100 Stories for HIM

di DubheShadow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Indice ***
Capitolo 2: *** For Love In Limbo ***
Capitolo 3: *** Beyond Redemption ***
Capitolo 4: *** Beautiful ***
Capitolo 5: *** Behind The Crimson Door ***
Capitolo 6: *** In Love And Lonely ***
Capitolo 7: *** I'Ve Crossed Oceans Of Wine To Find You ***
Capitolo 8: *** Rip Out The Wings Of A Butterfly ***
Capitolo 9: *** Salt In Our Wounds ***
Capitolo 10: *** Close To The Flame ***
Capitolo 11: *** When Love And Death Embrace ***
Capitolo 12: *** Ikkunaprinsessa ***



Capitolo 1
*** Indice ***


1 - For Love In Limbo

Genere: Song-fic, Malinconico, Introspettivo

Riassunto: Una ragazza ha perso il suo giovane amico, un gatto a cui è molto legata. Il suo nome è Talvi, ovvero “Inverno” se tradotto dal finlandese. Potrà il suono di un carillon riportarlo a casa?

Personaggi: Una ragazza, un gatto

Note: E' il primo ad essere stato scritto, perciò conserva un significato un po' acerbo e alcuni punti da sviluppare, soprattutto perché a quei tempi non avevo ben chiara l'idea del progetto in cui stavo per inoltrarmi. Nonostante ciò considero che sia il racconto associato alla migliore canzone degli HIM, o quantomeno la mia preferita, e merita una lettura.

 

2 - Beyond Redemption

Genere: Song-fic, Dark, Horror

Riassunto: Lo strascico di un omicidio e la sua ricerca infinita di perdono prendono spazio in un angusto vicolo della città. Si implora la redenzione, ma sarà così facile conquistarla?

Personaggi: Una ragazza, un angelo

Note: Piuttosto forte, da un target giallo. È il più spinto della raccolta, ma la sua brevità ne limita l’effetto sui lettori. In ogni caso un tentativo di trasmettere dolore con toni che richiamano certi film horror, non privo di vene gotiche. Su esso non c’è molto da dire poiché è stato sviluppato poco: anch’esso, una volta concluso il progetto, meriterà una revisione.

 

3 – Beautiful

Genere: Song-fic, Romantico, Introspettivo

Riassunto: Un paesaggio da sogno, che ricorda vagamente le vaste foreste finlandesi, funge da sfondo per un timido incontro. Una giovane coppia passa la giornata dichiarandosi il suo amore, contemplando la bellezza unica che si può nascondere anche nel particolare più modesto.

Personaggi: Una ragazza, un ragazzo

Note: Bellissimo come il titolo della canzone da cui prende spunto. Romantico fino alla radice, e con vasto spazio a descrizioni di cui sono piuttosto soddisfatta. In sé non ha una trama tangibile, sono azioni che comprendono poche ore, ma che cercano di racchiudere il significato di un amore candido e non per questo  meno malinconico.

 

4 - Behind The Crimson Door

Genere: Song-fic, Fantasy, Dark

Riassunto: Siamo al funerale del tempo perduto. Un incendio porta le lancette a toccare per un istante il Paradiso, permette loro di inebriarsi di qualcosa di vero. Poi, lo strappo, il ritorno a una terra bruciata e logora, ignobile.

Personaggi: Svariate lancette d’orologio, cinque uomini non meglio identificati

Note: Ci ho impiegato diversi giorni per redigerlo, e sono abbastanza soddisfatta del risultato. Forse è il primo racconto in cui sono riuscita a intingere tutto il simbolismo esplicitato nel testo della canzone, e ciò mi rende quasi orgogliosa poiché indica che sto facendo un buon lavoro. È un vorticare di sensazioni fantastiche che racchiudono un significato segreto.

 

5 - In Love And Lonely

Genere: Song-fic, Introspettivo, Drammatico

Riassunto: “Dopo che si è conosciuto l’abisso, anche il misero gradino che lo precede viene chiamato paradiso.” Ed è anche vero che certe delusioni non passano facilmente, o almeno non come il sole sorge e tramonta sul tuo dolore.

Personaggi: Un ragazzo, una ragazza

Note: Ha una piega fra il realistico e il pessimistico, quasi privato della nota fantasy che ho voluto dare a ogni scritto, ma spero non per questo meno originale. I caratteri dei due protagonisti cercano di trasparire dalla descrizione abbozzata e dal breve dialogo, quasi a stereotipare i modelli attuali, quasi a delineare essi stessi la struttura del testo.

 

6 - I’ve Crossed Oceans Of Wine To Find You

Genere: Song-fic, Sovrannaturale, Dark

Riassunto: Una girandola… cosa ci fa una girandola in mezzo ad un prato? E perché ogni cosa, ogni angolo del paesaggio, sembra più viva degli stessi giovani che ci camminano su? Nello stravolgimento delle regole si nasconde l’inizio di ogni logica.

Personaggi: Una ragazza, un ragazzo

Note: Secondo alcuni si tratta del mio lavoro migliore. Ci ho messo un grande impegno nello scriverlo, non lo nego, e di tutti è quello che ho rivisto più spesso e che posso considerare alla stregua del più completo. Ho amato l'atmosfera surreale, che in realtà permea un po' tutti i miei scritti, ma che in questo caso si trasforma in qualcosa di essenziale ai fini della storia, un mondo che diventa autore, nel primo piano, e risalta anche più dei personaggi. Personaggi che nel loro amore timido e cieco, non sono altro che distruttori di loro stessi.

 

7 - Rip Out The Wings Of A Butterfly

Genere: Song-fic, Introspettivo, Drammatico

Riassunto: Se vi fermate un attimo ad osservare le farfalle, vi accorgereste che anch’esse nascondono un segreto. Ma scoprirlo non è sempre indolore, specie se dietro c’è un tragico compromesso e un inganno infantile.

Personaggi: Una bambina, un padre, delle farfalle

Note: Qui ho prodotto qualcosa di più corposo e con una trama stabile e concreta. Nonostante apprezzi certe note gotiche presenti negli scritti precedenti, qui esse fanno capolino solo in piccoli punti, e restano sempre un po' nascoste da un velo di realtà incantata. Mi piace come sia riuscita a caratterizzare bene i due personaggi, e rendere dell'azione crudele non tanto una carneficina prospettata, quanto un atto ingenuo di un uomo disperato.

 

8 - Salt In Our Wounds

Genere: Song-fic, Dark, Introspettivo

Riassunto: È quasi un viaggio all’interno della prigione del sogno. È un labirinto che ti racchiude, è paura che si dissolve con un nuovo e trepidante giorno. È il sale che brucia nelle tue cicatrici, come se fosse mistura di errori e grazie del cielo.

Personaggi: Una ragazza

Note: Qui ho sottolineato una vena confusionaria, la paura e il timore del domani, la sofferenza di un amore inspiegabile, tutti concetti facilmente riscontrabili nel testo della canzone presa in esame. Per quanto riguarda la forma, non è delle migliori, ma ho dovuto utilizzare la seconda persona per rendere più realistici certi ammonimenti accennati durante il racconto.

 

9 - Close To The Flame

Genere: Song-fic, Introspettivo, Slice of life

Riassunto: Il deserto. Caldo. Distante. Diverso da quella città così glaciale perfino in piena estate, tutta ferro e asfalto.” Forse anche un luogo verso cui fuggire, di nuovo, ancora.

Personaggi: Un uomo, una donna

Note: Scritto dopo una lunga pausa. È partito come un racconto più lungo, con una seconda parte che infine ho completamente tagliato. Forse è anche un po’ per questo che lo scritto sembra incompleto, ma l’obiettivo che volevo rappresentare, le emozioni che vi volevo intingere… beh, quelle ci sono tutte, perfette, immutate dalle continue revisioni di cui la Song-fic è stata vittima.

 

10 - When Love And Death Embrace

Genere: Song-fic, Dark, Slice of life

Riassunto: “L’abito è bianco, e bianco è il dolore”. La riscoperta di qualcosa ancora celato è il tema delle parole: alla fine, sarà la musica a trovare la strada del ritorno, quando tutto sembrava oramai perduto.

Personaggi: Una ragazza

Note: Una goccia di vita quotidiana intinta in una pozione di grottesco. Ecco la descrizione più adatta a questo racconto, un misto in cui, per certi brevi momenti, ci si potrebbe sentire protagonisti e affini alla ragazza in questione, per poi sussultare ad una manciata di dark che s’infiltra come fumo dalle fessure di una finestra, e ti avvolge nel suo affascinante mistero.

 

11 - Ikkunaprinsessa

Genere: Song-fic,Introspettivo, Malinconico

Riassunto: Lauri è un mendicante, o così può sembrare, osservandolo suonare agli angoli delle strade di Helsinki. Fra stracci di vita quotidiana, verrà narrato il timido passo verso un amore nascosto, che saprà portar via il passato ed aprire il giovane a un nuovo futuro.

Personaggi: Lauri Koivun Onnea, Johanne, Jonsu Onnea

Note: Come dire, il gran finale per una canzone altrettanto stupenda? O forse no. Semplicemente, la storia di un giovane che ama la musica, e che, al battere del suo cuore, crescerà in spirito come un fiore della notte. I nomi dei personaggi sono inventati, così come i personaggi stessi: l’ambientazione solo è realistica, così come la citazione a eventi o strade di Helsinki, eccezione fatta per il negozio di robivecchi. È stata una casuale decisione chiamare il protagonista Lauri (nome del cantante dei Rasmus) e la sua giovane madre Jonsu (nome della cantante delle Indica), poiché con i rispettivi personaggi famosi non hanno nulla a che fare.

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Capitolo 2
*** For Love In Limbo ***


 Il ramo di ginepro vibra sotto il peso di un frammento di ghiaccio, condensato nel freddo inverno sulla sua sottile punta. Dall’incantevole stalattite illuminata da un gelido sole, gocciolano lievi stille azzurrine. Cadono e si poggiano ritmicamente sul manto di neve fresca, lasciando un piccolo solco, quasi impercettibile, come unico segno del loro passaggio.

 Dal frammento di ghiaccio, se si avvicina lo sguardo e si socchiudono le palpebre, si scorge qualcosa che danza all’interno. Aspetta. Si muove e riflette, alza leggermente la veste. Ci sta raccontando una storia.

 Perché l’acqua che scorre, e che noi osserviamo in questo inverno lontano, prima ha saputo assistere paziente ad ere di vecchi racconti da narrare nella sua vita novella.

 Nel ghiaccio, la nostra figura è abbigliata di una giacca di lana cucita a mano, la fattura mutevole e morbida celebra sere passate a filare davanti a un camino come unica luce. È scalza, che danza sulle punte dei piedi, e sopporta il gelo; con le mani ci invita a raggiungerla nel suo piccolo universo di misteri e segreti. Ci prende e trascina, via, con sé, presi dal suo vortice di silenziosa passione. E si precipita, prigionieri del ghiaccio.

«Talvi! Talvi, dove sei finito?» la giovane fruga un po’ ansiosa fra i cespugli denudati, scuote gli arbusti provocando cascate di neve, chiama nel bosco un solo nome che riecheggia, subito riassorbito dal riflettersi mite dei tronchi lignei. Nella sua ricerca disperata, si ferisce a del filo spinato. Inciampa, cadendo sul terreno gelido, mentre il ferro acuminato si fa strada nel suoi piedi fragili e sottili, non protetti.

 Le rifugge un grido, e piccole gocce rosse lasciano una scia di orme funeste. Il sole batte e comincia a sciogliere i residui dell’ultima nevicata, trasforma il candido e il bianco in una poltiglia quasi fangosa e spiacevole al tatto.

 Ma la giovane prosegue il cammino. «Talvi? Talvi, dove sei?»

 È tardi per cercare il suo gattino. Mentre il sangue ricorda il fatuo percorso, vermiglio liquido delicatamente baciato dal sole, lei ritorna sconfitta nella sua dolce dimora. Nel bosco, due occhi velati d’oro la inseguono a distanza, e il tintinnare di un campanellino d’argento passa inosservato.

 Nella sua stanza, dall’alto della torre isolata, non si medica i piedi. Prende il carillon che ha sempre tenuto poggiato sul comodino, lo adagia sul davanzale della finestra. Lo carica girando con lentezza studiata la rotellina, lo sguardo offuscato da reminiscenze che non attendono musica per riprendere a danzare in testa.

 L’oggetto, sferzato da un vento pungente, coraggioso apre le sue spire al mondo. Dall’ovale ricamato d’oro, spuntano due figure che al ritmo delle soffici note girano su se stesse, si abbracciano mortalmente per terminare il gioco con un bacio fatale. Lo scrigno si richiude sul loro incantevole funerale, su una bellezza fuggevole e ambigua che si costringe a replicarsi ogni volta uguale, identica a com’era prima. Perfetta.

 E dalla finestra ricorrono le sferzate a reclamare i loro gridi di protesta, perché nel gelido inverno l’amore è come sangue gettato su neve fresca: mortale e impossibile.

 Il carillon cade, precipita giù dalla torre infrangendosi sul ghiaccio di una lamina d’acqua, cristallizzata dal freddo come un incubo impresso fra scarti di fantasie distorte.

 La giovane osserva, muta, si porta una mano alla bocca e trattiene un sospiro. Le due anime sono spirate da una breccia dello scrigno d’oro dipinto, e ora, come ad esalare un ultimo e tenue respiro, salgono trascinate da magici refoli di vento.

 Dalle soglie del bosco, s’affaccia un gatto. Cammina soffice finché non raggiunge il luogo dell’immutabile delitto. Alza gli occhi e li punta sulla figura sporta leggermente dall’anfratto della finestra. È sguardo impaurito, e innocente è la piega della sua bocca sottile.

«Talvi…» sussurra la giovane. Si precipita verso le scale, e corre, corre per arrivare veloce dal suo amato animale.

 Quando giunge nel tranquillo giaciglio del carillon, Talvi non c’è. La ragazza cade in terra, scossa dai singulti per l’amore perduto. Il dono di un amore più grande e lontano, di cui nelle notti rammenta il suono musicale della voce suadente, il tocco gentile delle mani ammalianti.

 Le sue lacrime formano un cuore di fessure fra la neve sciolta. Sul riflesso delle schegge di ghiaccio rivede sagome non sue, ma volti di amanti di mondi dispersi, occhi che rispecchiano la sua stessa disperazione striata di strazi. Fra essi, l’ombra dell’altra sua metà, dissipata da frescure più nuove.

 Ragazzina pallida e silenziosa, chissà quale è il tuo nome. Sarà favoleggiante e rivestito di velluti preziosi, intarsiato da rare gemme e filigrane argentate, sarà leggiadro, amabile. Ma sarà vero, reale, o visione e miraggio?

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Capitolo 3
*** Beyond Redemption ***


 Un grido squarcia l’aria. Nel vicolo, al buio di una luna nera, s’imprime un silenzio sovrannaturale.

 Una giovane vestita di stracci stringe nella mano destra un cuore. Lo si vede quasi pulsare, vibrare morbido nella sua stretta massacrante. La sinistra tiene un pugnale insanguinato, l’impugnatura intarsiata a formare il volto del diavolo.

 Gli occhi della ragazza sono rossi, così come i rubini incastonati nell’arma di Satana.

 Il cuore palpita, veloce, ritmico, non muore. Il suo battere è incessante, lo si vede fuoriuscire dalle fessure fra un dito e l’altro della mano della fanciulla, le vene lacerate pompano fuori fiumi di sangue. Finché non si trasforma in pietra, fredda e gelida, che assorbe nel suo tenue grigio ogni stilla, immobilizza la vita, la conserva al suo interno come una briciola intrinseca circondata da meste dipartite.

 La giovane getta il sasso contro il muro, lo guarda frantumarsi in una polvere sottile e lasciare un solco nel muro di mattoni.

 È carponi, non riesce ad alzarsi perché debole, sporca e lercia, con i capelli oleosi e neri raccolti in ciuffi selvaggi. È una belva prigioniera della civiltà. Striscia sul lastricato ruvido, muove come un animale a caccia i suoi arti sproporzionatamente lunghi.

 Sul suo viso nasconde cicatrici dalle forme sensuali, che quasi scintillano nella notte buia, piccoli tagli sulla pelle scura che la interrompono a tratti.

 Quello stesso viso un tempo conteneva bellezza e splendore, ora strappati e laceri come cenci di naufraghe vele; quegli occhi nascondevano l’entrata di un paradiso segreto, adesso marcito nel solitario sepolcro di un odio insano.

 Nella stretta e deserta stradina trova una porta dimessa. Batte spenta le nocche sul legno mangiato dalle tarme e che trascina i segni di un incendio passato, la sua forza di pochi istanti prima smorzata da poteri assurdi, incomprensibili, trascendenti dal male.

 Apre qualcuno.

«Redenzione» grida con voce roca, da arpia agonizzante, «Redenzione per la figlia del Dio!»

 L’uscio si richiude con uno scatto secco.

 La ragazza cade sul selciato. Si addormenta a pochi passi dal suo tentativo mancato, scossa da tremori nervosi figli dell’incoscienza.

 Poco dopo, scende una figura dal cielo. Ha ali d’angelo dipinte di nero. La prende in braccio e la conduce con sé ancora assopita, imprigionandola dentro un cimitero cupo, circondato da floridi cipressi. Dall’alto del suo volo, la lascia cadere nel campo dei morti.

 Lei si sveglia, si volta stranita, finché non comprende. Vorrebbe alzarsi, urlare, fuggire da quel luogo.

 Ma riesce solo a mormorare fra le labbra secche - preghiere inaudite. «Redenzione» invoca, «Redenzione per la figlia di Dio.»

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Capitolo 4
*** Beautiful ***


 Sento gocce di rugiada bagnarmi i piedi, nudi, mentre cammino nel prato. L’erba è soffice, di un verde chiaro che risplende ai raggi del sole primaverile, luce accecante e piacevolmente calda sulla pelle.

 Il terreno è umido, cede di poco sotto i miei passi. Fra i filamenti nascono piccoli fiori di campo. Ne colgo uno, e il suo stelo si lacera al mio tocco gentile, quasi già fosse pronto ad abbandonare la linfa e le sottili radici. Quasi si fosse concesso a me.

 È giovane, pressappoco il respiro si ode fra quei petali rigati di violetto, e le morbide sfere di polline che alla fresca brezza lasciano indietro il rifugio, volano nell’aria cosparsa d’azzurro.

 Il cielo è del colore di una tela tinteggiata a sprazzi, dove macchie bianche sono nuvole che sembrano immobili nel quadro della gioia, getti di vernice lanciata nel vuoto. Per guardare in su sono costretta a schermarmi il viso con una mano. Il sole è libero e riesce a splendere incontrastato, e i miei occhi si socchiudono, investiti dal biancore rosato del primo mattino.

 Mentre osservo, e navigo col pensiero oltre le volte celesti, laddove un monte ancora imbiancato svetta all’orizzonte, qualcosa s’intreccia alla mia mano per sfiorare con me il piccolo fiore. C’è un sentimento che mi pervade, sono in pace, ora che non sono più sola.

 E non ho bisogno di voltarmi per scoprire chi è al mio fianco. Perciò si continua a camminare, a sentire piccoli sassi inframmezzarsi al terreno che riporta segni di piogge passate, e calpestare vite come se si passasse su rose sparse in un sentiero di piume.

 Il prato degrada in dolci colline nella vallata, forse sterminata per sguardi che non ammirano dall’alto. E sulla destra, si procede, e ci si imbatte in una folta macchia che è propaggine delle foreste ghiacciate del nord. Sarà il vento che ci guida verso quella direzione, sarà il segreto e l’aura che s’incontra fra i maestosi tronchi. Sarà perché c’è voglia di esplorare, e sicurezza di trovare fresche sorgenti che allegramente gorgheggiano presso cespugli di giunchi e bacche di more.

 Passeggiamo mano nella mano fra i percorsi impervi del bosco. Ci si inventa una via per districarsi fra i faggi, i salici, le querce e le elegantissime betulle, regine che con i loro cavalieri fanno un’unica fronda infinita. È il mantello delle foglie che è tetto di ogni selva possente, ove i raggi filtrano e creano ombre e giochi di luce fra muschi e licheni. L’aria è pura e sa di frescura, mentre il dolce e a tratti un po’ aspro sapore di resina si confonde e ci insegue, la scia e il ricordo di impercettibili stille. È quasi il sudore degli alberi, che nel loro infaticabile lavoro ci sanno dilettare ancora, stanchi, con mille suoni e mille odori diversi.

 Forse è il sogno che si fa più vero, ma è immutato nel tempo questo essere vivi, semplicemente e senza rancori, il respiro che è tale e il battito che resta, il corpo che muove.

Un maniero fa la sua comparsa, immerso nel fogliame fitto, misterioso poiché distante da occhi indiscreti; e fugge anche i nostri occhi, che s’incrociano come le mani e le dita un po’ più giù,e non badano se non alla musica che aleggia e agli stormi di usignoli che volano metri sopra l’umano.

 Mi lascia, d’improvviso, comincia a correre. Sebbene si nasconda, anima mia, fra ogni minimo pertugio, e seppellisca i rumori del passo frettoloso fra gli scrosci d’acqua lontani, e mischi le risate con il passare dello scoiattolo e il cadere di una pigna, sono capace di scorgerlo ancora e ancora, indirizzata dal sentimento e dalla passione. Lo rincorro, ridendo anch’io come il tulipano che s’apre all’accarezzar del giorno, mentre i capelli s’incastrano fra i rami e scivolano, regalandomi sulle spalle scorci di foglie novizie e brandelli di ragnatele, la mia divisa selvaggia.

 Brillando del riflesso del mondo, lo agguanto da dietro, e lo costringo a girarsi verso me. Nella radura che ci ha scelto come ara del nostro affetto, luce si riflette a macchie indistinte, illumina il nostro bacio.

 E sempre il nostro bacio è che si riflette nella polla d’acqua a distanza di pochi balzi, lì proprio dove ora è caduta la piuma di una rondine passeggera, lì dove un cervo la sera prima aveva assecondato la sua sete, lì dove una notte la luna ha cantato la sua serenata a un lupo solitario. Lì dove ora siamo noi, a dirci “ti amo” nel tempo che scorre, a tacere senza imbarazzo perché coscienti dell’essere uno, insieme, e il se del per sempre.

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Capitolo 5
*** Behind The Crimson Door ***


 Un ticchettio lontano. Penetra le barriere del suono, si ode nella solitudine. Sembra il grattare di chi è stato sepolto vivo, che da dentro la bara graffia il legno fino a farsi sanguinare le unghie, nel completo silenzio di un respiro affannoso e ritmato che si spegne con il tremore di un sussurro.

 Un altro suono si sovrappone: è il delicato strillare dell’argento che s’incontra con l’oro, come di oggetti gettati via e sovrapposti alla rinfusa. Si sentono le catene di filigrana scivolare fra le fessure, stridere e fermarsi fra le ammaccature delle ricchezze che s’accumulano.

È l’addio al peccato, questo? Lì dove, in una fossa scavata nella terra fresca dopo la pioggia, vengono gettati centinaia di orologi da anime in fuga. È il tempo che scorre, quel battere costante; è la preziosità dei momenti sprecati, quell’abbandonare infernale. Ogni tanto si scorge un lucore passeggero, quasi una lacrima sulle vestigia del segnatore puntuale; oppure un bagliore improvviso fende il buio della separazione, si nasconde nei vetri che cominciano a incrinarsi e rompersi negli acuti del dolore.

 Ed è quando il cielo apre per un istante le sue volte di nubi grigiastre, e lascia cadere veli di fiori incantati a ricoprire la carcassa ormai pressoché dissolta del tempo sprecato, che le figure fugaci prendono la consistenza di uomini vestiti di nero. Indossano occhiali a coprire occhi non sofferenti, ma immobili, vuoti ad assistere i boccioli pioventi trasformarsi in patine amaranto, sciolte altresì a foderare come una coperta il defunto. Da lì, si ode l’odore aspro delle colpe private, l’impossibile che sa di fredda e gelida nebbia.

 Scoppia un incendio su quella piccola bara, bruciando con sé anche i pensieri più oscuri, e lambendo l’erba ai suoi bordi s’impedisce di lasciarla ardere, limita la sua stessa passione divorante che trascina nell’oblio. Mentre sembra che non ci sia più nulla da distruggere, eppure le fiamme continuano ad avvampare alte e funeste, qualcosa si alza fra le ceneri e il fumo. Piccole, dorate o venate d’azzurro, migliaia di lancette giacciono a mezz’aria circondate dal fuoco. S’innalzano, lievi, e come una colonna volano veloci verso l’alto, assorbite dalle nuvole ancora scure e ignobili che impediscono la vista di un più confortevole cielo.

 Sono eleganti nei loro arabeschi sottili, sembrano organze pronte a piegarsi al minimo scontro; annerite a tratti e ferite, s’arrampicano sempre più sopra, quasi volessero raggiungere i cancelli di un paradiso perduto.

 E sopra i firmamenti si combatte un’altra battaglia, dove le sopravvissute indicano col capo il delitto in atto. La luce viene spenta come la fiammella di una candela presa fra due dita, e le gocce d’acqua tiepida che l’attorniano come frammenti di specchi vengono spazzate via da un vento crudele, fra cui arrivano foglie rinsecchite e dai colori smunti, che taglienti sferzano le migliaia di dolci granelli sabbiosi dello schieramento opposto. Sono gli elementi che s’assaltano per il prevalere del tempo che, seppur trafitto dagli uomini, non smette di scorrere per vie avverse. Poiché così Estate si ritira nel cantuccio del suo letargo forzato e lascia il posto al deperito Autunno, che dopo Inverno andrà cantando, e veloce Primavera sopraggiungerà nella rinascita, poi ancora di nuovo tutti vittime di questo strano circolo vizioso.

 Le lancette si allontanano, come se fossero un unico fascio di stelle, e fra loro nascono rose rosse di sangue che le imprigionano vive fra i loro soffici petali. Come un muro, una porta invalicabile, vengono chiuse in celle frementi, e possono solo osservar fuori dai piccolissimi spiragli rimasti aperti fra una rosa e l’altra. Sono l’occhio del carcerato che sbircia da dietro delle sbarre favoleggianti di profumi freschi, occhio che si socchiude e si nasconde al passare dell’ombra o al sussulto di un passo.

 Vive, tremano e si distraggono in vortici confusionari, quasi in cerca di una morte che non pare sopraggiungere poiché protette dalla loro prigione cremisi. S’ubriacano del nettare che esce dai fiori, e che sgorga come liquido nero in fiotti invitanti. Le lancette zampettano fra le corolle, s’impregnano del vino di Venere che viene loro offerto come unico piacere d’amore.

 Un vino che pare portato da distanze infère, mondi opposti dove diavoli vestiti di rubini regnano sotto pioggia d’onice, e offrono coppe in cristallo nero riempite di veleni oscuri. Le stesse pozioni che ora, nelle volte celesti, sono concesse ai piccoli angeli dalle ali di trasparente colore. Il fluido del peccato ha attraversato vortici d’aria e ha raggiunto luoghi a lui funesti per mietere ancora offerte maligne dall’animo ignaro.

 Ogni lancetta smette d’abbeverarsi dalle rose fonte di candida morte. Ognuna giace ancora una volta ferma e immobile, mentre ciascun fiore scompare, dissolto in briciole di passato. Le lancette cadono, tutte insieme, risucchiate verso la realtà con la forza di un’onda che trascina a riva. C’è solo un tintinnare di sottofondo che viene subito zittito dalla calma della loro rinnovata tomba, bara dove ancora sembrano riposare gli orologi bruciati e arsi in cumuli neri.

 I cinque uomini sono rimasti tutto il tempo attorno al giaciglio ultimo, le mani incrociate in grembo, in un’attesa glaciale. Ora, da sotto gli occhiali, due linee di gocce cremisi colano a rigare il volto di ognuno. Dopo, come le punte di un pentacolo, cadono all’indietro sull’erba ormai asciutta.

 I fili si riscuotono ad accogliere i loro pesi, e impregnati dell’odore acre di un ardore passato, brillano un poco sotto un sole rosso sangue. Le nuvole sono improvvisamente scomparse, e il disco pare oscuro, con una macchiolina nera vicina all’estremità destra. È piccola, dai contorni netti. Sembra una serratura…

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Capitolo 6
*** In Love And Lonely ***


Dopo che si è conosciuto l’abisso, anche il misero gradino che lo precede viene chiamato paradiso.

 La penna vergava in fretta questa sorta di aforisma, volando sulla pergamena leggermente ingiallita dal tempo. Così come, in un attimo fugace, i ricordi vennero ripescati dal loro vortice, tirati a forza dal sacco in cui erano stati rinchiusi e quindi gettati senza indugi nel fuoco della mente.

 Il giovane si affaccia dalla finestra, dove scorci di una città spenta lo salutano nella fretta irrisoria dei passanti. Il sole sta per sorgere, e così si sveglia il formicaio che sputa già le sue prime figlie suicide. Il sole sta per sorgere, sì, e rischiara d’azzurro e rosa pallido i primi grattacieli che ne frammenteranno il percorso. Le ombre nascono dove la luce comincia a sfiorare il lampione, a girovagare sull’autobus, a salutare da lontano l’inserto pubblicitario.

 Con lui c’è la reminiscenza di una ragazza in lacrime. Pare disperata, ogni tanto fra i singulti spunta un grido mal represso, non ci sono fazzoletti ad asciugare le sue guance ormai fradice.

 Il giovane non se ne preoccupa, ma continua a seguire i raggi che decorano di un nuovo chiarore il grigio delle zone urbane. Si odono già i primi clacson, gli sbuffi dei tram, il continuo rollare della metropolitana che si sporge dai sottopassaggi. Si accende con tranquillità una sigaretta, aspira il fumo con fare nervoso, scocciato.

 Il lamentarsi della ragazza si fa più mesto, per poi spegnersi del tutto.

«Hai finito?» le chiede. Le si avvicina, abbandonando la cicca sul davanzale. Le porge un pacco di fazzoletti mezzo svuotato.

«Sì.» balbetta appena, non è sicura. Tira fuori uno specchio dalla borsa per aggiustarsi la matita, che fra le lacrime ha lasciato buffe macchie scure sul suo volto.

«So com’è.» dice lui, gli occhi quasi socchiusi, una smorfia di tristezza che compare nella linea sottile delle labbra.

«Com’è cosa?»

«Amare ed essere soli.»

 A lei sfugge una risata. Cerca di nascondere il fallimento, l’agonia che l’ha portata allo sfogo di pochi attimi prima. «Io non sono sola.» Con un velo appena steso di trucco, sembra riagguantare la sua maschera impassibile, tornare indifferente, pronta a venire accolta nell’irrilevanza di qualche piano più in giù, laddove farà parte del quadro in movimento che si scorge dalla finestra.

«Lo sarai presto, se non la smetti.» Un monito. Forse servirebbe anche a lui, preda, vittima identica, anch’essa restia ad ammettere il tutto.

«Smetterò quando ne avrò voglia.» Prende la giacca firmata e se ne va. Come se niente fosse, si aggiunge alle altre pedine, si lascia manovrare con la consapevolezza di essersi offerta volontaria. Se sono gli altri a prendere per noi le scelte, seguirle, agire di rimando è più facile e semplice.

 Il giovane si riappropria del pacco di fazzoletti, utilizzando l’ultimo rimasto. Non c’è pianto ad intingerlo d’orrore, ma quel che può l’inchiostro di una biro.

Ora anche il mio paradiso se n’è andato. E scappa il mio ultimo amore, così come lei si è lasciata sfuggire il suo.

 La carta sottile viene gettata fuori dalla finestra, vola nella leggera brezza che forse spira anche per luoghi migliori, si lascia trasportare per cadere nell’abisso, colomba bianca ridipinta dell’arancio di un mattino assolato. Come se un piccolo appartamento in un anonimo quartiere fosse l’ultimo appiglio ai sogni, o l’ultima isola incontaminata. Come se l’osservare tutto dall’alto mettesse una barriera fra noi e il mondo, quando invece è solo cemento che ci circonda e unisce di un legame fasullo.

 È proprio vero che ci stiamo illudendo.

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Capitolo 7
*** I'Ve Crossed Oceans Of Wine To Find You ***


 La girandola vortica senza sosta. Sola, al centro frammezzato di mezza via. I colori dei suoi spicchi si confondono, mossi da quel vento incostante, e il giallo dei girasoli si tramuta in blu crisantemo, il rosso è allo stesso tempo il verde del cielo e l’azzurro dell’erba. O è il contrario?

Eppure agli occhi della ragazza è proprio così… non può essere diversamente. Il cielo è verde, con le sue nubi nerastre, filamenti avvinghiati da soffici catene. L’erba è azzurra, e ogni tanto vibra, quasi essa stessa respiri di candida gioia.

 Presa nel gorgo, la fanciulla è una macchia grigiastra nel foglio della calda campagna, lo sguardo fisso ad osservare le giravolte mobili ma statiche nel loro brandello di aria, il loro rapido fruscio, sguardo che sa penetrare oltre e scrutare anche la fessura in mezzo al giogo incantato. Seduta in fronte al fulcro del suo osservare, sembra perdersi, affogare nel mare dei pensieri. Un forellino, piccolo, incurvato nei bordi, funge da lente per una gradita sorpresa. Quindi spia dall’apertura nella girandola, attorno è solo ruotare, spia e guarda al di là della sua gabbia di colori, prigione d’abbagli.

 Fiancheggiando un ruscello vermiglio, un po’ denso nell’atmosfera irreale, un’altra ombra scorre per le rotaie del sogno. Un’altra sagoma dai contorni sfumati, bigia, eppure forse unica nel sentore di tatto gentile che emana, aulente e compagna. Arriva ad affacciarsi alla finestrella al di là del mulinello stornato da brezza che, ne era certa, fanciulla, sapeva di mare.

 Perché le uniche cose che tramavano vita… erano le uniche senza uno strascico di tinta vera?

 Giovane. Sì, un giovine è colui che si è inginocchiato fra l’alta sterpaglia, lo stesso che prima aveva costeggiato l’acqua rossastra. Fra l’erba il suo sguardo ha colto un fiore cristallizzato in piume d’angelo, e ora poggia l’iride incauta lì all’apertura del mondo. Ivi le due pupille s’incontrano, specchio nel specchio, e tale il viso scorre senza sfiorare il continuo girare, ancora specchio nel specchio, per portare le floride labbra a incrociarsi nel vuoto.

 Lei è graziosa, avvolta in un abito bianco, semplice e corto, infagottato di sottili nastri di seta. Due ballerine minute le incorniciano i piedi, e scuri fili di capelli le avvolgono il volto.

 Lui è serio, nei ricci nerastri che gli scompigliano l’aspetto. Solo una giacca e dei pantaloni dai toni metallici; scalza l’anima del ragazzo ha vagato per i bizzarri sentieri.

 Le mani di entrambi si alzano dopo aver giaciuto immobili in grembo. Si uniscono in una stretta fatale ai lati della girandola, mentre gli occhi si chiudono ad attendere il seguito della loro macabra danza. Non c’è possibilità di un bacio in quei pochi granelli d’aria che distaccano le bocche, contornate di divoratrice voglia e turbinante passione. E allora un soffio, un respiro, è lo scambio. In esso, gocce di vita svanita nella chimera che serra i battiti restii. Allora come una scarica li percuote: i nastri di lei diventano di un rosso ciliegia, ed è l’onda che la trapassa a colorarla a tratti di un biancore reale, le mani rosate che sembrano pallidi fusi imperlati; lui in cui nuove spume si smuovono fra i capelli ramati, ed è la stilla di verde speranza a pitturargli l’iride smorta, il bocciolo di rosa cremisi ancora intento a spirare esistenza.

 Si possono trapassare le porte dell’Inferno?

 Si rialzano, lenti come il sipario di un’opera incompiuta, docili come fiori in preda alla corrente che con loro non portano emozione. Ora sono l’uno di fronte all’altra, con quello che è il motore di un miraggio che sa di fantastico. Sotto il suo rombare, ogni segno che indica presenza di mare: una conchiglia posata nel tratto di terreno brullo, striscia lunga che pare allontanare i ragazzi, oppure una piuma di gabbiano che galleggia sul fiume di sangue per andare a ricongiungersi con la sua casa. Una squama di sirena smarrita nel vento.

«Lo seguiamo?» voce di donna che è sussurro. Se solo quegli aliti si fossero condensati come brina invernale, a qualche passo di farfalla dalle labbra rinsecchite, la verdognola volta celeste avrebbe osservato un moto di desiderio spostarsi dall’uno verso l’altro, l’inseguimento che si nasconde fra gli spiragli delle nubi nero petrolio. Una patina di plastica pare dividerli. È il segno nel terreno, ove nulla cresce, laddove la girandola vive, il sorgere del muto divieto.

 E la girandola corre, corre… trascina un mondo dietro di sé.

«Cosa?» voce di uomo che è raschiare. Come un lupo che ambisce alla preda. Non si resiste al fremere del tormento.

«Il mare…» risponde lei.

«Per dove?»

«Di qua.» Allora rompe la barriera, lo prende per mano, e subito si getta nell’acqua vermiglia. Quindi segue la corrente flebile, che trascina entrambi verso la sua foce vicina. Le loro figure grigie si macchiano di rosso, come una vecchia foto incorniciata dal vetro incrinato, che è immobile vittima di un suicidio di sangue.

 Fuggono, lasciandosi alle spalle la girandola che ancora vortica, forte, decisa. Determinata come il volo di una civetta nella notte buia.

 Dopo pochi passi, fa la sua comparsa il mare. Distesa cremisi, di un colore marcato e liquido come vino. Forse del vino ha anche il sapore accogliente…

 Piano i due s’immergono, restano con i capelli smossi dall’aria, mano nella mano, a contemplare un orizzonte che sa di fine. Una fine infinita, sempre lo stesso bordo di scoglio, come un granchio che s’arrampica sul masso ma poi viene riportato giù dalle onde violente, e riprende la risalita, ancora e ancora.

 Un secondo. La confusione. O è caos? La visione si sta capovolgendo. Le proiezioni umane vengono trascinate in fondo al mare, la testa che sbatte e crolla fra gli spuntoni del fondale irto. Quindi una corda si avvolge attorno ai fragili colli, nell’acqua è fluida e sinuosa come un serpente che tenta. Il cappio si stringe.

 Due figure, nel sogno, sono impiccate a testa in giù nel letto dell’oceano di vino.

 La girandola cessa di muoversi. Nel cielo, le catene delle nuvole s’attorcigliano a formare una scritta. È un addio lugubre, grottesco, la canzone di un giullare burlesco. Come se in quel luogo accattivante ci fosse mai stato qualcosa di concreto… anche l’ultima ombra terrena è svanita, inghiottita. Morta.

“La brezza saprà concedervi un buon vento su cui prendere la via dei sogni… a volte lo scrosciare delle onde, ad occhi chiusi, sa essere quello di un paradiso lontano…”

 E lì si nascondono occhi che mai più s’apriranno a vedere. Lì, giacciono orecchie che sempre ascolteranno lo stesso ritmo di mare.

 Si può chiamare Paradiso il posto che ha ucciso anche l’ultima ombra di te?

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Capitolo 8
*** Rip Out The Wings Of A Butterfly ***


 Qualcosa, oltre la porta socchiusa, si smuove palpitante fra le mani di un uomo. Si sente lo stridere di carta velina che si lacera lenta. In sé, è un innocuo strappare per creare nuove opere dal sapore dolce di una prelibatezza presa dal pasticcere lì affianco. Ma lo sfrigolio che lo segue… sa di dolore. Bianco dolore dello spegnere di un sogno, come una candela finita in terra, caduta dal davanzale di una madre in pena per il figlio lontano, e schiacciata da una carrozza di passaggio.

 La porta è ancora chiusa, si vede solo un triangolo di luce allungarsi tetro in terra, proiezione dei pochi tratti d’aria che si sporgono all’interno del laboratorio. Il suo tenue riflesso mostra le fughe che dividono una lastra di pavimento dall’altra, le fa rilucere un poco, mostra le incavature dell’uscio legnoso, la maniglia lucida e accattivante, dorata. Bella perché forse mezzo dell’apertura di un mistero da svelare. Nel buio, si nota l’ombra appena più scura di una figura piccola e lieve, imperlata in una tunica in lino. Una bambina curiosa.

 Si avvicina, le pattine che scivolano silenziose, la veste che segue i movimenti con un ondeggiare leggero. Spia, con il respiro che s’accavalla ad ogni scoperta che i suoi occhi in esplorazione compiono. Un singulto che sa di verità taciute la scuote.

 Al di là, l’uomo assapora la carta sottile. L’avvicina al naso con bramosia, lascia che essa accarezzi le labbra grezze e screpolate, le palpebre chiuse ad acchiappare idee. Un’estasi malata che si consuma, e finisce quando il foglio fine viene gettato sull’impiantito. Esso compie un volo leggiadro, sosta in aria, vittima di correnti inesistenti, quindi si poggia portando con sé uno scampanellio lontano. Allora l’uomo prende una penna, la intinge nell’inchiostro e lascia che la mano scorra rapida sulla carta ingiallita. Scrive, scrive, narra la sua storia con desiderio. Non si ferma, e forse anche i polmoni sono bloccati dalla corsa che cerca di compiere, inesausto.

 Nella stanza c’è solo lui, i capelli un po’ radi sulla fronte ma ancora di un nero intenso, qualche ruga a incorniciare i tratti. La scrivania è già intrisa di scartoffie, mentre sul lato sono accumulati fogli puliti e calamai. Affianco ha una lampada che fa luce; posta in terra, ha un braccio in metallo che nella penombra pare stranamente opaco. L’intensità della lampadina è regolabile attraverso una rotella rossa, come a invitare di cercare la tonalità giusta per ogni racconto. Un paio di occhiali sono abbandonali lì affianco.

 Ma il pavimento, il soffitto, il resto della camera sono un colpo violento. Gabbie lugubre giacciono appese, le trame in ferro fitte come a imprigionare nuvole e nastri d’argento. E non sembrano fiori d’arancio, sprazzi di nubi, cuori argentati, i lampi che si scuotono e avvampano, lì reclusi nel tempo? Solo voliere ad ammobiliare il locale.

 L’impiantito è un cimitero. Scheletri di farfalle, senza ali, sono come addormentati, sopiti. Eppure nelle loro posizioni rigide si nota la sofferenza della morte, il sacrificio dolente di una vita che non avrebbero voluto abbandonare così presto. Sono le innocenti sacerdotesse di un culto segreto, e sperano ancora adesso, con gli occhi neri e lucidi aperti sul vuoto, che non venga mai rivelato. Fra le piastrelle scorrono rivoletti di sangue, macchioline rossastre e indistinte. Più in là, sono ammucchiate le loro ali: raggrinzite, lerce, talvolta sminuzzate in più parti, ormai senza una briciola vivida del loro vero colore. Smembrate.

 La bambina si sente mancare, stordita, avverte le lacrime solcarle le guance. Quelle lacrime portano il ricordo di giorni passati, cautamente intinte in episodi remoti, vibrano della rimembranza di voci lontane. Poi cadono, in goccioloni pieni che s’infrangono al suolo. Alcune sfiorano i cadaveri, quasi a voler abbeverare i loro visi rinsecchiti, senza sapere che il ricordo che esse portano, solo poche ore prima, avrebbe potuto far parte di un mistero più grande e perduto.

 

«Papà, papà! Guarda quante farfalle!» grida raggiante.

«Sì, tesoro, sono tutte per te.» L’uomo si aggiusta gli occhiali sul viso e la sua bocca si contorce in un sorriso sbieco. Ha portato la figlia in un enorme prato appena fuori la città. L’erba è alta, sembra non esser mai stata rasata, ma conserva tonalità fresche e delicate, come se si curasse da sé, giardiniera dai gusti pittoreschi e coltura accondiscendente al tempo stesso. Fra essa nascono decine di fiori delle più svariate specie che insieme fanno un caleidoscopio di colori che attrae chiunque, insetto o umano che sia. È un piccolo angolo di paradiso che si crea il suo timido posto nelle campagne, fra i campi arati di tutto punto. Campi che anch’essi hanno un sapore macchinoso, ferree code postume del centro abitato, dove il sapore del grano si mischia ai freni caldi dell’aratro, dove lo spaventapasseri è un gigante in metallo che percorre i sentieri rombando acutamente.

 Il prato invece è puro, limpido come il cielo che lo sovrasta, oggi azzurro e venato di nuvolette che sembrano gli sbuffi dei camini invernali per il sentore familiare che emanano. Il sole picchietta a sprazzi, è caldo sulla pelle, ma non duole: le ombre chiare delle nubi sono ripari fra cui saltellare per cercare riposo, e l’estate è lontana con la sua afa avvinghiante. Un vento sospira fra i fili d’erba, li fa frusciare, e rende ancor più lieta l’atmosfera d’amore. La piccina parte per tuffarsi nel suo cantuccio di natura.

«Aspetta, tieni» il padre le porge un retino dal manico rosa, comprato apposta per lei.

«A che serve?» chiede la bambina, sbigottita, percorrendo l’oggetto con lo sguardo.

«Per prendere le farfalle. Una volta fatto torni qua e le mettiamo nelle gabbie che ho portato da casa.»

«Ma, papà… sono così belle a volare lì sul prato! Perché le devo imprigionare?» mette il broncio. Non vuole far loro del male.

«Non succederà loro nulla,» continua l’uomo, quasi leggendole nel pensiero, un tono di voce fin troppo rassicurante ad accompagnare le sue parole «è per il tuo compleanno.»

«Il mio compleanno? È fra più di un mese!»

«Lo so. Noi verremo qua ogni settimana, e ne prenderemo un po’. Poi al tuo compleanno le libereremo tutte, e loro voleranno nel cielo colorando i tuoi splendidi dieci anni.» indica la volta celeste col dito, ma gli occhi sono come sempre posati sulla figlia che, pensierosa, ancora pondera la proposta inusuale.

 Lei si apre ad un sorriso. Il pensiero di un regalo tale la rende felice, e i dubbi di prima si dissipano come un fiocco di seta sciolto da una sarta. Prende il retino e si fionda nel campo, ridendo, gaia di quella giornata preziosa.

 Le farfalle sono davvero tante: ad ogni suo passo qualcuna si libra dal fiore su cui era posata, e si va ad aggiungere alle altre che danzano in aria. I colori brillano alla luce del sole, si creano quasi arcobaleni viventi, nugoli di creature venate dalle tinte dell’anima. Sotto, le formiche fuggono ai passi della bambina, s’infilano nei buchi del terreno a cercar rifugio, magari trascinando un pezzo di foglia o un chicco di grano. Delle coccinelle riposano pigre sui fili verde smeraldo, osservate da qualche ragno curioso che interrompe la sua tela per ammirarle; perdersi nelle loro macchiette nere, incastrate nel rosso ciliegia del manto, non è mai sembrato agli otto zampe un piacere che ne abbia di più dilettevole. Sopra, s’abbandona la penombra della fitta vegetazione, e si entra nel regno dei cieli: bombi, api e vespe si dividono i fiori in tanti capannelli, ognuno occupato a saccheggiare il suo nettare preferito. Lavorano con passione, a volte pare collaborando fra loro, i più arditi che spirano occhiate alle reginette del prato.

 Le farfalle… le farfalle sono fiori, se solo quest’ultimi avessero il dono del volo. Se si osservano bene, a pochi passi di distanza si possono trovare copie perfette. Un crisantemo blu saluta scuotendo la corolla la sua amica, dalle ali tinteggiate d’azzurro intenso, gli occhielli vicini alle punte dalle sfumature violette e contornate di nero. Questa in risposta gli vola affianco, carezzando con la zampa uno dei suoi petali carnosi. Di là, una camomilla lancia occhiate invidiose alla sua gemella alata, che metri più in su volteggia come un sole danzante. O ancora, al ciglio che s’affaccia alla strada asfaltata, il papavero gareggia in bellezza con una farfalla dalle ali enormi, di un rosso fuoco che ricorda un vino pregiato o le labbra cosparse di rossetto di qualche attrice famosa. Entrambi si dannano ad apparire i più belli: l’uno trattiene le sue gocce di rugiada per splendere ardente, l’altra s’atteggia a tango suadenti muovendo altezzosa le antenne sottili.

 La bambina ne ha acchiappate molte, ma ora è stanca di inseguirle. Vuole solo sdraiarsi fra l’erba, mettersi il cappello di paglia come cuscino ed osservare con occhi ammirati quel minuto mondo che tanto l’affascina. Restituisce il retino al padre, che è rimasto tutti il tempo appoggiato allo sportello della macchina a guardarla, forse pensando a qualche storia da riportare su carta. È uno scrittore, e la figlia ne è fiera, perché questo significa anche tante fiabe narrate alla sera.

 Una farfalla le si posa sul naso. Le ali sono appuntite, un po’ ricurve, sembrano fini come una tenda in raso. Le zampe le fanno solletico, mentre scivolano leggermente sulla superficie liscia della sua pelle, poggiandosi poi in una presa più salda. La piccina cerca d’incrociare gli occhi per agguantare tutte le sfumature d’acquamarina della creatura, che scorrono ondulate, sono le onde di un mare caraibico smosse dal passare di una sirena.

«Qual è il tuo segreto? Perché sei venuta proprio da me?» la voce della bambina esce in piccoli refoli dalla sua bocca, eppure ogni breve folata pare spingere la farfalla a volarsene via. Ma lei si aggancia meglio alla sua seggiola, piega il capo allungato da un lato, fissa gli occhi sull’umana con fare stupito. Quegli occhi neri sono pozzi di fata, gocce d’Empireo che racchiudono qualcosa di indecifrabile e strano a capire. Vedono il mondo enorme, più grande di quello che è, come uno specchio deformante ne carpiscono i sogni per racchiuderli nelle venature dei loro fievoli corpi.

«Quindi tu viaggi per le nostre menti? Non dire bugie. Ho visto… ho visto il mio incubo dell’altro giorno nelle tue ali.»

 Lei tace, e come stizzita riprende il volo. Al suo posto arriva la farfalla vermiglia di poco prima, che prende ad arrampicarsi su per il braccio. Al riflesso del sole, pare che ci siano delle mani chiuse a coppa disegnate sulle sue ali. Fra loro scorre sangue, sangue come fosse vino appena versato. Ma è solo un attimo, e la visione svanisce, dileguandosi nel placido rosso di sempre. I suoi occhi fiammeggianti d’Inferno vagano sui capelli ramati della bambina.

«E tu? Qual è il tuo segreto? Non sei ciò che vedo, ci sono storie dentro di te.»

 Anche lei scappa, fugge nell’aria. La bimba s’assopisce, e sogna. Sogna le sue fantasie ghermite dalle farfalle, che poi ne fanno storie da portare sulle loro ali in giro per il mondo. E piccola, lei, vola con loro, diffonde ogni briciolo di racconto raccolto per strada, così come le api racchiudono il polline dei fiori fra le loro zampette. Asperge polvere di possibili romanzi, sparge petali di future narrazioni, le aiuta nel loro compito greve.

 

«Papà, che hai fatto?» finalmente ha trovato un briciolo di audacia per parlare. Forse si era nascosto alla punta delle pantofole, là dove il piedino sfiora la calda intelaiatura. Ha sprecato del tempo per trovarlo, ma alla fine l’alluce ha sfiorato il suo coraggio, rintanato nel suo rifugio, e l’ha costretto a uscire allo scoperto. Ma le lacrime di bambina ancora non s’arrestano.

 L’uomo interrompe la seduta di scrittura e si volta a guardare la figlia. Indossa cautamente gli occhiali, quasi per vedere meglio il suo dolore e accertarsi del suo aspetto affranto.

«Papà, che hai fatto? Le mie farfalle… perché hai mangiato le mie farfalle?» è sgomenta dal fatto che un’azione tale ha incrinato l’immagine così perfetta, dolce e protettrice, del suo amato padre.

 Lui sospira. Le fa cenno di avvicinarsi con una mano tremante. «Vieni qui.» Anche la voce pare bisbigliata, non ferma, quasi essa stessa non sappia capacitarsi del suo ardire.

 Lei esita a prendere posto sulle ginocchia del genitore. Un tempo erano sinonimo di sicurezza, tepore, erano il nascondiglio dalle brutture del mondo. Ora sono solo un luogo dove stare più comoda, in attesa di qualcosa che sa già le farà male. Ma lo stesso ubbidisce, come una brava bambina. Il braccio che l’avvolge è freddo, il petto su cui si poggia, nonostante sia estate inoltrata, è glaciale come uno scoglio di brina sorto in mezzo all’oceano.

 «Tesoro, le farfalle non erano per il tuo compleanno… ma questo lo saprai già. Posso raccontarti una storia?» un mesto sorriso gli si apre sul volto. Gli spazi vuoti fra i denti, così scuri nella luce scarsa, sembrano voragini di menzogna. Forse un tempo potevano ispirare simpatia, mista a un pizzico di pazzia che contornava quell’aura fin troppo spensierata, ma ora erano come finestre sul cupo antro di un racconto atroce.

«Ora ci vuole anche il permesso per parlare?» è stata cattiva, lo sente, percepisce dalla smorfia melanconica dell’uomo che qualcosa nelle sue parole deve averlo turbato. Forse un po’ di quella ferocia, uscendo in rivoli fumosi dalle labbra dell’uomo, s’è infiltrato nel suo corpo gracile, e ne ha fatto triste mezzo d’usura.

Lui non desiste, e riprende a parlare con fare affrettato «Non devi avercela con me. L’ho fatto per noi»

«Questa è una brutta storia. Non voglio ascoltare brutte storie.» Ancora termini neri ad oscurare l’atmosfera glabra. La piccola s’aggrappa alla camicia del padre, tira il colletto come per arrampicarvisi sopra. Cerca di arrivargli all’altezza degli occhi, avvicinarsi così che possa scrutare la sua anima falsa, senza che gli anni separino il suo giudizio dalla sua maschera infame.

«Dentro ogni farfalla c’è la storia che tu vuoi ascoltare, quella che ti racconto alla sera, quella che il papà scrive di notte. Vedi, questi fogli, un giorno, saranno presi tutti in un libro. Il libro ci darà i soldi per mangiare e bere,e per farti andare a scuola. Se questi fogli non hanno una storia scritta sopra, il libro non arriva e i soldi nemmeno. E io ho bisogno della storia, per questo uso le farfalle, per averla e prendermela, per scriverla.» Ha fatto confusione, la bambina se ne accorge, ma allo stesso tempo pare di aver capito qualcosa in quel garbuglio di frasi. Ma allora ricorda i pomeriggi al campo, e l’idea si fa strada, si compone leggiadra e crudele nella sua giovane mente.

«Non possono darti le storie? Non puoi chiedergliele per favore?» Perché ucciderle così spietatamente?

«Loro non la raccontano mai. La custodiscono gelosamente. Sono orgogliose e troppo altezzose per dartele. Se tagli loro via le ali, la storia si libera e il papà può scriverla.» L’uomo aveva scoperto il segreto per caso, e tutt’ora non gli sono chiari tutti i particolari. E spiegarlo a una figlia è difficile, specie se sei solo.

«Le storie sono tutte vere, non è così? Le prendono dalla fantasia della gente, dagli altri universi, dappertutto.» Un lampo di consapevolezza si fa strada nelle iridi azzurre della piccola.

«Sì, è così.»

«Papà?»

«Sì? Dimmi tesoro.»

«Io non ucciderei mai una farfalla per una stupida storia.»

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Capitolo 9
*** Salt In Our Wounds ***


 Destra. Sinistra. Giusto. Sbagliato.

 E poi ancora dritto, verso una via immersa in truce nebbia che ti guarda fra spifferi arrossati dal sangue, giù verso la scarpata dell’oblio che ti avvolge con le sue ali nere gocciolanti lacrime amare. Correre e non fermarsi, fuggire da ciò che ti insegue, essere sempre all’erta fra i graffi dei rovi che incombono come pareti di vetri spezzati, cocci di cuori infranti che ti piovono addosso. Feriscono, tagliano, bevono dai tuoi liquidi sparsi.

 Destra. Sinistra. Giusto. Sbagliato.

 Si scivola da quell’altura verso cui si cercava rifugio. Ti aggrappi alle radici di quel giovane olmo che sporge verso il burrone, perché non vuoi cadere vittima della tempesta dolce e soffice che ti attende all’abisso. Una bufera di sale che s’attaccherà alle tue ferite, e brucerà insana fino a smembrarti la carne. Dolorosa e terribilmente gentile. È un vortice, un gorgo biancastro che sembra attirarti e allontanarti da una possibile salvezza o la fine. Ma la radice tiene, e piano, mano dopo mano e sforzo di braccia, si è sulla terra ferma e solida di irte spine e sterpaglie. E quindi via verso il labirinto da cui non v’è uscita.

 Confusione. Maledetta confusione che schiavizza e non lascia liberi. E se solo si avesse l’arma, la spada, per sconfiggere il nemico di guerra. Eppure non si conosce nemmeno chi manovra questi fragili fili, e le difese sembrano anch’esse finite nella tormenta e distrutte dalla forza dei venti. Si cerca come fermarla, come poter infilzare un bastone negli ingranaggi dell’orrore e poter arrestare il tutto; riappropriarsi delle perdute certezze è ormai un sentiero di stelle: lontano.

 Cos’è giusto? È un giro, un tondo fatto di lamiere affilate, questo muoversi velocemente alla ricerca di nuove ali?

 Cos’è sbagliato? Amarlo ancora dopo tutto questo caos che t’imprigiona e ti rende vittima ignara, sofferente detenuta di un incubo oscuro?

 E ti chiedi se solo vi sia differenza, ora che il pensiero è scandito da un cuore malato, ora che la mente è vago fumo nell’aria. Ora che il tormento è il mostro rinchiuso nella grotta, da dove si sentono solo urli e strusciar di catene. È tutto finito; assurdo come l’improvviso è inaspettato, come l’atteso sa essere l’insensato puntuale dell’incontro col futile fato.

 Perché la calma è giunta, sono spuntate le rose, e il sole ha levato il velo del lutto. Le cicatrici restano impregnate del sale che ancora brucia sotto un filo di disgrazia, l’abito è lacero laddove si è scalfito fra gli scrosci di ghiaccio inviati dal cielo. Ma tu sei lì e qualcosa è rimasto, dentro un povero corpo che s’accinge a scavarsi un gracile sepolcro di petali secchi. Un goccio di follia si nasconde nella tenue risata, mentre cadi nella tua semplice bara. E non dici addio, ma l’arrivederci verso una rinascita nell’innocenza fatta d’organza.

 Un raggio buca la coltre di sottili nubi, viaggia fino alla lapide in marmo. Accarezza una foto in bianco e nero, sorvola il mazzo di tulipani, sfiora il viso di chi poco fa ti ha baciato. Spirito nell’anima, ha toccato i tuoi resti vermigli dopo la lunga battaglia, e l’amore è tenero nell’approdare verso i porti del cielo. A braccia aperte t’accoglie il destino.

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Capitolo 10
*** Close To The Flame ***


 Il piede spinge sull’acceleratore, nervoso. L’auto fa un nuovo scatto in avanti, aumenta la velocità, e il motore quasi ruggisce. Ormai non è che una macchia rossa, veloce e inquietante, possente. Infiammata della stessa rabbia che drasticamente consuma… macinando leghe su leghe, scappando da non si sa cosa.

 Ancora più rapidi, ancora più lesti su questa strada vuota: energia, nient’altro che ti freme nel corpo, e che brucia ogni dolore che s’incastra fra gli inganni del cuore. Affianco, il paesaggio scorre sempre uguale, con monti rossastri che s’intravedono all’orizzonte e che paiono calici da cognac rivoltati, con le loro sfumature ramate che incantano e quasi si cullano, mobili, vorticanti e irrequiete. Erbacce e piante grasse spuntano qua e là sul terreno brullo e scarno, rosso come il sole che sopra a tutto infuoca il deserto. L’essere soli è una sensazione strana che rende padroni del mondo, padroni della propria solitudine senza confini, è il musicare inquieto dell’animo che vaga libero da catene. Un animo in fuga.

 Il limite fra terra e asfalto è labile, quasi inesistente, con i granelli sottili che sfumano nel grigio pietra, a volte spingendosi quasi fino al centro della via che, unica, s’inerpica sfacciatamente dritta nella desolazione. In fondo, compare un cielo terso e di un azzurro velato, dall’aspetto indeciso e lontano, quasi malsano. Sembra solcato da crepe giallo limone, fulmini diurni che sanno tanto di allucinazioni instabili, riflessi di uno spirito indiano. L’aria fa vibrare tutto, tramortente come onde sonore gettate dalle casse di un concerto, passionale come un nastro mosso da una ballerina. Agita i contorni come fossero sassolini durante un terremoto feroce, che s’incontrano e si staccano, e tremano impauriti, schioccando fra loro.

 La vista quasi s’offusca, coperta dagli occhiali da sole, neri e impenetrabili, che cercano di nascondere uno sguardo sconfortato e debole. Una goccia di sudore cola dall’occhio, sembra quasi una lacrima salata baciata dal sole; mentre si fa strada sulla guancia, viene spinta e schiacciata dal vento che ne frammenta il percorso.

 Non se l’asciuga. Le mani sono ancora ben strette sul volante, le dita massicce che ogni tanto si aprono e si stendono per sgranchirsi lentamente, senza però lasciare la presa salda. Forse un brivido appena le scuote, il singulto represso di un tormento ghiacciato che non vuole saperne di sciogliersi. La pelle abbronzata risalta al tocco del sole cocente, che con i suoi raggi scivola giù per il collo, insinuandosi sul petto che mostra la camicia nera e sbottonata, sensuale. Le gambe, strette in dei jeans chiari, si muovono al ritmo di una canzone veloce. Ogni tanto il segnale si blocca, si fa oscuro, la radio non prende bene. Delle interferenze lanciano melodie nuove di altre stazioni, poi tornano al solito riff di chitarra elettrica, più potente di prima, liberatorio e selvaggio. Ma la gamba continua a tenere il ritmo, costante, quasi le orecchie dell’uomo sentissero ancora il riverbero della musica ora interrotta, ora ripresa.

 Una mano si stacca dallo sterzo e si poggia sullo sportello, lasciando sporgere fuori parte della curva del gomito. Il contatto con il metallo quasi lo infiamma, ma dopo pochi secondi la sensazione sfuma, momentanea, e non resta che un senso di calore soffocante che permea il tutto. Mentre la strada corre veloce scappando per ritmi avversi, per la prima volta un sorriso compare sul volto dai tratti duri, a labbra strette, pare il ritorno trattenuto di un dolce ricordo.

 

«Ancora?» chiede.

«Sì, ancora» risponde, facendo cenno al bicchiere vuoto, di cui non si scorge che un bagliore ramato dei resti racchiusi nei cubetti di ghiaccio. Il vetro accuratamente sbozzato brilla sotto i neon fosforescenti, e i suoi bordi paiono taglienti, acuminati come il ghiaccio che, seppur prossimo a sciogliersi, conserva i suoi spuntoni aguzzi e la sua tenue e sbiadita vena azzurrina.

«Non intendevo questo. Parti ancora, eh, Sbrex?» la donna non gli versa da bere, ma si poggia sul bancone e lo osserva negli occhi. Il trucco pesante rende il suo sguardo irresistibile, ma ora è coperto da una patina di ira repressa, i tratti del viso tirati e seri. Lui preferisce soffermarsi sulla sua scollatura dell’abito, di certo meno pericolosa, e generosa nel mostrare la pelle chiara e fragile, liscia come un petalo di fiore di pesco.

«Di nuovo con quel soprannome?» un mezzo riso, nulla più, «comunque sì, parto. Ora mi riempi il bicchiere o devo andare al bar di fronte per avere un po’ di brandy?» dice, cercando d’essere ironico. I suoi occhi di un verde smeraldo sono ancora più scuri nel semibuio del locale, offuscati da mille pensieri nascosti e dalle immagini di ciò che è prossimo ad abbandonare. È tornato da poco, questo lo sa, ed è quasi certo che ritornerà anche stavolta. Quando, però, resta un mistero.

 Lei fa come le viene richiesto. Ma forse l’unica cosa che cerca, con questo gesto, è tenerlo con sé per qualche istante di più. Il pub è affollato, e nonostante le luci soffuse e a intermittenza che lo rendono un po’ più intimo, il lavoro la porta spesso ad allontanarsi da quella figura abbattuta a cui presta tanta attenzione. Il vociare colma ogni angolo, così come la musica sparata ad alto volume, ma che viene comunque attutita dalla gente che balla. Il pestare dei piedi sul pavimento scuro, il ronzio delle numerose lampadine che però non rischiarano quanto dovrebbero, il rumore assordante proveniente dalle casse, le grida. Voci di ragazze che ogni tanto lanciano urli accaniti, risate di uomini. Caos.

 Lui osserva i suoi ricci corvini allontanarsi per servire una giovane coppia, le osserva i fianchi stretti nel vestito di raso nero muoversi suadenti. Non si accorge delle occhiate lascive che anche altri le riservano, perché è certo di possederla, così come è stato per molto tempo. Forse non smetterà mai, questo sensazionale gioco di notti insonni e viaggi indorati in un’alba tardiva, il limbo in cui la tiene stretta e la inganna è un luogo da dove lei non potrà mai fuggire.

 Nonostante il suo sguardo segua ancora i suoi movimenti, ormai la mente è andata così lontano da non percepire più la presenza della donna, e la vista è solo un intrattenimento di colori e forme agitate. Si distrae così tanto che per un istante gli pare di scorgere due donne camminare allo stesso ritmo, completamente uguali, vede due sorrisi, quattro bottiglie di birre posante sul bancone. No, sui due banconi del bar… o forse ci sono anche due bar? Scuote la testa e si scioglie il codino che tratteneva i suoi capelli color sabbia e, sebbene possa sembrare solo una mossa per fare conquiste, sa che stavolta lo fa solo per schiarirsi le idee.

 Partire. Ancora.

«Per dove?» è tornata da lui, e ora deterge dei calici da cocktail frattanto che gli parla. La sua voce è la stessa di prima, sembra quasi che non avessero cessato un attimo di conversare, e anche il cipiglio è preoccupato e ansante, forse pure un po’ triste. Intanto cerca di guardarlo il più possibile, per trattenere ogni singola goccia che anche solo sappia dell’uomo che tanto la incanta.

«Non lo so. In giro» è intontito, troppo. Il liquore ramato gira nel bicchiere, fa piccoli salti e scivola fra il ghiaccio in pezzi. È così scuro da sembrare terreno arso dal sole, acqua del deserto, veleno ammaliante. «Il deserto…» mormora.

«Cos’hai detto?»

«Lascia perdere.»

 Il deserto. Caldo. Distante. Diverso da quella città così glaciale perfino in piena estate, tutta ferro e asfalto.

 Il deserto. Solitario. Semplice. Ardente e focoso come il suo animo in fiamme.

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Capitolo 11
*** When Love And Death Embrace ***


 L’acqua scorre, si riversa sul lavandino unto. Viene inghiottita dallo scarico, va via. Se ne va per essere sostituita da altra semplice acqua; così, in un ciclo continuo, interminabile finché qualcuno non avrà l’accortezza di chiudere il rubinetto.

 La ragazza giace di fronte allo specchio, e osserva. Puntellandosi con le mani sui bordi del lavabo, fissa l’acqua che l’abbandona e che scorre in continuazione, indisturbata. I suoi pensieri sono lontani con le gocce dei minuti prima, forse hanno già raggiunto l’accogliente oceano dove non si è più soli o piccoli, ma parte del tutto.

 Non si scorge il viso, coperto dai capelli biondi che le ricadono ai lati, poggiano sulle guance, si uniscono in ciocche deformi e spettinate.

 L’abito è bianco, e bianco è il dolore.

 Si dirige fuori dal bagno. Chiude la porta sull’uscio, e il clangore di una serratura vecchia riempie per un attimo il silenzio.

 Le pareti del corridoio sono dipinte di un rosso spento, scolorito, a cui mancano pezzi d’intonaco. La giovane percorre a passi lenti il varco, al suo passaggio le lanterne giallastre si spengono con un ronzio. Dietro di sé è morte, buio che dilaga al suo procedere. Le ballerine rosse lasciano scie di sangue vermiglio, orme che s’imprimono e si ampliano come macchie sul tappeto consunto.

 Al centro del corridoio, sul lato sinistro, è addossato un tavolino in legno. Sulla sua superficie si notano i cumuli di polvere, piccole sfere che vibrano leggermente al respiro della ragazza. Si ferma. Un altro specchio, contornato d’oro, la attende. Lei non lo guarda, non ancora, e apre il cassetto del mobile. Dentro c’è un giradischi, ma nessun vinile aspetta di essere suonato. Lo prende fra le mani e lo alza con cura, soffia con forza per scostare lo sporco degli anni, e una nuvola opaca si riversa verso il vetro riflesso.

 Abbraccia il grammofono concedendosi un sorriso. Ricomincia la marcia, su per le scale dai gradini scricchiolanti e con il corrimano dalle colonnine spezzate. Continua fra il vagare nelle stanze dalle pesanti tende di broccato che si chiudono all’improvviso al passare della ragazza. Si conclude nella soffitta colma di oggetti inutili, rotti, dimenticati. L’unico luogo in cui, dalla minuta finestra ogivale, riesce a entrare un raggio di sole. Il pulviscolo vola, è mare di piume di colibrì bianchi.

 In un cassettone, attendono schieramenti di dischi pronti a rompersi nel loro girare imperterrito, nel loro ultimo sordo rumore. Il nero luccica, invita a venire toccato, agguantato. Fremono i vinili, si agitano, è terremoto di suoni ancora da esprimere.

 S’inginocchia. Mentre cerca di scegliere, i suoi palmi diventano rossi di sangue, imbrattando l’impiantito e tutti gli oggetti. Tutti tranne uno. Un solitario 33 giri quasi protetto dall’ombra. Pare una spenta e monotona canzone d’amore, una sciocchezza, direbbero alcuni. La giovane lo afferra, lo imprigiona quasi nella morsa del giradischi.

 Ora, che la musica trovi la sua strada.

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Capitolo 12
*** Ikkunaprinsessa ***


Lo stridio di una macchina che frenava, lo scroscio della pozzanghera che fece scivolare l’auto un po’ più avanti di quanto si sarebbe voluto. Dalla fretta di attraversare la strada, non notai che mi avevano quasi investito.

 Raggiunsi velocemente il marciapiede opposto, e proseguii dritto finché non trovai una tenda rigida sotto cui ripararmi. Prima stavo suonando tranquillamente ad un angolo della piazza, quando nubi nere e temporalesche avevano offuscato la luce del tiepido sole primaverile, e nel giro di poco aveva cominciato a piovere. Avevo appena fatto in tempo a conservare la chitarra nel fodero e a infilarmi il cappuccio, che il cielo si era sfogato con un diluvio che pareva non voler finire.

E ora eccomi lì, ancora mi rivedo, sotto il portico gocciolante di un negozio di periferia a tremare dal freddo, bagnato come un pulcino. Avevo diciassette anni, ma sembravo più piccolo, uno strascico di sogni infranti e nuove idee come carico adolescenziale.

 Mi guardai intorno: oltre alla gente che con gli ombrelli correva chi a trovar riparo chi semplicemente verso i propri impegni, non c’era anima viva disposta ad ascoltare la mia musica. Mi voltai verso la vetrina della bottega che tanto gentilmente mi stava ospitando, sebbene fuori e ancora vittima del vento gelido, fino a quando il fortunale non sarebbe scemato. Il vetro era a tratti appannato, ed era così sporco che l’immagine riflessa mi arrivava opaca e scurita. Ma non v’era dubbio, quel bastardo dai capelli biondi appiccicati alla fronte e gli abiti stracciati, il manico di una chitarra che spuntava da dietro la schiena e che ora mi sorrideva di rimando, beh, non potevo che essere io.

 Il mio sguardo però non si soffermò a me, che, diciamolo, in quella situazione non ero per nulla un bello spettacolo; bensì andò oltre, e scrutò ciò che la vetrina lasciava intravedere del locale. Capii subito che si trattava di un negozio d’abiti, forse una rivendita degli scarti delle vecchie stagioni, poiché ogni capo d’abbigliamento esposto era semplicemente orribile. In un angolo c’era anche una sorta di riproduzione tutta imbrillantinata di qualche ballerino anni ’70, con i pantaloni a zampa e un’inguardabile parrucca cotonata. Davanti all’entrata, un cartello scarabocchiato con inchiostro nero recitava: Chiuso per lutto. Perfetto, meglio di così non poteva andare, davvero.

 Un attimo, in quel negozio non era però proprio tutto da buttare. Un manichino discostato dagli altri, posto affianco al bancone della cassa, era fiocamente illuminato da una lampadina rimasta accesa. Ritraeva una figura alta e longilinea, lunghe braccia leggermente aperte e le gambe messe in una posizione che dava l’impressione che stesse camminando. Era una donna attraente e dallo sguardo coperto da un cappello in paglia, la larga banda della visiera decorata da nastri color pesca portava un’ombra sottile sul volto, che quasi non riuscivo a scorgere a causa della lontananza. Ma qualcosa mi diceva che sotto si nascondevano delle gote rosee e un paio di labbra cremisi, come bagnate di succo di fragola, forse un naso appuntito, e anche delle lunghe ciglia nere per far risaltare degli occhi verde smeraldo. Proseguii ad esplorarne le forme arcuate, soffermandomi sui seni piccoli che spuntavano timidi ricoperti da un abito leggero. Sotto il petto c’era un cinturino in pelle marrone dalla chiusura dorata, al cui lato era attaccata una catenina sottile che ogni tanto sembrava mandare bagliori ramati. Il vestito arrivava alle ginocchia leggermente sbozzate, e la gonna a veli si spostava, alzandosi, mossa da una corrente d’aria proveniente da chissà dove. I piedi erano chiusi in degli stivaletti in camoscio rossastro. Sul polso sinistro, stretto con un fiocco, c’era una fascia a cui era attaccato un piccolo girasole.

 Mi venne da pensare al vecchio barbuto che doveva essere il padrone dell’attività, me lo immaginai a spogliare quella donna così perfetta. Quasi lo rividi chinato a stringere il fiocco del bracciale a girasole, con una cura che mal si addiceva alla sua figura dispotica e addetta alla poltroneria. Da un lato avrei voluto essere al suo posto, poter calcare il cappello su quel viso e quindi assaporarne i tratti gentili, sapendo che sarebbero appartenuti solo a me. Dall’altro lato, però, mi crogiolavo a cercare di scoprire da solo la mia dama, ammirarla al di là della lamina in vetro appannata dal mio caldo respiro. Amarla.

 Sembrerà strano, ma in quel momento mi ronzava in testa questa storia. Una melodia da tracciare il giorno dopo sulla chitarra stava prendendo forma, piano, nella mia mente di giovane rocker. Erano note sgrezzate in una figura di plastica e cera, come lei, e attendevano di essere denudate per brillare nella loro gracile essenza. La amavo. Dio, se non mi ero beccato un malanno per colpa di tutta quella pioggia ed ero sano di mente, ero pronto a giurare che il mio cuore in quel momento stesse battendo, forte e veloce, per un fottuto manichino.

 

 Il giorno dopo mi svegliai di buon’ora. Tornai nella stessa piazza del giorno prima, sperando in un tempo migliore. Ogni tanto qualche starnuto mi ricordava che mi ero buscato un bel raffreddore, e io di rimando pregavo al mio naso di non sgocciolare proprio mentre suonavo.

 Mi misi all’ombra di un edificio, all’angolo fra il bar e la panetteria. Tolsi la mia carissima chitarra dal suo fodero, e saggiate alcune corde cominciai a tracciare una motivo appena accennato. Era primo mattino e pochi circolavano, perciò ne approfittai per creare la mia canzone d’amore. Appena avessi visto camminare più gente avrei messo da parte i miei folli esperimenti, e con un sorriso mesto avrei suonato il mio repertorio comune.

 Di per sé la chitarra elettrica non è il miglior modo di chiedere l’elemosina, l’ho provato sulla mia pelle. Un tamburello o un aspetto da fanciullo da soli possono molto di più. Il fatto è che se le persone ti vedono strimpellare allegramente, pensano di conseguenza che i soldi ce li hai. Primo perché sorridi invece di piangere, secondo perché altrimenti non si sanno spiegare dove hai preso il denaro per comprarti quello sfacelo  di strumento.

Ma io ho una risposta sensata ad entrambe le questioni, peccato che nessuno si degni di chiedermelo. Sorrido perché, cavolo, io suonando mi diverto. E se passassi il tempo a piangere di certo sarei finito all’altro mondo da un bel po’, mentre io la vita voglio tenermela ben stretta. La chitarra è stato un regalo di mio padre, un uomo di cui non ricordo la faccia e che prima di abbandonare mia madre in mezzo alla strada ha avuto questa brillante idea. Non so che pensare di lui, ma alla mia chitarra voglio bene. Attraverso lei ho capito il senso della musica, che non è solo il rumore che esce dai sintetizzatori e dalle radio. La vera musica è il battito d’ali di un gabbiano che sorvola lo scrosciante oceano, oppure è il palpitare del cuore di un bambino che allunga le mani verso il sole. Musica erano le ninnananne che mia madre mi cantava prima di farmi addormentare.

 Tornando a noi, quel giorno fui come al solito sfortunato. Racimolai gli spiccioli per una parca cena, e nel frattempo avevo composto però quella canzoncina che mi aveva tormentato tutta la notte. Non che fosse un’opera d’arte, ma mi piaceva particolarmente. Aveva un ritmo tutto suo, anni ’50, e il testo si era quasi formato da sé, esclusi alcuni pezzi che ancora non mi convincevano. Camminavo in ritorno al mio rifugio e ancora la canticchiavo.

 Passò un altro giorno, e stavolta ero deciso a mettere in pratica il mio lavoro. Volevo sapere se il pubblico, per così dire, apprezzava. Recandomi alla solita piazza, passai davanti al negozio in cui per primo scorsi la mia dolce principessa. Aveva riaperto i battenti.

 Sostai lì alcuni minuti, senza sapere che fare, sotto l’insegna intermittente Glendora’s che mi faceva compagnia. Strano che prima non l’avessi notata; ora i neon rosati si accendevano accecanti, producendo un ronzio fastidioso a cui però nessuno faceva caso perché coperto dai motori delle auto, e dal caos cittadino in generale.

 Ero ancora indeciso su cosa fare. La scritta che annunciava la chiusura dell’attività era sparita, ma ancora non ero riuscito a scorgere nessuno dentro. Il vetro sembrava essere pulito, o forse era la luce del cielo limpido a permettermi di vedere meglio l’interno. Era più curato di quanto mi aspettassi: c’erano cianfrusaglie ovunque, ma tutte messe con un ordine loro, raggruppate per tendenza e colori. Nonostante fosse palese che il locale fosse troppo piccolo per tutto quell’abbigliamento, si erano conservati stretti corridoi fra uno scaffale e l’altro, tanto da dare l’effetto di trovarsi in un labirinto dalle siepi arcobaleno. Il mio manichino era ancora lì, affianco alla cassa, e sembrava invitarmi ad entrare.

 Mi feci coraggio e… no, non aprii la porta. Lasciai scivolare la mano sulla vetrina e mi voltai, andandomene via fischiettando allegramente, come se così facendo dissimulassi quel mio atto di bizzarra vigliaccheria.

 

 Dovete sapere che Helsinki è una città molto, ma molto strana. Ci stavo pensando proprio allora, sgambettando per il Kauppatori mentre mangiavo un po’ di fagioli racimolati fra le varie bancarelle. L’odore del pesce era come al solito mitigato dalla fredda brezza marina, e nell’aria si spandeva il sapore dolciastro di tè ai frutti di bosco e di vino caldo. In alto, a volare con le ali spiegate, decine di gabbiani mandavano ogni tanto i loro stridii. Lungo tutto il mercato si incontravano diversi capannelli di turisti, spesso accostati attorno ai banchi di souvenir o a mangiare il pesce caldo sulla banchina. I finlandesi invece camminavano svelti, silenziosi, e il loro chiacchiericcio era molto sommesso, quasi carezzevole. Non ero ancora deciso se considerare la mia città strana perché vi vivevo io, o per qualche altro vago motivo. In effetti non potevo portare nessun argomento a favore della mia tesi, solo che i palazzi, la gente, tutto in generale, mi mettevano addosso una sensazione inspiegabile. Mi pareva di trovarmi sempre fuori luogo.

 E per questo forse davo la colpa a lei. Helsinki sa prendersi tutti gli oneri di una madre generosa ma severa, e così ne approfittavo anch’io, tanto da mettermi fra le sue grazie e poi criticarla al primo accenno di brutto tempo. Se io non trovavo un posto dove stare, era perché si era dimenticata di farmi spazio fra tutti i suoi figli. Non poteva essere altrimenti. D’altronde, a diciassette anni non ero in grado di assumermi nessuna colpa. Assolutamente. Animo puro. Quasi.

 Lavorai per la mattinata intera, appostato sulla banchina del porto. C’era un via vai molto accanito, così ebbi la possibilità di racimolare un buon guadagno. Verso mezzogiorno feci una pausa, e mi avvicinai a una fontanella che gorgogliava allegramente per abbeverarmi. Si trovava a pochi passi dalla mia postazione, perciò lasciai lì il cappello in cui la gente metteva i soldi, convinto che non sarebbe successo nulla in quei pochi secondi.

 E invece non fu così. Un ragazzino si gettò letteralmente sul cappello, agguantandolo, e poi prese a filare fra i vari banconi. Ero rimasto attonito per alcuni istanti, poi realizzai l’accaduto e presi ad inseguirlo, ansante.

 Stavo correndo con la chitarra ancora in mano, inseguendo la figura che svelta si faceva largo fra la folla. Mi misi a gridare improperi da lontano contro quello scricciolo del malaugurio. “Ehi, la mia cena! Torna qui, brutto…”

 Lo riacciuffai all’angolo di Södra Kajen. Lo presi con forza dalla collottola e lo sbattei contro il muro. I nostri respiri affollati si susseguivano a ritmo irregolare, a volte sovrapponendosi, altre volte cominciando al terminare dell’uno. Il ragazzino non doveva avere più di dieci anni, tanto che i suoi piedi penzolavano di buoni venti centimetri da terra. Terrorizzato ma allo stesso tempo con occhi infuocati, lasciò cadere il mio cappello pieno di spiccioli. Sentii un tintinnare di monete roveschiate, ma non vi prestai caso. L’unica cosa che mi importava in quel momento era fargliela pagare.

“Mi fai male…” bisbigliò con tono rauco. Solo allora mi accorsi di aver stretto un po’ troppo la presa, e che il collo del piccolo cominciava ad arrossarsi violentemente. Lo riposi sul marciapiede come di solito si fa con un regalo non voluto e lo lasciai andare. “Non stavo facendo niente.” mi disse, con un tono di voce che pareva aver riacquistato d’un tratto tutta la sua autostima.

“Vedi di guadagnarti i soldi da solo, la prossima volta.” risposi. Lui mi guardò ancora un attimo, poi fuggì come un lampo lungo la via. A me non rimase che inginocchiarmi come un cane a raccogliere i miei spiccioli, con un’aria così afflitta e disperata, stanca, che dovevo far pena da lontano.

 

 Stavo pensando… ancora non vi ho detto come mi chiamo. Sono Lauri Koivun Onnea. Mia madre, quando ero piccolo, soleva raccontarmi una storia sul mio doppio cognome, che assunsi però solo dopo la separazione forzata dei miei. Letteralmente significherebbe “fortuna della betulla”, e a dire il vero oltre a suonare male non ricorda nulla in particolare.

 Mentre mi rimboccava le coperte, Jonsu mi cantava di un albero cresciuto all’interno di un fitto bosco. Si trattava di una piccola e fragile betulla, soffocata dalle possenti vicine querce. Il legno di betulla, si sa, è molto pregiato, e un giorno un boscaiolo si recò nel bosco per procurarsene un po’. Arrivato dove sorgeva la nostra betulla, però, rimase affascinato dalle querce che l’attorniavano, e desistette dal suo obiettivo primario. Prese a tagliare con foga i rami degli altri alberi, e ad ogni colpo la betulla si scuoteva, tremava, temendo segretamente l’arrivo del suo turno. Ma ciò non accadde.

 Il boscaiolo, contento del ricavato, caricò la legna sulla sua slitta e tornò a casa. La betulla, un po’ nascosta e salvata dal pregio delle sue vicine, era passata incolume alla sortita del boscaiolo, e potette godere ancora della calma del bosco.

 Mia madre fa di cognome Onnea, mentre mio padre Koivu. Lei mi raccontava di essere stata una piccola fortuna, uno sprizzo di lucente gioia nella vita lugubre di mio padre, che fino allora aveva vissuto subissato dal lavoro. L’aveva salvato in più occasioni, quando pensieri cupi si affacciavano alla sua mente, e tutto il carico degli anni appesantiva le sue membra. O almeno fu così finché fra loro ci fu amore.

 Da allora sono sempre stato scettico sui rapporti. Sarà che la sofferenza di Jonsu mi ha insegnato a tastare il terreno prima di procedere, o semplicemente non voglio ricadere in errori simili, ma ho sempre creduto che l’amore non fosse cosa per me. Seppure suoni di ciò che potrebbe definirsi romantico, triste e malinconico, finora non sono caduto trappola dell’innamoramento. Finora.

 Fu allora che feci la mia prima mossa avventata. Ormai non mi davo pace: mi sembrava di star valicando, non so, i cancelli del paradiso, quando con i miei anfibi inzaccherati di fango fecero il loro ingresso al Glendora’s. avevo l’idea che quel negozio fosse mezzo abbandonato, perché ogni volta che ci passavo, a dire il vero ultimamente molto spesso, l’interno era sempre vuoto. Nemmeno un’anima viva.

 Chiudendomi la porta alle mie spalle, sentii alcune campanelle tintinnare sopra di me. Quasi contemporaneamente, un rumore di scatoloni rovesciati mi fece sobbalzare all’indietro, seguito da un gridolino acuto proveniente dal fondo del locale. Dio, una femmina.

 Mi precipitai verso il luogo da cui era venuto tutto quel trambusto. Una figura si dibatteva sotto una catasta di vestiti che era caduta da uno scaffale. “Calma, calma…” con le mani rovistai fino a scoprire la povera donna, poi le porsi una mano per aiutarla ad alzarsi. Dal mucchio di abiti intanto era emersa una ragazzina. “Oh, grazie” biascicò, tirandosi in piedi da sola. Imbarazzata, spinse con un piede le stoffe sotto lo scaffale, cercando di fare spazio. “Comunque, io sono Johanne” continuò, porgendomi la mano, visibilmente più a suo agio.

“Lauri” risposi. Non dissi altro, e in verità era già molto che fossi riuscito a dire il mio nome per intero. Ero incantato, anzi no, stregato da quella giovane. I suoi occhi erano di un azzurro ghiaccio che aveva però il potere di riscaldarmi il cuore, e dei capelli mossi del rosso del fuoco le contornavano il volto gentile.

“Cerchi qualcosa?” la sua voce riuscì a distogliermi dalle mie fantasticherie.

“No, io… entro entrato solo per dare un’occhiata.”

“Beh, se vuoi vedere qualcosa in particolare dimmelo; con tutto questo casino in due almeno potremmo scovare qualcosa.” Sorrisi appena al suo buffo modo di parlare, svelto e veloce, e al fatto che più volte aveva ripetuto la parola qualcosa.

“Ti sembrerà strano, ma mi piace quel manichino.” Feci, indicando la mia principessa. Dio, che uscita. Quel giorno avevo davvero il cervello in fumo se fui capace di dire quest’assurdità. Forse devo mangiare di più, così se non altro una circolazione più attiva mi permetterebbe di ragionare meglio.

“Il manichino?” come volevasi dimostrare, avevo fatto la figura del perfetto idiota. Johanne mi guardava stupita, con la faccia di qualcuno che spera di non aver compreso bene.

“No, niente, lascia perdere che è meglio” mi voltai, pronto ad andarmene e dire addio al Glendora’s. Ma lei mi trattenne prendendomi per mano, e mi trascinò fino al bancone della cassa. Prese il cappello di paglia e me lo mise in testa, poi mi porse uno specchietto.

“Certo, fa un po’ effemminato, ma devo dire che stai niente male” disse, trattenendo una risata. Le donne sono fantastiche quando cercano di non ridere: le guance diventano tonde per l’aria trattenuta e le gote si tingono loro di un lieve rossore, la bocca s’atteggia a una smorfia deliziosa che subito nascondono con una mano.

 Mi guardai allo specchio. “Sembro un contadino.”

 

 Forse approfittai della situazione, o forse semplicemente stavo cominciando ad affezionarmi. Passai diversi pomeriggi in compagnia di Johanne, che alle sette smontava puntuale dal suo turno al negozio. Ci facevamo un giro per le strade di Helsinki, chiacchierando un po’, magari fermandoci sulla banchina del porto o nei bar sparsi per il centro.

 Di lei apprezzavo il fatto che non faceva mai domande personali, e vista la mia condizione non potevo desiderare di meglio. Spiegare ad una ragazza che non si possiede un soldo e si vive elemosinando non è cosa facile, specie se poi le notti le passi in un ostello finanziato dal clero a cui devi la possibilità di un tetto sulla testa.

 Un giorno la vidi più allegra del solito, e io accompagnai i suoi sorrisi quando mi mostrò un paio di biglietti per l’Helldone. Cavolo, avevo sognato una vita di andarci, e ora che ne avevo l’occasione quasi non riuscivo a crederci.

 Il concerto fu fantastico, ma ancora più fantastica era lei, che saltellava a ritmo e gridava le sue canzoni preferite. Io guardavo il palco, sognando di poterci salire da protagonista, in un futuro lontano, e suonare per lei. Si susseguirono diverse band, poi una canzone, più romantica delle altre, mi fece girare la testa. Non letteralmente, certo, ma mi diede il coraggio di abbracciare Johanne mettendole un braccio attorno al collo, avvicinarla a me, baciarla sotto il suono della batteria e della sensuale voce di Ville Valo.

 

 Così passò il tempo. A volte monotono, a volte veloce come un fulmine a ciel sereno. E io cambiai con esso, un particolare a secondo, in modo da diventare un altro senza accorgermene. La mia musica mutò con me: ora non cantavo più d’amore senza conoscerlo, agguantando sensazioni dall’aria rarefatta degli amanti, ma attingevo al mio cuore per cercare le parole più dolci.

 Andai anche quel pomeriggio al Glendora’s. Nonostante la porta del locale distasse da me ancora diversi passi, mi accorsi subito che qualcosa non andava per il verso giusto. Un camioncino bianco e anonimo sostava all’entrata, e alcune scatole sigillate venivano meccanicamente caricate all’interno. Altre erano a terra, dimenticate e aperte, con un mucchio di cianfrusaglie ammucchiate a casaccio. L’insegna era già stata rimossa e non avevo idea di che fine avesse potuto fare.

 Johanne uscì dal negozio e mi salutò con una mano. “Chiudiamo,” disse “da quando è morto il vecchio proprietario non aspettavo altro. Il tempo di sbrigare alcune pratiche e svendere quel che si poteva, e ora finalmente mi libero di questo lavoro tedioso.”

“Ma… scusa, non ti dispiace perdere il posto?” ero sconcertato.

“No, dai, ne troverò subito un altro migliore. Non mi preoccupo.” Lei era così tranquilla, che quasi non riuscivo a dare spiegazione al mio comportamento. Sembravo più legato al Glendora’s di lei. “Che ne dici se vieni dentro a darmi una mano?” aggiunse.

 Io rimasi ancora un po’ fuori, ammutolito. Fra le cose da buttare vidi la mia principessa.

 Sentii un groppo salirmi alla gola. Dopo tutto questo tempo, la chiamavo ancora così. Forse era rimasta la notte fuori, perché la trovavo molto malmessa, e il cartone era umido. Le mancava un occhio, e la plastica del corpo era a tratti graffiata; uno sfregio le trapassava la guancia sinistra, rovinandole il volto. Il girasole sul polso si era spostato a rivelare un taglio da cui uscivano batuffoli di ovatta e l’imbottitura del manichino. Forse quel foro ci era sempre stato.

 Giaceva scomposta, tutta la sua eleganza svanita in uno sbuffo invernale. Mi inginocchiai per accarezzarle i capelli sintetici, tutti arruffati. La mia principessa era caduta vittima dei gatti di strada. La sua bellezza… dispersa nel vento.

 Ogni bellezza però è effimera, così come la vita umana. È il battito delle ali di una farfalla che non sa tornare indietro.

“Lauri? Ci sei?” Johanne mi guardava interrogativa, affacciata dalla porta del locale.

“Sì… arrivo.” Niente è mai perduto, se un sogno distrutto porta al concreto. C’era sempre stata una stella nel Glendora’s, ma per troppo tempo avevo guardato troppo a sinistra, aggrappandomi al suo tenue riflesso. E non avevo visto che, lì affianco, un’intera galassia non attendeva che me.

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