Hitler e Dracula 2010

di Furiarossa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il risveglio di Vlad ***
Capitolo 3: *** Il risveglio di Hitler ***
Capitolo 4: *** Come accadde che Vlad conobbe Adolf ***
Capitolo 5: *** Come accadde che Adolf conobbe Vlad ***
Capitolo 6: *** Come fu che Adolf capì di essere risorto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Hitler e Dracula

Due amici per … il genocidio

Prologo

«La nostra storia ha inizio in una fredda e piovosa notte d'inverno …»
«Non dire idiozie, Vlad, la nostra storia ha inizio in un caldo, torrido, giorno estivo, in una spedizione punitiva contro quegli inferiori degli …»
«Adolf, per favore, cerca di capire, ho più anni di te, saprò anche che cosa sto dicendo!»
«Vecchio decrepito …»
«Ti ho sentito, monobaffo nano, e non sperare di passarla liscia …»
«Dunque la nostra storia iniziò …»
« … In una comunissima mattina di primavera. Gli uccelli cinguettavano gai e felici … troppo gai e troppo felici … sopra i tetti delle case»
«Per l'amor del cielo, Vlad, eri morto, come fai a ricordartelo? Quella era la mattina in cui ti risvegliai …»
«Erri, erri, mio giovane Adolf. Anche tu eri morto, perciò, fui io a risvegliarti!»
Entra qualcuno e la stanza intera sembra cambiare forma e colore, riempiendosi di una vita che scorre lenta attraverso le pareti e immagini olografiche ronzano intorno al nuovo venuto come zanzare insistenti.
E' una donna, il volto è velato con un panno color ocra. In mano regge una clessidra dalle rifiniture auree e argentee e le sue mani sono di colori diversi: una è fresca e giovane, la pelle liscia e chiara, l'altra è la mano di una donna anziana, con le vene in rilievo e alcune piccole macchie.
«Zitti voi due! Io sono la Storia e sta a me decidere … Sarò io a raccontare la vostra storia al nostro gentile pubblico. Devono sapere che razza di mascalzoni siete …»
«E chi ci ha riportati in vita, allora?» Adolf Hitler è in soggezione
«Io. Solo io posso decidere» la Storia solleva la clessidra in alto, sopra la propria testa, in un gesto maestoso «Ma adesso è meglio che il nostro pubblico veda cosa è successo per portarci fino ad oggi …».
La sabbia nella clessidra si illumina di oro e avvolge ogni cosa …
Aprite la mente, perché sta per esservi fatto un dono.
La storia comincia.

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Capitolo 2
*** Il risveglio di Vlad ***


Capitolo 1
Il ritorno di Vlad

Le ossa lucide del grosso cranio erano nel buio di un sacco sigillato ermeticamente. Era un cranio solitario, poverino, che non vedeva il suo corpo da tanto tempo: lui era a Londra, ma il resto delle ossa giacevano da qualche parte sperduta in Transilvania, in mezzo alle montagne frustate dall’acqua e dal vento. Il cranio apparteneva a Dracula, il principe della Valacchia, ma era finito nel cuore dell’Inghilterra a causa di una lunga trafila che non staremo qui a spiegare tutta, ma che si componeva di quattro fasi fondamentali: decapitazione, testa portata dal sultano, sultano morto  e testa a chissà chi, testa finita a Londra causa donazione al museo.
Ed eccolo lì, il leggendario Dracula che tutti cercavano e nessuno riusciva a trovare … per un breve periodo era persino stato in esposizione, ma ora se ne stava nel buio e in un sacco come se fosse robaccia, vecchia spazzatura. Eppure, cavoli, era il cranio di un Principe … la Storia faceva brutti scherzi a coloro che in vita sono stati grandi.
Dracula, essendo morto, ovviamente non aveva idea di quello che gli stava succedendo, della sua relegazione nel magazzino di un museo e del fatto che nessuno sapesse dove si trovava il suo corpo. Ma il destino, il fato, o come volete chiamarlo voi, stava per giocargli un altro brutto tiro …
In effetti l’ennesimo brutto tiro, lui ne aveva avuti tanti nella vita. La sua testa, quel giorno, fu portata via dal museo di Londra da un “topo di appartamento” troppo zelante che aveva deciso di fare il colpo grosso e lo aveva rubato credendo che fosse un qualche monile egizio. Mai ipotesi fu più sbagliata e quando il cranio di Vlad vide la luce nel piccolo scantinato del ladro, la faccia da roditore di quest’ultimo fu parecchio delusa.
Era un ladruncolo extracomunitario … rumeno, per la precisione. Ed è qui che si vede come il destino non sia mai cosa da sottovalutare … anche il ladruncolo portava il nome di Vlad, ma purtroppo non gli rendeva onore.
Il tipo non aveva né soldi né il cervello giusto per farli, era terribilmente pigro e non voleva ingegnarsi, perciò si era dato al crimine anima e corpo, senza mai riuscire davvero a ottenere qualcosa di buono.
Vlad guardò tristemente il cranio del principe e giocherellò con i pollici nelle orbite cave
«Ciao» gli disse «Mi sei capitato tu e un vecchio quadro polveroso con le madonne… il quadro posso rivenderlo a un collezionista, ma tu? Tu chi sei? Eh? Se non so chi sei non posso venderti a nessuno. Certo che avevi dei bei denti. Però te ne manca uno … devono averti tirato un bel cazzotto quando eri ancora vivo».
Anche se il ladro Vlad non era particolarmente onesto e volenteroso aveva la sua bella mente. Certo, non la sfruttava al massimo, ma gli era utile, quando doveva scappare … e fu quella sua bella mente che lo portò a fantasticare e a trarre certe conclusioni.
«Eri un guerriero, non è vero? Altrimenti cosa ti avrebbero voluto a fare in quel museo … certo un nobile senza un dente era cosa strana. Toh, te ne mancano addirittura due … beh, allora poteva essere che non li lavavi, eh? Povero diavolo. Secondo me, però, non ti volevano. Sai che cosa posso farci con te? Ti posso portare a casa, quando ci torno … e ti regalo a mia cugina. A lei piacciono questo genere di cose, i teschi e solo Iddio sa cos’altro. E tu sei un teschio carino. Sul serio, vecchio teschio … ehm ehm …» si impostò con il petto gonfio e resse il cranio con una mano sola, imitando una scena dell’Amleto « Essere o non essere, questo è il dilemma!».
Lasciò rotolare il teschio sul tavolo e quando questo si posizionò proprio con le orbite di fronte ai suoi occhi, le fissò intensamente
«Chi eri quando eri vivo? Hai dipinto quadri? Eri uno di quei pittori e suonatori d’arpa gay che si facevano passare per dei geni? No … guarda che ossa importanti … hai una bella cavità nasale, caspiterina. Ti ci entra il becco di un pappagallo, stai sicuro. No, questa qui può essere la faccia di un guerriero, solo solo … non eri gay. Sai cosa mi piacerebbe poter dire? Che tu sei …».
Era rumeno ed era superstizioso, perciò ci mise un poco prima di pronunciare quel nome ad alta voce, da solo, in una camera, con l’unica compagnia di un cranio lucente
« … Dracula».
Fu come una folgorazione. Una folgorazione, si, un istante … un colpo di genio.
Il colpo della mia vita, oddio!
Il ladro Vlad baciò la fronte del teschio
«Tu mi farai fare un mucchio di quattrini, dio santissimo! Mi prenderanno per tombarolo, d’accordo … ma chi dice che io non possa spacciarti per la vera testa del principe? Dio … solo che mi serve anche un corpo, se voglio fare le cose per bene. Ora che ci penso, mia cugina ha una bella collezione. Si, stai tranquillo, mio buon amico ossuto … io ti farò famoso».
L’immigrato e topo di appartamento rumeno Vlad non aveva la più pallida idea di ciò che stava per scatenare.
Passò poco tempo che riuscì a vendere il quadro e procurarsi i soldi per tornare in Romania, dove andò a trovare sua cugina, Katia, una ragazza strana che abitava a Sighisoara, città natale del principe Vlad III. Lì, con lei, architettarono la truffa … Katia era riluttante, ma suo cugino le fece notare che, se anche avessero scoperto la presenza di un falso, non avrebbero potuto certo imprigionarli per questo. Katia non si fidava delle idee malsane di suo cugino
«Senti, cosa pensi che farebbero se venissero a sapere che tengo in casa delle ossa?»
«Perché dovrebbero venirlo  a sapere … andiamo, ti prego, aiutami»
«Non voglio mettermi nei guai. L’idea è tua, sbrigatela da solo. E poi è assurda … cioè, vuoi fingere di avere ritrovato Vlad»
«Ho la sua testa!»
«Sei abbastanza idiota … la testa non può trovarsi nelle vicinanze del corpo, lo hanno decapitato, capito? La testa è arrivata in Turchia!»
«Ho dei testimoni disposti a fingere per me … insomma, pensaci, una tomba con il misterioso simbolo del drago che ho incontrato nel mio viaggio in Turchia in cerca di lavoro, la mia voglia di comprendere che mi porta ad aprirla, il ritrovamento, Dio, del cranio di Vlad Draculea Tepes!»
«Tu non ci sei neanche mai stato, in Turchia! E a che ti serve uno dei miei scheletri?»
«Devo fingere di aver trovato le indicazioni per la vera tomba e … zac! Mamma, un corpo senza testa! E’ sicuramente il principe!» si portò una mano alla fronte con aria melodrammatica
«Eh?» lei fece una smorfia «Sei davvero fuori di testa come sembri. Pensi che non si accorgeranno immediatamente che la testa non si attacca in maniera giusta al corpo?»
«Smerigliatriceee! E poi faremo delle prove» fece un largo sorriso, da orecchio a orecchio, e i suoi piccoli occhi scuri brillarono «Ti prometto che, se dovessero beccarmi, tu non verresti coinvolta … ma se non mi beccano, ti porto il tuo compenso!».
Katia sbuffò e socchiuse gli occhi
«Ho un corpo senza testa» disse, distogliendo lo sguardo
«Cosa?»
«Ma si, lo ha trovato lo zio in uno scavo archeologico … è completo, ma niente di che, voglio dire, era terribilmente anonimo … era nudo, insomma, e non è così che si seppellisce un nobile. Perciò l’intera troupe ha scartato l’idea che fosse Dracula e me lo hanno regalato»
«Ma è meraviglioso! Dobbiamo solo comprare dei vestiti adeguati …»
«Vlad. Tu sei povero. Non hai soldi per comprare i vestiti del principe Vlad»
«E invece si … è tutto ciò che ho, ma se il trucco mi riesce sarà meraviglioso!»
«Vladdie. Senti, i vestiti nuovi non stanno bene su corpi che hanno superato i cinquecento anni di età, lo sai?»
«Fa nulla, con i vestiti o senza … Io sarò lo storico più acclamato di tutta l’Europa conosciuta e sconosciuta».
Ci fu un lungo battibecco, ma alla fine Katia accettò di aiutare il cugino e gli prestò il corpo senza testa. Era uno scheletro imponente, spalle larghe, il corpo di un uomo alto sul metro e settanta che ne aveva viste di brutte a giudicare dalle tacche, depressioni e bozzi sulle ossa di braccia e gambe.
Quando il ladro Vlad gli provò la testa, notò una certa proporzione, come se in effetti fossero parte di un unico puzzle …  
«Katia …» mormorò «E se avessimo veramente trovato Dracula?»
«Sarebbe fantastico» si limitò a rispondere la cugina, in tono neutro, ma con gli occhi che non riuscivano a staccarsi dalla perfezione dell’insieme … quella era la testa giusta per il corpo giusto.
Tutto fu pronto e il ladro Vlad contattò un esperto in storia, a cui fece esaminare il cranio e il corpo separatamente. Lo storico fu sorpreso e Vlad recitò bene la sua parte, facendo finta di niente, ma esclamando di sorpresa ad ogni deduzione dello storico a cui tuttavia era lui a guidarlo … poi lo studioso giunse alla conclusione che il truffatore desiderava, lasciandosi cadere la penna di mano.
Il suono della plastica che ticchettava per terra risuonò quasi lugubre in presenza di quel grosso scheletro.
«Cristo» disse «Avete trovato Dracula».
Fu accordato che Vlad il ladro portasse la sua scoperta al circolo culturale della capitale. Spese del viaggio pagate. Ci sarebbero state delle interviste, molte interviste, e soldi, probabilmente, in contanti …
Il truffatore gongolava, cuocendo in brodo di giuggiole, e quella sera stappò una bottiglia di ottimo champagne con sua cugina. L’indomani mattina andarono entrambi a dare un’occhiata al “cadavere” del presunto principe e vedere se c’era per caso qualcosa da fare per renderlo più misteriosamente antico o magari più presentabile.
Si sarebbero divertiti a lucidare le ossa per mettere in risalto le scheggiature e gongolare, pensando ai soldi che presto li avrebbero sommersi ed alla popolarità che la loro famiglia non vedeva da praticamente sempre, se non fosse stato per un piccolo, minuscolo, insignificante particolare …
… ovvero che, quando accesero la luce del locale in cui era conservato lo scheletro, questo aveva cambiato posizione rispetto alla notte precedente. Era seduto sul tavolo, accanto alla bara con i piedi che penzolavano nel vuoto. Ed era decisamente cambiato … ricoperto di carne.
Molta carne. Troppa, a dire la verità, per essere quella di uno scheletro. E peli, capelli, unghie, vasi sanguigni e un paio di occhi verdi al posto delle nere orbite vuote che sembravano voler trapanare i due nuovi arrivati. Non con rabbia, no, quella sarebbe venuta dopo … con curiosità …
«Ahhhhhh!» Gridarono all’unisono Katia e il ladro Vlad, saltando all’indietro e chiudendo la porta.
Da dietro il pannello di legno venne un grido simile, ma più breve. Quasi un “ah!” di esclamazione.
Vlad il ladro riaprì lentamente la porta e si sganciò dalla cintura il coltellino della frutta
«Chi … chi sei?»
«Io sono …» la voce dello sconosciuto era profonda, con note metalliche, e aveva un’inflessione curiosa anche se parlava un rumeno splendido « … il Principe. Che cosa ci faccio qui?»
«Come?» il ladro Vlad sporse il labbro in fuori «Solo tu puoi sapere cosa ci fai qui, sciacallo!»
«Sciacallo?» lo sconosciuto balzò giù dal tavolo, ergendosi per oltre un metro e ottanta di statura, e camminò incontro al suo piccolo avversario «Ora ti faccio vedere io, chi è lo sciacallo …».
In quel momento Katia ebbe il coraggio di sbirciare attraverso la porta aperta e quello che vide fu più che altro, una massa ondeggiante di pelle abbronzata, pettorali maestosi e capelli neri arruffati. Suo cugino era piuttosto misero al confronto, piccolo e un po’ più slavato, con i capelli di un castano quasi grigio e le spalle strette. E soprattutto era terrorizzato e anche se armato non riusciva a smettere di tremare.
Il principe afferrò il bavero del ladro e lo sollevò, sbattendolo contro la parete di lato alla porta
«Dovrei farti impalare, piccolo, sciatto, strambo …» sembrava non riuscire a trovare una parola che descrivesse cosa fosse il piccoletto terrorizzato che gli sciabolava davanti al naso con un coltellino di quattro centimetri con la lama troppo smussata
«Scusate» Katia si intromise «Non per mettermi in mezzo alle faccende da uomini,  ma non potete, eventualmente, cercare di uccidervi dopo? Qui ci è appena  sparito un reperto importante, signore e … » sembrò indecisa fra l’essere diretta e schietta o il dare del lei e girare intorno ai concetti, poi scelse la prima opzione « … Per l’amor del cielo, mettiti qualcosa addosso, non ci si mostra così di fronte a una signora».
Lo sconosciuto grugnì una specie di risposta e lasciò andare il ladro, che scivolò tremante lungo il muro, deglutendo convulsamente. Non c’è bisogno di specificare che non fosse molto coraggioso.
Lo straniero scosse la testa e si nascose dietro il tavolo, mentre arrossiva leggermente. Katia lo guardò e lui guardò Katia, cercando reciprocamente di capire se i loro aspetti fossero in qualche modo familiari.
Katia era una donnina in carne, con mani abbastanza grandi e i capelli tinti, color carminio. Aveva le guance rosate e il sorriso facile, un grande sorriso contagioso e una risata ancora migliore.
Lui, lo sconosciuto, era leggermente tarchiato, ma con una faccia affilata, un naso lungo e dritto, baffi neri come il carbone e un pizzetto leggero, una specie di striatura di carbone sul mento solido. La cosa che si notava più facilmente erano i capelli: solo un metallaro o una donna, magari di spettacolo, avrebbero potuto portarli così lunghi … ed erano ricci, splendidi, di un nero intenso come le ali dei corvi.
«Perdonatemi signora» Bofonchiò lo straniero «Ma vedete, uno come me deve difendere, in qualche modo, il suo onore …».
I tre presenti rimasero a fissarsi fra loro per qualche istante, poi Katia rise
«Dio! Che strambo … sa, sa che se io credessi alle favole direi che è venuto dal mondo dei morti?»
«Perché?»
«Beh … perché … in questa stanza c’era uno scheletro. Lo scheletro di Vlad Tepes III principe di Valacchia. Dracula, per il mondo, nel caso non lo conoscesse, signore … ma ne dubito, qui a Sighisoara tutti lo conoscono, porta turismo quell'uomo … e questo scheletro si è appena volatilizzato».
Che lo straniero fosse incline agli scatti d’ira fu subito chiaro, perché tremando convulsamente e rosso in volto come un grosso peperone maturo, latrò ferocemente
«Di cosa blateri, sciocca?»
«Come osi? A parte che questa è effrazione di una proprietà privata …»
«Mi hai dato dello scheletro?»
«Cosa … no. No, assolutamente. Io …» Katia fu terrorizzata dagli occhi furenti dell’uomo e il fatto che fosse così grosso e che fosse anche, beh, nudo, non la rassicurava affatto e non le dava la voglia di fare la spaccona «Sul serio, stavo dicendo di Dracula, cosa ti ha fatto pensare che parlassi di …»
«Io!» lo straniero afferrò il tavolo, stringendolo come se avesse due morse al posto delle mani che fecero scricchiolare il legno, e lo buttò dall’altra parte della stanza, insieme alla bara, con rabbia, capovolgendo tutto e rompendo svariati ricordi di famiglia «Io sono Dracula!».
Katia svenne e il ladro Vlad se la diede a gambe più in fretta che poterono i suoi piccoli piedi.
Vlad si sedette a terra, cercando di calmarsi … glielo avevano sempre detto che era rabbioso, ma lui, lui niente … se avesse saputo che esistevano gli psicologi, ci sarebbe dovuto andare di filato. Troppi traumi infantili.
Grugnì il suo disappunto, guardando Katia per terra
«Cicciona …» mormorò, poi il suo sguardo si spostò sulla lampadina sopra la sua testa.
Ne rimase estasiato, non aveva mai visto un magia come quella …
«Che fuoco minuscolo … eppure fa una luce così terribilmente intensa … Dio … mi fa male agli occhi …» Distolse gli occhi e si guardò intorno.
In effetti era a disagio e probabilmente non si sarebbe dovuto comportare così, ma era stato più forte di lui. Si alzò in piedi e si avvicinò a Katia, poi la sorresse e la appoggiò al muro. Lei non si svegliò e lui le prese il polso … uno, due, tre … si, il cuore batteva ancora, la cicciona non era morta. Doveva essere gentile, con la cicciona … quella doveva dargli dei vestiti, non è che uno come lui potesse andarsene in giro così.
Il problema principale era come fosse finito in quel posto strano … che cosa gli avevano fatto? Cristo … la cicciona doveva essere una strega. Lo aveva rapito perché … perché … non gli venne in mente un buon motivo per cui una strega avrebbe voluto rapirlo se non che era molto bello. Perlomeno gli avevano sempre detto così … e alle streghe piacevano i bei politici. Annusò Katia e sentì tracce di un profumo che non conosceva, un’essenza che faceva quasi male alle narici, troppo forte, come la menta, ma ancora più forte …
La “cicciona”, come il principe l’aveva ribattezzata mentalmente, ci mise un pochino per riprendersi e lo guardò con occhi vacui. Batté le palpebre una, due volte, poi strillò. Anche Vlad strillò, questa volta, e sembrava davvero terrorizzato. Iniziava a delineare il quadro generale, il fatto di essere solo, smarrito, in mano di una strega e senza armi…
Katia si ritrasse e giunse le mani con forza, come se dovesse pregare intensamente
«Oh mio Dio … è un vampiro … un vampiro …»
«Dove?» Vlad si guardò intorno, quasi terrorizzato quanto lei «Dov’è?».
Katia disgiunse le mani. Non era vigliacca come suo cugino e non ci metteva troppo a riprendersi dalle paure
«Tu … non sei un vampiro?»
«Ti … ti sembro un vampiro?» Vlad si tastò la faccia, terrorizzato dall’idea di essere diventato un mostro senz’anima.
Certo, glielo dicevano sempre … “continua così e diventerai un vampiro, la tua sete di sangue sarà la tua dannazione!”… ma non immaginava che se fosse diventato un vampiro si sarebbe sentito così umano. Così normale … tutt’al più aveva freddo alle dita, quello si, ma non poteva dare per scontato che significasse essere un non morto.
«Ehm …» Katia non sapeva che dire «Sei appena tornato dal mondo dei morti … e hai le labbra molto rosse, molto accese, come dire, sei, sei poco umano, quindi, sei un vampiro»
«Caspita» il principe guardò il soffitto per non guardare la cicciona e per non perdere la pazienza «Un vampiro»
«Già. Ehm, non mangiarmi, per favore»
«Non ho sete»
«Meno male»
«Cioè, ho sete, ma non mi sembra che sia di sangue … il tuo odore non mi fa nessun effetto. No, è anzi leggermente … re …» stava per dire repellente, ma si ricordò all’ultimo momento di essere cortese «Ah, non ha nessuna importanza. Hai dei vestiti?»
«Ci deve essere qualcosa di mio zio, nell’armadio che hai appena scassato. Ehi, comunque, se vuoi, puoi andare in giro così».
Il principe si diresse verso il vecchio armadio e ne estrasse dei vestiti pesanti, da lavoro, che lui non aveva mai visto. Erano marroni e ricoperti di calce e sporco di altri generi. Li infilò cautamente, scoprendo che gli stavano un po’ stretti sul petto, ma per il resto erano della taglia giusta.
«Non avevi detto che era sconveniente mostrarsi così di fronte a una signora?» chiese sbadatamente, mentre cercava di capire il prodigio oscuro della modernità di una cintura lampo «E poi, invece, hai detto che posso andare in giro così …»
«Ehm, era solo per separarvi» confessò Katia, altrettanto sbadatamente e senza nessun imbarazzo, mentre sollevava le sopracciglia nel vedere le grosse mani del conte che armeggiavano con cinture e chiusure zip «In realtà ho visto anche di peggio …»
«Peggio?»
«Scusa …» si avvicinò e gli chiuse la cintura rapidamente « … Sembra che tu sia appena risorto dal paleolitico. Ma dove sei vissuto, fino ad ora?»
«Valacchia, è … c’è compresa la Transilvania, sai, quella zona montuosa vicino a …»
«Si, ma dove? Sulle montagne?»
«No» il principe si infilò anche un giubbotto, per quanto trovasse quella moda di cattivo gusto «In un castello»
«Ah» lei non sembrava molto convinta «E ti chiami Dracula, giusto?»
«No. Ovviamente non è il mio nome, è un soprannome … un soprannome storpiato, a dire il vero … e ne ho molti altri di più terribili» la sua voce era profonda e gradevole, ma in essa rimaneva sempre sospeso un curioso senso di minaccia «Io mi chiamo Vlad»
«E io sono un’attrice Shakespeariana … » borbottò Katia, stringendosi nelle spalle « … Senti, bellimbusto, non ho idea del perché tu sia qui, ma ci è appena sparito qualcosa di importante, perciò dovresti andartene immediatamente. Sai, è già molto che non ti ho ancora sparato …».
Vlad sollevò le sopracciglia folte e aggrottò la fronte
«Cosa hai detto?». Ovviamente, al suo tempo, le pistole non esistevano. Così come il termine sparare.
Katia fu parecchio infastidita
«Vattene. Vattene o ti sparo, è meglio se ti levi dai piedi, forza»
«Cosa significa che mi spari?»
«Ti uccido. Dio, ma da dove vieni, sei veramente appena sceso dalle montagne? Chi sei?»
«Vlad Dracula» stavolta fu il suo turno di essere infastidito «Sono un voivoda, né più né meno e non mi interessa se voi streghe siete abbastanza fuori dal comune da poter credere di trattarmi come gli altri uomini, ciò non cambia quel che io …»
«Mi hai dato della strega?» Katia lo afferrò per il bavero e scosse con violenza, lasciandolo stordito «Di, ma chi ti credi di essere? Ah, si, certo … un principe … tu finirai dritto dritto dalla polizia. Dirai a loro chi sei, vedremo se ti crederanno»
«Polizia?» per quanto infastidito, non poteva fare a meno di chiedere spiegazioni su quegli strani termini «Cosa vuoi dire?»
«Le forze dell’ordine!»
«Qui sono io, l’ordine. Non c’è niente sopra di me, niente eccetto Dio. Io sono la sua mano in terra»
«Bravo» Katia lo lasciò e accennò un applauso ironico «Sei il tizio più teatrale che io abbia mai conosciuto. Ma non credere di farmi paura, questa è casa mia, qui non puoi farmi niente … ti spezzerei le gambe. E se anche tu riuscissi a mettermi a tacere come pensi di scappare dal carcere?».
Vlad non volle più sentire una sola parola da quella strega grassa e la superò a grandi passi per varcare la porta dello scantinato. Cercò di dirigersi verso l’esterno, ma la donna lo afferrò per una manica
«Ehi» ruggì
«Sei stata tu a dirmi di scappare» ribatté lui, piccato, mostrando i denti «Non so quali strane regole ci siano, nel mondo di voi streghe, ma penso di stare rispettando tutto, no?»
«Ehm … » Katia, in realtà, era affascinata ma non sapeva come dirlo.
Quel grosso, corpulento, iroso delinquente che era penetrato nel loro scantinato le aveva lasciato uno strano senso di mistico nella testa e sentiva che non avrebbe potuto riempire il vuoto che avrebbe lasciato quando se ne fosse andato, non senza dire chi fosse veramente … cavoli, l’aveva sparata grossa. Il voivoda, l’impalatore, Dracula. Come se lei fosse scema. Come se non lo sapesse che Dracula non poteva essere vivo.
Vlad sbuffò, ingobbendosi nel suo giubbotto polveroso in una maniera che lo fece sembrare più grosso e più taurino
«Cosa vuoi, ancora?»
«Io … che cosa ci facevi nel nostro scantinato?»
«Ah» il principe si rialzò completamente e tirò via il braccio dalla stretta della donnetta «E’ una bella domanda, sai, anche io vorrei sapere cosa diavolo ci facevo in quella grossa cassa da morto. Quali fantasie perverse passano nella mente di una strega? Cos’è che la porta a rapire uno come me e a fargli questo?»
«Cosa?» Katia non voleva farsi sopraffare dal senso dell’irrealtà delle parole di quello strano tizio.
I suoi occhi, i suoi grandi occhi di un verde grigio lucente, dalla volontà ferrea, sembravano assolutamente sinceri, così come sincera sembrava la sua rabbia e il suo disappunto spiccato che gli faceva arricciare le labbra in un ringhio quasi animale. Quel tizio aveva detto di essersi svegliato in una grossa cassa da morto. La cassa dove riposava lo scheletro del presunto Vlad Dracula, lo stesso che era sparito. Il fatto che dicesse la verità poteva essere facilmente messo in dubbio … eppure Katia non riusciva a scovare la finzione, in tutto questo.
Il ladro Vlad comparve sulla soglia del corridoio
«Eccovi!» gridò, trionfante «Fuori ci aspettano un paio di agenti … vogliono fare quattro chiacchiere con il nostro sciacallo».
Alla parola “sciacallo” il principe si scagliò di corsa verso il topo d’appartamento, ringhiando insulti di ogni genere che si fondevano fra loro in maniera da risultare solo vagamente comprensibile.
Il ladro Vlad, sorridendo, scomparve di nuovo dietro la porta e il principe lo seguì. Un paio di agenti nerboruti, con la pelle scura, afferrarono quest’ultimo non appena sbucò all’aperto, placcandolo come giocatori di rugby
«Fermati!» uno dei due gridò, con una voce roca e graffiante, voce da mal di gola «Cosa pensi di fare?».
Il principe guardò i due poliziotti e ringhiò, cercando di scrollarseli di dosso, ma giunse un terzo, più piccolo dei due e più chiaro, che gli saltò letteralmente addosso. Vlad gridò, questa volta, e colpì con un pugno quello che prima gli aveva intimato di fermarsi, spaccandogli il labbro e facendo schizzare il sangue contro le sue nocche.
«Sangue» Mormorò.
Era un elemento terribilmente familiare, per lui. Non era un vampiro, certo, ma riusciva ad andarci molto vicino quando ci si metteva d’impegno. Sbuffando e ruggendo, un animale placcato e ferito, gettò i poliziotti da due parti opposte, sul manto erboso corto e gelido, e sbatté il più piccoletto contro la parete con tanta forza che quello si accasciò per terra emettendo appena un gemito. Sembrava un mostro, l’uomo lupo portentoso uscito da un brutto horror di serie b, oppure un gorilla con un volto più affascinante. Beh, in realtà alcuni avrebbero preferito un gorilla a lui, specie quando era arrabbiato e schiumava di ira come un rinoceronte, con gli occhi iniettati di sangue.
Era più basso dei poliziotti, ma la circonferenza di torace e bicipiti era doppia rispetto a quella che potevano vantare gli agenti al meglio della loro forma fisica.
Il grosso poliziotto scuro, quello con la voce graffiante, si alzò da terra e puntò la pistola contro Vlad
«Fermati» gridò ancora, sputacchiando sangue e saliva «Fermati o sparo!».
Vlad gli andò incontro, per nulla intimorito. Il poliziotto, così come il suo addestramento gli intimava, sparò il primo colpo di avvertimento in aria. La detonazione sorprese il principe, ma non lo fermò: era come drogato. Drogato di furia e di battaglia. Il poliziotto sparò il secondo colpo in mezzo ai piedi dell'energumeno versione mignon che gli veniva incontro e questo, finalmente, lo fece fermare.
Vlad, sentendosi improvvisamente le gambe molli, guardò per terra, dove il terreno era stato deturpato da un grosso buco rotondo. Sollevò un sopracciglio
«Cosa significa?» mormorò.
Era appena finito a stregonilandia o qualcosa del genere? Non c’era nessun’altra spiegazione a quello che aveva appena visto fino ad ora. Lì non contava il suo valore fisico, bastava un bussolotto d’acciaio che usciva da quella specie di canna di metallo per ucciderlo. Era come quando si tiravano le frecce, ma più piccole e infinitamente più forti. Al cuore, dritto, e moriva. Gli avrebbero spappolato il muscolo cardiaco in un batter d’occhio. Oppure lo avrebbero preso in mezzo alla fronte, come si ammazzano i lupi mannari.
«Mani in alto!» Gridò il poliziotto, compiaciuto di aver finalmente il coltello dalla parte del manico.
Vlad obbedì a malincuore. Non era abituato a prendere ordini e questo lo disgustava abbastanza. Il poliziotto gli si avvicinò, sempre tenendo sollevata la pistola. Qualcun altro gli venne di lato e gli intimò di porgere le braccia.
Vlad, senza capire a cosa servisse quel gesto, obbedì e gli vennero messe un paio di manette. Cercò di romperle, ma quelle erano un po’ fuori dalla sua portata fisica.
Mani rudi lo spinsero verso un grosso aggeggio con quattro ruote, un carro chiuso di sopra e fatto di un metallo colorato che lui non seppe riconoscere. Poteva essere, da quello che lui sapeva, un nuovo strumento di tortura. Non voleva essere torturato, proprio per niente, e indietreggiò, spingendo con la schiena il poliziotto dietro di se
«No!» gridò «Io non ci entro, dentro quel coso»
«Non fare lo scemo e sali in macchina» ribatté il secondo poliziotto, con voce stranamente pulita, da cantante «Non costringerci a farti del male».
Sali in macchina. La macchina. La macchina infernale …
Vlad si infilò nell’abitacolo angusto della strana cosa di metallo, notando con piacere i sedili in tessuto che profumavano di Arbre magique, ovvero di menta e bosco tradotto nella sua mente antica. Katia gli si avvicinò e lo guardò dal finestrino, con uno strano sguardo, uno sguardo triste.
«Mi uccideranno?» Le chiese Vlad, preoccupato «Perché mi guardi così? Rispondi. Mi uccideranno?»
«No, davvero» Katia fece una specie di sorriso, ma era più una smorfia «Non vogliono farti del male»
«Dove mi porteranno?»
«Dove ci sono altri come te … credo»
«Ti  …» stava per dire “ti prego”, ma non gli sembrava giusto che un principe si abbassasse a tanto « … Posso chiedere dove siamo?»
«A Sighisoara»
«Come?» gli occhi verdi di Vlad si spalancarono di stupore e la sua faccia affilata assunse per un attimo l’espressione, paradossalmente sbagliata, di un bambino di sette anni «Non è possibile!»
«Si che lo è. Ehm, benvenuto nell’anno duemila e dieci».
Vlad avrebbe voluto urlare, ma non sapendo bene cosa urlare si trattenne. Era pur sempre un nobile, anche se irascibile, e non era carino sbraitare senza senso. Qualcuno gli sbatté la portiera in faccia, deliberatamente con malagrazia, poi il motore dell’automobile della polizia si accese con un ringhio. Lo portarono via.
Benvenuto nell’anno duemila e dieci.
Che?

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Capitolo 3
*** Il risveglio di Hitler ***


Capitolo 2

Il risveglio di Adolf

 

Adolf aprì gli occhi, frastornato. Si sentiva assonnato. Dov’era?

Alzò il busto e la scena roteò davanti ai suoi occhi sfocata e confusa. Sbadigliò, senza darsi pena di mettersi una mano davanti alla bocca, poi sbattè le palpebre confuso e si guardò intorno.

L’ometto si rimise faticosamente in piedi, facendo infine leva su un ginocchio per mettersi in posizione eretta.

Ciò che era più strano era che non si ricordava di essersi addormentato.

Bhè, in realtà, pochi secondi fa era addormentato nel sonno eterno. Ma non lo ricordava.

C’era la guerra, fuori dalla casa, e i fucili, poi uno sparo … no, non era stato lui, ad essere stato colpito … e poi il nero. Com’era possibile che si fosse addormentato proprio nel campo di battaglia? No. Era al chiuso, certo, ma c’era comunque molta confusione.

Come aveva fatto a prendere sonno proprio mentre c’era il rischio che il suo corpo venisse calpestato in mezzo a tutta quella confusione? Stavano per prenderli … ma chi diavolo erano? Gli inglesi forse. Ah, non importava.

Gli interrogativi gli giravano per la testa come zanzare fastidiose, anzi, più che zanzare vespe, che lo punzecchiavano ripetutamente.   

Si guardò le scarpe, mentre si incamminava verso la strada. Normali. 

Rialzò lo sguardo, assalito da un pensiero che lo condusse all’ira: come avevano potuto lasciarlo lì dove si era addormentato, con tutti i pericoli che poteva correre?

Con la faccia distorta dalla rabbia, immaginando con precisione il rimprovero e la punizione dei suoi sottoposti, il dialogo e infine le loro richieste di pietà e le scuse.

Camminando senza una meta precisa, o almeno per ora non ci aveva pensato, si trovò nel centro della città.

In mezzo alla strada, perso nei suoi pensieri. Non appena se ne accorse, corse in tutta fretta sul marciapiede e lo spettacolo che gli si presentò davanti fu leggermente meno normale delle sue scarpe.

Un ragazzo, poco più che un dodicenne, gli passò di lato a tutta velocità sul suo skateboard rosso con delle fiamme azzurre disegnate.

Passandogli di lato gli urlò, senza salutarlo e senza distogliere lo sguardo dalla strada «’Giorno Hitler!», un po’ per sfottò, ma Adolf non trovò nulla da ridire sul fatto che lo chiamassero col suo nome; però si imbestialì quando il ragazzo aggiunse «Hit, non è ancora Carnevale!», poi il giovane skater si dileguò fra la moltitudine di persone

«Irrispettoso!» gli urlò dietro Adolf, con il marcato accento tedesco. Imbestialito, continuò a camminare a passo veloce, spaventando tutti con ringhi e occhiate di ghiaccio puro.

Una bambina fra le altre persone, con a malapena cinque anni, scoppiò a piangere urlando e additando Adolf «Mamma, il brutto!Il brutto!BRUTTO!».

Urlava tanto da farsi apparire o un’indemoniata o una che lo faceva apposta a insultare le persone per strada. La madre, prendendola in braccio le abbassò l’indice accusatore e lanciò ad Hitler un mezzo sorriso di scusa, preoccupato, mentre l’uomo si voltò, arrabbiato dalle novità che gli si presentavano davanti, scomode e che facevano avere ad Adolf la sgradevole impressione di essere in un’altra dimensione.

Sentì un uomo parlare animatamente con un altro, due castani, di cose che lui non comprese

«Davvero non sapevi che hanno tolto dal commercio Windows Vista?»

«No» l’uomo scosse la testa «Il mio computer ce l’ha ancora. Fa schifo» poi notando la faccia dell’altro aggiunse in fretta «Cioè ha una grafica meravigliosa, ma il mio computer va lentissimo, per non parlare di quanto ci mette a collegarsi a Facebook!O, per esempio, mi ci sono voluti cinque giorni per scaricare Waka Waka!»

«Infatti!Per esempio io ho scaricato gratis da internet Ubuntu!»

Adolf ascoltava tutto con l’aria di un drogato.

Erano parole a lui completamente sconosciute

“Windows Vista?La Vista di una Finestra?Finestra Vista? O Vista da Finestra?”pensava, perplesso, mentre ripensava alle parole, senza smettere di camminare  “Facebook? Faccialibro? Oppure faccia di libro?Waka…Waka?Cos’è, un rito sciamanico africano? E poi, che razza di nome!Ubuntu?!Che cosa significa, un nome da dio indiano?!”

Tutto ciò non faceva che rafforzare il suo senso di estraneità al luogo, ma alla fine, digrignando i denti, concluse “Solo due pazzi”.

Non sapeva neppure dove stava andando, ma una strana consapevolezza gli diceva che lui doveva camminare in linea retta, ovviamente scansando le presone che gli venivano incontro. Sarebbe stato estremamente spiacevole sbattere contro tutti quelli che gli stavano vicini, senza completamente muoversi dalla propria posizione.    

«Ciao!»

Adolf si girò, seccato.

Due occhi penetranti lo fissavano, brillanti, immobilizzanti, di un nero impossibile. Capelli lunghi fino alla vita, grossi boccoli castani, una corta frangia che ricadeva sulla fronte ampia, un viso ovaleggiante e abbronzato, come il resto del corpo d’altronde, ma pieno, le labbra di un colore intenso, curvate in un sorriso. Tutto il volto era illuminato da un’espressione di gioia pura, che però nascondeva una certa malizia e complicità.

Ciò che stupì di più Hitler era il vestiario: una morbida felpa di ciniglia, grigia, con sopra la stampa di un grande $ simbolo dei dollari in verde, che gli occupava tutta la maglietta, e nella parte posteriore, coperta un po’ dal cappuccio, la € degli euro in uno sfavillante oro.

La cosa più strana era che tutti questi particolari appartenevano a una bambina di circa nove anni.

Gli tese la mano «Ciao» ripetè, convinta

«Ciao» rispose, esitante, l’uomo

«Io, come vedi, sono una bambina. Io vedo che tu sei un uomo. Ora io ti dico il mio nome e tu mi dici il tuo, ti va?» scandiva le parole come se quello che gli stava davanti fosse troppo stupido per capire «Prima tu» aggiunse, lentamente.

«Io sono Adolf. Adolf Hitler» si presentò, ritraendo la mano dopo una stretta di mano e il suo solito sguardo penetrante che rivolgeva ai conoscenti, che alla bambina non fece nessun effetto

«Si, proprio davveeero un bel modo per tentare di incantarmi, con il tuo sguardo “ghiaccioloso”. Io, invece, sono una bambina misteriosa a cui hai appena svelato il tuo nome. Scherzo. Non sono misteriosa. Mi chiamo Melody!» gli disse, con il costante sorriso sulle labbra, talmente presente da far pensare a una paralisi facciale

«I tuoi genitori?» non potè fare a meno di domandare Adolf, scrutandosi con brevi occhiate sospettose intorno

Melody assunse un’aria seccata, leggermente esasperata «I miei genitori! I miei genitori! Tutti a chiedermi dei miei genitori!Sono MORTI! I miei benedetti genitori sono morti!» aveva l’aria più seccata del mondo, niente rimpianti, o sentimenti che la facessero sembrare debole.

Hitler giunse alla conclusione che quella era un piccolo mostro.

«E allora… chi sta con te?» chiese, sospettoso

«Ero all’orfanotrofio… ma mi trattavano male» chinò la testa e i lunghi boccoli le ricoprirono il viso. La sua mano corse verso la tasca e prese qualcosa che si portò sotto la cascata di morbidi ricci. Dopo un po’ di tempo, quando finalmente Melody rialzò la testa, aveva la voce rotta e gli occhi pieni di lacrime «Sono scappata. Non ce la facevo più. Ero così…» la sua voce si ruppe e la bambina portandosi le mani al volto proruppe in piccoli singhiozzi acuti. Senza togliere le mani dal viso, lo implorò «Tienimi con te! Non farmi torn-nare lì! ».

Adolf, confuso, si sentiva stranamente imbarazzato. Mormorò un «Si, forse va bene» e Melody, con il volto coperto, riuscì a mascherare il suo sorriso di trionfo, malizioso. Ringraziò più volte l’entità sconosciuta in cielo e sorrise di nuovo pensando alla cipolla in tasca che aveva appena riposto con cura. Si sfregò le mani sul viso per farlo apparire rosso e diminuì il suo sorriso talmente tanto da farlo apparire un piccolo sorriso rassicurante per far capire che si era calmata. Si tolse finalmente le mani dalla faccia, pronta.

Notando lo strano aspetto di Adolf che, bhè, assomigliava ad Adolf, aggiunse, non potendo fare a meno di assumere un’espressione di malizia e felicità «Ti prometto che non farò l’ebrea. Sarò una bambina buona e gentile…»

“…che farà un sacco di soldi!” aggiunse mentalmente considerando che aveva appena trovato un tizio che era spiccicato al dittatore e si chiamava Adolf Hitler! Forse lo avrebbero voluto come attore per fare un film, e lei lo avrebbe usato e si sarebbe presa tutti i soldi!

L’idea era allettante. Sfiorò la tasca rigonfia con la mano. Si… ce l’avrebbe fatta.

La storiella che aveva detto ad Adolf era, si, la storia della sua vita, o perlomeno della sua vita dopo che i suoi genitori erano stati spiaccicati da un camion, con qualche differenza. Per esempio il fatto che la trattavano male non era assolutamente vero. Era solo tutto molto noioso, una routine senza fine che faceva venire solo voglia a quelli che come lei cercavano l’avventura di buttarsi dal primo grattacielo che trovavano. Per questo se ne era andata. E se per lei la situazione si fosse messa male poteva sempre raccontare che Adolf l’aveva rapita e lo shock le impediva di raccontare il resto. Avrebbe evitato per un po’ di tempo l’orfanotrofio, almeno.

Stettero un po’ in silenzio persi ognuno nelle proprie congetture, quando finalmente la bambina soggiunse «Ehi, non incantiamoci! Hai detto che ti posso venire dietro, oppure sto io avanti e tu mi segui?»

Hitler, in effetti, non sapeva assolutamente niente, né il posto in cui lo avevano lasciato né la sua meta, ma non gli andava proprio giù di farsi comandare a bacchetta a una bambinetta incontrata per strada, “Melody”.

«Faccio io strada!» esclamò, anche se non sapeva neppure lui perché avesse alzato la voce.

«Io» propose la bambina, socchiudendo gli occhi «Credo proprio di sapere la strada. E comunque si dice sempre prima le signore, no?» I suoi occhi erano ormai due fessure.

Hitler non si mosse di un centimetro.

«Bene. Dalle mie parti si dice sempre… ehm, ehm» si schiarì la voce, poi disse, con un aria solenne da, guarda un po’, dittatrice «Chi tace acconsente. Bene, allora seguimi!».

Prese per mano Adolf e passò saltellando avanti, letteralmente trascinandoselo dietro. Hitler maledisse il fatto di essere piccolo, debole e fin troppo leggero. O almeno di sentirsi così.

Ad alta voce, Melody iniziò a canticchiare «Soldi, soldi, soldi, un toccasana!Un toccasana!Chi ha tanti soldi vive come un pascià!Come un PASCIÀ!!» concluse, urlando. Era la canzone più corta che avesse cantato in vita sua.

Melody finalmente mollò la mano di Adolf, senza però smettere di saltellare allegramente facendo strada.

Hitler si convinse, seppur frustrato a seguirla.

Melody lo guidava per la città. Non sapeva realmente dove andare, o ameno non lei, ma fin da quando era piccolissima aveva sempre sentito quella che lei chiamava la sua “Voce Interiore”, quella voce potente e benevola nella sua testa che sembrava volerla sempre aiutare, senza sbagliare mai, nei momenti maggiori di difficoltà. Adesso non era in pericolo eppure la voce, femminile e melliflua la guidava “Continua fino alla cartolibreria. Svolta a sinistra…”.

Lei pensava che tutti avessero la Vocina Interiore. Melody si era costruita una teoria tutta sua: la Voce Interiore non era altro che il proprio Io allo stato puro, senza condizionamenti, la parte del cervello che non era stata infettata dalle scemenze che raccontano al giorno d’oggi, la Voce Interiore siamo i veri noi.

A volte la vocina però era fastidiosa. All’improvviso la “Vera Melody” aggrediva il corpo e ne prendeva il controllo parlando al posto suo e, cosa che la faceva andare in bestia, diceva cose senza senso in rima. Però era orgogliosa che la “Vera Sé” fosse così forte da aggredire e sopraffare la “Sé Condizionata”, la faceva sentire potente.

Guidata da quella strana forza psichica guidava a sua volta Adolf e il poveretto non guidava nessuno.

Sembrava una catena alimentare.

L‘ambiente iniziò a cambiare a poco a poco. Iniziarono a sparire i segni della civilizzazione e la vegetazione  si infoltì.

Una volta videro una piccola cosa pelosa correre davanti a loro. Melody non sapeva che pensare con Hitler che ringhiava alla cosina e pestava i piedi.

La “cosina” si rivelò un gattino di al massimo un mese, piccolo, tenero e dal manto pulito e rossiccio. Li osservò con due occhioni grandi e verdi, sgranati dalla sorpresa e al contempo spaventati. Il corpo minuto iniziò a tremare mentre Hitler gli si avviava contro ringhiando come un cane e ingobbendosi.

Melody, intenerita, sorpassò Adolf spingendolo via e si chinò lentamente verso il micino.

«Ciao» sussurrò, sorridendo. Il gattino la guardò, e per un attimo smise di tremare. Certo, Melody non lo poteva sapere, ma il gatto vedeva in lei molto più che una bambina affettuosa. Vedeva qualcosa che andava oltre ogni possibilità umana, che aveva governato dall’inizio dei tempi e continuava tutt’ora. Aveva visto quella che la bambina definiva la “Vera sé”.

Il felino, socchiudendo gli occhi, si avvicinò a Melody, all’apparenza voglioso di coccole.

«Oh…non è adorabile?» chiese, mentre prendeva il braccio il micetto che continuava a fare le fusa osservandola con occhi quasi sorridenti

«No» ringhiò il tedesco

«Bastiancontrario» commentò lei, con una scrollata di spalle, continuando a cullare il gattino e solleticandogli di tanto in tanto la pancia o i baffi

«Andiamo?!» urlò lui, irritato, pestando i piedi dalla collera

«Bimba?» una voce acerba, sottile seppur si capisse che era di un maschio, sicuramente di un bambino di non più di sette anni. Quando i due si girarono videro un ragazzino con i capelli di un castano così scuro da sembrare nero, due occhi di un vivace castano chiaro, le labbra sottili curavate in un timido sorriso e il volto pieno, con guance rosee. In pratica, era un bimbo che scoppiava di salute

«Si, bimbo?» gli fece Melody, senza smettere di accarezzare il cucciolo dal manto rossiccio che protendeva il musetto verso di lei

«Bimba, quello è il mio gattino»

«Chi me lo garantisce?» La ragazza socchiuse gli occhi, sospettosa

«Io. E poi so il suo nome. Vedi che ha il collare?» indicò il collo del gatto

«Questo non spiega nulla. Io, voglio sapere il tuo, di nome»

«Il … mio?» si indicò il petto con un dito «Okay … io sono Daniel, anche se in realtà non sono inglese o americano. Sono … ebreo» fece un largo sorriso, tendendo le mani come se si aspettasse che a questa rivelazione Melody gli avrebbe ceduto il micetto

«Ebreo?Oh … Ma scusa ebreo di dove?Mica sei un ebreo così campato in aria!Da dove vieni, eh?»

«Io vengo … ahh!» fece un salto indietro, dopo il tentativo di Adolf di morderlo.

«Scusi, signore, ma che le ho fatto io?» piagnucolò Daniel portandosi le mani davanti alla faccia, come se potessero fargli da scudo

«Piccolo, sudicio, brutto, schifoso, inferiore, bastardo, pulcioso, lordo, sporco …» non riusciva a trovare una parola che definisse bene ciò che pensava di quei piccoli e sporchi ebrei, così lasciò la frase ad aleggiare nell’aria, avanzando con fare minaccioso verso il bimbetto

«Ehi!Addy!» lo richiamò Melody, ma quello, come sordo, continuava ad avanzare «Ti caccerai nei guai!Uomo avvisato mezzo salvato!» ma i suoi proverbi e i suoi avvertimenti non valsero a nulla, o perlomeno non fecero in modo che Adolf  non prendesse per il bavero il ragazzino e lo alzasse, con una smorfia di rabbia in faccia. Si sentiva irato, irato con tutti in quella strana nazione in cui si trovava e non riusciva a sfogarsi. Ma adesso si che avrebbe potuto sfogarsi su quel piccolo mero esserino inferiore … Melody faceva sorgere in lui strani istinti protettivi, nonostante non avesse occhi azzurri e capelli biondi, e si sentiva in dovere di istruirla riguardo ai pericoli di mischiarsi con le razze inferiori. I bambini, per lui, andavano istruiti alla diversità sin da piccolissimi … idee che in un paese libero avrebbero fatto non solo scalpore, ma avrebbero suscitato odio nei confronti di chi le ha dette.

Pulizia etnica? Lo avrebbero chiamato razzismo sfrenato e fanatico, una cosa da tagliare, da estirpare alla radice.

«Si-signore!» singhiozzò Daniel, incapace di fare altro che non fosse implorare con le mani giunte “il signore”«L-la pre-prego, signore!» esclamò, disperato,  con le guance già rigate di calde lacrime che gli bagnavano il volto.

Era uno spettacolo che faceva davvero pietà, specie quando il bambino ebreo scoppiò in un pianto straziante che però non intenerì affatto Adolf, ma accrebbe a dismisura il suo disgusto, tanto da spingerlo a picchiare il ragazzino. Lo buttò a terra, poi iniziò a prenderlo a calci, ripetutamente, senza pietà.

Una donna, attirata dai pianti e preoccupata, si affacciò dalla finestra del suo piano, lasciando penzolare nel vuoto i lunghi capelli neri, lucidi e morbidi.

Poi, alla vista di quello spettacolo, i suoi tratti delicati assunsero un’espressione impaurita e corse dentro, correndo e affrettandosi verso il telefono.

Nel frattempo, in strada, Melody continuava a tentare di portare via Hitler dal povero ragazzo che gemeva e piangeva per terra, lanciando brevi urla di dolore «Hitler, non fare il grosso testa di…»

Prima che la bimba potesse completare la frase Adolf le ringhiò contro, voltandosi verso di lei «Lo sapevo che mi avresti prestato attenzione se minacciavo di dirti le parolacce!» sorridendo, la ragazza gli fece la linguaccia

«Brutta…» iniziò, per essere subito dopo interrotto

«Ah ah ah!No, no, no, no! NO! Non si fa Addy!Andiamo via e lascialo stare!» nonostante continuasse a rimproverarlo e a spronarlo ad andarsene, la sua “Vera Melody” continuava a dirle “Lasciagli il tempo di vederlo”

“Vedere chi?” sbottò, esasperata

“Che vedano Adolf”

“Chi dovrebbe vederlo?”

“La polizia!”

“Chi … chi cavolo ha chiamato la polizia?”

Come se la sua Voce Interiore gliela continuasse a indicare, Melody individuò il balcone della palazzina del piano in cui viveva la donna dai capelli neri

“Ci ha visti?”

“Si, ci ha visti”

“E ha chiamato la polizia …”

“Si. Ma adesso ascoltami: devi far vedere Adolf alla polizia”

“Perché?”

“Fai come ti dico. Ti farà diventare ricca”

“RICCA!” urlò mentalmente, eccitata “E dopo che si fa?”

“Scappa con lui. Trovagli un nascondiglio decente e portatelo dietro, aiutalo a sopravvivere in questa grande giungla di metallo e vetro, dove molte sono le insidie e grandi le sven…”

“No!No, non iniziare!”esclamò. Quando la “Vera Lei” stava per prendere quell’aria mistica e la sua voce iniziava a essere di una strana intonazione, le faceva sempre perdere il controllo del suo corpo. L’ultima volta che era successo era stato all’orfanotrofio, ed era impreparata. Il suo corpo, senza più una mente conscia che lo guidava, era caduto come un sacco di patate, e le ci erano voluti molto tempo e fatica per risalire dal suo subconscio, quasi fosse intrappolato in una melma densa e scura. Circa … quattro giorni.

Non era come quando voleva appropriarsene, nel frattempo lei era sveglia e vigile, e finite le sue profezie, gli restituiva il corpo aggiungendo un “grazie” sincero. No … era come se la sua voce fosse un potente sonnifero che faceva assopire la sua conoscenza e la faceva sprofondare nelle sabbie mobili. A volte, aveva paura di non riuscire a risalirne.

Un rumore altalenante e inconfondibile squarciò le sue riflessioni come farebbe una lama affilata con un pezzo di sottile carta. La sirena.

Quella si che la conosceva, eccome!

Eppure non c’era stata una volta sola che la vocina le avesse fatto fare cose che le avrebbero procurato guai. Se far vedere per un attimo Adolf che picchiava il bambino alla polizia equivaleva a essere ricca, tanto valeva diventare miliardaria.

Rimase rigida e Hitler e scattò in piedi, con un brutto presentimento

«È per noi?» chiese, alzando un sopracciglio.

«Ehm…» se glielo avesse detto, sarebbe fuggito?E se non glielo avesse detto, non sarebbe fuggito quando era il momento giusto per filarsela? « Ehm … ni … »

«Cosa? Cos’è “ni”?»

«Ni…è…» voleva prendere tempo, per fare arrivare le forze dell’ordine  «Un modo … per dire che è … un po’ no...» la sirena si spense e il rumore delle portiere si udì nelle strada chiaramente «e … bhè …» passi, passi che venivano verso di loro «un po’…» i passi si avvicinavano. Dall’angolo sbucarono dei poliziotti, con la loro divisa e uno sguardo severo.

Un flash.

«SI!» Melody lo prese per il braccio e lo incitò a correre con un continuo «Dai, dai, dai, dai!».

Filarono per la strada intontiti da alcuni flash che arrivavano all’improvviso.

Lasciò spazio per comandare il corpo alla sua “Vera Sé” che li guidò in un posto sicuro.

Il “posto sicuro” era, teoricamente (anche se Melody stessa ne dubitava), una specie di piccola grotta rocciosa proprio di lato alla prigione. Fu allora che Melody si accorse delle mani di Adolf, macchiate di sangue.

«Che cosa hai fatto?» Gridò «Che cosa hai fatto?»

«Ho ucciso quello stupido gatto dello stupido ebreo» ansimò Hitler, stanco dopo la corsa «Sono riuscito a staccargli la testa prima di venire via».

Quello era senza dubbio pazzo … ma che cosa gli aveva fatto il gattino? 

Quando il bambino aveva lasciato andare il gatto, questi era atterrato sulle zampe e aveva soffiato.

Per qualche strana ragione, questo irritò Hitler molto di più di un bambino ebreo che si comportava da padrone e lo indusse a prendersela con il piccolo animale, rompendogli la spina dorsale e strappandogli la testa in preda ad una furia omicida. Questa sequenza, abbastanza rapida, era avvenuta quando Melody aveva avuto la sua “conversazione interiore”.

Dentro quel dittatore con i baffetti c’era qualcosa di canino, ferale, e i gatti lo risvegliavano irrimediabilmente.

Melody deglutì e guardo l’uomo di fronte a lei

«Tu sei senza dubbio un pazzo spietato. Ma sono quelli come te che riescono a riempirsi di soldi».

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Capitolo 4
*** Come accadde che Vlad conobbe Adolf ***



Capitolo 3
Come accadde che Vlad conobbe Adolf

Vlad deglutì. Si sentiva la gola secca e l’umiliazione e la rabbia lo stavano letteralmente uccidendo … non si sentiva così stressato da quanto? Lo avevano prima spogliato di nuovo, quei bastardi, e gli avevano cercato addosso qualcosa che chiamavano droga e che dicevano essere terribilmente pericolosa o giù di lì. Doveva trattarsi di una qualche polvere magica del paese degli stregoni, a suo avviso, ma per più volte lui aveva ripetuto di non possedere alcuna sostanza pericolosa.
«Droga! Non ho nessuna droga, ora smettetela di palparmi!».
Gli avevano cercato delle armi, dappertutto … come se avesse potuto nascondersi una spada dentro il corpo! Ah, pazzi! Ora gli avevano dato un vestito squallido, lo stesso che indossavano tutti i poveracci che venivano rinchiusi in quella struttura, e lo avevano chiuso in una stanza buia insieme a un tizio nervoso e baffuto che continuava a porgli domande, puntandogli in faccia una lampada
«Chi diavolo sei, per l’ennesima volta!» gracchiò l’uomo, con un’espressione maligna.
Aveva gli occhi piccoli, ma sembrava che dovessero sgusciargli fuori dalle orbite con una lieve pressione intorno ai bulbi oculari, o magari con un semplice colpo dietro la testa. A Vlad dava l’impressione di uno che si era montato gli occhi di una rana in una testa umana, qualcosa di a dir poco diabolico. Il principe si sarebbe alzato volentieri per distruggere la faccia dell’ometto se non avesse avuto le mani legate dietro la sedia e due energumeni seriosi ai fianchi che continuavano a fissarlo con la faccia di due maniaci. Porco paletto, ma erano tutti così, in quel posto? Lo avevano anche picchiato, se picchiato si poteva dire … in realtà avevano cercato di picchiarlo, ma con il risultato di essersi fatti prendere a pugni come dei punch-ball troppo cresciuti.
Vlad guardò il soffitto, esponendo la gola
«Io sono Vlad III, figlio di Vlad II, principe di Valacchia» ripetè stancamente, per l’ennesima volta, sentendo la propria voce farsi sempre più roca e graffiante insieme alla sete
«Chi diavolo sei?»
«Senti»  abbassò la testa di scatto e guardò nei suoi occhi da ranocchia l’ometto «Sarà la cinquantesima volta che me lo chiedi. Perché non ti piace il mio nome? Vuoi darmene uno tu? Va bene, va bene, per l’amor del cielo, chiamami come ti pare, dammi il nome che daresti al tuo cane, ma dammi da bere immediatamente!»
«Non avrai da bere finché non mi dirai come ti chiami»
«Mi chiamo …» si guardò intorno e vide un cartellino applicato sul petto della sua guardia di sinistra, con un nome scritto in grafia sbilenca «Mi chiamo Gerald G …»
«Non dire idiozie» ruggì il suddetto Gerald, colpendo la guancia del principe con uno schiaffo di quelli seri, di quelli che fanno sentire lo scintillio nelle orecchie.
Vlad si alzò con la sedia attaccata e, sbuffando come un toro, si scagliò addosso a Gerald G., costringendolo contro la parete fra testate e colpi di spalla. L’altro agente si staccò il manganello dalla cintura e con quello colpì la nuca del prigioniero, abbastanza forte da intontirlo, ma moderando comunque la forza, poi afferrò lo schienale della sedia e lo trascinò al posto di prima. Gerald abbassò le mani che aveva sollevato di fronte al volto per proteggersi e fece un mezzo sorriso imbarazzato verso l’ispettore.
L’ispettore aprì la bocca, una bocca che era un forno rossiccio. Si, senza dubbio aveva un che di anfibio, caratteristiche che potevano anche stare bene sul musetto di un ranocchio, ma che su quel faccino da topo schiacciato stavano bene come la panna con l’aceto.
La sua sentenza fu
«Controlleremo se il profilo di questo criminale è nel database. Nel frattempo, buttatelo in gattabuia».
Vlad fu sbattuto rudemente in cella, insieme a un paio di galeotti che lo guardavano strano. Si sedette sulla branda guardando le coperte ruvide
«Pazzi» mormorò «Sono tutti pazzi, qui  …»
«Ciao, Nuovo» lo salutò uno dei suoi compagni «Adesso non si saluta più? Io sono Gilbert».
Aveva i capelli biondi, chiarissimi, nonostante la pelle abbronzata, e gli occhi erano di un azzurro puro. Sembrava bello e giovane, con un fisico palestrato e le spalle larghe sotto la sua squallida divisa.
Vlad lo guardò di sottecchi
«Ciao » borbottò, con le sopracciglia inarcate
«Non sembri contento»
«Dovrei?»
«No, ovviamente no … ma, almeno, potresti dirmi come ti chiami?»
«Non lo so, proprio non lo so … »
«Prometto che non riderò di te» Gilbert sembrava sincero, i suoi occhi azzurri erano incredibilmente sinceri, come quelli di un bambino, e Vlad si fidò
«Io … mi chiamo … beh, Vlad»
«Ok, amico, ehm, cosa c’è di male nel chiamarsi Vlad? Mi sembra un nome come un’altro»
«L’ispettore, il commissario, chi diavolo era … non la pensava come te» il principe strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche «Lui credeva che stessi mentendo. Tutti credono che io stia mentendo, ma non riesco, non riesco a capire perchè» scosse la testa e un paio di riccioli gli finirono davanti agli occhi.
«Davvero? Beh, amico, devi averne passate di cotte e di crude … come mai sei finito qui dentro?»
«Se ne avessi una pallida idea te lo direi. Che posto … squallido» sbottò, ferocemente, poi accavallò le gambe «Devo trovare un modo per uscire da qui»
«Tutti cercano un modo per uscire da qui, ma riuscirci non è facile, sai ...»
«Io ci proverò»
«Sai come ci sono finito io?»
«No, ovviamente»
«Beh, era perché … solo perché ho rubato un paio di integratori vitaminici, niente di più. Ma ci credi, in prigione per aver rubato degli integratori vitaminici! La verità è che stavo scomodo a qualcuno»
«Se hai rubato è giusto che finisci in prigione» inaspettatamente Vlad concordò con l’opinione delle forze dell’ordine «Ai miei tempi avresti rischiato la morte per questo»
«Beh, non sembri così vecchio …»
«Già» Vlad notò in quel momento il secondo compagno di cella.
Era un uomo magrissimo e scuro, con una faccia sottile e incavata e un piccolo naso aguzzo. I suoi occhi, neri come il carbone, erano fissi sul pavimento e non sembravano neppure vivi per quanto erano immobili … anche se, incredibilmente, sembravano brillare. Stava pensando evidentemente a qualcosa e Vlad avrebbe voluto poter leggere nella sua mente per sapere esattamente cosa ci svolazzasse dentro. Sembrava, comunque, qualcosa di importante …
«Chi è quello?» chiese il principe, indicando l’uomo magro
«Oh, lui è Franz. Non è rumeno, non è neppure europeo, credo. Americano, o canadese, non mi ricordo bene. Non ha chiesto di essere rispedito a casa sua. E’ qui e sta tutto il giorno in silenzio … abitare con lui è uno strazio. Non mi guarda neppure e a volte mi da i brividi … penso, comunque, che non capisca quello che stiamo dicendo».
Vlad si alzò in piedi e si avvicinò a Franz. Non poteva sapere che quel tizio facesse lo stesso effetto a tutti i galeotti: una curiosità morbosa. Ma non parlava mai a nessuno, per nessuna ragione, non rispondeva alle accuse, né alle urla, né tantomeno alle ingiurie. Era come se non fosse neppure umano: mangiava, beveva, dormiva, ma non sentiva alcun bisogno di comunicare.
«Ehi, amico, è inutile … non ti parlerà. E comunque non ti piacerebbe» Gilbert cercò di mettere in guardia il suo compagno «Di noi, quello è veramente un criminale. Ha ucciso un gruppo di ragazzi senza fare una piega e non si è nemmeno ribellato quando lo hanno portato qui. E’ pazzo, è fuori di testa!».
Vlad ignorò le parole di Gilbert, chiamò per nome Franz, con voce pacata, e questi sollevò la testa. Sul suo volto, che sembrava scavato dalle intemperie in un modo arcaico, come la roccia di un canyon, si modellò un sorriso oscuro che mostrò piccoli denti regolari e giallastri, da fumatore
«Salve, potente principe. Gloria al signore del sangue, colui che veste il mantello rosso della vittoria» disse, con una vocina che non sembrava poter appartenere al suo corpo «Tornato dopo cinquecento anni e come allora vigile e invincibile …».
Gilbert scoppiò a ridere, ma Vlad rimase in silenzio.
Non ci trovava niente da ridere, era tutto molto serio. A suo modo, ovviamente … si morse un labbro, abbastanza forte da sanguinare. Voleva sapere di essere sveglio, voleva sentire il dolore che pungeva la pelle. Dov’era il suo mondo? Che cosa ne rimaneva? Gli stregoni lo avevano distrutto? E se così era, l’ultimo rimasto della sua epoca era quell’uomo dalla pelle scura e i denti gialli?
Vlad, questo, non riusciva a capirlo e dubitava che ci sarebbe mai riuscito. Si stese sulla branda senza rivolgere più la parola a Gilbert e guardò con occhi fissi la parete di fronte a se, ragionando.
Come un bambino, non aveva un modo raffinato di affrontare i problemi: poteva prenderli di petto, aggredirli finchè questi non scomparivano, oppure semplicemente scappava da essi, si nascondeva.
I suoi occhi verdi erano come due pezzi di vetro, socchiusi fra palpebre che sembravano completamente immobili, le labbra serrate e le mani chiuse a pugno una dentro l’altra sotto la testa.
Inutilmente il suo compagno di cella biondo lo chiamava: lui non gli avrebbe risposto.
Passò così parecchio tempo, finché non arrivò l’addetto ai bisogni dei prigionieri con i libri e i quotidiani del giorno. Era un uomo di media statura, con i capelli neri e una giubba pesante e sformata che nascondeva la vera forma del suo corpo. Entrò ridacchiando
«Buongiorno … perdonatemi il ritardo …» disse «Ho avuto alcuni problemi»
«Nessun problema» Gilbert ridacchiò rispondendo e si strinse nelle spalle, poi si alzò a prendere il giornale dal carrello che l’uomo passava.
C’erano anche diversi libri, preziosi libri moderni, e uno in particolare attirò l’attenzione di Vlad, uno che riportava il suo nome su una copertina gialla, scritto a lettere alte e rosse. Era un’edizione probabilmente molto vecchia, con gli angoli sgualciti e uno stile che sembrava abbastanza arcaico per i tempi che correvano. Ovviamente il principe non aveva mai visto libri di quel genere, così vivaci, e non poteva accorgersi di tutti i particolari che lo contraddistinguevano come un volume non più giovane … si trattava del Dracula di Bram Stoker, un’opera che aveva fatto il giro del mondo e che tutti conoscevano, quella che aveva dato vita a tante di quelle interpretazioni dello stesso personaggio che, per bizzarria, avrebbero probabilmente fatto rabbrividire il loro soggetto originale.
Tuttavia, nonostante il Dracula di Bram Stoker fosse presente nella camera, questo non ebbe alcun ruolo importante per i fatti che in seguito accaddero. Il ruolo principale, infatti, andò alla copia del giornale di quel mattino, il quotidiano dalle pagine enormi in carta riciclata e con le immagini a bianco e nero.
Gilbert fischiò mentre girava le pagine
«Guarda un po’ quante se ne sentono» disse, chiaramente rivolto a Vlad, quasi nell’intento di tirarlo su di morale «Con tutte le notizie tragiche che ci sono al mondo, vengono a pubblicare proprio questa … certo che è curiosa, no?».
Gli indicò una pagina di giornale e lui si mise seduto. Si sentiva stranamente intorpidito.  
Lesse con attenzione l’articolo sul giornale e aggrottò le sopracciglia, poi sorrise e i suoi baffi sussultarono in una maniera che ricordava i cani quando annusavano. C’era qualcosa che gli suggeriva di aver appena incontrato il socio giusto … no, non Gilbert. L’uomo dell’articolo di giornale.
Il principe si fidava parecchio del proprio istinto e la sua mente infantile si era appena innamorata dei modi di fare di quello strano criminale che non sapeva puntare in alto ma che, per quanto follemente, era riuscito a mettere a segno un traguardo importante: far leggere di se in tutto il mondo.
Perché quello che era successo nell’articolo scritto sulla pagina economica e grigiastra del giornale era accaduto addirittura in Germania.
Un tizio che era comparso, travestito a quanto pare da noto dittatore, aveva pestato un bambino, ucciso il suo gatto, e poi si era volatilizzato e nessuno era riuscito ancora a scovarlo.
C’era anche una foto dell’uomo. Vlad credeva che fosse un dipinto, ma non importava, avrebbe imparato presto come funzionavano le cose da quelle parti … La fotografia era leggermente sfuocata, mostrava una faccia leggermente tondeggiante, con un mento talmente tondo da sembrare una mezzaluna, occhi che sembravano scuri, infossati e con le borse, e un paio di baffetti minuscoli e scuri che coprivano solo il centro del labbro superiore. I capelli, scuri e leggermente unti, avevano un ciuffo riportato da un lato in una pettinatura curiosa.
Le spalle che sostenevano il collo morbido non erano particolarmente larghe, ma sembravano solide, e si armonizzavano con il volto dell’uomo, dando un’impressione di ferro, metallo duro e secco.
Era una faccia vagamente inusuale, non straordinaria, ma forse proprio per questo la faccia di un individuo pericoloso, qualcuno che poteva confondersi in mezzo alla gente comune.
Il principe non credeva che quello si fosse travestito da dittatore, piuttosto che quello fosse il vero dittatore. Istinto, puro istinto, qualcosa di viscerale e mistico di cui lui doveva fidarsi. La faccia era quella di un capo politico.
Vlad si stampò in mente quel nome: Adolf Hitler.

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Capitolo 5
*** Come accadde che Adolf conobbe Vlad ***


Cap. 4

Come accadde che Adolf conobbe Vlad

 

Un tempo infinito. Goccia dopo goccia, si consumava la sua tortura … rimanere nascosto, fermo, raccolto. Le sue gambe erano ormai intorpidite, ma non osava muoversi.

Era terrorizzato.

Pensava, era fermamente convinto di aver fatto la cosa giusta, eppure lo perseguitavano. Inoltre Melody aveva qualcosa che non andava. Sembrava posseduta.

Si rendeva conto con tristezza che aveva perso tutto il potere che aveva accumulato in tutti quegli anni, d’improvviso e senza un perché. E pensare che era bastato il tempo di una dormita per cancellare tutto …

Ma Adolf non era stupido, e iniziava a sospettare qualcosa. Tutto era troppo diverso da come lo aveva lasciato, e ne era la prova che i ragazzini strafottenti ebrei se ne andavano in giro per la Germania senza un briciolo di paura, perdendo i loro stupidi micetti a destra e a manca. Non avrebbe riconquistato certo il suo potere però stando lì nascosto, al freddo, in una stupidissima grotta, senza seguaci a parte una ragazzina di nove anni che aveva strane crisi di mutismo e andava di tanto in tanto in coma.

Doveva trovare nuovi alleati, dannazione!Ma aveva paura di uscire là fuori, con quegli strani tipi che inseguivano lui, il più potente personaggio del suo tempo!

Rivolse un timido sguardo fuori, sentendosi un animale braccato.

Il cielo, di un grigio esagerato, era coperto da migliaia di nubi rigonfie e morbide, come tanti bozzoli di seta, che si muovevano pigramente lassù. Il tutto era offuscato dalla pioggia, fitta e sottile, che si schiantava sul terreno con un lieve ticchettio frequente. Hitler poteva a malapena vedere la parete del carcere, di un grigio sconfortante.

Grazie all’edificio accanto alla quale si erano rifugiati, oltre a sentirsi pedinato senza un attimo di tregua, era irrequieto. E se quei criminali fossero scappati? E se li avessero trovati e, in preda a qualche strano istinto da malfattori, avessero deciso di ucciderli, per  “eliminare le loro tracce”, incuranti del fatto che sarebbero stati i cadaveri stessi degli indizi?

Ce ne erano molti di pazzi al mondo, e spesso si ammucchiavano in posti come quello. Probabilmente anche Adolf era un pazzo, ma non era abbastanza dotato fisicamente per prendersela con qualcosa di più grosso di animaletti e bambinelli indifesi che giravano per le strade della terra che sentiva … no, Hitler non sentiva di appartenere alla Germania. Era la Germania che apparteneva a lui.

Sospirò.

«Prego» mormorò Melody, in un angolino, scuotendo la testa come un cane che si scrolla via l’acqua dal pelo

«Che?» chiese l’ometto, senza neanche distogliere lo sguardo da fuori dalla grotta. La cosa peggiore di tutte era che si sentiva indifeso e nostalgico. Non poteva proprio sopportarlo

«Niente!» si affrettò a esclamare lei, per ricoprirsi subito dopo la bocca. Come cinque minuti fa gli aveva rivelato, anche lei aveva paura di stare nascosta così vicina al temporale.

Fra l’altro quel luogo pullulava di “forze dell’ordine”.

“Puah. Forze dell’ordine.  Io sono l’ordine! Loro appartengono a me!” pensò, con un leggero esaltamento.

Ma almeno era un nascondiglio.

Sulla parete del carcere criminale, situato di fronte alla grotta, c’era una finestra, aperta ma ovviamente provvista di robuste sbarre. Se uno strizzava  gli occhi e si concentrava a dovere, come Adolf fece, si poteva scorgere un tizio comune, leggermente in carne, che si accaniva su del pane e un po’ di minestra in modo fin troppo vorace.

I capelli, di una specie di sabbia stinto, erano corti e leggermente spettinati.

Doveva essere dentro da poco, visto che la sua capigliatura era ancora da persona civile. Gli altri particolari, anche se uno si concentrava al massimo erano indistinguibili. Hitler riuscì a capire solo che la parte superiore del suo vestiario era costituito da qualcosa di bianco con qualche macchia di sporco.

Rinunciò, per evitare di rovinarsi la vista e pensò di dormire. Chiuse gli occhi e cercò di non concentrarsi su nient’altro che non fosse sonnecchiare. Oh, che pace. Era tutto così calmo e c’era un odore fresco di pioggia e pulito, di erba e persino di metallo. Era così tranquillo … no. Si stava mentendo da solo. Lui non era affatto tranquillo, piuttosto di stava rodendo dall’inquietudine.

Riaprì gli occhi, sbuffando, e si sentì stranamente arrabbiato. Non sapeva neppure con chi. Decise di prendersela con Melody, per sfogarsi. Di certo non poteva urlare in faccia a un poliziotto o, cosa che lo faceva fremere di spavento anche  solo a immaginarselo, a un carcerato.

«Non sei una tipa che fa molta compagnia, eh?» ringhiò, per iniziare

«No» sbadigliò la ragazzina, incurante

«Allora che ti tengo a fare? Sarebbe meglio che ti buttassi fuori a calci» bofonchiò.

«Mi devi il fatto di non esserti perso …» iniziò a contare sulle dita «Poi di non essere stato preso, interrogato, mandato in carcere, e passato lì il resto dei tuoi giorni» mostrò con un sorriso radioso la mano aperta che indicava il numero di favori che le doveva.  Erano cinque

«Avrei saputo cavarmela!» ringhiò, con i baffetti che fremevano di rabbia

La piccola interlocutrice sorrise. Adolf conosceva bene quel caspio di sorriso, sempre pronto a farlo innervosire «Senza di me ti saresti comunque perso, avresti comunque combinato quel gran pasticcio prima o poi, e anche se non ti avessero preso, tu ti saresti preso una gran bella polmonite per …» con il pollice, con fare trionfante, indicò l’esterno «E poi, quale luogo è più caldo di una bella grotticella?» si abbandonò sul fondo della “grotticella” e chiuse gli occhi, ancora sorridendo di trionfo.

Sbuffando di rabbia Hitler guardò all’esterno. Ripensò alla sua situazione.

“Altro che grotticella!” pensò fra se e se “Questa è una grotti-cella!”.

Ridacchiò poco convinto della sua battuta, poi si zittì.

Sentiva a malapena il respiro regolare suo e di Melody. La bambina si era addormentata, serena.

Rimase molto tempo a contemplare il temporale, neanche lui sapeva quanto anche all’incirca, che infuriava fuori.

Plic. Plic.

Le ultime gocce piovvero sul terreno, frantumandosi in minuscoli frammenti cristallini.

D’improvviso tutto cessò. No, non era tutto d’improvviso. Era l’uomo che, assorto com’era, non si era accorto del progressivo diminuire del temporale fino a quando non era cessato del tutto.

Hitler si affacciò, cautamente, fuori dalla grotta. Decise, adesso che il temporale era finito di cercare nuovi alleati.

Rifletté. Non ne avrebbe trovati molti, di adepti, soprattutto lì.

Avrebbe dovuto allontanarsi, ma non gli andava di lasciare sola Melody. Troppo piccola, troppo giovane.

“Troppo vicina a questi pazzi …”  aggiunse mentalmente. Ma non poteva portarsela dietro: sarebbe stato troppo difficile non farsi beccare. Eppure aveva strane idee quella bambina, idee che facevano pensare ad Adolf che Melody gli avrebbe frequentemente salvato quella sua pelle da dittatore tedesco.

 

Vlad se ne stava sdraiato, di nuovo. Non sapeva come raggiungere quel tizio. Se ne stava immobile, con le mani sul ventre e guardava assorto il soffitto. Evadere.  Sarebbe stato difficile? Bah …

Lui aveva un’idea. Era una bella idea, come a volte gli venivano in testa quando era con le spalle al muro, violenta e geniale al tempo stesso …

Se non fosse stato che, per un colpo del destino, l’ennesimo colpo del destino, stava per giungere e stravolgere ancora una volta la situazione. Si trattava di un aspirante regista tedesco in vacanza nell’Europa dell’Est, appassionato di ricostruzione storiche, il quale non aveva potuto fare a meno di notare il principe Vlad e desiderare di potergli mettere le mani addosso e usarlo nel film che gli avrebbe cambiato la vita.

Così, mentre Vlad se ne stava sdraiato tranquillo, vide entrare nella sua cella un giovane uomo dai capelli biondi e la pelle abbronzata. Non sembrava del posto, anzi, quasi sicuramente era uno straniero.

«Ciao» Disse, stentatamente «Ma numesc … »

«Il tuo nome?» il principe sollevò appena la testa dal letto, incuriosito più dal tintinnare delle chiavi della guardia che aveva aperto la porta che dal tizio che lo infastidiva

«Franz» borbottò solo lo straniero, poco convinto

«Oh» Vlad ributtò la testa sul cuscino e continuò a guardare il soffitto.

Entrambi i suoi compagni di cella ridacchiarono della sua indolenza mentre l’aspirante regista sbuffava

«Io sono qui per … tirarti fuori» disse quest’ultimo, con un accento straniero molto duro

«Davvero?» Vlad non sollevò neppure la testa, questa volta «E come conti di farlo?»

«Sono già d’accordo con il direttore del carcere» ammise il regista, con un sorriso curioso «Se farai il bravo, con me, avremo entrambi un certo vantaggio. Ho promesso che avrei pagato bene la tua scarcerazione e dopotutto non sei un criminale così irrecuperabile, no? Violazione di domicilio è un reato ben misero a confronto delle dozzine e dozzine di … » sembrava non riuscire a trovare la parola giusta, in ogni caso parlava molto lentamente «Omicidi»

«Ah» Gilbert ridacchiò «Perché non tiri fuori me, allora? Eh, vecchio crucco?».

Il giovane regista parve non capire perché guardò con occhi vacui il galeotto e poi spostò di nuovo lo sguardo sulla sua “preda”

«Andiamo, vieni con me!» lo esortò, felice

«D’accordo» indolentemente, Vlad si alzò e si avvicinò al suo misterioso salvatore, guardandolo gelidamente.

Franz mise una mano sulla spalla del suo nuovo protetto e fu felice di sentire ossa e muscoli saldi, da guerriero

«Farò di te una celebrità ineguagliabile» disse, sicuro, storpiando le parole

«Prima dovresti imparare a parlare» ribatté il principe, in tono di scherno

«Vorrei … vorrei vedere … tu che parli il tedesco»

«Ci proverò, quando arriveremo nella tua terra. Se ci arriveremo» Vlad sogghignò, ma Franz non fu da meno e per un istante il principe ebbe il terrore che il suo nuovo salvatore volesse proprio trascinarlo in Germania.

Gilbert andò incontro a Vlad e lo abbracciò, battendogli sulle spalle amichevolmente, Frank, invece, si inchinò fino a terra per omaggiarlo. Quasi commosso, Vlad venne trascinato fuori dallo zelante e minuscolo tedesco, inseguito dalle parole di un ironico Gilbert

«Attento a Franz il Crucco, quelli non scherzano mai».

Vlad fu condotto in una boutique di moda parecchio costosa, con il soffitto alto e nero e gli scaffali raffinati, costellati di vestiti costosissimi.

Il suo nuovo amico, o presunto tale, Franz il Crucco così come era stato ribattezzato da Gilbert, gli aveva comprato un completo moderno ed elegante comprendente giacca e pantaloni gessati e una specie di orrenda lingua di stoffa rossiccia che si chiamava cravatta e che pendeva mestamente di fronte al petto robusto del principe, ma anche così il suo aspetto rimaneva abbastanza singolare da attrarre lo sguardo dei presenti.

Vlad si guardò incuriosito

«Sembro … sembro venire da un altro mondo» disse, a voce bassa

«Oh, si, adesso sembri di un altro mondo» confessò Franz, lisciandogli la cravatta contro la camicia bianca «Sembri un vero attore, non potranno rifiutare la mia proposta»

«Che proposta?»

«Ho intenzione di farti recitare in un film, sarai un ottimo Dracula. Non possono rifiutare la mia proposta, sono anni che cercano uno come te. Hai lo charme giusto, vieni dalla terra giusta, ehi, non avrai neanche bisogno della controfigura se ho sentito bene le voci che circolano sul tuo conto»

«Quali?» Vlad era infastidito dalla mano di quel ragazzo che continuava a toccarlo, ma cercò di contenersi dedicando i propri pensieri ad altro, ad esempio alle dicerie che circolavano su di lui

«Hai davvero spaccato la faccia a uno dei poliziotti che presiedevano al tuo interrogatorio e combattuto come un leone contro gli agenti che volevano portarti in prigione?»

«Come un drago» disse fieramente il principe, gonfiandosi

«Riesco a capire come mai mi hai fatto l’impressione giusta. Senza offesa, ma sei il ... » voleva dire una parola in particolare, matto, ma non ne ricordava la giusta traduzione in rumeno « … uomo di cui abbiamo bisogno»

«Ora, vorresti smettere di accarezzarmi» Vlad indietreggiò di un passo

«Eh? Scusa, non capisco quando parli veloce» l’aspirante si infilò le mani in tasca

«Vorresti smettere …» Vlad si passò una mano sulla cravatta « … di accarezzarmi? Mi dai i brividi».

Franz rise e Vlad ci rimase male, poi il tedesco lo spinse fuori dalla boutique, lo infilò di nuovo in macchina e lo portò all’aeroporto.

Il viaggio in aereo fu stressante per il vecchio impalatore, sentiva la terra beccheggiare sotto i suoi piedi e una paura oscura gli attanagliava le viscere

Vlad strinse convulsamente i braccioli della poltroncina per tutto il viaggio, gridando, e fu del tutto inutile che Franz il Crucco gli spiegasse che non c’era da avere paura. Tutti i passeggeri lo guardavano curiosi.

Quando toccarono terra, Vlad scese di corsa a terra, si inginocchiò riverente e baciò il suolo come Cristoforo Colombo appena arrivato in America, esclamando benedizioni in rumeno ed attirandosi sguardi di simpatia da parte dei presenti.

Nessuno aveva viaggiato particolarmente bene, c’erano state delle piccole turbolenze sgradite soprattutto a metà del tragitto, ed era come se il principe si fosse sfogato a nome di tutti.

Senza dubbio non era stata una bella esperienza, per lui, ma quella sua scenata teatrale sarebbe stata ricordata a lungo dalle persone che vi avevano assistito.  Sembrava che quell’uomo distinto fosse appena uscito dall’inferno e non avesse paura di manifestare la sua gioia. Chi poteva immaginare che lui era un esperto, in materia di inferni sulla terra? Gli incendi non si appiccavano soli e qualcuno doveva pure aver impalato quelle centinaia di migliaia di Turchi, cinquecento anni prima, no?

 

Hitler aveva fame, aveva sete, aveva sonno.

Se ne stava abbandonato sul fondo della grotta, mentre Melody tentava di smuoverlo da lì, additando il Sole «Dannazione, c’è il Sole! Esci un po’ a sgranchirti o diventerai un grosso invertebrato anchilosato! Mi capisci?! WOOO! » gli urlò nelle orecchie.

Hitler, infastidito, la spinse via e si girò dall’altro lato. Aveva perso il suo potere …

La ragazzina era davvero preoccupata. Sembrava che Adolf fosse caduto in depressione dopo il temporale, che aveva lavato via ogni sua resistenza. Melody aveva paura che diventasse un emo-depresso.

Pestò un piede, e si arrabbiò. Con Hitler. E con quei diavolo di piedipiatti che tutto il giorno gli alitavano sul collo. A nulla valsero le esortazioni alla calma della Vera Melody, lei si arrabbiò ancora di più

“Stai calma, piccola!”

“Non mi dire di stare calma!Io mi arrabbio quanto mi pare!Tu non sei mia madre!Mia  madre  è stra-stecchita!Sei solo una stupida voce nella mia testa!”

“Oh” disse la “Vera Lei”, con amarezza “Io sono … solo una stupida voce nella tua testa. Non servo a niente. Bene. Credo che me ne andrò, visto che non vi servo. Addio Melody. Sei stata tu a mandarmi via, ricordatelo” le rispose, pacata

“E vattene!” gli urlò mentalmente Melody, ma se ne pentì subito. Era lei che l’aveva aiutata in tutti questi anni. Lei sapeva benissimo che quella per lei non era una stupida voce nella sua testa. Era la Vera Lei. Era colei che l’aiutava nei momenti più difficili.

Era bhè … per Melody era difficile ammetterlo, ma era anche la sua migliore amica.

“Va … va bene” disse, con tono indecifrabile, ma la ragazzina avrebbe potuto giurare di scorgere un singhiozzo fra le parole

“Senti … mi, mi dispiace. Davvero, non volevo. Mi scuso. Ti prego non te la prendere! Ci sto male!”

“Sei sicura? Io sono solo una stupida voce nella tua testa” 

“Al diavolo! Te l’ho detto, mi dispiace, ma sai meglio di me che questa schifo di situazione mi fa imbestialire. Che cosa posso fare? Sei tu la voce dalle mille risorse. Ti prego, aiutaci!”

“Uhm. Va bene. Vi do un consiglio”

“Sarebbe?” chiese Melody, ansiosa e con una scintilla di speranza che sentiva accendersi dentro di lei

“Aspettate”.

Quell’unica parola schiacciò e compresse la piccola scintilla che si spense. Che bellezza. Aspettare.

Hitler, come faceva perennemente dopo il temporale, se ne stava zitto e guardava Melody. Il suo aspetto era preoccupante, ma Hitler ormai ci era abituato: seduta per terra, Melody fissava il vuoto con i suoi occhi neri e intelligenti, anzi non lo fissava, lo attraversava, con la bocca spalancata. Sapeva che anche se avesse provato a parlarle, lei non gli avrebbe risposto.

Ma, sapeva anche che di solito, dopo quegli strani attimi in cui lei sembrava posseduta, aveva delle straordinarie idee che li tiravano fuori dai guai, o, in alternativa, li aiutavano verso la scalata del dilemma. Come andarsene senza essere notati?

Eppure aveva notato che la ragazzina era leggermente contrariata ogni volta che si parlava di andarsene da dove erano.

Sperava che stavolta avesse avuto un’idea geniale che li avrebbe tirati fuori dai guai. Probabilmente, se non fosse stato Adolf stesso, Hitler avrebbe deriso il modo in cui un uomo s€i affidava alle idee di una bambina indemoniata, eppure lui non ci faceva caso.

Il suo volto non esprimeva alcuna emozione.

Melody si riscosse e guardò con un sorriso dispiaciuto Adolf. Neppure lei era riuscita ad avere una buona idea? Neppure lei che aveva un cervello così perfetto per essere una bambina? A Hitler non veniva nulla di buono.

«Allora?» chiese, e per la prima volta da un bel po’ di tempo si dipinse sul suo volto un’espressione di ansia

«Niente» un sorriso, seppure di amarezza, si disegnò sul suo volto da bambina «Aspettare»

«A … aspettare? Perchè? Fino a quanto?»  era molto, molto deluso.

«Non lo so. La mia voce non mi dice niente»

«La tua … voce?»

«Si … la mia voce» lo guardò perplessa.

Ma quello davvero confuso fra i due era Hitler «Cosa?»

«Tutti» iniziò a spiegargli, come si fa con i bambini piccoli che si dimostrano fin troppo ignoranti «Hanno una specie di voce interiore che gli spiega certi nostri comportamenti non condizionati dalla nostra “etica” o “morale”» fece con le dita il segno della virgolette quando pronunciò le due parole «Infatti la nostra voce interiore è la nostra parte più vera e pura. Ce l’hanno tutti a quanto ne so io» concluse, con una scrollata di spalle.

Tutti? Lui non aveva mai avuto una voce interiore che non fosse lui che formulava i suoi pensieri. Era anomalo?

Non era possibile. Lui era sempre stato abbastanza normale.

Almeno così lui pensava, non sapendo quanto fosse pazzo in realtà. Ma non era stupido e pensò a un fraintendimento da parte di Melody sulla “voce”.

Poi, all’improvviso, Melody sentì un rumore di passi diguazzanti che venivano verso la grotta. Dovevano essere due uomini … dio, due piedipiatti che venivano a cercarli!

«Presto!» Esclamò la ragazzina «Presto, presto, per l’amor del cielo, dobbiamo fare qualcosa!».

“No”  la voce nella testa di Melody era soave più che mai, sicura “Sta arrivando quello che voi aspettavate”

“Sicura?”

“Si”

“Ma sicura sicura? No, perché sai, sarebbe un tantino imbarazzante se quello che aspettiamo è di entrare in prigione …”

“Ti fidi di me?”

“Neppure fossimo sul Titanic …”

“Ti fidi di me?”

“Diciamo pure di si”

“Allora stai ferma dove sei. Non impedire al tuo amico storico di fuggire: sarebbe un grave errore”.

Melody rimase immobile, mentre Hitler balzava in piedi e si guardava intorno come un furetto allarmato. I passi si fecero più vicini e il dittatore cercò di guadagnare il fondo della grotta, ma Melody lo afferrò per un braccio

«Cambio di piano» disse «Non ci muoviamo!»

«Ci prenderanno!» Adolf era preoccupato, aveva iniziato a sudare freddo «Sono praticamente dietro l’angolo!»

«La mia vocina nel cervello dice che devo stare immobile. Ti fidi di me?»

«No, per l’amor del cielo, no, non mi fido di te!»

«Stai immobile e basso. Mantieniti calmo e lucido» Melody cercò di prendere il controllo della situazione mentre il panico si impadroniva anche di lei, paralizzandola.

Il sole, fuori, splendeva brillante, eppure c’era qualcosa di mesto nell’aria … come se stesse per scatenarsi una qualche calamità sovrannaturale. In pieno giorno, con quel bel tempo.

I passi bagnati si avvicinavano ancora, e poi qualcosa si fermò di fronte all’imboccatura della grotta. Melody trattenne il respiro: conosceva quel tizio, in qualche modo. Lo conosceva la Vera Lei e lo conosceva anche la Melody che aveva studiato sugli stupidi libri di storia delle elementari e aveva cercato di saperne di più comprando libri senza il permesso dei suoi tutori legali. Lo conosceva perché aveva visto la sua faccia stampata su un volumetto  che trattava del sovrannaturale.

Hitler emise una specie di mugolio strozzato e balzò in piedi, ma sembrava non essere nel pieno delle sue facoltà mentali perché si limitava a fissare con sguardo ebete la figura che ostruiva l’entrata della grotta.

Il principe Vlad avanzò verso il Fuhrer sorridendo. Aveva un sorriso che andava da una parte all’altra della faccia, come quello del gatto del Chesire. Sembrava che quel sorriso camminasse da solo in un manto di nero e grigio.

Franz il Crucco tirò bruscamente indietro il suo protetto

«Ma dove vai?» gli chiese, con rabbia «Non dovresti gironzolare così per le campagne! E per le grotte poi …» gli occhietti chiari dell’aspirante regista incontrarono in quel momento Hitler.

“Gesù, quest’altro è perfetto. Spiccicato al vecchio Adolf, mi ci gioco le ossa se non si è impomatato anche il ciuffo uguale. Mamma, quei baffetti sono tanto fuori moda quanto tagliati bene”.

Vlad, infastidito da Franz, lo sbattè contro la parete a destra della grotta come se questi fosse poco più che un misero insetto. L’aspirante regista mugolò e sentì le lacrime affiorare per il dolore

«Sei impazzito?» chiese, in tedesco.

Vlad non capì le parole, ma le sue labbra crudeli e scarlatte si curvarono ugualmente in un sorriso che era un ringhio animale. Era come quando un cane vede correre un bambino di fronte a se: doveva abbatterlo. Dracula aveva sentito l’odore del sangue di Franz, lo aveva visto piagnucolare e adesso non si sarebbe fermato finché non avrebbe ucciso quella vile seccatura

«Non mi servi più. Ho raggiunto chi volevo. Dio è con me, in questo giorno di trionfo, e come al solito mi ha guidato verso i miei desideri».

Franz tossì forte e cerco di rimettersi in piedi, ma l’Impalatore se ne accorse e gli poggiò un piede contro la caviglia

«Oh, non andrai da nessuna parte …» mormorò, diabolicamente, poco prima di colpire con il tacco della scarpa la giuntura della sua vittima, più e più volte, lacerandogli la pelle sotto il risvolto pulito dei pantaloni e infine spezzandogli l’osso.

Franz il Crucco urlò di dolore e si voltò, cercando di trascinarsi fuori dalla grotta, lontano dalla portata di quel pazzo, ma Vlad gli diede un calcio in faccia che lo rivoltò pancia all’aria.

Hitler e Melody si avvicinarono involontariamente tra loro, come se potessero mettersi reciprocamente al sicuro dal mostro sadico che era piombato a sconvolgere le loro vite e che stava letteralmente ammazzando di botte un poveraccio di fronte ai loro occhi attoniti.

Hitler era crudele, ma … ma non aveva mai visto una cosa del genere in prima persona. Sapeva bene che aveva bruciato i corpi di migliaia di ebrei, che un numero infinito di persone era morto perché lui lo aveva ordinato, perché ci aveva messo la firma, ma non aveva mai visto qualcuno capace di causare così deliberatamente e lentamente dolore, ridendo. Quell’uomo lo spaventava.

Franz gridò ancora, portandosi le mani davanti al volto e reggendosi il naso spezzato dalla quale colava lentamente il sangue caldo, poi rotolò su un fianco e si trascinò sui gomiti.

Vlad gli piantò con forza il tacco della scarpa in mezzo alla schiena

«Hai finito per sempre di palparmi» disse «Brutto maniaco schiarito dal sole»

«Pietà!» strillò Franz, con la voce rotta «Pietà! Cosa ti ho fatto?»

«Non avresti dovuto farla tanto da padrone … non avresti dovuto toccarmi in quel modo».

Melody, mentre si nascondeva dietro Adolf, pensò che quel tizio era parecchio permaloso se per qualche palpatina stava massacrando un poveraccio.

Franz piangeva: le lacrime gli bagnavano quasi interamente la faccia e si mescolavano al sangue. Era orribile a vedersi, i lineamenti distorti dal dolore e una striscia sottile di muco che gli scendeva dalla narice sinistra. Vlad rise, una risata terribile, con la voce forte che saliva e scendeva di tono in maniera cantilenante e divertita, poi afferrò saldamente Franz per le spalle, lo sollevò da terra come se non pesasse più di una dozzina di chili e lo sbattè con il petto contro la parete della grotta.

Il rumore della cassa toracica contro la roccia fu quello di un tamburo e Franz non aveva fiato per gridare, i polmoni compressi. Vlad lo guardava da dietro, ben piantato sulle gambe divaricate, e sembrava compiaciuto. Aveva un’idea. Un’idea piccola e diabolica per fare passare un brutto quarto d’ora a quell’insignificante omiciattolo. Doveva pagare! Perché? Perché avrebbe pagato a nome di tutti quelli che gli avevano fatto del male, oltre che per il suo comportamento così imbarazzante e confidenziale.

Anche stavolta, però, i piani del principe vennero stravolti dal destino: Hitler intervenne alquanto coraggiosamente per salvare il suo concittadino. In genere il Fuhrer sarebbe stato un inguaribile codardo, ma adesso non vedeva fine più gloriosa del morire combattendo; credeva che il pazzo furibondo, una volta finito di distruggere quel poveraccio con una caviglia spezzata, se la sarebbe presa con loro.

Così Hitler balzò sulle spalle di Vlad e ci si attaccò come un granchio

«Mollalo!» ruggì.

Ovviamente, Vlad non capiva il tedesco, ma lasciò ugualmente andare Franz, che si afflosciò contro la parete scoppiando in singhiozzi pietosi.

Il principe rimase immobile finché Adolf, confuso riguardo a quel comportamento,  non lo lasciò andare e indietreggiò. Vlad afferrò per i capelli Franz e lo sollevò, appoggiandoselo a un fianco

«Ci farai da traduttore» gli disse, in tono quasi dolce «E se sarai bravo in questo lavoro, ti risparmierò la vita».

Franz cercò di contenere i singhiozzi e di trovare una via di uscita da quel pasticcio: avrebbe dovuto essere veramente bravo e rapido nella traduzione, altrimenti quel pazzo che si era portato dalla Romania e che si credeva Dracula lo avrebbe rovinato. Così annuì convinto in mezzo alle lacrime e il principe lo guardò con un’espressione vagamente scettica prima di spostare lo sguardo su Hitler

«Ciao» disse «Ti ho visto sul giornale, sei tu Adolf Hitler?»

Singhiozzando, il Crucco tradusse in modo comprensibile ad Adolf le parole che l’Impalatore aveva pronunciato.

Adolf annuì e, di colpo, perse tutto il suo coraggio. Quell’uomo era enorme!

Con un filo di voce, chiese «E tu?» con la conseguente traduzione in rumeno

«Mi chiamo Vlad, voivoda di Valacchia. Lieto di conoscerti!»

Hitler si sentì dannatamente a disagio. E ora?Aveva paura che quel tizio, senza un motivo, lo ammazzasse di botte come aveva fatto col Crucco. Indeciso, tese la mano «Io sono un Fuhrer»

«È così che dite principe?» Vlad strinse la mano di Hitler con le sue dita forti «E’ questo, più o meno, che significa voivoda …»

«Già …» Adolf si gonfiò d’orgoglio «E così che diciamo principe». Melody, dalla grotta, fece una smorfia. Ora Hitler era anche un principe.

«Ehm … sembra che tu volessi incontrarmi, o sbaglio?» gli domandò, acquistando un po’ di coraggio

«Non erri, mio rivoluzionario amico, ma pensavo ad una reazione un po’ più … un po’ più …» schioccò le dita «Si, possiamo tranquillamente dire che mi aspettassi una reazione più decisa da parte di un personaggio di levatura pari alla tua»

Almeno c’era qualcuno che capiva ancora il suo potere. Ma se lui lo conosceva già, perché si aspettava qualcosa di più deciso? … E comunque quel tizio gli ricordava qualcuno …

«Chi, Adolf? Feroce? Non credo proprio» insorse Melody, facendosi avanti. Guardò su verso Vlad, scrutandolo in cerca di una qualsiasi reazione. La vocina le aveva parlato e le aveva detto che stavano aspettando lui. Allora doveva farselo amico. E poi si chiamava Vlad, era un voivoda ed era un principe. Senza contare che era spiccicato a Vlad l’Impalatore. Nella sua testa in una parola si susseguiva a ruota continua: money, money, money.

«Cosa?» il principe fu chiaramente deluso «Tu non sei feroce?».

«Io … ehm … si!Io sono feroce!Che vai dicendo, tu?!» strillò additando Melody, che rispose con una scrollata di spalle

«A me nella grotta sembravi piuttosto … depresso. E poi hai quel ciuffo “alla emo”. Non sembri feroce quando non uccidi i gatti per strada».

Vlad, confuso, guardò i due che iniziarono a litigare

«Io … io sono sempre feroce!»

«Ma va!Eri caduto in depressione lì dentro!Non ti muovevi neanche se ti prendevo a calci!» Melody urlò indicando la grotta

«Nein! Non è vero! Stupida bambina, non riesci a capire quando uno pensa!» In un certo senso era vero che lui stava pensando. Stava pensando a quanto era caduto in basso.

«Ceerrto! Ovviamente, quando uno pensa, è talmente assorto dai suoi pensieri da essere UN MALEDETTO NOSTALGICO TUTTO IL TEMPO!» urlò le ultime parole, quasi sputandole, sporgendosi leggermente in avanti come per sfidare il dittatore

«Io ero assorto dai miei pensieri, ma STAVO RIFLETTENDO SU COME TIRARCI FUORI DA QUI! Dannata …  maledetta!»

«Dannata maledetta?A me?Bene, Fuhrer, allora dimmi come avresti fatto senza di me. Mio caro amico tedesco. Saresti morto, o in prigione. Mio caro Hit» il suo tono si fece tagliente, gli occhi come due fessure.

Hitler ringhiò, Vlad continuò a guardare imperterrito, senza intervenire, Melody sbuffò e il Crucco starnutì.

La Voce parlò nella testa della bambina “Ha torto. E comunque lui stava riflettendo sulla sua povera e misera caduta in basso. Di certo in questa maniera non ci avrebbe tirato fuori da qui. Ah … poveretto, mi fa quasi pena. Resisti, tra un po’ cederà. Non so, in realtà se …” fece una pausa, poi continuò “Se cederà alla rabbia, oppure cederà al conflitto. Ma resisti. Non mollare. È solo un mulo testardo, ma lo domerai, fidati”

“Ed è anche uno stupido. Perchè dobbiamo tenerlo?Quasi quasi lo lascio da solo, così impara …”

“NO!NON PUOI!” urlò la voce, quasi isterica

“Perché no?” Melody trasalì. Era la prima volta che la “Vera Melody” urlava in quel modo.

“Ci serve. Non puoi allontanarlo da noi. Ti ho mai mentito?”

“No”

“Bene, fidati allora”

“Va … va bene. Lo faccio. Mi fido”.

«Sei solo una stupida mocciosa che si crede super-sapientona!Ya!»

«Sei senza dubbio un mulo testardo. Non sai come difenderti. Mi accusi. E nascondi la verità. Mi aggredisci verbalmente perché non sai come fare per espiare le tue colpe. Se sei pieno di rabbia buttala su qualcun altro, non gettare veleno su di me»

Veleno.

Adolf spalancò gli occhi.

Ve … veleno?

Il cuore di Hitler accelerò.

Dio santo … lui era ... morto?

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Capitolo 6
*** Come fu che Adolf capì di essere risorto ***


Cap. 5

Com’è che Adolf capì di essere appena uscito da una canzone di Michael Jackson

 

Non era possibile.

Il tempo si era fermato. Plic, una goccia d’acqua nel nulla dell’eterno … eppure era ferma a mezz’aria.

Adolf ricordava con precisione cosa accadde allora. Veleno. No, non avrebbe gettato del veleno su Melody.

Ricordava com’era sprofondare nel nero. E capire che non sarebbe più risalito. Ma si era sbagliato.

Lui era risalito.

Era innaturale. Non si può essere vivi se si è morti. Hitler non era il gatto di Schroedinger.

Sapeva di essere morto, ma capiva di essere vivo. L’istinto gli diceva che era vivo, ma la mente … la mente adesso non era capace di dirgli nulla.

Era plausibile che il mondo fosse cambiato. Quanto aveva “dormito”? Cento anni? Di più?

Era plausibile che avesse perso di un botto tutto il suo potere, di non contare più nulla in Germania.

Come aveva fatto a non capire subito di essersi innaturalmente risvegliato da un sonno dalla quale non si poteva, teoricamente, ritornare ad aprire gli occhi?

Lo ricordava con chiarezza … la città stava cadendo. Erano spacciati, spacciati! Il regno ariano era finito, il reich, definito più volte millenario, era durato appena dodici anni e per il Fuhrer la battaglia era persa: sarebbe stato catturato dagli americani e dai sovietici, quei diavoli travestiti da santi, e sarebbe stato giudicato per le sue colpe in maniera che, per il mondo intero, sarebbe stata equa.

Forse lo avrebbero semplicemente incarcerato, ma molto più probabilmente sarebbe stato giustiziato.

Non c’è spazio, nel mondo moderno, per un dittatore …

Si trovavano nello spazio angusto e oscuro di un bunker, lui e pochi altri. Insieme a lui, c’era il suo cane … era una femmina. Un pastore tedesco, come era giusto che fosse. E poi Eva … ah, Eva Braun, la donna della sua vita! Come era bella! Una bellezza spaventata e fragile in fondo a quel bunker oscuro. Lei non lo meritava.

Non era giusto, non era giusto! Si erano sposati solo il giorno prima …

Adolf tratteneva le lacrime, mordendosi di tanto in tanto il labbro superiore imperlato di sudore per il caldo e la paura. Fu continuando ad autoimporsi un rigido autocontrollo che somministrò al suo cane una capsula di veleno. Gli avevano detto che era veleno, ma lui non era sicuro, voleva provare … se fosse stato solo un sonnifero, o un qualche genere di droga per farlo sentire male, sarebbe stato un bel guaio. Lo avrebbero preso. Non sarebbero stati buoni con lui … gli avrebbero fatto male. Lo avrebbero giustiziato comunque, alla fine, ma solo dopo un lungo calvario, un supplizio fatto di ingiurie e di vergogna. Il mondo intero, lo sapeva, avrebbe sputato allegoricamente su di lui.

La cagna morì, il veleno era veleno. Cianuro. Le prime lacrime iniziarono a scorrere sulle guance di Adolf alla vista del corpo senza vita di chi era stata la sua migliore amica per un’intera vita … era davvero giusto che morisse con lui? Si, non aveva avuto altra scelta …

«Stanno arrivando! Stanno arrivando!» Una voce folle risuona nella penombra.

Ormai sono tutti agitati.

«Le mie ultime volontà» aveva detto Adolf, scarabocchiando rapidamente quelle parole su un foglio sgualcito «Voglio che Karl Donitz sia il nuovo presidente del Reich, alla mia morte, e Joseph Goebbels il nuovo Cancelliere. Nessun’altra delle mie precedenti nomine avrà più alcuna validità. E dopo la mia morte …» si, solo quello contava, tanto il Reich non esisteva più «… Voglio essere portato fuori e bruciato, che il nemico non possa trovare mai il mio corpo. Spargete le mie ceneri!».

Lui ed Eva presero la loro “medicina”, da bravi bambini, guardandosi e piangendo in silenzio. Sembrava che tutto il mondo, fuori, volesse esplodere … o forse era solo nelle loro teste?

Tamburi rollanti e infernali che percuotevano la terra ed il metallo.

Poi venne il buio.

Adolf tremava. Cosa diavolo ci faceva, allora, ancora vivo e ancora qui? Ricordò di avere cinquantasei anni. Ricordò di essere morto il trenta aprile del millenovecentoquarantacinque.

Era impossibile che fosse ancora vivo. Si tastò la faccia … forse era un morto vivente? Forse uno zombie? Oppure … un lurido vampiro?

No, la pelle era calda. Ma Hitler aveva paura … iniziò ad urlare, irrazionalmente.

Il principe Vlad sollevò un sopracciglio

«Che diavolo ha? Spera di farmi paura?».

Ma Hitler non lo ascoltava. Lo aggirò e scappò fuori, nella luce ardente del giorno.

Non era possibile! Sentì sulle guance, fastidiose, frequenti lacrime calde. Lo facevano sembrare debole. Ma lui non lo voleva! Lui non voleva essere fragile!

Ed eccolo, un uomo che correndo piangeva, come se così potesse scappare da tutto e tutti. Un uomo che frignava, un uomo che era morto e camminava.

Melody lo guardò agitata. Senza sapere che fare, appellò mentalmente alla sua voce

“Devi riportarlo qui. Subito. Dovete stare tutti e tre in un unico gruppo, è questo che abbiamo sperato per tutto questo tempo. La tua ultima frase, sai … gli ha ricordato che lui è morto. Morto per colpa del veleno”

“Come fa ad essere morto, se è vivo?” fece Melody, scettica, mentre si lanciava all’inseguimento. Vlad, senza sapere che altro fare, la seguì portandosi a forza dietro il Crucco che iniziò a piagnucolare, piangendo come un bambino per il dolore che si impossessava delle sue articolazioni. Faceva davvero pietà. Anche un po’ schifo.

“È risorto” spiegò la voce, con semplicità

“Mi stai dicendo che lui, da stecchito, è tornato a vivere?E chi sarebbe, Gesù?” fece Melody, scettica, senza smettere di correre

“Precisamente, risorto. Non ti dice niente il fatto che si chiami Adolf Hitler e sia la sua identica copia? Il fatto che, capendo che quello era un ragazzo ebreo lo ha attaccato? Il fatto che quando pensava di essere caduto troppo in basso, era caduto in una specie di depressione? Era perché il potere gli dava la testa”

«Lo inebriava» si sorprese a rispondergli Melody, mentre seguiva la figura di quell’ometto che, fregandosene altamente di essere un ricercato, fuggiva davanti a tutti quei piedipiatti

“Giusto” approvò la voce “Riportalo qui”.

Melody accelerò, e si sentì la protagonista di un avventuroso, intricato, film giallo. C’era un'unica, piccola differenza.

Lei non era un poliziotto e quello, seppur fosse un criminale, era un uomo piangente che attraversava correndo la periferia della città, riflettendo sulla sua … ehm … vitalità.

Adolf non lo trovava giusto. Perché si era risvegliato solo lui?! E Eva? E il suo cane? Perché loro no e invece lui si?

Aveva perso tutto. Troppo. Non voleva vivere, così, con una bambina pazza che parlava di voci nella sua testa, braccato senza altri alleati che quella mocciosa.

Lo stava anche seguendo. Era determinata, senza dubbio, ma Hitler non si sarebbe certo fermato per lei. C’era anche quel grosso pazzo e l’altro tedesco che veniva trascinato via piagnucolando, dietro la bambina. Ringhiando accelerò.

Era nuovamente cacciato, ma stavolta se fosse stato preso non sarebbe morto …

Già … morto.

Aveva capito. Doveva sistemare le cose. Ci era già passato. Non poteva essere così difficile, ora che non aveva niente da perdere, a parte una vita senza amici e senza libertà. Senza potere. Senza seguaci.

Avrebbe sempre fatto la preda, mai il predatore. Non c’era spazio per lui. Gli esseri umani non spuntano dal nulla, come non risorgono senza motivo.

Il motivo non lo capiva, non  comprendeva questo giochino malvagio, anche un po’ perverso.

C’era stata un’unica interruzione del suo sonno eterno, e non gli era piaciuta per niente. Meglio tornare a dormi … morire. Lui era morto. Non vivo

“MORTO!!” si urlò da solo, mentalmente “Lasciatemi in pace, sono morto!”

Voleva levarseli dai piedi, soprattutto la più piccola, avrebbero potuto ostacolarlo nel suo intento.

Per la seconda volta, voleva essere ostacolato nel suo suicidio. Solo che stavolta non avrebbe sofferto … non avrebbe pianto per paura di morire.

Adesso, lui stava piangendo per paura di vivere.

Era plausibile, in effetti, che uno come lui che veniva dal passato, ci vivesse ancora immerso. Ne era fin troppo permeato.

Era difficile ricordare di essere morti, con una di quelle decisioni così sofferte che ti facevano versare troppe lacrime, e poi venire a ricordare che si è ancora vivi. Aver rinunciato per sempre a tutto, anche alla vita, e poi vedere che le altre cose gli sfuggivano di mano a parte quest’ultima. Come se loro fossero partite e lui no, lui non riuscisse a staccarsi dalla sua esistenza terrena.

Avesse potuto raccontare al mondo com’era l’inferno, avrebbe avuto una ragione per continuare a restare grazie alle nuove possibilità che il Fato gli aveva offerto, di certo sarebbe rimasto. Non avrebbe neanche sfiorato l’idea del suicidio.

Ma non poteva neppure farlo. Non ricordava proprio nulla di quello che gli era capitato prima che si risvegliasse, prima ancora dell’incontro con Melody. Gli sembrava di essere stato per tutto il tempo avvolto dal nero, come un bambino che si nasconde nell’armadio finché non aveva aperto le ante, aveva visto la luce e aveva semplicemente ricominciato a vivere.

“Sono un codardo” si disse.

In effetti un po’ di tempo fa Adolf sarebbe stato terrorizzato alla sola idea di dover morire, non avrebbe certo mai contemplato di uccidersi da solo!Ma adesso era diverso.

Essendo lui permeato dal passato, era stato facile che la consapevolezza lo avesse ricoperto. E le consapevolezza più forti, non quelle più ovvie come la consapevolezza di avere gli occhi blu, verdi o castani, spesso portava il dolore. E il dolore spesso portava la morte.

E lui, una volta ricevuto il dolore, la desiderava, la morte. Probabilmente stava esagerando, ma non riusciva a sapere che altro fare.

Senza accorgersene, il dittatore tedesco cominciò a rallentare, e Melody ne gioì. Sarebbe stato più facile raggiungerlo.       

Alla fine Hitler arrivò a un trotto veloce e la bambina, seppure avesse il fiatone, lo sorpassò e gli si parò davanti.

«Tu non vai da nessuna parte, okay?» disse, socchiudendo gli occhi.

Hitler si fermò di botto e sospirò a denti stretti. Ne uscì una specie di sibilo.

«Sono morto» Disse, con la voce bassa e rotta «E sono tornato …»

«Lo so» rispose Melody, poi gli porse la sua piccola mano «Vieni, adesso, non devi andare in giro così, ricordati che sei ricercato …»

«Lasciami stare! Lasciami morire!»

«Dai, Adolf …» Melody gli si avvicinò ancora, cercando di convincerlo e parlandogli con voce dolce e suadente «Ti prego, non fare così»

«Non è rimasto più niente» il dittatore si nascose il volto fra le mani «Più niente!Io non sono nessuno qui! Voglio morire!» la voce, soffocata dietro le palme delle mani, era sempre più isterica «Voglio morire!»

«Non dire così» mormorò la bambina, sconcertata dal pianto di quell’uomo adulto «Vale sempre la pena di vivere …»

«No, non oggi! Non adesso! Ho perso tutto!».

Vlad li raggiunse, trascinandosi dietro quel poveraccio del traduttore tedesco. Era arrabbiato perché non capiva. Indicò Adolf

«Che cosa diavolo ha?» chiese, rivolgendosi al Crucco

«Lui … ha … lui …»

«Traducimi le sue parole, subito!»

«Non oggi, non adesso … ho perso tutto …»

«Deve essere impazzito» commentò il principe «Ehi, tu! Che diavolo hai?» diede un colpetto sul petto al crucco con la mano aperta con cui non lo sorreggeva «Traduci».

Adolf non rispose alla domanda. Aveva lasciato ricadere le mani ai fianchi e guardava Melody. La bambina gli sorrideva, attrice consumata, come aveva visto fare in un film. Per lei la vita era come un grande film, così aveva più sapore, più potenza evocativa … il dittatore non ne sapeva molto di cinematografia moderna, perciò non vice nulla di particolarmente strano in quella scena.

Melody gli tendeva una mano e lui la prese. Le sue dita erano notevolmente più grandi e più dure di quelle della bambina, ma la stretta di mano fu tanto delicata, debole, che avrebbe potuto essere quella di un neonato. Adolf non aveva mai stretto la mano in quel modo a qualcuno, anzi, aveva sempre cercato di usare la sua “stretta d’acciaio” per intimidire chi aveva davanti. Abbandonarsi a un attimo di tenerezza con quella strana piccina lo fece stare bene, gli riempì il cuore di un piacere che aveva dimenticato …

«Andiamo» gli disse Melody, riconoscendo il momento esatto, leggendo l’emozione negli occhi dell’uomo «Esistono ancora cose per cui vivere. L’amicizia, per esempio. Che ne pensi di diventare mio amico? Almeno, anche se hai perso tutto … beh, ci guadagni qualcosa. So che non sono molto, che non sono nessuno, ma non è meglio di nulla? Vedi, è facile, oggi, avere un amico … anche un amico adulto, se lo vuoi».

Adolf annuì, sentendo rinascere una fievole scintilla di speranza nella disperazione. Solo adesso capì che essere tornato in vita era una benedizione … avrebbe potuto ricominciare daccapo. Vivere i giorni che non gli erano stati concessi.

Poteva farcela!

“Bleah. Ma si, davvero bleah. Sembra una scena uscita dal cartone dei Pokemon.” Pensò la bambina, socchiudendo gli occhi con dolcezza  con la bravura che si richiede in una rappresentazione teatrale “Ciao, pikachu! Diventiamo amici. Così, tanto per, perché mi va che diventiamo amici. Perché certo l’amicizia è la cosa più importante del mondo, regaliamola come se fosse una caramella! Olè!”.

Stava facendo amicizia con un dittatore, non era una cosa carina, in fondo? Hitler, perlomeno, sembrava contento.

La scena sarebbe stata perfetta, un adulto e una bambina che si tengono per mano nella luce forte del giorno, se non si fossero sentiti i gemiti pietosi di dolore del povero aspirante regista appoggiato al principe di Valacchia.

«Che diavolo stanno facendo?» Chiese Dracula, indicando Melody e Adolf «Sono impazziti o qui si usa così? Perché non dicono più niente?».

Il crucco emise un gemito singhiozzante e umido e il principe sbuffò infastidito.


Nota dell'autrice: la canzone di Michael Jackson è, ovviamente, Thriller.

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