Cigarettes & Starbucks

di Oneechan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Prologo

Occhi-azzurri mi guardava sorridendo. Teneva gli occhi fissi su di me senza quasi mai sbattere le palpebre, con un sorriso rilassato a incurvargli appena le labbra. Lo trovai uno spettacolo strano: non mi era ancora mai capitato di vedere qualcuno sorridere mentre stavo in ginocchio sopra di lui con un coltello da cucina in mano.

Me lo rigirai fra le dita a pochi centimetri dalla sua faccia.

- Forza – mi incoraggiò – cosa aspetti?

Guardai il coltello. Solo per il gusto di avere ancora il suo sguardo impaziente addosso mi allungai fino al comodino per prendere una sigaretta, e la accesi con gesti irritantemente lenti. La fiammella dell’accendino si rifletté sulla lama.

- Come preferisci morire? – chiesi a occhi-azzurri. – Ti taglio la gola? O i polsi? Oppure ti pugnalo fino a consumare il coltello e resto a guardarti mentre ti dissangui? – mi chinai su di lui in modo da mettere l’orecchio vicino alle sue labbra. – Dimmi.

Rispose in un sussurro: - Stupiscimi.

Rialzandomi, gli soffiai una boccata di fumo sul viso.

- Sono indecisa. – dichiarai. E lo ero davvero.

Quel suo collo lungo e liscio, le braccia sottili tese verso la testiera del letto, a cui era ammanettato, il petto nudo che si alzava e abbassava al ritmo lento del suo respiro, tutto in lui era un invito. Ogni singola bruciatura e livido e cicatrice sulla sua pelle bianca sembrava una strada già tracciata da far seguire al coltello. Avrei potuto smembrarlo, un pezzetto minuscolo alla volta. Avrebbe urlato, si sarebbe dimenato? Avrei potuto incidergli gli avambracci fino all’osso e poi disegnargli addosso con il suo stesso sangue. Avrebbe pianto? Avrei potuto ucciderlo in decine di modi, e ognuno di questi mi eccitava al solo pensiero.

Tirai un’ultima boccata dalla sigaretta. – Sono davvero molto indecisa. – dissi, e gli premetti violentemente il mozzicone sulla fronte. Chiusi gli occhi e restai ad ascoltarlo gemere di piacere e di dolore mentre la sigaretta gli bruciava la pelle.

- Uccidimi! – mugolò.

Premetti il mozzicone ancora più a fondo. Ucciderlo…sì. Dio, quanta voglia avevo di farlo.

 

1.

Il giorno in cui incontrai occhi-azzurri era iniziato come uno qualsiasi: la fottuta sveglia del fottuto cellulare si era divertita ad avvisarmi con il suo scampanellino irritante che erano le 7.30, e prima di rendermi conto di essere sveglia ero sotto il getto della doccia a cercare di togliermi quel rosso incrostato sotto le unghie. Avrei dovuto essere più attenta la prossima volta, farlo andare via era un casino. Alla fine, decisi che l’avrei coperto con dello smalto.

Il sangue sulle dita non era l’unico ricordo che mi era rimasto di due notti prima: nuda davanti allo specchio mi resi conto di avere – oltre a un notevole numero di graffi sulle braccia – anche un livido su una coscia e uno a livello della clavicola. Ieri non si vedevano ma adesso erano lì, belli rotondi e violacei. Calcio e testata, quel bastardo era riuscito a colpirmi bene prima di morire. Mi riempii di fondotinta per coprirli, infilai i primi vestiti che mi capitarono, raccolsi la borsa e uscii.

Vivevo da un paio d’anni in un monolocale al terzo piano di un palazzo cadente nella periferia di Londra, e a pochi metri da lì c’era uno Starbucks, diventato parte integrante della mia vita: le mie mattine iniziavano sempre allo stesso modo, cioè con un caffè al caramello in una mano e una sigaretta nell’altra da fumare in fretta prima di saltare sulla metropolitana, litigare per un posto a sedere e fare colazione con cookies e barrette al cioccolato mentre il tube mi sballottava fino a Candem Town.

Ma quel giorno il rito venne interrotto alla seconda fase: vedendomi tirare fuori dalla tasca un pacchetto di Lucky Strike, un ragazzo sulla ventina o poco più venne a chiedermi se potevo offrirgliene una. Non avevo motivo di rifiutare.

- Tieni.

- Grazie. – s’infilò la sigaretta fra le labbra e l’avvicinò all’accendino che gli porgevo, e anche quando una debole voluta di fumo cominciò a levarsi dal cilindretto bianco che aveva in bocca restò lì fermo a pochi centimetri dalla fiamma, a guardarla con i grandi occhi azzurri che luccicavano. Dava l’impressione di essere seriamente tentato di avvicinarsi fino a scottarsi, o qualcosa di simile. Per quanto mi sarebbe davvero piaciuto scoprire se l’avrebbe fatto o no, tolsi il pollice dalla rotellina metallica prima che ne avesse il tempo.

- Grazie. – ripeté uscendo da quella specie di trance e raddrizzando la schiena.

- Niente. – buttai l’accendino nella borsa e me ne andai. Occhi-azzurri rimase a fumare appoggiato alla vetrina dello Starbucks mentre io mi avviavo alla stazione della metro.

Se solo avessi saputo che quei trenta secondi mi avrebbero rovinato la vita, non mi sarei comportata così. Se l’avessi saputo, avrei gentilmente annuito al ragazzo per poi prendere quella fottuta sigaretta, accendermela e sputargli in faccia tutto il fumo che la mia bocca poteva contenere, lasciandolo lì sul marciapiede a tossire, libero di rovinare la vita di qualcun altro.

 

Seduto accanto a me sulla metro c’era il classico impiegato in giacca e cravatta con un quotidiano in mano. Vedendomi gettare un’occhiata all’articolo in prima pagina lo girò perché potessi vedere meglio.

- Che roba! – commentò.

- Cos’è successo? – chiesi interessata.

- Ieri hanno ripescato un cadavere dal Tamigi.

- Suicidio?

- Il suo intestino annodato a un palo della luce lascia credere di no.

Sfoggiai la mia migliore espressione disgustata mentre lui iniziava a leggere. Lo vidi scuotere ripetutamente la testa e dovetti concentrarmi intensamente sul cioccolato che stavo mangiando per trattenermi dal sussurrargli all’orecchio “sono stata io!”.

Mi era già capitato di provare questi istinti di autodistruzione, un po’ come quando sei su un ponte e sporgendoti senti la voglia irrefrenabile di buttarti giù. Credo fossero dettati soprattutto dalla curiosità di sapere quale sarebbe stata la reazione dell’impiegato di turno: urla isteriche, telefonate alla polizia, oppure semplicemente non mi avrebbe creduto? Chissà.

Per un certo periodo – ma era stato mesi e mesi prima – avevo anche avuto voglia di un…ricordino, per così dire, una roba squallida da telefilm americano tipo cicatrici o un tatuaggi, uno per ogni vittima. Alla fine naturalmente avevo abbandonato entrambe le idee: le cicatrici perché sono sicuramente una sadica, ma non una masochista, e i tatuaggi perché per quanto potessero piacermi, 17 sarebbero stati decisamente troppi.

Quando l’impiegato scese lasciando il giornale sul sedile lo raccolsi io, infilandolo in fretta nella borsa.

La prossima fermata era la mia.

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.

Candem Town a quell’ora era ancora morta, soltanto un paio di bar avevano già alzato le saracinesche. Mi diressi con tutta calma verso l’immenso magazzino della Cyberdog, dove lavoravo da circa quattro mesi, un impiego di cui ero piuttosto soddisfatta, escluso solo il bisogno di arrivare con almeno mezz’ora di anticipo per adattarsi degnamente all’atmosfera del luogo.

Nei bagni una collega poco più vecchia di me diede un tiro di piastra ai miei capelli e ci attaccò a caso un paio di ciocche blu elettrico, poi mi lasciò a cambiarmi. Una decina di minuti e due bestemmie dopo (come sempre, la gonna che a casa mi andava perfettamente si era ritirata nel tragitto in modo da essere un centimetro esatto più stretta del mio girovita) tornai da lei per la sessione di trucco. A lavoro finito, con una minigonna a cerotto, scarpe con suole di quindici centimetri, le tette strizzate in un corsetto di latex e ombretto sgargiante con tanto di brillanti stelline applicate ai lati degli occhi, sembravo pronta per andare a dar via il culo. E dire che invece avrei solo passato la giornata a piegare magliette e impilarle sugli scaffali…

- Oggi fai anche il pomeriggio, vero? – chiese la mia collega.

- Sì, ma per favore non fatemi ballare. – implorai.  Al piano terra del negozio, tra scale mobili e una distesa di robot incassati alle pareti, delle scalette a pioli bianche portavano a dei minuscoli balconcini, su cui da metà pomeriggio due delle impiegate salivano a turno ad agitare il culo a ritmo di EBM.

- Come mai? Altre proposte oscene?

- Ma va, solo che ho la schiena a pezzi.

Lei mi squadrò da capo a piedi con aria indagatrice e non ci mise più di dieci secondi a notare il fondotinta spalmato sulla mia clavicola.

- Ah-ha! – esclamò dandomi una gomitata complice – Notte intensa?

- Abbastanza. – non specificai che il motivo per cui mi scricchiolava ogni singola vertebra era l’aver sollevato 85 chili di carne morta per gettarli oltre un parapetto.

- E lui come si chiama?

Mi strinsi nelle spalle. – Non ne ho la più pallida idea.

La musica che esplose di punto in bianco annunciò che il negozio stava aprendo e mi diede l’occasione di schizzare al piano inferiore senza dare a Laura il tempo di indagare oltre sulla mia nottata e cambiare l’idea che si era fatta di me.

 

Alle cinque e mezzo del pomeriggio ero in piedi accanto ai binari ad aspettare il treno della Picadilly Line che mi avrebbe riportata a casa: dopo sei ore passate vestita come una zoccola a vagare fra luci al neon e altoparlanti che vomitano elettronica, l’unica cosa che hai voglia di fare è metterti in pigiama e svenire sul primo letto a disposizione.

Esclusi gli occasionali omicidi, ero una persona abbastanza abitudinaria: sveglia, caffè, sigaretta, lavoro, pranzo, lavoro o eventuali commissioni, riposino, passeggiata serale, sigaretta, letto. E siccome ero single e non avevo rapporti sociali più profondi di qualche chiacchierata tra colleghi o con la barista (avevo capito ai tempi del liceo di non essere in grado – e soprattutto che non me ne fregava niente – di voler bene a chicchessia, figuriamoci di amarlo. C’è un nome per questa malattia, ma francamente mi sfugge) non c’era proprio nessuno che potesse disturbare questa mia comoda routine. O almeno, così credevo.

- Hai cambiato scarpe da stamattina. – mi sentii dire mentre passavo davanti allo Starbucks accanto a casa. Il primo pensiero che mi balenò per la mente fu che era vero, avevo dimenticato di cambiarmi. Il secondo, che occhi-azzurri sembrava non essersi mosso di un millimetro da quando l’avevo lasciato davanti a quella vetrina otto ore prima.

- Sei appoggiato lì da stamattina?

- No. – disse allungando la “o” – Sono andato a comprare da mangiare, ho portato i vestiti in lavanderia, ho persino lavorato un po’!

- Attento a non stancarti troppo.

Rise. Aveva una risata limpida e sincera, quel genere di risata troppo sincera per non nascondere qualcosa.

- Mi offriresti un’altra sigaretta?

 

Aprendo la porta dell’appartamento mi accolse il solito odore di chiuso e polvere. Un’altra delle cose, insieme alle macchie di sangue sulla moquette e ai vestiti sporchi in un angolo, di cui non avevo alcuna voglia di preoccuparmi. Il giornale del mattino giaceva ancora sul fondo della mia borsa: strappai l’articolo sull’omicidio per attaccarlo alla parete, accanto a decine di altri collezionati negli anni. Spogliandomi, rilessi qualcuno dei titoli: in fondo, avevo anch’io i miei squallidi souvenir da telefilm americano.

 *

Il giorno dopo, occhi-azzurri era ancora appoggiato alla vetrina.

Anche quello dopo.

E quello dopo.

Ogni volta mi chiedeva da fumare, e ogni volta gli offrivo una sigaretta: volevo vedere fino a quando avrebbe avuto tempo da perdere ad aspettarmi lì. Sono più che convinta che sarebbe andato avanti per mesi, se il pomeriggio del quinto giorno non gli avessi detto la fatidica frase: - Devi trovarti un altro accendino, il mio è scarico.

- Accidenti… - sospirò come se la strada non fosse piena di fumatori. Poi gli s’illuminò lo sguardo come se avesse avuto un’idea brillante. – Tu abiti da queste parti?

- Il motivo per cui me lo chiedi?

- Pensavo che magari a casa hai un accendino di riserva…

C’erano molte domande che avrei voluto fargli: perché ti stai auto invitando a casa mia? I tuoi occhi hanno davvero quel colore o sono lenti a contatto? Perché sono giorni che chiedi sigarette a me invece di fumare quelle del pacchetto che hai in tasca? Dettagli del genere.

Non gliele feci.

- Credo ce ne sia uno.

Percorremmo i duecento metri che ci separavano dal mio palazzo in silenzio. Mentre aprivo il portone in basso gli dissi di salire con me, perché non mi sarei fatta su e giù tre piani di scale per portargli un accendino. Non fece nemmeno finta che non fosse esattamente quello che voleva.

Quello che non voleva, però, era essere lasciato sul pianerottolo quando arrivammo al mio appartamento.

- Posso entrare? – chiese con tono falsamente disinteressato.

- No.

Gli chiusi la porta in faccia, cercai un accendino nel casino che c’era per terra, la riaprii e glielo porsi. Lo prese. Accese la sigaretta che mi aveva scroccato prima. Me lo restituì.

E restò a fissarmi.

- Bene, adesso che sei riuscito ad arrivare fin qui puoi anche dirmi cosa vuoi da me. – sbottai dopo un po’.

Silenzio. Il guardava il fumo nell’aria e poi me, sorridendo.

Cominciavo a pentirmi di averlo lasciato salire.

- Senti, ragazzino, dimmi quello che devi oppure sparisci, perché sono stanca e l’unica cosa che voglio è farmi una doccia e mettermi a letto.

Niente.

E va bene, per quel che mi riguardava poteva restare lì sul pianerottolo anche fino a domattina. Feci per richiudere la porta, ma la bloccò con un piede.

- Toglilo. – gli ordinai.

- Mi lasci entrare?

- No.

- So chi sei.

- Complimenti, non pensavo che i giovani d’oggi sapessero ancora leggere i nomi sui campanelli. Adesso togli quel piede o te lo rompo.

- Lo sai che c’è stato un omicidio l’altro giorno?

- Il mondo è crudele. Vattene.

- Lo sai chi è stato?

- No, e nemmeno m’interessa saperlo.

- Io lo so.

- Mi fa piacere. Allora perché non vai a dirlo alla polizia e mi lasci andare a dormire?

Rise. – Posso farlo, se vuoi. Ma sei così impaziente di essere denunciata?

Stavo per mettere in atto la mia minaccia di fracassargli il piede destro e l’All Star che lo conteneva, ma mi bloccai.

- Come, scusa?

- So che sei stata tu. – disse facendo un tiro, perfettamente rilassato – Ti ho vista.

 

Ora, poteva essere vero come no.

Ma se accusi una perfetta sconosciuta di omicidio e guarda caso la sconosciuta in questione ha davvero ammazzato qualcuno, c’è una buona percentuale di fottute possibilità che tu in effetti ne sappia qualcosa.

 

E ci sono anche buone probabilità che tu sia un idiota se poi vai solo e disarmato a dirlo all’assassino.

 

Potevo ammazzarlo lì, sul quel pianerottolo.

Potevo lasciarlo entrare, o trascinarlo dentro, e poi sarebbe stato un gioco da ragazzi. Potevo soffocarlo. Annegarlo nel lavandino. Impiccarlo al lampadario, sembrava abbastanza leggero da non farlo venire giù. O la classica pugnalata, ma solo dopo essermi tolta lo sfizio di distruggergli davvero quel piede con un martello o un paio di forbici.

E l’avrei fatto.

Ero già pronta ad afferrarlo per la gola, quando sentii dei passi lungo le scale.

La vicina del piano di sopra, sessant’anni e due borse della spesa, passò arrancando sotto il peso degli asparagi e delle scatolette di tonno. Prima di ricominciare a salire le scale, azzardò un “Buonasera!”, e occhi-azzurri, maledetto, si voltò e rispose cordialmente al saluto.

La vicina del piano di sopra sparì lentamente mentre il mio respiro si faceva sempre più irregolare.

Occhi-azzurri emise un verso simile a un sospiro.

- Ho come l’impressione che quella donna mi abbia appena salvato la vita. – disse tornando a guardarmi.

- Sì, l’ha fatto. – sibilai aprendo la porta – Entra, piccolo bastardo. Adesso abbiamo davvero qualcosa di cui parlare, noi due.

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Capitolo 3
*** 3. ***


Si guardava intorno come un bambino in una cristalleria: trovava ogni cosa interessante, ma sapeva di non dover toccare niente.

Chiusi la porta a doppia mandata alle sue spalle e m’infilai la chiave in tasca per assicurarmi che, qualunque piega avesse preso la nostra conversazione, non potesse svignarsela senza il mio permesso.

Si voltò allungando un braccio, come se volesse presentarsi.

- Comunque, io sono…

- Non m’interessa chi cazzo sei. – lo interruppi bruscamente – Siediti.

Obbedì, e si lasciò cadere sul letto sfatto. – Ce l’hai una birra? – chiese.

- Non sei mio ospite, sei solo una scocciatura che mi sta rovinando la giornata. La birra te la prenderai quando sarai fuori, ammesso che uscirai da qui sulle tue gambe.

Presi la sedia dalla scrivania e mi piazzai di fronte a lui.

- Allora. Cos’hai di interessante da raccontarmi?

- Sei un’assassina.

- Supponiamo per un istante che sia vero. Come lo sai?

- Ti ho vista.

- Facciamo finta che io ti creda. Quando?

- La notte di martedì scorso, sul Blackfriars Bridge. Hai buttato il cadavere di un uomo giù dal parapetto dopo averlo sventrato.

- Però. E immagino che i giornali questo non l’abbiano scritto, vero? – lo afferrai per il colletto – Stai giocando col fuoco, ragazzino, ed è molto, molto pericoloso. Voglio sapere perché lo stai facendo proprio con me.

- Perché sei la persona che cerco. Perché so cosa sei capace di fare.

- Tu non mi hai visto fare un bel niente, e lo sappiamo tutti e due. Non hai la più pallida idea di chi sia l’assassino di quel tizio.

- Tu.

- Non è vero.

- Hai una parete coperta di articoli di cronaca nera.

- Sono un’eccentrica che s’interessa ai casi di omicidio.

- Quei vestiti sono sporchi di sangue.

- Mi sono tagliata mentre cucinavo.

- È pieno di roba in scatola qui, tu non cucini.

- Mi sono tagliata e basta, non sono affari tuoi. – ringhiai – Dimmi perché dovrei crederti.

Mi guardò con aria di sfida e nei suoi occhi ricomparve quel lampo d’innocenza che gli avevo visto mentre rideva. – Erano le 2 e 37 esatte quando sei arrivata. Trascinavi quel tizio per le spalle, era svenuto ma respirava ancora. Hai percorso solo pochi metri del ponte, probabilmente stavi facendo troppa fatica, sembrava avessi male da qualche parte. Indossavi una giacca chiara che poi hai ripiegato nella borsa prima di andare via. Siccome non c’era nessuno te la sei presa comoda, gli hai piantato la lama di un coltellino svizzero in un lato del collo e poi hai tagliato di netto fino dall’altra parte. Gli hai aperto la pancia, hai srotolato un paio di metri di intestino e ci hai fatto un origami attorno a un palo, poi hai preso lui e l’hai buttato di sotto. Gli era caduto qualcosa dalla tasca, penso un cellulare, l’hai raccolto e lanciato nel Tamigi. Poi te ne sei andata. Anche questo l’hanno scritto i giornali?

- Non era un cellulare. Era il suo portafoglio.

- Hey, era buio. Non potevo certo avvic-

Quando mi resi conto di aver spostato la mano dalla sua maglia al suo collo, era già per terra e io sopra di lui.

La sigaretta gli sfuggì dalle labbra e cadde lasciando un altro cerchiolino bruciato sul mio già logoro tappeto, mentre occhi-azzurri boccheggiava senza cercare di liberarsi dalla mia presa.

Guardai i suoi occhi appannarsi mentre il suo cuore batteva all’impazzata.

Gliel’avrei strappato, quel cuoricino palpitante, l’avrebbero ritrovato stretto fra le dita rigide del suo cadavere senz’occhi, quegli occhio così blu che avrei trasformato in gioielli e indossato mentre trattavo il suo corpo come un delizioso giocattolo da fare a pezzi…

Mentre stavo praticamente sbavando all’idea, lui non reagiva.

Potevo avergli fatto male sbattendolo a terra, ma diavolo, non abbastanza da non poter almeno provare a lottare contro una morte così violenta e dolorosa. Realizzai che mi stava semplicemente lasciando fare. Mi stava permettendo di ucciderlo.

Fu questo particolare a farmi risvegliare di colpo dalla trance in cui la rabbia mi aveva fatto sprofondare.

Mi costrinsi a lasciarlo e ad allontanare le mani da lui. Non fu una passeggiata: mi sentivo come un cane da caccia costretto a mollare la lepre dopo averla inseguita per tutto il bosco, ma alla fine riuscii a rialzarmi e fare qualche passo indietro mentre il petto di occhi-azzurri si alzava e abbassava freneticamente e il suo respiro provava a tornare regolare.

Asciugai la goccia di sudore freddo che mi stava scivolando lungo la fronte.

- Tu adesso esci da qui e non ti fai mai più vedere. – sibilai sforzandomi di restare calma – Dimenticati di me, e andrà tutto bene. Ma di una parola, una sola parola a chicchessia, e giuro che ti ammazzo come un cane.

- Perfetto. – dichiarò, la voce ancora strozzata – E’ esattamente quello che voglio.

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