sherlock non rideva. Al contrario, era insolitamente quieto e pareva incuriosito dalle parole e dai movimenti di John, che seguiva con occhi attenti, affilati.

Le dita di Watson, in contrasto con quel collo straordinariamente pallido, sembravano ancora abbronzate, come quando aveva appena fatto ritorno dall'Afghanistan. Ed erano calde, malgrado fra i due non fosse lui ad avere la febbre. Da quella posizione, facendo scivolare il palmo verso la mandibola di Sherlock, John soprappensiero si ritrovò con la mano a coppa intorno alla guancia dell'altro, il pollice quasi a sfiorargli le labbra.
Fu un attimo indefinibile.
Ed infinito.



Cosa faceva? Cosa voleva? E che cosa stava pensando quell'uomo disteso davanti a lui, che sembrava fissarlo senza sbattere le palpebre, come fanno i gatti? Domande per le quali non aveva risposte.
Lui.
Ma Sherlock, a quanto pare, sì. A Sherlock le risposte non mancano mai.



"Scopami, John."




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Grazie per i commenti al precedente capitolo e scusate la frammentazione.
Alla fine, avrei potuto condensare il tutto in una oneshot, anziché infliggervi tre (saranno tre) parti >o<
Ma ho preferito questa suddivisione, corrispondente ai tre momenti narrativi: Brain - Fire - Disease.
Tanto s'è capito dove voglio andare a parare, no? XDDD Chu.

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Capitolo 3
*** Am I a part of the cure. Or am I part of the disease ***






.Am I a part of the cure. Or am I part of the disease.



John si schiarì la voce. "Come hai detto?"

"Ho detto scopami."
Pausa. 
"...Se vuoi."

Aveva sussurrato. Sembrava calmo.
Sembrava caldo.
Dio.
E' la febbre che parla, la febbre di Sherlock che fa alzare la temperatura anche a me, sancì John.

E cercò di dominare il momentaneo panico, anch'esso in pericolosa ascesa, nel tentativo di pensare.
Perché l'altro lo stava osservando come chi attende una risposta. Una reazione.
E si supponeva che John riprendesse in un tempo ragionevole, per esempio, a respirare.


Ma.

Scopami.


Perché?
Per delirio o debolezza? Per noia o per bisogno?
Oppure. Per desiderio?
Perché diavolo gliel'aveva chiesto? E lui ora cosa avrebbe dovuto fare?
Accettare e rischiare che Sherlock in seguito se pentisse.
O rifiutare e rischiare che Sherlock si offendesse e non gliene riparlasse mai più.

"Hai detto che devo ascoltare il mio corpo, John. Lo sto facendo."


Il dottore ebbe una momentanea vertigine.
Forse il desiderio del suo stravagante coinquilino era dettato dalla prossimità fisica, dal contatto, dalla particolarità di quella situazione?
O forse, invece, aveva pronunciato quella proposta dopo averla presa in considerazione, e poi scartata, in precedenti tentativi?
Sì: poteva non essere una tentazione estemporanea.

Fra di loro, in realtà, aleggiava qualcosa da tempo.
Da sempre.
Si trattava soltanto di dirselo. Lo sapevano già tutti: Mycroft, Mrs. Hudson, Angelo del ristorante italiano. Sebastian.
Solo John doveva ancora prenderne atto.
Ma il marito, si sa, è sempre l'ultimo a saperl--
No. Davvero. N-o.

Watson sentì di essere giunto al limite (superato) della sanità mentale.

...


E lo valicò.

Con la mano ancora sulla guancia di Sherlock, strinse repentinamente la presa mentre si chinava su di lui e gli copriva le labbra con le proprie.
Erano calde. Bollenti.
Ah, il virus.
Pazienza.

Per un lunghissimo istante, il bacio fu casto, poi lentamente John spinse per aprirsi un varco fra le labbra di Sherlock.
Ne esplorò, con la lingua, la lingua- lascivamente, coscienziosamente.
L'altro assecondava. Partecipava. Mordeva.

John infine ruppe il bacio a malincuore, consapevole che qualcuno, in quel momento, aveva più bisogno di paracetamolo che d'amore.
La seconda, cosa, quanto meno, andava somministrata in un secondo tempo. Prima il Panadol.

Tuttavia, qualcosa serpeggiò per un attimo, in quel preciso istante; il Dubbio lo guardò in faccia, e rise di lui, e si fece certezza: "Sherlock. Perché ti sei fatto venire la febbre? Ha a che fare con me? Sono... Sono la cura o la malattia?"


Si sarebbe aspettato una risposta acuta, affilata, dal grande Sherlock Holmes.
Qualcosa che avrebbe ricordato per settimane, nei momenti più impensati, al supermercato davanti ad una di quei lettori ottici infernali.
In ambulatorio, mentre Sarah l'osservava e, forse, capiva tutto. E, puntualmente, sarebbe stato imbarazzante.


Si sarebbe aspettato parole che non arrivarono, perché Sherlock doveva, sempre, dannatamente stupirlo, anche con un silenzio inatteso in un momento topico. L'attirò, solo, eloquentemente a sé e nessuno dei due ebbe tempo di dire altro per buona parte della serata.




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Me felice per i commenti che avete lasciato al secondo capitolo *^*
Mi scuso nuovamente per lo spezzattamento di questa fanfiction, m'è venuta fuori così e con questa conclusione senza che io potessi farci molto. S'è scritta da sola. Male. >O<
So che l'espressione "il marito è sempre l'ultimo a saperlo" si riferisce, di solito, ad altre questioni XD Ma l'ho inserita in questo frangente perché l'accostamento John-maritino mi fa cadere per terra XD
Un ringraziamento speciale a Kiki May per aver sopportato tutti i miei deliri a riguardo di questo pairing, so essere molto pesante, e delirante. Grazie ç_ç
E grazie a chiunque passi di qui. Adoro questo fandom, spero che cresca tantissimo su EFP. Love, Zoi

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