Aprire gli occhi di Rota (/viewuser.php?uid=48345)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Signora Mamma ***
Capitolo 2: *** Signor Papà ***
Capitolo 3: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Signora Mamma ***
aprire gli occhi - 1
Aprire
gli occhi
**Capitolo
uno – Signora Mamma**
Well I keep my eyes open
I worry for nothing
And all the sweet things
I don't say
are gonna get me in
trouble some day
And the harder that I
try, I know
The harder I push you
away
And I’ll,
I’ll admit that I’m scared(*)
Hinata chiuse la portiera della propria macchina con mala grazia,
lasciandola scivolare dalle dita senza poterla fermare in tempo.
Così, non poté fare altro che deprimersi
all’idea della carrozzeria color rosso fiammante –
nuovamente – danneggiata dalla sua inesplicabile goffaggine.
Schiacciò il bottone del proprio portachiavi, facendo
scattare ogni sicura con un brillio dei fari e rendendo così
inaccessibile la vettura. Sorrise, allontanandosi infine con passo
lesto.
Attraversò velocemente la strada di cemento, facendo appena
rallentare una macchina impaziente, scusandosi alzando la mano al
conducente abbastanza irritato. Si ritrovò quindi davanti al
grande ingresso della Konoha Gymnasium, l’unica palestra nel
giro di due quartieri e mezzo sufficientemente attrezzata per fare del
lavoro fisico degno di chiamarsi tale.
Appoggiando la mano bianca alla maniglia, spinse l’anta di
vetro ed entrò dentro, lasciandosi investire
dall’aria decisamente più calda
dell’ingresso. Sorrise a Sakura quando si avvicinò
alla cassa, fermandosi quando lei fece un cenno di saluto.
Si sistemò la borsa sulla spalla mentre percorreva i
corridoi fino agli spogliatoi femminili, fermandosi a qualche metro di
distanza dal loro ingresso. Lasciò che alcune ragazze
uscissero – felici, sudate, soddisfatte o meno: tutte
ugualmente rumorose – prima di prendere coraggio e superare
la porta.
L’odore di bagnoschiuma le arrivò subito al naso,
assieme al vapore e a quello vago di sudore. Muovendo piccoli passi,
riuscì ad addentrarsi a sufficienza per scorgere i camerini
e i vari armadietti per le cose personali. Si guardò attorno
un poco nervosamente, controllando l’ora
all’orologio al polso.
Che avesse sbagliato ad andare lì così presto?
-Hinata, sono qui…-
La Hyuuga voltò la testa di scatto, trovando finalmente
ciò che cercava: Kurenai sorrideva, anche se era
evidentemente spossata. Seduta com’era sopra una panca di
legno, prese l’asciugamano poggiato sulle gambe e lo
portò ai capelli scuri, cominciando a strofinarli con
energia.
Sorrise dolcemente, lasciandosi andare ad un sospiro liberatorio.
-Sono venuta a prenderti, Kurenai…-
*******
La donna si accarezzava il ventre mentre la città scorreva
al di fuori dei finestrini della macchina.
Lo sguardo vagava sul grigio delle case, su un vuoto informe che
correva assieme all’acceleratore stimolato dal piede di
Hinata.
Sul sedile posteriore, in una delle due borse da passeggio gettate in
fretta, c’era una busta di carta semitrasparente, i cui bordi
ancora testimoniavano la fretta brutale con cui era stata aperta.
Hinata si costrinse a non guardare Kurenai cercando di non metterle
addosso troppa pressione. Sorrideva, ma si poteva notare quanto il suo
sorriso fosse falso e dettato dalla circostanza. Specialmente quando un
imbecille le tagliò di netto la strada costringendola a
frenare di colpo, ribaltando quasi il passeggero per la sorpresa.
Kurenai aveva sputato parole velenose, irritata come poche altre volte.
Eppure, in quel momento, a parte qualche sguardo fugace, pareva che
nessuna delle due fosse davvero intenzionata ad iniziare il discorso.
Un semaforo fornì l’occasione giusta: il momento
di pausa in cui il conducente aveva la concentrazione libera da ogni
impegno puramente meccanico. Ma neppure in quel frangente si
riuscì a dire nulla. E la casa di Kurenai si faceva sempre
più vicina.
La Hyuuga alla fine prese coraggio, attardandosi più del
necessario ad uno stop.
-Senti, Kurenai, vorrei sapere… Com’è
andata la mattinata?-
La donna sorrise, socchiudendo gli occhi e voltando appena il viso.
Era sempre stata così, Hinata. Aveva sempre trattenuto ogni
emozione compromettente per puro scrupolo verso le persone che la
circondavano – troppo scrupolo, in alcuni casi.
Così, le dava ancora l’occasione di fuggire
dall’argomento, senza obbligarla ad affrontarlo e
specialmente non con lei. Dopotutto, era una faccenda sua privata.
Ma Kurenai non era tipo da farsi troppi riguardi, specialmente quando
non ce n’era alcuna ragione. Bisognava semplicemente prendere
le cose come stavano, e non parlarne certo non portava alcuna soluzione.
Guardò la strada, col sorriso sulle labbra sereno.
-Sono incinta. Le analisi hanno dato la conferma…-
Hinata ripartì, fissando a sua volta la strada avanti a
sé – l’acceleratore fu abbassato troppo,
per distrazione, tanto che sia la conducente che il passeggero furono
schiacciati contro i rispettivi sedili.
Tentò di sorridere, con evidenti scarsi risultati.
-Beh, è bene, no? Insomma, è… bene?
Era ciò che doveva succedere! Bene! Bene?-
La giovane sobbalzò quando sentì la mano della
donna accarezzarle dolcemente il viso, passando il dito sulla guancia e
attraverso i fini capelli scuri.
-Sì, è certamente bene…-
Hinata si girò qualche istante a sorriderle, un poco
più sollevata – finendo quasi per investire in
pieno un povero micio capitato sulla strada per caso.
La donna sospirò, tornando a guardare nel vuoto.
Conosceva Hinata da circa tre anni, poco più poco meno.
Trentasei mesi di convivenza ravvicinata, a causa del lavoro che
entrambe svolgevano. Una, ingegnere aziendale; l’altra,
proprietaria dell’azienda in questione. Una, che continuava a
chiamarla “signora Sarutobi” nonostante fossero
entrate più che in confidenza ormai da tempo;
l’altra, che tentava invano ogni volta di spiegarle quanto
non ci fosse niente di male se le loro mani non si toccassero sempre e
solo casualmente.
Stretto contatto, voluto o meno.
Pian piano, padrone e dipendente si erano ritrovate più
spesso a condividere momenti, chiacchiere, risa, intere giornate
l’una accanto all’altra.
Lavoro, certo, ma non si poteva parlare di lavoro quando Hinata veniva
sorpresa a fissare Kurenai per minuti interi senza avere la minima
intenzione di dire qualcosa, così come non si poteva parlare
di lavoro quando Kurenai si avvicinava alla Hyuuga per farle vedere da
vicino cosa in un dato progetto andasse o non andasse bene.
Tutti particolari che alla mente attenta e severa della Sarutobi non
sfuggirono a lungo.
Forse era stato il suo bisogno mai totalmente sopito di sentire una
spalla su cui appoggiarsi nel momento del pianto, forse era stata la
solitudine di una casa così vuota e fredda da far male il
cuore ad averla spinta a prendere l’iniziativa.
Forse, ma Kurenai si rifiutava di dare la colpa a certi fatti
– le sembrava di svilire di altri, ben più
importanti.
Se quel lontano pomeriggio aveva deciso di baciare Hinata, invece che
lasciarla parlare di gravità e di masse e pesi specifici, lo
attribuiva solamente al desiderio che in quel momento aveva provato.
Non se n’era mai pentita, dopo. Neppure un solo istante.
La macchina si fermò, costeggiando il marciapiede.
Hinata sporse il busto verso il cruscotto, guardando con occhi attenti
le case dall’altro lato della strada: non pareva esserci
nessuno.
-Non ce n’è bisogno…-
La giovane si voltò a guardare Kurenai, con un sorriso un
poco preoccupato sulle labbra.
Sempre, sempre accomodante – sempre avendo paura di ferire.
-Scusa…-
La vide sorridere, prima si avvicinarsi al suo viso e a posarle un
ultimo bacio sulle labbra.
-Ci si vede domani, Hinata.-
La donna scese in fretta, prendendo la propria borsa e sbattendo con
una certa forza la portiera, ma senza però dimenticare di
voltarsi e rispondere al saluto della sua mano mentre con la macchina
si allontanava sempre più velocemente.
*******
Hinata si era fermata qualche casa prima della sua, sapendo bene chi
avrebbe potuto vederla e non gradire affatto la sua presenza in quei
luoghi.
Ci impiegò cinque minuti netti, picchiettando nervosamente i
tacchi sul marciapiede sporco.
Si ritrovò di fronte a una casa modesta, dal piccolo
giardino curato e dalle finestre grandi e serrate. Con un sospiro, le
bastò abbassare la maniglia della porta per ritrovarsi
dentro casa.
La prima cosa che sentì fu uno strillo acuto e pieno di
entusiasmo.
-Mamma!-
Quando vide il piccolo – il suo piccolo – Asuma
correrle incontro, non poté che sorridergli di rimando.
Appoggiò in fretta la borsa sul tavolino vicino alla porta,
si accucciò e lo prese in braccio, coprendo il suo viso di
baci. Il piccolo la abbracciò, felice e festante come sempre.
Un’altra voce la raggiunse, quando era ancora impegnata a
dare retta al piccolo che le stava affannosamente raccontando come il
suo amico dell’asilo avesse tentato di soffocarlo mettendogli
la testa dentro la sabbia del giardino.
-Sei arrivata presto, vedo…-
Kurenai riservò solo un’occhiata sfuggente alla
donna che le stava innanzi, ritta e rigida in volto. La stava
squadrando con fare fin troppo accusatorio.
Ma piuttosto che rispondere piccata a sua madre preferiva concentrarsi
sul sorriso privo di malizia di Asuma, baciandolo e baciandolo ancora.
La signora Yuhi guardò sorridendo il nipote, mentre veniva
lasciato a terra e correva ancora una volta ai suoi giochi. Poi,
rivolse un’occhiata severa alla figlia.
-Almeno nel tempo libero, dovresti badare tu a tuo figlio. Non puoi
scaricarlo a me ogni volta che ti fa comodo!-
Kurenai sapeva dove la donna volesse andare a parere, sapeva delle
insinuazioni di fondo che quella frase nascondeva. Quel discorso le era
stato rivolto fin troppo spesso, in quegli ultimi tempi.
-Se ti scoccia così tanto badare a tuo nipote, la prossima
volta chiamo una babysitter…-
-Potresti semplicemente non accampare impegni inesistenti per farmi
correre qui!-
-Potresti smettere di rimproverarmi ogni passo che faccio fuori da
questa casa!-
Silenzio, persino Asuma si era zittito nel sentire il tono irato delle
due donne. Le stava spiando con aria vagamente preoccupata da dietro il
divano.
Kurenai se ne accorse, gli sorrise e andò da lui, lasciando
così cadere ogni eventuale discussione.
-Mi vergogno di te!-
La prima volta che Kurenai aveva avuto l’ardire di portare
Hinata a casa propria, per farle conoscere il figlio avuto dal suo
defunto marito, aveva visto sua madre furente come mai lo era stata in
tutta la sua vita.
L’aveva chiamata svergognata, l’aveva chiamata
traditrice, l’aveva chiamata in mille altri modi diversi che
lei preferiva molto di più dimenticare.
Aveva detto che una simile donna non poteva essere madre –
una donna da una morale tanto distorta da tradire il marito in quella maniera.
Perché un bimbo ha bisogno di un padre e di una madre, e se
lei aveva così urgenza d’entrare nel letto di
qualcun altro che almeno fosse del sesso giusto.
Aveva quasi gridato che non poteva, non poteva essere così.
Era infinitamente sbagliato.
Aveva insinuato il dubbio che non fosse mai stata innamorata di Asuma.
Kurenai non aveva sentito neanche il dovere di risponderle, a quel
punto. Si era limitata a dire di avere abbastanza ragione e
maturità da poter fare quel che la mente e il cuore le
suggerivano.
Il piccolo Asuma non aveva avuto modo di sentire le parole terribili
della nonna, così preso a giocare con la nuova amica che
proprio non aveva altre attenzioni da distribuire. Hinata,
però, ben udì. In quella casa non si fece
più vedere.
Andava a trovare Asuma quando sapeva per certo che la signora Yuhi non
si trovasse in città, o quando Kurenai portava il figlio al
parco o a fare una passeggiata. Altri contatti non aveva col bimbo.
Ma la situazione era ancora di più degenerata quando, per un
motivo o per un altro, la signora Yuhi aveva scoperto il progetto
ultimo di Kurenai.
-Hanno telefonato…-
Kurenai si voltò a guardarla, aspettando il resto della
frase.
-Loro. Lui
e l’altro. Kaguya.
Mi hanno chiesto di te…-
La giovane donna stette un attimo in silenzio, cominciando a temere
seriamente la successiva parte del racconto. Lo poteva immaginare fin
troppo bene.
Ma la donna non continuò, lasciando intendere le proprie
azioni con un silenzio eloquente e un’occhiata raggelante.
In compenso, sputò acredine dalle labbra.
-È la cosa più vile e meschina che tu avessi mai
potuto fare, Kurenai!-
Ecco, appunto.
Kurenai riprese a fare quel che stava facendo prima, senza aggiungere
ulteriori commenti alla cosa. Avrebbe chiamato Kimimaro più
tardi, quando sarebbe stata sola e senza orecchie indiscrete a
registrare ogni sua singola parola.
Ma la donna persistette, senza lasciarle scampo.
-Come puoi fare una cosa del genere? Non pensi all’anima del
povero Asuma?-
La guardò un’ultima volta, cercando di reprimere
la voglia di darle una sberla – e un dolore allucinante per
essere costretta dall’orgoglio a dire una simile cattiveria.
-Asuma è morto. Non mi curo di quel che ora è
polvere!-
*******
Il piccolo Asuma beveva avidamente il suo succo di frutta alla pesca,
facendo dondolare le gambette sull’orlo della sedia.
Era felice, lo si poteva intuire dal sorriso aperto sul suo viso. Non
si sentiva spaesato neppure in mezzo a tanti sconosciuti, neppure in
quel bar del centro commerciale della città, così
grande e immenso, pieno di luci, colori e suoni nuovi.
Pareva piuttosto assai eccitato.
Hinata cercò di allontanargli il bicchiere dalla bocca,
temendo per qualche assurdo motivo che soffocasse per la
quantità di liquido ingerito tutt’assieme.
-Fai con calma! Nessuno ti corre dietro! Bevi tranquillo!-
Gli accarezzava i capelli neri, scompigliandoli e pettinandoli assieme.
Lui le sorrideva, continuando imperterrito in quel che stava facendo.
In questa sua testardaggine cocciuta, assomigliava fin troppo alla
madre.
La Hyuuga sorrise al pensiero, tenendogli fermo il bicchiere mezzo
vuoto per non farlo cadere.
Senza rendersene conto, si era trovata a provare più che
affetto verso quel bimbo dal viso paffuto. Forse per quel suo modo di
fare tanto intransigente e imperioso da scaldarle il cuore, forse per
il semplice pensiero che quello era il figlio di Kurenai –
forse, ancora, perché quello sguardo scuro le ricordava
troppo la sua donna.
Ponderò sulle sensazioni che la sua presenza le causava.
Inconsciamente, dentro il cuore pensava quanto bene potesse fare la sua
presenza all’interno delle loro vite.
Kimimaro Kaguya non dava l’aria di essere un uomo molto
paterno. Tutt’altro, aveva lo sguardo spento e
un’espressione in viso che sembrava voler esprimere quanta
indifferenza un essere umano potesse provare.
Era la prima volta che Hinata vedeva il padre effettivo del figlio di
Kurenai, e la prima occhiata non fu molto gradevole.
-Piacere, Hinata Hyuuga!-
Lui si limitò ad allungare la mano e a stringere la sua,
dopodichè si sedette al tavolino e si rivolse
all’altra donna.
-Fammi vedere le analisi che hai fatto…-
Kurenai gli rivolse un’espressione professionale, prendendo
dalla propria borsa la busta bianca.
Hinata, a quel punto, fu quasi obbligata a rivolgersi
all’altro uomo lì presente – un tizio
dalla corporatura robusta e dagli improbabili capelli arancione
– sorridendo mesta.
Lui, dopo averla guardata un attimo titubante, le porse a sua volta la
mano e si presentò.
-Mi chiamo Juugo…-
-Il sesso del bambino
non si sa quale sia, è ancora troppo presto per saperlo.
Quel che però è certo è che
è sano, completamente sano. Dovrebbe nascere a Novembre,
verso la metà del mese. Non vi pare fantastico?-
*******
Mi è stato
chiesto il perché io facessi tutto questo.
Perché crescessi un bimbo nel mio grembo per darlo a qualcun
altro.
Forse è stato il fatto che Kimimaro mi ha ricordato la
stessa desolazione in cui ero io prima della nascita di Asuma, prima di
scoprire la gioia di tenere una creatura tra le proprie braccia.
È egoistico – forse – chiedere di avere
qualcosa di piccolo e tenero da proteggere, coccolare e cullare. Forse
lo è, forse è puro e semplice istinto.
Ma la cosa che più mi renderebbe felice sarebbe vedere lei
con Asuma in braccio – come una mamma all’interno
della nostra famiglia.
Si amano, lo vedo nei loro occhi. Lo vedo nel riflesso dei loro sguardi.
Non voglio chiedere il permesso a nessuno per amarli a mia volta.
Sono miei, entrambi.
Apro gli occhi e vedo lui – il mio piccolo Asuma.
Apro gli occhi ancora e vedo lei, Hinata.
Li apro una terza volta e li vedo assieme, tra le mie braccia.
Sorridono entrambi.
Lui mi bacia la guancia, lei mi bacia la bocca.
Non c’è una sola ombra che ci oscura, non la
parvenza di qualche tristezza.
Dio, è così difficile vedere quello che vedo io?
(*)Eyes Open, Gossip
Note pre-risultati:
Kurenai viene definita “signora Sarutobi”, dal primo
capitolo in poi, in quanto moglie effettiva di Asuma Sarutobi. E questo
per differenziarla dalla signora Yuhi, ovvero sua madre, comparsa
all’interno della storia.
Se da una parte vorrei far vedere le difficoltà che una madre,
così come una figlia o una donna, può provare nel vivere
la sua omosessualità, dall’altra vorrei anche far vedere
la “normalità” di una famiglia omosessuale, che
niente – dal mio punto di vista – ha di diverso da una
qualsiasi altra famiglia. Per questo, le scene di Juugo e Kimimaro sono
decisamente meno tese e più tranquille rispetto a quelle di
Hinata e Kurenai.
Un’altra cosa. Non mi soffermo molto su alcuni dettagli, come
può esserlo la procedura di matrimonio tra Kimimaro e Juugo
semplicemente perché non è propriamente quello di cui
intendo parlare. Non è che mi sono dimenticata di descriverlo,
non l’ho fatto per scelta mia personale e stilistica.
Poi, per quanto questa fan fiction peccherà –
perché di sicuro sarà così – io mi sono
ritrovata, grazie a questo contest, ad amare un’altra coppia.
Indi, come dire, sono grata di avere avuto la possibilità di
scriverla. Mi ha aperto un piccolo, nuovo mondo *-*
Note post- risultati:
Questa fan fiction si è classificata PRIMA al contest
"Gossip e omosessualità", indetto da reki chan e Kei_Saiyu
sul forum di EFP - come immagino si capisca dal banner posto
lassù in alto, in bella vista XD
Che dire? Diciamo subito con il fattore sorpresa: non me l'aspettavo,
sinceramente XD Avevo il terrore di essere andata fuori traccia e di
aver trattato argomenti come questi in maniera non efficace. Cosa che,
a conti fatti, mi avrebbe abbastanza orripilato.
Poi, era la prima volta che trattavo personaggi e pair simili. Avevo
fatto un cambio, prima avevo coppie decisamente più abbordabili.
Diciamo che mi sono scavata la fossa da sola X°D però, come
ho già detto nelle altre note, in realtà sono felice sia
di aver conosciuto questi personaggi sia di esserne riuscita, in
qualche modo, a coglierne la psicologia.
E niente, in realtà sono davvero felice che, nonostante tutto,
io sia riuscita a esprimere quanto volessi e sia riuscita anche a
parlare di tutto ciò in maniera coerente ed efficace. Sì,
è per me un motivo di orgoglio <3
Spero che il primo capitolo della mia brevissima Long fic vi sia piaciuto *O*
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Capitolo 2 *** Signor Papà ***
aprire gli occhi - 2
**Capitolo due – Signor Papà**
And the harder that I try, I know
The harder I push you away
And I’ll, I’ll admit that I’m scared(*)
Juugo cercava di seguire il discorso della donna che parlava in maniera
precisa ma decisamente troppo veloce di prassi e certificati
d’adozione, di soldi e al tempo stesso delle radiografie che
successivamente avrebbe dovuto affrontare per vedere lo sviluppo
dell’embrione.
Tempo un mesetto e avrebbero saputo se era maschio o femmina. Non che
gli importasse tanto, ma pareva che la donna fosse particolarmente
interessata alla cosa.
Dal canto suo, era la prima volta che la vedeva. Lei e la sua compagna
– Kimimaro non gli aveva detto né che fosse lesbica
né che fosse già madre di un altro pupo.
Però non importava, non importava davvero.
Kimimaro pareva conoscerla: stesso club di tennis o qualcosa del
genere, stesse alte compagnie, stesso tipo di persona – pareva
che il tutore di Kimimaro avesse persino lavorato a stretto contatto
con la donna, per cui fossero venuti a contatto tra loro a questo modo.
Insomma, erano conoscenti di vecchia data.
Sicuramente, se così non fosse stato, Kimimaro non avrebbe
permesso che suo figlio fosse cresciuto nel ventre di una perfetta
sconosciuta. Avrebbe rinunciato a quella via, semplicemente, optando
per un’adozione – come se fosse stato più semplice.
Ma il giovane Kaguya gli aveva già ampiamente dimostrato come
quel che voleva lo facesse diventare realtà. Erano sposati, ora,
no?
Quel carattere così fermo pareva quasi potesse superare l’impossibile: così lo aveva sempre visto Juugo.
-Dovresti darmi il tuo numero di cellulare. Almeno evito di farmi chiudere in faccia il telefono…-
Kurenai fissò l’uomo con lo sguardo un po’ vago,
cercando forse di ricollegare la sua frase a qualche evento che lei
stessa conosceva.
Poi si ricordò e comprese.
-Devi scusare mia madre…-
No, gli occhi dell’uomo non parevano conoscere tanto il perdono
– era evidente che gli fossero stati rivolti insulti che non
avrebbe scusato neppure dopo anni e anni dai fatti.
Appurato questo, Kurenai gli diede il numero del proprio telefono, onde evitare altri spiacevoli incontri via telefonica.
-Non penso abbiamo altro da dirci, a questo punto…-
Kimimaro si alzò, seguito a ruota da Juugo e dagli sguardo delle due donne ancora sedute al tavolino del bar.
Asuma doveva ancora finire quanto precedentemente ordinato.
-Penso ci si possa sentire fra un mese circa, se volete fra tre settimane…-
Kimimaro fu diretto e spiccio, non lasciò neanche il tempo di ipotizzare una soluzione diversa dalla sua.
-Tre settimane vanno più che bene. Arrivederci.-
*******
-Un figlio…-
A ripensarci ancora e a mente lucida, Juugo non credeva neanche a
sé stesso. Era impossibile da credere reale, tutto quello. Per
cui, la litania continuò a scivolare sulle sue labbra.
-Un figlio… Un figlio….-
La metropolitana sostò ad una fermata, facendo dondolare il
corpo appeso solo per un braccio ad un palo di metallo. Non se ne
accorse, se non quando arrivò quasi a contatto con il corpo di
suo marito. Lì, immobile, Kimimaro faceva quasi finta di non
sentirlo, troppo preso a ragionare per conto suo.
Gli diede un bacio, sorridendogli pieno di gioia.
-Un figlio!-
Il giovane Kaguya lo riprese senza lasciarsi contagiare troppo dalla
sua evidente felicità – anche se un lieve sorriso
riuscì a sfuggirgli.
-Non è che se lo ripeti arriva prima, Juugo…-
L’altro gli sorrise ancora, dandogli un secondo bacio.
La metropolitana fermò ancora, aprendo le ante metalliche e
facendo entrare persone e puzzo di città – smog, fumo e
umido. La pioggia stava ancora scendendo su Konoha, mentre lentamente
la gente si dirigeva verso la propria dimora.
Il chiacchiericcio di sottofondo era persistente, così come il lento battere delle gocce sull’asfalto grigio.
Quando i due riemersero dal sottosuolo, dovettero correre in fretta sotto il primo riparo disponibile.
Ridendo l’uno, sogghignando l’altro.
Fortunatamente, la loro meta non distava molto dalla fermata, solo qualche isolato e nulla più.
In un alto condominio della periferia Est erano riusciti a riservarsi
un piccolo angolo solo per loro. Un posto da poter chiamare senza ombra
di dubbio casa.
Juugo non aveva mai considerato l’ipotesi di diventare padre, non
l’aveva mai considerata specialmente quando si era ritrovato ad
ammettere di non trovare per nulla eccitante il seno morbido di una
donna quanto piuttosto le forme sode e toniche di un baldo giovane.
Cosa, in effetti, lo avesse mai attratto di Kimimaro – quel
malaticcio e pallido figuro tristo – non se lo spiegava con
precisione neppure lui. Doveva essere il carattere, sicuramente. Il
carattere forte con cui riusciva a dominare ogni impulso, trattandolo
con la dovuta fermezza e indifferenza.
Pareva quasi non si lasciasse mai coinvolgere da niente, Kimimaro.
Eppure, a tanti anni dal loro primo incontro, Juugo poteva affermare
quasi con certezza di saper interpretare ogni singolo silenzio col
quale lui comunicava.
Ed era stato quello ad averli avvicinati tanto da iniziare una relazione fino al matrimonio.
Perché Kimimaro era stato irremovibile, ad un certo punto. E
come al solito lui non aveva potuto che seguirlo diligentemente.
-Hai pensato a che nome vorresti dargli?-
Kimimaro lo aveva guardato un poco soprappensiero, mentre ancora
appoggiava allo schienale di una sedia il proprio cappotto, per farlo
asciugare.
Lo guardò decisamente scettico.
-Non sappiamo neppure che sesso abbia…-
Juugo non si fermò neanche davanti a quella che era la fredda
realtà, rivelando il proprio desiderio con una semplicità
disarmante.
-Se fosse una lei vorrei che si chiamasse Sakura. Se fosse un lui…-
Ponderò la cosa, in realtà aveva sempre e solo desiderato
avere una bambina – mai si era posto il problema. Kimimaro
però fu più veloce di lui nel formulare la fine del
pensiero.
-Sasuke. Se nasce maschio si chiamerà Sasuke.-
Juugo si fermò a fissarlo, sorpreso di così tanta determinazione.
Sinceramente, non se l’aspettava proprio che scegliesse quel nome, legato così tanto al suo passato.
Ma alla fine si aprì in un sorriso sincero, andando ad abbracciarlo da dietro la schiena.
-Come vuoi tu…-
*******
La dipendenza dall’alcool l’aveva reso quasi una bestia.
Incontrollabile, animale, violento fino all’esagerazione. Era
stato fermato dalla polizia perché aveva picchiato
selvaggiamente un ragazzo incontrato per strada, che aveva avuto come
unica colpa quella di avere lo stesso colore dei capelli del suo datore
di lavoro che l’aveva rimandato a casa per colpa della sua
omosessualità.
Il ragazzo sopravvisse, anche se passò qualche giorno all’ospedale.
Lui fu rinchiuso in una clinica, a doppia mandata e buttando via la chiave.
Sotto la custodia del dottor Orochimaru, aveva iniziato la sua terapia
di disintossicazione. Lentamente, a passi misurati ma continui, giorno
dopo giorno.
Ma niente pareva poterlo salvare.
Per quante volte sembrava potesse guarire, alla prima occasione il suo autocontrollo cedeva.
Più di una volta lo si ritrovò con le mani serrate
attorno al collo di un altro ricoverato, con l’espressione quasi
esaltata e un ché di ferino negli occhi.
Sembrava quasi chiaro quanto non volesse, lui per primo, liberarsi dalla febbre che gli muoveva il corpo.
E come biasimarlo? Non si riconosceva ancora pienamente nel mondo che
lo circondava – così aveva detto, febbricitante, allo
psicologo che lo seguiva – non riusciva ad accettarsi né
ad accettare quel che gli capitava. Essere considerato una sorta di
animale era molto più semplice. Per tutti e specialmente per lui.
In un clima come quello, teso tra il desiderio di annullarsi nel
proprio istinto e una parvenza di resistenza all’oblio dei sensi,
conobbe Kimimaro.
Lì, il mondo cambiò radicalmente.
Kimimaro era forte. Kimimaro non si lasciava intimidire. Kimimaro gli
sputava in faccia la realtà così com’era, ma era sempre disposto a porgergli la mano per aiutarlo ad alzarsi.
Questo l’aveva salvato da sé stesso, gli aveva permesso di ritornare a una vita quasi tranquilla.
Quasi, perché ogni volta che gli venivano rivolti insulti sulla
propria natura sessuale lui scoppiava – diventava una furia.
Ma aveva imparato a contenersi un poco, più per paura di
ritornare in clinica che per altro, o per la frase di Kimimaro quando
l’aveva visto praticamente addosso ad una commessa del
supermercato.
-Alza ancora le mani su una persona e non mi vedrai mai più…-
Quando Kimimaro prometteva una cosa, Juugo era sicuro che l’avrebbe mantenuta.
Cominciò a trattenersi sempre di più.
*******
Quella sera, dopo cena, il telefono squillò.
Kimimaro si alzò in fretta, sapendo bene che fosse per lui.
Infatti, dopo che Juugo lo vide allontanarsi dalla tavola e prendere in
mano la cornetta, le prime parole che sentì nette gli rivelarono
subito l’identità della persona al di là del filo.
-Buonasera, signor Orochimaru…-
L’uomo si alzò, cominciando a sparecchiare lentamente.
-Sì, abbiamo incontrato la signora Sarutobi questo pomeriggio.
Sì, sta bene, sembra in ottima salute. Sì, sembra che
dalle analisi sia andato tutto bene. Sì, dovrebbe nascere verso
la metà di Novembre…-
Orochimaru continuò col suo interrogatorio – dopotutto,
non lo vedeva da più di tre mesi – ottenendo sempre
risposte meccaniche.
Non che lo facesse apposta, di sembrare così distante e
distaccato, ma la venerazione di Kimimaro per quell’uomo era tale
perché non si potesse permettere un tono colloquiale da pari a
pari. La distanza che sanciva ogni volta tra loro due era solamente per
mettere in risalto l’altro uomo.
Tossì, interrompendo solo per qualche secondo la conversazione.
-Sì, anche noi stiamo bene…-
Alla fine, quando Kimimaro tornò da lui, aveva già finito di sistemare i piatti nella lavastoviglie.
Gli sorrise, avvicinandolo per prenderlo in un abbraccio. Gli diede un bacio a fior di labbra.
-Sei felice?-
Lo guardò negli occhi – diretto, senza lasciargli possibilità di scappare.
-Sei felice? Ora potremmo dire di essere una vera famiglia…-
Lo sentì stringere la presa, quel poco che servì
perché i loro corpi entrassero in contatto in maniera più
intima. Kimimaro, alla fine, gli circondò la vita con le braccia
a sua volta.
-Anche prima lo eravamo, io e te… Siamo una famiglia da parecchio tempo…-
Juugo sbuffò, un poco irritato e un poco divertito da quel
volere essere sempre puntiglioso e preciso del compagno. Anche in una
situazione come quella doveva avere qualcosa da ridire.
Pazzesco!
-Saremo una famiglia completa! Avremo un bambino a cui badare! Un piccolo te da crescere!-
Una famiglia, una famiglia vera. Come tutte le famiglie normali, come tutte le altre famiglie esistenti.
Due genitori e un figlio. Due figure adulte e un piccolo umano in divenire.
Due più uno, tre. Il numero perfetto.
Juugo era esaltato da tutto quello, lo si poteva leggere benissimo nel
suo sguardo – e sì, anche in quello apparentemente
immobile di suo marito c’era la medesima luce vibrante.
Kimimaro però rifletté a lungo sulla frase appena detta
dall’uomo, considerando ogni eventuale possibilità che
essa proponeva.
Poi, prima che Juugo scendesse a baciarlo in maniera seria, stroncando
ogni altro tentativo di fare conversazione razionale, gli espose un
dubbio che lo assillava.
-E se viene squilibrato come te?-
Juugo restò di stucco, prima di rispondere borbottando e un poco rabbuiato.
-Mi sembra difficile…-
Però, il suo sguardo si fece dolce quando portò una mano
ai capelli di Kimimaro, cominciando ad accarezzarli gentilmente e con
delicatezza.
-Sicuramente nascerà forte e sano. Sarà bellissimo,
intelligente e atletico. Sarà assolutamente un bimbo
meraviglioso. Un bimbo stupendo!-
-Non sarà semplicemente normale?-
-Certo! Ma la normalità in casi come questi è la cosa più bella che ci possa essere!-
Un piccolo sorriso, alla fine, riuscì anche ad ottenerlo.
*******
Non era stato facile dire a Orochimaru quello che li legava ormai da tanti anni.
Kimimaro aveva detto di poter accettare la loro relazione solo e
solamente dopo che questa fosse stata palese al suo tutore,
l’uomo che l’aveva cresciuto come un padre lungo tutta la
sua vita.
Juugo aveva compreso bene i sentimenti del compagno, non aveva neanche tentato di fermarlo.
Orochimaru era stato fin troppo comprensivo – o, forse,
semplicemente non gliene importava poi così tanto da provare
qualcosa di diverso che una tiepida simpatia per la coppia. Conosceva
bene sia Juugo che Kimimaro, e se nel primo caso la cosa era stata
troppo palese fin da subito, nel secondo non era così nascosta
da non risultare ad un occhio attento.
La sorpresa dell’uomo era stata tutta nel fatto che si fossero
trovati bene assieme. Questo, sicuramente, non se lo sarebbe mai
aspettato.
Ma Orochimaru fu l’unico ad essere così comprensivo nei loro confronti.
Quando vennero a sapere dei loro progetti circa il costruirsi un futuro
assieme – una cosa così naturale, ai loro occhi, una cosa
così semplice e istintiva da non aver bisogno della minima
spiegazione – molti dei loro conoscenti presero le distanze.
Quello che fece loro più male fu una dichiarazione detta quasi per caso da una loro intima amica.
-Il matrimonio va anche bene, ma come potete pensare di adottare un bambino? Non pensate che sia sbagliato?-
Juugo aveva gridato che no, non era sbagliato, o era sbagliato quanto averle dato la possibilità di esprimersi in merito.
Kimimaro aveva sedato fin da subito ogni altro urlo, anche se con una certa riluttanza.
Forse, era stato proprio nel vedere il disgusto dipingersi sui volti
della gente che Juugo si era intestardito così tanto nel volere,
a tutti i costi, quel benedetto figlio. Quasi fosse più una
questione di principio che di puro e semplice amore.
Il compagno non gradiva molto l’idea di soddisfare il suo ego
divenendo padre: non gli piaceva l’idea di usare anche solo
l’idea di suo figlio per un doppio fine.
Di genitori frustrati e di figli considerati come semplici oggetti ne
conosceva già fin troppi – a partire da quegli Uchiha, da
quelli che ai suoi occhi gli avevano rubato l’amore legittimo di
suo padre.
Però comprendeva bene che, di fronte alla reale
possibilità di avere una prole, la malizia di Juugo sarebbe
scemata in virtù di un’emozione autentica e genuina. Per
questo, non disse nulla a proposito fin tanto che il progetto rimase
tale nelle loro menti.
Trovarono Kurenai quasi per sbaglio, quasi per un errore di calcolo.
Kimimaro aveva ricordato il nome della donna come rientrante nel gruppo
ristretto dei collaboratori vicini alla figura di Orochimaru, per un
qualche motivo a lui davvero sconosciuto.
In effetti, lavoravano in due campi completamente diversi. Ma, forse,
tra dirigenti il concetto di conoscenza assumeva sfumature ben diverse.
Non lo sapevano, il fatto era che ritrovarsi di fronte questa donna
pronta a dare loro una mano nel loro progetto li aveva quasi sconvolti.
-Perché, mi chiedete? Perché conosco bene la vostra situazione. Anche io ho un bambino piccolo…-
La possibilità di rendere reale un sogno si era palesata ai loro
occhi – ora dovevano solo accettarne davvero tutte le conseguenze.
Quella donna non aveva mai mostrato dubbi a riguardo.
Sarebbe rimasta incinta di uno di loro, attraverso la fecondazione
artificiale. Successivamente, il figlio nato sarebbe stato adottato
dalla coppia già legalmente unita.
Tutto era così incredibilmente perfetto, per una volta, che era quasi difficile da accettare.
Alla fine, il loro cuore aveva fatto un semplice, piccolo salto.
*******
-Papà…-
Kimimaro lo guardò male, ancora avvolto tra le lenzuola del letto.
-Non cominciare…-
Juugo non lo ascoltò, allungandosi verso di lui e posandogli un bacio sul naso sporgente.
Sorrise, ancora pieno di gioia.
-Papà!-
Il giovane Kaguya sbuffò, volgendo lo sguardo dall’altra
parte, così da non lasciare modo al compagno di raggiungere la
pelle del suo viso. Ma quello persistette, senza trovare nessun
ostacolo a fermarlo.
-Sei pronto a farti chiamare così da un fagottino paffuto e tondeggiante?-
Kimimaro ci pensò qualche istante – mentre sentiva Juugo
abbracciargli il petto e tirarlo vicino a sé, in un abbraccio
energico e possessivo – ci pensò anche quando la bocca
dell’uomo cercò la sua fino a trovarla ancora un poco
dischiusa, in una postura tale da ricordare il totale abbandono.
Non mostrava di volersi difendere, in alcun modo.
-Sono pronto…-
*******
Mi è stato chiesto il perché io facessi tutto questo.
Perché chiedessi il figlio di una donna come se fosse il mio.
Forse è stato il fatto che Kurenai ha gli occhi di chi conosce
la mia sofferenza, non la vive più ma l’ha vissuta un
tempo e fino in fondo. Sono gli occhi di chi comprende veramente
Forse non ho neanche il diritto di pretendere nulla, dacché la strada che ho scelto non è quella consona.
Eppure, sento dentro un senso di giustizia che pervade tutto quanto, senza tralasciare nulla.
Amo Juugo, amo già nostro figlio.
È la nostra vita, decidiamo noi chi essere.
Apro gli occhi e vedo lui – quello stupido che urla forte se non lo fermo con mano decisa.
Apro gli occhi ancora e vedo altro, qualcosa di piccolo e ancora non definito.
Li apro una terza volta e li vedo assieme, sfuocati in un unico disegno dai bordi confusi. Emanano quasi luce propria.
Lui mi bacia, mi bacia ripetutamente. L’altro mi chiama con la medesima insistenza.
Ed è impossibile resistere a lungo.
Non credo mi sia difficile sorridere, a questo punto. Non più.
Dio, ora che ci siamo conquistati la felicità sarai così buono da lasciarcela ancora un po’?
Note finali:
Ecco qua il secondo e ultimo capitolo.
Successivamente ci sarà l'epilogo e poi la ff sarà definitivamente conclusa <3
Giusto perché così sedo ogni dubbio a riguardo -
specialmente quello delle giudici XD Sasuke Uchiha, che qui è
solamente menzionato - mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa
ç.ç - doveva essere una sorta di figura di confronto, per
Kimimaro. Essendo stato lui cresciuto, in qualche modo, da Orochimaru,
questi l'avrebbe posto al di sopra di tutti nella scala dei suoi
"protetti", come un punto di riferimento per tutto gli altri. Almeno,
l'idea originale era questa, probabilmente se avessi avuto tempo *e
specialmente fossi stata più attenta* avrei sviluppato meglio
ù.ù
Oh, ho amato il banner <3<3 *pura informazione inutile XD* Kurenai lì mi piace davvero un sacco **
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Capitolo 3 *** Epilogo ***
aprire gli occhi - epilogo
**Epilogo**
Piano, la carrozzella veniva spinta da due paia di mani.
Il bambino stava dormendo, coperto così accuratamente dalle
lenzuola color crema che i genitori gli avevano sistemato fin sotto il
mento. I pugnetti chiusi erano vicino al viso, appoggiati al piccolo
cuscino bianco.
Pareva completamente tranquillo.
-Oh, è questo il piccolo Sasuke?-
Hinata si sporse oltre il bordo della passeggino, per vedere meglio il
pargolo. Lo vide muoversi e sbadigliare, sempre con gli occhi serrati.
Sorrise, lasciando il posto ad Asuma. Il bimbo lo guardò
incuriosito, come se davanti a sé si trovasse una strana
creatura.
Poi, rivolto a Juugo, chiese con semplicità.
-Posso giocare con lui?-
Juugo lo guardò un po’ stranito, per rivolgersi indi a
Kimimaro nella difficoltà di non sapere cosa rispondere.
Tuttavia, Kurenai fu più veloce di loro, e mentre allontanava
suo figlio dal piccolo gli accarezzò dolcemente la chioma scura.
-Fra qualche tempo potrete giocare assieme, Asuma… Ora Sasuke è troppo piccolo!-
Asuma mise il broncio, senza però replicare.
Tutto attorno a lui fu un sorriso.
Sasuke si mosse ancora, cominciando a lamentarsi piano. Juugo,
ricordando le istruzioni che Kurenai aveva elargito quando aveva
spiegato loro come trattare un neonato, lo prese in braccio con tutta
la delicatezza di cui era capace e lo appoggiò sulla spalla,
accarezzandogli la schiena. Alla sua mano si unì quella di
Kimimaro, quasi inconsciamente.
Si sorrisero, guardandosi negli occhi – e il mondo attorno scomparve per qualche istante troppo lento.
Da canto suo, Kurenai strinse in un abbraccio quasi possessivo sia il
piccolo Asuma che Hinata. Questa, ripresasi dalla sorpresa, la
baciò sulla bocca, dolcemente, imitata subito dal bimbo che, con
fare abbastanza possessivo, la squadrò male e abbracciò
stretto il collo di sua madre.
Risero appena di quel moto istintivo, guardandolo comprensive e intenerite.
A quel punto, la carrozzella riprese la sua corsa…
So I keep one eye open
And I keep my lights on(*)
Ed eccoci qui alla fine effettiva di questa piccola storiella.
Ringrazio di cuore chi mi ha seguita fino a qui, è stato bello poter avere qualcuno con cui condividere.
Spero a presto, su questi lidi <3
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