2.
Candem
Town a
quell’ora era ancora morta, soltanto un paio di bar avevano
già alzato le
saracinesche. Mi diressi con tutta calma verso l’immenso
magazzino della
Cyberdog, dove lavoravo da circa quattro mesi, un impiego di cui ero
piuttosto
soddisfatta, escluso solo il bisogno di arrivare con almeno
mezz’ora di
anticipo per adattarsi degnamente all’atmosfera del luogo.
Nei
bagni una
collega poco più vecchia di me diede un tiro di piastra ai
miei capelli e ci
attaccò a caso un paio di ciocche blu elettrico, poi mi
lasciò a cambiarmi. Una
decina di minuti e due bestemmie dopo (come sempre, la gonna che a casa
mi
andava perfettamente si era ritirata nel tragitto in modo da essere un
centimetro esatto più stretta del mio girovita) tornai da
lei per la sessione di
trucco. A lavoro finito, con una minigonna a cerotto, scarpe con suole
di
quindici centimetri, le tette strizzate in un corsetto di latex e
ombretto sgargiante
con tanto di brillanti stelline applicate ai lati degli occhi, sembravo
pronta
per andare a dar via il culo. E dire che invece avrei solo passato la
giornata
a piegare magliette e impilarle sugli scaffali…
-
Oggi fai
anche il pomeriggio, vero? – chiese la mia collega.
-
Sì, ma per
favore non fatemi ballare. – implorai.
Al piano terra del negozio, tra scale mobili e una distesa
di robot
incassati alle pareti, delle scalette a pioli bianche portavano a dei
minuscoli
balconcini, su cui da metà pomeriggio due delle impiegate
salivano a turno ad
agitare il culo a ritmo di EBM.
-
Come mai?
Altre proposte oscene?
-
Ma va, solo
che ho la schiena a pezzi.
Lei
mi
squadrò da capo a piedi con aria indagatrice e non ci mise
più di dieci secondi
a notare il fondotinta spalmato sulla mia clavicola.
-
Ah-ha! –
esclamò dandomi una gomitata complice – Notte
intensa?
-
Abbastanza.
– non specificai che il motivo per cui mi scricchiolava ogni
singola vertebra
era l’aver sollevato 85 chili di carne morta per gettarli
oltre un parapetto.
-
E lui come
si chiama?
Mi
strinsi
nelle spalle. – Non ne ho la più pallida idea.
La
musica che
esplose di punto in bianco annunciò che il negozio stava
aprendo e mi diede
l’occasione di schizzare al piano inferiore senza dare a
Laura il tempo di
indagare oltre sulla mia nottata e cambiare l’idea che si era
fatta di me.
Alle
cinque e
mezzo del pomeriggio ero in piedi accanto ai binari ad aspettare il
treno della
Picadilly Line che mi avrebbe riportata a casa: dopo sei ore passate
vestita
come una zoccola a vagare fra luci al neon e altoparlanti che vomitano
elettronica, l’unica cosa che hai voglia di fare è
metterti in pigiama e
svenire sul primo letto a disposizione.
Esclusi
gli
occasionali omicidi, ero una persona abbastanza abitudinaria: sveglia,
caffè,
sigaretta, lavoro, pranzo, lavoro o eventuali commissioni, riposino,
passeggiata
serale, sigaretta, letto. E siccome ero single e non avevo rapporti
sociali più
profondi di qualche chiacchierata tra colleghi o con la barista (avevo
capito
ai tempi del liceo di non essere in grado – e soprattutto che
non me ne fregava
niente – di voler bene a chicchessia, figuriamoci di amarlo.
C’è un nome per
questa malattia, ma francamente mi sfugge) non c’era proprio
nessuno che
potesse disturbare questa mia comoda routine. O almeno, così
credevo.
-
Hai
cambiato scarpe da stamattina. – mi sentii dire mentre
passavo davanti allo
Starbucks accanto a casa. Il primo pensiero che mi balenò
per la mente fu che
era vero, avevo dimenticato di cambiarmi. Il secondo, che occhi-azzurri
sembrava non essersi mosso di un millimetro da quando l’avevo
lasciato davanti
a quella vetrina otto ore prima.
-
Sei
appoggiato lì da stamattina?
-
No. – disse
allungando la “o” – Sono andato a
comprare da mangiare, ho portato i vestiti in
lavanderia, ho persino lavorato un po’!
-
Attento a
non stancarti troppo.
Rise.
Aveva
una risata limpida e sincera, quel genere di risata troppo sincera per
non
nascondere qualcosa.
-
Mi
offriresti un’altra sigaretta?
Aprendo
la
porta dell’appartamento mi accolse il solito odore di chiuso
e polvere.
Un’altra delle cose, insieme alle macchie di sangue sulla
moquette e ai vestiti
sporchi in un angolo, di cui non avevo alcuna voglia di preoccuparmi.
Il
giornale del mattino giaceva ancora sul fondo della mia borsa: strappai
l’articolo sull’omicidio per attaccarlo alla
parete, accanto a decine di altri
collezionati negli anni. Spogliandomi, rilessi qualcuno dei titoli: in
fondo,
avevo anch’io i miei squallidi souvenir da telefilm americano.
*
Il
giorno
dopo, occhi-azzurri era ancora appoggiato alla vetrina.
Anche
quello
dopo.
E
quello
dopo.
Ogni
volta mi
chiedeva da fumare, e ogni volta gli offrivo una sigaretta: volevo
vedere fino
a quando avrebbe avuto tempo da perdere ad aspettarmi lì.
Sono più che convinta
che sarebbe andato avanti per mesi, se il pomeriggio del quinto giorno
non gli
avessi detto la fatidica frase: - Devi trovarti un altro accendino, il
mio è
scarico.
-
Accidenti…
- sospirò come se la strada non fosse piena di fumatori. Poi
gli s’illuminò lo
sguardo come se avesse avuto un’idea brillante. –
Tu abiti da queste parti?
-
Il motivo
per cui me lo chiedi?
-
Pensavo che
magari a casa hai un accendino di riserva…
C’erano
molte
domande che avrei voluto fargli: perché ti stai auto
invitando a casa mia? I
tuoi occhi hanno davvero quel colore o sono lenti a contatto?
Perché sono
giorni che chiedi sigarette a me invece di fumare quelle del pacchetto
che hai
in tasca? Dettagli del genere.
Non
gliele
feci.
-
Credo ce ne
sia uno.
Percorremmo
i
duecento metri che ci separavano dal mio palazzo in silenzio. Mentre
aprivo il
portone in basso gli dissi di salire con me, perché non mi
sarei fatta su e giù
tre piani di scale per portargli un accendino. Non fece nemmeno finta
che non
fosse esattamente quello che voleva.
Quello
che
non voleva, però, era essere lasciato sul pianerottolo
quando arrivammo al mio
appartamento.
-
Posso
entrare? – chiese con tono falsamente disinteressato.
-
No.
Gli
chiusi la
porta in faccia, cercai un accendino nel casino che c’era per
terra, la riaprii
e glielo porsi. Lo prese. Accese la sigaretta che mi aveva scroccato
prima. Me
lo restituì.
E
restò a
fissarmi.
-
Bene,
adesso che sei riuscito ad arrivare fin qui puoi anche dirmi cosa vuoi
da me. –
sbottai dopo un po’.
Silenzio.
Il
guardava il fumo nell’aria e poi me, sorridendo.
Cominciavo
a
pentirmi di averlo lasciato salire.
-
Senti, ragazzino,
dimmi quello che devi oppure sparisci, perché sono stanca e
l’unica cosa che
voglio è farmi una doccia e mettermi a letto.
Niente.
E
va bene,
per quel che mi riguardava poteva restare lì sul
pianerottolo anche fino a
domattina. Feci per richiudere la porta, ma la bloccò con un
piede.
-
Toglilo. –
gli ordinai.
-
Mi lasci
entrare?
-
No.
-
So chi sei.
-
Complimenti, non pensavo che i giovani d’oggi sapessero
ancora leggere i nomi
sui campanelli. Adesso togli quel piede o te lo rompo.
-
Lo sai che
c’è stato un omicidio l’altro giorno?
-
Il mondo è
crudele. Vattene.
-
Lo sai chi
è stato?
-
No, e
nemmeno m’interessa saperlo.
-
Io lo so.
-
Mi fa
piacere. Allora perché non vai a dirlo alla polizia e mi
lasci andare a
dormire?
Rise.
– Posso
farlo, se vuoi. Ma sei così impaziente di essere denunciata?
Stavo
per
mettere in atto la mia minaccia di fracassargli il piede destro e
l’All Star
che lo conteneva, ma mi bloccai.
-
Come, scusa?
-
So che sei
stata tu. – disse facendo un tiro, perfettamente rilassato
– Ti ho vista.
Ora,
poteva
essere vero come no.
Ma
se accusi
una perfetta sconosciuta di omicidio e guarda caso la sconosciuta in
questione
ha davvero ammazzato qualcuno,
c’è
una buona percentuale di fottute possibilità che tu in
effetti ne sappia
qualcosa.
E
ci sono
anche buone probabilità che tu sia un idiota se poi vai solo
e disarmato a
dirlo all’assassino.
Potevo
ammazzarlo lì, sul quel pianerottolo.
Potevo
lasciarlo entrare, o trascinarlo dentro, e poi sarebbe stato un gioco
da
ragazzi. Potevo soffocarlo. Annegarlo nel lavandino. Impiccarlo al
lampadario,
sembrava abbastanza leggero da non farlo venire giù. O la
classica pugnalata,
ma solo dopo essermi tolta lo sfizio di distruggergli davvero quel
piede con un
martello o un paio di forbici.
E
l’avrei
fatto.
Ero
già
pronta ad afferrarlo per la gola, quando sentii dei passi lungo le
scale.
La
vicina del
piano di sopra, sessant’anni e due borse della spesa,
passò arrancando sotto il
peso degli asparagi e delle scatolette di tonno. Prima di ricominciare
a salire
le scale, azzardò un “Buonasera!”, e
occhi-azzurri, maledetto, si voltò e
rispose cordialmente al saluto.
La
vicina del
piano di sopra sparì lentamente mentre il mio respiro si
faceva sempre più
irregolare.
Occhi-azzurri
emise un verso simile a un sospiro.
-
Ho come
l’impressione che quella donna mi abbia appena salvato la
vita. – disse
tornando a guardarmi.
-
Sì, l’ha
fatto. – sibilai aprendo la porta – Entra, piccolo
bastardo. Adesso abbiamo
davvero qualcosa di cui parlare, noi due.
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