Nocturne of a Cloudy day

di MrYamok
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Morning ***
Capitolo 2: *** Warmth ***
Capitolo 3: *** Moonlight Sonata - Parte Prima ***
Capitolo 4: *** Moonlight Sonata Parte seconda – Your Hand Feels Reassuring ***
Capitolo 5: *** Black wood among the ruins ***
Capitolo 6: *** Black Wood Among the Ruins - Let's Fly Away ***
Capitolo 7: *** Strangers in the Night ***



Capitolo 1
*** Morning ***


MORNING


Apro gli occhi. Nello stesso momento mi accorgo che sto trattenendo il fiato, come se avessi visto qualcosa di orribile davanti a me. 
Non vedo niente, poi pian piano intravedo la sveglia che lampeggia, e un secondo dopo, come il passaggio di un treno, il rumore del suo allarme mi trapana i timpani. 
Faccio per spegnerla, ma con un gesto troppo goffo per essere descritto, la faccio cadere. Smette di suonare. Metà della sveglia è finita sotto il letto. 
È normale sentirsi così angosciati la mattina? Mi sveglio di malumore. 
Mentre tiro su la saracinesca della mia camera, sbircio dalla finestra verso la casa di fianco. Provo a vedere se si intravede qualcuno dalle loro finestre. Nessuno. 
Sbuffo e mi porto davanti allo specchio. I miei capelli sembrano dei tentacoli di medusa pronti a inghiottire chiunque mi si avvicini. 
Una voce alta fa sobbalzare me e i miei tentacoli di medusa -Maka! Svegliati!- 
-Sono sveglia!- sbotto con stizza, e intanto mi chiedo perchè mia madre mi ripeta le stesse cose tutte le mattine. 
Decido di mettermi qualcosa di provocante stamattina? 
Rivolgo lo sguardo al mio petto e sospiro a lungo. 
-Ma che provocante...- e mi metto lo stesso maglioncino cucito da mia mamma di sempre. 
Mentre mi vesto guardo di nuovo allo specchio. Anche stamattina sembro uno scheletro. Mi tasto le guance in cerca di un po' più di carne, ma rimango sempre la solita Maka. 
Salto sul letto e mi metto a combattere con un nemico immaginario, e proprio mentre sono intenta a compiere la mia mossa finale di Kung Fu mia madre mi richiama -Maka, muoviti che fai tardi! Ma che stai facendo?- 
Per un attimo mi distraggo, metto male un piede e finisco per terra rovesciando uno scaffale pieno zeppo di libri. 
Mi massaggio la testa e mi affretto a mettere i miei libri nella borsa, a quelli caduti ci penserò più tardi. 
Scendo le scale di corsa e intanto sento di nuovo la voce di mia madre dall'atrio -Maka io vado! Mi raccomando sveglia tuo padre dopo, ciao!- 
Non faccio neanche in tempo a vederla, che è già uscita. 
Raggiungo la stanza da letto dei miei e sussurro -Papà...- 
-MMH...- 
-Papà svegliati.- 
-Sì, sì poi mi sveglio...- 
Sbuffo e richiudo la porta, e mi chiedo se i miei genitori siano più immaturi di me. Mentre mangio il mio toast a tavola, penso alla finestra della casa di fianco. 
Lo vedevo ogni sera. Torna sempre a casa tardi, da chi sa dove, e sale in camera sua. 
A quel punto si siede e comincia a suonare al pianoforte. Ogni sera mi nascondo dietro la tenda e lo fisso mentre suona il pianoforte. Ha degli strani capelli bianchi, ma è come se essi dessero un tocco di mistero in più in quella sua aura enigmatica che si porta appresso. 
Mentre suona sembra intento a sussurrare parole dolci al pianoforte, e suoi capelli lo sfiorano come se lo accarezzasse. 
Una volta mi aveva pure visto e io mi ero nascosta dietro il muro. 
Non avevo avuto più il coraggio di affacciarmi, ma la sera dopo lui non ci aveva fatto più caso. 
Finisco di mangiare il toast ed intanto sento un rumore secco. Lo vedo uscire dal portone di casa e mi affretto a prendere la mia borsa, mentre sbatto contro le sedie e mi becco lo spigolo del tavolo in una costola. 
Dolorante ma viva esco di casa e mi volto, nella speranza di rintracciarlo, ma è già sparito. 
Raggiungo col fiatone la fermata dell'autobus e lui e già lì che aspetta, mentre ascolta musica. 
A malapena riesco a distinguere note di pianoforte. 
Mi siedo su un muretto dietro di lui e lo guardo. Sembro una scema, imbambolata con le braccia incrociate che lo fisso, quasi fosse un David di Michelangelo. 
Scruto i suoi occhi. Fissano il vuoto, socchiusi, come quelli di un gatto, e intanto folate di vento gelido sferzano sul mio viso bollente. 
Distolgo lo sguardo e protendo la mia mano in avanti guardandoci dentro, come se stessi tenendo qualcosa. 
A volte mi chiedo se i miei pensieri riescano in qualche modo a penetrare dentro i suoi auricolari e gli sussurrino frasi del tipo -Maka...ti sto guardando... la ragazza imbambolata dietro di tee...- 
Si gira di scatto facendomi sobbalzare, e mi guarda dritto negli occhi. 
-N-Non sono io la ragazza imbambolata!- balbetto presa dal panico. 
Lui distoglie lo sguardo impassibile e si allontana. È arrivato l'autobus. 

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Capitolo 2
*** Warmth ***


WARMTH


Ero salita sull'autobus con lo zaino davanti alla faccia, cercando in tutti modi di non far vedere la mia faccia, come uno scudo medievale. 
Ma come ero passata, lui non aveva neanche mosso gli occhi. 
Avevo rallentato un poco provando a scrutarlo, ma inghiottendo un boccone di saliva, accumulata dal panico, ero continuata ad andare avanti. 
Mi sono seduta due posti dietro di lui e sono rimasta con lo sguardo assorto e la bocca mezza aperta. 
Mi rivedo i suoi occhi nei miei per un istante e ricomincio ad avere caldo. 
Mi accorgo che una signora mi guarda preoccupata -Signorina si sente male?- dice con una voce adorabile da vecchietta. 
-No, stia tranquilla.- esprimo il mio sorriso più forzato. 
Mi rimetto composta e faccio finta di niente, poi allungo una mano verso lo zaino. 
Il buon metodo per distrarmi è uno solo: leggere un libro. 
Quindi tiro fuori un piccolo tomo di astrofisica e mi ci incomincio ad immergere. 
Piano piano il calore dell'autobus mi avvolge e, lentamente, mi rilasso. 
Sbircio il pianista davanti a me: ha la testa poggiata contro il vetro, forse sta dormendo, anche se il pianoforte nei suoi auricolari continua a suonare, come un bisbiglio. 
Una mano mi tocca la spalla. Mi volto di scatto e mi lascio sfuggire un gridolino. 
-Che c'è?-Blair mi guarda stupita. 
-Niente.- 
-Ancora a leggere quei libri noiosi?- mi chiede accennando al tomo di astrofisica. 
-È interessante.-scrollo le spalle. 
-Non dovresti farti vedere sempre con un libro in mano, sai poi la gente ti...- 
-Sì, lo so.- taglio corto secca. 
Non sono proprio quella che si definisce “una ragazza alla moda” come lo erano molte mie compagne con la puzza sotto il naso. 
La maggior parte del mio tempo lo passo nel giardino della scuola, su una panchina isolata, a leggere libri. Non sono molto socievole. 
Perlomeno con le mie compagne, che ogni giorno mi guardano dall'alto in basso e fanno una smorfia come se fossi un sacchetto di spazzatura. 
Solo Blair parla e scherza con me. Blair mi si avvicina con aria sospetta e sussurra -Hai visto il tipo là davanti?- 
-Huh, chi?- faccio finta di non sapere. 
-Quello con i capelli bianchi.- 
Il mio debole cuoricino ha un tuffo -S-Sì e allora?- 
-È un tipo strano, eh?- 
-Dici?- biascico un po' distratta. 
-È da due settimane che è arrivato qui, ma non ha ancora parlato con nessuno.- 
Guardo il libro davanti a me, sono tentata di metterci la testa dentro e sparire, fuggire in quel mondo senza rumore che odorava di inchiostro appena stampato. 
Quel mondo, invece, era così noioso. 


-Ciao, Maka...- la voce sgradevole delle mie compagne mi raggiunge come un calcio negli stinchi. 
Le ignoro e tiro avanti. Avanti Maka, avanti, non voltarti, non ne vale la pena. 
Una di loro mi guarda impettita e bisbiglia con le altre, ridacchiando. 
A malapena mi trattengo dal tirarle un libro con la rivestitura di metallo in fronte. 
Mi siedo. La lezione comincia. Il professor Stein entra, con il suo solito passo scoordinato. 
I suoi occhiali riflettono la luce dei neon sopra di lui, rendendolo inafferrabile. 
Apre il registro -Tutti presenti?- 
Quasi a farlo apposta, la porta si apre. Si ferma sulla soglia e fissa il professore, come sapesse già cosa doversi sentir dire. 
Il professor Stein lo guarda stupito, ma chiede con voce calma -Evans, dov'eri finito?- 
Il suddetto Evans resta un attimo in silenzio quasi non avesse afferrato la domanda -Mi scusi professore.- e si siede lentamente, in un banco isolato. Come al solito. 
La sua voce è suadente, penso, sembra qualcosa di profondo e struggente, come un violoncello, proveniente da un posto nascosto e silenzioso, come il mio mondo dei libri. 
Quel mio mondo è una landa ampia e vuota, e nei miei sogni quei libri che ci vivono sono polverosi, e la polvere è come neve finché... il suono di un pianoforte rompe  il silenzio delle mie notti. Ogni mattina scruto quella finestra: controllo che il pianoforte sia sempre al suo posto. 
Il professor Stein poggia il gessetto, si siede e sospira. 
-Questi sono i compiti per la prossima volta.-, si alza ed esce. 
Suona la campana. Tutti si alzano. 
Evans si alza. Lo seguo con lo sguardo finché non si allontana e scompare, senza essere notato. 
Non vedo Blair, sembra essersi dissolta. 
Esco dalla classe con il mio libro in mano e, evitando gli sguardi delle mie compagne, mi dirigo furtivamente verso il giardino. 
Di solito mi siedo sempre su quella panchina fra gli alberi e mi tuffo nel mio mondo, per poi tornare fuori non appena ricominciano le lezioni. Oggi la panchina è occupata. 
Lui è già lì che mi aspetta. Proprio così, è uscito in anticipo per precedermi e aspettarmi il quel fatidico posto. Forse per chiarire per stamattina. 
Faccio un passo indietro. Magari oggi non lo leggo il libro, posso sempre farlo domani. Come non mai, l'adrenalina traspira dai miei capelli, che tremano eccitati. 
Mi avrà davvero sentito? 
Non mi accorgo nemmeno che invece di allontanarmi mi sono avvicinata, e ciò mi stupisce, sono a due metri da lui, immobile, con il libro premuto contro il petto. Lo stringo e mi sembra chiedere pietà, stropicciandosi sotto le mie braccia secche. Mi sento paralizzata. 
Ha gli occhi chiusi, come se stesse assaporando qualcosa. 
Non sembra essersi nemmeno accorto che io sia lì. 
Piano piano la tensione mi scende come una corda che si allenta, e allora mi scappa un commento -Ma questo qui ignora tutti e tutto?- dico tra me e me sbuffando. 
Mi avvicino. Resto titubante a sedermi, come ad aspettare che mi noti. Lentamente, mi siedo vicino a lui. Il libro sulle ginocchia: lo guardo intensamente. 
Con disinvoltura lo apro e comincio a leggere con l'aria più indifferente possibile. 
-Astrofisica?- 
La sua voce produce una vibrazione che manda il mio debole cuoricino sull'orlo di una crisi. 
Mi volto senza sapere cosa dire, ma lui ancora non ha aperto gli occhi. 
Sento lo stomaco pressato, qualcosa risale per la mia gola, e senza pensarci vomito un incomprensibile -Scusa.- 
Si toglie le cuffie e mi guarda. Ha gli occhi rossi. 
-Come?- chiede. 
-Sì insomma... Per stamattina intendo...- 
Rimane in silenzio. Si rimette un auricolare. Richiude gli occhi. 
Il bisbiglio delle note del pianoforte ricomincia. 
Rimango interdetta, come se quel silenzio mi avesse dato una risposta, ma non ne fossi soddisfatta. 
-Perchè ti sei girato?- dico tutto d'un fiato 
-Perchè volevo. Non c'è un motivo preciso.- risponde inaspettatamente pronto. 
Si è voltato per caso?, penso scettica. 
-Ho visto... tu suoni il pianoforte, vero?- 
Che cavolo di domanda è? Certo che suona il pianoforte, lo vedi sempre. 
-Mi hai visto?- 
-No... cioè...Io... è che ti sento quando suoni... siamo vicini di casa.- 
-Davvero...- sembra dire sarcastico 
Si alza in piedi e fa per andarsene. 
-Ehi... aspetta! Dove...- 
-Perchè parli con me?- 
Rimango un momento esitante -Io...- 
-Non dovresti farti vedere con me, la gente penserà male di te...- 
-Non mi importa di cosa pensa la gente.- rispondo pacata. 
-Dovresti.- continua lui grave -Se non lo fai la gente ti esilierà.- 
-L'hanno già fatto.- rispondo seccata -E poi perchè dovrebbero pensar male di te?- 
Evans guarda in alto e sospira piano -Perchè sono strano.- 
Scoppio a ridere come una scema, fino a che Evans mi guarda storto, allora mi calmo. 
-E secondo te la gente pensa male di te, solo perchè tu ti definisci strano?- 
Evans continua a guardarmi, abbasso lo sguardo a terra un po' imbarazzata per il mio comportamento. 
-Ti piace come suono?- 
-Come?- chiedo sorpresa. 
-Ti piace il mio modo di suonare?- 
Lo rivedo chino su quel pianoforte nero come l'inchiostro, mentre le sue dita scivolano sui tasti bianchi e neri. 
-Sì..- mormoro. 
-Vieni oggi pomeriggio al cimitero di St. Creek alle cinque. Ti aspetto là.- 


Al cimitero di St. Creek non c'era quasi nessuno. Era lontano più o meno cinque chilometri da casa mia, eppure non lo avevo mai notato. Ero venuta lì in autobus ed ero scesa all'ultima fermata. 
L'autista era sceso e mi aveva guardato con apprensione -Vai a visitare qualcuno, piccola?- 
-In realtà... ecco ho una specie di appuntamento.- 
-Il tuo ragazzo ha davvero buon gusto, allora.- aveva detto sarcastico, sorridendo. 
I cancelli del cimitero erano alti e appuntiti, come quelli che si vedono nei film dell'orrore; ero rabbrividita. 
L'interno del cimitero era un paesaggio monotono: colline piene di lapidi e croci, alcuni alberi spuntavano a stento da quel paradiso di lapidi. 
Mi ero aggirata per il viottolo che attraversa il cimitero. 
Dei passi sulla ghiaia mi fanno girare -Evans...- 
Una signora mi guarda stupita e mi passa acanto. È vestita di nero. 
Vicino a lei passano sei o sette persone. Deve esserci un funerale, immagino. 
Le seguo, e le loro figure nere mi portano sulla cima di una collinetta. 
Allora vedo delle sedie allineate, un albero davanti ad esse ed una bara in attesa di essere sepolta. Vicino alla bara c'è un piccolo piedistallo rosso, ed un pianoforte a coda nero sopra. 
I familiari del defunto si siedono. Io mi avvicino in silenzio e mi siedo nell'ultima sedia nell'angolo. 
Non c'è nessun altro. Il prete del funerale, comincia a recitare parole di tristezza e dispiacere per la morte del familiare. 
Io invece odio i preti. Odio anche la religione in generale. Secondo la mia opinione, erano persone che si facevano seguire sfruttando il concetto della morte. 
Penso sia inutile, vivere nell'attesa che la morte arrivi. 
D'altronde, quando siamo vivi non siamo morti, e quando moriamo non siamo più vivi. In entrambi i casi la morte non ci appartiene, quindi è inutile piangere per essa. 
Forse l'unico che dovrebbe piangere sarebbe il defunto, ma ho come la sensazione che in qualche modo le parole del prete non lo raggiungano. La sua anima non riesce a sentire. 
Il prete si ferma. Tutti si voltano da una parte. Cerco anch'io di vedere cosa succede e allungo la testa. 
Evans sembra comparire dal nulla. Si avvicina al pianoforte e si siede. 
Apre la tastiera con delicatezza e indugia sui tasti. I suoi capelli pendono su di essi come un salice piangente. Alza le mani e le appoggia sulla tastiera. 
Nello stesso momento il mio cuore sobbalza, e mi pare che la sua sagoma brilli di una luce propria. 
In realtà il tramonto dietro di lui lo avvolge e nel frattempo, le sue mani continuano a muoversi. 
Sento di aver già sentito questa melodia. Evans si piega da un lato, poi da un altro, infine guarda in alto come stesse sognando. 
Un volantino vicino a me svolazza. Lo guardo e noto che in fondo c'è scritto qualcosa. 
Chopin – Nocturne Op.9 No.3, Soul Eater Evans. 


Quando il sole è tramontato è già tutto finito. La gente si sta allontanando insieme al prete. 
Il pianista di quel funerale si alza in piedi e da una scrollata al suo smoking. 
-Soul...- 
-Così adesso sai il mio nome.- dice con estrema tranquillità. 
-Eh?- 
-Ti ho invitata qui per questo.- 
Rimango con la bocca mezza aperta, senza sapere bene cosa rispondergli. 
-Non mi dirai che avevi pensato ad un qualcosa di romantico?- 
Soul scoppia in una risata di gusto, io, invece, sono un po' imbronciata. 
-Comunque sei stato magnifico.- dico acida. 
-Quindi ti piaccio?- 
-Ho detto che mi piace come suoni!- sbotto, arrossendo. 
-Comunque sia- si scosta i capelli bianchi dalla fronte -Non importa quanto tu sia bravo a suonare. 
Ciò che conta è per chi stai suonando. 
Lo guardo stupita, colta alla sprovvista -Beh...io non è che mi intenda molto di queste cose...- 
Lui si volta verso di me -D'altronde- sorride -Non pensi anche tu che ognuno, anche le anime dei morti, meritino un po' di sollievo nell'andarsene?- 
Improvvisamente quel sorriso mi sembra estremamente affascinante, la sua voce sembra una maledetta calamita. E io sono l'altro magnete. 
Mi volto dall'altra parte -Che stupidaggini.- borbotto -E poi mi hai fatto venire qui per niente.- 
-Sarebbe stato meglio se ti avessi suonato ad una festa di matrimonio, eh?- dice ridacchiando -Ma in quel momento non suonavo per due sposi, nemmeno per i familiari lì presenti e nemmeno per me stesso. Suonavo per colui che era in quella tomba. D'altronde anche loro meritano un po' di felicità in mezzo a tutta quella tristezza.- 
Mi volto di nuovo verso di lui, sono sul punto di dire qualcosa, magari di carino, e invece -Andiamo. Si sta facendo tardi.- 
Ci dirigiamo verso la fermata dell'autobus. Durante il ritorno una stanchezza tremenda mi salta addosso, e non mi accorgo nemmeno di addormentarmi sulla sua spalla. 
Chi se ne importa, mi dico, e dormo come un sasso.

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Capitolo 3
*** Moonlight Sonata - Parte Prima ***


 

Moonlight sonata – Parte prima


L'indomani mattina mi sveglio con la bava alla bocca. 
Mi pulisco la bocca come una bambina e mi chiedo che diavolo dovevo aver sognato quella notte. 
Senza pensarci inizio a canticchiare una musica che ho in testa, finché mi accorgo di stare cantando il pezzo che aveva suonato Soul il giorno prima. 
Mio padre è al tavolo in cucina che mangia. Sembra aspettarmi. 
Mi siedo e mormoro un sommesso -Buongiorno...- 
Mio padre alza lo sguardo -Chi era?- butta lì. 
-Cosa? Chi era chi?- 
-Il ragazzo che ti ha accompagnata a casa ieri sera!- esclama Spirit. 
-Accompagnata...?- mormoro, Soul mi aveva accompagnata? 
Un sorriso ebete mi spunta sulla faccia e comincio a dondolarmi sulla sedia. 
-Cos'è quello sguardo...? Non sarà che...? Ti ha toccata?!- 
-Papà stai tranquillo, lo conosco da ieri...- 
-Appunto, non è normale!- 
Sbuffo un po' irritata. Mio padre era sempre stato iperprotettivo. 
Piuttosto mi chiedevo cosa fosse successo la sera prima. Non mi ricordavo nulla. 
Ricordavo solo di aver poggiato la testa sulla sua spalla e – Puff –  tutto era caduto nel buio. 
Guardo la finestra  che da sulla sua casa. Non ci sono luci accese, non ne vedo mai. 
Il calendario attaccato al muro della mia cucina svolazza, e improvvisamente mi accorgo che è sabato. 
Mi sarebbe piaciuto andare a trovarlo a casa sua. 

Il portone della casa degli Evans non era inquietante: Era terrificante. 
Una grossa porta nera troneggia davanti a me come un rottweiler. È decisamente troppo grande per essere una porta, piuttosto sembra il portone d'ingresso di un castello. 
Un minuscolo spioncino, come l'unico occhio di quel mostro ciclopico, mi guarda e mi analizza come una cavia da laboratorio. 
Suono il campanello, la targhetta laccata d'oro sottostante con “Evans”, e il suono fa un lungo eco. 
Rimango un attimo in attesa. Comincio a sentire dei passi lontani e fremo. 
Il portone nero si apre con uno spostamento d'aria, come quando si apre una tomba di un faraone chiusa da duemila anni, e i mie capelli svolazzano come delle spighe di grano. 
Come la fessura della porta si ingrandisce, intravedo dei capelli bianchi. 
Sorrido -Soul...- 
Una figura fin troppo alta per essere anche vagamente Soul mi si pianta davanti. 
Non è Soul, ma ha gli stessi capelli bianchi e indossa un completo nero, come quello che aveva avuto addosso lui il giorno prima. 
Il ragazzo, non deve avere più di vent'anni, mi guarda con il sopracciglio inarcato -Lei sarebbe...?- 
Esito sotto quello sguardo penetrante -Maka... Maka Albarn.- 
-Cerca qualcuno?- continua con una voce da maggiordomo. 
-Io... cercavo Soul.- 
-Mio fratello?- 
Annuisco lentamente mentre analizzo quella oscura figura. Il suo sguardo non mi piace. 
-Lei invece chi è?- 
-Non le sembra di essere un po' scortese, signorina Albarn?- 
-Oh, io non volevo...- distolgo lo sguardo come se gli occhi del ragazzo mi bruciassero addosso. 
-Il mio nome è Weiss Evans, signorina Albarn. Per quanto riguarda mio fratello, temo che dovrà venire un altro giorno: oggi non è in casa.- 
-Sa dove...- 
-Arrivederci.- 
La porta si richiude con uno schianto. 
Non so se i miei capelli stanno tremando, ma di sicuro avrei voluto abbattere quel portone e strozzare quello strano tipo così dannatamente simile a Soul. 
-Ma chi cazzo ti credi di essere?- sussurro voltandomi, furibonda. 
-Non le sembra di essere un po' scortese, signorina Albarn?- dico facendogli il verso -Ma per piacere!-
Non ci credo che Soul non sia in casa. Quel tipo non me la racconta giusta. Mi ha rivolto un finto sguardo dispiaciuto, ma non mi faccio fregare per così poco. 
Giro intorno alla casa silenziosamente, mi apposto dietro un albero e lo vedo: Quel Weiss Evans è nel salotto della casa. Suona un violino. 
-Famiglia di musicisti, eh?- 
Mi avvicino alla casa, cercando di non farmi notare dalla finestra del salotto. 
La finestra di Soul è socchiusa. Abbasso lo sguardo per pensare un momento a cosa fare. 
Una musica, prima impercettibile, raggiunge le mie orecchie.
Non c'è dubbio: è sicuramente Soul. 
Quindi il fratello mentiva, dopotutto, penso, ma perchè avrebbe dovuto farlo? 
Volevo vederlo, ma ora come ora cosa faccio? Se torno a bussare, quello lì come minimo mi rompe il violino in testa. 
Guardo verso il tetto. Avevano proprio una bella tettoia. 
Lo ammetto, sono sempre stata una schiappa in educazione fisica, sia a salire la corda che nel quadro svedese. Mi ricordo ancora di quella volta quando quest'ultimo si era staccato dal soffitto. Con me sopra. Tuttavia, poso le mani sulla fredda grondaia. 
-Che diavolo sto facendo...- e comincio ad arrampicarmi lentamente e con fatica, sperando che nessuno mi noti. 

Quando Soul Eater Evans suonava, la gente moriva. O almeno era così che lui si era convinto. 
La mattina che sua madre morì, lui suonava in quella stanza scura. Suo padre venne a riferirglielo, piangendo, ma lui non si voltò nemmeno. 
Semplicemente continuò a suonare, più forte. E come la melodia della marcia funebre di Chopin marciava dal suo cuore ai tasti di quel pianoforte nero, così il corpo della madre passava dal suo letto ad una fredda bara. 
Quel giorno Soul non pianse. Non ne sapeva il perchè nonostante il cuore gli scoppiasse in mezzo al petto, eppure, dopo quel giorno, non ci riuscì più né provò ci provò mai. 
Nemmeno quella volta che era caduto in bicicletta e si era ferito al ginocchio. 
Sentiva il dolore, ma restava a guardare il sangue che colava come un ruscello senza dire una parola. 
Suo padre si era preoccupato, così aveva cominciato a viziarlo, nel tentativo di renderlo felice. 
A sedici anni aveva avuto la sua prima moto, era di un arancione profondo: era così lucida che riusciva a vedere la sua immagine riflessa. 
Non ci andava molto spesso. Le poche volte che la prendeva, andava lontano. 
Andava per chilometri e chilometri di campagna fino ad arrivare in un posto tranquillo e, come restava da solo, cominciava a suonare tasti immaginari di un pianoforte davanti  a sé. Allora ripensava a sua madre. 
Ogni sera usciva di nascosto e tornava a casa tardi. Dove andava lo sapeva solo lui. 
Suo fratello invece era sempre in giro per concerti di violino. Lo avevano forzato a suonare il piano fin da bambino, e alla fine era diventato il suo unico modo di esprimersi. 
Le sue paure, le sue ansie, le sue felicità, i suoi amori perduti erano stati rinchiusi in una stanza nera in fondo al suo cuore. Eppure quando poggiava le mani su quei tasti bianchi sentiva che tutto svaniva. Il mondo intorno a lui non era più lo stesso, sua madre era di fianco a lui e gli sorrideva. Quella angusta stanza del suo cuore apriva le sue finestre temporaneamente, allora le sue emozioni scivolavano fuori come serpenti e un vento caldo lo pervadeva. 
In quel periodo non aveva fatto altro che andare a scuola e, tornato a casa, chiudersi in camera a suonare. 
Eppure, un giorno di quelli, aveva conosciuto quella ragazza. 
Quei suoi capelli e il suo corpo sottile le danno un aria semplice, pensò. 
Eppure... c'era qualcosa in quella ragazza che non comprendeva. 
Per qualche strano motivo, le sue parole lo facevano sorridere, e i suoi capelli gli ricordavano i raggi di luce che entrano da una fessura di una finestra. 
Ogni sera la vedeva mentre lo spiava da dietro la tenda della sua camera, e ogni mattina la sentiva camminare, respirando piano, dietro di sé, mentre il vento gelido gli sussurrava il suo nome all'orecchio: Maka Albarn. 
Smise un secondo di suonare. Gli era parso di sentire un rumore. 
Rincominciò a suonare. Ora un Jazz lento. 
Una manina spuntò dallo stipite della finestra. Soul spalancò gli occhi e suonò debolmente. 
La faccia di Maka apparve dalla soglia della finestra -Ehi, Soul...- 
-Ma che diavolo stai facendo?- sussurrò esterrefatto. 
-Me lo domandavo anch'io. Senti non è che potresti darmi una mano a salire?- 
Soul esitò un po', continuando a suonare e guardando verso la porta, -Aspetta. 
Si alzò leggermente e andò a chiudere la porta a chiave. 
Si avvicinò alla finestra e tese una mano a Maka tirandola su -Ma sei impazzita? E se qualcuno ti avesse visto?- 
Maka scrollò le spalle. Quella ragazza era sempre più incomprensibile. 
-Perchè ti sei arrampicata per la grondaia e sei venuta fin qua? 
Intuì che aveva una risposta dal modo in cui distolse lo sguardo. 
-Tuo fratello non mi voleva fare entrare.- 
-E quindi? Non potevi aspettare un altro giorno per venirmi a trovare?- disse un po' scocciato. 
Maka girò la testa di lato indispettita. 
-Ecco...- incominciò lei -Io ero venuta per chiederti se volevi uscire con me oggi...- 
Soul alzò un sopracciglio -In che senso? 
-Non fraintendere, volevo solo chiederti se volevi accompagnarmi in biblioteca...- 
-A leggere libri insieme?- sorrise sarcastico Soul. 
-Certo che n...- 
Soul le posò un dito sulle labbra -Parla piano. Mio fratello potrebbe sentirti. 
Si risedette al piano e ricominciò a suonare una melodia distensiva -Oggi non posso.- esordì tranquillamente -Vieni domani, mio fratello non è in casa. Parte per un altro dei suoi innumerevoli viaggi all'estero. 
Maka fece un gesto vago nel sfiorarsi il punto in cui Soul l'aveva toccata -Capisco.- disse con un filo di voce. 
-Ora vai, mio fratello potrebbe venire da un momento all'altro. E la prossima volta non cercare di ammazzarti cercando di scalare una grondaia. 
I suoi occhi tornarono su un punto imprecisato del pianoforte. Ci fu un attimo di silenzio. 
 Sentiva lo sguardo di Maka su di lui. 
-Beh, perchè resti lì impalata?- chiese voltandosi. 
-E-Ecco...- balbettò Maka -Non mi hai detto l'ora...- 
-Vieni alle otto, alla mattina.- disse pacato. 
-Sarò puntuale.- affermò Maka con un sorrisetto ricco di nonchalance. 

Mentre scendo la grondaia accompagnata dalle note di Gershwin, i miei capelli fluttuano. 
Il mio primo appuntamento, penso. In qualche modo mi sento come liquefatta: il mio corpo si muove come sotto effetto di droghe. Tuttavia sono un po' innervosita. 
Se c'è una cosa che non sopporto è qualcuno che non ti guarda negli occhi mentre parla. 
E Soul si ostinava a non guardarmi mentre parlava. Questo mi fa irritare. 
Voglio quei suoi occhi rossi incollati ai miei e i suoi capelli e le sue mani e... 
Mi fermo di netto. Non mi sono neanche accorta che sto respirando come fossi andata in iperventilazione. 
Il cuore mi batte ad un ritmo di otto quarti. 
Ho paura dei miei sentimenti. Non conosco quel ragazzo da più di due giorni e già... 
-Domani alle otto.- mi ripeto -Domani alle otto...- 
Mi riavvio i capelli e riprendo a camminare con disinvoltura, come sapendo che il suo sguardo si nasconde dietro quella finestra ombrosa.

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Capitolo 4
*** Moonlight Sonata Parte seconda – Your Hand Feels Reassuring ***


Moonlight sonata Parte seconda – Your Hand Feels Reassuring

Quella notte dormo meno di chiunque altro al mondo. O nel vicinato, comunque sia. 
La signora della villa Tompson esclusa, lei restava sveglia da otto anni. 
La vedo ogni mattina passare la strada per andare al mercato, ed ogni mattina sembra che le abbiano iniettato la vitamina D direttamente nelle vene. È sempre arzilla e ogni volta mi saluta, forse agitando un po' troppo la mano rinsecchita -Ciao Maka!- 
-Ciao Maka.- mi ripeto come un automa. 
Il braccio che ho teso sopra la testa lo lascio ricadere, a peso morto. 
Non sono riuscita nemmeno a chiudere gli occhi. Semplicemente sono stata tutta la notte a fissare il soffitto, quasi incoscientemente. 
Ogni tanto mi alzo e vado a guardare alla finestra. La stanza di Soul è buia; non c'è nessuno alla sua finestra. 
Mi butto ripetutamente sulle coperte senza motivo. Sospiro. 
Sono le sei di mattina, ma decido di scendere ugualmente in cucina. 
Guardo con rammarico la confezione di latte: non mi va, non l’ho mai digerito la mattina. Forse è anche perchè non ne bevo che non mi “sviluppo”. 
Controllo la taglia del mio reggiseno: Una coppa B. 
Crollo sulla sedia, guardando in alto -Non è che a Soul piacciono le ragazze prosperose?- 
-A chi è che devono piacere le ragazze prosperose?- 
Scatto sull'attenti e afferro la sedia. 
Mio padre mi guarda assonnato. Per un attimo ho pensato fosse Soul spuntato da chissà dove. 
-Allora?- 
-N-Niente che ti riguardi, papà...- dico imbarazzata. 
-Sì, invece. Mi spieghi che ti succede?- 
-Insomma, lasciami in pace! Oggi devo uscire con un ragazzo.- 
-Cosa?!- 
Sbuffo appoggiandomi sul tavolo ed accendo la radio. 
“Buongiorno e benvenuti alle Shinigami News di oggi! Per oggi Lunedì 22 Novembre si prevede una giornata inaspettata! Il Sole splenderà e riderà tutto il giorno sopra di voi! 
E ora via con la prima canzone di oggi!” 
E “One” degli U2 parte dagli altoparlanti della radio. 
Sorrido e comincio a farmi un the a ritmo di musica. 


Esco di casa con la mia solita giacca di lana nera. La pecora nera. 
In effetti è proprio così, sono la pecora nera della mia classe. Anche se, in questo caso, la pecora nera non è più quella che studia poco.
Se non fosse stato per Soul e Blair forse mi sarei trovata a parlare solo con i miei libri. 
Al contrario delle persone, loro lasciano che gli parli e pianga con loro senza dire niente. 
Però forse qualcosa è cambiato. Non mi importa più degli altri. 
Finché c'era Soul, sento che tutto sarebbe andato per il meglio, e forse non mi avrebbero più presa in giro. 
Soul, dopotutto, è uno che si faceva notare. 
La casa di Soul è tetra come sempre. Suo fratello non è in casa. 
Almeno è questo quello che mi aveva riferito. 
Premo il campanello della casa-castello e un lungo suono si propaga nel silenzio mattutino. 
Al contrario dell'ultima volta, non si sente nessun rumore di passi. 
In realtà la porta non si apre e basta. Resto davanti a qual portone, indecisa se suonare di nuovo o no. Alla fine mi decido. 
Arrivo alla fermata dell'autobus con lo stesso vento che mi fa svolazzare i capelli di sempre. 
Non c'è.
Non ci penso, e nemmeno mi preoccupo. 
Soul poteva essere ovunque. Probabilmente si sarebbe svegliato tardi quella mattina, e non ha sentito il campanello. Oppure non è nemmeno in casa. 
L'autobus arriva dopo dieci minuti e mi approccio a salire. Do uno sguardo al lato sinistro del marciapiede. Non si vede nessuno. 
Salgo sull'autobus in silenzio. 
So che non c'è nulla di cui preoccuparsi. Soul mi aveva detto che ci saremmo visti quel pomeriggio, e io ci credo. 
Scendo dall'autobus, e mentre mi avvio verso la scuola capisco che quel giorno non sarebbe stato affatto semplice. 
Le mie compagne di classe mi guardano come se volessero legarmi a una sedia e lanciarmi in un lago. 
Che diavolo vogliono queste, ora, mi dico.
Una di loro mi si para davanti. -Ciao Maka.- 
Mi blocco, e non so come, ma comincio ad avere un brutto presentimento. 
-Cosa vuoi?- sbotto, stringendo di più il mio libro al petto. 
-Sembra che tu vada d'accordo con quel Soul Eater Evans.- 
-Forse.- mugugno, e cerco di oltrepassarla. La ragazza mi afferra per una manica e mi strattona indietro -Ferma, stronza. 
Il mio cuore comincia a battere come un martello pneumatico.
Avevo visto mille volte quelle scene in televisione, e ogni volta mi ero detta che per nulla al mondo mi sarei fatta mettere sotto da qualcuno che cercava di bullarmi. 
Eppure in quel momento sento le gambe tremare come dei rabdomanti. 
-Cosa vuoi, lasciami in pace!- 
La ragazza mi guarda sogghignando; non la sopporto. 
 –Non finché tu starai appresso a uno come Evans. Le sgualdrine e le sfigate devono rimanere ai loro posti.
Si mettono a ridere, sguaiate, come se fosse stata una battuta di Robin Williams. 
 -Io non farò proprio un cazzo, stronza.
Mi aspetto un silenzio teso, magari qualche faccia sbalordita e una bocca socchiusa, e invece la risposta è un pugno dritto sulla mandibola ed il rumore del mio corpo gracile sbattere contro gli armadietti scolastici. 
Il mio libro di astrofisica ruzzola per terra, gemendo. Le altre due ragazze mi prendono per le braccia. 
-Non me ne frega nulla di quello che vuoi o non vuoi fare, sei solo una secchiona sfigata.- dice l’altra tirandomi per i capelli. 
Le altre due mi lasciano andare. Mi lascio scivolare a terra come uno straccio. 
Respira, Maka, respira piano, mi dico. 
-Ti sei dimenticata il tuo pranzo, Maka.- la ragazza raccoglie il libro e me lo para sopra la testa. 
Credevo mi avrebbe colpito, invece, con un suono sgradevole, comincia a strapparmelo sopra i capelli. 
-Rassegnati. Soul Evans ti sta solo usando come passatempo, non gliene frega nulla di una come te, per cui stagli lontana.
Lascia cadere il libro, ridotto a brandelli, e se ne va velocemente, con le altre dietro. 
So quale reazione chimica sta per avvenire nel mio corpo, ma non ne sono sicura. 
Sto per piangere penso mordendomi le labbra Merda! 
Afferro il libro squartato e lo scaravento a terra –Stronze!- 
Mi risiedo con la testa fra le ginocchia. Non ho voglia di andare a lezione. Non voglio farmi vedere e deridere maggiormente. 
I miei capelli sono tutti scompigliati e sento la mandibola pulsare, il tutto aggiunto ad un irritante retrogusto di sangue in bocca. 
Entro nel bagno delle ragazze, non c’è nessuno, è la prima ora. 
Mi guardo allo specchio e noto un bozzo roseo sulla mia guancia, il mio libro di astrofisica mi guarda senza dire una parola. 
E Soul non c’è nemmeno. Scoppio a piangere. 
In quel momento spero che nessuno mi senta, ma quei bagni hanno un maledettissimo eco. 
E tra una lacrima e l’altra realizzo che la ragazza che mi ha picchiato ha ragione: Soul non sarebbe venuto. 
-Soul sei uno stronzo.- mi dico con una voce tremolante e irrequieta
Era uno stronzo, come tutti gli altri uomini.
Non avevo mai capito come la reazione di una ghiandola endocrina del cervello potesse unire un uomo e una donna. 
Sono stata una stupida ad affannarmi così per lui. 
Quindi mi chiudo in bagno e aspetto che mi passi quel respiro ansimante. Solo a ascoltarmi, mi viene da piangere ancora. 
Non ho mai odiato Soul come in quel momento, e non ho mai desiderato di averlo vicino a me come in quel momento. 
Quando esco dal bagno ho un aspetto orribile. 
Mentre cerco di scivolare via in silenzio, il dottor Stein appare per il corridoio. 
-Maka!- dice spalancando gli occhi –Che ti è successo?- 
Non voglio rispondere. Sono affari miei. 
-Allora?- 
-Niente. Ho preso un brutto voto.- 
-E il brutto voto ti ha anche provocato una contusione sul viso?- 
Cerco di andarmene , ma Stein mi afferra per il braccio –Maka aspetta…- 
-Mi lasci stare!- dico liberandomi dalla presa. Corro per il corridoio, verso il giardino. 
Spalanco la porta e sono fuori, immersa nel silenzio. 
Resto ferma per qualche secondo a fissare il vuoto e poi mi incammino verso la panchina. 
Mi siedo. Il vecchio bidello della scuola raccoglie le foglie con il rastrello a pochi passi da me. 
Non me ne accorgo subito, ma c’è una radio accesa che suona una musica stanca. È un pianoforte. 
Quasi non ci credo, mi alzo e do un calcio poderoso alla radio facendola cadere fra i cespugli 
–Maledizione!- impreco a denti stretti. 
Il bidello alza lo sguardo e mi guarda allibito –Ragazzina! Quella radio è mia!- 
Mi ritrovo nell’imbarazzo –Uh… io… non volevo…- 
-Voi ragazzi siete così maleducati…- sbuffa, andando a recuperare la radio –Ah, funziona ancora!
Tiro un sospiro di sollievo e mi siedo sulla panchina. 
Il bidello mi guarda con aria sconsolata e alza le spalle. Che dovrebbe fare dopotutto? 
-Qualcuno ti ha fatto arrabbiare, Maka?- 
-Lei come fa a sapere come mi chiamo?- chiedo alzando la testa. 
-Io conosco tutti i vostri nomi. Per un bidello che lavora da trent'anni nella stessa scuola... che passatempo credi che occupi il suo tempo, a parte pulire i corridoi e il giardino?
Rimango in silenzio, un po' esitante, di fronte a quella confidenza così diretta. 
-Non sarà...- inizia il vecchio -...quel ragazzo di cui parlano tutti?- 
-E che ne so.- dico secca. 
Non mi va di parlarne, nemmeno voglio sentire il suo nome. Vorrei che io e lui non ci fossimo conosciuti e basta. 
Forse sarebbe stato meglio per tutti e due. Soprattutto per me. 
-E dimmi...- continua il bidello raschiando il terreno muschiato -Cos'è che ti fa essere così irritata?-
Ci penso un po'. 
-Il pianoforte. Io odio il suono del pianoforte.- 
-Non è vero, il pianoforte è sempre stato il tuo strumento preferito.- 
-Cosa?- 
-Niente, niente.- divaga lui -D'altronde io sono solo un povero vecchio, che vuoi che ne sappia io del mondo dei giovani.
Il vecchio bidello appoggia il rastrello contro un albero e viene a sedersi di fianco a me. 
-Lascia che ti dica una cosa, però. Non giudicare mai le persone solo dagli abiti che portano o dalla capigliatura che hanno, e nemmeno da come parlano. 
Tutte queste cose, non sono altro che un lungo vestito. Un lungo vestito che nemmeno noi ci accorgiamo di avere, così ingombrante, che a volte ci impedisce perfino di camminare. 
Nessuno si mostra mai per quello che è, semplicemente perchè tutti si mostrano in confronto a quello che li circonda. 
Se una persona parla poco, non è perchè voglia dare fastidio agli altri o essere diverso, semplicemente vuole ascoltare. Non giudicare immediatamente Soul, dagli una possibilità in più.- 
Il suo nome non mi suona più così fastidioso, ora, ma come qualcosa di caldo e rassicurante. 
-Ma lei, però, come...- chiedo confusa. 
-Non farti troppe domande, Maka...- risponde sorridendo. 
Mi alzai e corsi a prendere il rastrello -Beh... Allora, farò come dice lei, credo.- 
Mi volto sorridendo un poco -Grazie della compagnia...- 
Ma il vecchio è sparito. Al suo posto, sulla panchina, ci sono solo una radio e un mucchio di foglie, che prese dal vento, volano via come scintille. 


Il nostro liceo non aveva mai permesso l'uso di motocicli al suo interno. 
Eppure, quel giorno, il rombo di una moto risuona in lontananza e si fa sempre più forte, fino ad un suono di una sgommata sulla ghiaia dell'ingresso davanti scuola. 
Non me ne accorgo subito, ma al rumore della sgommata, credo che metà degli studenti si siano voltati stupefatti. 
La moto è proprio venti metri da me. La guardo incuriosita come tutti gli altri, con il mio rastrello fra le mani. 
Il motociclista si toglie il casco, e nello stesso momento il mio cuore, finalista alle olimpiadi dei ventricoli, preparatosi sul trampolino, si esibisce in un triplo carpiato all'indietro. 
Solo che invece di sparire nell'acqua con un “pluf”, da una gran spanciata. 
Soul scende dalla moto e si guarda intorno. Aveva finalmente deciso di usare quella moto, oramai piena di polvere, ma per farla funzionare aveva dovuto portarla dal meccanico, non capendone nulla di motori. 
Questo io non lo posso sapere. Ho desiderato con tutta me stessa di uccidere Soul fino ad un istante prima, ma ora sento la mia mente ripulita da qualcosa. 
-Soul...- dico quasi gridando, ma la mia voce si smorza subito. 
Una tremenda fitta al cuore mi blocca. Mi hanno minacciato, mi hanno picchiata. 
Che cosa devo fare? 
Soul mi guarda, non capendo. 
-Maka...- 
-Vai via...- sussurro. 
-Cosa?- 
-Ti prego, non stare vicino a me.- 
Soul rimane con la bocca socchiusa. Non posso dirglielo, ma voglio togliermi comunque un dubbio. 
-Maka, si può sapere che ti prende? Sono venuto qua per... e questo cos'è?- 
La mano di Soul mi sfiora la contusione sulla guancia. Provo un brivido. 
-Niente.- dico togliendogliela bruscamente. 
Sono lì, ormai ho il cuore che sembra una lavatrice con la centrifuga. 
So che quelle ragazze mi stanno guardando. 
-Soul...- dico balbettando -Perchè con me?- 
Soul rimane in silenzio, lo sguardo sconcertato. 
-Voglio dire...- dico ridacchiando -Ci sono un mucchio di ragazze che aspettano da anni di essere in una situazione uguale alla mia con te.- 
Alzo la testa -Io non sono bella. 
Il suo sguardo mi perfora e mi fa imbestialire allo stesso tempo. 
-Non sono prosperosa, sono antipatica, piatta, il mio unico passatempo è leggere dei libri ammuffiti che nemmeno i nostri professori leggono, sono egoista, egocentrica, non mi piace troppo la musica, sono possessiva, perchè Soul?!- 
Non ho la minima idea di quante persone ci stiano ascoltando, ma sinceramente non mi interessa più. Non mi interessa nemmeno che mi stiano fissando quelle stronze, mentre crepano di invidia. 
Soul continua a guardarmi, senza dire nulla, probabilmente non ha neppure capito cos'era successo. 
-Rispondimi!- urlo violentemente, ma non ottengo una risposta. 
Merda, ancora... I miei occhi iniziano a bruciarmi come delle lampadine. 
Che fare quindi? Improvvisamente quella scena mi sembra un dolce finale di un film, ma non permetto che sia tale. Corro via, sbattendo contro la gente. Non riesco a vedere bene. 


Come entro in biblioteca, mi lascio cadere contro un muro. 
-Signorina, si sente bene? Vuole che chiami un dottore?- dice allarmata la vecchietta bibliotecaria. 
-No... va tutto bene...- dico stancamente. 
C'è un unico aggettivo per definire questa giornata. È mezzogiorno, e non ci voglio pensare neanche. 
Trovo un tavolo vuoto e ci appoggio la mia cartella. Allora tiro fuori i libri e li spargo uno vicino all'altro. 
Li guardo, senza aprirli. 
Molta gente definisce l'amore in molti modi. Ci sono coloro che lo definiscono romantico, coloro che lo chiamano “la porta d'accesso alla felicità”. Non ci credo. Non è solo quello. 
L'amore è anche una reazione prodotta da una ghiandola endocrina del cervello, è l'istinto di sopravvivenza, è qualcosa che uccide la gente. 
Io mi sento come uccisa, come denudata dei miei vestiti, derisa da una moltitudine di voci che dicono “Povera Maka, che pena Maka, che esagerata Maka.”
Io amo Soul Eater Evans, ma probabilmente non glielo avrei mai detto. 
E lui lo avrebbe immaginato, ma, comunque, avrebbe fatto finta di niente, perchè è questo che sanno fare gli uomini quando vogliono evitare qualcosa: Fanno finta che non esista. 
Apro il mio immenso libro e ci poggio la testa sopra. Ha un dolce profumo di colla. 
Ancora una volta, anche quel giorno, mi rifugio nel mio mondo polveroso e cartaceo, per sfuggire a quel fastidioso sentimento, e allora provo a cantare, così come un brutto anatroccolo diventato cigno che canta, triste, fino alla sua morte.

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Capitolo 5
*** Black wood among the ruins ***


Black wood among the ruins


I libri davanti al suo naso, rosso per il colore, all'insù e minuto, erano sempre lì, giacenti sul tavolo spoglio.
Sentii come una sensazione di benessere a restare in quel posto, che in qualche modo mi distaccava dal resto del mondo.
Mi veniva voglia di prendere qualche libro di scienze e impararmelo a memoria, qualcosa che avrebbe sfogato i miei occhi e il mio cervello fino a farmi cadere addormentata, e allora non pensare più a niente, magari sognare, se ne capitava l'occasione.
Questo non perchè dovessi dimenticarmi di qualcuno in particolare; o almeno il mio orgoglio mi diceva così.
Stropicciai i miei occhietti furbi e tirai uno sbadiglio da risveglio.
Sentì che se avessi camminato, quell'ansia che mi cresceva nel petto si sarebbe dissolta. Percui mi alzai, scricchiolando, e cominciai a camminare lungo lo scaffale, attorniata da un tepore silenzioso.
Sembravano muri tagliati sul punto di chiudersi in un arco, oscurando così tutto il resto.
Non mi sarebbe dispiaciuto un lungo e freddo pavimento di pietra, cinto da spogli muri in granito, illuminati da torce tremolanti e marce.
Quel disegno gotico scomparì, lasciando di nuovo posto all'aspetto moderno e affusolato della sala.
Afferrai bruscamente una scala e vi salii malamente.
Arrivata in cima mi ero dimenticata cosa fare, se scendere di uno scaffale o spostarmi a sinistra verso la sezione “Antropologia forense”.
Scelsi la via dell'antropologia e feci scorrere la scala. Quel movimento mi aveva sempre divertito, mi sentivo una scalatrice arrampicatasi su una parete rocciosa.
Estrassi con disinvoltura un libro placcato in rame, pulendolo da uno strato leggero di polvere.
Tornai al mio tavolo sparso di libri. Mi sembravano terribilmente inutili lì, percui li impilai e quindi li infilai nella borsa.
Aprii quel libro pesante, cercando di non strapparne le flebili pagine.
La colonna vertebrale era lì davanti ai miei occhi, eppure ne vedevo solo quelle immagini sfumate dal tempo e ne perdevo le parole.
Sfogliai pagina e fissai un cranio umano. Era lì, segnato da suture ondulate, e un po' sorridente, quasi ridesse di me.
Il teschio si animò e si girò -Povera, la nostra Maka, perchè cerchi di sfogare te stessa con lo studio? Non lo sai che non risolvi nessuna delle due cose?-
-Non è vero! Studiare mi aiuta eccome. E poi chi ti dice che debba sfogarmi di qualcosa?-
-Smettila di mentire a te stessa, Maka, non si va da nessuna parte continuando a fuggire dalla propria vita.-
-Io non sto fuggendo, io...- mormorai.
-Tu sei innamorata, perchè cerchi di reprimerlo?-
-Io... Soul...- cercai di dire -Noi siamo amici-
Abbassai il capo e aggiunsi -Forse... in realtà non so neanche chi sia, che senso ha?-
-Non devi per forza trovarne un senso.- parlò il teschio -Non puoi accettare le cose così come sono?-
-Ma come sono le cose?- mi chiesi mormorando -Io sono... non sono bella... Soul comincerà a frequentare altri tipi di persone e allora... e allora si dimenticherà di me, come tutti gli altri.-
Il teschio continuava a disarticolarsi la mandibola e a riattaccarla alla fossa mandibolare, producendo uno scricchiolio fastidioso.
-Senti.- disse articolandosi per l'ultima volta -Non puoi fuggire queste cose solo col fatto di piangerti addosso e gettare pessimismo sopra ogni dove. Non è onesto da parte tua.
Non sapevo cosa dire. Avrei voluto mollare tutto, lasciare quel pezzettino della mia vita lì dov'era e continuare ad andare avanti.
-Non farlo, Maka.- disse il teschio rimettendosi di profilo -Quando ci si accorge dei propri sbagli è già troppo tardi per tornare indietro.
Tutto tacque di nuovo, come una magia pronunciata tra le fessure di quegli scaffali.
Fissai il libro in attesa di un'altra parola, solo una, che mi facesse cambiare idea.
-Maledizione!- imprecai chiudendo il libro, e andai a riporlo.
Infilai il mio giubbotto e, abbottonandomelo con difficoltà, uscii per strada borbottando frasi incomprensibili.

 

 

Quando Soul Eater Evans nacque, non aveva ancora un nome.
Nato da un parto cesareo, tra l'odore di disinfettante e cibo d'ospedale, era stato preso in mano dall'uomo col camice bianco.
-È un maschio.- disse con il tono di chi ne vede a dozzine di bambini uguali a quello, il dottore.
Eppure quel ciuffo bianco, come zucchero filato, su quella testolina, lo straniva.
Quegli occhietti marroni con una punta di bordeaux, quasi indistinguibile, lo mettevano in soggezione.
Mentre lo fissava in modo inquisitorio, la madre ansimava; il marito vicino a lei tenendole la mano.
Il dottore glielo porse e rimase lì a guardarli, mentre ridevano e parlavano alla loro nuova creatura.
Quel bambino era affetto da un parziale albinismo, gli pareva. Non sapeva se dirglielo o no a quei genitori così felici.
Così felici, eppure così sfortunati. Sperò tanto che non fosse il loro primo figlio.





Di non essere il primogenito, Soul se ne accorse ben presto.
L'aveva già intuito dalle figure che vedeva da bambino. Tra quelle che vedeva ce ne era sempre una con i capelli simili ai suoi, e un'aura di gelo e déjà vu che sentiva attraverso le pareti.
Il primo ricordo nitido di suo fratello fu di una sera d'estate. Il suono di uno strumento a lui nuovo squarciò l'aria e zittì il pedissequo cicalio attorno.
Come lo sentì, Soul seguì quel suono misterioso fino alla stanza con la porta aperta da cui proveniva.
Si nascose dietro lo stipite di essa e guardò timidamente la figura davanti ai suoi occhi.
Indossava una camicia bianca, visibilmente impregnata di sudore. Accanto il completo nero, tolto probabilmente già da prima.
Suonava ad occhi chiusi come se fosse concentrato e impegnato nel trovare una risposta ad un pensiero tormentoso.
Soul rimase a fissare la figura di suo fratello come fosse un acquario pieno di pesci: ne ammirava la bellezza, ma non riusciva a contare tutti i pesci.
La figura sbuffò e si interruppe. Si sedette, appoggiando lo strumento sulle ginocchia, e si asciugò il sudore. Poi si accorse di Soul.
-Soul, che ci fai lì dietro?-
Soul non rispose, ma continuò a tenere la bocca aperta e a guardarlo con sguardo perso.
Suo fratello sorrise e alzò lo strumento -Lo sai cos'è questo?-
Soul scosse velocemente la testa e fece un passo nella stanza, attirato dalla provocazione.
-È un violino, uno strumento musicale. Un giorno dovrai sceglierne anche tu uno.-
-Un violino anch'io?- chiese Soul.
-No, non un violino- disse il fratello sempre sorridendo -Puoi scegliere lo strumento che vuoi. Lo strumento con cui ti senti più in sintonia.-
Soul rimase in silenzio per un lasso di tempo, domandandosi se aveva capito o no il significato di quella risposta.
-Sintonia?- chiese infine -Che cos'è?-
Il fratello portò una mano alla testa per passarsela tra i folti capelli bianchi -Beh, la sintonia...- cominciò.
Guardò Soul e poi ridacchiò -Beh, è qualcosa che non so spiegarti. La troverai da solo, vedrai.-
Soul annuì con forza e guardò il violino luccicante come un pollo arrosto.
-Vuoi provarlo?- gli chiese gentilmente il fratello.
Gli occhi di Soul si illuminarono come due lampadine e, sfoggiando un sorriso largo ma non perfetto, annuì eccitato.
Stava per fare un passo verso suo fratello, quando una voce interruppe l'atmosfera sottile che si era formata.
-Weiss! Perchè hai smesso di suonare?!-
Weiss si alzò in piedi di scatto. La sua schiena gli era sembrata uno stuzzicadenti.
-Scusa, padre, mi ero fermato per riposare. Stavo illustrando a Soul...-
-Smettila di perderti in queste sciocchezze.- disse gelido il padre, ammutolendolo, -Domani hai un concerto, te ne sei forse scordato?-
-No, padre.-
-Allora finisci ciò che hai iniziato.- e detto questo portò una mano dietro la schiena di Soul, spingendolo fuori dalla stanza -Vieni Soul, tuo fratello ha molto lavoro da fare.-
L'ultima cosa che sentì fu il rumore profondo della porta, chiudersi dietro di loro, e perdersi tra i muri della casa.
Infine il suono di un violino squarciò di nuovo il silenzio, più struggente che mai.

 

 

-No, no, no! È questo il ritmo, Soul!- gridò il padre battendo il piede con violenza per terra -E poi quello è un Do! Un Do, non un La!-
La tastiera del pianoforte di fronte a lui taceva. Sentiva le lacrime corrergli agli occhi, ma si ripeteva che se avrebbe pianto, le cose sarebbero solo peggiorate.
La faccia del padre sembrava un pomodoro maturo sull'orlo di scoppiare.
Raccolse gli spartiti caduti per terra e li sbatté sul lungo pianoforte a coda nero -Ora starai qui, tutto il giorno, finché non avrai imparato questo benedetto pezzo!- disse, e se ne andò con rabbia sbattendo la porta e facendo cadere di nuovo gli spartiti.
Quando Soul aveva messo, per la prima volta, le mani sulla tastiera di un pianoforte aveva provato qualcosa, proprio come Weiss gli aveva detto.
Aveva sentito come un tepore provenire da quel legno morto e silente e, in qualche modo, gli era sembrato che quell'inanimato strumento lo avesse abbracciato.
Eppure qualcosa lo pervadeva tutto quando faceva scorrere le dita sull'intera la tastiera, sentiva una musica frenetica, maligna, malata, straordinaria che chiamava il suo nome e lo pregava di essere suonata.
Al contrario, suo padre lo costringeva sempre ad imparare quella musica scandita e noiosa, che si divideva in infiniti battiti e battute, piena di segni e monotonia musicale.
Guardò con disprezzo gli spartiti e cominciò a suonare scandito.

 

 

All'una e trentacinque di quel martedì notte non volava una mosca.
Il vecchio orologio a pendolo batteva i secondi con il suo ticchettio metallico.
Il signor Evans dormiva nel suo letto, ma sembrava agitato; continuava a rigirarsi.
Perchè? , si chiedeva, Perchè mio figlio non suonava come doveva?
Quel pensiero non lo lasciava libero e lo tormentava ogni notte. Eppure gli aveva insegnato, lo aveva educato, lo aveva sgridato, punito affinchè imparasse a suonare nel modo più diligente possibile.
Doveva diventare famoso, no, ancora più famoso! Avrebbe sbaragliato tutti quei pidocchiosi e altezzosi pianisti orientali o americani che pretendevano di essere nati con lo strumento in mano! Sì, lo avrebbe fatto, e lui suo padre sarebbe stato fiero di lui, perchè avrebbe visto sé stesso nel figlio, sé stesso quando aveva la sua età e suonava e non riusciva a superare gli altri pianisti e...
Un suono terribile crebbe nella notte. Il signor Evans si svegliò di soprassalto con un gridolino. Era l'una e quaranta.
Credette di stare ancora sognando, e invece il suono era reale ed era...
Folle.
Suoni e arpeggi sconnessi esplodevano per le pareti e rimbombavano come esplosioni per quelle immense sale.
Scese dal letto e accese una candela, mentre gli tremava la mano. Quella musica lo sconvolgeva.
-Caro, ma che succede?- mormorò la moglie debolmente.
Il signor Evans non rispose e spalancò la porta fiondandosi giù per le scale, mentre affannava sudato.
Con la camicia da notte attaccata al corpo e il respiro ansante raggiunse la sala del pianoforte.
Quella musica folle usciva da lì, da quello che sembrava essere diventato un antro di un demone e una caverna buia per un pazzo fuggito.
Spalancò le porte della stanza e rimase rigido senza muoversi.
Chino come un gobbo sulla tastiera, lui stava suonando. Soul stava suonando.
Le mani si alzavano al cielo fulminee e ricadevano sul pianoforte come pietre scagliate.
Sembrava di assistere a qualcosa di terribile, qualcosa che andava al dì là del suonare.
Al signor Evans parve come di vedere qualcuno essere ucciso.
E ogni nota sembrava una pugnalata nel petto, e ogni scala sembrava sangue zampillare fuori dalle ferite. Non riusciva a dire niente, non riusciva a fermarlo perchè era terrorizzato, perchè...
Sorrideva.

 

                                         ~Fine prima parte~

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Capitolo 6
*** Black Wood Among the Ruins - Let's Fly Away ***


 

Black wood among the ruinsParte seconda

Let's fly away~

 


 -A chi diavolo serve una stupida cosa chiamata “Amore”, huh! Non certo a me!- dici scocciata –Non certo a Maka Albarn.
È come un traino, e tu sei il bue.
Dici così, forse per alleviare quel peso che per poco non ti fa perdere i sensi.
Un maledettissimo traino, maledettamente pesante. Eccessivamente pesante.
E tu non sai come fare, a togliertelo di dosso.
Ti fermi per strada, con le mani infilate nelle tasche del giaccone, e il bavero che ti copre la bocca dal frantumarsi.
-Nevica.- mormori. È Novembre, ma di solito non nevica in questo periodo.
Sarebbe più razionale che nevicasse a Dicembre, ma forse è solo l’illusione che hanno tutti; come se a Dicembre dovesse nevicare per forza! 
Pensieri… nient’altro.
Che sto pensando?, ti chiedi.
-Ma cosa sto facendo?- dici, quasi a ripeterti, il più debole possibile, –Perché sono scappata? Soul…-, intenta a guardare il cielo da una pozzanghera.
Ti chini per terra, avvolgendo le braccia intorno al petto, e stringi, finché non gridi per lo sforzo e per il dolore. Allora ti rialzi in piedi e ti rimetti a vagare controcorrente nella folla.
-Non mi serve, non mi serve, non mi serve…- 


Rumore. Sentiva rumore, intorno a lui.
Non capiva. Cos'era successo, perchè la gente lo fissava così strano e perchè il cielo sembrava così argentato quel giorno.
Le nuvole si muovevano, così dolcemente; gli parevano panna.
Scorrevano lungo il cielo, lasciandosi dietro un delizioso profumo, e disegnavano dolci prelibati e sogni di bambini mai viziati.
Perchè era per terra? Ah, giusto...
-Vedi di ricordartelo bene, idiota!-
Quando Maka era scappata in mezzo agli studenti stupefatti, lui aveva dato di matto.
Matto? Non era forse già matto sin dall'inizio?
-Sfigato malato...-
Già, era così che la gente lo vedeva: come uno sfigato malato.
Avevano paura. Però erano anche irrimediabilmente attratti. La pazzia è contagiosa, dopotutto.
Soul si rialzò lentamente, mentre qualcuno provava ad aiutarlo.
Una ragazza.
-Tranquilla. Ce la faccio.-
-No, invece. Dammi il braccio.-
-Davvero, tutto a posto.-
-Senti un po', carino. Hai appena ricevuto un destro dalla persona sbagliata con cui dovevi sfogarti, non credo che tu sia molto lucido. E come se non bastasse hai spezzato il cuore alla mia amica, per cui, se provi a dirmi un'altra volta che non ti devo aiutare, ti do volentieri un sinistro per completare l'opera.-
-Huhu, davvero diretta.-
-E non hai visto niente.- disse Blair ironica.
Soul riuscì a mettersi finalmente in piedi, mentre si appoggiava alla ragazza.
La folla si diradava, e restavano solo loro due sullo sterrato. E la moto.
-Ah, la moto...-
-Te l'hanno rigata.-
-Perfetto.- ridacchiò Soul -Perfetto...- 


Che cosa stai cercando così disperatamente? 
Da qualche parte, nel tuo animo, sai di non essere l'unica a cercare. Sai di non essere l'unica folle ragazzina che legge libri senza fine, addormentandosi su di essi, o che annusa l'odore della colla lungo le rilegature. 
Sai anche, che in quella strada di città impetuosa non sei sola; e in effetti è proprio così. 
È pieno inverno, e quelli che scorrono di fianco a te sono orde di impiegati rassegnati, che si riversano nelle strade labirintiche, e piene di smog. 
E tu cammini, imperterrita, dopo un'allucinante conversazione con un teschio di Homo Sapiens. Sei uscita di fretta, impettita, come se fossi stata costretta a fare qualcosa controvoglia.  
Da piccola ti ricordavi di odiare i broccoli: una volta te li avevano fatti mangiare a forza, con tuo padre che ti imboccava, e dopo cinque secondi li avevi rigurgitati insieme a tutto il resto. Non avevi più mangiato broccoli in tutta la tua vita. 
E ora l'unica cosa che ti viene in mente è Soul. Chi era Soul? Da dove veniva? Chi era veramente
Ma questo, nessuno sembra saperlo. In qualche modo, immagini che la risposta sia custodita dentro il suo pianoforte, come se fosse un cassetto della sua anima. 
Dopo quel pomeriggio al cimitero di Saint Creek, eri rimasta come immobilizzata da una patina su tutto il corpo che ti avevano soffiato addosso. 
Avevi visto qualcosa, nel suo modo di suonare, di affascinante e, come se i fulmini potessero cadere in una giornata senza nuvole, era stata colpita in pieno, e ti eri innamorata. 
Chi lo sa perchè. Forse non ne esisteva veramente uno di “perchè”, forse non devi neppure cercarlo. 
E allora ti aggiri, come un'anima in pena, nel quinto girone dell'inferno cittadino, e fai finta di cercare. 
Immagini che prima o poi, da quella folla scorrente, spunteranno dei vividi capelli bianchi; e allora   avrai un tuffo al cuore. 
Guarderai in quella direzione, ma le persone ti travolgeranno, mentre tu gridi disperatamente -Soul!-, e allora lui si girerà, ti vedrà, e sorridendo ti verrà incontro, aprendo la folla come fosse una tenda. 
E allora vi bacerete, senza sapere bene come fare, perchè d'altronde voi non avevate mai baciato prima nessuno seriamente. 
Un bacio, come quelli dei film in bianco e nero che guardi con un cuscino abbracciato al petto e il cuore in gola. 
-Oh, mi scusi.- 
Qualcuno ti ha urtata; ti sei fermata in mezzo alla folla. 
Tiri su col naso, e non ti importa che tu stia per metterti a gridare lì in mezzo, perchè tanto ti prenderanno per pazza o per una poveretta malconcia. 
Alzi il viso al cielo e cominci a urlarlo. E come antilopi, tutti si voltano, ma continuano a camminare. 
Continui a urlarlo, come un parola magica, come una parola d'ordine. Forse può davvero accadere una magia o aprirsi una porta anche nella realtà; non lo sai. 
-AH, ECCO DOV'ERI!
Ti prendono il polso e ti strattonano. Alzi il viso, rosso e martoriato dal pianto e ti rimetti a piangere più forte di prima. 
Soul ti sta trascinando per la folla a forza, come se tu fossi una bambina capricciosa. 
-Lasciami, idiota!- gli sbotti piangendo, ma non ti fermi. 
-Ah, sorellina! Non sai quanto ti ho cercato! Non devi più allontanarti per comprare il gelato da sola, te lo compro io!- e scoppia in una risata fragorosa. 
Tu invece continui a lasciare goccioline salate sull'asfalto nero, mentre ripeti un po' il suo nome e la parola idiota, come fosse un cognome. 
Uscite da quella strada stracolma e finite lungo un parcheggio pieno di auto usate e nuove. 
Ti prende per i fianchi, senza che tu te ne renda conto, e ti mette sul sedile della sua moto ridicolmente arancione, poi ti infila un casco malamente e infine sale anche lui. 
Partite con una sgommata, e se non fosse per il busto di Soul cadresti all'indietro, ma riesci ad afferrarlo in tempo. 
Eppure, anche se lo abbracci più del dovuto, anche se ti appoggi alla sua schiena, incredibilmente larga, non sai smettere di singhiozzare, e un po' ti viene da ridere. 
Rimani un po' incerta, se buttarti su una risatina amara o ricadere nel pianto libero, e in effetti non sai deciderti; fai un po' uno, un po' l'altro. 
Infine rimani in silenzio, con solo il rumore assordante e fastidioso del motore della moto che ti rimbomba nelle orecchie. 
Noti, che è verde, ma che la moto è ferma, e allora mormori sperando di essere sentita -Soul, è verde.- e la moto riparte subito, come attraversata da una scossa. 

 

 

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Capitolo 7
*** Strangers in the Night ***


Strangers in the Night



Mentre continuiamo a sfrecciare per la strada noto i lampioni accendersi, e questo mi turba leggermente, come a ricordarmi che quando fa buio bisogna tornare a casa. 
Ignoro quell'avvertimento, e faccio sprofondare l'insicurezza della notte nella schiena di Soul. Inspiro avidamente il suo odore e, come un rettile, tento di rubargli tutto il calore possibile. Lo stringo ancora più forte.  A tal punto, che Soul è costretto a girarsi e a dirmi -Maka... non riesco... a respirare!- con voce fiaccata. 
Allento un po' la mia presa da lottatrice greco-romana e sorrido leggermente. 

Mi chiedo perchè senta dentro un'emozione tanto straripante. Sembra investirmi come un onda, e noto, con divertimento, che non riesco a contenerla, malgrado i miei tentativi. 
-Ma che hai da ridere...- dice Soul vagamente.

 

Finalmente la moto si ferma. Non ho idea di dove siate. D'altronde ho continuato a tenere gli occhi chiusi per tutto il viaggio, con la testa adagiata sulla sua schiena. 
Fatto sta, che quando la moto si spegne completamente, e il suo ruggito metallico svanisce, non ne voglio assolutamente sapere di lasciare quella posizione da marsupiale. 
Mi sembra di essere sempre stata in quel modo, e l'idea di staccarmi mi pare impossibile se non folle. 
-Maka... - comincia Soul. 
Mi attorciglio, con un inevitabile gemito di Soul, ancora più complicatamente al suo busto e assumo un'espressione alquanto imbronciata. 
Soul sospira. Sembra aggiustarsi i capelli, poi, con una forza che mi sembra spaventosa, prende i miei polsi, scende dalla moto e mi solleva, facendomi toccare il suolo con un tocco. 
-Oh...- riesco solo a dire. 
Alzo lo sguardo verso di lui. Evita il mio sguardo. 
-Sembri imbarazzato.- osservo. 
-Mi sembra ovvio, dopo che hai stritolato la mia vita come fosse un pupazzo di gommapiuma!- esclama arrossendo. 
Abbasso lo sguardo, ignorando le sue ultime parole. 
-Dove siamo?- gli domando. 
Ci troviamo alla fine di una strada asfaltata. Una di quelle, però, che sono in via d'estinzione, dove germogli e arbusti spuntano dall'asfalto, come eroi che escono dall'oscurità per apparire in scena. 
C'è un solo lampione sopra di noi e tutto intorno buio assoluto. 
-Volevo... volevo farti vedere...- 
-Cosa?- 
-Un posto.- 
Acciglio lo sguardo come se faticassi a credere alle sue parole. E in effetti è così. 
-Un posto?- 
-Sì.- 
-E dove sarebbe?- 
Soul alza un braccio e lo sventola indicando una direzione vaga. 
-Proprio qua dietro.- 
-Senti, Soul, non ho...-, ma non riesco a concludere la frase poiché l'unico lampione visibile in mezzo a quello che, apparentemente, mi sembra il nulla assoluto, si spegne con uno sfrigolio frizzante. 
Tiro un gridolino e mi lancio quasi spontaneamente su Soul come un sanguisuga. 
In quel momento di silenzio, nel quale attendo che la luce ritorni magicamente, c'è solo il silenzio e il rumore dei fiocchi di neve che cadono a terra. 
-Ma... Maka...- il suo tentativo di parlare è flebile, ma mi coglie all'improvviso ugualmente. 
-Io... io, ecco... in realtà volevo dirti qualcosa- e dopo aver deglutito una quantità sconcertante di saliva -...da un po'. 
Sento il mio cuore prendere in mano due bacchette e cominciare a rullare un tamburo. E mentre noto ciò, mi accorgo essere petto contro petto e di riuscire a sentire anche il suo di cuore battere colpi di timpano, sempre più veloci. 
-Maka, io...- la sua voce sembra abbassarsi sempre di più. 
Continuo a tenere la testa contro il suo petto e a fissarglielo a occhi sbarrati, senza capire il perchè, mentre le mie e le sue braccia sono avvolte le une nell'altro. 
-Io... io ho come l'impressione di averti sempre conosciuta. Non so spiegarmi il perchè... anche la prima volta, quando ti sedesti di fianco a me su quella panchina, io... io pensavo che tu fossi qualcun altro venuto a deridermi o a ignorarmi, se non le due cose assieme. E invece... invece quando ho aperto gli occhi per accogliere come sempre quella derisione, invece... ho visto te. E... - 
Quando finisce di balbettare come un bambino al suo primo esame mi scopro col fiatone e, in quel silenzio seguente, mi accorgo di fare un gran rumore e chiudo la bocca di scatto, come a prendere un boccone d'aria gelata. 
-S-soul...- mormoro velocemente con la bocca tremante -Soul...- 
-Sì?- 
-Che diamine stai cercando di dirmi?
Stavolta è Soul che boccheggia, forse perchè non sa bene come rispondere, le parole da usare, forse perchè i nostri occhi si sono incontrati e non vogliono più staccarsi. 
È così che, il suo viso comincia, lentamente, inesorabilmente e goffamente ad avvicinarsi e, contemporaneamente, in lontananza, si ode una musica arretrata, che mi da finalmente la percezione di non essere completamente immersi nel nulla assoluto. 
Calcolo che probabilmente la nostra temperatura corporea è salita di un paio di gradi a giudicare dai nostri visi, che sembrano due sorgenti vulcaniche in mezzo al gelo circostante. 
È allora e solo allora che noto sul suo viso uno scintillio, un lampo, come quello di una luce riflessa sul metallo lucido di una lama. 
Ma il pensiero è solo uno dei milioni che appaiono e spariscono in quel momento. 
Allungo leggermente il collo e noto che entrambi abbiamo la bocca socchiusa e, con imbarazzo, constato quanto sia stupida quell'immagine. 
Così stupida, che mi fa irritare in modo inspiegabile, e allora lo afferro per il colletto e lo tiro verso di me con prepotenza, e quel che ne esce è un morbido scontro tra due labbra impacciate ed umide che sembrano dover passare in due per una porta sola. 
Così, mentre cerchiamo di trovare una soluzione, mentre sbracciamo per farci posto l’uno sulla bocca dell’altro, mentre ci rubiamo il respiro a vicenda a intervalli irregolari, mentre cerco di far mente locale a tutti quei film romantici che ho visto e odiato, dove si baciavano così appassionatamente, e ora ne cerco degli spunti, mentre penso a quello che potrebbe dire mio padre al mio ritorno, al freddo che fa, alla faccia che avrebbe fatto mia madre quando avrebbe conosciuto Soul, a cosa avrei dovuto fare il giorno dopo a scuola, a cosa avrei dovuto fare quando quel bacio sarebbe finito, mi lasci andare e sento echeggiare nella notte le soltanto le parole:

 

Strangers in the night 
Two lonely people, we were strangers in the night 
Up to the moment when we said our first hello little did we know 
Love was just a glance away, a warm embracing dance away 

and 
Ever since that night we've been together 
Lovers at first sight, in love forever 
It turned out so right for strangers in the night.

 

 






~Fine

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